Non per me solo

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don Virginio Colmegna

Non per me solo Vita di un uomo al servizio degli altri


www.saggiatore.it Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2011


Non per me solo



Sommario

Prologo

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1. Adolescente in oratorio. La vocazione

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2. Diventare prete

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3. La Bovisa nel vortice del ’68

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4. Tra due monasteri. Praglia e Viboldone

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5. Un quartiere, una comunità

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6. Il grande cantiere di Caritas

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7. L’ultima opera. Casa della carità

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Conclusioni

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Prologo

Oggi il freddo punge. Mettere il piede fuori casa è uno dei primi impegni della giornata. Salgo i gradini che portano all’entrata della Casa della carità con una certa prudenza, perché la neve di ieri si è fatta ghiaccio. Il custode si alza e mi viene ad aprire, riesco solo a intravedere i suoi occhi stanchi per la nottata. Mi rivolge un cenno di saluto senza parole. Seduto su una sedia di fronte a me c’è Arturo, sguardo sconsolato, che mi fa un gesto oscillante con due dita della mano, come a dire che non c’è stato verso di chiudere occhio. Gli sorrido, non ci diciamo nulla. In una casa sempre tanto affollata, forse vuole godersi il silenzio placido delle ore mattutine. La coltre bianca che avvolge il giardino rende invadente la luce che entra dalle ampie finestre della scalinata. Evito l’ascensore e salgo a piedi le scale, attratto da quel fascio luminoso che scalda. Immagino le voci che risuonavano nell’atrio ieri sera, chiassose in un angolo, per la partita di calcio in tv, e armoniche in quello opposto, per i canti degli scout che in questo periodo ospitiamo. I giovani scout suonano la chitarra e into-


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nano cori, sorpresi dalla rapidità con cui i nostri ospiti africani prendono il ritmo e ballano senza sosta. Al primo piano mi colpisce vedere disabitato lo spazio giochi dedicato ai bambini. Ieri salendo ne ho quasi urtato uno che si lanciava verso le scale per imprimere forza all’aeroplano di carta che si era costruito. L’ho fermato al volo e gli ho detto: «Ciao, come stai?». Mi ha risposto: «Io bene, e invece come stai tu?». Spiazzante. Non dovevo avere una bella cera. In questa ora di un mattino domenicale, i piccoli dormono accanto alle loro mamme che in passato, stringendoli forte, sono scappate da maschi brutali o da paesi infuocati. Raggiungo il secondo piano. Il silenzio immobile degli uffici vuoti è rotto dalla corsa veloce di una giovane scout che scende le scale in pigiama diretta verso il bagno, armata di spazzolino e dentifricio. Ancora sconnessa con il mondo, praticamente non mi riconosce. Nonostante la sobria collocazione in una delle venti brande disposte nel saloncino del terzo piano, non deve esserle mancato il meraviglioso sonno degli adolescenti. Nel lungo corridoio ci sono postazioni con sedie colorate o divanetti, che durante la settimana si riempiono di docenti volontari e di allievi volonterosi. Aiutiamo gli stranieri ad apprendere la nostra lingua e il loro impegno febbrile mi riporta, come in un flashback, allo scenario serale della scuola popolare promossa da noi in Bovisa, nel lontano 1970. Allora ne beneficiavano gli operai immigrati dal Sud, per conseguire i diplomi della scuola dell’obbligo. Oggi come allora, la società intera è meno fragile se si restituisce il diritto di parola. In fondo al corridoio, c’è la porta socchiusa di una piccola comunità interna alla casa. Non si avvertono movimenti, pre-


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sto i più mattinieri cominceranno ad armeggiare per la colazione, e magari ci guadagnerò un secondo caffè in compagnia. Ora è presto. Il silenzio mi avvolge e mi dà pace. Nessuna parola ma tante voci in questa casa abitata da ogni umanità. Lascio nel mio studio giacca e borsa, mi dirigo velocemente nella piccola cappella. Mi guarda un crocifisso di bronzo dal corpo dilaniato, che non trasmette angoscia, ma la tensione di mantenere insieme i frammenti di un’identità che non vuole disperdersi, che conosce il suo centro nonostante la sofferenza. Sul leggio, la pagina della Bibbia espone casualmente il capitolo v del Vangelo di Matteo. Penso automaticamente alle letture del giorno e mi accingo a sistemare il lezionario per la messa. Poi mi fermo e aspetto. Lascio il libro aperto sulla famosa pagina di Matteo, la leggo con calma, come se fosse la prima volta: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti, perché a essi sarà data la terra. Beati quelli che sono nell’afflizione, perché essi saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché essi saranno saziati». Chiudo gli occhi e provo a immaginare la scena. Gesù è seduto su un’altura. Respira. Butta lo sguardo su una vallata che si sta riempiendo di gente. Molti sono attratti dal suo parlare chiaro e dritto al cuore. Seduti attorno a lui ci sono i discepoli, amici che trascorrono la giornata da compagni fedeli della sua missione e che ora pendono dalle sue labbra. Il discorso verte sulla felicità e perciò interessa tutti senza distinzioni. Diventano protagonisti i poveri, i tristi, i desiderosi di giustizia e molti volti dei presenti vibrano di emozione: «Si parla di noi!». Il discorso non prende una piega demagogica, ma vira parados-


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salmente, in un modo che non lascia indifferenti gli ascoltatori. Non lascia indifferente neanche me, mentre oggi leggo questa pagina! Come mai Gesù si congratula con i poveri, i disperati, gli emarginati, gli oppressi? Il loro disagio è ingiusto e c’è poco da essere felici. Però quella folla rimane ferma, ascolta, si sente interpretata, perché non coglie umorismo in quelle parole, né l’insopportabile mistica della povertà fine a se stessa. Vi trova invece una promessa di liberazione e riscatto, un regno di giustizia annunciato. Quindi penso a me, avvolto nel silenzio di una domenica mattina di dicembre, in una casa dove abitano più di cento persone. I felici di cui dice il Vangelo. Non so sciogliere certi nodi dell’esistenza segnata dall’ingiustizia, ma sono sicuro che la felicità di questi poveri è contagiosa. Io la sento sempre più forte, nel pieno dei miei sessantacinque anni, e non potendola spiegare in astratta teoria, provo a raccontarla. Ho scritto la trama dei miei quarant’anni di vita sacerdotale, che rivedo nel silenzio di questa piccola cappella. La felicità è il filo rosso della mia ricerca. In tutti i momenti nei quali l’ho sentita più viva c’erano loro, i beati della pagina di Matteo, a regalarmi un frammento della loro vita che restituiva senso pieno alla mia. Il tempo scorre, si è fatta l’ora di iniziare la celebrazione della messa. Sento nell’aria il profumo del caffè e le voci dei bambini. Arriva qualche ospite, i giovani scout sono tutti svegli e armati di chitarra, ci sono i volontari, gli educatori, tanti amici. Intravedo anche Silvia: le chiederò di leggere i fogli del mio racconto e di valorizzare i passaggi in cui la mia voce si fonde con le voci dei tanti che ho incontrato e che continuano ad arricchire di vera umanità la mia esistenza.


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È una delle donne che, con la loro amicizia, hanno affiancato il mio cammino arricchendolo di confronto e di competenza professionale. Silvia ama molto scrivere, so che anche questa volta non mi dirà di no. Ha la dote innata di lasciar scorrere le parole, oltre a essere una brava psichiatra che ha accettato la sfida di essere medico della Casa della carità, senza camice, senza visibilità e senza status. La osservo mentre ascolta con passione e interesse le storie dei nostri ospiti, capace di farsi emozionare ancora dai racconti del dolore, dei viaggi migratori, delle speranze, e di percepire dettagli, particolari e immagini che a noi tutti spesso sfuggono, come se la sua vista così poco allenata a cogliere l’esteriorità diventasse all’improvviso acuta nel leggere ciò che è dentro ogni persona e ogni storia. Mi riporta alla mente le parole lette in un libro di Baricco: «Ho visto un’infinità di cose che dalla riva del mare sono invisibili. Ho visto cos’è davvero il desiderio e cos’è la paura. Ho visto uomini disfarsi e tramutarsi in bambini. E poi cambiare ancora e diventare bestie feroci. Ho visto sognare sogni meravigliosi, e ho ascoltato le storie più belle della mia vita, raccontate da uomini qualunque, un attimo prima di buttarsi in mare e sparire per sempre. Ho letto nel cielo segni che non conoscevo e fissato l’orizzonte con occhi che non credevo di avere». Silvia ha condiviso con me molti di quegli incontri densi di disperazione e felicità di vivere, e ora riuscirà a trasformare quelle immagini e quei volti nelle parole di un racconto. A lei va il mio ringraziamento più sentito.



1. Adolescente in oratorio. La vocazione

Il 1960 è un anno dal sapore lontano, ma quella camminata in corso Italia a Saronno è stata così densa di emozioni da sembrarmi un fatto dell’altro ieri. Nell’immagine vivida del 15 gennaio 1960 c’è un quattordicenne che cammina pensieroso, con i capelli spettinati – succede quando sono un po’ lunghi – nonostante i frequenti richiami di suo padre alla regolarità e all’ordine. Le gambe sono pesanti e il passo si trascina incerto. La mattina scolastica all’Istituto tecnico si è appena conclusa, a casa c’è il pranzo che attende, eppure quella sacca con libri, quaderni e matite pesa come un blocco di pietra. Poi nell’officina, a piallare il ferro, a tentare invano di metterlo in riga. Quel quattordicenne sono io, le mie mani non sono scaltre con gli attrezzi della bottega, preferiscono la carta del giornale e le pagine di un libro. Nella testa di un adolescente le piccole sconfitte possono sembrare grandi tragedie, ma io non mi lasciavo vincere. Sono piuttosto una «testa dura», lo sono sempre stato. Quel giorno in corso Italia i pensieri si addensano e


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rendono ancora più pesanti quelle gambe smilze che spuntano dai pantaloni corti. Troppo dura per me la scuola tecnica! A casa mamma e papà ci contano. Sono figlio unico e la mia preparazione professionale può valere un buon lavoro, un nuovo stipendio, una vita onesta e laboriosa a sostegno della mia famiglia e per la costruzione del mio futuro. I miei genitori sono generosi e pratici, onesti e tenaci. L’organizzazione quotidiana della nostra piccola casa di Saronno rappresenta bene il loro carattere schietto. Ogni giorno alle 12.20 mamma torna in bicicletta dal lavoro. La sua ditta, la famosa Lazzaroni, produce biscotti in città, e da poco un dirigente di origine francese ha introdotto la musica nel capannone dove gli operai impacchettano i dolciumi. Si lavora a cottimo e le mani diventano svelte a suon di musica, così mamma rincasa canticchiante e sfinita. Ad attenderla c’è un marito precisissimo che ha calcolato al minuto lo scodellamento della pasta e che le offre un pranzo veloce per consentirle di uscire di nuovo da casa alle 13.10. È una donna assorbita dal lavoro, e con una responsabilità familiare precisa: un figlio minorenne e un marito invalido. Il suo stipendio è il pilastro della casa e nel poco tempo che le rimane tira a lucido i pavimenti con la cera, infondendo dignità e bellezza alla nostra casa, insegnandomi che la povertà non deve impedire la fierezza, la cura, l’armonia, la bellezza. Il nostro bagno è esterno, in comune con altre famiglie. Per lavarci mettiamo il mastello in mezzo alla cucina. Io dormo sul divano della piccola sala che, ogni sera, trasformiamo in letto mentre recitiamo il rosario. Sono nato nella regolarità di una famiglia semplice, dove la messa e il rosario hanno cadenze na-


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turali e profonde, non imposte, non di facciata. La generosità e l’attenzione reciproca ne sono conseguenza diretta. Vivere con la gente semplice è sempre stata la mia mensa quotidiana. La mamma operaia, di poche parole e di molte azioni, mi ha impartito una lezione che ho apprezzato sempre di più negli anni. C’era sicuramente il suo tratto dentro di me quando, giovane sacerdote, mi appassionavo agli scritti di don Sandro Artioli, prete operaio, cercando di entrare in sintonia con quel suo «fare l’operaio come modo di vedere la vita dal di sotto, continuando a dire che sono prete e andando a elemosinare un dopolavoro sacramentale per non dimenticarmi di esserlo». In una mia predica del 1975 sostenevo che «siamo in una società che emargina sempre di più e seleziona, che può fare il bello e il cattivo tempo sulle spalle della povera gente, siamo in una società dove la fabbrica, con i suoi metodi di produzione (per esempio il cottimo) rende l’operaio una macchina che produce, distruggendogli la creatività e la capacità di pensare. Dobbiamo lavorare perché la rivolta dei poveri in nome dell’uomo e della giustizia riesca a costruire una vera liberazione e una società più giusta. Altrimenti dove starebbe la forza travolgente della fede e del Vangelo?». I fermenti del Sessantotto hanno cominciato presto ad abitarmi il cuore, ma si sono integrati con i segni indelebili dell’educazione di due meravigliosi genitori, e ogni volta che parlavo di fabbrica coglievo il respiro di quel tempo storico, raccontavo della gente che mi era affidata, e avevo in testa anche le fatiche di quella donna lavoratrice che era mia madre. Eppure si arrabbiava quando mi addentravo in discussioni troppo serie, quando a scuola prendevo posizione e mi esponevo cercando il confronto serrato, la parola persuasiva, la verifica continua.


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Anche la lezione di mio padre è indimenticabile. Era l’invalido più attivo che conoscessi. Non organizzava solo i pranzi della mamma, ma tutta la quotidianità della famiglia: la spesa, la manutenzione, le nostre giornate, i rapporti con i parenti. Non gli sfuggivano i dettagli, era fin troppo puntiglioso, compensava il suo handicap con uno zelo grande e generoso. Neanche lui amava i lunghi discorsi, e condivideva con la mamma la forza delle «azioni parlanti». Ogni giorno con un’intensa operosità ripeteva che la sua non era la vita di un «fragile» che si deve appoggiare agli altri, ma quella di un «forte», caparbio nel raggiungere i propri obiettivi. Credo che mi abbia segnato nel mio impegno futuro, quando ho incontrato tanti uomini e tante donne fragili, a rischio di risultare emarginati dalla scena sociale, e ho potuto credere con tenacia nella loro capacità di riscossa, nella forza che li rendeva attivi, protagonisti. Oggi mi riempie di dolcezza raccontare dei miei genitori, ma il quattordicenne che cammina pesante in corso Italia il 15 gennaio 1960 sta decidendo di tornare a casa in ritardo per farli innervosire. Un pensiero prende il sopravvento: «Basta, cambio studi, cambio vita! Voglio diventare prete». Ecco le gambe leggere e il cuore in gola. Finalmente ho confessato a me stesso quello che cercavo di dirmi da tempo. Senza neanche pensarci, la mia camminata diventa corsa e devia verso l’oratorio. Don Antonio Barone, il sacerdote novello della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Saronno, sta attraversando il cortile. Spesso si descrivono vocazioni sacerdotali o introduzioni alla vita religiosa come percorsi frutto di incontri e riflessioni, di meditazioni e silenzi. Ma a me non è successo. Credo di aver


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agito d’impulso, volevo superare la prospettiva di un lavoro tecnico, ma soprattutto seguire il desiderio di appartenere a un mondo sociale e culturale, di cui il mio oratorio era una piccola espressione, che invece mi riempiva di entusiasmo. Sono un cercatore di felicità, lo sono sempre stato, e devo alla religiosità senza fronzoli dei miei genitori la semplicità con la quale l’ho sempre perseguita. Don Antonio Barone, oggi monsignore, ha un cognome che fa a botte con il carattere diretto e franco, profondo e immediato, tutt’altro che cerimonioso. Venticinquenne fresco di seminario, aveva appena preso il posto di don Luigi Castelli, il quale aveva investito molte energie per rinnovare la struttura oratoriana. Locali ampi che profumavano di nuovo, un campo da calcio e uno da basket, un bar e una palestra, il calcetto e i giochi da tavolo, le aule per gli incontri ma soprattutto la scalinata esterna, il muretto… Tanti luoghi dove giocare per ore, correre, fermarsi a parlare, essere ascoltati, fare gruppo e assaporare l’indipendenza dalla famiglia, le amicizie che scaldano il cuore, la forza della partecipazione. C’era una scuola di catechismo dove ci insegnavano concetti e formule, e io non facevo fatica a studiare, tanto che sono arrivato primo in una gara nazionale dei «crociatini». Avevo nove anni e andai in gita a Roma per ritirare il premio. Conservo ancora qualche foto dell’evento: in una ci sono io con la smorfia tipica dei ragazzini con il sole in faccia, in processione insieme agli altri bambini, con la veste bianca e un’enorme croce rossa sul petto. In un’altra mentre mostro il diploma ho la stessa smorfia mista all’orgoglio di essere accanto ai miei genitori e a don Luigi. È il 1954 e ho i calzoni corti, i calzini e le scarpe lucide con una strin-


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ga slacciata, i capelli freschi di barbiere e una giacchetta seria, «da grande», troppo grande, almeno di una taglia. Erano gare incentrate su domande assolute, che richiedevano risposte precise. Ancora oggi non mi difetta la memoria in proposito, e potrei snocciolare domande e risposte con scioltezza. «Chi è Dio?» poteva chiederci l’esaminatore. E noi a rispondere, in barba persino alle elementari regole di grammatica sui superlativi assoluti: «Dio è l’essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra!». Oppure: «Perché Dio ci ha creato?» e la pronta risposta, senza dimenticare neanche un verbo: «Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e goderlo nell’altra in Paradiso!». Da bambino avevo il mio modo di essere trasgressivo. Avevo scelto di essere crociatino non solo per la dimestichezza con le domande del catechismo, ma anche perché in questo modo sarei stato automaticamente esonerato dall’essere chierichetto, l’altro incarico che veniva proposto ai ragazzi, che comportava la vicinanza all’altare, alle ampolline e a quell’odore d’incenso che già allora non esercitava su di me particolare attrattiva. Insieme alla gioia di vivere e alla bellezza di stare assieme ai ragazzi più grandi, l’oratorio guidava le nostre menti sui temi cruciali dell’esistenza – la morte, la vita, Dio, i santi, il peccato, la salvezza, la grazia, il bene, il male, la punizione eterna – fornendoci solide idee e il linguaggio inconfutabile del catechismo promulgato da Pio x, che irrobustiva prontezza e memoria di noi ragazzini ma accendeva quelle polveri che avrebbero preso fuoco di lì a poco, anche sulla scena culturale ecclesiale. Quando fui scelto, ancora bambino, per dare il saluto all’arcivescovo di Milano, il cardinale Montini, che veniva per la


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cresima nella nostra parrocchia, non sapevo che stavo parlando a una delle menti del Concilio Vaticano ii, al futuro papa che avrebbe raccolto i contenuti profondi e innovativi della nuova visione di Chiesa che stava maturando proprio in quegli anni, grazie alle riflessioni del cardinale Lercaro, di Henri de Lubac, di molti preti, vescovi e fedeli laici che interpretavano i segni dei tempi. Qualche afnno dopo anch’io avrei beneficiato di quel terreno ormai dissodato, portando il mio contributo volto a scardinare le certezze ormai superate, a favore di un rinnovamento della Chiesa, pronta a riconoscere la forza del popolo in cammino, la responsabilità dei singoli, la purezza di un Signore che guida con amore i suoi fedeli stando in mezzo a loro. Per tutto questo mi risulta ancora più emozionante il ricordo del gennaio 1960. Don Antonio mi ha conosciuto dodicenne, e da allora mi sta accanto come uno degli amici più sinceri e preziosi. È l’unico prete diocesano al quale do ancora del lei, per quella riverenza sincera e per la gratitudine profonda che non trovano mai le parole giuste per esprimersi. Del resto né io né lui siamo propensi a spendere tempo e fiato per ringraziarci. Ci viene più spontaneo trasformare la gratitudine in gesto, a volte apparentemente frettoloso; e così nel mio dare del lei c’è proprio il ricordargli continuamente il ruolo che occupa nella mia vita. Don Antonio Barone il 15 gennaio 1960 mi accolse in casa e mi ascoltò con grande attenzione. Fu allora che capii, con gioia e paura, che non potevo più tornare indietro. Dovevo iniziare il percorso, entrare in seminario. Mi osservava con gli occhi accesi, tra il bonario e il severo, aveva già scorto la


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passione e il desiderio nel mio cuore. Il fare montanaro, apparentemente burbero, era già allora il suo tratto distintivo. Non alto, un fisico tonico e asciutto, veniva da Laorca, in provincia di Lecco, e appena poteva ci portava a scalare in Grigna. Conoscevo bene lo sguardo bonario di don Antonio, lo incrociavo durante le gite in montagna, quando lui si arrampicava come uno stambecco, e io incespicavo sui tratti più ripidi del sentiero. Quello sguardo diventava severo, indagatore e inamovibile, quando ci radunava tutti «in cappellina», durante le domeniche in oratorio, e ci sgridava per qualcosa che era andato storto o ci impartiva indicazioni per il resto della giornata. Sapeva tenerci tutti in silenzio. Comandava eccome! Però mi sorprendeva sempre l’amicizia di cui era capace, che entrava nel cuore. Amava la bellezza, e coglieva emozioni e pensieri da un guizzo dell’anima; non si perdeva in parole, né gradiva saggi di retorica fuori luogo, e non metteva mai a tacere la mia dialettica, ascoltandomi a lungo, provocandomi, facendomi ragionare. Tuttavia sapeva arrivare al dunque. E il 15 gennaio 1960, quando altri mi avrebbero consigliato di aspettare, verificare, tergiversare, don Antonio mi disse che avrebbe subito parlato con i miei genitori. Il sacerdote capì allora che non sarebbe stato un passaggio automatico né indolore. Uscendo dal suo studio quel giorno incrociai lo sguardo della Pasqualina, la donna che in quel periodo si prendeva cura della casa di don Antonio e che per anni aveva accudito nella malattia don Luigi Monza. Lei che chiamava senza pietà «mangiacarte» quelli che, a suo dire, studiavano per darsi le arie, mi guardava adesso con affetto, come se avesse capito


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che non c’era vanto nella mia voglia di intraprendere gli studi teologici, ma passione per quel modo di essere e di vivere. Quel modo lo intuivo stando in parrocchia – standoci fin troppo o fino a quando mia madre non alzava la voce per ricordarmi che avevo una casa e non un albergo – e osservando con ammirazione quel folto gruppo di seminaristi che animava i pomeriggi insieme a don Antonio. Restavo incantato dall’estro narrativo di Ambrogio, che si sedeva sugli scalini e ci teneva tutti a bocca aperta con i suoi racconti tratti dalle avventure di padre Brown. Non so se oggi i parrocchiani di don Ambrogio sono fini conoscitori di Gilbert Keith Chesterton e della sua letteratura, ma ha lasciato un ricordo intenso in me: allora con le storielle del prete detective riusciva persino a tenerci lontani dal campo da gioco. A calcio, però, ci scatenavamo appena possibile, soprattutto con Pippo, bravo, agile e veloce come una saetta nonostante la lunga veste nera e il tricorno in testa. Sì, perché allora i seminaristi portavano abito e copricapo, e così si distinguevano fin dal primo anno di teologia. Oggi sorrido quando vedo don Pippo, prete misurato e silenzioso, così devoto alla Madonna e vicino a coloro che ne raccontano la visione, perché ancora lo ricordo ventenne esplosivo sul campetto. Il calcio non era la mia passione, ma nelle partite a basket la maggioranza dei canestri era mia. Ero un ragazzino esuberante e giocherellone: coglievo Mimmo di sorpresa, da dietro, e gli strappavo il tricorno di testa per lanciarlo e fare canestro. Fingeva di arrabbiarsi, mi inseguiva, mi stendeva a terra e con la simpatia era sempre un passo avanti. Invidiavo le sue doti dirompenti, ma ammiravo soprattutto la premura di sua nonna che lo ha sempre accompagnato durante il suo cammino di seminarista.


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Mimmo esercitava su di me un grande carisma, la sua simpatia era calda e travolgente, esprimeva gioia di vivere e vera passione per l’incontro con le persone. Anche l’incontro con Mimmo ha contribuito a suscitare in me la voglia di imitare i seminaristi, di incamminarmi come loro verso il sacerdozio. Oggi Mimmo è sua eccellenza monsignor Erminio De Scalzi, vescovo e abate di Sant’Ambrogio. Non ha perso la simpatia, e la conserva anche quando assieme a me siede al tavolo del confronto e della riflessione, immerso nelle problematiche della metropoli milanese e di tutte le sue affascinanti contraddizioni. L’intesa di oggi su complesse questioni affonda le radici proprio nell’oratorio saronnese, nell’aver condiviso allora la gioia di stare insieme. Oggi rileggo l’oratorio come luogo educativo lineare ed essenziale che ha saputo affascinarmi, che mi ha preparato con strumenti solidi ad affrontare la complessità che solo un decennio più tardi mi avrebbe investito in pieno, a cominciare dall’esperienza dello studio teologico e del seminario vissuta nel clima della contestazione studentesca. Diventare prete è stata per me una follia colma della spontaneità di lanciarmi in nuove avventure che mi ha sollecitato fin dall’adolescenza. Quel giorno, nell’inverno 1960, arrivai a casa in ritardo. Don Antonio aveva appena finito di parlare con i miei genitori. Varcata la porta, m’investì un silenzio forte e pesante. Mio padre mi si avvicinò e mi tirò una sberla indimenticabile non per la violenza, non ce n’era, ma per l’intensità emotiva, di forza disperata. Voleva dirmi che era preoccupato per la mia magrezza, voleva farmi reagire perché riteneva la scelta del seminario un chiaro segno della mia debolezza e del mio disorientamen-


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to. Ero gracile, non stavo bene, non avrebbero saputo come pagarmi gli studi, mi avrebbero visto partire e lasciarli soli. Tutti questi pensieri sono passati nello schiaffo – che mesi dopo ho definito «una sberla piena d’amore» – e nel grande silenzio calato tra di noi per un’interminabile settimana. Era soprattutto il silenzio di mia madre ad avere una forza che mi scavava dentro. Ho vissuto quella settimana come una prova. Continuavo ad andare a scuola e all’oratorio. Don Antonio mi aiutò ad aspettare. Poi finalmente è stata la mamma a propormi di andare con lei e papà dal prete. La scena che si svolse nel piccolo studio di don Antonio è indelebile nella mia mente. La mamma prese risolutamente la parola. Parlò con la fierezza e la capacità di aggredire il nocciolo della questione che sono proprie delle donne forti. Parlò a nome degli uomini che lì la ascoltavano e avevano bisogno della sua sintesi. «Vediamo che Virginio è convinto. Non possiamo fare nulla per trattenerlo. Fate voi.» Poi, con voce sommessa ma con dignità nello sguardo, aggiunse: «Però con papà che non lavora non posso pagare il seminario e non voglio che questo si sappia». Aveva detto tutto, aveva saputo esprimere il nodo più profondo di quei sette giorni di riflessione e di tormento. Da quel momento in poi mamma e papà sono stati i miei alleati più forti nella scelta, il sostegno nei momenti di difficoltà, sempre pronti ad applaudire i miei successi. Hanno condiviso con me, fino in fondo, la scelta del sacerdozio, senza un filo di buonismo, senza entusiasmi facili, senza retorica, ma con la sobrietà e la determinazione asciutta, quasi dura, di chi guarda alla sostanza delle cose.


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Così iniziò la mia follia. L’11 febbraio lasciai definitivamente l’Istituto tecnico e cominciai a studiare latino e greco da privatista, materie indispensabili per superare il ginnasio e per accedere al primo anno di seminario. Con il latino me la cavavo da solo, ma per il greco don Antonio mi trovò un professore straordinario che mi aiutò a scandire la giornata tra libri, gioco e riposo. Alle 5.30 sveglia, alle 6.30 messa in parrocchia, poi studio fino a mezzogiorno. Dopo pranzo andavo a giocare in oratorio, poi mi rimettevo a studiare fino a tardi. Ero pieno di vitalità, ma la mia salute vacillava sotto quel grande sforzo. La mamma si preoccupava del mio riposo, e il papà mi commuoveva per la pazienza con cui mi faceva ripetere le lezioni. Furono mesi intensissimi. Poi don Antonio mi iscrisse al collegio Rotondi di Gorla Minore per sostenere gli esami di quinta ginnasio. Fu una corsa contro il tempo, ma la mia «testa dura» diede il meglio di sé quanto a ostinazione. Oggi ricordo con tenerezza e con stupore quel tempo di impegno solido e ostinato, sottratto da un quattordicenne gracilino alla spensieratezza dell’adolescenza. Fui addirittura tra i pochissimi privatisti promossi già a giugno. Non saprei dire se ci fu un occhio di riguardo per me, so solo che avevo studiato come un forsennato e che alla vista della frase sul tabellone Colmegna Virginio, promosso in prima liceo piansi di gioia. Ce l’avevo fatta, potevo entrare in seminario a ottobre e avevo davanti a me un’estate spensierata, potevo dedicarla tutta alla rera (Repubblica Estiva Ragazzi Allegri), l’esperienza educativa estiva ancora oggi in vigore fatta di presenza quotidiana di ragazzi e educatori in un programma fitto di gioco, confronto, preghiera. La rera ci bruciava le energie e ci restituiva passione per la vita, per l’amicizia, per la società. Organizzavamo l’ambientazione


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fantasiosa con pochi mezzi a disposizione e con quell’immaginazione che è solo degli adolescenti, perché solo loro sono capaci di accostare il bambino che sono stati all’adulto che diverranno. Da giugno a settembre l’oratorio diventava una piccola città, con regole di comportamento e di controllo, soldi finti, orari prestabiliti, una divisione in grandi squadre che gareggiavano in numerose prove ludiche sportive e tornei, dove i punteggi erano ottenuti anche con i comportamenti meritori, con lo studio del catechismo, con la disponibilità ad aiutare gli altri. I più grandi si occupavano dei più piccoli, generosi ma anche spietati come i ragazzi sanno essere. Non mancavano gli scherzi, le scazzottate, e i famigerati soprannomi. Il fratello di Pippo mi aveva apostrofato «Pastina», alludendo alla mia scarsa energia nelle cose concrete, e purtroppo quel nomignolo si diffuse in tutto l’oratorio con sorprendente velocità; così per centinaia di persone ero Pastina. A mia volta soprannominavo gli altri e ci prendevamo gioco a vicenda dei nostri difetti, per esorcizzarli o forse solo per essere un po’ sciocchi, scanzonati. Tuttavia non posso dimenticare il giorno in cui quel soprannome decadde per sempre. Don Antonio ci aveva radunato nella cappella e ci squadrava a uno a uno con gli occhi come saette; aspettavo il mio turno e non appena lo sguardo cadde dalla mia parte, intuii l’accento sornione con il quale si rivolgeva proprio a me. Quindi ci fu una strizzatina d’occhio, un suo modo inconfondibile per dire a qualcuno di tenersi pronto. Quel silenzio si era creato per me, perché tutti sentissero che ero ufficialmente diventato seminarista. Don Antonio lo disse tonante e l’applauso mi morse lo stomaco come quando avevo visto il tabellone scolastico con la promozione. Don Antonio parlava di me e con poche parole aveva lodato il mio impegno di quegli


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ultimi mesi, il tono era dolce e allegro ma all’improvviso si fece brusco: «Quindi Virginio è seminarista e non voglio più sentire qualcuno che lo chiama utilizzando una parola diversa dal suo nome di battesimo». Con il suo potere, don Antonio aveva archiviato il Pastina per sempre, e forse messo a tacere la mia parte infantile e insicura. In quel momento, mi stava crescendo dentro una determinazione nuova, inaspettata anche per me. Così ha avuto inizio la mia avventura verso il sacerdozio nata un po’ per caso, la follia di una vocazione non preparata, frutto delle regole cariche di bene che mamma e papà mi hanno stampato dentro e figlia della tenacia di un amico profondo e concreto come don Antonio, che ha saputo indirizzare la mia spontanea generosità sul binario giusto e farla procedere verso una meta. Fin qui ho scritto di getto, e mi accorgo che mi inonda un’emozione insolita. Mi sento pieno di gratitudine verso tanti, ma anche innamorato dell’inizio così ordinario e semplice della mia storia sacerdotale. Mentre scrivo, la mia Bibbia è aperta sul Cantico dei Cantici, inno dell’amore umano che Dio continuamente benedice e approva, così pieno di gioco, di ammiccamenti, di incontri e fughe, di conferme ricercate e date. La fede, per come la vivo io, è una narrazione piena di sorprese che riempie di contenuto e senso le nostre giornate. Il racconto di ogni vita, in questo caso della mia, corre vorticoso fino a quando non si fissa sui volti e sulle storie che ne fanno emergere il significato più profondo. La mia sola voce non basta a raccontare la biografia di don Virginio Colmegna: ho bisogno che gli altri che hanno camminato con me raccontino la loro storia, per aiutarmi a capire più a fondo la mia.


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