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Shozo Shimamoto

Dapprima la diaspora poi il ritrovamento ntrare in relazione con l’opera di Shozo Shimamoto è un’esperienza che non si dimenE tica. La spiritualità della sua riflessione non perde mai i suoi connotati di immanenza e tangibilità. Resiste alla negazione, si dispone sull’altare dello sguardo, afferma che il fare

Shozo Shimamoto, Basilica di Santo Stefano, Bologna 2011 c C. Infantino

non è mai escluso, mai estraneo al mondo ma si impone come contrappunto rafforzativo del pensiero. Cosa imprescindibile per la sopravvivenza della consapevolezza. Un artista, dunque, tra i più apprezzati, invitato dai più importanti musei del mondo. E uno spazio - la Basilica di Santo Stefano a Bologna - un sito di straordinario fascino, collocato in una posizione strategica che così diventa un luogo irresistibile, dove incedere usando tutti i sensi. Un posto per perdere, confutare e ritrovare lo spazio, rivoltandolo come un guanto, ribaltandone tutte le coordinate abituali, una dimora che secondo l’uso definito da Didi Hubermann, abita e ci incorpora allo stesso tempo(1). La sensazione del luogo, ridefinito dalle opere, emerge, infatti, da tale rovesciamento: ci circonda nello spazio visibile, come un paesaggio che avvolge e custodisce il pensiero. Si tratta di un’amabile occasione per tornare a riflettere su una poetica estremamente elegante e sofisticata. Su una ricerca che, talvolta, in maniera inopportuna, è stata giudicata provocatoria, espressione di uno shock facile. Ma non è così. Shimamoto è molto distante dai «motti di spirito». È lontano dall’ondata dell’odierno neo-neorealismo. In ogni suo gesto è una rara sapienza nel fondere idea, gesto, seduzione. Gli artifici da performer, sin dagli esordi, sono segnati da interventi nei quali corpo, occhio, viso, atto, colore, sono usati come materia linguistica. Essenzialmente visiva. Un “impero dei segni”(2) e di significati senza parole, che rinvia a una tattilità variamente consistente: fibrosa, elastica, compatta, ruvida, scivolosa, sfuggente. La sua opera è una danza sensuale e, al tempo stesso, algida. In tal modo, le opere si dispongono in un sistema amplificato dall’elettricità del gesto, dalla materia e dal colore significante, caratteri della scrittura di Shimamoto, stabiliti a partire dalla certezza del suo vibrante linguaggio. Un’arte debitrice di azioni, di divisioni e di prelevamenti. I lavori in mostra splendono in una verticalità profonda che dispone, in gerarchia, l’uomo, le tele, l’universo, il ritorno. Perché la scrittura di Shimamoto è atto che unisce nella stessa operazione ciò che non può essere afferrato insieme nell’infinito spazio della rappresentazione. La sua arte rivela, in questo modo, il suo cuore prezioso, la sua forza nascosta, il suo segreto vitale. Nessuna tela manca di un centro. Tutto appare privilegiato da un ordine di esecuzione in balia al genio precipitoso e accorto che, senza parole, induce alla conversazione, a combinare caso e intenzione, accidente e forma. Un racconto interminabile che esaurendosi via via che lo si compie, non ha di stabile che il suo lampo iniziale. Partito, non ci sono più dei momenti o dei luoghi distintivi: diventa focalizzato come un testo ininterrotto. Il muro del pensiero e il giudizio dello sguardo dialogano come uno la faccia rovesciata dell’altro; capaci entrambi di restituire un’immagine lucida e definita, spiegata nella superficie speculare che li congiunge. La pittura, l’esaltazione, lo spleen, il candore, l’ironia, confluiscono giustapponendosi sulla tela, vero leitmotiv del lavoro di Shimamoto; quando, cioè, l’occhio evade ma nello sguardo si raggruma come malinconia ma anche celebrazione del pensiero. La mente pensa e rammenta, ma nell’idea si specchia la frizione dello sguardo calato sul presente. Dietro questi intrecci è possibile intuire gli echi di un percorso esistenziale straordinario, lungo, segnato da lievi oscillazioni e da cambi di ritmi. Un viaggio perturbante, che ha molti legami con le insondabili ragioni dell’interiorità. Visionario è il mondo di Shimamoto. Svela l’accorto sguardo di chi vede la grande nudità del mondo e delle sue cose, come smisurato deserto che richiede la potenza di un linguaggio con cui rendere testimonianza della propria presenza; afferma “la qualità morale dell’ordine formale contro la quantità di un indistinto disordine”.(3) Solchiamo, allora, consapevoli, questa navata, divenuta oggi teatro scosso da ferite non sempre rimarginate. Dove si mette in scena l’identità infranta di una poetica la cui bellezza sembra essere il risultato di un programma puntuale ed esigente. Dove diecimila visitatori, solo nei primi quattro giorni dall’inaugurazione, hanno seguito l’incanto di uno scenario governato da un montaggio mobile e dinamico fatto di avvertimenti, di passaggi a vuoto, di cambi di angolazioni tra dimensioni diverse. I tratti disegnano forme, il gesto si concretizza, la linea traccia un percorso in cui la visione si dischiude e, in principio disseminati, gli elementi spuri e distanti tendono sempre verso un’unità inattesa, “a volo radente”. Dapprima la diaspora, poi il ritrovamento. Loredana Troise

Marina Abramovic Seven Easy Pieces

ady performance alias Marina Abramovic, nell’ambito di ArteFiera 2011, ha presenL tato il suo ultimo lavoro, Seven Easy Pieces, un film realizzato per il Guggenheim di New York, proposto per la prima volta in Italia. Si tratta di una sorta di rilettura di cinque

celebri performances storiche, firmate, tra gli anni Sessanta e Settanta, da Vito Acconci, Jospeh Beuys, Valie Export, Gina Pane, Bruce Nauman, mescolate ad altre due, pure d’antan, realizzate dalla stessa Abramovic, di diverso segno rispetto alle sue produzioni precedenti. Non più estenuanti prove per testare la resistenza del corpo umano ma festose esibizioni in cui la figura umana incontra lo spazio. L’evento organizzato da Renato Barilli, affiancato dal gruppo di ricercatori del Dipartimento delle Arti Visive del Dams (Alessandra Borgogelli, Silvia Grandi, Paolo Granata), con il supporto della Galleria Lia Rumma, parte da Bologna, ossia dal luogo in cui, nel 1977, nella locale Galleria di Arte Moderna si tenne la famosa performance della Abramovic, dove nuda assieme al suo compagno di allora, Ulay, si posizionava all’ingresso del museo. I visitatori desiderosi di solcare la soglia dovevano necessariamente fare i conti con l’inusitata porta umana, mostrando compiacimento o imbarazzo per l’eccentrica ma obbligatoria modalità di acceso. Sempre a Bologna, in quegli anni, la coppia di artisti, era protagonista di un ulteriore e logorante performance in cui si mostrava legata con le rispettive chiome per un lungo periodo di tempo, sfidando ogni ragionevole capacità di sopportazione. Seven Easy Pieces, nasce su invito del Guggenheiem di New York che ha commissionato all’artista una summa rappresentativa della storia della performance. Come ha sostenuto Renato Barilli, che durante la presentazione del progetto, ha intervistato l’artista, si tratta di un indispensabile processo di storicizzazione della performance, nata, al contrario, come proposta artistica di effimera durata. La Abramovic non solo consegna alla memoria alcune delle più significative azioni performative ma le assume come potenziali spartiti da reinterpretare. La performance cessa dunque di configurarsi come estemporaneo e episodico atto creativo per divenire una sorta di ready- made immateriale riproposto nella sua forza significante attraverso un nuovo ‘medium’. Sarà infatti il video e non più la partecipazione ‘live’ a rendere possibile la visione della performance con la perdita del coinvolgimento diretto dello spettatore. Se ciò espone la performance ad una forzatura della sua originaria vocazione, di contro , la conservazione attraverso il video ne permette una duratura sopravvivenza e una condivisione plurale. Marilena Di Tursi

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