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Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 00 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910

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Anno XLIV SET/OTT 2019

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

PAOLO SCIRPA

All’interno ANTEPRIMA/NEWS DOCUMENTAZIONE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI



NAZIONALE DI FILM SULL’ARTE CONTEMPORANEA

9 13 OTTOBRE 2019 NAPOLI

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Anno XLIV SET/OTT 2019

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

LO

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sommario

Artista in copertina

# 274 - Settembre/Ottobre 2019

PAOLO SCIRPA

dbye, Catullus, to the Shores of Asia Minor), 1994. © Cy Twombly Foundation, Courtesy Archives Nicola Del Roscio

All’interno ANTEPRIMA/NEWS DOCUMENTAZIONE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI

Paolo Scirpa

Ludoscopio cubico multispaziale n. 136 Flavio Favelli [25]

4/17 Anteprima Mostre & Musei News Italia Istituzioni, Musei e Gallerie d’arte a cura di Umberto Sala e Paolo Spadano

18/25 Speciale Biennale di Venezia/2

Ettore Spalletti [26]

May you live in interesting times [vol.2] di M.L.Paiato ... finchè la barca và di Dario Orphée La Mendola Helen Frankenthaler Museo di Palazzo Grimani, Venezia Roman Opalka Fondazione Querini Stampalia, Venezia Luigi Pericle Fondazione Querini Stampalia, Venezia Yun Hyong-Keun Palazzo Fortuny, Venezia Naby Byron & Max Casacci Hotel Hilton Molino Stucky, Venezia Alberto Burri Fondazione Giorgio Cini, Venezia Reagents Complesso dell’Ospedaletto, Venezia Notturno Più Palazzo Cesare Marchesi, Venezia Jan Fabre Giardino di Palazzo Balbi Valier, Venezia Glassstress 2019 Fondazione Berengo Art Space, Murano Flavio Favelli Cà Rezzonico, Venezia

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periodico internazionale di arte contemporanea Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara

Telefono 085/8634048

redazione@rivistasegno.eu www.rivistasegno.eu

Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Caporedattore: Maria Letizia Paiato. Redazione web: Roberto Sala

Jan Fabre [37]

Ettore Spalletti Nouveau Musée National de Monaco Pierpaolo Calzolari Museo MADRE, Napoli Fabrizio Plessi Terme di Caracalla, Roma Maria Lai MAXXI Roma Clegg & Guttmann Galleria Lia Rumma, Milano Jan Fabre Quattro Istituzioni, Napoli Fabio Mauri & Antoni Montadas Galleria Michela Rizzo, Venezia Biennale dell’Immagine in Movimento OGR, Torino Ugo Nespolo Palazzo Reale, Milano Remo Bianco Museo del Novecento, Milano Nanda Vigo Palazzo Reale, Milano Stefano Arienti, Galleria Christian Stein, Milano Opere #1, Galleria l’Ariete, Bologna Christian Jankowski, Galleria Enrico Astuni, Bologna Piero Manai, Gallerie CAR e P420, Bologna Aldo Mondino, CAMEC, La Spezia Chiara Bettazzi Castello di Ama, Gaiole in Chianti, Siena Tommaso Binga e Maurizio Mochetti Palazzo Viceconte, Matera Michele Cossyro e Daniele Lombardi CAMUSAC, Cassino Segni di luce CRAC Puglia, Taranto Lucia Rotundo MARCA, Catanzaro Gaetano Zampogna artisti in studio Fausto Bertasa Galleria Vigato, Alessandria Pino Pinelli Galleria Dep Art, Milano Diaspora del mito CRAC Puglia, Taranto Tutti i pani del mondo Fondazione Sassi, Matera Fabrizio Garghetti Private Banker Fideuram, Napoli Dino Colalongo Museo delle Genti d’Abruzzo Ceilings 2019 Polo Museale della Calabria Jimmie Durham No Man’s Land, Loreto Aprutino Sul filo dell’immagine Fondazione Menegaz, Castelbasso 70° Premio Michetti MuMi, Francavilla al Mare Libri antichi e opere contemporanee Rocca Malatestiana, Fano Ginevra Grigolo, Eliseo Mattiacci, Antonio Trotta Ricordi

Mauri & Muntadas [38]

news e calendario eventi su www.segnonline.it

o 26/75 Attività espositive/ Recensioni documentazioni

Jimmie Durham [69]

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segnosettembre/ottobre 2019

#274

Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00

ABBONAMENTI ORDINARI E 30 (Italia) E 60 (in Europa CEE) E 100 (USA & Others) ABBONAMENTO SPECIALE

Collaboratori e Corrispondenti dell’associazione culturale Segno: Raffaella Barbato, Milena Becci, PER SOSTENITORI E SOCI Maila Buglioni, Francesca Cammarata, Simona Caramia, Tristana Chinni, Viana Conti, Ivan D’Alberto, da E 300 a E 500 L’importo può essere versato sul Marilena Di Tursi, Angela Faravelli, Antonella Marino, Duccio Nobili, Rita Olivieri, c/c postale n. 1021793144 Dario Orphée La Mendola, Cecilia Paccagnella, Ilaria Piccioni, Gabriele Perretta, Serena Ribaudo, Rivista Segno - Pescara Carla Rossetti, Gabriella Serusi, Luca Sposato, Stefano Taccone, Antonello Tolve, Maria Vinella.

Distribuzione e diffusione Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Pescara - ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 Edito dalla Associazione Culturale Segno e da Sala editori s.a.s. associati per gli esecutivi e layout di stampa Registrazione Tribunale di Pescara nº 5 Registro Stampa 1977-1996. Traduzioni Lisa D’Emidio e Paolo Spadano. Art director Roberto Sala - Tel. 085.61438 - grafica@rivistasegno.eu. Redazione web news@rivistasegno.eu Impianti grafici e legatura: Publish e Nuova Legatoria (Cepagatti - Pe). Ai sensi della legge N.675 del 31/12/1996 informiamo che i dati del nostro indirizzario vengono utilizzati per l’invio del periodico come iniziativa culturale di promozione no profit.


>anteprima< GENOVA

ABC ARTE

Nanni Valentini mpia retrospettiva, a cura di Flaminio Gualdoni, dedicata all’opera plastica di Valentini. Il titolo della mostra, L’interA spazio tra il visibile e il tattile, è tratto da un testo dell’artista

stesso, pubblicato nel 1975. Troviamo qui ricostruito il cruciale decennio 1975-1985, in cui l’artista si afferma sulla scena milanese. In mostra circa trenta opere tra cui spiccano le sculture, alcune di grandi dimensioni come Muro grande del vaso e il polipo e Cerchio, e vere e proprie rarità, tra cui alcune vaste opere su carta inedite e una serie di garze, esercizi intorno alla fisicizzazione della monocromia, del 1975-1976. Fino al 5 gennaio.

NAPOLI

ALFONSO ARTIACO

Sol LeWitt a galleria partenopea presenta Sol LeWitt: Lines, Forms, Volumes 1970s to Present. In mostra le opere di una delle maggiori L personalità dell’arte contemporanea, a cura di Lindsay Aveilhé.

Focus sull’opera storica del maestro americano con una selezione di lavori, che includono wall drawings, sculture, disegni, fotografie e gouaches, sempre in bilico tra minimale e concettuale. Fino al 2 novembre.

PESCARA

VISTAMARE

Haim Steinbach a Galleria Vistamare annuncia nel suo spazio peL scarese una mostra dal titolo who knows one, curata dallo stesso artista americano, noto per l’approccio da archeologo della contemporaneità, tramite l’esposizione di oggetti prodotti in serie. Fino al 14 febbraio.

Nanni Valentini, Cerchio, 1982 terracotta greificata e ferro, diametro cm.150, courtesy ABC Arte, Genova

PESCARA YAG/GARAGE

Gino Marotta ostra collettiva dedicata al maestro di origini molisane, scomparso a Roma nel 2012, primo appuntamento del M progetto YAG/factory a cura di Ivan D’Alberto. (S)confini – Gino

Marotta e la nuova Scuola Molisana coinvolge Michele Peri, Antonio Tramontano, Ivana Volpe, Laura Fratangelo, Luciano Sozio e Gianmaria De Lisio, giovani artisti provenienti dalla regione Molise e indicati dal critico d’arte Tommaso Evangelista. I sei autori hanno svolto un periodo di residenza a Pescara in cui hanno prodotto opere che saranno presentate in dialogo con alcuni lavori del Maestro Gino Marotta.

Gino Marotta, courtesy Yag/Garage, Pescara

who knows one, Galleria Vistamare

VICENZA

GALLERIE D’ITALIA

Jean-Michel Basquiat ell’ambito della rassegna L’Ospite illustre da Bilbao Guggenheim Museum, fino al 3 novembre, in mostra l’opera Moses N and the Egyptians, realizzata da Basquiat nel 1982 insieme a un

altro quadro, ritenuto il suo gemello, dal titolo Man from Naples e la cui composizione rimanda esplicitamente alle tavole della legge dipinte in un rosa squillante.

TORINO

OVAL

Artissima orna come ogni autunno all’Oval del Lingotto Fiere, per la sua 26a edizione, la fiera diretta per il terzo anno da Ilaria BonacosT sa. Artissima 2019 presenta 209 gallerie in 7 sezioni di cui 3 curate

(Back to the Future, Present Future, Disegni), sei premi, un ricco pro-

Artissima 2019, visual identity by FIONDA, Torino

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gramma di visite guidate dedicate a collezionisti e curatori, una rinnovata piattaforma digitale e numerosi progetti speciali. Il Comitato di selezione si arricchisce di due membri, Raffaella Cortese (Milano) e Claudia Altman Siegel (San Francisco), che vanno ad aggiungersi a Isabella Bortolozzi e Gregor Podnar (Berlino), Paola Capata di Monitor (Roma/Lisbona) e Alessandro Pasotti di P420 (Bologna). Esordisce, in collaborazione con Fondazione Torino Musei, un focus geografico dal titolo Hub Middle East, ricognizione sulle gallerie, le istituzioni e gli artisti attivi nel Medio-Oriente, spaccato trasversale delle più interessanti evoluzioni contemporanee di un territorio che, nelle sue diversità, presenta una sofisticata poetica legata tanto ad antiche tradizioni culturali quanto all’innovazione. Sono 97 le gallerie selezionate per la Main Section, mentre in 30 si cimentano nella sezione Dialogue, accostando il lavoro di 2 o più artisti. In New Entries troviamo 20 giovani gallerie che partecipano ad Artissima per la prima volta, mentre Art Spaces & Editions è lo spazio dedicato alle edizioni limitate, stampe e multipli di artisti contemporanei. Per quanto concerne le sezioni curate, partiamo da Present Future che si compone di 20 progetti monografici di giovani artisti emergenti, a cura di Ilaria Gianni (coordinatrice) insieme a Juan Canela ed Émilie Villez: Aaajiao (House Of Egorn, Berlino), Marcos Avila-Forero (Adn, Barcellona), Anna-Sophie Berger (Emanuel Layr, Vienna/Roma), Isa Carrillo (Proxyco, New York, e Tiro Al Blanco, Guadalajara), Larisa Crunteanu (Anca Poterasu, Bucarest), Débora Delmar (Galleriapiù, Bologna), Anna Franceschini (Vistamare/Vistamarestudio, Pescara/Milano), Cristina Garrido


>news istituzioni e gallerie< MILANO

STUDIO D’ARTE CANNAVIELLO

MILANO

MONICA DE CARDENAS

Tan Liqing Barbara Probst ’ artista cinese presenta 15 lavori inediti nella mostra As I ersonale dell’artista tedesca, le cui opere si compongono di Recall. La pennellata è netta, pulita, i contorni delicati, il Pdue o più fotografie accostate e tra le quali si avverte un miL corpo umano delineato come fosse un paesaggio, insistendo sul sterioso legame. A volte, attraverso scatti simultanei da diverse concetto di intimità: schiene di donne e uomini diventano parte di un panorama naturalistico. Ciò che prevale è un senso generale di solitudine, riposo, a volte di raccoglimento. Fino al 19 novembre.

angolazioni, Probst frammenta e dilata un istante di realtà. In mostra opere recenti tra cui un doppio ritratto delle celebri gemelle Lia e Odette Pavlova. Fino al 30 novembre.

Tan Liqing, Garden, 2019 olio su tela, cm.51x71, courtesy Studio d’Arte Cannaviello, Milano

Barbara Probst Exposure #119.1: Munich, Waisenhausstrasse 65, 08.02.16, 3:18 p.m. (dettaglio), 2016 inchiostro ultrachrome su carta cotone, 5 foto, ognuna cm.76x76 cm courtesy l’artista e Monica De Cardenas, Milano

Steven Parrino courtesy Massimo De Carlo, Milano

MILANO

MASSIMO DE CARLO

Paolo Icaro, Cornice, 1982, gesso e pigmento, GAM, Torino

The Parrinos ollettiva nello spazio meneghino di De Carlo, alla C ricerca di confronti e consonanze con l’opera dell’artista americano scomparso nel 2005. Opere di John Armleder, Günther Förg, Olivier Mosset, Cady Noland e, ovviamente, Steven Parrino. Fino al 14 dicembre.

VENEZIA

FONDAZIONE GIORGIO CINI

TORINO GAM

Emilio Isgrò Paolo Icaro ull’Isola di San Giorgio Maggiore, ricca antologica a cura di a mostra Antologia / Anthology 1964 - 2019 rende omaggio Germano Celant, organizzata con l’Archivio Emilio Isgrò che Lalla figura dell’artista piemontese e ai suoi 55 anni di carriera, S propone opere dagli anni Sessanta a oggi. Il tema affrontato è compendiati in una cinquantina di opere, alcune realizzate appoquello del linguaggio, a partire dal Moby Dick di Melville, con la sua filtrazione della tradizione biblica. Dice Isgrò: “Sarà l’opera cancellata di Melville a contenere quindi tutte le altre e chi entra alla mostra si lascerà accompagnare nel ventre della balena, ovvero il ventre del linguaggio mediatico che copre con il rumore il proprio reale e disperante silenzio”. Fino al 24 novembre.

sitamente per l’esposizione sottolineando continuità ed evoluzione del pensiero poetico, in un crescendo di energie creative. L’antologica è anche l’occasione per la pubblicazione di un catalogo edito da Corraini, con testi della curatrice Elena Volpato, di Lara Conte e di Bernard Blistène, direttore del Centre GeorgesPompidou. Fino al 1 dicembre.

(Lmno, Brussels), Januario Jano (Primo Marella, Milano/Lugano), Ella Littwitz (Copperfield, Londra), Juan López (Juan Silió, Santander), Mercedes Mangrané (Ana Mas, Barcellona/San Juan), Opavivará! (A Gentil Carioca, Rio De Janeiro), Stéphanie Saadé (Grey Noise, Dubai), Augustas Serapinas (Apalazzo, Brescia, ed Emalin, Londra), Namsal Siedlecki (Magazzino, Roma), Caterina Silva (Bosse & Baum, Londra), Lu Song (Massimo De Carlo, Milano/London/Hong Kong), Puck Verkade (Dürst Britt & Mayhew, The Hague), Ian Waelder (L21, Palma De Mallorca). Back To The Future propone, invece, 19 esposizioni di qualità museale dedicate alla riscoperta degli anni 1960-1999, curate da Lorenzo Giusti (coordinatore) con Cristiano Raimondi e Nicolas Trembley: Marinus Boezem (Upstream, Amsterdam), Robert Breer (Gb Agency, Parigi), Lynne Cohen (In SItu - Fabienne Leclerc, Parigi), Betty Danon (Tiziana Di Caro, Napoli), Estate Of Barbara Hammer (Kow, Berlino/Madrid), Bruno Jakob (Peter Kilchmann, Zurigo), Liliane Lijn (Rodeo, Londra/Pireo), Kimiyo Mishima (Sokyo, Kyoto), Masaki Nakayama (Christophe Gaillard, Parigi), Liliana Porter (Espacio Minimo, Madrid), Remo Salvadori (Christian Stein, Milano), Antonio Slepak (Waldengallery, Buenos Aires), Ilija Šoškić (Gandy, Bratislava), Jessica Stockholder (1301Pe, Los Angeles), Superstudio (Pinksummer, Genova), Endre Tót (Acb, Budapest), Rubem Valentim (Almeida E Dale, San Paolo), Michael Venezia (Häusler, Monaco/Zurigo), William Wegman (Florence Loewy, Parigi). La sezione Disegni presenta 21 stand dedicati alla peculiarità del disegno curati da João Mourão e Luís Silva: Mercedes Azpilicueta

(Nogueras Blanchard, Barcellona/Madrid), Francesco Barocco (Norma Mangione, Torino), John Bock (Giò Marconi, Milano), Alighiero Boetti (Dep Art, Milano), Teresa Burga (Barbara Thumm, Berlino), Diogo Evangelista (Francisco Fino, Lisbona), Katharina Grosse (Nächst St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder, Vienna), Sheroanawe Hakihiiwe (Abra, Caracas), Waqas Khan (Sabrina Amrani, Madrid), Giovanni Kronenberg (Renata Fabbri, Milano), Christiane Löhr (Tucci Russo, Torre Pellice/Torino), Anna Maria Maiolino (Raffaella Cortese, Milano), Ana Manso (Umberto Di Marino, Napoli), Bruno Munari (Maurizio Corraini, Mantova), Otobong Nkanga (Lumen Travo, Amsterdam), Nicola Pecoraro (Gianlucacollica, Catania), Adam Pendleton (Pedro Cera, Lisbona), José Miguel Pereñíguez (Luis Adelantado, Valencia/Città del Messico), Mario Schifano (In Arco, Torino), Achraf Touloub (Plan B, Berlino/Cluj), Sandra Vásquez De La Horra (Senda, Barcelona). Troviamo, inoltre, due progetti espositivi ideati da Ilaria Bonacossa: Abstract Sex. We don’t have any clothes, only equipment, a cura di Lucrezia Calabrò Visconti e Guido Costa; Artissima Telephone, pensato per gli spazi delle OGR e curato da Vittoria Martini, per offrire una ricognizione sul telefono come mezzo espressivo artistico. L’indagine enciclopedica sulla creatività italiana dal titolo Alfabeto Treccani: 21 inediti d’artista, nata lo scorso anno dalla collaborazione con Treccani, con opere inedite a tiratura limitata di Biscotti, Golia, Marisa Merz, Perrone, Nannucci e Vezzoli, aggiunge quest’anno i lavori inediti di: Andreotta Calò, Anselmo, Bartolini, Icaro, Senatore e Tosatti. SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 5


>anteprima< AMSTERDAM

BASILEA

M

rima personale istituzionale per Kaari Upson, che in Go Back the Way You Came presenta un nuovo corpus di scultuP re in legno e latex, a prosecuzione dell’esplorazione della figura

STEDELIJK MUSEUM

olto variegata l’offerta dell’istituzione olandese. Principale esposizione autunnale è Chagall, Picasso, Mondrian and Others: Migrant Artists in Paris, racconto di come alcuni già grandi e alcuni ancora sconosciuti artisti si confrontarono con una società nazionalista e xenofoba, e di come questo confronto diede vita a opere immortali. Opere di oltre 50 artisti, tra i quali Appel, Chagall, Delaunay, Freund, Goncharova, Kandinsky, Krull, Lam, Mondriaan, Picasso, Ray, Rivera, Severini, Sluijters, Zadkine. Fino al 2 febbraio. Al lavoro sperimentale di Jeff Preiss, filmaker attivo soprattutto nel campo musicale, è dedicata la mostra Stop And 14 Reels. Il film Stop (1995-2012) è un ritratto intimo di un’epoca segnata dagli albori dell’era digitale e dall’attacco dell’11 settembre. 14 Standard 8mm Reels 1981-1988 (2018) monta insieme filmati in 8mm girati negli anni ‘80, ognuno dedicato a un amico con cui Preiss era in conversazione. Dal 5 ottobre al 5 gennaio 2020. A partire dal 19 ottobre, apre al pubblico l’esposizione degli artisti nominati per il Prix de Rome Visual Arts 2019: Sander Breure & Witte van Hulzen, Esiri Erheriene-Essi, Femke Herregraven, Rory Pilgrim. Proclamazione del vincitore il 31 ottobre. La mostra prosegue fino al 22 marzo 2020. Altre occasioni: gli omaggi a Wim Crouwel (1928), dal titolo Mr. Gridnik, con una selezione del suo lavoro tipografico, nonché al designer grafico Shigeru Watano (1937-2012), Colorful Japan, con 226 poster del maestro e altri importanti grafici giapponesi. Fino al 30 ottobre è, inoltre, visitabile De Best Verzorgde Boeken, dedicata ai migliori esiti annuali nel design librario olandese.

KUNSTHALLE BASEL

materna e del suo sconcertante doppio. Fino al 10 novembre. L’artista e coreografo polacco-britannico Alex Baczynski-Jenkins, che disloca micro-gesti, danza e set minimali per tratteggiare desiderio e alienazione ripropone fino al 13 ottobre le sue più recenti performance in un programma dal titolo Such Feeling. L’esposizione Stable Vices, la prima in una istituzione svizzera per la fotografa Joanna Piotrowska, cattura il dramma quotidiano delle relazioni umane. La nuova serie di scatti in bianco e nero in mostra è affiancata a filmati di recenti creazione. Dal 25 ottobre al 5 gennaio 2020.

BASILEA

FONDATION BEYELER

seguire la mostra dedicata a Rudolf Stingel, il 6 ottobre inaugura Resonating Spaces, esposizione con opere di LeoA nor Antunes, Silvia Bächli, Toba Khedoori, Susan Philipsz

e Rachel Whiteread. Ad accomunare i lavori in mostra, la capacità di esulare dalla rappresentazione del singolo oggetto per andare a creare lo spazio in cui esso esiste. Fino al 26 gennaio 2020.

Rachel Whiteread, Vitrine Objects, collezione privata courtesy l’artista e Mike Bruce Photography, Londra Mario Merz, Rinoceronte, 1979, tecnica mista su tessuto e neon, cm.291x435 collezione privata, Madrid, courtesy Fondazione Merz/SIAE, 2019

Jeff Preiss, STOP, video 16mm transferito in DCP, 2012, 120’, courtesy l’artista

BILBAO

GUGGENHEIM BILBAO

re le offerte espositive. Una ricognizione su 4 decadi di ricerca di Thomas Struth, a oggi la più completa, a cura di T Thomas Weski e Lucía Agirre, con oltre 130 scatti del fotografo tedesco e illustrare gli stadi della sua evoluzione linguistica. Dal 2 ottobre al 19 gennaio. Soto. The Fourth Dimension, retrospettiva di Jesús Rafael Soto (1923-2005), la cui estetica è approfondita in termini di temporalità, intensità e partecipazione. Dal 18 ottobre al 9 febbraio. Masterpieces From The Collection Of The Kunsthalle Bremen: From Delacroix To Beckmann, dal 25 ottobre al 16 febbraio, spazia tra capolavori della collezione tedesca, dal Romanticismo alle avanguardie novecentesche. In mostra, tra gli altri, lavori di Caspar David Friedrich, Eugène Delacroix, Claude Monet, Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Max Liebermann, Lovis Corinth, Max Slevogt, Max Beckmann, André Masson, Pablo Picasso.

Thomas Struth, Kyoko and Tomoharu Murakami, Tokyo, 1991 stampa a getto d’inchiostro. cm.151x187, courtesy l’artista

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MADRID

MUSEO REINA SOFÍA

’offerta espositiva parte dalla ispano-brasiliana Sara Ramo che presenta, fino al 2 marzo 2020, lindalocaviejabruja, proL getto che ingloba video, installazione, scultura e collage, svilup-

pato appositamente per il programma Fisuras del Museo. La mostra Musas insumisas: Delphine Seyrig y los colectivos de vídeo feminista en Francia en los 70 y 80 esplora l’intersezione tra storia del cinema, video e femminismo in Francia, attraverso la figura dell’attrice e artista Delphine Seyrig (ai più nota per il ruolo in L’anno scorso a Marienbad, Alain Resnais, 1961) e la sua rete di “alleanze creative”. Dal 25 settembre al 23 marzo 2020. El tiempo es mudo è il titolo dell’esposizione che il Museo dedica a Mario Merz, analizzando la sua opera da una prospettiva all’apparenza anacronistica, cioè attraverso un corpus di lavori sospeso in una sorta di era preistorica. L’immaginario pre-moderno di Merz si consolida in motivi dalle reminiscenze mitiche e geologiche, l’igloo, il tavolo, la spirale, il fiume, che vanno ad accostarsi alla figura idealizzata del nomade che rivendica la propria libertà rifuggendo gli schemi del presente capitalista. Dall’11 ottobre al 29 marzo 2020. Il britannico Hassan Khan propone la mostra Las llaves del reino (Le chiavi del regno), in cui scultura, musica, installazione, testo concorrono a decodificare il valore della nostra esperienza nei confronti delle strutture di potere. Dal 17 ottobre al 1 marzo.


>news istituzioni e gallerie< LONDRA TATE MODERN

mpia ricognizione sugli oltre 70 anni di ricerca dell’artista greco Takis (Panayiotis Vassilakis), con oltre 70 opere A rappresentative tra cui spiccano i Signals, lavori con antenne e

magneti che grazie alla partecipazione degli spettatori generano suoni casuali. Fino al 27 ottobre. In Real Life è il titolo della mostra con cui, in collaborazione con il Guggenheim Museum Bilbao, Olafur Eliasson torna alla Tate. L’artista danese introduce nel suo lavoro fenomeni naturali come gli arcobaleni, geometrie complesse e l’interesse per la teoria dei colori. Fino al 5 gennaio 2020. L’artista sudcoreano Nam June Paik è protagonista di una grande esposizione, un ipnotico tumulto di immagini e suoni. Oltre 200 i lavori in mostra, generati nel corso di mezzo secolo, dai robot fatti di vecchie tv ai lavori video più innovativi, allee installazioni immersive e l’abbagliante Sistine Chapel del 1993. Dal 17 ottobre al 9 febbraio 2020.

NEW YORK MOMA

n trittico di esposizioni per la stagione autunnale newyorkese, tutte all’avvio il 21 ottobre: si parte da Betye Saar: The U Legends of Black Girl’s Window, personale che esplora il profon-

do legame tra l’iconico assemblaggio autobiografico Black Girl’s Window (1969) e le sue rare stampe giovanili, risalenti agli anni ‘60. In mostra il corpus di 42 opere di Betye Saar di recente acquisizione da parte del Museo. Fino al 4 gennaio 2020. All’artista americano Pope.L è dedicata member: Pope.L, 1978– 2001, esposizione su 13 fondamentali performance, eclettiche e multidisciplinari. Create tra il 1978 e il 2001, le performance sono rappresentate attraverso una combinazione di video, fotografie, elementi scultorei e live action. Fino al 1 febbraio 2020. La mostra Sur moderno: Journeys of Abstraction-The Patricia Phelps de Cisneros Gift, si compone di dipinti, sculture e lavori su carta donati al Museo dalla Colección Patricia Phelps de Cisneros tra il 1997 e il 2016. Opere di artisti come Lygia Clark, Gego, Raúl Lozza, Hélio Oiticica, Jesús Rafael Soto, Rhod Rothfuss. Fino al 14 marzo 2020. Lo spazio MoMA PS1 ospita Theater of Operations: The Gulf Wars 1991-2011, con oltre 250 opere di 75 artisti internazionali, tra cui Afifa Aleiby, Dia al-Azzawi, Thuraya al-Baqsami, Paul Chan, Harun Farocki, Tarek Al-Ghoussein, Guerrilla Girls, Thomas Hirschhorn, Hiwa K, Hanaa Malallah, Monira Al Qadiri, Nuha al-Radi, Ala Younis. Dal 3 novembre al 1 marzo 2020.

Nam June Paik, TV Garden, 1974-’77 (2002) Kunstsammlung NordrheinWestfalen, Düsseldorf, courtesy Estate of Nam June Paik, foto Roger Sinek

PARIGI

CENTRE POMPIDOU

a mostra Bacon En Toutes Lettres si concentra sulla produzione artistica di Francis Bacon negli ultimi due decenni L di vita (tra il ‘71 e il ‘92). Sei le sale espositive, con particolare

attenzione alle ispirazioni letterarie della sua opera: letture da Eschilo, Nietzsche, Bataille, Leiris, Conrad, Eliot, autori che ne hanno ispirato il lavoro e condiviso il mondo poetico. Fino al 20 gennaio 2020. Lo spazio del cabinet de la photographie ospita Calais - témoigner de la «Jungle», esposizione fotografica con tre prospettive: quella di Bruno Serralongue, artista che imprime su pellicola il dramma dell’esilio e degli accampamenti provvisori di chi da Calais spera di raggiungere l’Inghilterra; quella dell’Agence FrancePresse, puramente mediatica e documentaristica; quella, infine, dei rifugiati e migranti stessi, che con i loro scatti ci mostrano il controcampo alla pura funzione informativa e si affiancano a quelli di Abdulrahman, Ahmad, Diagne, Haider, Haghooi, Inanlou, Niroomand. Dal 16 ottobre al 24 febbraio. La mostra Points de rencontres, nella Galerie d’Art Graphique, illustra gli esiti del primo anno del Fonds de dotation Centre Pompidou Accélérations. 7 artisti in residenza e in collaborazione con 7 imprese, espongono qui i frutti del loro lavoro: Hubert Duprat (Teréga), Lionel Estève (Cdiscount), Alexandre Estrela (Orange), Agnès Geoffray (Neuflize OBC), Jonathan Monk (Axa), Camila Oliveira-Fairclough (Tilder), Bruno Serralongue (SNCF Logistics/Ermewa). Dal 23 ottobre al 27 gennaio. L’esposizione della 19a edizione del Prix Marcel Duchamp ha come protagonisti il filmaker Eric Baudelaire (con un lavoro girato con gli studenti dell’università di Seine-Saint-Denis) le scultrici Katinka Bock e Marguerite Humeau (che evidenziano la differenza nel loro approccio alla materia), l’opera grafica del duo formato da Ida Tursic e Wilfried Mille. Annuncio del vincitore il 14 ottobre, mostra fino al 6 gennaio 2020.

Pope.L, How Much is that Nigger in the Window a.k.a Tompkins Square Crawl. New York, NY, 1991, stampa digitale su carta di seta in fibra d’oro, cm.25x38 courtesy l’artista e Mitchell - Innes & Nash, New York

NEW YORK

SOLOMON R. GUGGENHEIM

L

o spazio del Museo dedicato alla collezione permanente mette in evidenza l’opera di Constantin Brancusi, acquisita alla metà degli anni ‘50 grazie all’interesse dell’allora direttore James Johnson Sweeney. Analoga genesi per l’esposizione della Thannhauser Collection, nata per la passione di Justin K. Thannhauser, sviluppatasi contemporaneamente a quella di Solomon R. Guggenheim, e unitasi a essa nel 1976, dopo la dipartita di Thannhauser. Le opere spaziano dall’Impressionismo francese al Futurismo italiano, dall’Espressionismo a un ricco corpus di opere di Picasso. Il Museo propone un interessante esperimento, la mostra Artistic License è la prima nei suoi spazi interamente curata da artisti, per celebrare la varietà di voci e interessi della ricchissima collezione. Cai Guo-Qiang, Paul Chan, Jenny Holzer, Julie Mehretu, Richard Prince, Carrie Mae Weems si sono cimentati nell’impresa selezionando circa 300 tra dipinti, sculture, lavori su carta, installazioni, alcuni mai esposti prima, che hanno come filo comune l’essere fortemente connessi al dibattito culturale contemporaneo. Fino al 12 gennaio 2020.

Hubert Duprat, Martyr, 2019, points de rencontres, Centre Pompidou, Parigi courtesy l’artista Adrian Piper, The Mythic Being: Smoke, 1974, stampa a gelatina d’argento, cm.15,9x24 Solomon R. Guggenheim Museum, New York courtesy A. Piper Research Archive Foundation Berlin

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>news istituzioni e gallerie< LUGANO

LUGANO EXHIBITION CENTER

WopArt a fiera internazionale interamente dedicata alle opere su carta, antiche, moderne e contemporanee torna con una ricco L parterre di espositori. Main Course: Art Events Mazzoleni (Italia),

Artrust (Svizzera), Barbara Paci Galleria d’Arte (Italia), Buchmann Galerie (Svizzera), Carzaniga (Svizzera), Cesare Lampronti (Italia, Inghilterra), De Primi Fine Art (Svizzera), Dep Art Gallery (Italia), [dip] (Svizzera), Ditesheim&Maffei Fine Art (Svizzera), Federico Rui Arte Contemporanea (Italia), Five Gallery (Svizzera), Fornaciai Art Gallery (Italia), Galleria Cinquantasei (Italia), Galleria Continua (Italia, Francia, Cina, Cuba), Galleria d’arte L’Incontro (Italia), Galleria dell’Incisione (Italia), Galleria Immaginaria (Italia), Galleria Poggiali (Italia), Galleria Spazio Farini6 (Italia), Giovanni Scacchi Gallery (Italia), Heillandi Gallery (Svizzera), Il Ponte (Italia), Imago Art Gallery (Svizzera), Kromya Art Gallery (Svizzera), Lucio Morini (Italia), Lullin+Ferrari (Svizzera), M77 Gallery (Italia), Massimo De Carlo (Italia, Inghilterra, Cina), Morland Fine Art (Inghilterra), NdF Gallery (Svizzera), Pandora OM New York (Stati Uniti), Raphaël Lévy (Svizzera), Robilant+Voena (Italia, Inghilterra, Svizzera), Salamon Fine Art (Italia), Salaxa (Svizzera), Studio d’Arte Campaiola (Italia), Suppan Fine Arts (Austria), Susanna Orlando (Italia), Tornabuoni Art (Svizzera, Inghilterra, Francia, Italia), Torriani Fine Art (Svizzera), VitArt (Svizzera), Wilde Gallery (Svizzera). Nella sezione Dialogues: Alidem (Italia), ARC Gallery (Italia), Atipografia di Elena Dal Molin (Italia), Carte Scoperte (Italia), Colophonarte

(Italia), Colossi Arte Contemporanea (Italia), D406 (Italia), Frameless Gallery (Inghilterra), Galleria Berno Sacchetti (Svizzera), Keller Galerie (Svizzera), Marco Lucchetti Art Gallery (Svizzera), Patrizio Contemporary (Italia), Samhart Gallery (Svizzera), Saye’Art Gallery (Iran), Spin-Off by Spirale Milano (Italia), Vicolo Folletto Gallery (Italia). Nella sezione Emergent: Balbi Modern Art (Italia), Cartavetra (Italia), CasaGallery (Italia), Eva Gallery (Russia), Floris Art Gallery (Italia), Gold Gallery (Francia), Kourd Gallery (Grecia), Made4Art (Italia), Miaja Art Collections (Singapore), Milan Art & Events Center (Italia), Tsekh (Ucraina, Lituania). Nel Project Space, allestimenti di: Adiacenze (Bologna), Almanac (Londra/Torino), Avto (Istanbul), Circuit (Losanna), Current (Milano), Kunstverein (Milano), Like a little disaster (Polignano a Mare), NON+ultra (Cluj-Napoca), Sonnestube (Lugano), Ultrastudio (Los Angeles/ Pescara), Vernacular Institute (Mexico City).

LONDRA

REGENT’S PARK

Frieze orna come ogni autunno nel cuore di Londra la principale fiera d’arte britannica, che annuncia la partecipazione di 160 T espositori internazionali, in rappresentanza di oltre 1000 artisti.

Dal 3 al 6 ottobre, in concomitanza con Frieze Sculpture e Frieze Masters, la kermesse ha rinnovato il team curatoriale affiancando alle direttrici Victoria Siddall e Jo Stella-Sawicka, new entry come Cosmin Costinas (per la nuova sezione Woven, che presenta 8 artisti che impiegano tessuti e arazzi), Diana Campbell-Betancourt (per LIVE e il Frieze Artist Award), Lydia Yee e Matthew McLean (per Frieze Talks), mentre per la prima volta la sezione Focus si avvarrà di un comitato curatoriale di galleristi (Stefan Benchoam, Proyectos Ultravioleta, Guatemala City; Edouard Malingue, Hong Kong; Angelina Volk, Emalin, Londra). Dal nostro paese, espongono nella sezione Galleries: P420 (Bologna), Giò Marconi (Milano), Lia Rumma (Napoli/Milano), Thomas Dane Gallery (Napoli), Galerie Emanuel Layr (Roma/Vienna), Galleria Lorcan O’Neill (Roma), Gavin Brown’s enterprise (Roma/New York), Franco Noero (Torino), Victoria Miro (Venezia/Londra/New York). Gli artisti impegnati nella neonata sezione Woven sono: Cian Dayrit (1335 Mabini, Manila), Angela Su (Blindspot Gallery, Hong Kong), Monika Correa (Jhaveri Contemporary, Mumbai), Mrinalini Mukherjee (Nature Morte, Nuova Dehli), Chitra Ganesh (Gallery Wendi Norris, San Francisco), Joël Andrianomearisoa (Primae Noctis, Lugano), José Leonilson (Galeria Marilia Ra-

zuk, San Paolo), Pacita Abad (Silverlens Galleries, Manila). La sezione Focus, dedicata alle giovani speranze dell’arte, vede 33 presentazioni personali tra cui: Troy Michie, Kapwani Kiwanga, Joy Labinjo, Sophia Al-Maria, Tang Dixin, Karon Davis/ Gary Lang, Kembra Pfahler, Nicholas Pope, Rolf Nowotny. Con la fiera tornano anche i fondi di acquisizione: allo storico Frieze Tate Fund si affianca per la quarta volta il Contemporary Art Society’s Collections Fund at Frieze, che ricerca opere di protesta e attivismo per il Nottingham Castle Museum; dopo il debutto dello scorso anno (premiato Wong Ping) torna il Camden Arts Centre Emerging Artist Prize at Frieze che premia uno degli artisti impegnati nella sezione Focus. Con la curatela di Clare Lilley (Yorkshire Sculpture Park), Frieze Sculpture vede la partecipazione di: Iván Argote, Ghazaleh Avarzamani, Huma Bhabha, Peter Buggenhout, Jodie Carey, Ma Desheng, Tracey Emin, Lars Fisk, Barry Flanagan, Charlie Godet Thomas, Leiko Ikemura, Robert Indiana, Vik Muniz, Zak Ové, Jaume Plensa, Bettina Pousttchi, Tom Sachs, Lucy Skaer, LR Vandy, Joanna Rajkowska, TaiJung Um, Bill Woodrow, Emily Young.

PARIGI

GRAND PALAIS

Fiac e prestigiose sale del Grand Palais tornano a ospitare uno dei maggiori eventi fieristici mondiali, che si pregia della L partecipazione di circa 200 espositori, tra i quali dall’Italia le gallerie: apalazzo (Brescia), Alfonso Artiaco (Napoli), Gavin Brown’s enterprise (New York/Roma), Cardi (Milano/Londra), Continua (San Gimignano/Boissy-le-Châtel/Pechino/L’Avana), Raffaella Cortese (Milano), Massimo De Carlo (Milano/Londra/Hong Kong), kaufmann repetto (Milano/New York), Magazzino (Roma), Mazzoleni (Torino/Londra), Francesca Minini (Milano), Massimo Minini (Brescia), Victoria Miro (Londra/Venezia), P420 (Bologna), Tornabuoni Art (Firenze/Milano/Parigi/Londra), Tucci Russo (Torino), Vistamare/Vistamarestudio (Pescara/Milano), ZERO... (Milano). A selezionarle, un comitato composto da: Isabelle Alfonsi (Marcelle Alix, Parigi), Olivier Antoine (Art : Concept, Parigi), Florence Bonnefous (Air de Paris, Parigi), Daniel Buchholz (Buchholz, Berlino/ Colonia/New York), Mark Dickenson (Neue Alte Brücke, Francoforte), Joseph Nahmad (Nahmad Contemporary, New York), Niklas Svennung (Chantal Crousel, Parigi), Christophe Van de Weghe (Van de Weghe, New York) e Paolo Zani (ZERO…, Milano). Dedicata alle giovani gallerie, la sezione Lafayette ha come protagonisti 10 espositori: Arcadia Missa (Londra), Gianni Manhattan (Vienna), Mariane Ibrahim (Chicago), Jenny’s (Los Angeles), LOMEX (New York), Édouard Montassut (Parigi), PM8 (Vigo), Dawid Radziszewski (Varsavia), Soft Opening (Londra), Weiss Falk

(Basilea). Ha cinque protagonisti la sezione Design, ovviamente dedicata alla progettazione artistica: Jousse entreprise (Parigi), Galerie kreo (Parigi/Londra), Laffanour-Galerie Downtown (Parigi), Eric Philippe (Parigi), Galerie Patrick Seguin (Parigi/Londra). La sezione FIAC Projects, affidata alla cura di Rebecca LamarcheVadel (curatrice del Palais de Tokyo), presenta 30 sculture e installazioni, dislocate tra il Petit Palais e l’Avenue Winston Churchill. Il programma di FIAC Hors les Murs propone, in collaborazione con il Museo del Louvre, una ventina di opere dislocate in un percorso nei Jardin des Tuileries; una personale del britannico Glenn Brown, allestita in collaborazione con la Galerie Max Hetzler (Berlino/Parigi/Londra), al Museo Nazionale Eugène Delacroix; ma anche un progetto speciale di Yayoi Kusama, in collaborazione con la galleria Victoria Miro (Londra/Venezia), in Place Vendôme; nonché, per il secondo anno, un percorso di strutture architettoniche effimere in Place de la Concorde. Torna, infine, il festival di performance Parades for FIAC, con protagonisti: Adler & Madame, Arsanios, Beer, Chaignaud & Bengolea, Cherri, Huynh & Automat, Lippard, Ogboh, Ouramdane, Pettena, Panayiotou, Riva & Apenouvon, Sciarroni. SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 9


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24° FESTIVAL INTERNAZIONALE DI FILM SULL’ARTE CONTEMPORANEA La 24ª edizione di Artecinema, Festival Internazionale di Film sull’Arte Contemporanea, a cura di Laura Trisorio, viene inaugurata mercoledì 9 ottobre 2019, alle ore 20.00, presso il Teatro San Carlo (con acquisto biglietto), proseguendo nei giorni 10-11-1213 ottobre presso il Teatro Augusteo di Napoli, dalle ore 16 alle 24 con ingresso gratuito. Attraverso la proiezione di circa 30 documentari sui maggiori artisti, architetti e fotografi della scena internazionale, sarà offerta al pubblico una preziosa occasione per comprendere la poetica degli artisti, per vederli al lavoro nei loro atelier e per mostrare l’evoluzione dei linguaggi dell’arte contemporanea. Il Festival ha consolidato negli anni il proprio impegno nel sociale lavorando in sinergia con altre istituzioni cittadine. La serata inaugurale al Teatro San Carlo è dedicata alla proiezione in anteprima italiana del primo film realizzato sulla vita di Cy Twombly e in anteprima mondiale del più completo documentario su Carlo Alfano prodotto da Artecinema. Sono in programma, tra gli altri, filmati sugli artisti Daniel Spoerri, Fernando Botero, Yayoi Kusama, Maurits Cornelis Escher, Joan Miró, Sean Scully, Victor Vasarely, Christo, Luchita Hurtado, Olafur Eliasson, Rebecca Horn, Peter Greeenaway, James Turrell; sull’installazione Katastwóf Karavan realizzata dall’artista Kara Walker in collaborazione con il compositore Jason Moran, in memoria della deportazione degli schiavi africani nelle colonie europee; sulla preparazione della mostra A view of a landscape dell’artista Kevin Beasley al Whitney Museum of American Art; sulla nascita della pubblicità moderna attraverso la storia dei primi manifesti pubblicitari; sulla storia e lo spirito del Bauhaus a cento anni dalla nascita di una delle scuole architettoniche più influenti del nostro secolo; sulla mostra Josef e Anni Albers: VIBE – Voyage Inside a Blind Experience che è riuscita a rendere accessibile a un pubblico non vedente l’arte figurativa dei due grandi artisti del Bauhaus; sull’affascinante storia del collezionista d’arte Paul Getty, fondatore del famoso Getty Center di Los Angeles, e della sua famiglia; sul tema della conservazione delle opere d’arte contemporanea secondo il punto di vista di Christian Scheidemann, noto come Art Doctor e considerato tra i più grandi esperti della materia; su Hitler e l’ossessione dei nazisti per l’arte, che li portò a fare razzia di opere nei musei dei territori occupati e nelle case di collezionisti e ebrei; sui fotografi Cecil Beaton e Stefano Cerio; sugli architetti Mario Botta e Renzo Piano. Tutti i film sono proiettati in lingua originale con traduzione simultanea in cuffia. All M.C. Escher works © the M.C. Escher Company B.V.- Baarn – the Netherlands

M.C. Escher

ART21 - Kevin Beasley’s Raw Materials

ART21 - Olafur Eliasson - Become Your Own Navigator

Fernando Botero

10 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019

Bauhaus Spirit

ART21 - Kara Walker & Jason Moran

ART21 - Luchita Hurtado - Here I Am

Vasarely, L’illusion Pour Tous


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Gettys - The World’s Richest Art Dynasty Hitler contro Picasso e gli altri

Yayoi Kusama James Turrell - Heaven on Earth

Image © Yayoi Kusama. Courtesy of David Zwirner, NewYork; Ota Fine Arts, Tokyo/Singapore/Shanghai; Victoria Miro, London; Yayoi Kusama Inc.

Christian Scheidemann, Ratten Katharina Fritsch The Life of an Artwork Foto Chris Valentien - Hoch

Mario Botta - Oltre lo spazio

Christo Walking On Water Mirò (C) Hereus de Joaquim Gomis, 2018

Love, Cecil, Cecil Beaton in Studio 1930’s Photos courtesy of the Cecil Beaton Studio Archive at Sotheby’s CY Dear - Cy Twombly by François Halard 1995

Plakat - La nascita della pubblicità moderna

The Divine Way

Stefano Cerio - Aquila

Daniel Spoerri - This Movie is a Gift

Scully Painting Wall Melancholia ©2018 Nick Willing

Unstoppable. Sean Scully & The Art Of Everything

SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 11


ARTVERONA

MAIN SECTION - 10 A.M. ART-Amart Gallery, Milano; aA29 Project Room, Milano/Caserta/ Reggio Emilia; Add/Art, Spoleto; Annarumma, Napoli; Antigallery, Mestre; ArteA Gallery, Milano; AreaB, Milano; Armanda Gori Arte, Prato; Artericambi, Verona; Artesanterasmo, Milano; Artesilva, Seregno (Mb); Galleria Enrico Astuni, Bologna; Galleria Alessandro Bagnai, Foiano della Chiana (Ar); Biasutti&Biasutti, Torino; Boccanera, Trento; Galleria Giovanni Bonelli, Milano, Canneto sull’Oglio (Mn); Bonioni Arte, Reggio Emilia; Boxart Galleria d’Arte, Verona; Beatrice Burati Anderson, Venezia; C+N Canepaneri, Milano/Genova; Ca’ di Fra’ Arte Contemporanea, Milano; Maurizio Caldirola Arte Contemporanea, Monza; Studio d’Arte Campaiola, Roma; Cardelli e Fontana Arte Moderna e Contemporanea, Sarzana (Sp); Cartavetra, Firenze; Casati Arte Contemporanea, Monza Brianza/Torino; Michela Cattai, Milano; Antonella Cattani Contemporary Art, Bolzano; Gian Marco Casini Gallery, Livorno; Galleria Clivio, Parma/Milano; Colophonarte, Belluno; Colossi Arte Contemporanea, Brescia; Contini Contemporary, Londra; Contour Art Gallery, Vilnius; Galleria Corraini Arte Contemporanea, Mantova; Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Dogana; Conceptual, Milano; Lara & Rino Costa Arte Contemporanea, Valenza (Al); D406 Arte Contemporanea, Modena; Galleria de’ Foscherari, Bologna; Galleria De’ Bonis, Reggio Emilia; Raffaella De Chirico, Torino; Paolo Maria Deanesi Gallery, Trento; Dellupi Arte, Milano; Dep Art Gallery, Milano; E3 Arte Contemporanea, Brescia; Eidos Immagini Contemporanee, Asti; Galleria L’Elefante, Treviso; Federico Rui Arte Contemporanea, Milano; Galleria Ferrari, Treviglio (Bg); FerrarinArte, Legnago (Vr); Galleria Forni, Bologna; Frittelli Arte Contemporanea, Firenze; Galleria Doris Ghetta, Ortisei (Bz); Galleria Giraldi, Livorno; Galleria Patricia Armocida, Milano; Gare 82, Brescia; Glance Art Studio, Forlì Cesena; Guidi&Schoen Arte Contemporanea, Genova; Il Chiostro Arte Contemporanea, Saronno (Va); Galleria Il Ponte, Firenze; Intragallery, Napoli; Isolo 17 Gallery, Verona; La città project, Verona; Labs Gallery, Bologna; L’Ariete arte contemporanea, Bologna; LaVeronica Arte Contemporanea, Modica (Rg); Galleria d’Arte L’Incontro, Chiari (Bs); LM Gallery Arte Contemporanea, Latina; Federico Luger, Milano; MAAB Gallery, Milano; Madeinartgallery, Milano; Manuel Zoia Gallery, Milano; Marcorossi arte contemporanea, Milano/Verona/Torino/Pietrasanta (Lu); Marignana Arte, Venezia; Galleria Anna Marra, Roma; Martinasgallery, Monza; Massimodeluca, Venezia; Matèria, Roma; Mazzoleni, Torino/Londra; MeVannucci Arte Contemporanea, Pistoia; Menhir Arte Contemporanea, Milano; Mimmo Scognamiglio/Placido, Milano/Parigi; MLB Maria Livia Brunelli Gallery, Ferrara; MLZ Art Dep, Trieste; Montoro12 Gallery, Roma, Bruxelles; Nuova Galleria Morone, Milano; Morotti Arte Contemporanea, Daverio (Va)/Milano; Galleria Open Art, Prato; Osart Gallery, Milano; Nicola Pedana Arte Contemporanea, Caserta; Galleria Poggiali, Firenze/Milano/Pietrasanta (Lu); PoliArt Contemporary, Milano; Progettoarte-elm, Milano; Prometeogallery di Ida Pisani, Milano/Lucca; Proposte d’Arte, Legnano (Mi); Punto sull’Arte, Varese; Studio d’Arte Raffaelli, Trento; Rizomi, Parma; Galleria Michela Rizzo, Venezia; Rizzuto Gallery, Palermo; Galleria Rubin, Milano; Galleria Russo, Roma; Santo Ficara Arte Moderna e Contemporanea, Firenze; Shazar Gallery, Napoli; Galleria Spazia, Bologna; Spirale Milano/Galleria Brescia, Milano/ Brescia; Galleria Studio G7, Bologna; Studio Sales di Norberto Ruggeri, Roma; Studio Vigato, Alessandria; T293, Roma; Luca Tommasi, Milano; Galleria Tonelli, Milano; Tornabuoni Arte, Firenze/Milano/Forte dei Marmi (Lu)/Parigi/Londra/Crans-Montana; Nicola Turco Arte/Display, Parma; Galleria Umberto di Marino, Napoli; Valmore Studio d’Arte, Vicenza -Venezia; White Noise Gallery, Roma GRAND TOUR - Piero Atchugarry, Garzon (UY), Miami (USA); Monica De Cardenas, Milano/ Zuoz, St.Moritz (CH)/Lugano (CH); mc2 gallery, Tivat (ME)/Milano; Monitor, Roma/Lisbona (PRT); Alberta Pane, Venezia/Parigi (FR); Suburbia Contemporary Art, Granada (ES)/Cape Town (ZA) FOCUS ON; REPUBBLICA CECA E REPUBBLICA SLOVACCA - Lucie Drdova Gallery, Praga (CZ); Lítost Gallery, Praga (CZ); Nevan Contempo Gallery, Praga (CZ); Soda Gallery, Bratislava (SK); Svit, Praga (CZ) SCOUTING - A plus A, Venezia; A+B Gallery, Brescia; Alessandro Albanese, Milano; Francesca Antonini Arte Contemporanea, Roma; Arrivada, Milano; Cellar Contemporary, Trento; Clima Gallery, Milano; Crag-Chiono Reisovà Art Gallery, Torino; Ex Elettrofonica, Roma; Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano; Ribot, Milano; Richter Fine Art, Roma; Eduardo Secci, Firenze; Galleria Six, Milano; Traffic Gallery, Bergamo; Z2O Sara Zanin Gallery, Roma RAW ZONE - A Pick Gallery, Torino; Ada, Roma; Castiglioni, Milano; Colli Indipendent Art Gallery, Roma; Gilda Lavia, Roma; NContemporary, Milano; Villa Contemporanea, Monza; Viasaterna, Milano i10; SPAZI INDIPENDENTI - ALMARE, Torino; Bite The Saurus, Napoli; CampoBase, Torino; CASTROproject, Roma; Conversation Piece, Mi; Flip Project, Napoli; M.AR.CO, Monza; Numero Cromatico, Roma; Radio London, Terni; Simposio, Roma; Spazio Cordis, Verona; Spaziosiena, Siena; Toast Project Space, Firenze; Yellow, Varese FREE STAGE - Boris Contarin (Castelfranco Veneto, IT 1992); Giulia Crivellaro (Bolzano, IT 1995); Eleonora Luccarini (Bologna, IT 1993); Andrea Nicolò Malaguti (Bologna, IT 1991); Matias Julian Nativo (Buenos Aires, AR 1987) & Alessia Prati (Pietrasanta, IT 1989); Chiara Pagano (Roma, IT 1993); Bianca R. Schröder (Bârlad, RO 1993); Rob Van Den Berg (Rotterdam, NL 1992)

#BACKTOITALY

11—13.10.2019

15

WWW.AGENZIADELCONTEMPORANEO.COM

WWW.ARTVERONA.IT @ARTVERONA #ARTVERONA15


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Gallerie Mercatali

ArtuindiciVerona anni sono il segno di un consolidamento e ArtVerona si appresta a tagliare questo traguardo importante il prossimo Q ottobre, dall’11 al 13 a Veronafiere.

Per il terzo anno sotto la guida di Adriana Polveroni, la manifestazione ha raggiunto negli anni una precisa identità, quella di una fiera focalizzata sul rapporto con il collezionismo a cui sono dedicate occasioni di incontro anche nel corso dell’anno, come il roadshow che quest’anno ha toccato le città di Milano, Roma e Verona, e Collecting | Corso sul collezionismo, ideato da Adriana Polveroni, esperienza pilota che è partita dal Nord Est primo bacino territoriale della fiera intessuto di arte e di imprenditorialità, per trattare gli scenari del collezionismo contemporaneo, le logiche e i canali di acquisto, il panorama internazionale. 150 le gallerie presenti in fiera che si suddividono tra la Main Section, dedicata agli artisti più consolidati, tra moderno e contemporaneo, e le sezioni più sperimentali. Un percorso che proprio al compimento dei 15 anni della fiera si rivela un investimento vincente e una premessa per continuare a guardare al futuro. La fiera prosegue con Free Stage, sezione dedicata agli artisti che ancora non sono rappresentati da una galleria, quest’anno con 8 giovani promesse invitate da Alberto Garutti e con i 14 project spaces selezionati per i10; Spazi Indipendenti, a cura di Cristiano Seganfreddo. Per festeggiare il suo quindicesimo anniversario ArtVerona amplia l’esperienza della fiera aprendo eccezionalmente al pubblico le attigue Gallerie Mercatali. I 6.400 mq di questo affascinante edificio di archeologia industriale in corso di restauro da parte di Veronafiere si trasformano per tre giorni in Loony Park, una grande installazione ambientale dell’artista Norma Jeane, realizzata da Contemporary Locus e a cura di Paola Tognon. Non solo una festa, ma un’esperienza artistica che evolve dal giorno alla notte, per entrare nei meccanismi dell’intrattenimento. Un’opera interattiva che abbraccia arti visive e performance e si intreccia col suono grazie agli ospiti internazionali invitati da Path Festival, protagonisti del grande party di apertura di venerdì 11 ottobre e delle incursioni sonore che animeranno l’installazione nella serata di sabato 12 ottobre. In città il quartiere Veronetta si anima di progetti e iniziative che offrono attraverso l’arte contemporanea un’occasione per scoprire una delle zone più interessanti del centro storico. Tra queste, La quarta notte di quiete (10-12 ottobre), a cura di Christian Caliandro. Il Polo Santa Marta dell’Università si apre alle visite guidate di Contemporanee, contemporanei, l’esposizione delle opere della collezione AGI Verona che il collezionista Giorgio Fasol ha affidato per cinque anni all’Ateneo e all’interazione con i suoi studenti. Giardino Giusti ospita To be played, video, immagine in movimento e videoinstallazione nella “generazione ottanta”, mostra a cura di Jessica Bianchera e Marta Ferretti, promossa da Giardino Giusti e Urbs Picta in collaborazione con ArtVerona e Careof (11 ottobre 22 novembre). La Fondazione Cariverona presenta le mostre Carlo Zinelli. Visione Continua e Omaggio a Mirko Basaldella, a cura di Luca Massimo Barbero (11 ottobre 2019 - 12 gennaio 2020). ArtVerona annuncia le giurie di una piattaforma sempre più arti-

colata di premi e riconoscimenti, con due novità: il Premio MZ Costruzioni, nato su iniziativa di due imprenditori e collezionisti campani, e il Premio Casarini ideato dal Gruppo DueTorriHotels e rivolto alla pittura under 35. Confermati tutti gli altri riconoscimenti: Level 0, a cui aderiscono i direttori di alcuni dei principali musei italiani, sostenuto da AGSM; Premio Icona; Premio WiDiCollect in collaborazione con Banca Widiba; Premio Fotografia under 35, Display, Sustainable Art Prize promosso dall’Università Ca’ Foscari Venezia; la seconda edizione del fondo di Veronafiere A Disposizione e il riconoscimento per i 10 Spazi Indipendenti, nel decennale del progetto, sostenuto da AMIA. Tra le nuove collaborazioni di quest’anno quella con Sineglossa, vincitrice in partnership con ArtVerona del Bando Cultura della Fondazione Cariverona. Durante la fiera si svolgerà la tappa veneta di art+b=love(?), il festival che indaga il potere dell’arte nella produzione di innovazione nel mondo delle imprese, della società e della scienza, a cura e con la direzione di Federico Bomba e Cesare Biasini Selvaggi, con un workshop e un talk moderato da Catterina Seia.

Joana Vasconcelos, Ponti, 2019 porcellana dipinta con smalto ceramico, uncinetto, cm.13x39x34 courtesy Mimmo Scognamiglio artecontemporanea, Milano Norma Jeane, Loony Park, 2019 installazione alle Gallerie Mercatali, courtesy l’artista

Aryan Ozmaei, When the book fell, 2018 olio su tela, cm.150x130, courtesy Monitor, Roma-Lisbona

Alejandra Hernandez, Manifesting Intentions - #3 #16 #2, 2018 ceramica smaltata, courtesy Laveronica arte contemporanea, Modica (RG)

SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 13


catalogo con testi di Marco Meneguzzo

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Federico Sardella

19 ottobre 2019

dal 19 ottobre al 15 gennaio 2020

SANTO FICARA

ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

Via Arnolfo 6L - 50121 Firenze info@santoficara.it - www.santoficara.it Artisti

ArtVerona

PADIGLIONE 11 - STAND D9

Carla Accardi Getulio Alviani Gianni Asdrubali Enzo Cacciola Domenico D’Oora Ennio Chiggio Edoardo Landi Giorgio Laveri

Luigi Mainolfi Aldo Mondino Matteo Montani Roberto Pietrosanti Pino Pinelli Giulio Turcato Gianfranco Zappettini Antonella Zazzera


GALLERIA VIGATO

VITTORIO D’AUGUSTA OTTOBRE-NOVEMBRE 2019

Anni ’70-’80

Vittorio D’Augusta, Omaggio a Klee, 1979. Ferro, Cera, Neon, Silicone, 150x300cm.

ARTVERONA 15 11–13.10. 2019 Pad. 11 - Stand A14 – B13

Vasco Bendini Roberto Crippa Vittorio D’Augusta Franco Garelli Armando Marrocco Piero Ruggeri Galleria Vigato Via Ghilini 30 | 15121 Alessandria Tel: + 39 0131 444190 | +39 392 9022843 www.studiovigato.com | info@studiovigato.com



>news istituzioni e gallerie< ROMA

ROMA

MAXXI

MUSJA

Programmazione The Dark Side olteplici le occasioni espositive al Maxxi. Si parte dalla grande mostra dedicata a Maria Lai, in occasione del M Chi ha paura del Buio? centenario della nascita, dal titolo Tenendo per mano il sole, a asce Musja-Arte oltre il museo, nuovo spazio culturale intecura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli. La mostra Nramente votato all’arte contemporanea e diviene dall’autunapprofondisce l’interesse dell’artista per la poesia, il linguaggio e no un museo privato, presieduto da Ovidio Jacorossi, grazie alla la parola. Fino al 12 gennaio. La lobby e l’archive wall ospitano Tra immagine e performance, focus dedicato a Elisabetta Catalano e al rapporto tra la sua fotografia e la performance, proponendo i ritratti di alcuni artisti nell’arco del loro processo performativo, tra cui Joseph Beuys, Fabio Mauri, Vettor Pisani, Cesare Tacchi. Fino al 22 dicembre AT HOME. Progetti per l’abitare contemporaneo è il nuovo allestimento della collezione di architettura del Museo, che racconta l’evoluzione del concetto di abitare dal dopoguerra a oggi. Fino al 22 marzo. Nella Sala Gian Ferrari, focus su Enzo Cucchi che presenta opere recenti, a evidenziare la forza creativa e la contemporaneità del suo percorso di ricerca. Dal 17 ottobre al 26 gennaio. A cura di Bartolomeo Pietromarchi, nella Galleria 4, O-Della materia spirituale dell’arte, analisi dello spirituale nella rappresentazione contemporanea. Opere di Armleder, Cassani, Clemente, Cucchi, Di Maggio, Durham, Epaminonda, Khan, Kimsooja, Konaté, Man, Neshat, Ono, Rovner, Salvadori, Saraceno, Scully, Shaw, Siedlecki. Dal 17 ottobre all’8 marzo. A 40 anni dalla scomparsa, Amare l’architettura omaggia la figura di Giò Ponti. La retrospettiva ne analizza la poliedricità, grazie a disegni di oggetti d’uso quotidiano, alle soluzioni spaziali per la casa moderna, alla realizzazione di progetti complessi calati nel contesto urbano. Dal 7 novembre al 26 aprile.

vasta collezione di opere dal primo Novecento italiano ad oggi, che verranno affiancate nel corso delle attività alle tendenze contemporanee. Atto inaugurale, la mostra Chi ha paura del buio? prima parte del progetto triennale The Dark Side (il secondo e il terzo saranno dedicati alla “solitudine” e al “tempo”) che, con la curatela di Danilo Eccher, coinvolge tredici artisti internazionali con grandi installazioni site-specific e opere di grandi dimensioni: da maestri affermati come Gregor Schneider, Robert Longo, Hermann Nitsch, Tony Oursler, Christian Boltanski, James Lee Byars, ai nuovi protagonisti della scena artistica come Monster Chetwynd, Sheela Gowda, Shiota Chiharu, a una ricca componente italiana con Gino De Dominicis, Gianni Dessì, Flavio Favelli, Monica Bonvicini. Fino al 1 marzo.

Chiharu Shiota, Letters of Thanks, 2017 Kunsthalle Rostock, foto Thomas Häntzschel (Fotoagentur Nordlicht) Ro

ROMA

GAGOSIAN

Huma Bhabha o spazio capitolino di Gagosian propone, fino al 14 dicembre, una personale dell’artista di origini pakistane dal titolo The L Company. In mostra i più recenti disegni e lavori plastici eseguiti in gesso o bronzo.

RICHARD LONG

19 settembre 2019 - 25 gennaio 2020

TUCCI RUSSO Studio per l’Arte Contemporanea Chambres d’Art Torino - Via Davide Bertolotti 2

Tel. +39 0121.953.357 – gallery@tuccirusso.com – www.tuccirusso.com SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 17


La Biennale di Venezia - 58. Esposizione Internazionale d’Arte

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N

(Vol.2)

el descrivere e raccontare le nostre impressioni sull’attuale Biennale, sul precedente n.273, molto avevamo già detto, ma in particolare mi preme sciogliere in breve un pensiero che in quel contesto fu solo accennato. Sui temi dell’incertezza, delle crisi e dei disordini che attraversano la nostra epoca, sui “tempi interessanti”, leitmotiv della kermesse, citavo Mario Perniola e la sua intuizione maturata dopo l’esperienza del 2013 del “Palazzo Enciclopedico” di Massimiliano Gioni, su una pericolosa espansione dell’arte che poteva tradursi in pura banalità. Per essere più chiari, Perniola parlava di visione populistica dove, tutto potenzialmente poteva ostentare un’aurea di artisticità e dove, in definitiva affermava l’opera d’arte non sarebbe più bastata a se stessa. «Non esiste un “mondo dell’arte”, – concludeva Perniola – ma molti mondi dell’arte che si sovrappongono e si influenzano reciprocamente»; sicché, avesse il filosofo potuto vedere oggi questa Biennale, sono certa avrebbe confermato che quell’iniziale processo di “artistizzazione” si è concretizzato in una realtà superiore all’immaginazione. Vale la pena pertanto, dopo avere ampiamente descritto le opere e le proposte dei singoli padiglioni, proporre adesso una riflessione più estetica e filosofica perché c’è bisogno ed è nostro dovere, lo è quello della critica, affrontare l’arte non con un banale sguardo da turista. Segue pertanto una riflessione scritta da Dario Orphée La Mendola che parla proprio di questi temi e delle possibili derive di un sistema che, rifacendomi ancora una volta a Perniola, mostra un ritratto dell’arte sfuggente, composito e sovraccarico di dettagli indefiniti. Per essere corretti, il testo segue a una prima riflessione dello stesso autore provocatoriamente intitolata Oral, anal, biennal… and your interesting time! (11 maggio) dove, l’idea di fruizione della Biennale è associata a quella del mercato pornografico e in particolare all’installazione “Barca nostra”, dell’artista svizzero Christoph Büchel. La storia la conosciamo: “Barca nostra” è il titolo assegnato al noto peschereccio libico affondato nel Canale di Sicilia il 18 aprile del 2015, recuperato a 300 metri di profondità e parcheggiato, dal 2016, presso il pontile Nato della Marina militare di Augusta, oggi in Biennale e fortemente voluta da essa «…per smuovere le coscienze» ma, secondo lo sguardo di La Mendola, lì allocata per quel voyeurismo che avvicina diverse classi sociali e che “nasconde quel “dietro le quinte” che la coscienza borghese occulta per non “smuoversi” troppo, accontentandosi e commuovendosi di fronte la sterile espressione estetica” da cui la forte associazione Biennale/Fin che la Barca va… così abbiamo ri-titolato il testo che segue, approfondisce tale nodo attraverso lo strumento della letteratura, ma in particolare ci aiuta a muoverci in modo più consapevole nei confronti dell’arte, delle molte banalità o bluff che l’attraversano avvertendoci di come la nostra cultura macini indistintamente cose diverse e distanti fra loro. In sostanza si potrebbe concludere che la profetica visione dell’arte espansa di Perniola ha valicato i suoi stessi confini e forse questa Biennale ne è veramente un primo esempio. Maria Letizia Paiato

…finchè la barca và… di Dario Orphée La Mendola

È

stato divertente seguire gli sviluppi dell’articolo intitolato “Oral, Anal, Biennal…” dedicato a quel barcone azzurrino approdato all’Arsenale di Venezia; il quale, da quanto ho capito, più che operazione artistica di un singolo Büchel qualsiasi, è stata il frutto di un’azione collettiva, cioè il frutto di una lunga serie di influenti firme di uomini, donne e istituzioni che, a vario titolo, hanno contribuito a questa esposizione. Molto divertente; lo ammetto. Non quanto il ricercato abbigliamento di Milovan Farronato, certo; diamo a Milovan quel che è di Milovan: opera nelle opere del padiglione Italia, che per poco le annebbia. Tuttavia, come spesso capita in questi casi, l’articolo, che ha raggiunto numeri di lettura paragonabili a un fortunato filmato di Pornhub,

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anche dei più schifosi, è riuscito a smascherare una diffusa miseria emotiva e intellettuale. Cosa intendo dire? Alcuni, appellandomi ipocrita, volgare, con falsa coscienza e uomo dalla mentalità chiusa, hanno pensato che con l’associazione della barca alla pornografia volessi screditare ciò che Pornhub ogni giorno ci offre gratuitamente. Affatto! Io, da perfetto volgare e libero ipocrita, non volevo comportarmi come la vecchia di Bocca di Rosa che, mai stata moglie, senza figli, senza voglie, si prende la briga e il gusto di dare a tutte il consiglio giusto. Io volevo solo ingannare, sia perché questo è il compito dell’ipocrita sia perché stimo la pornografia, ritenendola un fenomeno antropologico molto interessante, infecondo ovviamente, ma dai tratti terapeutici, che può a volte alleviare i mali della malinconia, rendendo la vita più malinconica. Il mio inganno, incastrato più in una performance letteraria che in un articolo, è nascosto in questa citazione, al cui autore da anni sono grato:


speciale

BIENNALE DI VENEZIA 2019 «L’allegoria, che nel migliore dei casi è un genere d’arte sgradevole, è un’inversione del normale processo creativo. Tipicamente una relazione astratta, ad esempio tra verità e giustizia, viene prima concepita in termini razionali; poi viene tradotta in metafora e agghindata per farla apparire il prodotto di un processo primario. Le astrazioni sono personificate e vengono fatte partecipare a uno pseudo-mito, e così via. Gran parte dell’arte pubblicitaria è allegorica, nel senso, appunto, che il processo creativo è invertito». (G. Bateson, Ecologia della mente). Rebus sic stantibus, prima di sollevare aristocratiche critiche intellettualoidi, e opinioni snob, sarebbe necessario scendere ai miei livelli selvaggi, villani, ipocriti e pornofili, e informarsi un po’, magari evitando di leggere nella vita soltanto stronzate di arte, e magari studiando anche qualcosa che vada oltre l’arte. Rebus sic stantibus, la barca è là; agghindata metaforicamente come una pornostar; e non me ne può importare più di tanto, proprio perché, reputandola moralmente inutile, come lo è la pornografia o la politica, non riesce a smuovermi la coscienza (non la odio; ripeto: è semplicemente uno pseudo-mito valido per pochi scopofili). Rebus sic stantibus, gli unici a cui la barca ha inciso qualcosa sono i critici burocrati, o come mi piace chiamarli i burocritici, e i leghisti, che, paradossalmente, hanno entrambi avvertito la forza dissimulatrice dell’installazione. In che modo? I primi manifestando; e qui eviterei di continuare, poiché, adesso sì, mi esprimerei con una monelleria che le tue orecchie mai hanno udito. I secondi, invece, per chissà quali oscure ragioni, si sono sentiti in dovere di procedere, due minuti dopo la lettura dell’articolo in questione, compilando rassegne burocratiche in cui evidenziavano i sudati “passaggi” che hanno permesso all’installazione di raggiungere Venezia; poi di spiegare con tutte le parole del vocabolario che “Barca nostra” è un simbolo di questo e di quest’altro, ricordandomi così un interessante romanzo di Gombrowicz, che a mio avviso è sintesi romanzesca della installazione; e infine hanno proposto arringhe in favore di Büchel, il quale, puntuale ogni stagione con la sua retorica, io credo dovrebbe essere abituato a fare l’avvocato di sé stesso. Insieme a Bateson, e parafrasando Deleuze che in “Bacon. Logica della sensazione” scrive: «È un errore credere che il pittore si trovi dinanzi a una superficie bianca», aggiungerei che «è un errore credere che il fruitore d’arte, visitando mostre in gallerie, nei musei, alla Coop o in farmacia, si trovi dinanzi a una superficie bianca». Ed è compito della critica, se è ancora tale, scrivere. Ma non per servigio. Adrian Searle, in un articolo per il The Guardian, lo ha sottolineato: «At least nobody died in the making of Stanczak’s sculpture, unlike Christoph Büchel’s Barca Nostra,

a shipwrecked fishing boat that sank in the Mediterranean in 2015, drowning hundreds of migrants who were being trafficked to Europe. The Italian navy raised the craft from its resting place between Libya and the Italian island of Lampedusa. It was then ferried to the Arsenale dockside, at enormous expense, where this supposed “monument and memorial to contemporary migration” now stands as both death trap and coffin. I have also heard it spoken of as a readymade, as if it had something to do with Marcel Duchamp, who would have seen the pornography, let alone the vulgarity, of the gesture. It has also been described as a Trojan horse, symbolising the human right to free mobility. I found Buchel’s appropriation of the boat in which so many migrants lost their lives a vile and mawkish spectacle in the context of the biennale». Ogni tanto, oltre ai quotidiani “patriottici”, leggiamola ‘sta stampa estera, che non conoscendo il reticolato dell’italietta da gossip ha una buona e fredda visione dall’esterno, utile ad aver coscienza della commedia dell’arte della Penisola più pazza (ed è un eufemismo) del mondo. Il vero Büchel nell’acqua (la battuta è orrenda, lo so; ma ipocritamente e volgarmente non sono riuscito a trattenermi) l’ha fatta dunque la critica italiana. Un’altra volta. E non solo per il barcone, le cui relative recensioni avrebbero dovuto essere accolte da riviste più nobili e adatte a contenerle rispetto a quelle d’arte, tipo Novella2000 o Chi, bensì per tutto il resto. Ho letto per esempio i commenti rivolti al padiglione Italia. Il reale “labirinto”, al quale il curatore si è riferito, è soltanto quello concettuale, considerabile una sorta di contraddittorio manicheismo relativista che, rileggendo (malino) Calvino, propone una apparente soluzione, inconsistente, senza paradigma. Lo stesso paradigma vuoto che ha avvolto e sostenuto l’Occidente fino a oggi, portandolo a non essere consapevole di ciò che avrebbe dovuto coltivare. La mia domanda: è il momento di relativismi contraddittori, specialmente se ironicamente “i tempi sono interessanti”? Ricordo a proposito di labirinti, improvvisamente, quel Ts’ui Pên di Borges, in “Finzioni”. A tutti diceva «Mi ritiro a scrivere un libro», oppure «Mi ritiro a costruire un labirinto». Chi lo ascoltava, pensava che l’uomo si dedicasse a due opere distinte, non che libro e labirinto fossero una cosa sola. Dopo che Ts’ui Pên morì, nessuno trovò il labirinto. Ecco, questo fa l’Occidente: non pensa che cose diverse tra loro, come l’arte, la burocrazia, la pornografia, e addirittura l’ambiente (oggi trattato male pure dagli ecologisti), condividano la stessa unità esistenziale e siano argomento di affetti, e non di affari. Ma ancora è presto. Tanto presto che in Occidente ci si eccita, moralmente o sessualmente, guardando. È lì che siamo fermi. n

Christoph Büchel, Barca Nostra. Foto Italo Rondinella. Courtesy La Biennale di Venezia

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Museo di Palazzo Grimani, Venezia

Helen FRANKENTHALER

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ra le varie mostre collaterali presentate durante la 58° Biennale di Venezia ve n’è una particolarmente suggestiva in quanto la sola visione delle opere ivi contenute amplia l’immaginazione del visitatore grazie ai capolavori pittorici della statunitense Helen Frankenthaler (New York, 1928 – Darien, 2011). A lei è dedicata la retrospettiva PITTURA/PANORAMA. Painting by Helen Frankenthaler 1952-1992 – organizzata da Helen Frankenthaler Foundation e da Venetian Heritage, in collaborazione con Gagosian – allestita presso il Museo di Palazzo Grimani fino al 17 novembre 2019. Riconosciuta oggi tra le maggiori artiste della seconda generazione di pittori astratti americani del dopoguerra, la cui pratica è stata fondamentale per il passaggio dall’Espressionismo Astratto alla pittura Color Field, la Frankenthaler è nota in laguna fin dal 1966, quando il suo lavoro fu presentato al Padiglione Americano della 33° Biennale di Venezia. A cura di John Elderfield, capo curatore emerito per la pittura e la scultura del Museum of Modern Art di New York, Consulting Curator al Princeton University Art Museum e Senior Curator per Gagosian, l’esposizione comprende opere panoramiche che spaziano dai dipinti degli inizi degli anni ‘50 – come Open Wall (1953), anticipatore della scuola del Color Field degli anni ‘60 – alle tele atmosferiche dei primi anni Novanta. All’interno dello stabile veneziano, in cui elementi architettonici locali sono fusi con dettagli decorativi tosco-romani, sono ospitate le grandi pitture della Frankenthaler allestite secondo una sequenza non rigorosamente cronologica per rivelare i legami tra lavori di periodi differenti ed i continui cambiamenti del suo processo. Se nei primi esperimenti d’inizio anni ’50 è facilmente riconoscibile l’influsso delle composizioni astratte di Jackson Pollock e del suo dripping, successivamente la sua propensione si sposta verso il formato orizzontale come Open Wall (1953), ove la mera allusione al paesaggio è resa con aree ampie e linee di colore, dimostrazione della sua attenzione al dibattito allora esistente tra i critici ed i pittori di New York ovvero se la pittura dovesse essere come una finestra o una parete e finendo per voler essere da entrambe le parti con la sua “parete aperta”. Negli anni ’60 (Riverhead, 1963) predilesse la superficie piana per creare un’illusoria profondità spaziale, mentre negli anni ’70 e ’80 inizia a combinare segni piatti e schematici per aprire lo spazio pittorico ed arrivare a stendere campi monocromatici di colore atmosferico su cui sovrapporre macchie, punti e trattini di pigmenti maggiormente tangibili (Brother Angel, 1983) o isole fluttuanti di colore e linee calligrafiche (Madrid, 1984): opere indicative della tecnica soak-stain, da lei inventata, che allargò le possibilità della futura pittura astratta. Negli anni ’90, ultimo periodo della sua carriera, ripensa e ritorna verso la pittoricità di trent’anni prima – Riverhead – riempiendo le tele in modo drammatico ma richiamando, nei titoli, condizioni climatiche estreme (Maelstrom,

1992) o i luoghi in cui essi si verificano. Lavori, quest’ultimi, in cui il pigmento macchiato evoca intensamente l’acqua e il cielo della laguna rimandando, in maniera assolutamente personale, alla pittura veneziana del Cinquecento. Suggestione, questa, che ispirò i suoi seguaci. Maila Buglioni Fondazione Querini Stampalia, Venezia

Roman OPALKA

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resentandosi come uno dei due capitoli del progetto “Roman Opalka. Dire il tempo”, a cura di Chiara Bertola, la mostra “Roman OPALKA e Mariateresa SARTORI”, alla Fondazione Querini Stampalia, s’incentra, insieme all’esibizione gemella “Roman OPALKA. Una retrospettiva” appena conclusa presso gli spazi della galleria milanese BUILDING, sul programma OPALKA 1965/1-°° ideato e portato avanti dall’artista polacco per gran parte della sua esistenza. Il tentativo di rappresentare il tempo, il suo incessante trascorrere, e di circoscrivere l’infinito attraverso forme visibili e misurabili è stato il perno su cui si è fondata la poetica di Roman Opalka (Hocquincourt, 1931 – Chieti, 2011) fin dal 1967, un anno dopo il suo esordio in campo artistico. La sua attenzione verso il cogliere l’infinito per renderlo tangibile attraverso l’arte si connette alla ricerca artistica di Mariateresa Sartori (Venezia, 1961) la cui pratica risulta esserne affine per concetti e esiti grazie anche all’intensa frequentazione di quest’ultima con il maestro. La bi-personale veneziana si risolve, infatti, in un felice accostamento ove l’indagine del primo dà il là alla produzione – incentrata sulle neuroscienze, sul linguaggio e sulla musica – della seconda. Nelle sale della Fondazione le opere di Opalka ben s’innestano nel percorso della dimora patrizia, tra dipinti sei-settecenteschi di rinomati pittori e arredi d’antiquariato, finendo per mimetizzarsi come nel caso di un due Esercizi del 1965. Tra i lavori presenti molteplici sono inediti e provenienti da importanti collezioni private e pubbliche come il Fonds de Dotation Roman Opalka e il Muzeum Sztuki di Lotz (Polonia). Quest’ultimo è il custode del suo primo Détail, per la prima volta visibile in Italia e riunitosi per l’occasione con l’ultimo, rimasto incompiuto e mai presentato al pubblico poiché di proprietà di un privato. Mentre la serie degli autoritratti fotografici, accompagnati dalla voce registrata dell’artista, sono immessi nel lungo corridoio che conduce verso le opere della Sartori. Il dialogo instaurato tra i due processi artistici, simili ma differenti, nasce dalla stessa volontà di cogliere lo scarto presente tra il materiale e l’immateriale per giungere alla rappresentazione dell’infinito tramite il finito. L’installazione site specific “Il tempo del suono. Onde”, da lei concepita come singole parti di un’unità più ampia qui ricomposta, è la traduzione visiva del suono delle onde del mare nonché il tentativo di ascoltare lo scorrere del tempo. Ne deriva un’immensa partitura musicale che codifica il flusso sonoro e temporale. Il fluido scorrere degli instanti e degli anni ritorna anche nelle due serie di fotografie stenotopeiche “Feuilles”

Helen Frankenthaler, Madrid, 1984, Acrylic on canvas (162.2 x 295.9 cm) © 2019 Helen Frankenthaler Foundation, Inc. / Artists Rights Society (ARS), New York ph. by Matteo De Fina

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speciale

BIENNALE DI VENEZIA 2019

Roman Opalka, OPALKA 1965/1 - ∞ Detaile Photographique (Dettaglio fotografico). Stampa su gelatina d’argento 30x24 cm

e “Cronache”, sempre della Sartori, in cui attimi di vita contemporanea sono fermati per divenire parte tangibile dell’imprendibile fugacità. Infine, ulteriore omaggio all’artista è “Le dernier Détail peint de Roman Opalka”, film realizzato da Didier Morin durante l’esecuzione del suo ultimo Détail nell’atelier di Bois Mauclair, in cui Opalka è ripreso mentre ripete ad alta voce i numeri che sta dipingendo. Maila Buglioni Fondazione Querini Stampalia, Venezia

Luigi PERICLE

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aesaggi visionari e figure ipnotiche popolano l’area Carlo Scarpa della Fondazione Querini Stampalia di Venezia dove, fino al 24 novembre 2019, è visibile LUIGI PERICLE (1916-2001) “Beyond the visible” a cura di Chiara Gatti, Marco Pasi, Michele Tavola e Luca Bochicchio. Un’interessante retrospettiva – promossa dall’Associazione “Archivio Luigi Pericle” e patrocinata dalla Confederazione Svizzera Consolato generale di Svizzera a Milano, Repubblica e Canton Ticino, Ticino Turismo, Fondazione Fondazione Monte Verità di Ascona, Fondazione Eranos di Ascona, Università Cà Foscari di Venezia, nonché sostenuta dalla Fondazione Svizzera per la Cultura Pro Helvetia – incentrata sull’eclettico e complesso personaggio svizzero la cui opera è rimasta per decenni sconosciuta per via del suo precoce ritiro dalla scena artistica. Luigi Pericle, artista professionista e dilettante fumettista, acquisì fama a livello internazionale ad inizio degli anni Cinquanta grazie alla creazione della marmotta Max, protagonista di celeberrime vignette pubblicate anche da importanti testate d’oltreoceano come il “Washington Post”. Mentre le sue pitture di stampo astrattistainformale, ragionate ossessivamente su tecniche particolari e sperimentazioni varie, sono state apprezzate fin dagli anni Sessanta-Settanta, periodo maggiormente florido della sua produzione creativa, dai importanti collezionisti e galleristi dell’epoca come i londinesi della Arthur Tooth&Sons. Una ricerca sul segno, la sua, carat-

terizzata per il essere visionaria, intuitiva e puramente spirituale: manifestazione del suo Io interiore, delle sue ossessioni e paure tramite immagini che di lì a poco avrebbero popolato quell’arte cinematografica catastrofica e fantascientifica di fine Novecento. Accanto ai lavori composti da pennellate segniche e monocrome – molto vicine ad Antoni Tapies e all’espressionismo astratto di Yves Kline – iniziano a comparire angeli, robot, Golem e immagini allegoriche che lo portarono verso l’iperrealismo. Un cambio di direzione maturato quando nel 1965, dopo una fortuna mostra itinerante in vari musei anglosassoni, decise di ritirarsi nella casa di Ascona preferendo isolarsi tra le montagne svizzere per coltivare le dottrine esoteriche, la filosofia, la teosofia e l’astrologia: studi, questi, che iniziarono a nutrire anche i suoi dipinti. Nel percorso, articolato ed eterogeneo come la sua personalità, ritroviamo, attraverso le 50 opere esposte, entrambe le produzioni: lavori su tela e masonite, disegni a china su carta degli anni Sessanta-Settanta accompagnati da inedite testimonianze – come stralci, appunti autografi, esercizi di analisi, pagine di diario e opere grafiche – riposte all’interno del bancone disegnato dal grande architetto Carlo Scarpa. Appositamente realizzata in occasione della 58° Biennale di Venezia, “Beyond the visible” nasce dalla volontà di valorizzare, catalogare, conservare, restaurare, studiare e far conoscere il patrimonio artistico che Luigi Pericle ci ha lasciato in eredità ed in cui erano contenuti i germi sviluppati dalle generazioni future. Maila Buglioni Luigi Pericle, Matri Dei d.d.d., China su carta, 1963, 42 x 60 cm

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Palazzo Fortuny, Venezia

Yun HYONG-KEUN

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rima retrospettiva europea dedicata all’artista coreano Yun Hyong-Keun, realizzata in collaborazione con il National Museum of Modern and Contemporary Art (MMCA) di Seoul e curata da Kim Inhye, profonda conoscitrice dell’opera del maestro. Tra gli affascinanti e decadenti ambienti di uno dei più bei palazzi veneziani si snoda una sottile melodia cromatica, un’armonia ininterrotta di tenui cromie immobili come la terra e si percepisce la leggera presenza di una vita che tace ma che, con il suo silenzio, dice molto sul mondo e sull’anima del pittore la cui presenza, per gli organizzatori, “nasce anche dalla convinzione che la sua arte sia in singolare sintonia con Venezia, città di terre e di acque”. Yun Hyong-keun (Cheongju 1928 – Seoul 2007), bellissima scoperta tra gli eventi collaterali della Biennale, è stato uno dei più importanti artisti coreani del secondo dopoguerra. Più volte imprigionato per avere manifestato il proprio pensiero, nel 1950 scampò miracolosamente ad una fucilazione di gruppo. Dopo una fase iniziale di sperimentazione il suo linguaggio artistico si definisce nella prima metà degli anni Settanta intorno a pigmenti dalle tonalità molto scure, ottenuti da miscele di blu oltremare e terre d’ombra bruciate. Tali colori, stesi per strati con grandi pennelli e molto diluiti, impregnano la tela grezza producendo disparati effetti di sbiadimento e rarefazione. La traccia perdere la vivacità o l’intensità del colore, assume una tonalità più chiara, più smorta e indecisa, si espande in maniera indefinita producendo superfici prive di contorni, perennemente in definizione di campo. La superficie emerge come spazio d’ombra e d’azione di forze contrastanti, ma tale tensione viene attutita dalle grandi e placide masse cromatiche che fluttuano in una profondità atemporale. La dimensione simbolica è data invece dal contrasto tra i pigmenti, con i blu a simboleggiare il cielo e le terre a rendere il mondo, entrambi percepiti in un perenne conflitto che è solo nella mente dell’artista il quale, invece, all’esterno esprime attraverso calibrate macchie, imbevute di olio e di vita, una ricerca di calma e fissità. Ebbe modo di dire: “Non ricordo quando iniziò a piacermi il colore del suolo. Lo stesso vale per il colore degli alberi e il colore delle rocce. Amo i colori del paesaggio naturale, e anche il colore della natura in inverno. […] La vera bellezza viene dal cogliere texture e colore eterni direttamente dalla natura. Ecco cosa mi sforzo di esprimere nei miei dipinti”. L’armonia d’insieme che emerge dalla retrospettiva deriva da questa perenne ricerca pittorica, da tale rapporto con la tela che non deve accogliere texture

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o chiazze ma deve pur rendere, tra le sue trame, una dimensione naturale e minima, non minimale, indirizzata verso la profondità del pensiero, in equilibrio zen tra universo e abisso. Tommaso Evangelista Hotel Hilton Molino Stucky, Venezia

Naby BYRON + Max CASACCI

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resentata dal Museo Storico della Giostra di Bergantino, fra le installazioni più curiose e intriganti presenti sul palcoscenico della biennale veneziana, incontriamo quella dell’artista Naby Byron che, accompagnata da texture musicale realizzate da Max Casacci, chitarrista, produttore e fondatore dei Subsonica e con la curatela di Gian Paolo Borghi, etnoantropologo ed esperto di tradizioni popolari, occupa gli spazi dell’incantevole Hotel Hilton Molino Stucky affacciato sul Canale della Giudecca. Di cosa si tratta? Riappropriandosi di alcune forme della cultura popolare, in questo caso la giostra per l’appunto che, com’è noto, vede nella versione fine ottocentesca, i cavalli di legno o in cartapesta in sostituzione ai veri ronzini nell’antichità legati a una corda e ruotanti attorno ad un palo, il tramite per sollecitare la memoria di antichi giochi rituali e arcaici di matrice medievale. Tuttavia, nella versione di Byron i cavalli sono liberi, sciolti dalle corde che normalmente li vede legati ai rigidi meccanismi della piattaforma circolare, e proiettati metaforicamente in uno spazio che nulla a che vedere con il tradizionale contesto di fiere e feste di borgata. In tal senso il gioco assume nuove interpretazioni che, se da un lato vaglia il tema dell’emancipazione stessa di determinati comportamenti umani, dall’altro, tende all’idea di una vera e propria interazione con lo spettatore dove, quest’ultimo, invitato a salire sul cavallo di Byron, è teso a rintracciare o rinnovare il proprio spirito libertario. Maria Letizia Paiato


speciale

BIENNALE DI VENEZIA 2019

Alberto-Burri, Legno Sp, 1958. Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri. a centro pagina Patrick Jacobs, Marsh with Moon & Stars, 2019

Fondazione Giorgio Cini, Venezia

Alberto BURRI

La pittura, irriducibile presenza

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el contesto delle manifestazioni legate alla 58. Biennale di Venezia, la grande retrospettiva dedicata ad Alberto Burri (l’ultima storica monografica alla Giudecca risale al 1983) curata da Bruno Corà e realizzata in collaborazione con Tornabuoni Arte e Paola Sapone MCIA, ha occupato certamente un posto privilegiato, rinvigorendo l’attenzione su uno dei temi cardini nella ricerca dell’artista, ossia, come ha spesso spiegato il curatore, il totale abbandono della rappresentazione a favore di un linguaggio dedito all’autenticità della materia. Con opere provenienti dalla Fondazione Burri, vari musei e collezioni italiane ed estere, i cinquanta lavori ordinati in mostra coprivano un arco temporale che andava dalla svolta astratta dell’artista, cominciata fra il 1948 e il 1949, fino alla fine della sua attività. Aggirarsi fra gli spazi della Fondazione ha significato pertanto muoversi fra le note Muffe e Catrami, fra i Sacchi, i Gobbi, le Combustioni, i Legni, i Ferri, le Plastiche, i Cretti e i Cellotex, ciascuna serie peculiare a un decennio, fino all’ultima dedicata ai Neri e Oro e che l’ha visto impegnato sino a poco prima della sua scomparsa avvenuta nel 1995. Che dire sull’uso inedito e inconsueto che Burri ha fatto della materia? In un certo senso, ed è stato proprio questo il focus evidenziato nella mostra, Burri ha agito in modo rivoluzionario, destabilizzando la visione dell’arte che fino a quel momento voleva la materia compendiaria al soggetto, trattandola di converso e per la prima volta, anche in modo brutale, come pura rappresentante di se stessa. Nell’inversione di categorie estetiche, nel rovesciamento della percezione di bellezza, Burri nel mediare fra forma, spazio e materie extra-pittoriche ha letteralmente mostrato l’irriducibile presenza della pittura – perciò questo titolo della mostra – che, grazie al progetto allestitivo curato dall’architetto Tiziano Sarteanesi (che ha spesso lavorato con l’artista), hanno trovato, negli ambienti della Fondazione Cini, un equilibrio pertinentemente commisurato alla sua stessa potenza espressiva e immaginativa. Alla presenza, infine, delle opere è stata anche corrisposta l’assenza. Era possibile osservare, infatti, anche alcuni importanti interventi, come il Grande Cretto di Gibellina, documentato attraverso apparati multimediali che, in conclusione fornivano una lettura dell’organicità di cui la sua arte si nutriva. Il prezioso catalogo che accompagna la mostra, oltre a un puntuale saggio critico di Bruno Corà, vede un intervento di Luca Massimo Barbero Direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini. Maria Letizia Paiato

Complesso dell’Ospedaletto di Venezia

REAGENTS

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e rinnovate sale del Complesso dell’Ospedaletto di Venezia ospitano Reagents, mostra collettiva che vede protagonisti Arthur Duff, Serena Fineschi, Silvia Infranco, Túlio Pinto, Fabrizio Prevedello, Quayola, Verónica Vázquez e Marco Maria Zanin, a cura di Daniele Capra. Il titolo della mostra fa riferimento al celeberrimo terzo principio della dinamica, enunciato da Isaac Newton nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, secondo il quale, durante l’in-

terazione tra due corpi, la forza che il primo corpo esercita sul secondo è uguale e opposta alla forza che il secondo esercita sul primo. Reagents, nell’eterogeneità delle sue formule e nella multiformità della potenza delle sue visioni, invera tale processo, scorge nell’opera la risposta alle forze che essa direttamente subisce. Pertanto essa diviene immaginale campo d’attuazione di forze molteplici e differenti. È Capra a dichiarare l’invisibile e fondamentale ponte che relaziona, tiene insieme, commette, genera un’ineluttabile dilatazione temporale e poietica: “La capacità di reagire alle sollecitazioni è una delle forme con cui si definisce la vita in ogni essere vivente ed è, inoltre, una caratteristica comune dal punto di vista chimicofisico a qualsiasi sostanza o materiale, seppur con differenze o tempistiche non sempre comparabili. La realtà in cui siamo immersi, come pure l’inarrestabile flusso di eventi che hanno costituito il nostro passato –e che similmente costituiranno il nostro futuro- sono frutto della costante applicazione di dinamiche di azione/reazione. Se tale modalità non implica necessariamente una correlazione di esattezza meccanicistica tra le cause e gli effetti, di certo è significativo cogliere come questa continua negoziazione tra spinte contrastanti sia il terreno fertile in cui l’opera viene a generarsi”. Una quindicina per l’appunto i lavori esposti, bidimensionali e plastici, che forniscono una grammatica vertiginosa che va dalla scultorea sfida verticale alla suggestione speculare per giungere fino alla sublime estetica del transeunte; essi dispiegano un percorso convincente, scrupoloso, che si offre in maniera fulminea e definitiva alla percezione del fruitore. L’opera degli otto artisti Duff, Fineschi, Infranco, Pinto, Prevedello, Quayola, Vázquez e Zanin è stata attentamente selezionata poiché, per vocazione e caratteri intrinseci, concreta i meccanismi di risposta agli input ed ai condizionamenti esterni e affonda la sua vocazione sostanziale nel compimento della consequenzialità azione-reazione. Serena Ribaudo Palazzo Cesare Marchesi, Venezia

NOTTURNO PIÚ

C

ome suggerisce il titolo, è stato il tema del notturno quello indagato nella collettiva promossa dalla Fondazione delle Arti Venezia, presentata dalla galleria The POOL NYC e curata da Giacinto di Pietran tonio che, in occasione della 58° Biennale di Venezia, ha visto l’alternarsi delle opere di trentuno artisti rispondenti ai nomi di: Mario Airò, Atelier Biagetti, Laura Baldassari, Bertozzi & Casoni, Michel Courtemanche, Meriella Bettineschi, Tommaso Binga, Stefano Cerio, CTRL ZAK, Eteri Chkadua, Jan Fabre, Patrick Jacobs, Ugo La Pietra, Lorenzo Marini, Maria Teresa Meloni, Alessandro Mendini, Aldo Mondino, Francesca Montinaro. Fabio Novembre, Maurizio Orrico, OVO, Paola Pivi, Sarah Revoltella, Jonathan Rider, Andrea Salvatori, Denis Santachiara, Federico Solmi, Giuseppe Stampone, Patrick Tuttofuoco, Vedovamazzei, Alice Visentin. Il Notturno, genere musicale, tema letterario, oggetto d’innumerevoli interpretazioni nell’ambito delle arti visive sin dall’antichità, è stato declinato in svariate versioni, a volte surreali, altre in forma fantastica ma sempre oggetto di visioni sognanti ed emotivamente spiazzanti. Particolari e di grande suggestione, facendo qualche esempio, sono stati i diorami di Patrick Jacobs, quasi inquietante la metamorfica evoluzione dell’insetto foglia di Jan Fabre, disarmante la dialettica conflittualità fra Occidente e Oriente proposta negli autoritratti di Eteri Chkadua dove, la figura femminile, oscillava fra opposti quasi indecifrabili e ancora, riflessiva l’installazione di Sarah Revoltella che affrontava il mutamento sociale della famiglia tradizionale. Il nesso con l’opera dannunziana, Notturno per l’appunto del 1916, riproposto fra le altre cose nella grafica dell’invito alla mostra dove, all’originaria immagine di Adolfo De Carolis sono stati sostituiti i nomi degli artisti, si è offerto qui e in particolar modo, in quella carica riflessiva e meditativa che per un breve periodo ha toccato l’anima del vate. Se nella prosa lirica del poeta per un attimo il superomismo appare valicato, nel comparativo Più che segue Notturno si riproponeva quale metafora finalizzata a declinare il naturale espandersi dei linguaggi del contemporaneo. Maria Letizia Paiato SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 23


Giardino di Palazzo Balbi Valier, Venezia

Jan FABRE

The Man who Measures the Clouds (Monument to the Measure of the Immeasurable)

È

imponente, è monumentale l’opera di arte pubblica, alta nove metri e rifinita in foglia d’oro, presentata dall’artista belga in laguna che, con L’uomo che misura l’immisurabile,

in questo caso le nuvole, installata sul tetto di Palazzo Balbi visibile dal Canal Grande, lancia subito un messaggio inequivocabile allo spettatore. L’opera, di grande poesia, tuttavia non è un inedito – ne esistono, infatti, altre versioni sparse nel mondo – ma a Venezia in particolare pare acquisire un significato più intenso. Nel suggerire metaforicamente una riflessione sulla condizione materiale dell’umanità, oltre che riferirsi a quella specifica dell’artista, Jan Fabre spinge tutto nella direzione di un dato spirituale perduto. Nel titolo fa, inoltre, il verso alla nota vicenda dell’ornitologo Robert Stroud quando, scarcerato da Alcatraz affermò che da quel momento in poi si sarebbe dedicato unicamente a «misurare le nuvole», proponendo in tal senso una riflessione sul tema della libertà. La figura, modellata sul corpo del fratello più giovane, Emiel Fabre, scomparso in tenera età richiama, inoltre, a una tensione emotiva personale che l’artista trasfigura nel campo di un’ipotetica misurazione fra la perfezione cui l’uomo aspira, e l’oggettiva se non inutile e pressante tendenza a volere valicare a tutti i costi i propri limiti, nel rischio di perdere consapevolezza di quel senso mistico e contemplativo necessario all’uomo. Un fatto quest’ultimo che guarda anche alla tradizione, nella fattispecie a quella della città di Venezia. Crocevia sin dalla sua fondazione di culture diverse e fortemente legata ad esperienze sia commerciali che religiose, Venezia si rintraccia nell’opera di Fabre anche e soprattutto nell’uso della foglia d’oro. L’installazione, infine, curata da Joanna de Vos, nasce dalla collaborazione di Angelos (Anversa, BE), EdM Productions e Foundation Linda and Guy Pieters (Saint-Tropez, FR). Maria Letizia Paiato

Fondazione Berengo Art Space, Murano (VE)

GLASSTRESS 2019

N

ato dalla mente di Adriano Berengo, dal 2009 a oggi e giunto alla sesta edizione, il progetto GLASSTRESS è diventato un appuntamento imperdibile di tutta la kermesse veneziana. Il vetro soffiato, oramai lo sappiamo, è il materiale protagonista della rassegna che, esplorato, indagato e rivisitato, oltre a figurare sinonimo dell’antica arte vetraria muranese, si fa oggetto, nelle mani degli artisti provenienti da tutto il mondo, di un potenziale creativo contemporaneo senza limiti. Per festeggiare i 10 anni di GLASSTRESS e i 30 anni di Berengo Studio, quest’anno la mostra torna sull’isola di Murano, con la curatela di Vik Muniz e Koen Vanmechelen, celebrando in tal senso e ancora di più lo stringente legame fra artisti di fama internazionale e maestri vetrai. Nella vecchia fornace di vetro dismessa e per l’occasione riorganizzata in spazio espositivo, incontriamo le installazioni e le opere di oltre cinquanta artisti dove, fra nuove presenze, artisti che ritornano e quelli dell’anniversario, se i nomi di Ai Weiwei, Tony Cragg, Carlos Garaicoa, Jan Fabre, Paul McCarthy, Hans Op de Beek, Tony Oursler, tanto per citarne alcuni, fungono certamente da cassa di risonanza per l’intera operazione, sono quelli degli italiani Andrea Salvador, Francesco Gennari, Antonio Riello e Monica Bonvicini – quest’ultima entrata con l’edizione corrente – a rappresentare l’arte di casa nostra. Fra le sezioni in vista spiccano quelle Vik Muniz, (Murrine), 2019 Murrine su foglio di vetro 140 x 100 cm Glasstress 2019

Carlos Garaicoa, Fragile Garden, 2019 Vetro, metallo. Dimensioni variabili (installazione) Glasstress 2019

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Sarah Revoltella, Polarizzazione, 2011


speciale

BIENNALE DI VENEZIA 2019 Ca’ Rezzonico, Venezia

Flavio FAVELLI Il bello inverso

L’

arte contemporanea ci ha da tempo abituati ad interventi in spazi inusuali, ad azioni site-specific e ad intromissioni in luoghi connotati dalla storia, ci ha allenato ad esperirla oltre il canonico concetto di white cube, rendendo prassi il dialogo con l’arte del passato che, nel nostro paese e ancora di più in una città come Venezia, è difficile ignorare. Certamente

Monica Bonvincini, In My Hand, 2019. Vetro, 15 x 35 x 25 cm, Glasstress 2019

non può farlo un artista come Flavio Favelli che, avvalendosi di medium diversi e muovendosi perlopiù nel contesto di quella che viene definita arte funzionale, un modo di fare arte in sostanza che rielabora dati e informazioni cercando di rendere visibile ciò che in teoria non lo è, e che offre di conseguenza nuovi livelli di comprensione del circostante, entrando a Ca’ Rezzonico riorganizza la propria personale percezione di bellezza, lasciando essa si rifletta in quella dello spazio che l’accoglie. Dialogare con un museo, come quello di Ca’ Rezzonico, per stessa ammissione dell’artista, è tutt’altro che facile. Parliamo, infatti, di un luogo la cui storia basterebbe a se stessa. Costruito per volontà della famiglia Bon, passato nelle mani di Giambattista Rezzonico alla metà del settecento, dopo svariati passaggi di proprietà nel 1935 è acquisito dalla città di Venezia che in breve lo trasforma nel più suggestivo museo d’ambiente italiano del settecento veneziano. Con i suoi affreschi, i suoi arredi e gli oggetti – parliamo tuttavia di una ricostruzione, essendo molti di questi provenienti da altri luoghi della città – Ca’ Rezzonico documenta il gusto della Venezia nobile dell’epoca e una particolare estetica alla quale, con grande eleganza e genialità, Favelli sovrappone la propria. Qui vi organizza un discorso che immediatamente si allontana da possibili rivisitazioni nostalgiche per collocarsi di converso nell’orbita di una sperimentazione dove, il linguaggio contemporaneo rende visibile ciò che pare sfuggente e incomprensibile allo sguardo dell’osservatore. Incontriamo dunque quindici opere inedite capaci di raccontare delle metastorie, oggetti che, esperita la mostra, riescono a diventare permanenti di un immaginario visivo collettivo, sicché da inserirsi in una sorta di continuo fluire degli stessi eventi che stratificano la storia. Vediamo quindi le pedane di legno calpestate dai passanti che hanno attraversato il ponte dell’Accademia, una stella rossa dal linguaggio pubblicitario, i lightbox con i loghi di Generali, Lacoste e Coca-Cola e gli stessi cancellati dalla pittura, la reinterpretazione dell’etichetta del famoso aperitivo veneziano Select proposto in forma stendardo, grate di ferro in quella di traliccio, motivi mimetici di navi da guerra, specchi graffiati, mobili ricomposti e vassoi silver plated, tabelle di latta, insegne e statue astratte. Va da sé pertanto che è nella stratificazione, nell’assemblaggio, nell’alterazione di forme e nella fattispecie qui in quella del segno-scritta-logo, che Favelli sibila una riorganizzazione visiva di forme e oggetti – in particolare quelli appartenenti all’ambito della comunicazione e della pubblicità – cui si associa, come da prassi per lui, la sua stessa biografia. Oggetti, in conclusione, che suggeriscono spunti per muoversi nel vivo del disegnarsi del tempo e delle sue prospettive future. La mostra, curata da Gabriella Belli, è parte del al progetto MUVE Contemporaneo Maria Letizia Paiato

Tony Cragg, The Bridge, 2019 Vetro 92x16x30 cm Glasstress 2019

dell’artista brasiliano Vik Muniz – qui in veste di curatore – che ha invitato una selezione di nuovi artisti ad esplorare “come il vetro cambi la nostra percezione dello spazio”, quella curata dal belga Koen Vanmechelen dove sono esposti alcuni dei lavori più importanti degli ultimi dieci anni realizzati per GLASSTRESS che, in forma di retrospettiva, ripercorre la sua stessa storia, e infine, quella impaginata da Jean Blanchaert con un progetto speciale dell’artista Robert Wilson. Ovviamente, nessuna precedente esperienza con il vetro appartiene agli artisti invitati, sicché il risultato della mostra è strepitosamente inatteso e sbalorditivo. Maria Letizia Paiato SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 25


Villa Paloma, Nouveau Musée National de Monaco, Montecarlo

Ettore, SPALLETTI

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ell’opera di Ettore Spalletti, della sua lunga carriera iniziata nel piccolo borgo di Cappelle sul Tavo in provincia di Pescara e lì dispiegatasi per tutta la vita, del suo proporsi fuori da quelle correnti di successo che hanno caratterizzato il secondo novecento, dall’Arte Povera o dalla Transavanguardia o da qualsiasi altra forma di gruppo, del suo essere “individuale” e “unico” nel panorama artistico italiano e internazionale per quel reiterare quasi ossessivo e manicale di costanti forme e volumi geometrici e di una color palette inconfondibile diventata la sua cifra qualitativa primaria, del suo guardare all’antico, infine, coniugando memorie tanto rinascimentali quanto primo novecentesche, la letteratura artistica ha da sempre elaborato pagine rilevanti, rendendo quasi arduo alla giovane critica aggiungere nuovi pensieri influenti e precisanti. Tuttavia, la mostra impaginata a Villa Paloma del NMNM e in questo momento in corso, offre alcuni spunti di riflessione sul lavoro dell’artista che rivelano dettagli tutt’altro che scontati. Particolari che, se già in precedenza quasi un lustro fa erano divenuti parte di un immaginario collettivo, grazie alla triplice retrospettiva Un giorno così bianco, così bianco, allestita al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al Museo Madre di Napoli, nel principato, per certi aspetti, si palesa un dato poetico che, seppure coerente alla sua indivisibile ricerca, traccia qualcosa di nuovo e del tutto inatteso. Curata da Cristiano Raimondi, Om-

bre d’azur, transparence porta in scena, pertanto, il combinarsi di opere inedite e storiche che, provenienti dal suo studio e da importanti collezioni private, si ritmano nel valorizzare la sacralità del luogo che le accoglie attraverso la loro stessa presenza, scartando, infine e nettamente, l’ipotesi di una ricostruzione cronologica che sarebbe apparsa fuorviante e pretestuosa. Ci spieghiamo meglio. Se prendiamo come punto di partenza per Spalletti i luoghi d’ispirazione della sua opera, pertanto il paesaggio abruzzese con le sue forme – si pensi alla Majella e alla leggenda della Bella Addormentata o mito di Maia e suo figlio Ermes – e alla sua luce e ai suoi colori, agli azzurri, ai grigi e ai rosa in particolare, non sfuggirà quanto l’opera dell’artista possa considerarsi nel tempo e sin dagli esordi un continuo sublimarsi di tali aspetti. Esiti che si offrono allo spettatore in una sintesi geometrica e monocroma solo in apparenza fredda e distante e che, a scanso di equivoci, lo diciamo subito, nulla hanno a che fare con moventi concettuali di matrice minimale se non, per l’appunto, in una resa formale riassuntiva. Volendo penetrare veramente l’opera di Spalletti ci si potrà abbandonare in un grande e affettuoso abbraccio che l’intero suo lavoro simula, interrompendo qualsiasi schema contemporaneo che ci vuole affannosamente ragionieri del tempo e della geografia. In tal senso, Ombre d’azur, transparence si propone nella sua genesi come una mostra priva di confini dove, come si accen-

In questa pagina e nella colonna a destra: vedute dell’esposizione Ettore Spalletti Ombre d’azur, transparence courtesy Nouveau Musée National de Monaco – Villa Paloma, 18.04-03.11.2019. Photo : Werner Hannappel, VG-Bildkunst Bonn 2019

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Tutto Conta Una conversazione con la regista e autrice Alessandra Galletta su “Ettore Spalletti” il documentario sulla vita privata e professionale dell’artista presentato in anteprima al Nouveau Musée National de Monaco e che debutta in Italia allo Schermo dell’Arte Film Festival di Firenze il prossimo novembre nava pocanzi, quella sublimazione di elementi appartenenti alla cultura stessa dell’artista, rimbalzano a Montecarlo incontrando tanto la specificità del museo, quanto quell’orizzonte che si staglia attraverso i pertugi delle finestre e che svela un territorio capace di restituire la medesima poesia ricercata nella sua terra natia. Ancora, riflettendo sul concetto di classico – parola criticamente ricorrente in relazione ai prestiti del passato cui ricorre concettualmente e spesso Spalletti – può essere chiarificatore, ad esempio, il pensiero di Salvatore Settis quando afferma: “classico” è di per sé un concetto statico, in quanto designa un periodo storico per definizione concluso; esso tuttavia non ha senso e non diviene operativo senza un meccanismo dinamico di nostalgia o di iterazione, senza una qualche pulsione ora verso il ritorno al “classico”, ora verso il suo superamento (S. Settis, Il Futuro del Classico, Einaudi 2004, p.18). Seguendo questa traccia si potrebbe pertanto affermare come la manifesta staticità nell’opera di Spalletti, si giochi ancora una volta nella sola orbita delle apparenze, definendosi invece e al contrario, proprio quale input che, attraverso la ripetizione e l’originarsi di atmosfere melanconiche e metafisiche, valica il presente spingendosi verso un oltre. Riassumendo, quando nelle sue opere scorgiamo dettagli che assumono i contorni di memorie artistiche culturali, siano essi particolari architettonici, rimembranti l’urbanistica italiana ed europea, proposti nella sintesi del cilindro, del cubo, del parallelepipedo o nella forma del quadro, o cromie riconducibili a Beato Angelico, Piero Della Francesca, Raffaello (più consono anche in tale frangente parlare di cultura europea oltre che italiana), o atmosfere affrancabili a quelle ricercate da un Giorgio De Chirico o un Giorgio Morandi e in seguito da un Lucio Fontana per fare degli esempi, non stiamo parlando di banali citazioni ma di un “sistema di valori che - prendendo a prestito ancora una volta le parole di Settis - rimette in gioco la varietà e la complessità dell’esperienza storica”. Precetti che riguardano anche i materiali utilizzati, prettamente coerenti con questo discorso, oltre ai titoli stessi dati alle opere che aiutano l’osservatore a predisporre il proprio animo verso una condizione il quanto più possibile spirituale. Si vedano, per fare qualche esempio, opere come Grigio verso l’azzurro, paesaggio del 2018, caratterizzata dalla presenza della foglia oro, per poi balzare a Eludere i sogni del 2016 dove incontriamo l’alabastro – largamente sfruttato nell’antichità – quale materia cangiante tanto trasparente quanto opaca. Ancora, si veda Colonna persa, bianco, opera del 2000 sicché da tornare indietro nel tempo produttivo dell’artista o la recentissima serie di Dittico, oro realizzata nel 2019. Infine, continuando a citare qualche opera emblematica, valgano per quel che attiene più pertinentemente il tema del paesaggio, gli esempi di Oltremare chiaro e Paesaggio, rosa, estate entrambe del 2018, Il colore e l’oro, azzurro verso il cobalto del 2016 cui fa da sponda Paesaggio, favola, 1990 storico lavoro composto da quattro elementi indivisibili. In questo percorso di mostra, incontriamo infine, l’inedito docu-film dedicato a Ettore Spalletti e scritto e diretto da Alessandra Galletta che, realizzato con il contributo del NMNM Nouveau Musée National de Monaco, Montecarlo, vede proprio qui lo svelarsi per la prima volta della realtà quotidiana dell’artista – metodica e contemplativa –, nei suoi luoghi – Pescara, la casa a Spoltore, lo studio a Cappelle sul Tavo attraverso la narrazione per immagini insieme a voci diverse tra le quali quella dello storico dell’arte Germano Celant, il padre gesuita Andrea Dall’Asta, il direttore Marian Goodman Gallery Andrew Leslie Heyward, le galleriste Lia Rumma, la nipote Benedetta Spalletti, la moglie Patrizia Leonelli e l’assistente Azzurra Ricci. Maria Letizia Paiato

D

opo un decennio di attività come curatore e organizzatore di mostre, Alessandra Galletta affianca all’attività di critico d’arte quella di autore televisivo per le reti Mediaset, Sky e Rai. Scrive e realizza servizi dal mondo dell’arte e si specializza via via in documentari sull’arte come speciali sulle Biennali sia di Arte che di Architettura di Venezia, le Biennali di Istanbul e Shanghai oltre a monografie di attori, architetti e artisti di fama internazionale. Nel 2005 apre a Milano la sua casa di produzione LaGalla23 productions con la quale realizza film documentari sull’arte per il mercato televisivo internazionale. Una figura originale nel mondo dell’arte capace di coniugare la narrazione per immagini delle più importanti figure della scena dell’arte contemporanea con un linguaggio attento, puntuale e mai banale. Tra le sue realizzazioni recenti, il documentario “Ossessione Vezzoli” (2015) sul celebre artista bresciano Francesco Vezzoli (prodotto da Vulcano \ Unità di produzione contemporanea) mentre con LaGalla23 produce il documentario “Ettore Spalletti.” (2019) sul grande artista italiano e presentato in anteprima contestualmente alla sua personale al Nouveau Musée National de Monaco, “Ettore Spalletti - Ombre d’azur, transparence”, a cura di Cristiano Raimondi. La prima italiana del film è annunciata nel programma de Lo Schermo dell’Arte Film Festival di Firenze il prossimo novembre 2019.

*** Maria Letizia Paiato. Hai iniziato la tua vita professionale come critico e curatore d’arte, specializzandoti via via nel documentario d’arte. Quali differenze tra queste diverse ma affini attività? Alessandra Galletta La mia esperienza nel mondo dell’arte, anzi la mia passione incondizionata per l’arte, è sempre stata governata dalle parole; è attraverso la scrittura degli altri che ne ho appreso il significato profondo, e come curatore è stato naturale dare inizio a qualsiasi progetto curatoriale con un testo, con un titolo, con la scrittura di un concetto. Nella produzione video non è diverso, e ogni immagine, prima di essere realizzata, filmata e montata, é scritta. Quindi direi che non c’è per me molta differenza tra le due attività perché prima di tutto viene sempre la scrittura. MLP. Si può fare critica d’arte anche attraverso il video? AG Nel mondo dell’arte vengo identificata come autore di vi-

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Tutte le immagini dell’intervista: Ettore Spalletti (2019) Still dal film documentario, courtesy LaGalla23 Productions

deo, e nel mondo della produzione sono considerata come una ‘specializzata’ in arte, quindi sono in entrambi i casi una figura professionale difficilmente collocabile. Per me l’importante é riuscire a comunicare, ad un pubblico più ampio possibile, quanto importante, facile ed entusiasmante sia conoscere e capire l’arte e gli artisti contemporanei. Lo faccio ogni volta che posso, nel migliore modo che posso, utilizzando ogni occasione possibile. MLP. Come nasce un tuo progetto documentario d’arte e come scegli gli artisti cui dedicare un lungometraggio? AG Fortunatamente ci sono moltissimi artisti di cui vale la pena raccontare la vita privata e professionale, e se fosse per me non farei altro che questo, ma un progetto documentario richiede circa tre anni di intenso lavoro. Non essendo la vita lunga abbastanza per realizzare tutti i documentari che vorrei, sono costretta a scegliere tra gli artisti che sento più vicini anche geograficamente. Mi sento molto più sicura nel raccontare un’ arte che riguardi per certi versi anche la mia vita, per una condivisione di ambiente culturale e di formazione, e forse di paesaggio. Non è una regola naturalmente, ma credo che se come autore hai a che fare con artisti del tuo territorio il progetto abbia maggiori possibilità di essere ben espresso e quindi ben compreso. Un secondo criterio che guida le mie scelte, è forse quello più ambizioso ed incosciente, di credere che il mio video possa fornire elementi utili alla comprensione di opere altrimenti considerate inaccessibili dal grande pubblico. Il progetto di una monografia nasce quando credo che qualcosa non sia ancora stato detto, o non abbastanza chiaramente. MLP. Tre anni sono un tempo piuttosto lungo, quali sono le fasi di lavorazione che lo scandiscono per realizzare un film documentario? AG Ogni progetto è diverso, quindi non esistono regole – magari! - ma in generale il primo anno passa come detto nella scrittura di un progetto abbastanza completo, competente e credibile da essere sottoposto all’artista con la speranza di ottenere la sua approvazione. Questa fase é tanto delicata quanto fondamentale a far sì che il progetto parta davvero. Lavorando assolutamente in assenza di supporti di invenzione come ad esempio un voice over, parti ricostruite o di fiction, é necessario avere la totale collaborazione dell’artista e la sua adesione al senso del film, perché quando gli chiedo di poter fare un film su di lui, gli chiedo di fatto la sua vita, il suo tempo, i suoi spazi e le sue opere. Non é poco, soprattutto se si considera che in questo tempo deve contemporaneamente svolgere le sue già impegnative attività di progettazione, studio e di allestimento di mostre in giro per il mondo. L’anno successivo passa nella realizzazione del girato più adatto 28 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

stero che accompagna la sua opera. Come hai creato questa connessione fra l’uomo, l’artista, e i luoghi del suo lavoro? AG In questo documentario non ho inventato assolutamente nulla e ogni singola immagine di questo film è la semplice, naturale conseguenza delle giornate di trasferta in Abruzzo insieme a lui. È Ettore Spalletti e tutta la sua opera ad essere connessa con il paesaggio, con la sua casa, con la sua voce, con la sua vita, e con il vento che sposta le nuvole nel suo cielo. Il film racconta il suo tempo, il suo sguardo e le sue giornate, che la presenza discreta della mia troupe ha cercato di non alterare, o di farlo il meno possibile. Alla presenza di Ettore Spalletti tutto l’intorno si ‘spallettizza’ completamente e come lui dà importanza ad ogni parola e ad ogni silenzio, così ha fatto il film. MLP. Nel film vediamo Ettore Spalletti compiere dei gesti precisi, quasi dei rituali e parla di un abbraccio che i suoi lavori, i suoi colori poco alla volta sembrano compiere verso chi si trova sbigottito di fronte ad essi. Pare che tu accolga questa filosofia accompagnando la visione con inquadrature che per strati si aprono e si chiudono su spazi esterni e interni, tra le architetture benedettine d’Abruzzo e lo studio dell’artista, lasciando che l’occhio si posi su dettagli tutt’altro che marginali. Hai concepito il film pensando a un’apertura visiva che ‘abbracciasse’ lo spettatore? Che valore ha per te questa definizione di abbraccio?

e vero che riesco a registrare, e poi é necessario un altro anno per la post-produzione che é fatta di montaggio, musiche, grafiche... un lavoro in team con tanti professionisti. MLP. Cosa ti ha spinto a pensare a un racconto su Ettore Spalletti? AG Amo l’opera di Ettore Spalletti dal primo incontro con il suo lavoro. E’ un artista che mi ha donato come semplice spettatrice così tanti pensieri, intuizioni ed emozioni che io per prima ho voluto capire da dove venissero le sue immagini, e in quale parte dell’universo venissero concepite e realizzate. Quando ho avuto l’occasione, grazie alla mediazione del critico Giacinto di Pietrantonio di visitare il suo studio, ho sentito che tanta meraviglia doveva essere sperimentata anche dagli altri, da tutti quelli che non possono andare fisicamente a Cappelle sul Tavo, dove si trova il suo studio, un piccolissimo paese in provincia di Pescara. MLP. Il film si apre sul paesaggio abruzzese immenso e una ripresa di Ettore Spalletti da lontano che suggerisce sconfinatezza, solitudine e isolamento, enfatizzando quell’alone di mi-

AG Sì, come fai notare ‘abbraccio’ e ‘accoglienza’ sono tra i concetti ricorrenti nel film, perché credo che una precisa ma affettuosa intenzione di accoglienza sia sempre presente in ogni sua opera, nei marmi, come negli alabastri, nelle colonne, come nelle stanze e certamente nel suo studio che é non solo il suo luogo di lavoro ma anche la sua casa mentale, il suo spazio filosofico. Io stessa mi sono sentita accolta nel suo mondo e questo privilegio ha reso possibile il mio racconto. MLP. Ci sono nel film scene molto private che mostrano Ettore Spalletti mentre prepara la tavola per il pranzo e, in un modo molto simile, la sua assistente Azzurra Ricci che predispone il piano di lavoro nello studio. Quanto hanno pesato queste loro ritualità quotidiane nel tuo progetto? AG Grazie all’incredibile coincidenza del suo immaginario con il suo quotidiano, ho potuto montare due anni di girato senza alcuna difficoltà perché semplicemente ogni sequenza ‘funzionava’ con la successiva anche se una era tratta dalla sua vita privata e l’altra magari girata in una chiesa, o in una sua mostra personale parigina, o in un negozio di fiori... Ettore dice spesso che il tempo lineare per lui non ha così grande importanza, e infatti non gli piace datare le sue opere perché le considera tutte compresenti nel tempo. È stato proprio così anche mentre costruivo il film anzi direi che il film dimostra la verità e forse l’evidenza di questo suo modo di vivere e di lavorare. MLP. Il film propone riprese molto ravvicinate alle opere, spesso la telecamera percorre gli spazi tra le tavole, tra le colonne, le fessure i bordi e le loro ombre fino a diventare a tutto schermo, quasi delle nuove geometrie della sua opera. Delle ‘fessure’ metaforiche, degli spiragli sull’opera di questo grande artista suggerite dal film? AG Inizialmente ad Ettore Spalletti non piaceva tanto l’idea che nel film ci fossero riprese ravvicinate delle sue opere, credo temesse che si sarebbe perso un aspetto fondamentale del suo lavoro ovvero la precisione - sicuramente emotiva ma anche scientifica - della sua installazione nello spazio. Ettore Spalletti é decisamente un perfezionista e progetta al dettaglio il rapporto tra spazio materia luce colore in ogni singolo progetto. L’opera diventa ‘viva’ proprio grazie ad un equilibrio perfetto tra questi elementi, che si completano con il variare della luce e naturalmente con l’esperienza dello spettatore che le attraversa. Movimenti inaspettati della telecamera lungo bordi fessure ombre spessori e riverberi ravvicinati del suo lavoro forse lo preoccupavano, ma con la complicità e il coraggio del giovane videomaker Andrea Giannone, abbiamo un po’ forzato la mano, e con l’intento di raccontare il percorso dello sguardo dello spettatore nei particolari delle sue opere, lo abbiamo ripetuto in ripresa, ottenendo immagini forse nuove di riproduzione del suo lavoro. Alla fine il maestro non solo ha approvato questo sguardo, ma lo ha egli stesso adottato successivamente per una magnifica SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 29


pubblicazione fatta proprio e solamente di dettagli strettissimi ed intensi della sua opera, senza necessità di alcun testo. Quei dettagli forse esprimevano abbastanza del tutto anche per lui, che ha spesso definito il suo un lavoro ‘in-fotografabile’. MLP. La luce è elemento centrale dell’opera di Spalletti e in un certo senso lo è anche del tuo film. In alcune immagini la luce entra dirompente nello studio, in altre rivela affreschi dislocati in straordinarie abbazie abruzzesi o complessi scultorei, poi il film ci porta a fare il giro d’Europa in vari musei e gallerie, fino a Monaco dove ora c’è la sua mostra, e solo alla fine conduce nella straordinaria Cappella di Villa Serena a Città Sant’Angelo (PE) realizzata con la moglie Patrizia Leonelli dove, finalmente, è chiaro il senso di sacralità che accompagna l’arte di Spalletti. Si può affermare che tramite la luce hai organizzato l’ordine della tua narrazione? AG Fare questo documentario ha certamente arricchito la mia esperienza anche come documentarista, perché se già normalmente la luce è un tema fondamentale di ogni film, nel caso di un documentario su Spalletti può diventare veramente una sfida. Le prime riprese nella ‘stanza’ completamente bianca mi hanno inizialmente un po’ scoraggiata, perché in ripresa non si vedeva quasi niente... e poi, come restituire alla sola visione quell’effetto avvolgente del colore che si polverizza sulla superficie, poi nell’aria, poi nella retina fino a respirarlo? Mi hanno

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aiutato alcuni alleati: la qualità del 4k che offre un’alta definizione e nitidezza dell’immagine, la magia del time lapse che concentra in una manciata di secondi l’esperienza di un giorno intero nello studio di Spalletti e il suo infinito variare della luce che tutto trasforma, e anche un po’ di fortuna, perché proprio durante la lavorazione del film si succedevano le tante fasi del lungo progetto della Cappella di Villa Serena, la collaborazione quasi rinascimentale tra artista e architetto (la moglie Patrizia Leonelli) nel reinventare un luogo sacro, dove la luce è tutto. MLP. Hai prodotto documentari d’arte per la tv quindi per un pubblico non specializzato ma oggi il film è esposto proprio nel mezzo del percorso espositivo della importante personale di Spalletti al Nouveau Musée National de Monaco. A tuo parere, con un raffronto così diretto alla presenza fisica delle opere originali il film acquisisce un valore differente? E viceversa le opere di Spalletti cosa guadagnano o cosa cedono nella vicinanza così stretta del film? Come vedi la relazione fra opera, docufilm e spazio museale? AG Credo che ogni documentarista d’arte debba affrontare a suo modo la grande sfida della restituzione in video di opere originali, e non è mai un compito facile. Per fare un parallelo con la fiction, è un po’ come quando devi realizzare un film tratto da un romanzo: il romanzo - e quindi la scrittura sulla pagina - è già la forma perfetta di quell’opera quindi se arrivi tu e la


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

vuoi tradurre in un linguaggio completamente diverso, sei un po’ un presuntuoso e anche un intruso infatti spesso ti becchi un meritato “era meglio il libro”! In questo caso il film è iniziato contemporaneamente al progetto della magnifica mostra “Ettore Spalletti - Ombre d’azur, transparence” nella sede di villa Paloma al Nouveau Musée National de Monaco e questa felice coincidenza ha creato un’armonia tra i due progetti, una specie di denominatore comune tra la mostra e il film che infatti è terminato appena prima dell’inaugurazione. Cristiano Raimondi, il curatore della mostra ha così deciso di ‘esporre’ anche il film insieme al succedersi delle sale che sono una più emozionante dell’altra... e credo che anche il pubblico abbia potuto apprezzare un approfondimento delle opere esposte. È un po’ come se l’artista ti raccontasse di persona il lavoro che stai guardando, e le ragioni profonde che lo hanno generato insieme ai luoghi che lo hanno ispirato. Una visita guidata decisamente... per privilegiati! Detto questo ovviamente non c’è gara, anche qui è decisamente “meglio il libro”! MLP. Quanto è stato ‘artista’ Ettore nel tuo lavoro? E cosa sai oggi di lui che non sapevi prima? AG Ettore è un artista di prima grandezza sempre e si può imparare da lui anche quando tace. Oggi so tante cose che non sapevo prima non solo di lui ma della vita. Ettore mi ha insegnato che tutto conta, dall’universo

a una carezza, e che il tempo non esiste. Gli sarò per sempre grata di avermi accolta nel suo mondo e spero di essere degna dei suoi insegnamenti. MLP. Mi puoi svelare quali sono i tuoi progetti venturi? Ma, soprattutto, c’è un artista di cui desidereresti “abbracciare” il lavoro? AG In questi mesi sto realizzando con il critico e filosofo Marco Senaldi “Genio e Sregolatezza”, un nuovo format in quattro puntate per Rai Storia che ha per sottotitolo 50 anni di Storia d’Italia vista dagli artisti dal 1950 al 2000, in onda da novembre 2019. Un mix di interviste a storici, critici, sociologi, fotografi, galleristi, artisti e una ricca selezione dagli archivi italiani; dei musei di arte contemporanea come il Centro Pecci di Prato che ha appena celebrato il suo trentennale, della Biennale di Venezia – ASAC, degli archivi privati degli artisti e naturalmente degli archivi Rai, che come dice Francesco Vezzoli sono “il nostro Beaubourg”. Un esperimento ambizioso per raccontare la storia e l’arte contemporanea del nostro Paese. La prossima monografia d’artista invece è “in viaggio” , perché come ho imparato da Ettore Spalletti, ogni cosa ha il suo preciso momento. Basta saperlo riconoscere ed essere pronti al suo arrivo. Quando arriverà mi ri-intervisterai? MLP. Non vedo l’ora sia quel momento.n Tutte le immagini dell’intervista: Ettore Spalletti (2019) Still dal film documentario, courtesy LaGalla23 Productions

SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 31


Pier Paolo Calzolari, Mangiafuoco, 1979 (Collezione privata Foto © Michele Alberto Sereni)

Museo Madre, Napoli

Pier Paolo CALZOLARI

R

etrospettiva con il titolo Painting as a Butterfly, per un progetto espositivo, a cura di Achille Bonito Oliva e Andrea Villani, che rappresenta la prima mostra di Calzolari in uno spazio pubblico nella città partenopea dopo più di quarant’anni; l’ultimo appuntamento istituzionale risale, infatti, al 1977, quando il maestro emiliano espose presso Villa Pignatelli. L’operazione, coordinata dalla Fondazione Donnaregina e dalla Fondazione Calzolari, ricostruisce la carriera dell’artista bolognese segnata da varie ricerche che vanno dall’Arte Povera all’Arte Concettuale, dalla Transavanguardia alle sperimentazioni più recenti. Il titolo della mostra, Painting as a Butterfly, prende spunto da alcune affermazioni dello stesso Calzolari dichiarate in una intervista inedita pubblicata sul catalogo della mostra: la pittura è uno «strumento di ascolto», uno stato di «sospensione» in grado di portare a una sintesi le molteplici articolazioni della sua ricerca, al contempo minimalista e sensuale, concettuale e

barocca. La pittura di Calzolari, quindi, come metafora del volo di una farfalla dove il volteggiare e la combinazione tonale dei colori delle ali dell’insetto sintetizzano il gesto del pittore: a volte lineare e rigoroso, a volte sinuoso e coinvolgente, e a volte vorticoso e ridondante. Ma questa delicatezza “del fare” di Calzolari giunge sicuramente dall’esperienza giovanile nella città di Venezia; periodo di vita che ha particolarmente influito sulla sua prima produzione artistica, in cui è riscontrabile quella padronanza nel saper riprodurre gli effetti luministici e i riflessi della luce sulle superfici grazie all’uso di materiali quali il ghiaccio, scelto per dare «rappresentazione diretta del bianco perfetto che può esistere solo in natura», il fuoco, il sale, il piombo, il legno combusto, il neon e il feltro. Meno note, ma comunque molto interessanti, anche le opere che si muovono sulla relazione tra forma, colore, oggetto e ambiente; una produzione pensata anche come richiamo alle sperimentazioni dei valori plastici novecenteschi che hanno fortemente segnato il percorso di molti artisti contemporanei. Nei dipinti di Calzolari è possibile, infatti, rintracciare il confronto tra elementi e concetti che solo in apparenza appaiono antitetici,

Pier Paolo Calzolari, La Grande Cuisine, 1985 (Collezione privata Lisbona Foto © Michele Alberto Sereni)

32 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pier Paolo Calzolari, Pittura C [Telero], 1986 e (a destra) Senza Titolo, 1970-2014 (Collezione privata Lisbona Foto © Michele Alberto Sereni)

ma che invece sono espressione di un linguaggio artistico intriso di materie naturali, rappresentazione pittorica, astrazione, dimensione visuale, performance e del rapporto spazio-tempo che l’artista si diverte e riplasmare e rielaborare. La mostra prende avvio dal terzo piano del Museo pensato come una vera e propria “camera della pittura”. Qui lo spettatore si trova completamente immerso nella ricerca pittorica dell’artista con opere della fine degli anni Sessanta (Prolegomeni per una definizione dell’atteggiamento, 1965, Quadro per Ginestra, 1966) che omaggiano il New Dada e la Pop Art americana. Il percorso prosegue con opere degli anni ’70 con gamme cromatiche prime simboliche e poi sempre più impressionistiche (Senza titolo, 1965, Lago del cuore [Lanciforme], 1968, Finestra, 1978) giungendo al lavoro La luna del 1980, in cui un cielo notturno fa da sfondo a un tavolino su cui poggia una caffettiera. Nella sala centrale del terzo piano troviamo le opere prodotte durante gli anni ‘80, periodo storico in cui Calzolari sperimenta la componente più istintiva della sua ricerca, rappresentata da una pittura decisamente più materica e per certi versi vicina alla matrice della Transavanguardia (La Grande Cuisine, 1985-86 e Veste Urbinate, 1986-1999). Al secondo piano, invece,

lo spazio è contaminato con le opere Omaggio a Fontana (1988), Hommage (2001), Valori Plastici C e Donald Duck (2005), «quasi un’ironica ipotesi di pala d’altare che trascende la Pop Art a soggetto fumettistico». La sala si completa con lavori in cui l’artista si riappropria di tecniche pittoriche antiche (la pittura al latte o alla chiara d’uovo) applicate a soggetti e momenti fondanti della sensibilità moderna. Infine, al piano terra protagonista assoluta è l’opera-performance Mangiafuoco (1979), in cui la pittura dialoga con la mutazione e la vitalità della materia. Di tutto il progetto espositivo si apprezza moltissimo l’allestimento che riesce a porre l’osservatore nella condizione di avere un rapporto privilegiato con le opere esposte: nonostante le grandi dimensioni di alcuni lavori nelle sale del Museo MADRE si respira un forte clima di intimità e riservatezza. Da segnalare anche il tentativo di dialogo tra forme artistiche molto lontane tra loro come l’Arte Povera e la Transavanguardia: due linguaggi artistici e due modi di concepire il processo estetico davvero lontani, ma che pongono Calzolari nella condizione di essere un interessante “artista cerniera”. Ivan D’Alberto

Pier Paolo Calzolari, Senza Titolo, 2014-2015 (Collezione privata Lisbona Foto © Michele Alberto Sereni)

SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 33


Fabrizio Plessi, Il segreto del tempo ©SSABAP (photo courtesy F. Caricchia)

Terme di Caracalla, Roma

Fabrizio PLESSI

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oma è la località scelta da Fabrizio Plessi (Reggio Emilia, 1940 – vive e lavora tra Venezia e Palma di Maiorca) per presentare il suo ultimo progetto “Il segreto del tempo” allestito presso i sotterranei delle Terme di Caracalla. Un’immersivo e spettacolare percorso da lui ideato negli ambienti del caldarium, cuore tecnologico dell’antico sito romano, dove è custodito l’impianto propulsore del complesso termale severiano. Dopo la sua opera “Roma” (1987), che ha contribuito al successo del maestro a livello internazionale grazie anche alla sua partecipazione a Documenta 8 di Kassel, e “Mediterraneo” (2000), lavoro eseguito presso i Mercati di Traiano, Plessi torna a confrontarsi con la vestigia e la storia della città eterna grazie a quest’installazione site specific in cui l’archeologia si confronta nuovamente e direttamente con i temi a lui cari: gli elementi primordiali. L’esposizione, a cura di Alberto Fiz e promossa dalla Sovrintendenza Speciale di Roma Archeologia Belle Arti del Paesaggio, si apre con un grande schermo immesso in una scenografia composta da imponenti capitelli. Qui, al cospetto dello spettatore, si offre, sfogliandosi, un libro digitale: catalogo virtuale e summa dei lavori prodotti, fino ad oggi, durante tutta la sua carriera artistica. La mostra prosegue negli occulti e bui cunicoli, per la prima volta svelati al pubblico e aperti dopo un anno di lavori di restauro e consolidamento, per dar origine ad un nuovo rapporto tra la rinascita delle Terme e l’arte contemporanea. Relazione, questa, che ben si risolve grazie all’armonioso nesso instauratasi tra le grandi videoinstallazioni dell’artista emiliano e la vastità della location ospitante. Qui, dodici complesse strutture a forma di arco romano si susseguono per oltre 200 metri riproducendo un video in loop davanti al quale il visitatore rimane estasiato per via dell’avvicendarsi di vari scenari sapientemente concepiti da uno dei pionieri della videoarte in Italia. Contraddistinta da un flusso inarrestabile di acqua, fuoco, lampi, vento, anfore, colonne, mosaici e omaggi vari – all’imperatore Caracalla, fautore del sito, e a Giambattista Piranesi, autore che a metà del Settecento contribuì alla riscoperta del paesaggio archeologico – l’opera di Plessi fonde le sostanze essenziali, da cui ha avuto origine la vita sulla Terra, e le entità che hanno caratterizzato la civiltà romana dalla sua genesi all’età odierna. In questo vortice senza soluzione di continuità “Il segreto del tempo”, accompagnato dalle musiche di Michel Nyman ed immesso in un ambiente ai più inesplorato, accompagna il fruitore in un viaggio tra periodi storici irripetibili per dar luogo ad un’opera d’arte totale, wagneriana, ove suono, architettura, scultura e tecnologia convivono allargando lo spettro della nostra visione. Maila Buglioni

34 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019

Fabrizio Plessi, Il segreto del tempo ©SSABAP (photo courtesy F. Caricchia)

Fabrizio Plessi, Il segreto del tempo ©SSABAP (photo courtesy E. Giovinazzo)


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

MAXXI, Roma

Maria LAI

F

ili colorati, sottili o spessi, adornano molteplici materie – da stoffe a supporti cartacei – per tessere una ricerca artistica poetica imperniata su concetti primordiali ove il gioco ne è il fulcro generatore. «Giocavo con grande serietà e a un certo punto i miei giochi li hanno chiamati arte» affermava Maria Lai (Ulassai, 1919- Cardedu, 2013), artista anticipatrice di pratiche e idee che saranno sviluppate solo successivamente. A lei il MAXXI di Roma dedica la retrospettiva “Tenendo per mano il sole” incentrata sulle opere che creò dagli anni Settanta in poi ovvero quando ricominciò ad esporre dopo un periodo di assenza dalla scena pubblica e artistica. Sono, infatti, tali lavori a palesare quelle istanze che l’hanno resa una creativa estremamente attuale e centrale nel panorama della recente storia dell’arte. A cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigi Lonardealli, la mostra è realizzata in collaborazione con Archivio Maria Lai e Fondazione Stazione dell’Arte, con il patrocinio del Comune di Ulassai e il sostegno di Fondazione Sardegna. L’esposizione si snoda attraverso cinque sezioni che prendono il nome da citazioni o titoli di opere mentre i sottotitoli descrivono le modalità tipiche della sua indagine. Il tutto accompagnato da video inediti in cui la voce dell’artista narra la sua esperienza decennale. Nei lunghi corridoi dell’avveniristica sede progettata da Zaha Hadid lo spettatore si addentra in un percorso composto da ben oltre 200 lavori – tra cui Libri cuciti, sculture, Geografie, opere pubbliche ed i celebri Telai – che documentano l’evoluzione e la prassi creativa di Maria Lai mettendo a nudo il suo interesse per la poesia, il linguaggio e la parola. Tenendo per mano il sole è, inoltre, il titolo della sua prima fiaba cucita realizzata e contenente le premesse della vocazione pedagogica racchiusa in tutte le sue opere. Tele cucite e Telai svelano i primi allontanamenti dalla pittura grazie all’impiego di oggetti del quotidiano legati all’artigianato sardo e privati della loro originaria funzione per dar luogo a straordinarie creazioni. Mentre il filo diviene anche metafora dell’idea di trasmissione e comunicazione: strumento e idioma capace di modificare la nostra lettura del mondo svelando un’attitudine derivante dal suo essere un insegnante. Inclinazione, questa, che ritorna nelle opere in cui il gioco acquisisce un ruolo fondamentale in quanto mezzo per conoscere sé stessi, per imparare a relazionarsi con l’altro anche in età adulta. Summa di tutta la sua prassi artistica sono i suoi interventi partecipativi come “Legarsi alla montagna” (1981), considerato primo episodio di Arte relazionale in Italia nonché azione che coinvolse tutta la popolazione di Ulassai. Convinta del potere salvifico dell’Arte, unico conciliatore tra membri di una stessa società, e delle eccezionali possibilità relazionali insite nel tema del gioco, Maria Lai è stata una delle maggiori artiste della sua generazione nonché una delle donne che hanno traghettato la civiltà attuale verso il terzo millennio contribuendo a porre i germi per una profonda trasformazione socio-culturale che viene fatta rivivere attraverso questa retrospettiva. Maila Buglioni

Maria Lai, Tenendo per mano il sole (courtesy Museo MAXXI, Roma)

Maria Lai, L’albero del miele amaro (courtesy Museo MAXXI, Roma)

Maria Lai, Senza titolo (courtesy Museo MAXXI, Roma)

Maria Lai, Fiabe Intrecciate, La stazione dell’arte, Ulassai

SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 35


Galleria Lia Rumma, Milano

CLEGG & GUTTMANN

U

n percorso profondo e articolato, alla ricerca delle radici che hanno contribuito alla formazione dell’identità della società contemporanea, è quello pensato da Michael Clegg (1957) e Martin Guttmann (1957) messo in scena nelle sale espositive della Galleria Lia Rumma di Milano. L’intento del duo di artisti è ricostruire in maniera tanto storica quanto emozionale il contesto del Modernismo in Italia, caratterizzato da periodi di scoperte scientifiche e speculazioni filosofiche, cambiamenti sociali e politici e da un forte sviluppo industriale. È così che, al piano terra, si evidenzia in particolar modo il ruolo critico che questo progetto di studio sociologico assume: sette environments – completamente comunicanti – composti da arredi, immagini fotografiche, proiezioni in bianco e nero, opere d’arte e installazioni sonore, ripropongono un “archivio storico” di alcuni dei personaggi che hanno lasciato un segno nel Modernismo italiano – tra gli altri il pittore Giovanni Segantini, il futurista Luigi Russolo, gli scrittori Giovanni Papini e Italo Svevo, il matematico Bruno de Finetti e l’anarchica Louise Michel – con cui si ricreano situazioni storiche e focus tematici con lo scopo di attivare la visione dello spettatore per pensare criticamente lo spazio dell’esposizione, attraverso la costruzione di un sistema radiale attorno ad essi all’interno del quale praticare l’esercizio della memoria, partendo dal presupposto che essendo essa è un particolare insieme di correlazioni

Clegg-Guttmann, Studiolo Landscape 4, 2007, Printed on Kodak Supra Endura paper, Plexiglas Laminated with an MDF support frame 95x118x4, Edition 1 of 3

spazio-temporali e non può esistere senza contesto. Ha inizio così un viaggio nel tempo e nello spazio che riporta lo spettatore alla contemporaneità, con la serie di ritratti fotografici di collezionisti italiani esposti al primo piano della galleria, in cui l’uso inedito del mezzo fotografico di Clegg&Guttmann propone ambientazioni connotate da una fonte di luce laterale, quasi caravaggesca, nelle quali i soggetti si impongono con autorità e ieraticità. Al secondo piano delle immagini di “nature morte” fanno da anticamera ad una video-proiezione – realizzata nel 2006 – relativa al movimento della Secessione viennese, figlia dell’esperienza modernista in Austria. La mostra ,dunque, è da intendere come un’installazione a 360° in cui l’occhio, la mente e il corpo dello spettatore sono continuamente coinvolti e sollecitati in un percorso sensoriale che innesca nuove chiavi di lettura e apre verso prospettive altre. Angela Faravelli

Clegg-Guttmann, Studiolo Landscape 3, 2007, Printed on Kodak Supra Endura paper, Plexiglas Laminated with an MDF support frame, cm 73x125, Edition 1 of 3 Clegg-Guttmann, Psychology, 2001, Lambda print sotto plexiglas su MDF cm 180x95x40.

Clegg-Guttmann, Studiolo Landscape 2, 2007, Printed on Kodak Supra Endura paper, Plexiglas Laminated with an MDF support frame cm 79x108 Edition 1 of 3

36 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Quattro Istituzioni, Napoli

Jan FABRE

N

ella capitale partenopea torna Jan Fabre, con ben quattro mostre allestite in quattro istituzioni di grande prestigio: la galleria Studio Trisorio, la Cappella del Pio Monte della Misericordia, il Museo MADRE e il Museo di Capodimonte. Con il titolo Omaggio a Hieronymus Bosch in Congo, a cura di Melania Rossi e Laura Trisorio, presso lo Studio Trisorio, Jan Fabre mette in luce (nel vero senso della parola) il terribile processo di colonizzazione che il popolo congolese ha subito ad opera dell’esercito belga. L’artista di Anversa si pone come uno storiografo anticonformista che ricostruisce le drammatiche vicende storiche prendendo come riferimento uno dei più grandi capolavori dell’arte fiamminga: Il Giardino delle Delizie (1480-1490) di Hieronymus Bosch. L’inferno di Bosch diventa, nell’opera di Fabre, la calzante metafora che ha reso raccapricciante uno dei capitoli più tristi della storia europea. In mostra, nello spazio della galleria, tre nuove sculture e due grandi trittici di cinque metri. Ed è proprio in questi lavori che il cuore dell’Africa (ricco di oro e petrolio) è raccontato come “locus delicti” di atti disumani e patriarcali, le cui conseguenze sono ancora visibili oggi, così come descritte nel Cuore di tenebra, lettera a Jan Fabre di Philippe Van Cauteren. L’incontro tra Jan Fabre, la crudezza delle vicende coloniali e la fantasia dell’artista fiammingo si concretizza con l’uso dei carapaci dei coleotteri, che assorbono la luce solo per emetterla nuovamente, con una miriade di sfaccettature verdi, blu e arancio, a seconda della direzione della luce stessa e della prospettiva dello spettatore, assomigliano alle tessere di un mosaico tardo classico, alla potenza del loro colore limpido, eterno. Una ricerca, quella di Jan Fabre, che coinvolge la storia, le dinamiche sociali e una manualità certosina di matrice medievale come quella dell’arte musiva. Al Museo di Capodimonte, invece, nella mostra dal titolo Oro Rosso. Sculture d’oro e corallo, disegni di sangue, curata da Stefano Causa e da Blandine Gwizdala, è stata esposta una serie inedita e sorprendente di sculture in corallo rosso realizzate appositamente per il museo napoletano, insieme a sculture in oro e disegni realizzati col sangue, creati dall’artista dagli anni Settanta ad oggi. Nella Cappella del Pio Monte della Misericordia è stato proposto un dialogo diretto tra la scultura di Fabre in cera L’uomo che sorregge la croce, con il capolavoro di Caravaggio Sette opere di Misericordia. Infine, al Museo MADRE, è stata esposta l’iconica scultura L’uomo che misura le nuvole, in un’inedita versione in marmo di Carrara allestita nel Cortile d’onore dello spazio museale. Ivan D’Alberto

Jan Fabre, The Civilizing Country of Belgium, 2012

Jan Fabre, Studio Trisorio. installation view

SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 37


Galleria Michela Rizzo, Venezia

Mauri & Muntadas

M

auri | Muntadas: titolo di un libro-catalogo, Manfredi edizioni, e di una mostra (Michela Rizzo, Venezia), omonimi, costituisce oggi un doppio dispositivo di conoscenza delle figure di artisti internazionali Fabio Mauri (Roma 1926-Roma 2009) e Antoni Muntadas (Barcellona 1942, residente e attivo a New York dal 1971). Le rispettive Weltanschauungen vengono messe a confronto da un inedito vis-à-vis storico/estetico/ideologico/massmediatico di Laura Cherubini, critica-saggista-docente accademica italiana. Significativo e anticipatore della tematica che lo sottende e dell’ottica di lettura dell’opera dei due artisti, è il titolo del suo saggio: La messa in scena del potere - La comunicazione rivelata e le Manipolazioni svelate. Emerge nel testo la potente figura dell’ideologia nazionalista che ha originato il potere bianco, ariano, come discriminante dei due totalitarismi fascista e nazista, nel drammatico corso della Seconda Guerra Mondiale. Fabio Mauri è un non-ebreo che si interroga, come coscienza-collettiva, di fronte a quel genocidio che il poeta rumeno Paul Celan non ha neppure voluto nominare se non con le parole …das, was war/ciò che era stato… Posizione ideologica avversa questa ad un’identità paneuropea teorizzata già negli anni Venti dall’aristocratico austro-ungarico Coudenhove-Kalergi e sostenuta, successivamente, anche da Hannah Arendt. Nella doppia personale, da lei curata, Laura Cherubini formalizza, nella selezione delle opere, la sensibile, profondamente avvertita, struttura ideologica di Fabio Mauri, e la radicale spettacolarizzazione mediatica delle mises en scènes del potere, della propaganda e della censura in Antoni Muntadas. Entrambi gli artisti figurano, da tempo, nell’attività espositiva della gallerista Michela Rizzo. Nel 2009, lo stesso Fabio Mauri, cosciente di approssimarsi alla sua scomparsa, autorizza la galleria veneziana, in procinto di esporlo, a procedere anche in memoriam con quella mostra che sarebbe stata l’ultima di questo Maestro della Seconda Avanguardia. Referente ineludibile di Fabio Mauri è la proiezione cinematografica, potente serbatoio dell’immaginario collettivo, che si presenta vuota e silente o bianca e fluida, come, a titolo di esempio, sulla superficie del latte contenuto in un secchio, animato dalla proiezione del film sovietico del 1938 Alexander Nevskij di Ejzenstejn. Installazione altamente significativa questa che apre il percorso della mostra dopo il light-box Dialogo (dialogo, reale o illusorio, tra il passato e il presente) di Antoni Muntadas in cui la fiamma di una candela, archetipo del fuoco e dell’illuminazione interiore, si confronta, su fondo nero, con la luce elettrica della lampadina, ancora a incandescenza, e lo zerbino Drastic Carpet, 1982, sempre dell’artista spagnolo, che avverte, in una scritta stampata, di non aspettare per agire perché Non c’è tempo migliore dell’adesso/There’s no Times like…. Il mondo artistico/letterario/drammaturgico di Fabio Mauri, condiviso con il suo amico e sodale Pier Paolo Pasolini, scaturisce dalla profonda consapevolezza, interiorizzata, della responsabilità e complicità storico-ideologica dell’Occidente nella tragedia della Shoah. Tragedia indicibile, pari a quella della presenza del Male nella Storia, la cui paradossale banalità viene analizzata dalla filosofa e politologa tedesca Hannah Arendt. Quando intitola la sua partecipazione alla mostra warwordworld (Hiroshima Nagasaki 6-9) del 2005 a Genova alla Commenda di Pré, Linguaggio è guerra (con M. Folci, M. Ghiglione, P. Fresia, M. Paganelli, L. Biggi, H. L. Thomsen) ineludibile è il rimando allo statement La lingua è fascista non perché impedisce di dire, ma

a sx Fabio Mauri, Luce Ariana, 1995 a dx Antoni Muntadas, This is not an advertisement, 1985

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in basso, Antoni Muntadas, Drastic Carpet, 1982 , al centro Antoni Muntadas, Dialogo, 1980

al contrario perché “obbliga a dire” di Roland Barthes, all’esordio della sua lezione inaugurale al Collège de France nel 1977. Mostra, anticipata il 3 febbraio dello stesso anno a Genova dall’incontro Mauri/Vaccari, al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, a cura della scrivente e della Direttrice museale Sandra Solimano. Di connotazione psico/politico/semiologica, la sua opera individua topoi ineludibili nello schermo bianco di Il televisore che piange, del The End, slittante tra la fine di una proiezione cinematografica e la fine improrogabile della vita, che mettono in dialogo il quotidiano con l’intrattenimento finzionale della macchina da presa. Topoi ricorrenti nell’opera, presenti in mostra, sono il monocromo bianco (Schermo del 1957 e del 1970) o nero (Leo Castelli, 4 East 77 New York, 1977, Questo quadro è ariano, 1994 ) come azzeramento dell’immagine, nella riduzione del momento discorsivo al non-detto, all’indicibile; topos ancora è il ribaltamento dell’immaterialità del raggio luminoso in solidità plastica, il rimando segnico al tatuaggio della stella di Davide, al marchio numerico sulla pelle degli internati nei campi di sterminio ebraico, l’ideologizzazione della luce (Luce ariana, 1995) in parallelo all’estetizzazione della politica, il cortocircuito del grande Zerbino insolubile (2008), presentato in mostra nei termini di un enigma, le tracce, riproposte in varie modalità, di un disco di vinile rinviante a un archivio di vissuto incancellabile, perché irrimediabilmente tracciato (Dramaphone, 1975 e 1976). L’installazione N.d.R. Insonnia per due forme contrarie di universo, 1972, rappresenta l’affissione temporanea di un manifesto stradale con a sinistra la fotografia ingrandita di due curve matematiche che definiscono l’universo, e a destra l’immagine di un uomo turbato da una scelta contraddittoria: la vecchia bicicletta parcheggiata nella rastrelliera, sottostante lo spazio-affissioni, rappresenta l’incursione casuale e brutale della realtà di strada nella galleria d’arte. Agghiacciante la mega A nera su fondo giallo di Entartete Kunst, 1985, rinviante all’aggettivo che connota razzisticamente la tipologia artistica che non rifletta gli stilemi ideologici nazionalsocialisti. Se la sinistra va a destra, opera fotografica riferita al caso Cusani in Tangentopoli, è un’installazione del 1994 accostata a L’anagrafe o progetto multiplo politico a sx (in alto) Antoni Muntadas, Proyectos/Propuestas, 2017 ; a sx (in basso) Antoni Muntadas, CEE Project, 1989-1999 ; a dx Fabio Mauri, Manipolazione di cultura, 1975


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

n° 3, 1971, articolato in 5 copie della rivista Opening, contigua, in mostra, a quella di Der Politische Ventilator 1973-1994, libro d’artista, edizione Krachmalnicoff con testi, tra gli altri, di R. Barilli, E. Battisti, A. Bonito Oliva, M. Calvesi, T. Catalano, F. Colombo, F. Menna, G. Pressburger, E. Rasy, B. Zevi. Le opere in mostra coprono l’arco temporale dalla fine degli anni Cinquanta alla morte dell’artista Fabio Mauri. Antoni Muntadas, precursore attento e critico del diffusivo fenomeno massmediatico odierno, artista appartenente a una generazione successiva a quella di Mauri, come scrive Laura Cherubini, è una figura internazionale d’artista impegnato. Il suo mondo scaturisce da una critica radicale alla spettacolorizzazione informatica del contesto urbano, a partire dallo Stadio sportivo in cui lo spettatore è consumatore consumato, ma anche dal Museo, archetipo, con lo Stadio, della città. Muntadas vive a New York e la sua opera, in Times Square, This is not an Advertisement, 1985, a cui accosta termini come Subliminal e Speed, denuncia precocemente lo stretto legame tra pubblicità e politica, con riferimenti alle modalità della propaganda messe in atto per campagne elettorali già di Eisenhower e Nixon, attraverso Kennedy, Clinton, McCaine, Obama, fino ad oggi. In mostra è, significativamente, presente lo striscione rosso – installato nel Padiglione spagnolo della 51. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia del 2005, che mette in guardia con le parole Attenzione: la Percezione richiede Impegno, le masse manovrate dai cosiddetti persuasori occulti, che operano sulle coscienze a livello sub-limen, sotto la soglia, quindi, della percezione attiva. Il riferimento ad Alphaville, film culto di Jean-Luc Godard, condiviso anche da Fabio Mauri, mette in rapporto la cittadella del Potere con un cervello elettronico, la politica con la fantascienza, aprendo alle coscienze lo scenario delle manovre del potere, che trova, a titolo d’esempio, nel testo Sorvegliare e Punire di Michel Foucault il modello del Panopticon pensato come carcere ideale in cui un unico sorvegliante controlli, da postazione segreta, tutti i detenuti. Anche la parola Speed detiene una carica di denuncia verso l’accelerazione della vita, al limite del disumano, che rimanda alla corsa tecnologica, alla robotizzazione dell’individuo, alla sua progressiva omologazione. Viene qui naturale anche il riferimento al testo del 1977 Vitesse et Politique del sociologo-urbanista, non casualmente, Paul Virilio – con cui la scrivente ha scambiato riflessioni – che analizza, insieme alla struttura di difesa della città, anche le tecniche di trasporto e locomozione, tese alla contrazione crescente fino all’azzeramento dello spazio e del tempo. Di fronte all’iconologia del Terrore (Twin Towers) in Muntadas, si può ancora trovare un riferimento alla Ville Panique/La Città Panico odierna, di Virilio che, come Zygmunt Bauman, denuncia la strategia della Paura messa in atto dal Potere in una società in cui ormai i valori solidi di un tempo sono diventati liquidi e irrappresentabili. Di valore storico-documentale è, nel saggio di Laura Cherubini, il contatto diretto con l’artista e quindi con il messaggio inscritto nella sua opera a livello sia di significato che

di significante. Si può parlare anche, per certi versi, di Estetica della Comunicazione, come già teorizzava a Salerno Mario Costa a proposito, ad esempio, della serie in mostra Cuatro PreguntasCuatro Colores, articolata su quattro interrogativi fondamentali come Dove?- Per chi?- Quanto?- Perché?, sui fondi monocromi dei colori primari e del nero, o del grande tappeto azzurro orostellato del CEE Project, 1989-1999, in cui all’interno delle stelle, che dovrebbero rinviare ai valori europei di comunità-armonia-solidarietà, campeggia la moneta che ne contraddistingue lo Stato. Sintomatica è anche, al piano superiore della galleria veneziana, la videoinstallazione La Siesta/The Nap/Dutje, 1995, in cui, su una grande poltrona anonima, ricoperta da un telo bianco, vengono proiettati frammenti dal film del documentarista Joris Ivens, ma sul cui schermo compare anche la mano dell’artista assopito che stringe una moneta, finché, con l’allentarsi della presa, questa non cade a terra, svegliandolo. Opere di Muntadas, come la sequenza fotografica in mostra Architektur/Raum/Gesten, 1988-2017, delineano lucidamente, un’implacabile scenario di socio-antropologia-semiologica dei massmedi, sia a livello analogico che digitale, ricostruendo, in una deriva psicogeografica, di ascendenza situazionista, varie tipologie di “paesaggio”, non escluso quello della gestualità manuale. Antoni Muntadas mette in atto un’ininterrotta, acuta, riflessione sul metalinguaggio della propaganda, sulla traduzione di un dato di realtà in una strategia di finzione, in cui protagonisti sono la strada, la TV, la rete informatica, gli archivi della censura, i giornali, i bollettini della borsa, le cabine di traduzione, i cartelloni pubblicitari, l’uomo-massa. Nei rapporti pubblico-privato Muntadas fa emergere ogni strategia del consenso, il ripresentarsi dei Protocolli su cui adeguare l’audience, lo spettatore, l’immaginario collettivo. Entrambi gli artisti condividono l’attenzione alla percezione sensoriale, ma quello che in Fabio Mauri si presenta spesso in forme sinestesiche, in ribaltamenti da un senso all’altro, dalla presenza all’assenza e viceversa di un oggetto/soggetto, di ascendenza linguistico/concettuale, in Antoni Muntadas è in presa diretta con il reale, ma anche, oggi occorre dirlo, con la realtà di simulazioni globalmente diffuse. In questo evento espositivo testimoniale, documentale, in concomitanza con la 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia 2019, sono esposte anche opere inedite di Fabio Mauri e lavori storici di Antoni Muntadas, mai mostrati in Italia. Una mostra, questa di Laura Cherubini asciutta, incisiva, riverberante, da contemplare, ascoltare, leggere, “calpestare”, rammemorare, che accosta, in contiguità metonimica, soggetti e oggetti alieni e domestici, fatti e misfatti, in cui rispecchiare le proprie responsabilità, la connivenza tra denuncia e complicità, la vestizione di un uniforme di fronte a un giovane corpo nudo, la simulazione performativa e la realtà sotto fari che accecano, precipitano nel buio abissale di un silenzio ammutolito, in cui si percepiscono quelle radici del dolore dell’umanità con cui i due artisti investono la loro opera. Viana Conti

Antoni Muntadas, Architektur/Raum/Gesten, 1988-2017 al centro Fabio Mauri, Lo zerbino insolubile, 2008 ; a dx Fabio Mauri, Insonnia per due forme contrarie di universo, 1978

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OGR, Torino

Biennale dell’Immagine in Movimento

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er la prima volta dopo circa trent’anni, la Biennale dell’Immagine in Movimento trova nuova dimora tra le mura delle Officine Grandi Riparazioni di Torino, lasciando la casa natale di Ginevra. In un’atmosfera industriale, tra i famosi Binari dei capannoni adibiti a spazio espositivo, prendono vita immagini, suoni e sculture-installazioni, creando un ambiente dinamico e “spettrale”, testimoni di un mondo ipotetico che verrà, governato dai nuovi media tecnologici. Con il titolo “The Sound of Screens Imploding”, la mostra propone delle opere di videoarte. Il titolo della mostra è volutamente enigmatico, infatti lessicalmente parlando non ha alcun significato effettivo – Il suono degli schermi che implodono – ma se proviamo a dargli una possibilità di concretizzarsi, possiamo immaginare una situazione in cui ciò che solitamente scorre su uno schermo, esca dallo stesso per penetrare nel mondo della realtà, creando un suono che per noi è impossibile percepire. In un continuum spaziale pensato appositamente da Andreas Angelidakis, i vari lavori sembrano in perenne contatto l’uno con l’altro attraverso dei “sipari” in plastica opaca, che permettono la riflessione delle luci e delle ombre in dialogo l’una con l’altra. Le immagini in movimento, dunque, escono dal loro supporto per entrare in dialogo con il visitatore, senza il quale, a rigor di logica, perderebbero totalmente di significato e non potrebbero proprio aver vita. Il percorso si apre con “Party on the CAPS” (2018) di Meriem Bennani, la quale ci trasporta su di una distopica isola governata dal progresso biotecnologico e dall’introduzione del teletrasporto, e abitata da migranti intercettati durante i loro viaggi. Successivamente ci troviamo di fronte la videoinstallazione di Laurence Abu Hamdan intitolata “Walled Unwalled” (2018), che riflette da – un punto di vista scientifico – sulla costruzione di muri per separare nazioni e su delle particelle denominate muoni, che gli scienziati riconoscono come in grado di attraversare superfici, rendendo di conseguenza ogni sistema di divisione (come gli stessi muri) penetrabili: oggi, tutti noi, siamo e non siamo muri – come riporta la descrizione dell’opera all’interno della guida disposta dalla struttura della mostra. Nel prosiego della mostra si incontrano dei personaggi scultorei disposti in cerchio, come in un fermo-immagine, o come se fossero stati pietrificati da qualche strano incantesimo. Queste figure di

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Tamara Henderson vengono presentate qua sotto il nome di “Womb Life” (2018) e si tratta in realtà di una troupe cinematografica che ha smesso di lavorare, cristallizzando il tempo. La quarta opera – “Wildcat” (Aunt Janet) (2018) – si mostra allo spettatore come un prisma levitante sul quale sono proiettate le immagini del cortometraggio “Wildcat” che Kahlil Joseph allestisce ponendo una scena di danza dietro l’altra, annullando la dimensione temporale in un’unica scena. Dal primo Binario si passa al secondo, incontrando “Demos Bar” (2018) di Andreas Angelidakis, un sistema di sedute modulari rivestito di similpelle dorata, a denunciare – o semplicemente ragionare – sull’ultima crisi economica che ha coinvolto la Grecia.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nello stesso spazio troviamo “Two carceral depictions in the Nueva Coronica’s chapter on the Inka’s justice” (2018) di Elysia Crampton, un’installazione che emerge come uno scontro tra la negatività e lo zero. Sulla destra, il percorso conduce a “No history in a room filled with people with funny names 5” (2018) di Korakrit Arunanondchai e Alex Gvojic, una serie di video che “indagano la pluralità dell’esperienza e dell’esistenza umana, attraverso l’elaborazione di grandi varietà di informazioni”. Su questi schermi viene analizzata la possibilità di toccarsi senza ricorrere necessariamente al contatto fisico, bensì attraverso la sperimentazione di questa eventualità tramite altri mezzi. L’ultima opera in mostra è quella di Ian Cheng – “Emissary’s Guide

to Worlding” (2018) – che consiste in un Ebook, in cui l’artista americano ha creato mondi partendo da attività cerebrali, dando vita ai nostri pensieri e dando l’idea di poter vivere quasi concretamente – ma in realtà solo attraverso l’immaginazione – su queste realtà virtuali. La Biennale di per sé ha l’intenzione di far vedere come l’era della videoarte stia in qualche modo finendo, suggerendo però al contempo delle possibili soluzioni o spunti su quello che potrebbe essere il futuro dell’arte e cosa potrebbe venire dopo, iniziando a muovere i primi passi con degli artisti che questo tipo di arte l’hanno ben assimilato e sono in grado di utilizzarlo in modi apparentemente innovativi. Cecilia Paccagnella

Tutte le immagini: Biennale dell’Immagine in Movimento. The Sound of Screens Imploding. Installation view at OGR - Torino. Ph. Giorgio Perottino, Getty Images for OGR, Courtesy OGR - Torino

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Palazzo Reale, Milano

Ugo NESPOLO

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’antologica che Palazzo Reale dedica a Ugo Nespolo (Biella, 1941) – a cura di Maurizio Ferraris – presenta un percorso articolato che ripercorre l’opera dell’artista a partire dagli esordi, negli anni Sessanta, fino ai giorni nostri. Se nelle prime sale emerge un fare artistico legato all’ideologia dell’Arte Povera identificabile anche nell’utilizzo dei materiali – quali legno, paglia e metalli –, dall’altro lato negli stessi anni l’artista sviluppa l’elemento che in assoluto caratterizzerà più di ogni altro la sua poetica: la tecnica dell’intarsio per creare dei “puzzles”. In questo modo la superficie dell’opera è organizzata secondo una sovrapposizione di piani in cui lo spettatore può scorgere una “scomposizione ricomposta”, dove la frammentazione viene unificata e sono messi in risalto l’aspetto manuale e

artigianale del legno modellato e una innata abilità nelle combinazioni cromatiche che generano un’esplosione di colori. Nonostante la molteplicità e la differenza dei mezzi espressivi adottati da Nespolo – egli spazia infatti dalla pittura alle installazioni, dai libri d’artista alla scultura, dal cinema al teatro – la componente ludica, ironica e talvolta sarcastica, è il fil rouge che lega e accompagna la sua visione eclettica dalle multiformi evoluzioni. L’artista guida lo spettatore in un viaggio di analisi della realtà servendosi del suo linguaggio “fuori dal coro”, scavalcando e decostruendo i confini e i canoni del sistema dell’arte, al fine di generare una reazione attiva data dall’attrito del contatto con il reale. Angela Faravelli

Ugo Nepolo, Condizionale, 1967 (due elementi in formica, nastro in gomma). Courtesy The Artist and Palazzo Reale, Milano

Museo del Novecento, Milano

Remo BIANCO

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splorando la mostra Remo Bianco. Le impronte della memoria – a cura di Lorella Giudici – che si articola negli spazi del Museo del Novecento di Milano, lo spettatore viene a contatto con un mondo allo stesso tempo famigliare e altro, una sorta di archivio tanto personale ed emozionale quanto universalmente condivisibile in cui l’artista lascia emergere le tracce della quotidianità. Quella di Remo Bianco (1922-1988) è una riflessione profonda sul tempo dell’esistenza volta a mostrare l’eterna lotta contro la fugacità dell’effimero, affrontata però in maniera ironica e giocosa, attraverso la valorizzazione degli oggetti e caratterizzata dalla volontà di collezionare ricordi e congelarli in una dimensione senza tempo. È così che, a partire dalla fine degli anni Quaranta, questo artista poliedrico comincia un periodo di sperimentazioni durato una vita; egli raccoglie, riunisce e cataloga piccole tracce del quotidiano: crea calchi in gomma o cartone, imprigiona oggetti nel gesso o li ricopre di neve artificiale, oppure li chiude in sacchetti di plastica fissati su legno o ancora li impreziosisce rivestendoli con uno strato dorato. Dunque emerge con forza la “volontà di estrarre l’eterno dall’effimero” – come direbbe Baudelaire –, l’urgenza, forse l’ossessione, di creare un personale sistema di ricordi in grado di “eternare” il reale. Remo Bianco ha saputo intrecciare saldamente nella propria poetica il concetto di arte e vita: attraverso la spasmodica ricerca di tracce e impronte destinate a scomparire, imprigionandole nell’opera d’arte, le ha salvate e redente dallo scorre del tempo, scolpendole nella memoria collettiva. Angela Faravelli 42 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019

Remo Bianco, Veduta degli allestimenti, Courtesy l’artista e Museo del Novecento, Milano 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nanda Vigo Exhibition view, Palazzo Reale, Milano, 2019. pere Galactica 2 e Trigger of the space (courtesy the artist & Palazzo Reale, Milano)

Palazzo Reale, Milano

Nanda VIGO

L

a retrospettiva Nanda Vigo. Light Project, a cura di Marco Meneguzzo, si inserisce nella serie di mostre che, da qualche anno a questa parte, Palazzo Reale dedica ai protagonisti del clima culturale e artistico milanese degli anni Sessanta. Il fare artistico di Nanda Vigo (Milano, 1936) si sviluppa in un momento storico in cui vigeva la volontà di riunire l’ambito di pertinenza di più discipline, motivo per cui nella sua opera si ritrova una contaminazione perfettamente equilibrata tra arti visive, design e architettura. La selezione di circa ottanta “architetture di luce” presentata in questa occasione lascia emergere con forza il focus della ricerca dell’artista completamente incentrata sulla luce, sugli effetti che essa produce in combinazione con vetri e specchi, ottenendo un esito che trascende la realtà in virtù di trasparenza e immaterialità. Nel percorso della mostra si susseguono sculture, installazioni e materiali d’archivio combinati in maniera che vi sia una perfetta interazione tra arte, spazio e spettatore: si passa dalla serie dei Cronotipi, parallelepipedi luminosi dalla superficie zigrinata che irradiano nell’ambiente circostante la propria carica energetica, ad “ambienti totali”, in cui il coinvolgimento mentale è alla base del fare esperienza dell’opera. Così Nanda Vigo, servendosi di pochi elementi combinati tra loro – quali luce, forme e spazio –, permette di “vivere” un ambiente multisensoriale pregnante di energia positiva: il ritmo della variazione luminosa e l’alterazione della visione determinata dalle geometrie degli specchi trasportano lo spettatore, avvolto in un percorso di colori, in uno spazio caleidoscopico dove ha inizio un viaggio spazio-temporale. Angela Faravelli

di analisi e riflessioni dell’artista volte ad indagare e rivelare i fenomeni del reale. È da leggere in quest’ottica il fare artistico di Stefano Arienti (Asola, 1961) che, nella mostra presso la Galleria Stein curata da Chiara Bertola, attraverso la manipolazione di immagini e materiali tratti dal quotidiano offre nuove significazioni inedite e sorprendenti. L’artista propone una riflessione sui temi della natura e della pittura presentando fotografie di elementi vegetali in relazione ad arredi urbani stampate su ciniglia o carta stropicciata su cui realizza interventi manuali liberi e sperimentali – quali doratura e argentatura di determinate parti o applicazione di puzzle in rilievo – in grado di stuzzicare la vista e generare stupore e meraviglia, attuando quindi una riflessione attiva che si traduce in una esplorazione del mondo attraverso l’arte. Così, se da un lato le opere possono assumere una connotazione materica e tattile, dall’altro l’intervento di alterazione origina letture disattese e sempre differenti alle quali è data possibilità di emergere solo introducendo un momento di pausa in cui si arresta lo sguardo e finalmente si comincia a guardare ciò che si vede. Dunque Stefano Arienti fornisce una risposta concreta al fenomeno dell’immaterialità delle immagini elaborando una personalissima “realtà aumentata” in grado di reinventare i rapporti e le relazioni della quotidianità, affinché l’occhio umano possa avere la possibilità di “guardare” oltre che “vedere”. Angela Faravelli Stefano Arienti, Installation view - Courtesy © Artista e Galleria Christian Stein, Milano Foto di Agostino Osio

Galleria Christian Stein, Milano

Stefano ARIENTI

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ella quotidianità siamo continuamente bombardati da immagini, il nostro sguardo passa da una all’altra senza pausa, senza appropriarsi realmente di nessuna di esse, evidenziando come la nostra epoca sia costituita da una cultura puramente visuale ossessionata dall’idea che possano esistere dei tempi morti all’interno del flusso continuo di messaggi. Solo partendo dall’arte – in quanto creatrice di immagini – si può giungere ad una vera comprensione di questa trasformazione poiché l’opera si dà come una risposta concreta, risultato SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 43


diventa codice, l’alfabeto in grado di rivelare corrispondenze tra l’opera e il mondo attorno.L’azione pittorica supera la dimensione meramente intimista per raccontare l’incontro dell’autore con il paesaggio naturale, i territori, la storia. In Ettore Frani la pittura si fa atto rituale, processo che svela la realtà trascendendo la figurazione. Nelle opere su tavola dell’artista molisano le forme che emergono dalla profondità delle velature, il bagliore di luce che fa da contraltare ai neri, le texture che descrivono scorci di paesaggio si fanno ciascuno allegoria, coscienza della realtà che matura dall’esperienza e dalla comprensione di essa da parte dell’artista. Francesca Cammarata Galleria Enrico Astuni, Bologna

Christian JANKOWSKI

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rimo evento di una rassegna che comprende quattro mostre in occasione delle quali viene proposto un incontro tra generazioni di artisti e poetiche, riflessione ispirata dalle opere presenti nella collezione della galleria. In questa prima occasione due artisti di età differente esplorano le potenzialità del mezzo pittorico percorrendo quel territorio che vede l’astrazione e la realtà incontrarsi. La mostra si compone di una storica tela di Arcangelo realizzata 1992 e una selezione di dipinti su tavola di Ettore Frani dai cicli Limen e Attrazione celeste. Arcangelo artista tradizionalmente legato alla pittura, fa proprie le istanze che in Europa hanno segnato la storia di questo mezzo espressivo a partire dal periodo compreso tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80. Nella pittura di Acangelo prevale il gesto, il segno che

er l’intero mese di settembre resta allestita la mostra Where do we go from here? di Christian Jankowski, a cura di Lorenzo Bruni. La personale dell’artista tedesco si compone, in linea con i caratteri della sua ricerca, di opere realizzate con i mezzi espressivi più vari. Anche in questa occasione l’autore riflette su temi da sempre rilevanti nella sua poetica come quello del rapporto tra opera e spettatore e della partecipazione di quest’ultimo al suo costituirsi. Si aggiungono a questo l’attenzione per l’aspetto interattivo e partecipativo dei progetti che via via immagina assieme all’interesse per la performance. Fanno parte della poetica di Jankowski anche la riflessione sul confine tra pubblico e privato, sulle potenzialità a dei più noti strumenti di comunicazione e sul loro utilizzo da parte del pubblico. Where do we go from here? vede esposti nello spazio della galleria opere significative del recente passato e un lavoro realizzato nell’ultimo anno appositamente per la mostra in corso. Ricordiamo tra le opere esposte quelle appartenenti al ciclo Visitors (2010–19), la serie fotografica My Audience (2003–19), il ciclo Neue Malerei (2017). Everyday Tasks –Sphere of the Gods (2019) è l’opera inedita esposta in mostra, riuscita sintesi di numerosi tratti della poetica di Jankowski. L’autore, nel realizzare l’opera, si ispira a una foto da lui eseguita a Dafen, in Cina, ritraente due sculture casualmente utilizzate come stenditoi per asciugare i panni. L’artista installa quindi in galleria una riproduzione del proprio corpo a grandezza naturale e una lavatrice, i visitatori intervenuti sono quindi invitati a lavare i propri “panni sporchi” nella sala espositiva e ad appenderli ad asciugare sul “corpo” dell’autore. Francesca Cammarata

Arcangelo, Notte di grano e di nuvole basse, 1992 (tecnica mista su tela cm 225x351).

Galleria Enrico Astuni, exhibition view (dettaglio), Christian Jankowski, “Where do we go from here?” Photo credit M.Sereni

Ettore Frani, Cattedrale (olio su tavola cm.80x65)

L’Ariete, Bologna

Opere#1

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Gallerie CAR e P420, Bologna

Piero MANAI

Piero Manai, Testa, primi anni 80 (olio su tela, cm 73x58 fronte - P420 n.203).

D

islocate a breve distanza l’una dall’altra le due gallerie in oggetto dedicano l’apertura della stagione autunnale allo storico artista bolognese Piero Manai. La mostra ha infatti luogo dalla collaborazione delle due direzioni artistiche e allestita nella sala espositiva di ciascuna delle due strutture. Non ancora adeguatamente riconosciuto in ambito storico all’interno del contesto italiano, Piero Manai è stato tra gli originali interpreti nel nostro paese delle manifestazioni espresse in campo artistico, in Europa e Stati Uniti, tra la fine degli anni ‘60 e gli anni ‘80. Indagatore rigoroso e flessibile esploratore di linguaggi, in Piero Manai resta predominante la vocazione pittorica, a tal proposito Umbero Eco affermava come questo artista “dopo Giorgio Morandi stava continuando il discorso della grande pittura bolognese”. L’indagine sull’opera Piero Manai seguita dalle due gallerie si concentra sul periodo di produzione compreso tra l’inizio degli anni ‘80 e il 1988, l’anno della sua prematura scomparsa all’età di 37 anni. L’arco cronologico esaminato coincide, nella ricerca dell’artista bolognese, con gli anni in cui ricorrono la figura umana, l’impulso emotivo, il segno di impronta neoespressionista. Un approccio perfettamente in dialogo con poetiche, movimenti e linguaggi che si sviluppavano nello stesso periodo in Germania e nel nostro paese. Testimoniano perfettamente questo momento della ricerca, le opere presentate dalle due gallerie che comprendono le famose “figure”, “teste”, nature morte e “monoliti”. Francesca Cammarata

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

CAMEC, La Spezia

Aldo MONDINO

B

en oltre la ricchezza lessicale dell’aggettivo, ma radicato in un letteralmente inequivocabile, Mondino a Colori è davvero una mostra plurale. Diramata nelle ampie sale del “piano nobile” del CAMeC (Centro per l’Arte Moderna e Contemporanea) di La Spezia, la caratteristica più congeniale di questa retrospettiva pittorica è l’impressione di trovarsi a visitare una collettiva sofisticata, se non addirittura più mostre ravvicinate, in una sequenza a matrioska accompagnata, invero licenziosamente, da una griglia cronologica e tecnica. Sulla tecnica, a tal proposito, oscilla e cala ineluttabile, come un racconto di Allan Poe, l’arte stessa di Aldo Mondino, autentico terrorista di stili, l’uomo che viaggiava a Milano su un cammello e dipingeva con i cioccolatini pur padroneggiando con maestria la complessità della calcografia e del mosaico. Rassegne dedicate all’artista non sono mancate negli ultimi vent’anni (si può ricordare la prima retrospettiva a fine 2000 dall’amico Santo Ficara a Firenze e Aldologica a Ravenna nel 2003) specialmente trattando di pittura, eppure l’originalità dell’evento spezzino appare inequivocabile e verte sulla lettura grafica del percorso artistico di Mondino, entrando nello specifico di una sensibilità concettuale verso la pratica calcografica, cui il linoleum rappresenta il baluardo tra la funzione e il post-mediale. L’incisione artistica, approfondita nel 1959 a Parigi frequentando il noto Atelier 17 di Stanley William Hayter, ha certamente vestito un ruolo fondamentale in questo processo cognitivo, data la sua natura cangiante, rituale, meditativa. Discorso evidente nelle opere esposte nella sala centrale e realizzate tra il 1979 e 1980, battezzate False Incisioni (per citarne alcune, Ex libris, Das meer, Longships), quadri ad olio con un forte richiamo formale a stampe xilografiche; oltre l’aspetto sussiste una forma mentis dedotta dalla tecnica incisoria, soprattutto nella necessità di sovvertire i sistemi percettivi e linguistici ricordando come l’attività grafica impone peculiarmente il ribaltamento dell’immagine tra matrice e stampa.

Tutto Mondino si presta a questo gioco speculare e stravolgente dal marcato accento dinamico dovuto, oltre l’ecletticità, alla continua e mirifica oscillazione tra dettaglio e quadro d’insieme: si veda come l’installazione Raccolto in preghiera (1986) o Tappeti stesi (1993), entrambe presenti nella sala maggiore del museo, riassumano quello scambio percettivo e lessicale tra autore e fruitore grazie al trompe-l’œil ottenuto con il minuzioso accostamento, quasi un Mandala, di granaglie, legumi e farine nella prima opera, e confondendo l’apparente intreccio tessile con la trama del

Aldo Mondino, Mondino a colori. La pittura dagli esordi al linoleum, 2019 veduta parziale delle installazioni al CAMeC – Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia

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Aldo Mondino, Mondino a colori. La pittura dagli esordi al linoleum, 2019 veduta parziale delle installazioni al CAMeC – Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia

legno tamburato nel secondo caso. Eppure non mancano elementi distonici, persino nelle singole opere, emerge sempre la volontà di rompere gli schemi, spezzando gli equilibri quanto basta perché il flusso poetico sia stabile ma pronto a deflagrare in qualsiasi momento, come nella serie delle Quadrettature (Sportivo, 1963 o Varazze, 1964) che celano sotto l’aspetto familiare e innocente una radice espressiva e passionale, a tratti metafisica. Ecco l’ulteriore lettura al lavoro dell’artista torinese, la componente mistica e trascendente ricercata sempre con grande induzione specie nella ritrattistica, dagli Ebrei ai Dervisci, approcciati con studio rigoroso e “tradotti” con

singolare bellezza, intesa proprio nel suo sinonimo deformante, cangiante, iridato. Non è affatto scontato né immediato assimilare una cultura al punto di riuscire a “storpiarla” a livello poetico: vuol dire operare oltre il significato, toccando corde sottili in maniera efficace e sagace. Mondino è di una sorprendente attualità, in virtù di questa vibrazione ancora acuta, indefessa. Da citare, infine, l’autoritratto Mon Dine (1992) che accoglie e congeda la mostra, opera già scenario di un celebre autoscatto nella medesima posa, iconica e laconica come solo il Maestro sapeva essere. Luca Sposato

Castello di Ama, Gaiole in Chianti, Siena

Chiara BETTAZZI

A

ccumulare oggetti, viverli, collezionarli è tutt’ora motivo di indagine dei più disparati campi di ricerca antropica, fenomeno strano dal profumo ancestrale, antico come l’umanità stessa. L’uomo colleziona perché fondamentalmente il suo essere ruota intorno all’istinto di vita e la coscienza della sua mortalità, dominato dalla dualità tra Thanatos ed Eros. Le wunderkammer tedesche nacquero proprio per dare forma a questa forza istintuale cui nemmeno le briglie papali potevano arginarne la portata, tanto più che le prime manifestazioni di Camere delle Meraviglie si riscontrano in armadi e mensole delle biblioteche abbaziali. Certamente l’atmosfera che gronda dall’installazione CABINET di Chiara Bettazzi presso il Castello di Ama è forte del ricordo dello Studiolo di Francesco I, nel suo valore artistico e alchemico. Artista nata e operante a Prato, la Bettazzi ricrea in una delle stanze della tenuta settecentesca del suggestivo borghetto di Ama (Gaiole in Chianti, Siena) una nuova versione della sua sofisticata e polimediale ricerca, la più tangibile, se pur traboccante di riferimenti concettuali; va premesso e contestualizzato che l’indagine artistica di quest’autrice è stata la gemma da cui verzica tutto un quartiere dedito alle arti contemporanee noto a Prato come Corte di via Genova, dove sana e robusta è l’inclinazione all’Archeologia industriale. Affastellando bottiglie, ceramiche, vecchi apparati bruciati, ossa, dentiere, posate, … lo Studio della Bettazzi acquisiva negli ultimi dieci anni valore formale e sempre maggior coscienza teorica, comprendendo quanto la relazione sociale e temporale fosse imprescindibile in questo tipo di lavoro. Da qui la “trasmigrazione” concettuale e geografica: i progetti emersi 46 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019

Chiara Bettazzi, Cabinet (installation view), Castello di Ama, 2019

da questa personalità (da ricordare soprattutto la ricognizione annuale TAI – Tuscan Art Industry) e le installazioni in gallerie e musei (ultima alla Galleria Nazionale di Roma) sono figli legittimi di un percorso partito da questo viscerale ammucchio. Tornando all’esposizione nel Castello di Ama, realtà nota non solo per il vino pregiato ma anche per l’attenzione verso l’arte contemporanea, con lo zampino della Galleria Continua, è interessante notare l’analogia con lo Studiolo del Principe mediceo anche nel carattere sineddotico; se, come è noto, il Borghini traccia lo schema strutturale della Cappella Sistina (il “Tutto”) e culmina idealmente la produzione della lugubre Fucina di Palazzo Pitti con vasi e tazze preziose, alcune eseguite dallo stesso Granduca, nel regale Stanzino di Palazzo Vecchio, così la Bettazzi attua una poetica operazione metonimica aggregando ai suoi pezzi d’archivio sapori e odori topici (vino e fragranze) oltre ad oggettistica rivenuta in loco, inorganica o naturale che sia.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Memorie aggiunte di un percorso che affonda radici nel passato, concretizzando il continuum temporale della suddetta ricerca, metaforicamente incarnato nelle muffe schiumate un po’ ovunque nei vari alambicchi, a sostegno della presenza viva di questo corpo artistico, come pure le leggerissime variazioni dinamiche indotte o casuali. Suggestiona la mostra CABINET alcuni richiami aulici dell’arte contemporanea, si vedrà, ad esempio, una similitudine con i lavori degli anni Ottanta di Tony Cragg (pertinente nell’indagine sulla precarietà ma distante sulla proposta modulare, dove la Bettazzi risulta decisamente più espressiva) oppure nella logica sistematica di certe installazioni ambientali di Louise Bourgeois; al di là delle reminiscenze formali, il senso più persuasivo è l’alone di trascendenza diffuso in ogni artefatto del locale e, per osmosi, dappertutto. Parafrasando lo pseudo-Dionigi l’Aeropagita, «la massima espressione del bello si trova nelle idee iperuraniche: perciò, l’arte non deve più essere “mimesis del reale” (Aristotele), ma specchio dell’ideale. Centrale in questo compito non è un’elevata sensibilità dell’artista, che deve cogliere ciò che della realtà sfugge alle persone comuni, ma la sua intelligenza, l’unica in grado di vedere le idee negli enti materiali». Gli oggetti di Chiara Bettazzi sorgono a reliquiari laici, lasciti di un ricordo biografico e collettivo, carichi di un’aura propria della buona poesia, la Forza che attraverso il càlamo sospinge i fiori, guida l’artista, spacca le radici agli alberi. Luca Sposato

Chiara Bettazzi, Cabinet (installation view), Castello di Ama, 2019

Palazzo Viceconte, Matera

Tomaso BINGA Maurizio MOCHETTI

I

deata nell’ambito di Padiglioni Invisibili, progetto della fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea e coprodotto con la Fondazione Matera-Basilicata 2019 nel quadro del programma «Matera 2019 Capitale Europea della Cultura», la mostra Tomaso Binga | Maurizio Mochetti. Hypógheios offre la rara occasione non solo di entrare in contatto con il lavoro di due stelle polari dell’arte contemporanea italiana, ma anche di immergersi in un universo architettonico subacqueo, dove il tempo sembra scorrere in modo differente. Ospitata nel cuore di Palazzo Viceconte, la doppia personale curata da Antonello Tolve accende un riflettore sulle responsabilità «dell’estetica, dell’architettura e della ricerca artistica», si legge sul foglio di sala, «nel processo di creazione e rigenerazione dei luoghi». Attraverso una discesa verso il centro della terra, una catabasi tanto personale quanto collettiva, contenitore e contenuto si fondono, regalando un percorso enterico in uno scenario sospeso e, di fatto, un’esperienza di fruizione straniante dalle valenze rituali. Ad accogliere i visitatori nella prima sala Domus Aurea, il site specific di Tomaso Binga realizzato a partire dall’alfabeto poetico monumentale che, correndo sulle pareti in un ritmico alternarsi di vuoti e pieni, abbraccia il pubblico e lo coinvolge in un gioco poetico combinatorio. Una lunga scalinata permette poi di proseguire il viaggio in uno spazio sequenzialmente tripartito. Al suo interno si susseguono, a intervalli visivi più o meno regolari, quattro opere laser di Maurizio Mochetti che danno voce a un discorso sull’immoto andare, sul perfettibile, sull’infinito – «con la luce laser» aveva difatti affermato in precedenza l’artista «si possono fare cose impossibili da realizzare con la luce artificiale, permettendomi di lavorare sull’infinito» (G. Celant, a cura di,

Maurizio Mochetti, Retta si nasce, curva si diventa, 1988 (Hypogheios, Matera)

Tomaso Binga, Découpe, Alfabeto poetico M, R, D, S (Hypogheios, Matera)

Maurizio Mochetti, Skira, Milano 2003, p.130). In Retta si nasce, curva si diventa, Mectulle, Filo con laser e Freccia laser, spiega il curatore, il codice luminoso «si declina in traiettorie visive come un piano, un punto, una linea» che invadono lo spazio fino a modificarlo a livello percettivo. L’operazione espositiva è stata poi completata da due eventi collaterali organizzati in due diversi momenti della giornata inaugurale: in mattinata Maurizio Mochetti ha partecipato a una conversazione aperta al pubblico, mentre Tomaso Binga ha ricevuto i visitatori nel pomeriggio con una performance poetica. La mostra propone un’attenta riflessione sull’immateriale, sul pensiero creativo, sull’idea e sulla sua materializzazione Giulia Perugini Maurizio Mochetti, Freccia Laser 1988 (Hypogheios, Matera)

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CAMUSAC, Cassino

Michele COSSYRO Daniele LOMBARDI

P

ittura da ascoltare e scultura da abitare. Questa la sintesi che racchiude le due nuove mostre ospitate al CAMUSAC di Cassino sotto la curatela del direttore Bruno Corà: Michele Cossyro “Irretito” e omaggio a Daniele Lombardi “Listening Eyes”. Le esposizioni, seguendo l’indirizzo del museo da sempre attento ad artisti storicizzati con una forte linea analitica e di ricerca, hanno il pregio di porre in evidenza opere poco note sviluppando stimolanti confronti e percorsi trasversali. Da un lato i cicli pittorico-plastici di Cossyro, realizzati tra il 1985 e il 2019, mostrano una tensione vitale in quanto l’oggetto scultoreo, dialogando col segno e con la traccia, par quasi mutare l’estensione spaziale del luogo creando stimolanti dimensioni vitali e feconde osmosi tra le diverse superfici, invadendo il percorso del fruitore. Strutture ambigue, polarizzate e frammentate, mostrano nella loro conformazione come una sorta di metaforica cristallizzazione che frantuma lo sguardo e fossilizza la luce, la irretisce appunto nascondendola nelle pieghe di una finzione non solo materica ma ambientale. Il dialogo con il museo, pur soffocato dalla tensione numerica, diventa azione sottotraccia e astrae. È per lui infatti che la critica inventa il concetto di Astrazione fenomenica in quanto le ambientazioni, le frantumazioni, le disseminazioni e le installazioni rispondono ad un desiderio di sistemazione del reale entro reti complesse, rizomatiche, esplose che definiscono l’esperienza in forme segniche ben precise, facilmente accostabili alle letture musicali di Lombardi, la cui produzione pittorica a base notativo-musicale fa emergere un discorso della traccia legato alla dimensione sonora e percettiva. Il compositore, pianista e artista visivo fiorentino, recentemente scomparso e al

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quale viene reso omaggio nella retrospettiva, ha compiuto un vasto lavoro sulla musica delle avanguardie storiche sviluppando, in campo pittorico, una particolare azione di visualizzazione del gesto, del segno, del colore e della scrittura musicale. Emerge dalle opere una visione estetica che ingloba atto e suono. Il punto di partenza è un’idea di percezione molteplice fatta di analogie, contrasti, stratificazioni, rotture, mentre la ricerca, compenetrandosi su livelli diversi, risulta carica di sedimentazioni e notazioni semantiche. L’arte, come la musica, non è più forma chiusa rappresentativa bensì rappresentazione indipendente ed emergente, concreta e aleatoria al tempo stesso, fatta di eventi ma anche di scritture che determinano un linguaggio personale e destrutturato. Gli occhi, secondo un’utopia portata avanti dalle avanguardie, possono ascoltare: “Visualizzare un pensiero musicale come apparizione di forme -mi scrisse una volta Lombardi- per me è stato un ponte per collegare l’evoluzione creativa e il suo risultato potenziale: come riportare la musica al di qua, o al di là, di un impatto emotivo, per trovare la sua logica formale. Suono ed immagine si legano tra di loro secondo l’efficacia della relazione biunivoca che la notazione rende possibile: rimane una sfida che non è stata certo risolta in quegli anni di ricerca e un problema aperto, nonostante il mutamento dovuto alla presenza forte del digitale e il suo mondo virtuale”. Questa sfida tra suono immagine spazio e scultura è invece perfettamente risolta al CAMUSAC, attraverso un allestimento coinvolgente capace di mettere in dialogo astrazioni divergenti eppur profondamente segnate dalla ricerca di un circuito interno di senso. Tommaso Evangelista


attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nelle immagini, gli allestimenti delle opere di Michele Cossyro (Irretito) e Daniele Lombardi (Listening eyes) al CAMUSAC di Cassino

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CRAC Puglia, Taranto

Segni di Luce Il disegno come progetto

L

a creazione artistica segue di norma una predeterminata processualità, sostanzialmente compresa tra il disegno preparatorio e l’opera finale. Questa successione temporale, dotata di una propria ritualità, è il risultato di un procedimento di bottega impostosi nei secoli che vedeva nel disegno il fondamento di ogni processo creativo. Paradigmatico in tal senso è il caso di Federico Zuccari, che nel raccogliere l’eredità teorica vasariana, riconosce al disegno il ruolo di “padre e figlio della pittura” fino ad identificarlo con la stessa creazione artistica, a sua volta assimilata a quella divina. Una considerazione quella di Zuccari giunta dopo una lunga analisi epistemologica, iniziata due secoli prima, quando Cennino Cennini nel suo Libro dell’Arte introduce, seppur in forma larvale, l’idea umanistica del disegno come fatto mentale, recependo prontamente un contesto intellettuale che progressivamente stava ponendo i suoi postulati teorici. Da quel momento l’ascesa del disegno come accadiment o cerebrale e non puramente manuale, assume nel corso dell’era moderna autorevoli portavoce, da Leon Battisti Alberti a Piero della Francesca, da Leonardo da Vinci ad Annibale Carracci, fino a Nicolas Poussin che definisce i suoi disegni “pensieri”, riconoscendone il valore speculativo. La consacrazione del disegno giunge a compimento sul finire del Settecento, quando un semplice schizzo diventa per Dézallier d’Argenville, scrittore francese estimatore di Fragonard, “la prima idea di un pittore, il primo fuoco della sua immaginazione” in cui egli “s’abbandona a se stesso e si mostra tale e quale è”. Da quel momento il valore primigenio del disegno insieme al suo carattere di confessione, dovuto alla protezione fornitagli dalla separatezza in sede sociale, prevale su ogni altra considerazione divenendo per Baudelaire “il privilegio del genio” e per Enrico Prampolini “la scrittura automatica dell’immagine”. All’indagine di questa valenza speculativa che nel disegno vede la testimonianza dell’idea primigenia, è rivolta la mostra “Segni di Luce: il disegno come progetto”, promossa dal CRAC Puglia Centro di Ricerca Arte Contemporanea della Fondazione Rocco Spani Onlus, in collaborazione con l’associazione “MAS - Modern Apulian Style” e la galleria “Opere scelte” di Torino, patrocinata dall’Accademia di Belle Arti di Brera e da AMACI (Associazione

Massimo Uberti, Abitare, 2012. Bruciatura controllata su carta, cm 40x40

dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani), nell’ambito della XV Giornata del Contemporaneo. Curata da Sara Liuzzi, con il contributo scientifico di Luigi Paolo Finizio, la mostra è allestita nell’ex Convento dei Padri Olivetani, affascinante struttura monastica del XIII secolo, in pieno centro storico tarantino. Il tema d’indagine, esplicitamente rivelato dal titolo della mostra, trova la sua ragione d’essere proprio nella collezione permanente del CRAC, che dal 2015 ospita “Piano Effe”, il primo Archivio Storico Nazionale del Progetto d’Artista e dello Studio Preparatorio, nato da un’idea del 1992 di Bruno Munari che diede avvio alla collezione affidando un proprio progetto alla Fondazione Rocco Spani Onlus. Quattro gli artisti scelti per dare forma sensibile alla riflessione: Carlo Bernardini, Giulio De Mitri, Paolo Scirpa, Massimo Uberti; quattro autorevoli personalità dello scenario artistico contemporaneo, differenti per formazione e provenienza ma accomunate dalla scelta della luce quale mezzo espressivo, particolare quanto unico, luce non più dipinta, imitata, simulata, ma concretamente assunta. Per Carlo Bernardini, ad esempio, la luce è strumento di espressione e ricerca sin dal 1996, anno in cui sceglie di lavorare con la fibra ottica, facendone uno scenografico mezzo d’indagine spaziale e di rivelazione del vuoto. I progetti in mostra testimoniano, attraverso segni netti e decisi, il modus cogitandi dell’artista che crea, entro ampi spazi vuoti, monumentali poliedri che, oltre ad

Giulio De Mitri, Transitorie architetture, 2015. Inchiostri, pennarelli, retini, matite, su carta, cm 35x50

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

imporsi alla vista come architetture effimere, consentono allo spettatore di prendere concretamente coscienza e conoscenza dello spazio che attraversa. Bernardini disegna lo spazio, lo delimita rispettandone l’impalpabilità. Ogni faccia dei suoi poliedri esiste solo in virtù degli spigoli luminosi che la delimitano. La luce dunque da presenza immateriale diviene fortemente concreta, imponendosi alla vista e dettando i tempi e i modi della percezione. Simula il pieno nel vuoto anche Massimo Uberti, i cui lavori sono il risultato di un complesso percorso di sottrazione nel quale la luce è la sola materia plastica consentita. L’artista, come Bernardini, indaga lo spazio e le sue molteplici possibilità percettive, ma a differenza del primo non formula spazi luminosi estranianti, tutti tesi alla ridefinizione del vuoto, ma crea ambienti concretamente abitabili, riconoscibili e familiari. Lo dimostrano bene i progetti in mostra che, come le opere concluse, rappresentano una casa (Abitare, 1999), un tavolo e una sedia (Scrittoio, 2000), delle scale (Verso l’infinito, 2012) o semplicemente un varco (Varco Grande, 2015); spazi della quotidianità disegnati sulla carta dal segno netto della bruciatura e nello spazio dal neon, in un processo di trasposizione tridimensionale che vuole l’opera conclusiva intimamente legata al progetto di cui ripropone, in una puntuale rispondenza, il valore della linea e l’energia del segno. La luce è elemento spaziale anche per Paolo Scirpa, artista che da circa quattro decenni “progetta degli oggetti tridimensionali e delle pitture dove la luce e il colore danno effetti particolari” (B. Munari, 1980). Luce e colore sono i due elementi che l’artista manipola nei suoi Ludoscopi, cannocchiali rovesciati ottenuti dalla successione regolare di neon colorati. Il risultato è la creazione di spazi profondi, a tratti ipnotici, con

spiccate proprietà architettoniche. Lo rivelano anche i progetti esposti in cui più del segno è il colore a creare la spazialità, rivelando l’intrinseca natura delle installazioni luminose. I neon si insinuano in cavità regolari assecondando geometrie e ritmi percettivi fino a coinvolgere lo spettatore in andamenti armonici di vaga assonanza optical. Il risultato è un’indagine luminescente sulle dimensioni dell’infinito e dell’ignoto, temi da sempre cari all’uomo e alla sua propensione gnoseologica. Differente è invece l’approccio alla luce e allo spazio di Giulio De Mitri che nella farfalla, nell’acqua e in pochi elementi archetipici come un bacile e le forme geometriche pure, ha riconosciuto suoi precipui fattori culturali ed identitari. Applicata a questi elementi la luce, quasi sempre blu, diviene fattore alchemico ed elemento memoriale; un mezzo attraverso cui traghettare lo spettatore in una dimensione altra, primigenia e metafisica. Tutto questo lo si percepisce dai progetti presentati in cui al processo di trasmutazione di Omnia mutantur del 2002/2003 fanno eco il passaggio tra vita e morte parafrasato da La porta del cielo del 2010 e la dinamica vuoto-pieno dell’installazione ambientale realizzata nel 2015, nel Loggiato del Vasari, ad Arezzo per la III edizione della rassegna “Icastica”. Il disegno di Giulio De Mitri - affermava Alda Merini nella sua silloge “Furibonda cresce la notte” (Manni Editore, 2016, p. 27) - è poesia: «... purezza di canto, / precisa linea che è sonora / come sonoro è l’abito dei santi, / la tua castigatezza il tuo mito, / e l’intera rivoluzione del pianto / che ti fanno poeta e sommo e schivo / d’ogni traguardo tu che sei vivo / sei nell’altezza acuta dello sguardo». Carmelo Cipriani

Paolo Scirpa, Senza titolo, 1994. Matita su carta, cm 22x33

Carlo Bernardini, Scultura, 2004 (matita su carta, cm 80x60)

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Paolo Scirpa, Ludoscopio n. 34, 1978. MACBA, Buenos Aires, 2013. Foto Keiler Delgado

Artisti in copertina

Paolo SCIRPA

Q

uando nel 1972 Paolo Scirpa ha realizzato il suo primo “Ludoscopio”, mettendo in scena la luce creata e moltiplicata dal neon e non una luce dipinta, o suggerita, o rappresentata, l’attenzione degli artisti e del pubblico più smaliziato era già rivolta ad altro, era passata dall’interesse scientifico e analitico per i problemi della percezione, e di un’arte esatta, il più possibile oggettiva, ai problemi sociali, ai conflitti politici, alla lotta rivoluzionaria che allora era quotidiana e pervasiva di ogni azione e di ogni pensiero. Di fatto, a guardare anche quei primi lavori con la luce, per cui oggi è giustamente noto, (un versante di indagine artistica sul consumismo, che pure ha portato avanti, rimane tutt’ora meno conosciuto…) si potrebbe dire che la sua ricerca appartiene a quella branca ottico-cinetica dell’arte, che aveva conosciuto i maggiori fasti nazionali e internazionali tra il 1959 e il 1965/66,

Con la sua ricerca sulla luce si è discostato dall’indagine cineticoprogrammata, perché ha introdotto nei suoi neon una valenza simbolica che vuole sfociare addirittura nella trascendenza: quanto di più lontano cioè, dall’intenzione di esattezza, misurabilità, fisicità, e controllo cui l’arte cinetica ci aveva abituati in precedenza Paolo Scirpa, Espansione e traslazione bifrontale, 1973. 75x75x20 cm

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artisti in copertina

Paolo Scirpa, Ludoscopio n. 30, 1976. Omaggio a Kandinsky, 40x40x40 cm

Paolo Scirpa, Ludoscopio E7. Espansione, 2006. 40x40x40 cm + 14 cm base

Paolo Scirpa, Ludoscopio n. 13, 1976. Espansione+traslazione a luci intermittenti. 60x60x60 cm + base

Paolo Scirpa, Ludoscopio A10. Convergenze e divergenze dinamiche, 2006. 30x70x70 cm

ed era poi lentamente declinato con la caduta di fiducia nelle possibilità di una società “percettivamente” migliore, e nell’ascesa di altre tendenze, come la Pop Art – che ne era agli antipodi – o l’Arte Povera, che sfruttava maggiormente l’aspetto di contestazione sociale globale. Ora, a prima vista il suo lavoro effettivamente apparterrebbe in toto a quella ricerca, ma non a quella stagione: un lungo apprendistato siciliano - Scirpa è nato a Siracusa nel 1934 – tra le file dell’astrazione, il trasferimento a Milano nel 1968, la prima personale milanese nel 1969, avrebbero fatto sì che l’aspetto ottico-cinetico del suo lavoro non sia coinciso col momento di sviluppo e di attenzione di cui invece artisti e gruppi dell’arte cinetica italiana – ricordiamo il Gruppo T o il gruppo Enne, o anche il gruppo MID – avevano goduto a pieno titolo. Tant’è: solitamente un artista è più condizionato dal proprio percorso mentale che da fattori contingenti, sociali, ambien-

tali, politici, anche se naturalmente non vanno sottovalutati, almeno per quanto riguarda il consenso. Ma Scirpa con la sua ricerca sulla luce si è anche discostato dall’indagine cineticoprogrammata, perché ha introdotto – o “re-introdotto” – nei suoi neon una valenza simbolica che vuole sfociare addirittura nella trascendenza: quanto di più lontano, cioè, dall’intenzione di esattezza, misurabilità, fisicità, e controllo cui l’arte cinetica ci aveva abituati nel decennio precedente. Gli ottico-cinetici per così dire di stretta osservanza, mostravano infatti scarsissima attenzione per ogni aspetto che volesse andare oltre i problemi della percezione umana o i problemi “storico-sociali” della percezione, intendendo con questi l’analisi non solo di ogni tipo di percezione fisiologica, ma anche l’analisi del linguaggio della visione, e l’analisi dei rapporti tra produzione della visione e ricezione della visione, con qualche sconfinamento, se si vuole, nel campo della sociologia (per non parlare del rapporto arte/

Paolo Scirpa, Composizione, 1964. Collage+tempera su carta, 37x57 cm

Paolo Scirpa, Ludoscopi nn. 127, 128, 1988. Raccordo ottagonale porpora. Espansione curva convergente e divergente. 50x50x20 cm cad.

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Paolo Scirpa, Pozzo. Espansione+traslazione curve, n. 104, 1985-1998. 44x107x107 cm

Paolo Scirpa, Percorsi comunicanti, 1989-1999. Museum Ritter Waldenbuch, 2019

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artisti in copertina

Paolo Scirpa, Cubo multispaziale n. 83, 1987- 2007. 40x40x40 cm+14 cm base Paolo Scirpa, Cubo multispaziale, n. 137, 1987-2007. 40x40x40 cm+ 14 cm. base Paolo Scirpa, Espansione dinamica, 2017. Pastello a olio su tela, 80x80 cm

industria o arte auratica/arte moltiplicata che ne erano corollari importanti); al contrario, Paolo Scirpa poneva, e pone, il problema addirittura trascendentale della “luce”, di cui la luce reale – ottenuta con gli strumenti che anch’egli usa – non è che un riflesso. Come a dire che ciò che gli interessa è la luce ideale, e che per affermare questo interesse, e l’importanza che quella luce ha per sé e per l’interpretazione del mondo di cui l’artista si fa tramite, è disposto a sopperire con i poveri mezzi concreti che il mondo gli mette a disposizione, fermo restando però che questi mezzi non sono che l’ombra, il rappresentato, l’imitazione, il riflesso, appunto, di quel significato più grande. Il suo, dunque, è un mondo platonico, persino religioso (in un mio testo precedente, affermavo che Scirpa è più vicino a Beato Angelico che a Lazlo Moholy-Nagy …), che si avvale di tecnoloPaolo Scirpa, Vibrazione luminosa, 2002. Acrilico su tela, 150x150 cm

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Paolo Scirpa, Il Teatro, 2019. Neon azzurro su legno. 220 x 110 x 10 cm Paolo Scirpa, Progetto d’intervento n. 209, 1988. Fotomontaggio. Necropoli Greco-romana di Grotticelle, Siracusa

gie extrartistiche per l’epoca quasi nuove , non tanto per affermare con queste una raggiunta fisicità dell’arte, la presenza oggettuale e oggettiva del reale nel linguaggio espressivo, quanto piuttosto per suggerire che anche dietro questa oggettualità, questa idea di “nuovo” , di progetto e di progresso, la questione della “luce” resta comunque inafferrabile a chi non si ponga di fronte ad essa con un animo “illuminato”. Marco Meneguzzo Paolo Scirpa, Percorso comunicante, 1987. 40x120x120 cm. Fabbriche Chiaramontane, Agrigento, 2017

Paolo Scirpa, Progetto d’intervento n. 251, 1994. Fotomontaggio. Arco della pace, Milano

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artisti in copertina

Paolo Scirpa, Percorsi comunicanti, 1987. 40x120x120 cm cad. Installazione, 2011

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MARCA Museo delle Arti, Catanzaro

Lucia ROTUNDO

S

ono le opere più recenti, quelle realizzate fra il 2015 e oggi, alcune totalmente inedite, il cuore della suggestiva personale di Lucia Rotundo impaginata fra gli spazi del Museo Marca di Catanzaro e curata da Vittoria Coen. L’artista, che per questo appuntamento ha regalato alla propria terra un’intensa esperienza nel mondo della sua arte, sin dagli esordi ha posto attenzione al recupero di taluni aspetti “manuali” – la scultura è infatti la sua cifra per chi la conosce approfonditamente – nella quale ha sempre assunto rilievo l’uso di materiali misti, secondo un’originale combinazione fra naturale e artificiale, attraversati e sperimentati in ragione degli esiti formali quanto ai contenuti che attengono alla sua opera. Per essere precisi gli elementi con i quali la Rotundo gioca, sono pochi ed essenziali. Da un punto di vista formale tutto è sorretto da una rigorosa geometria scandita da cerchi, ovali e linee rette o oblique che fungono da strutture Lucia Rotundo, Sacralia, 2019 abete, multistrato, cotone,acrilico, foglia oro cm 120x80x7,8 cred. fotograf. Giorgio Ciardo Lucia Rotundo, Architetture poetiche, 2018 multistrato, tela, abete, acrilico, resina, foglia oro cm 1,5x100x17cred. fotografici Giorgio Ciardo

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compositive dell’opera stessa, sovente impaginata nella forma del quadro. Una geometria che, se da un lato riconduce il pensiero a motivi arcaici regolari– ricordiamo, infatti, come già nell’antica Grecia, se non addirittura nelle popolazioni primitive, la stilizzazione geometrica fosse simbolicamente il referente di un oggetto reale, veicolo di messaggi narrativi e spirituali – dall’altro s’ispira a matrici contemporanee e di stampo prettamente minimalista. Aggiungiamo in seguito il tema del colore che, come bene ha evidenziato Vittoria Coen nel testo critico in catalogo, si limita al solo uso del bianco e dell’oro, quest’ultimo in realtà utilizzato nello statuto di foglia. Sul bianco, la curatrice non manca di evidenziare lo stringente nesso che lega Lucia Rotundo alla storia dell’arte, in particolare a quella del novecento cui l’artista appare particolarmente legata e debitrice, seppure e sia da rilevare, nulla di manieristico traspare nel suo agire ma semmai una riorganizzazione completa di quegli stessi insegnamenti che vengono dall’arte del secolo scorso. Si pensi ad esempio a Kandinsky, le cui parole non a caso sono citate dalla stessa artista, per il quale il bianco diventa sinonimo di “silenzio, di assenza come luogo della purezza, del niente o dell’invisibile”. Si pensi a Malevič che ne fa un vero e proprio luogo mentale, o ancora a personalità come Rauschenberg o Ryman dove il bianco diventa elemento superfluo alla ricerca dell’essenziale. In tal senso, si potrebbero citare innumerevoli artisti quali referenti visivi di Rotundo ma in realtà è il dato simbolico e spirituale quello su cui bisogna soffermarsi per cogliere quella particolare valenza e sfumatura che assume questo colore o non colore nella sua opera. Una tinta di ascendenza zen, allusiva al nulla e al vuoto se vogliamo, dove, per l’appunto silenzio, purezza e invisibile sono certamente i sostantivi e gli aggettivi che meglio descrivono il dato concettuale sotteso alla sua opera che, nella combinazione con la foglia oro assume connotati inconfondibili. Anche in questo caso non sfuggirà il richiamo all’antichità, ma prima ancora all’unicità che il prezioso minerale rappresenta. In tutte le culture l’oro ha sempre avuto, infatti, un ruolo importantissimo. Pensiamo ancora una volta alle civiltà preistoriche, alla cultura Egizia e all’esplicito riferimento a Râ, dio del sole, come sostanziato d’oro, a quella Greca, al vello d’oro, ad esempio, cercato dagli Argonauti o a Zeus che si trasforma in pioggia d’oro per amare Danae. Ancora, si pensi a cosa rappresenti l’Arca dell’Alleanza rivestita d’oro per il popolo ebraico e poi all’epoca Bizantina fino a giungere al novecento che con un balzo, per esempio, che ci riporta all’arte del viennese Klimt. In questo contesto c’è anche la parola, ovvero quell’elemento linguistico, poetico e poietico al contempo che ha un peso specifico propriamente dato e che accompagna lo spettatore aiutandolo a penetrare meglio il senso di ciò che sta osservando. Leggiamo, infatti, come titoli delle opere Magna Grecia II (2016) Mutamento (2019) Viaggio tra storia mito e identità (2018) Poiesis (2017) Sacralia (2019) tutti assolutamente esplicativi ed esemplificativi di quanto stiamo affermando. Va da sé che l’oro sia lo specchio di un altro elemento fondante nell’opera di Rotundo: la luce, e anche in questo caso un’opera come Lux (2018) o prima ancora Aurora (2015) possono essere prese come esempi introduttivi di un altro argomento caro all’artista. In questo senso, è ancora una volta Vittoria Coen a esprimersi con grande chiarezza tracciando criticamente un ulteriore aspetto concettuale fondamentale nella ricerca dell’artista. “Il tema della luce quale fonte di vita, di sopravvivenza dell’uomo e di tutte le forme di vita sulla terra, ha suggestionato, da sempre, gli artisti che hanno creato lavori per raccontarlo, interpretarlo. Da Giotto a Piero della Francesca, da Leonardo a Rembrandt e Caravaggio la luce è tema di ispirazione e allo stesso tempo medium culturale. La luce alimenta corpo e spirito”. Come non cogliere, allora, l’altro grande tema toccato da Lucia Rotundo, ovvero quello della femminilità, in quanto vita ed esistenza stessa. Non a caso mater è proprio uno di quei titoli che ricorre nei lavori dell’artista (Mater 2015; Maternità 2016) e che richiama tanto all’origine di una rappresentazione figurata – anche questo è un pensiero estrapolato dalla lettura data da Coen – quanto a quella più atavica che riguarda l’umanità in generale. In conclusione, sono diversi gli spunti che il lavoro di Lucia Rotundo offre a chi vi si accosta, spunti che con forme nette e minimali, rese con essenzialità, rimandano metaforicamente a una sorta di filo labirintico che se riannodato, narra di quell’intimo groviglio si sentimenti, sensazioni e fatti spirituali che alludono propriamente alla vita. Con Architetture poetiche, omonimo titolo di un’opera del 2018, Lucia Rotundo tende la sua delicata mano verso chi ha voglia e desiderio di valutare l’esistenza e l’esistente in modo diverso e profondo contrariamente a dove la contemporaneità tende oggi a spingerci. Maria Letizia Paiato


attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Lucia Rotundo, Ascesa, 2018 multistrato, cotone, acrilico, acciaio, foglia oro Installazione con dimensioni ambientali cred. fotograf. Beatrice Canino.

Lucia Rotundo, Mutamento, 2019 multistrato, cotone, acrilico, resina, foglia oro Installazione con dimensioni ambientali crediti fotografici Giorgio Ciardo

Lucia Rotundo, Magna Graecia II, 2016, tela, abete, acrilico, foglia oro, cm 40x120x11 Lucia Rotundo, Viaggio tra storia, mito e identitĂ , 2018 multistrato, tela, acrilico, acciaio, foglia oro, metacrilato, ottone, pietra, PVC, piume, rame Instal. 15 elementi cm 30x30 cad. cred. fotograf. Giorgio Ciardo

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Artisti in Studio

Gaetano, ZAMPOGNA

N

el suo studio, tra tele addossate le una alle altre nei diversi angoli, tra disegni e tele arrotolati o appesi alle pareti, ha inizio il mio itinerario di indagine conoscitiva del lavoro creativo di Gaetano Zampogna. In rigoroso ordine cronologico, osservo per cogliere il momento sorgivo del suo alfabeto, i passaggi evolutivi della sua ricerca, mi soffermo, assimilo, chiedo, confronto, formulo pensieri, concetti, declino ipotesi interpretative. In un universo di segni, di simboli veicolati dai media, che valore, che identità comunicativa hanno i segni dell’arte? Come si pone il messaggio dell’arte, la sua identità estetica in una congerie di messaggi che usano comunque l’estetica come ulteriore elemento persuasivo? E’ un contesto denso di interrogativi sullo statuto dell’arte contemporanea quello in cui nascono le prime fondamentali opere di Zampogna; una dimensione in cui i segni dell’arte si confondono con quelli sociali fino ad annullarne le differenze e a creare disorientamento. Siamo verso la fine degli anni ottanta, nell’era della post-moGaetano Zampogna, Senza titolo, 2014 dernità. In questo periodo l’artista fa parte del gruppo Artmedia. (tecnica mista su tela di lino, cm. 130 x 130 Non a caso, nelle dichiarazioni di poetica, il gruppo identifica “nella riconoscibilità dei segni del sistema dell’arte” la chiave di volta da cui partire. Essa presuppone la realizzazione di lavori spazi aperti all’infinito, ai paesaggi urbani e, per diretta condi appropriazione attraverso cui operare azioni di stravolgimento seguenza, ai grandi manifesti pubblicitari, alle copertine dei dello stesso sistema segnico messo in atto. Nelle opere realizzarotocalchi, alla realtà virtuale, alle immagini proposte dai mete con Artmedia, Zampogna delimita un territorio sociale ad alta dia e dai new media; dal generale al particolare, si sofferma, densità segnica, se ne appropria fotografandolo e stampandolo indaga, libero di saccheggiare, di appropriarsi ancora, di rifare in cibachrome, poi realizza un’ulteriore azione di appropriazione, con la pittura, con l’immediatezza tecnica del riporto di immainserendovi un’opera di un artista già storicizzato, carica di sigini che parte sempre dalla fotografia. Egli proietta la sagoma gnificati e di rimandi concettuali che “mette in gioco momenti sulla tela, la attraversa pittoricamente con rapide pennellate, emblematici dell’arte contemporanea”. Con la sua insolita ibricon campiture essenziali, affidando la riproduzione alla dinadazione segnica, egli attua una profonda riflessione sul sistema mica del gesto, del segno, senza indulgere in vuoti virtuosismi stesso dell’arte contemporanea, sulla sua fragilità sistemica, manieristici, ma replicando l’immagine come traccia attenuata mettendo in discussione il concetto stesso di appartenenza di una realtà letta con voluto distacco. I lavori pittorici di questo dell’opera e di genio creativo e istituendo una co-autorialità che periodo propongono un realismo più intimo, personale, quasi rafforza il riconoscimento dell’artisticità dei segni . Nei primi una visione in controluce dell’immagine, su cui ancora interveanni novanta Zampogna si muove, quindi, nell’area dell’appronire con scritte, loghi, simboli, slogan, segni comunque che, priazionismo concettuale sperimentando un originale processo nell’intenzione dell’artista, devono catturare, ancora più che di decostruzione e assemblaggio non privo di vis dissacratoria. lo sguardo, la mente e la capacità del pensiero di leggere e caIn esso egli utilizza opere di Sol Le Witt, Andy Warhol e di altri pire dentro e al di là della loro definizione visiva. Nell’opera di artisti del novecento, contestualizzandole nella superficie oggettuale della Gaetano Zampogna, Animali porta fortuna, 2004 (acrilico e inchiostro serigrafico su tela, cm. 220 x 200) realtà fotografata che, in alcuni casi le fagocita, assimilandole al proprio tessuto segnico, in altri determina un confronto-dialogo che annulla di fatto le distanze tra sistemi segnici, innescando un continuum di corto circuiti dialettici tra realtà e rappresentazione, tra verità e vero. Col suo duplicare la realtà in effige, quindi in assenza della cosa rappresentata, l’arte già propone una riflessione sulla verità e sul suo statuto ontologico. Nelle opere successive l’artista ribalta l’operazione di appropriazione e nel frammento di realtà riprodotto fotograficamente inserisce una sua opera, ponendo l’accento ancora una volta sul sistema debole dell’arte alla ricerca di nuovi territori linguistici da esplorare, ma individuandoli in quella stessa realtà sociale in cui è immerso e che ne scandisce il vivere quotidiano. Così i segni della realtà sociale e quelli dell’arte coesistono in un unico testo creativo, nella stessa identità autoriale. Egli , in tal atto, compie un percorso di simulazione e manipolazione dell’immagine che è anche di critica alla rappresentazione artistica, realizzata, in una ripetizione tautologica, attraverso la rappresentazione stessa. Col tempo, il suo interesse per la realtà sociale via via si amplia , si estende ai luoghi del vissuto, agli 60 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

servirne le scelte. Il potere mediatico è anche quello che distribuisce fortuna col gioco. Simboli, immagini, cifre, codici a barre riconducono alle varie lotterie, all’Isola del tesoro, al Giocagiò, alle Carte fortunate, al Gratta e vinci e alle diverse possibilità da esse offerte di inseguire il sogno, di coltivare la speranza, ma anche nuove forme di dipendenza. I soggetti ritratti in questi lavori sono giovani che si portano dentro le problematiche sociali, i disagi, le illusioni di una generazione senza più grandi ideali. In alcune opere di questa serie si aprono delle finestre di dialogo con altri frammenti di realtà che premono contro lo schermo della rappresentazione per emergere e raccontare, in modo a volte stridente e contraddittorio, l’urgenza del reale, i fatti, gli episodi, le persone , le situazioni che connotano l’attualità. Nella sua evoluzione linguistica il lavoro di Zampogna, assume una capacità d’analisi sociale, un’ identità critica che finiscono col diventare cifra stilistica. Nelle sue opere, allora, i segni dell’arte, in quanto portatori di una propria verità sostanziale che sottende al vero, si riconoscono; essi, infatti, declinano connotazioni sociologiche, ma riescono a demistificare il sistema di segni mediali con ibridazioni creative che ne smontano il potenziale negativo. L’opera diventa luogo d’analisi, ma anche di racconto, di narraGaetano Zampogna, Senza titolo, 2017 zione che scavano nel dato oggettivo smontandolo e rimontan(tecnica mista su stoffa, cm. 130 x 125) dolo secondo regole etiche che affiorano dalle distese inquiete del proprio mondo interiore. Sono di questo stesso periodo le priZampogna, i segni estrapolati dalla realtà sociale condividono me “macellerie” che preludono ad uno straordinario percorso di la spazialità della tela, ma la struttura compositiva e la strategia sintesi operato nella profondità del proprio Io in cui confluisce comunicativa la decide l’artista, che ne determina la significatil’Io sociale. In questo nucleo di opere che scorre davanti ai miei vità utilizzando indifferentemente tecniche e strumenti mediali occhi , appendici mobili del mio sentire analitico, si condensa e artistici. Così il messaggio mediatico diventa oggetto di decol’inquietudine, l’angoscia che attanaglia l’uomo contemporaneo, struzione artistica non priva d’ironia, ma anche di valenza etica, uomo sociale per antonomasia, ma sostanzialmente uomo solo motivo d’azione che tende a smascherare i meccanismi perversi nella vastità di relazioni sociali. Con le “Macellerie” Zampogna della persuasione e del pensiero indotto, a svelarne le forme porta in scena il corpo dell’arte, il vero dell’opera: Ecco, prene i modi attraverso cui , agendo nel subliminale, condiziona i dete, questo è il mio corpo! E il corpo si fa carne e si offre come comportamenti. E la persona, l’essere umano diventa oggetto di possibilità di salvezza. La carne si mostra in tutta la sua forza questi nuovi lavori di Zampogna in cui il suo realismo appropriaeventica, ma senza crudezza, raffreddata nel suo impatto visivo, zionista si colloca al confine tra il sistema dell’ arte, la realtà quasi elemento fantasmatico, ricordo emerso dalla distesa imsociale dominata dai mezzi di informazione e comunicazione mobile del non pensante. Le “Macellerie” di Zampogna, prima di massa e l’universo virtuale che essi generano. Egli, in partidi essere elemento sociale, narrazione simbolica, metafora del colare, si sofferma sui giovani, spesso soggetti inconsapevoli e destino umano, sono memorie reali di mattanze , non solo di indifesi dei messaggi provenienti dal mondo mediale. Sono la animali , ma anche di esseri umani cui da ragazzo ha assistito. parte più fragile, più facilmente condizionabile ed è proprio sulla In esse l’arte offre a Zampogna la possibilità di rivivere, in forma loro fragilità che viene costruito il messaggio destinato ad ascatartica, eventi traumatici, agendo come possibile negoziazione terapeutica di frammenti essenziali del proprio essere, permettendogli Gaetano Zampogna, Omaggio a Bacon 2, 2018 (tecnica mista su stoffa, cm. 170 x 140) di sublimarli in immagini assolute, in valori più universali. Ma le “Macellerie” sono all’origine fotografie di una realtà che si porge come “ riva comune a all’uomo e all’animale, come zona franca di scambio, in una condizione in cui è impossibile decidere tra umanità e animalità”. Sembra di sentire Bacon che sottolinea “Noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che entro in una macelleria mi stupisco di non essere io al posto dell’animale.”(1) Le opere di Zampogna, in un coacervo di fisicità ed emozione, rivelano una visione nuova del suo lavoro, in cui gli animali macellati mischiati a sagome di teschi umani, riletti attraverso la coscienza e la memoria, conducono ad una rigenerazione della carne, alla rinascita nell’orizzonte salvifico dell’arte della stessa condizione umana, consumata, alienata dal suo stesso vivere sociale . E’ forse per questo che le sue raffigurazioni si affidano alla morbidezza dei segni, alla decorazione di stoffa prestampata, spesso floreale, usata come sfondo, che smorzano la crudezza della carne macellata, ne attutiscono la violenza dell’urlo, mostrando la verità di una redenzione che nella carne esprime tutta l’esaltante bellezza della vita. Teodolinda Coltellaro SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 61


Nelle immagini, viste della mostra “Icone” di Fausto Bertasa alla Galleria Vigato, Alessandria

Galleria Vigato, Alessandria

Fausto BERTASA

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a pittura di Fausto Bertasa - codificata nella corrente definita ‘Pittura Fredda’ (’Cool Painting’) e vicina ai maestri statunitensi (Philip Taaffe, Peter Halley) ed austriaci (Heimo Zobernig, Franz Vana), parte dalla ricerca di una possibile estetica della codificazione meccanica, dalla realtà suggerita dai nuovi mezzi di comunicazione, e cerca di far affiorare in superficie una nuova geometria, quella della società post-industriale, oggi mondo della post-verità. Il suo lavoro parla dei codici visivi della realtà contemporanea, dal bar-code sino alla parola dipinta, esplorando il mondo dei media, dai quotidiani internazionali a internet, dalle tastiere dei PC sino al mouse pad, con particolare attenzione per i messaggi delle nuove tecnologie e per la comunicazione, sia digitale che verbale che scritta. Nonostante la varietà dei media usati (neon, fotografia, scultura, video, disegni, installazioni), la sua ricerca ha sempre messo in primo piano la pittura basata su un’accurata ricerca del colore e su una presenza costante del “fattore lettering”. La parola, la lettera, il codice base della nostra comunicazione, è qui rappresentata nell’atto di trasformarsi in qualcosa di nuovo, di diverso, mentre il senso del suo messaggio pare scomparire entro una verità puramente estetica. Nel contempo il colore, da sempre in grado di emozionare in modo immediato, istantaneo, dimostra in tutta la produzione di possedere un’attrattività capace di competere con quella generata dalla pubblicità e dai nuovi schermi, i quali mancano, però, della seduttività e dello stupore che sa generare, ancora oggi, il colore dipinto. Nella

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mostra “Icone” troviamo pertanto opere come “SMS”, in cui l’artista riprende la primordiale simbologia usata nei cellulari, scorporata, quasi irriconoscibile, ma densa di segni e lettere. Il raffronto tra le opere nuove e quelle degli anni Novanta, mette in luce un percorso basato sul segno e sulla scrittura, sia essa una scrittura a “mano libera” - come in “lettere d’amore smarrite”(1994) - sia in “parlo con gli occhi”(1990) dove le parole, che, a malapena, si vedono in quest’opera monocroma, ci riportano al rigore delle macchine da scrivere. L’artista, dunque, mette a fuoco un pensiero che affonda le sue radici nella situazione sociale e culturale contemporanea, riflettendo sul carattere degli strumenti della comunicazione di massa, i cui messaggi raggiungono un enorme numero di utenti, generando processi grandissimi di amplificazione e di ridondanza delle notizie, creando così un immaginario collettivo omogeneo ed effimero. La sua produzione artistica - con il rinnovamento delle forme e dei simboli di una realtà in costante evoluzione - rende “Icone” della propria epoca tutte quelle immagini capaci di descrivere i grandi mutamenti in corso. Le opere prendono atto del passaggio ad un nuovo tipo di società, una realtà mutata, in cui la pittura desidera trovare il suo spazio. Così, mentre l’artista rimane testimone del proprio tempo, la pittura si mantiene protagonista, giorno dopo giorno, epoca dopo epoca, rivelandosi in tutta la sua tensione creativa, quasi volesse dominare la scena a tutti i costi, in qualsiasi circostanza, pure in un presente freddo, meccanico, disumanizzante. L.S.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Dep Art, Milano

Pino PINELLI

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ep Art presenta una personale di Pino Pinelli (Catania, 1938), a cura di Francesco Tedeschi, in cui sono esposte tredici opere realizzate tra il 1973 e il 1976 con la volontà di mettere in luce il periodo in cui l’artista approfondisce la tematica del monocromo e sperimenta le infinite potenzialità del colore; si tratta di dittici, trittici e un polittico dai colori primari e talvolta complementari in cui la pittura diventa “materia viva” capace di rigenerare e ridefinire l’ambiente circostante. Pinelli durante l’inizio degli anni Settanta matura una lettura critica della “forma-quadro” giungendo in poco tempo alla rottura e al superamento del limite imposto dal supporto della tela per poi aprirsi – a partire dal 1976 – alla disseminazione per la conquista dello spazio. Il suo “fare pittura” diventa un momento

di riflessione sull’uso del colore: nei monocromi non vi è una stesura piatta e omogenea della materia, bensì un brulicare di energia dilagante. È proprio a partire da queste opere che si può già avvertire una pulsione inquieta che movimenta e sollecita la superficie pittorica fino ad arrivare al vero e proprio punto di svolta in cui l’artista va oltre il limite del supporto, ponendo le basi per lo sviluppo del successivo ciclo delle “disseminazioni”. Così se da un lato Pinelli durante gli inizi della sua carriera accetta di utilizzare il supporto classico della tela – quadrata o rettangolare –, il suo modo di dipingere evidenzia già la necessità e l’urgenza di plasmare la materia lasciando che essa si possa propagare energeticamente nell’ambiente. Angela Faravelli

Pino Pinelli, Topologia, 1973 (cm 70 x 70 acrylic on canvas)

Pino Pinelli, Pittura R, 1974 (cm 230 x 90 each acrylic on canvas) courtesy Dep Art Gallery, Milano photo by Bruno Bani

Pino Pinelli, Pittura B. A. B., 1974 (cm. 190 x 420 - acrylic on canvas)

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Diaspora del mito. La sponda ionica, CRAC Puglia, ex convento dei Padri olivetani, Taranto , ph Giorgio

CRAC Puglia, Taranto

Diaspora del mito la sponda ionica

L

a mostra propone sedici artisti, raggruppati in quattro capitoli, sotto le icone di Mnemosine, Icaro, Orfeo e Dioniso. Attingere al mito può avere, oggi, il significato di un atto rifondativo per l’arte contemporanea investita da decenni da interrogativi sulle sue funzioni. La mitologia può infatti fornire risposte necessarie sulle tematiche più scottanti dell’attualità quali: il rapporto degli uomini con le altre specie e l’universo, il significato dell’evoluzione, il recupero della memoria rimossa, la sfida titanica della tecnologia in competizione con la natura, il senso della storia, il mistero della vita e della creazione. Ripercorrere le narrazioni primigenie con le quali l’uomo ha ricostruito la trama complessa delle relazioni che lo legano all’universo può inoltre restituire senso all’insensatezza cui la globalizzazione mediatica Omar Galliani, Figura 2012 (grafite su tavola, cm. 200x200)

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nella fase acuta del postliberismo ha votato l’umanità. La vocazione dell’arte, d’altronde, controcanto all’appiattimento mediatico, è quella di tessere fila tra epoche, linguaggi, materiali e intrecciare discorsi in cui la memoria e l’immaginazione siano protagoniste. La lettura più ravvicinata delle opere e degli autori comincia dal mito di Mnemosine , personificazione della memoria, essendo il rapporto con il passato, individuale e collettivo, uno dei nodi più problematici del presente. Si parte con Omar Galliani, la cui opera riproducendo un sudario con l’effigie dolente di un volto cristico, apre il discorso ai rapporti dell’arte col sacro come dimostra questo disegno di concentrata spiritualità. Il sacro è anche al centro del lavoro di Giulio De Mitri il cui light box dal titolo “Il Segreto degli Dei”, rinnova la sfida con la creazione, in un confronto serrato tra natura e tecnologia che pone l’arte come cerniera tra caos e ordine. I dipinti di Stefano di Stasio e Herman Halbert , dalle simbologie complesse e stratificate, riportano al centro dell’attenzione la storia della pittura che, non di rado, ha attinto al mito. Ed è accaduto – come racconta il curatore in catalogo - nei periodi che segnano il passaggio da un’epoca all’altra. Così è stato, ad esempio, per la pittura simbolista di Gustave Moreau o in quella preraffaellita di Dante Gabriele Rossetti, inquieti al pari di Halbert, le cui donne-dee portano in sé il germe della creazione artistica, non diversamente dal nudo testimone di Di Stasio emblema delle utopie e dei fallimenti vissuti sotto il vessillo dell’arte e non solo. Questo primo capitolo della mostra si avvale, in catalogo, della redazione critica di Francesca Maria Menchinelli, il secondo dedicato al Volo di Icaro è, invece, a cura di Maria Carmela Viviano. All’apparenza distanti tra loro, i quattro artisti qui raggruppati vivono il mito nel segno del viaggio, spostando confini e abbattendo muri. Piero Pizzi Cannella lo fa eliminando ogni barriera con la sfera dell’interiorità che s’imprime sulla tela sotto forma di materia viva. Così è per Guido Strazza il cui segno pittorico si dipana come un filo che, al pari di quello di Arianna, lo guida nella metamorfosi di ogni cosa. Viaggio, non solo metaforico, è anche quello di Antonio Paradiso, artista antropologo sulle tracce dei fossili nel deserto del Sahara. In nome di Icaro, l’arte diventa sfida a superare i limiti anche nella composizione di Francesca Spoto, un abbecedario in cui segni e figure di alfabeti diversi si mescolano, invitando a ripensare con la lingua la propria storia. Il terzo capitolo (con schede di Greta De Marchi) è dedicato al mito di Orfeo, tra i più amati in tutte le epoche nelle sue diverse incarnazioni: messaggero di fertilità, simbolo della illusorietà dell’arte e della disobbedienza agli dei. Nelle opere esposte la figura di Orfeo è rievocata nella sua polimorfica complessità nel dipinto di Bruno Ceccobelli . Non meno intense le incisioni di Giannetto Fieschi e Angelo Casciello, le une sulla passione di


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nicola Carrino, Colonne del Tempio dorico, 1984 (pennarello nero e metallizzato su carta Fabriano, cm. 50x70)

Piero Pizzi Cannella, Pura seta, 1997 (tecnica mista su tela, cm. 150x120)

Giuseppe Maraniello, Rebis, 2002 (bronzo, cm. 30x50x20)

un amore interrotto, le altre sull’ avversa sorte dei Poeti, cui non sempre arride il favore degli Dei, specie quando l’arte li sfida ad un impari duello. Eppure, senza la sofferenza degli umani e lo sforzo che li spinge a trascendere i loro limiti, non ci sarebbe stata arte sulla terra. Sembra essere questo il messaggio pacificatore di Orfeo nel dipinto di Angelomichele Risi che raggiunge una sintesi perfetta tra mondo oggettivo e soggettivo, mostrando che non esiste separazione tra l’io e il mondo che lo circonda. E, infine, Dioniso la figura mitologica oggi più attuale poiché dimostra come gli istinti e le pulsioni primarie che abitano l’uomo, se repressi possono esplodere con virulenza. È dunque l’ invito unanime a superare le false dicotomie imposte dalla civiltà che viene dai lavori esposti. Si inizia con l’ “Ermafrodito” di Luigi Pagano che

induce una riflessione sulla complessità dell’essere umano oltre le divisioni tra generi, verso una fusione dell’umano con l’elemento primario che è la terra. Si prosegue con Giuseppe Maraniello, le cui sculture protese tra diabolico e angelico, inducono a ripensare le false dicotomie tra specie viventi e a rivedere l’intero sistema antropocentrico. È l’evoluzionismo darwiniano ad essere messo in discussione anche da Claudio Costa che ha dedicato la sua intera esistenza allo studio delle culture cosiddette primitive, mettendo a punto una serrata critica al modello civilizzatore dell’Occidente, a partire dall’idea del Tempo la cui direzione verso il progresso è negata a vantaggio di una temporalità circolare in cui vita, morte e nuova vita ritornino a scandire l’esistenza degli umani al pari di quella delle specie vegetali. E, infine, in nome di Dioniso è Nicola Carrino ad auspicare una rinnovata armonia tra natura e cultura ed epoche storiche e lo fa con un progetto per Piazza Castello a Taranto. Con l’attitudine riordinatrice che ha caratterizzato tutto il suo lavoro, l’artista risistema nello spazio i frammenti del tempo restituendo alle due colonne doriche superstiti, il monumento più antico della città ionica, il ruolo di “fulcro sociale” come bene racconta Silvia Neri, nella scheda che accompagna gli autori, di questo quarto capitolo. Chiudiamo con l’auspicio che il mito ci aiuti ad “ uscire dal buio e dalle ombre che minacciano la nostra esistenza” come scrive nella prefazione Giovanna Tagliaferro, direttrice della Fondazione Rocco Spani Onlus di cui il CRAC Puglia fa parte. Anna D’Elia

Giulio De Mitri, Il segreto degli Dei, 2009 (techno-light-box, cm. 150x150x12)

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Fondazione Sassi, Matera

Tutti i pani del mondo

I

nserita all’interno del Festival “La terra del pane”, la mostra “Tutti i pani del mondo”, a cura di Andrea B. del Guercio, presenta le opere di ben 45 artisti provenienti dall’Africa, Asia ed Europa. Ospitata presso l’ipogeo tardo-cinquecentesco della Fondazione Sassi di Matera – ente promotore e organizzatore della manifestazione in coproduzione con la Fondazione Matera-Basilicata 2019 – l’esposizione prende le mosse dalla creazione di interventi artistici appositamente ideati da coloro che hanno risposto all’invito del curatore: reinterpretare e raccontare il pane. Il soggetto scelto, simbolo della storia di tutta l’umanità, è qui rielaborato attraverso le più variegate tecniche artistiche contemporanee – dalla scultura alla pittura, dall’installazione alla performance, dalla fotografia al video – per dar vita a lavori che esprimono e rappresentano in modo personale la tematica del pane inteso da Andrea B. del Guercio “quale alimento primario nella società umana” nonché “soggetto atto a sfamare l’attesa, la domanda di bellezza”.

Michele Giangrande, Pane quotidiano 1.

Scendendo nei suggestivi sotterranei, ubicati nel rione Sassi della città designata Capitale della Cultura Europea 2019, il pubblico può osservare e passeggiare attraverso un ricco allestimento di opere che rivelano le diverse modalità di pensare tale alimento. Obiettivo ultimo del progetto è, infatti, dar luogo ad un momento di condivisione di sapori e saperi lontani sia in senso temporale sia territoriale. L’utente può, quindi, perdersi geograficamente in questa location grazie agli incipit emanati dalle molteplici culture narrate nei lavori – come le Imaginary Bread di Julie Arphi o le sculture PANE a MARE di Giorgio Cattani – oppure potrà lasciarsi incuriosire dall’ironico Pane quotidiano di Michele Giangrande o il trittico fotografico Le grazie del pane di Cosmo Laera. Prendendo spunto dal pane, definito cibo quotidiano per eccellenza, l’intero evento espositivo propone al visitatore opere che, dislocate negli ambienti dell’ipogeo, si offrono al consumo riflessivo. Maila Buglioni

Cosmo Laera, Le Grazie del Pane, 2019.

Julie Arphi, Imaginary Bread series 1

Private Banker Fideuram, Napoli

Fabrizio GARGHETTI

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opo diciannove anni a Napoli in mostra tornano le individualità scomode in un comodo salotto del Vomero. “Fabrizio Garghetti. Artisti, azioni e performance” è il titolo della mostra organizzata e curata dalla Franco Riccardo Artivisive presso gli uffici della Private Banker Fideuram di V. Enrico Alvino 53 in collaborazione con la Fondazione Sarenco. A Napoli, città del rumore, della poesia, della lotta contro lo sprovincialismo, città accusata di precarietà permanente, arriva l’immortalatore del movimento, colui che dagli anni 60 è riuscito a catturare i particolari danzatori sociali, a sorvegliare il rumore 66 - segno 274 | SETTEMBRE/OTTOBRE 2019

in gioco tra essere e forma, tra umanità e mortalità. Erano gli anni del flusso verbale, del corpo presentato a protestare e provocare quel limite che separava la “realtà viva” dalla vita reale e Garghetti in quegli anni cominciava a documentare le cronache del movimento studentesco di una Milano in rivolta (si inseguivano i colpevoli, quelli che propagandavano l’obiezione di coscienza o le inchieste sulla libertà sessuale). Fabrizio Garghetti non ha archiviato immagini per l’estetica di un mercato codificato, ma è colui che ha contribuito a scodificare ogni regola visiva. In una sala allestita da una piccolissima par-


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Fabrizio Garghetti, Andy Warhol, Courtesy Archivio Garghetti

te della storia per-immagini si riesce ancora ad udire il silenzio di un pianoforte, il canto stonato di parole senza strofa, riesce ancora una volta a dare importanza agli ambienti in trasformazione, tutto questo è Fluxus, un movimento senza regola in cui l’aspetto umano/dionisiaco/quotidiano veniva fuori nella sperimentazione antropologica in ogni spazio in cui tutto diventava pensiero visivo. Se in quel momento storico-artistico-politico-letterale il punto di riferimento era la vita sociale, per ottenere un perfetto scatto fotografico, ma soprattutto che quel colpo d’occhio anticipasse il movimento dei grandi poeti visivi, Garghetti diventava un compagno di viaggio di ognuno di loro, era l’occhio che assorbiva il pensiero di tutti i suoi cari amici del movimento. Questo aspetto lo si è potuto vedere, ma soprattutto sentire all’inaugurazione della mostra presentata da Gabriele Frasca in dialogo con Garghetti al quale quando il saggista gli ha chiesto di raccontare il teatro, la musica e l’aria che vibrava all’epoca dell’avanguardia

Museo delle Genti D’Abruzzo, Pescara

Dino COLALONGO

il Garghetti ha esordito con un sospiro emotivo, la sua commozione è stata proprio quel concetto di Arte-vita che i poeti visivi gridavano alla legge del perbenismo. Sono 40 le fotografie esposte presso la “Fideuram” scelte dal curatore Franco Riccardo dall’archivio fotografico pubblicato nel 2017 dalla Fondazione Mudima a cura di Renato Corsini e Sarenco, per dare continuità alla storia della parola scritta, enunciata, gridata, cancellata e fotografata. La mostra di Fabrizio Garghetti, Artisti, azioni e performance inaugurata il 22 maggio e visitabile fino al 12 ottobre in occasione di un secondo incontro con il fotografo che è stato il punto di partenza per fare esplodere nel 2019 a Napoli presso Palazzo Nunziante uno spettacolo di suoni umani in danza e recitazione che vedranno in scena Giovanni Fontana, Luca Salvadori e Sandro Mabellini una performace live dal titolo Piedigrottesco ed altre storie, per una città che vuole essere ancora Rivoluzionaria. Simona Zamparelli

Dino Colalongo, Mondrian Courtesy The Artist & Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara

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timato maestro dell’identità figurativa contemporanea abruzzese, Dino Colalongo, negli anni settanta è protagonista di esperienze didattiche maturate al Liceo Artistico e ospitate nella galleria “Convergenze”, ripropone uno spaccato espositivo che riflette la personale visione sull’opera di Piet Mondrian. Tuttavia, la ricerca dell’olandese si configura come spunto iniziale per ulteriori attraversamenti dell’arte del novecento dove, l’astrazione di matrice minimalista e declinazioni concettuali, che simultaneamente mostrano anche l’attitudine di Colalongo alla progettazione architettonica di spazi urbani e abitativi e al design, mutuano in favore di una riflessione sulla materia. Sono, infatti, artisti come Burri o Fontata i referenti privilegiati del discorso strutturato da Colalongo dove, la sua peculiare ricerca visuale spaziale e luministica sulla “materia” suggerisce allo spettatore il complesso e lungo lavoro da sempre condotto sugli elementi fondamentali della rappresentazione artistica. Scrive, in merito, Antonio Zimarino curatore della mostra: «Colalongo cerca di superare lo spazio assoluto definito da Mondrian aprendolo “fisicamente”, secondo la grande lezione di Lucio Fontana, in mille combinazioni di “tagli” possibili sulle superfici, con riverberazioni spaziali minimali, in grado di creare sottilissime variazioni luministiche». (dal c.s) SETTEMBRE/OTTOBRE 2019 | 274 segno - 67


Polo Museale della Calabria

Ceilings 2019

S

ono il dialogo fra passato e presente, fra archeologia e arte, fra istituzioni museali e persone, fra comunità, patrimonio culturale e opere contemporanee che hanno costruito, dal 2018 a oggi, la rete di Ceilings, il progetto che, sotto la direzione artistica di Simona Caramia, ha visto la città di Catanzaro impegnata a riformulare i canonici rapporti tra periferia e centro. Come? Promuovendo, grazie all’organizzazione dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro e il supporto della Regione Calabria e Polo Museale della Calabria, lo sviluppo e il rilancio del territorio che, attraverso l’arte contemporanea, ha come obiettivo anche creare un itinerario turistico dei Musei della Regione. Le iniziative, fra seminari e workshop, oltre a un forum permanente di ricerca composto di artisti, critici, storici, musei, istituzioni pubbliche e private, sono moltissime, ma è in particolare la sezione Musei in Rete quella che vede la progettazione di opere inedite. Sono tre gli interventi dell’edizione 2019 che vede protagonisti gli artisti: Gea Casolaro, Michele Giangrande e Andrea Chiesi. Arbor vitae. Giù le armi dalle mani è l’opera di Casolaro che, locata nella corte interna del Museo della Real Fabbrica di Mongiana, si mostra nella forma di un tipico cannone da montagna, del tutto simile a quelli che un tempo erano realizzati proprio nella Reale Ferriera Borbonica. Tuttavia, guardandolo attentamente, si nota subito che esso è realizzato con materiali naturali: canne e argilla, il che lascia intuire la progressiva decomposizione cui l’opera è destinata. Sotto vi è un’aiuola con una piccola Thuja Plicata che proprio dal decomporsi del cannone troverà il suo nutrimento. Dalla morte della cultura della guerra a una rinnovata attenzione ecologista, questo è il messaggio di Casolaro che, con grande poesia e semplicità, suggerisce e sostiene una trasformazione di pensiero volta a recuperare quell’atavica connessione uomo e terra. Fino a qui tutto bene è invece il titolo dell’intervento di Giangrande al Museo Archeologico di Scolacium di Borgia. La frase è tratta dal film del 1995 L’odio di Mathieu Kassovitz e che l’artista ha scritto su una lastra di marmo nero, locata nel museo in stretta relazione con la statuaria romana. Riadattando il soggetto del film, dunque immaginando un archeologo che, scavando strato dopo strato, si ripete la locuzione in forma di monito, l’artista, facendo riferimento agli attuali temi dell’immigrazione, allude al carattere processuale della vita affermando: “Il pianeta non ne può più, il mare è un cimitero, la precarietà regna sovrana, la cultura è al collasso, l’economia pure, ma inermi o più semplicemente per comodità, possiamo dire che, tutto sommato, fino a qui tutto bene”. Va sempre tutto bene prima della “fine”. Nel Parco Archeologico è stata anche realizzata l’installazione

Gea Casolaro, Arbor Vitae. Giù le armi dalle mani, 2019

Tommaso Palaia, Time Maps, 2019 (sezione audiovisivi di Ceilings)

ambientale Gears, opera che, dal 2011, Giangrande porta avanti ricollocandola di luogo in luogo e che, nei cartoni da imballaggio che di volta in volta sono montati in ruote e ingranaggi dalle dimensioni monumentali, suggerisce metaforicamente la circolarità tanto dell’umanità quanto della storia. L’ultimo intervento vede, infine, protagonista Andrea Chiesi con Locroi Epizephyroi al Museo e Parco Archeologico Nazionale di Locri Epizefiri. Qui, coerentemente alla propria espressione, l’artista ha impaginato una sorta di grande taccuino espanso, simile a quelli che normalmente usa nell’annotare le proprie impressioni mostrando, attraverso la forza del disegno, inediti spaccati urbani e architetture di un territorio particolare che a loro volta, restituiscono allo spettatore immagini di memoria storica e universale bellezza. Ai tre interventi se ne aggiunge un quarto: UTOPIE che vede protagonisti giovani talenti dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Tania Bellini, Giuseppe Ferrise, Tommaso Palaia, Ilenia Pasqua hanno realizzato due opere permanenti, la prima presso il Parco delle Serre di Serra San Bruno, l’altra al Fortino Poggio Pignatelli di Campo Calabro. Tutti gli interventi sono documentati da Contrappunti visivi, per la regia di Giovanni Carpanzano, ovvero la sezione di audiovisivi di Ceilings. Maria Letizia Piato

Andrea Chiesi, Locroi Epizephyroi, 2019. Museo e Parco Archeologico Nazionale di Locri

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

No Man’s Land, Loreto Aprutino (Pe)

Jimmie DURHAM

Q

uest’anno la conclusione dell’estate abruzzese ha coinciso con l’inaugurazione della nuova installazione permanente “SOLID GROUND” ideata da Jimmie Durham e posizionata a Contrada Rotacesta presso Loreto Aprutino (PE). Artista di fama internazionale, performer, saggista e attivista politico, Durham è stato insignito lo scorso 11 maggio del Leone d’Oro alla Carriera in occasione della 58esima Biennale d’Arte di Venezia. Lo statunitense è conosciuto per la sua pratica eterogenea – che va dal disegno al collage, dalla fotografia al video – ed in particolare per le sue decostruzioni scultoree realizzate con materiali naturali e oggetti d’uso quotidiano e di scarso valore. Opere che evocano storie particolari, spesso accompagnate da testi che denunciano prospettive e giudizi eurocentrici. Fin dagli esordi della sua carriera, infatti, ha prodotto lavori che miravano a dichiarare guerra ai limiti del razionalismo occidentale, al razzismo e alla violenza promossa dal colonialismo americano ed europeo nei confronti delle minoranze etniche di tutto il mondo. Per la produzione dei suoi manufatti Durham impiega un processo che egli definisce “combinazione illegale con oggetti rifiutati”, mera incarnazione dell’atteggiamento sovversivo che da sempre permea le sue opere. Durante il suo lungo percorso artistico ha partecipato a numerose mostre internazionali – come le Esposizioni Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (1999, 2001, 2003, 2005, 2013), Documenta (1992, 2012), Whitney Biennial of New York (1993, 2003, 2014), la Biennale di Istanbul (1997, 2013) – e a lui sono state dedicate numerose personali e retrospettive presso i più importanti musei del globo: dall’ Hammer Museum di Los Angeles alla Serpentine Gallery di Londra, dal MAXXI di Roma al Remai Modern a Saskatoon. Il progetto site specific ivi installato, a cura di No Man’s Land Foundation e Zerynthia, associazione non-profit per l’arte contemporanea guidata da Mario Pieroni, lo vede confrontarsi nuovamente e direttamente con la natura e con l’avvenire. “SOLID GROUND” si presenta al pubblico come un’antica porta a due ante poggiata al suolo divenendo una soglia d’accesso verso l’altrove, oltre il visibile ed il già noto. Non casuale, del resto, il titolo dell’opera che evidenzia il “solido legame con terra” e che invita a guardare oltre, a porsi delle domande piuttosto che a trovare delle risposte a enigmatici quesiti. Chiamato ad esprimersi sullo stesso terreno in cui sono già state collocate,

nel corso dei precedenti anni, le installazioni di Yona Friedman con Jean-Baptiste Decavèle, Pian de Pian Piano di Alvin Curran e Adozione di una Pecora di Gianfranco Baruchello, Durham ha proseguito il discorso da loro aperto appropriandosene ed immettendovi il suo spirito rivoluzionario. In questa sorta di “accumulazione” di opere d’arte si evince, appunto, la comune volontà di riappropriazione del territorio naturale da parte dell’uomo aggiungendo e, quindi, arricchendolo di quel valore in più che va a contrastare e contestare la cultura dell’usa e getta che impera fin dagli esordi del boom economico. Attraverso tale processo si deduce, oltretutto, la volontà di recuperare antichi folclori come la laica tradizione presente nelle antiche chiese e cappelle italiane ove si mescolavano periodi storici e stili artistici. Se nel passato i maggiori artisti creavano opere da inserire nelle cattedrali, oggi questi sono investiti del compito di ideare installazioni nell’unico luogo degno di essere preservato: la natura. É proprio in questa ripresa del passato ed in questo ritorno verso il territorio incontaminato, lontano dalle costruzioni umane e dalle caotiche metropoli in cui quotidianamente viviamo, che attualmente si registra una sempre maggiore tendenza a produrre arte, ideare eventi e proporre interessanti tavole rotonde. A tal proposito, a conclusione dell’evento di Loreto si è svolto un breve convegno a Villa Maria di Francavilla a Mare, dove, introdotto da Dora Stiefelmeier, si è discusso su concetti di libertà e natura con interventi dello stesso Jimmie Durham e Chiara Bertola, Lorenzo Benedetti, Maria Thereza Alves, Pascal Beausse, Pasquale Tunzi, Riccardo Giagni Maila Buglioni

Jimmie Durham, Solid ground. Installazione sIte-specific No-Man’s Land Foundation, Contrada Rotacesta, Loreto Aprutino. Courtesy Fondazione Zerynthia

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Fondazione Malvina Menegaz, Castelbasso (Te)

Sul filo dell’immagine. Trame dell’Arazzo Contemporaneo

È

nel complesso delle memorie, delle testimonianze, di quei saperi artigianali trasmessi pazientemente da una generazione all’altra che la proposta dedicata alle arti visive della Fondazione Menegaz, per l’oramai più che ventennale appuntamento con Castelbasso Cultura, intreccia il suo discorso, mettendo in luce una tradizione artigianale che trova, in quello speciale legame fra luogo e storia, l’espressione più intensa di un’identità forte e singolare. Sul filo dell’immagine. Trame dell’Arazzo Contemporaneo, curata da Simone Ciglia, si snoda fra gli spazi di Palazzo Clemente e vede coinvolto l’artista Stefano Arienti, il quale, come vedremo in seguito, è anche il curatore del secondo spaccato espositivo Sarà Presente l’Artista. Cominciando da Palazzo Clemente, Arienti qui ci accoglie con un ciclo di opere strepitose, intitolato Retina, tre arazzi realizzati durante una residenza dell’artista nei laboratori della storica Arazzeria Pennese (fondata nel 1965) tra il 2018 e il 2019. È stata questa l’occasione per l’artista di misurarsi con una tecnica antica mai approcciata in precedenza che, dopo svariati tentativi e diverse proposte d’immagini (in mostra anche “prove d’artista” che documentano i retroscena del progetto), approda a una scelta di soggetti capaci di valorizzare la tecnica del basso liccio, ossia quella specifica competenza propria dell’Arazzeria Pennese. Nell’ordine osserviamo un primo arazzo nei toni del giallo raffigurante il pavimento del Museo Batha di Fes in Marocco, cui seguono gli altri due che riproducono una coperta fatta a mano, fotografata nell’albergo diffuso di Santo Stefano di Sessanio, tradotta nel rosa, e un dettaglio del paesaggio, questo in bianco e nero, di Campo Imperatore, entrambi luoghi caratteristici della regione Abruzzo. Curioso è soprattutto il gioco creatosi nell’allestimento, capace di coinvolgere lo spettatore che letteralmente è trascinato in un continuo gioco di passaggi fra spazi interni ed esterni e fra dettagli di pattern che citano luoghi lontani o vicini, capaci di restituire quel forte senso di “attraversamento”, vero leitmotiv dell’intera mostra. Al piano superiore, infatti, seguire gli arazzi significa attraversare la storia dell’arte del novecento a cominciare da quelli prodotti nella città di Penne. Qui vediamo gli arazzi di Afro e Capogrossi, con i quali nel 1970, gli artigiani si aggiudicarono la commissione per la Biblioteca Centrale di Roma (di Afro in mostra anche quello di prova). Dello stesso periodo vediamo poi quelli prodotti da Mario Pieroni fra il 1971 e il 1976 e che riproducono opere di Giacomo Balla degli anni venti e mai realizzate. Fanno da sponda, inscenando una sorta di dialogo, gli arazzi creati da altre aziende nate sulla scia del successo dell’esperienza pennese, come quelle di Saronno e Asti, che a loro volta introducono a un altro gruppo di opere che documenta una stagione più attuale dell’arazzeria abruzzese. Qui vediamo opere realizzate dal 2014 in poi, come quelle di Costas Varotsos, Marco Tirelli, Matteo Nasini, Andrea Mastrovito, Mario

Stefano Arienti, Retina, 2018-2019 (arazzo in seta), Fond. Menegaz,Castelbasso

Costantini e Alberto Di Fabio. Infine, al piano superiore catturano lo sguardo l’arazzo di manifattura francese di Enzo Cucchi, le favolose geometrie di Ugo La Pietra, geniale sperimentatore di fibre riciclate e cotone organico, infine il discutissimo Shengen Area di Giuseppe Stampone che confermano verso questa tecnica nella più recente produzione artistica. A Palazzo Clemente Stefano Arienti veste, invece, le non troppo insolite vesti di curatore. Sarà Presente l’Artista è il format che, alla sua seconda edizione, vede Simone Ciglia cedere il proprio ruolo all’artista chiamato a interpretare, riorganizzare e impaginare, secondo il proprio sentire, una mostra a partire dalle opere presenti nella collezione della Fondazione. Opere che, devono necessariamente rintracciare un dialogo con quelle dell’artista stesso e che, per questa esperienza ha rivelato un Stefano Arienti completamente inatteso. La sua quadreria, infatti, rompe qualsiasi regola museografica, impaginando o meglio spaginando opere organizzate secondo un ritmo simile a una grande onda che sala dopo sala, pare fluttuare rivelando un apparente no-sense visivo. Il filo conduttore, a guardare bene, è invece la scelta caduta su opere esclusivamente figurative che, nel disporsi in dialogo con le proprie, rivelano dettagli delle une e delle altre, diversamente trascurabili. La mostra si chiude con addirittura lavori che si sovrappongono a quelli di Arienti e che, a noi sembra intuitivamente, propongono una lettura dell’arte totalmente fenomenologica e proprio concettualmente incentrata a valorizzare il tema dell’attraversamento. Maria Letizia Paiato

Sul filo dell’immagine. Trame dell’Arazzo Contemporaneo, veduta parziale delle installazioni a Palazzo De Sanctis Courtesy Fondazione Menegaz, Castelbasso (Te) - Foto Gino Di Paolo

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

oltre che un nuovo orientamento fenomenologico proprio nell’agire stesso degli artisti. Tornando indietro nel tempo, il tema della mostra si configura anche, nelle intenzioni dei curatori, e pertinentemente a quanto scritto finora, come omaggio allo stesso Michetti, pioniere nel ricorso alle possibilità espressive della fotografia come sussidio della pittura figurativa e qui evocato proprio per suggerire simbolicamente il valore intrinseco della rassegna. I PREMI a giuria tecnico scientifica composta dagli storici dell’arte Rossana Buono, Raffaella Pulejo, dagli artisti Franco Marrocco, Stefano Ianni e dal presidente della Fondazione Michetti Carlo Tatasciore, ha assegnato due premi acquisto, che arricchiscono il patrimonio della Fondazione Michetti, agli artisti Vito Bucciarelli e Nataly Maier, premiati per l’interessante sensibilità nell’interpretazione pittorica del medium fotografico. “È la prima volta che partecipo a un Premio Michetti – ha dichiarato Vito Bucciarelli – e i curatori Claudio Cerritelli e Anna Imponente mi hanno specificatamente richiesto un lavoro fotografico appartenente al periodo agravitazionale. In mostra, infatti, c’è un’opera del 2009 (Ritratto di un amico) tre immagini fotografiche che ritraggono un amico medico di Lanciano secondo il profilo dello Psiconauta e trattate nello sfondo con un processo d’impressione fotosensibile tale da restituire un effetto pittorico”. Nel caso di Bucciarelli, così come si evince dalle sue parole, è evidente quanto la fotografia rappresenti quella sorta di trait d’union del suo intero lavoro se considerata in termini di contaminazione, laddove tale concetto esprime con forza il tema l’interrogarsi sulla realtà e simultaneamente sull’espressione pittorica. Diversamente, l’assegnazione del premio anche a Nataly Maier, artista originaria di Monaco di Baviera, dimostra al contrario il muoversi di una personalità, all’inizio della carriera quasi esclusivamente dedita all’utilizzo del solo strumento fotografico, approdata in seguito, attraverso diversi linguaggi, alla piena esperienza della pittura. Nel procedere, tuttavia, sempre nell’organizzazione di strutture duali, generalmente composte da una parte più astratta e una più materica, la Maier propone, così come si vede nel dittico Mare del 2018, vincitore del premio, una riflessione proprio sul rapporto fotografia e pittura dove. Se la prima assolve il compito di mostrare la razionalità dell’immagine, attraverso i tradizionali parametri fotografici, la seconda, nel totale monocromo pittorico, sconfina nei territori dell’astrattismo. Insieme, tuttavia, danno origine ad una combinazione meta-reale che si risolve in un naturale accordo espressivo. Maria Letizia Paiato

L Vito Bucciarelli, Ritratto di un amico, 2009

MUMI, Francavilla al Mare (Ch)

Attraversamenti, tra arte e fotografia

G

iunto alla 70esima edizione, lo storico Premio Michetti quest’anno vede, con la curatela di Anna Imponente e Claudio Cerritelli, l’avvicendarsi di quarantadue opere incentrate sul tema della relazione fra arte e fotografia, attraverso un confronto tra generazioni di artisti peculiari anche al diverso approccio verso tale mezzo espressivo. Il ricco bouquet di opere offre, infatti, l’opportunità di osservare sia fotografi inclini a un utilizzo artistico dello scatto, sia artisti che al contrario usano la macchina fotografica mettendo al centro dell’attenzione il fattore concettuale rispetto a quello formale. Proponendo un breve ragionamento, si potrebbe affermare che, in particolare in quest’ultimo caso, è messo in luce il raffronto, se non addirittura la competizione, con il mezzo pittorico dove sperimentazioni, nuove direzioni operative e significativi interrogativi sul rapporto con la realtà, giungono ad esiti più attuali rivelando nuove ed inedite tendenze. In mostra si osservano, pertanto, opere che aprono alla riflessione teorica sulle trasformazioni della fotografia, su come essa abbia radicalmente modificato la sua stessa percezione nel sistema delle arti visive determinando anche pratiche artistiche inedite,

Auditorium San Bernardino, Morcone (Bn)

Emergenze artistiche

L

a seconda edizione di Imago Murgantia (Murgantia ossia l’antico toponimo di Morcone) è tornata metaforicamente come una dirompente “onda marina” nello spazio della ristrutturata chiesa di San Bernardino (ora auditorium). Un luogo dove il mare lo si può solo immaginare. Cinque artisti, con percorsi di ricerca diversi e distanti tra loro, sono stati i protagonisti coinvolti da Azzurra Immediato e Massimo Mattioli i cui lavori hanno ritmato il percorso di questa piccola ma preziosissima mostra, immaginata - scrivono i curatori: “come una trama che guarda all’infinito di una discussione vasta, profonda, infinita, come il mare, come l’animo umano, come ciò che ‘emerge’ e che, al contempo, è allarmante e spinge a riflettere”. Elementum Aether, è l’installazione di Giovani Gaggia che prende le mosse dall’omonima performance presentata lo scorso maggio alla Biennale di Venezia, rivelandosi al contempo come residuo materiale della stessa. Si tratta di un pesante blocco ferreo circondato da pantaloni neri che, allocato subito dopo il pavimento vetrato dello spazio espositivo, proprio nella relazione con questo, si rivela come antico resto di una memoria cancellata ma allo stesso tempo tangibile. Ed è proprio in tale dettaglio che lo spettatore è indotto a connettersi immediatamente al messaggio intrinseco dell’opera di Gaggia: sono troppi gli indumenti che galleggiano senza corpi nella vastità del nostro Mar Mediterraneo. Nel coro dell’ex-chiesa, la proiezione dell’opera fotografica di Anuar Arebi Cercate l’incanto dove c’è tormento. Il titolo ci aiuta a capire che le immagini di architetture in abbandono che vediamo possono essere inquadrate diversamente se facciamo viaggiare la nostra mente verso l’incanto, sicché da leggere un lampo bellezza anche laddove il senso di caducità che accompagna il nostro circostante pare avere preso il sopravvento. In quella che una volta era invece la navata laterale sinistra, ora tamponata, un arco in leggero rilievo inquadrava l’immagine di Gino D’Ugo La negazione della memoria. Si tratta dell’immagine fotografica di un lavoro del 2008, oggi per converso opera site-specific ed espressione di qualcosa che è esistito e che ritorna in questo contesto per un tempo brevissimo. In tale operazione osserviamo, in sostanza, la costante negazione della memoria che, non solo si rivela nella proposta formale dell’opera ma anche nel suo soggetto dove, la lastra nera blocca il flusso infinito delle onde e quindi, metaforicamente e più in generale, quello del pensiero umano. Nella navata di destra invece faceva da contraltare il coinvolgente lavoro foto-geografico di Ilaria Abbiento Cartografia del Mare. La griglia di immagini quadrate, accompagnata anche da un

video, incornicia tratti di mare con relativa mappa nautica, riuscendo a far viaggiare lo sguardo dello spettatore che, come un vero e proprio naufrago, si perde nel volgersi infinito delle onde dell’acqua. La proiezione mentale ci porta a dare vita e movimento alle increspature del mare, ai riflessi che ci abbagliano o alla spuma che sembra letteralmente bagnarci i piedi, recuperando quell’atavica connessione che lega l’uomo alla natura, dimenticata, abbandonata ma che, Ilaria Abbiento ci suggerisce possa essere recuperata nell’atto dell’ascolto. Il ritmo perpetuo delle onde che si sente nel video, per pochi istanti, infatti, corrisponde a quello del nostro respiro. Infine, ritornando verso l’ingresso le fotografie di Anna Rosati ci aiutavano a comprendere meglio il messaggio di “Emergenza” lanciato dai curatori. Otto immagini quadrate e un telo con nove (stesso formato) con dettagli che sembrano quasi essere dei monumenti ma, altro non sono, che attrezzature plastiche utilizzate dai bambini in spiaggia e abbandonate in inverno. Odissea dell’abbandono eleva ad opera d’arte dettagli di oggetti insignificanti e terribilmente inquinanti ricordandoci di quanto male stiamo facendo a questo pianeta, o meglio, all’umanità. È chiaro, pertanto, che con Emergenze Artistiche non si profila una specifica circostanza o una difficoltà imprevista ma l’invito a porre attenzione a ciò che per paradosso è diventata normalità. Nelle opere degli artisti l’esortazione e la preghiera a guardare l’esistenziale, il sociale e sé stessi per non dimenticare la nostra stessa natura: quella umana. Roberto Sala Ilaria Abbiento, Cartografia del Mare, 2019

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Paola Pezzi, Natura Armata, / 2019. Installazione site-specific

Rocca Roveresca, Senigallia (An)

MATERIE PRIME Artisti italiani contemporanei tra terra e luce

camente lo spazio suggerendo un poetico infrangersi psicologico. Con la materia intangibile ci s’incontra subito all’inizio della mostra, dove Franco Mazzucchelli, con la sua opera Senza Titolo, per paradosso “materializza” l’aria contenuta nei suoi gonfiabili dove, a denunciare il materiale plastico, qui facilmente confondibile con il metallo, sono le valvole usate per immettervi l’aria. Contrasta con quest’opera, nello stesso luogo d’ingresso, l’opera di Giuseppa Spagnulo, una ruota, ad un primo sguardo e in apparenza di legno e scavata nella forma di cubi, è in realtà realizzata in acciaio Corten. Il percorso si snoda in seguito nelle sale della Rocca e, come pagine di un libro di storia dell’arte, le varie opere si susseguono in una narrazione parallela e variabile che il visitatore può costruirsi come vuole. Un passaggio quasi segreto ci conduce negli spazi delle installazioni dei “Paoli” (Paolo Scirpa, Paolo Radi e Paola Pezzi). Le pareti imbiancate diventano qui in mattone contrastando in particolare con quelle di Radi e Pezzi. Gli ambienti architettonici, infine, dialogano con i “reperti” preparatori di Radi, fino a culminare con l’interessantissima opera Natura Armata di Paola Pezzi: un fascio di rami con punte in acciaio, temperate come matite ma fendenti come lance. Un’opera che, per certi aspetti, sublima e condensa l’intera operazione espositiva, suggerendo le controversie che legano l’uomo alla natura e di quest’ultima anche il suo carattere metamorfico. Materie Prime è una mostra che ben racconta lo stato e la storia dell’arte contemporanea in Italia senza essere didascalica e che, sebbene non esaustiva, si configura come un esemplare nucleo di opere che apre la strada a possibili ulteriori ricerche da sciogliere in future edizioni. La mostra e il catalogo sono stati realizzati da un progetto di Ferrarin Arte. Roberto Sala

Q

uella di Senigallia è una collettiva – a cura di Giorgio Bonomi, Francesco Tedeschi e Matteo Galbiati – che racconta un segmento della storia dell’arte contemporanea italiana attraverso le opere di 15 artisti legati fra loro nella ricerca sulle materie prime. Queste, tuttavia, non sono da intendersi solamente come quelle chimicamente riconosciute tali, ma come “emozionali” – così come le definisce Matteo Galbiati – materie con le quali gli artisti si rapportano sia in termini formali sia estetici ma, per l’appunto anche emotivi. Ecco allora che i ferri, opere di Giuseppe Uncini, che si mostrano nella forma di “segni” che fuoriescono dal cemento armato, tradiscono un senso di esplosiva libertà, i pozzi infiniti, i neon di Paolo Scirpa, nell’esaltare l‘immaterialità della luce coinvolgono empaticamente lo spettatore, così come gli squarci, accolti nelle nicchie della Rocca, opere di Carlo Bernardini, spezzano metafori-

Paolo Radi, Tempo proprio, 2019, perspex e PVC, cm 100X150 La sala con le opere di Giovanni Campus e Arcangelo Sassolino

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Arcangelo Sassolino, Untitled, 2019, Carlo Bernardini, Catalizzatore di cemento e acciaio, cm 83 x 69 x 13 luce, 2005. Scultura in acciaio inox e fibre ottiche, cm 250x150x90

Franco Mazzucchelli, Muro, 2017. Pvc gonfiabile bifacciale, cm 230 x 180 La sala con le opere L’alfabeto di Aratta – Architetture n.227 e Spazi di ferro n.131 di Giuseppe Uncini


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Rocca Malatestiana, Fano

Libri antichi e opere contemporanee

I

mmagini simboliche realizzate su manoscritti di elevatissimo valore e lavori grafici di artisti storici si alternano a opere di creativi contemporanei per dar luogo alla mostra “Il praticante dell’ascesi” (le immagini nel libro antico e l’arte contemporanea: ricognizione e connessioni) ideata da Rodolfo Gasparelli e prodotta in collaborazione con il Comune di Fano Assessorato alla Cultura e ai Beni Culturali, Assessorato alle Biblioteche e Biblioteca Federiciana, con le Gallerie Bordas di Venezia e Gasparelli di Fano. Racchiusa all’interno delle solide mura della Torre Malatestiana l’esposizione propone un insolito confronto tra idiomi differenti ovvero tra raffigurazioni contenute nei libri antichi appartenuti alla collezione di Domenico Federici e conservati nella Biblioteca storica della città citata e una serie di opere conseguite in tempi più o meno recenti da artisti attualmente in vita o appartenuti al recente passato. Sculture, video, pitture, opere grafiche e stampe immettono l’osservatore in un contesto legato ad un lontano passato, quando nei volumi venivano trascritti i saperi da tramandare ai posteri. L’indagine di tale ambizioso progetto nasce dalla ripresa del concetto goethiano di metamorfosi - secondo cui la somma delle parti è meno del suo intero - per trasporlo dalla natura alla disciplina artistica col fine di dar vita ad una riattualizzazione del pensiero dell’intellettuale tedesco attraverso linguaggi artistici attuali e a noi maggiormente affini. La lingua, qui intesa sia come codice di vario genere (scritto, artistico, etc..) sia come lessico o gergo proprio di una civiltà, è investigata tramite lavori di autori contemporanei nazionali ed internazionali - come Francesco Bocchini, Hervé Bordas, Domenico Brancale, James Brown - e opere di grafica di maestri del Novecento - come Giacinto Cerone e André Masson - prestate dalla Galleria Bordas. Intenzione ultima della rassegna è quella di ripercorrere idealmente l’atto di formazione della collezione di testi di pregio e di studio che l’abate Federici riunì durante la sua residenza nella città lagunare e che portò con sé al suo ritorno a Fano. A tale scopo, infatti, una selezione di undici tomi di questo patrimonio in dotazione alla città marchigiana è stata posta tra le opere in mostra. Libri scelti attraverso la collaborazione e la competenza dei suoi conservatori e studiosi per l’attinenza delle immagini, ivi inserite e firmate da illustri personaggi come Galileo Galilei o Ulisse Aldrovandi, alle finalità del progetto e con la volontà di diffonderle e proporle al grande pubblico. A completamento di questa mostra, presso la Galleria Gasparelli è stata proposta una singolare esposizione “Prendi il libro, e divoralo. Una mostra sul libro d’artista e libro-oggetto” in cui sono presenti diversi artisti contemporanei - Domenico Brancale e Giacinto Cerone, Carloni / Franceschetti, Sabrina Foschini e Franco Pozzi, Morena Chiodi, Marcello Diotallevi, Eliane Gervasoni, Federico Guerri, Antonella Sabatini, Serena Semeraro e Mirco Tarsi, Erich Turroni, Verter Turroni, Mattia Vernocchi - i cui stili si fondono con il motivo del libro stesso. Maila Buglioni

Veduta parziale delle installazioni, courtesy Gasparelli Arte Contemporanea Ph Paolo Semprucci,

Morena Chiodi, Segnacolo, 2019 (libro d›artista in esemplare unico, matita su carta 36x60 cm.) - Eliane Gervasoni Now and Ever, 2013 (libro d’artista in esemplare unico, goffratura su carta Hahnemühle 350 g, 85x125 cm,), Variante II, arrotolato, 2019. Ph Paolo Semprucci, courtesy Gasparelli Arte Contemporanea Federico Guerri, Pagine per appunti notturni, 2019 (libro d’artista in esemplare unico, lastre di ardesia incise e oliate, 50x70x32 cm). Ph Paolo Semprucci, courtesy Gasparelli Arte Contemporanea

Serena Semeraro, 02:45, disegni di Mirco Tarsi, 2019 (libro d’artista in esemplare unico. piombo, inchiostro di china, stampa a getto di inchiostro, 30x24 cm.). Verter Turroni, Archivio, 2019 (libro d›artista in esemplare unico, resina poliestere, fibra di vetro, ossidi e garze, dimensioni variabili). Erich Turroni, Eclissi, 2019 (libro d’artista in esemplare unico, resina, pigmenti, inchiostro su acetato, fomato chiuso 14x14x22 formato aperto 7x28x22 cm.) Ph Paolo Semprucci, courtesy Gasparelli Arte Contemporanea

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Ginevra Grigolo, mostra inaugurale della Galleria Studio G7. Pistoletto, Una proposta per un cinema povero, 1973.jpg

Ricordi

Per Ginevra GRIGOLO

asciando un vuoto importante nel mondo dell’arte si è spenta L Ginevra Grigolo, fondatrice e direttrice artistica della storica galleria bolognese Studio G7. Aveva compiuto 84 anni lo scorso aprile e

aveva dato vita al celebre spazio di via Val d’Aposa nel 1973, spinta da una intensa passione per l’arte e da una precedente significativa esperienza di lavoro in galleria. La sua attività si pone fin dagli anni dell’apertura, come osservatorio dell’arte emergente facendosi interprete di quel clima di sperimentazione che tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 ha caratterizzato il panorama artistico internazionale. Merito della direttrice artistica di Studio G7 e del suo lavoro, in dialogo con la critica militante di quegli anni, è stato il generoso contributo all’inserimento della città di Bologna nella sfera più all’avanguardia del dibattito artistico europeo. Le proposte di Studio G7 a partire dai primi anni infatti, sono state volte a promuovere quelle esperienze che animavano il clima artistico di altri importanti centri del nostro paese, di Europa e Stati Uniti, spesso anticipando in città, avvenimenti che avrebbero avuto luogo negli anni successivi. Della sua intensa attività è importante ricordare la mostra di apertura della galleria dedicata a Michelangelo Pistoletto e alle sue serigrafie su acciaio, assieme alle mostre poco successive dedicate alla Pop Art americana e inglese. Molto spesso il lavoro dei primi anni infatti si è fatto interprete del dibattito acceso da vari movimenti di neoavanguardia riguardo al culto del pezzo unico e riguardo al valore e alle possibilità offerte dal multiplo. Alla gallerista bolognese va inoltre riconosciuto il merito per l’attenzione rivolta all’Arte Concettuale nel nostro paese, per la valorizzazione della Narrative Art e della Poesia Visiva. Sempre merito di Ginevra Grigolo e dell’attività del primo decennio in galleria inoltre è stato l’interesse per l’arte performativa e per l’Environment e, in quest’ambito, lo svolgimento della storica performance di Marina Abramovic e Ulay Relazione nel tempo. Anche il lavoro svolto negli anni Ottanta e Novanta è stato rivolto alle novità e alla ricerca delle tendenze più inedite del panorama artistico. In questi anni tuttavia la gallerista ha rafforzato la linea che ha dettato il criterio delle scelte negli anni precedenti. Guardando oltre i fenomeni di moda, Ginevra Grigolo si fa ora interprete della nuova soggettività che domina le tendenze artistiche di questo periodo. Le scelte successsive della gallerista quindi mostrano chiaro apprezzamento per la forza e il lirismo del gesto pittorico, l’intensità poetica delle stesure di colore, la capacità evocativa dei materiali. Alle preferenze per la rappresentazione aniconica si affianca nel corso degli anni l’interesse per le ricerche artistiche che vedono dialogare i mezzi espressivi tra loro ponendo al centro gli ambienti, lo spazio architettonico e la partecipazione dello spettatore. Sono esempio di ciò i numerosi wall drawings e wall paintings realizzati nello spazio della galleria a partire dagli anni ‘80. Negli ultimi anni il lavoro si è concentrato, in linea con le tendenze più recenti, sull’originalità delle ricerche individuali. Ha in modo particolare seguito quegli approcci che hanno offerto nuove chiavi di lettura e nuove interpretazioni a numerose poetiche e pratiche espressive elaborate dagli artisti storici negli anni delle neoavanguardie. (a cura di Francesca Cammarata)

Eliseo MATTIACCI liseo Mattiacci, purtroppo malato da tempo, ci lascia oggi all’età E di 79 anni, ed è con grande e immenso dispiacere che apprendiamo la notizia della sua scomparsa. Originario di Cagli (PU), clas-

se 1940, Eliseo è stato artista talentuoso e sin dagli esordi, appena ventenne, attenzionato dalla critica, tanto da aggiudicarsi nel 1961 il primo premio alla collettiva dedicata ai giovani artisti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con l’opera Uomo meccanico realizzata in metallo con materiali di recupero assemblati. Poi il trasferimento a Roma negli anni sessanta e la personale alla galleria La Tartaruga di Piazza del Popolo nel 1967 e nello stesso anno la compagine affine alla pattuglia poverista con la mostra Im-Spazio alla galleria La Bertesca di Genova, per poi rifiutare nel ‘69 l’invito all’amalfitana Arte povera +azioni povere, tracciando così la propria contrarietà ad essere parte di un movimento. Poi all’Attico di Fabio Sargentini, Prospekt 69 a Düsseldorf fino a volare nel decennio settanta, alla Biennale di Venezia del 1972 e alla strutturazione delle note opere Alfabeti primari, Cultura mummificata, Planisfero con fusi orari e Progetto totale. Una carriera inarrestabile che nell’88 lo vede

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nuovamente protagonista con una sala personale alla LXIII Biennale di Venezia e dove si fa largo l’interesse per fenomeni legati alla precarietà dell’equilibrio, al magnetismo, alle relazioni tra corpi e alle energie peculiari alla ricerca degli anni novanta. Non finisce qui e il nuovo millennio lo vede protagonista con una installazione per il Mart di Rovereto, Sonda Spaziale del 1993-1995, una colonna alta 17 metri assemblage di due strutture metalliche e poi l’invito alla mostra di sette scultori italiani nei giardini dell’Ambasciata Italiana per le Olimpiadi di Pechino. Infine, il Premio Antonio Feltrinelli per la scultura nel 2008, nel 2010 la mostra alla Galleria dello Scudo con una selezione di opere realizzate tra il 1976 e il 2010 e chiusa da poco, la sua ultima esperienza espositiva che, in compagnia degli amici Luigi Carboni, Paolo Icaro e Giovanni Termini, lo ha visto protagonista ad Urbino nella meravigliosa mostra curata da Adele Cappelli Incontro a Palazzo https://www.rivistasegno.eu/incontro-a-palazzo-carboniicaro-mattiacci-termini/ Correva l’anno 1978 quando abbiamo parlato di lui per la prima volta sulle pagine di Segno (n.7 marzo-aprile) allora presente a Pescara presso lo Studio Cesare Manzo con una personale dal carattere inconfondibile. Desideriamo ricordarlo così, con quei due mezzi meccanici, il primo rappresentato da una moto, il secondo da un uomo e collegati da strumenti di misurazione per rivelarne la presenza umana. Visionario e anticipatore di pensiero quando all’epoca offriva dignità all’energia meccanica, già narrava di un mondo che oggi abbandona, generando intorno a sé un vuoto immenso e incolmabile. Lucia Spadano, Umberto Sala e tutta la redazione di Segno si uniscono al cordoglio della famiglia e degli amici, dell’arte e non, che da oltre quarant’anni lo hanno seguito con grande stima e coinvolgimento.

Antonio TROTTA uesta settimana è senza pace per il mondo dell’arte e nella notQ te del 27 agosto, all’età di 82 anni, ci lascia anche l’amico e scultore italo-argentino Antonio Trotta, celebre per le sue opere “leg-

gere” realizzate in marmo. Originario di Stio (Salerno), in prossimità di Paestum, nel 1937, si trasferisce con la famiglia a La Plata in Argentina, dove comincia la propria carriera artistica fondando il Gruppo Sì. Referente imprescindibile per le sue ricerche - come lui stesso ha dichiarato anche sulle pagine di Segno (n.265/2018) - fu l’argentino Fontana, conosciuto durante la sua partecipazione alla Biennale del ’68 e dove quest’ultimo era presente con una grande sala e con il quale trascorse in seguito a Comabbio tre intense giornate. Poi il rientro in Italia, a Milano dove, alla fine degli anni Sessanta comincia a progettare anche importanti interventi urbanistici in diverse città. Ha esposto con importanti gallerie fra le quali la Galleria François Lambert di Milano, la Galleria Bonomo di Bari, la Galleria Cardi di Milano e diverse le esposizioni in Italia in musei e spazi pubblici. Quattro le partecipazioni di Trotta alla Biennale di Venezia: nel 1968, nel 1976, nel 1978 e nel 1990, ma si annoverano anche quelle di Lione e di Carrara. Dal 2007, nella sua città natale a Stio, è attivo il Museo/ Archivio a lui dedicato, dove si conservano alcune delle sue opere più significative e dal 2009 era anche membro della prestigiosa accademia di San Luca. Nell’ambito della scultura pubblica, nella quale fu a lungo attivo, di Trotta si ricordano il monumento alla Resistenza nei giardini pubblici di La Spezia e Abiterò il mio nome, monumento a Gabriele D’Annunzio conservato al Vittoriale degli Italiani. Del suo peculiare modo di trattare il marmo ha dichiarato: “Da secoli il marmo finge di essere imperatore, ballerina e quant’altro. In realtà, lontano da certe retoriche, la ballerina non è più la ballerina reale. Composta di bronzo o marmo essa nasce come un nuovo essere che vive di bronzo o di marmo, lontano dall’originale effimero. [...] Per me è soltanto un problema di luce. Ho capito che il marmo era il materiale che meglio mi permetteva di sviluppare una ricerca in questo senso”. Eliseo Mattiacci, Studio Cesare Manzo, Pescara 1978


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24° FESTIVAL INTERNAZIONALE DI FILM SULL’ARTE CONTEMPORANEA

9 OTTOBRE TEATRO SAN CARLO

9 13

10.11.12.13 OTTOBRE TEATRO AUGUSTEO

OTTOBRE 2019 NAPOLI

a cura di Laura Trisorio

Cy Twombly, dettaglio di Untitled (Say Goodbye, Catullus, to the Shores of Asia Minor), 1994. © Cy Twombly Foundation, Courtesy Archives Nicola Del Roscio


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