Per il bene di tutti anteprima

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Giulia Fazzi

Per il bene di tutti Romanzo


Questa è un’opera d’invenzione. Tutti i personaggi sono frutto della fantasia dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone reali è da ritenere casuale. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore Copyright © 2014 Giulia Fazzi Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)


Per il bene di tutti



In una mattina grigia, ancora buia, sporca di nebbia. Umidità che sgocciola dagli alberi. In una mattina grigia lungo la strada provinciale che taglia in due il paese. Lungo la strada, sul marciapiede pieno di buche e scalini. Cartacce, vetri di bottiglie scagliate, escrementi di cani. Lei è la vecchia. La storpia. Quella con la gamba finta. Che fa rumore. Prima di lei, nella mattina grigia, arriva il rumore della sua gamba finta. Arriva lo schiocco di una protesi malfatta, usurata, consumata dagli anni. Un passo dopo l’altro. La gamba sana, quella monca, la gamba sana, quella monca. Nella mattina grigia ci sono la vecchia e la gamba. Il paese. Indossa una veste da casa a quadretti azzurri, senza maniche. Sopra ha infilato un golfino di lana stinto. Porta collant color carne che cadono molli e fanno le pieghe. Sta andando al supermercato. Deve comprare il latte, il pane, le mele, una bottiglia di conserva. Infilerà tutto nella borsa di tela che tiene agganciata al braccio.   7


Zoppica lungo la strada. Le case alla sua sinistra, alla sua destra. La luce che a poco a poco stempera il grigio. Passa qualche auto, da lontano si sentono le campane della chiesa. Si ferma al bar di Daniele per prendere il caffè. A quell’ora ci sono pochi clienti. Si rivolgono a lei chiamandola per nome e dandole del voi. Ma per tutti è la vecchia. La storpia. Quando se ne va, la guardano di spalle, i commenti appiccicati alla schiena. I ragazzini la prendono in giro, le fanno il verso, si tappano il naso quando lei passa. Beve il suo caffè e si incammina lungo la strada. Con le case alla sua destra, alla sua sinistra, la strada provinciale che passa in mezzo. Il paese, in fondo, è tutto lì, e lei conosce a memoria quella strada, quelle buche, le cartacce, gli escrementi dei cani, il suono delle campane. Le impronte che la sua gamba sana, la sua gamba finta hanno lasciato. Un giorno morirà. Il Comune si occuperà delle spese per il funerale e delle sue poche cose. Gli addetti libereranno l’appartamento da tutte le cianfrusaglie: vestiti accatastati nell’armadio, vecchi numeri di Gente impilati negli angoli delle stanze, scatole piene di bottoni e chiodi arrugginiti, sacchetti per il pane piegati con cura e infilati nei cassetti. Sporcizia. Getteranno i santini di padre Pio e le scatole di Lexotan. Toglieranno i mobili e quando rovesceranno il tavolo della cucina scopriranno decine di biglietti attaccati sotto il ripiano. Appunti, promemoria, dicerie, insulti. Ogni stanza verrà ripulita. L’appartamento sarà consegnato come nuovo a un’altra persona sola o a una famiglia in difficoltà. Per le vie del paese, alcuni manifesti a lutto ricorderanno Olga Ebe Giovanardi, il 8


cui funerale si terrà nella chiesa di San Giuseppe martedì alle 14, anche se nessuno darà il doloroso annuncio. I più anziani faranno presenza e accompagneranno il feretro fino al cimitero. Due persone assisteranno alla sepoltura. Si faranno il segno della croce e torneranno a casa a passo lento, le mani incrociate dietro la schiena, concordando che la vecchia, Olga, non ha avuto una vita facile, pace all’anima sua. E pace all’anima nostra. Quella notte, Anna si era svegliata all’improvviso con la convinzione di avere sentito la terra tremare. Si era girata di soprassalto, terrorizzata, e aveva scosso Mauro, addormentato al suo fianco. «Mauro, il terremoto» aveva detto in un sussurro stridulo. Lui aveva brontolato qualcosa come «ma figurati» e si era rimesso a dormire. Anna si era alzata ed era scesa in cucina. Ogni cosa era in ordine. Aveva bevuto un bicchiere d’acqua, dato una sbirciata fuori dalla finestra, poi era risalita in camera e si era coricata di nuovo al fianco di Mauro. Era caduta in un sonno profondo, senza luce, nero. Delia si era alzata all’alba, dopo una notte insonne. Dalla finestra della cucina aveva guardato la strada buia e il cielo che si apriva poco alla volta. Aveva pensato a ottobre, il mese crudele, il mese dello strappo, quando il tempo si congela in una pena rinnovata. Poi aveva dato inizio alla giornata. Accensione della caldaia. Il primo caffè. Le tazze, lo zucchero, i cucchiaini, la scatola dei biscotti, il pane del giorno prima. Una spazzata al   9


pavimento, stoviglie asciutte riposte nel mobile, strofinacci ripiegati. Silenzio di ghiaccio della mattina. Angela aveva già cominciato a lavorare, piegata sul pavimento della Banca Popolare, l’unico sportello bancario del paese, affacciato sulla strada provinciale. Piegata con lo spazzolone fra le mani a cercare di strofinare via una macchia incrostata vicina al distributore del caffè. Pensando ai bambini a casa, da soli, ancora addormentati. E al resto della giornata, a pulire lo sporco degli altri. Alla fine tutto tornerà come prima. E sarà pace per l’anima nostra.

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All’inizio del paese, sul ciglio della strada dopo la curva stretta in salita, c’è una vecchia cappella votiva. È alta circa un metro e mezzo, è costruita con mattoni nudi tutti bucati, sta cadendo a pezzi. Un cancelletto arrugginito chiuso a chiave protegge una piccola statua della Madonna. Accanto alla statuina, un vaso con un mazzo di fiori finti e un lumino. Ogni tanto qualcuno lascia dei fiori attaccati alle grate. Fiori di campo che appassiscono in poco tempo e restano lì a marcire. A volte, fra le sbarre, infilano un foglio arrotolato, un biglietto, preghiere, richieste di grazia. Qualcuno desidera un figlio, un lavoro, la fine di una malattia, il ritorno di un amore. La vecchia arriva a piedi fino alla curva, fino alla cappelletta della Madonna, e recita le sue preghiere in un sussurro che si perde sulla strada, fra il vento, e giù lungo la vallata del Monte Cenere. La vede quasi tutte le mattine. Passa proprio davanti al cancello di casa sua. D’estate, quando tiene le finestre aperte, sente il rumore della sua gamba prima ancora che volti l’angolo della strada.   11


Viene su da via Mazzini, da un gruppo di case nella zona bassa del paese. Si fa una bella salita ogni giorno, la pendenza non scherza. Delia si nasconde. La sbircia dalla finestra della cucina, fra le tende. La guarda zoppicare, storta e con la testa china. La segue fino a quando non scompare dalla sua vista, lungo la strada che porta alla cappella. Quella vecchia maledetta. Tutti parlano di lei in paese, la canzonano, è il fenomeno da baraccone. Delia non interviene, non ascolta, non le interessa. Preferisce non dover parlare di lei con nessuno. Preferisce non doverla guardare in faccia. Evita di uscire se sa che sta per arrivare. Non c’è molto da spiegare, le fa orrore la sua faccia, la sua gamba, il suo vestito, l’odore che emana, il modo in cui stringe la bocca in una smorfia stupida quando cammina. Delia a casa ha le sue faccende da sbrigare. Riordinare la spesa quotidiana, pulire, preparare il pranzo per sé e Giuliano, rigovernare la cucina. Si concede una pausa dopo pranzo per leggere il giornale mentre beve il caffè. Poi è di nuovo in movimento. Pulire i vetri, stirare, mettere a posto l’armadio, togliere quella macchia dal muro, cucire un orlo strappato. Giuliano è una presenza muta nell’angolo di una stanza. Lo sente sfogliare il giornale, accendere la televisione e appoggiare i piedi sul tavolino. Lo vede infilare l’uscio di casa e chiudersi in garage per ore ad avvitare, martellare, riordinare cassetti di attrezzi e barattoli di conserve andate a male. Ottobre è un mese da riempire tenendosi il muso, stando lontani l’uno dall’altra. Delia pulisce e pulisce ancora, ma quel fetore rimane, non se ne va, non scorre via con l’acqua sporca, resta attaccato alle pareti. * 12


«Angela, oggi vorrei che tu passassi anche la cera.» «Certo, signora.» «C’è un pavimento tanto brutto, lo guardavo proprio ieri sera.» «È colpa di tutta questa umidità.» «E poi ci sarebbe da fare anche una lavatrice di coperte. Te le ho messe nel cesto in bagno. Me le stendi in solaio, poi.» «Va bene.» «Perfetto, allora ti lascio lavorare, cara.» Angela si leva il cappotto e lo appende nel piccolo antibagno al piano terra, di fianco alla cucina. Si toglie le scarpe e infila un paio di ciabatte che ogni volta si porta da casa. Indossa un camice pulito e se lo abbottona. Dallo scaffale prende i prodotti che le servono. Li porta al piano superiore, da dove comincia sempre le pulizie. Scende di nuovo al piano terra e prende l’aspirapolvere. La prima cosa da fare è passare l’aspirapolvere al primo piano, in corridoio, nelle due camere da letto, in bagno. Sempre in questo ordine. Non si passa l’aspirapolvere in bagno e poi nelle camere. Passa lo straccio, aspetta che asciughi, poi cambia le lenzuola nella camera della signora. Nel frattempo ha già avviato la prima lavatrice, quella con la biancheria della settimana. Pulisce il bagno. Le fa male la schiena a pulire la vasca. È complicato passare l’aspirapolvere sulle scale. Deve reggere l’elettrodomestico con una mano e con l’altra passare il tubo scalino dopo scalino, scendendo all’indietro e cercando di non scivolare, come è già successo una volta. Poi si ricorda di passare la cera. Scende al piano terra. La signora Valli se ne sta seduta in poltrona a guardare la televisione. Tiene le gambe appoggiate a un panchetto e il telecomando fra le mani. Quando finisce il programma che sta seguendo, spegne il televisore, va in cucina, ne   13


accende un altro. Angela pulisce il salotto e il bagno di servizio. È sempre dopo pranzo che pulisce la cucina, dopo che la signora si è di nuovo sistemata sulla poltrona in sala, davanti alla televisione. Durante il pomeriggio, mentre Angela sta stirando nella camera piccola al piano superiore, squilla il telefono. La distrae dai suoi pensieri. Cattura qualche frase. No, oggi non esco, è mercoledì, ho l’Angela. Sì, l’ho saputo. Ma lo sapevo che sarebbe successo, ti ricordi che te l’avevo detto. Li facciamo venire tutti qui e poi si vede il risultato. A casa del sindaco, li manderei. Hai ragione. Non siamo più liberi di vivere in pace a casa nostra. Va avanti a lungo. La Valli parla spesso al telefono con qualcuno del paese, Angela non è ancora riuscita a capire chi sia. Torna nei suoi pensieri, mentre stira la biancheria della signora, i vestiti, i fazzoletti, persino le mutande e le spalline dei reggiseno. Pensa ai bambini, che non vede dalla sera prima, perché quando va a pulire in banca esce prima che loro si sveglino. Ogni cosa stirata e piegata viene sistemata nei cassetti e nell’armadio della camera da letto. Angela mette via il ferro da stiro, chiude l’asse, cambia aria alla stanza. In bagno ha preparato gli asciugamani puliti. Ha appeso gli stracci e i panni umidi sugli stendibiancheria in solaio. Ha riposto i prodotti da pulizia sullo scaffale, vuotato il sacco del pattume, gettato la spazzatura fuori, nei bidoni in fondo alla strada. La signora Valli si affaccia dalla porta della cucina quando Angela si sta rimettendo le scarpe. «Tutto a posto, cara?» «Sì, tutto a posto.» «C’è un buonissimo profumo di pulito.» 14


Angela annuisce. Si toglie il camice, lo mette nella busta insieme alle ciabatte, poi si infila il cappotto. «Ci vediamo mercoledì prossimo.» «Sì, a mercoledì prossimo. Buona serata, signora.» «Anche a te, Angela.» Torna a casa a piedi. Sono le sette passate, i bambini la stanno aspettando da Maria. Matteo avrà i compiti da finire, Gabriele sarà stanco. Pensa che deve ancora fare tutto, in casa. C’è un disordine che nelle case degli altri la farebbe inorridire. È buio. È scesa una nebbia leggera e umida che offusca le luci dei lampioni e le insegne dei negozi. Passa davanti al bar di Daniele, alla tabaccheria, alla merceria di Carla. Non ha tempo di fermarsi a fare due chiacchiere, le accenna solo un saluto attraverso la vetrina. Carla le risponde sorridendo e sventagliando una mano. Quando arriva a pochi passi da casa di Maria, vede Matteo seduto sui gradini d’ingresso, di fronte al cortile. Tiene la testa fra le mani e guarda fisso davanti a sé. «Ciao tesoro» esclama Angela. Matteo si gira. «Era ora» sbotta. Scatta in piedi, infila l’ingresso ed esce rapido con lo zaino della scuola in spalla. «Dai, andiamo.» «Ehi, quanta fretta. Devo prendere tuo fratello e salutare Maria.» Angela entra in casa. Gabriele è sul divano. Si succhia il pollice e non ne vuole sapere di camminare con le sue gambe. Angela lo prende in braccio.   15


«Non ha voluto niente per merenda» le dice Maria. «Be’, allora avrai una fame da lupo, adesso, e non farai storie a cena, vero amore?» Gabriele nasconde la faccia fra i capelli della madre. «Grazie, Maria. Scusa il ritardo. Domani passo a prenderli alle cinque, va bene?» Maria scuote la testa come per dirle di non preoccuparsi. «Perché dobbiamo sempre andare da quella?» chiede Matteo quando entrano in casa. «Si chiama Maria, non quella. E poi vuoi che vi lasci soli tutto il giorno?» Matteo butta lo zaino per terra, si sdraia sul divano e accende la televisione. Gabriele piagnucola come fa sempre quando ha fame ed è stanco. Vuole il telecomando che suo fratello tiene saldamente fra le mani. «Abbassa il volume» ordina Angela. Si lava le mani e comincia a preparare la cena. «Chi aiuta la mamma?» I bambini la ignorano. Gabriele continua a piagnucolare, cammina per la cucina dando calci alle sedie. Matteo gira da un canale all’altro alla ricerca di qualcosa che catturi la sua attenzione. Angela prepara una pentola d’acqua, prende una bottiglia di pomodoro, il parmigiano e una confezione di tagliatelle. «Matteo abbassa la tv! E apparecchia la tavola. Gabri, aiuta anche tu. Prendi le posate e i tovaglioli.» I bambini non ubbidiscono. Gabriele urla di avere fame, Matteo ha abbandonato il telecomando sul divano e si lamenta della cena, dice che la pasta al pomodoro l’ha già mangiata a scuola. Si arrampica sul mobile e prende il barattolo della Nu16


tella posto in alto. Gabriele cerca di imitarlo, gli afferra l’orlo dei pantaloni, gli dà pugni sulle gambe, pesta i piedi. È a quel punto che Angela comincia a urlare. Afferra Matteo e lo fa scendere dal mobile con uno strattone violento alle spalle, rifila uno sculaccione a Gabriele, gli ordina di stare zitto e lo mette a sedere a tavola. Apparecchia, prepara la pasta, la serve, e mangiano tutti e tre in silenzio, le teste chine sui piatti, il televisore spento per punizione. Più tardi, a letto, Gabriele si fa leggere una storia da Matteo. Angela li guarda appoggiata alla porta della loro camera. «Mamma, sai che Nemo alla fine ritrova il suo papà?» Angela sorride e annuisce. Matteo la guarda, serio. «Ancora una pagina e poi spegnete la luce.» Augura loro la buonanotte e accosta la porta. Ascolta i bambini parlottare, poi scende in cucina a mettere in ordine. Guarda un telegiornale, cambia canale più volte. Il sonno la sovrasta. Quando sale per andare nella sua stanza, controlla i bambini. Matteo si è addormentato nel letto di Gabriele, con il libro di Nemo aperto sulle gambe. Gabriele gli dorme addosso, un braccio sollevato sopra la testa. Angela prende il libro, lo appoggia sul comodino. Li guarda, tutti e due con le bocche aperte e le guance arrossate. Gabriele fa piccole smorfie con la bocca e le ricorda quando era neonato e lo allattava. Ascolta i loro respiri. Li copre cercando di non svegliarli. Li sogna, quella notte. Parla nel sonno, si rigira sotto le lenzuola. Al mattino, la sveglia la luce grigia e fredda del loro autunno precoce. Ha dimenticato le imposte aperte, il freddo si è attac  17


cato ai vetri. Si volta verso il posto vuoto al suo fianco. Pietro non c’era nemmeno nel suo sogno. Scende in cucina e prepara la colazione. Scalda il latte, mette in tavola le tazze, la cioccolata solubile, i biscotti. Controlla che lo zaino di Matteo sia in ordine. Beve il primo caffè della giornata in piedi, guardando fuori dalla finestra l’albero rinsecchito del suo minuscolo giardino, il cancello dalla vernice scrostata, le foglie secche ammucchiate intorno che non ha mai il tempo di raccogliere. Anna si avvicina al letto, si china e sussurra alcune parole a Mauro, sdraiato con un braccio sotto il cuscino. Lo scuote piano. Lui apre gli occhi e sorride. «Buongiorno tesoro.» «È già ora?» «È già ora.» Mauro si gira e con un balzo si mette a sedere, stropicciandosi la faccia e sbadigliando. «Hai già fatto la doccia?» «Sì, il bagno è tutto tuo.» Si scambiano un bacio. «Andiamo da Daniele a fare colazione?» «Va bene. Allora non accendo la moka.» Mauro la bacia di nuovo ed entra in bagno. Anna lo sente muoversi e canticchiare. È una cosa che le piace. Mette a posto la camera, sistema il letto, raccoglie il pigiama caduto sul pavimento. Si guarda nel piccolo specchio di fianco alla porta. Una volta qualcuno le ha detto che ha una bellezza strana, non scontata, da studiare con attenzione. Che 18


al primo sguardo non è una che piace, bisogna osservare e avere pazienza. Poi può diventare bellissima agli occhi di chi sa apprezzare. Si è passata un po’ di trucco, un velo di rossetto chiaro. Si è spruzzata il profumo sul collo e sui polsi. Niente di forte. Di forte ci sono i suoi capelli lunghi, neri, che le scendono dritti fin sotto le spalle, e i lineamenti marcati, gli occhi grandi e scuri. Sorride alla sua immagine riflessa. Poi scende al piano di sotto, aspetta Mauro in cucina. Escono e si incamminano lungo la via che dalla casa di Anna sale fino alla strada principale, costeggiando un piccolo parco e una serie di villette in fila. A quell’ora il bar di Daniele è pieno di gente. Anna ordina cappuccino e brioche, Mauro solo un caffè. Daniele porta loro le ordinazioni. «Ecco a voi, ragazzi.» «Grazie, Daniele.» «Tutto a posto?» «Sì, non c’è male. Tu?» Daniele si guarda intorno. «Sono in piedi da tre ore e la giornata è appena iniziata. Me ne andrei volentieri a letto.» Mauro sorride. «Stasera ci sei?» «Per la partita?» «Sì, come al solito. Tengo aperto per voi, ce la guardiamo in pace, beviamo qualcosa.» «Chi viene?» «Guarini, Andrea, Valerio e Mario, credo, se la Franca lo lascia venire.»   19


«Be’, faccio un salto, allora.» Daniele annuisce e gli dà una pacca sulla spalla. «Ragazzi, torno al banco. Buona giornata.» Anna sorseggia il cappuccino. «Chi è Guarini?» «Marco Guarini. È il padre di un tuo alunno.» «Ah, ecco. Il padre di Davide. Non l’ho mai visto ai colloqui, viene sempre sua moglie. Lo sa che ho già dato un’insufficienza a suo figlio e che se continua così quest’anno non si salva?» «È un mio amico d’infanzia.» «Qui siete tutti amici d’infanzia.» «Più o meno.» «C’è qualcuno che non conosci, in questo paese?» Mauro la guarda. «Non conoscevo te.» «Sì, va bene, ma adesso, intendo. Adesso c’è qualcuno che non conosci?» Mauro ci pensa un po’ su. «Gli extra» risponde. «Sì, gli stranieri. I marocchini, tunisini, quelli che sono venuti su negli ultimi anni. Chi li conosce? Li vediamo tutti i giorni, lavorano quasi tutti alla segheria o come muratori, ma se ne stanno fra di loro. Hai visto come fanno gruppo? Si muovono insieme, sono sempre insieme, parlano solo la loro lingua. Non li conosce nessuno.» Mauro scuote le spalle. Anna è pensierosa. Dal tavolino di fianco prende il quotidiano provinciale, lo sfoglia distrattamente. Le notizie sembrano sempre le stesse, ripetute identiche ogni giorno. Fatti di cronaca come rapine in banca, incidenti stradali, arresti. Polemiche po20


litiche, pubblicità, calendario dei turni delle farmacie. Nella pagina locale, il sindaco di Borgo promette il rifacimento del manto stradale di via xxv Aprile. Don Carlo esprime preoccupazione per il futuro della famiglia cristiana. Un necrologio annuncia la morte di Dorina Pattuzzi vedova Davoli, anni 97. Sono tutti vecchi in questo paese, pensa. Il bar è affollato. Si conoscono tutti. Due uomini si avvicinano al loro tavolino e salutano Mauro, scambiano alcune chiacchiere, parlano della partita della sera. Anna alza la testa dal giornale e fa un cenno di saluto. Finisce il cappuccino. Fra un’ora ha lezione con la seconda A. È ottobre e fa già molto freddo. Anna pensa che giù al Sud, nella sua città, si fa ancora il bagno al mare. Lì, invece, ha già acceso il camino e il buio arriva presto, la sorprende mentre corregge i compiti o ripassa la lezione seduta al tavolo della cucina. In quella che si è abituata a chiamare casa. Borgo è casa da poco più di un anno. Dal giorno in cui è arrivata e nessuno la conosceva. «Valerio, mi sono informato. Il motivo per cui ti hanno rifiutato il prestito è quello che c’è scritto nella lettera che hai ricevuto. Non c’è altro.» Mauro cerca di essere conciliante e diplomatico. Parla in tono calmo e tranquillo, non impostato. Cerca di essere sincero. Tiene le mani congiunte, appoggiate sul banco, le apre e le richiude per accompagnare le sue parole. Guarda Valerio dritto negli occhi tenendo uno sguardo leggermente corrucciato, dispiaciuto. «Non avevo poi mica chiesto chissà quanto» dice Valerio. «Ho avuto molte spese, e devo saldare dei conti.»   21


«Lo so» risponde Mauro comprensivo. Annuisce. Non abbassa lo sguardo. «Non puoi fare niente?» «Non ho nessun potere.» «Mettere una buona parola?» «L’ho fatto, Valerio. Quello che mi era possibile fare, l’ho fatto. Credimi.» Valerio scuote la testa. Mauro lo guarda ancora. Vede una goccia di sudore rigargli la tempia, vicino all’attaccatura dei capelli. Valerio non si è fatto la barba, quella mattina. Poco prima, l’ha visto al bar con Agnese. Erano seduti in un angolo, facevano colazione senza parlarsi e senza parlare con nessuno, come due stranieri capitati per caso in un bar lungo la strada provinciale. «Sono cliente di questa banca da quando avevo diciotto anni» sbotta Valerio. «Un ottimo cliente. E adesso ve ne venite fuori con queste stronzate.» Mauro sospira e il suo dispiacere diventa per un attimo commiserazione. Non gli ricorda che è stato un ottimo cliente solo fino a un certo punto, che poi ha cominciato ad andare in rosso, a saltare le rate dei rimborsi per i prestiti richiesti, a fare pasticci uno dietro l’altro. Preferisce glissare sul fatto che gli ha già salvato il culo una volta e che per questo ha quasi rischiato il posto. «Dai, non ti preoccupare. Vedrai che in qualche modo la faccenda si risolverà.» «Quale modo, Mauro? Ho bisogno di quei soldi. Te l’ho detto, ho dei debiti. E poi la famiglia, le spese. Lo stipendio ci basta appena.» 22


«Agnese fa sempre il part-time?» «Sì!» esclama Valerio con troppa irruenza. «Sta bene la piccola, tutto a posto?» Valerio si calma, il suo viso si illumina. «Sì, sta bene, è meravigliosa. Sono io quello che è nei casini.» Dietro Valerio si è formata una fila di sei persone. Mauro la sbircia da dietro lo sportello, incrocia sguardi spazientiti. «Mi dispiace ma vedrai che si aggiusterà tutto. Devi solo aspettare che passi questo brutto momento.» Valerio annuisce poco convinto. «Grazie lo stesso, Mauro.» «Ci vediamo stasera per la partita.» «Ah, già. La partita. Me n’ero dimenticato. A stasera, allora.» Valerio si allontana dallo sportello. Mauro saluta il cliente successivo, poi guarda Valerio uscire, senza giacca, le mani in tasca. Lo vede attraversare la strada ed entrare nel bar. Ottobre è il mese dello strappo. È in ottobre che gli abituali silenzi tra lei e Giuliano diventano glaciali, si fossilizzano, se in ottobre non si parlano è per un motivo preciso, e non perché non hanno più niente da dirsi. È il mese in cui ha più senso tenere in ordine la casa, pulire e pulire ancora, trovarsi sempre con qualcosa da fare tra le mani, avere sempre le mani occupate e la testa china sul pavimento da strofinare, o sulla scatola degli attrezzi da mettere in ordine. Lontani l’uno dall’altra. Giuliano va poco al cimitero e quando ci va non vuole nessuno appresso. Tiene le mani ficcate nelle tasche del cappotto e il berretto calcato sulla testa, a nascondere gli occhi il più possibile. L’unica volta che si è trovato di fronte alla tomba insieme a Delia   23


è stato il giorno del funerale, poi non ne ha più voluto sapere di andarci insieme. Il lutto è affare suo. Da tenersi cucito dentro. Delia invece va al cimitero una o due volte alla settimana, a cambiare i fiori, a lasciare una preghiera. Le fa orrore la trascuratezza di alcune tombe, le erbacce lasciate crescere, i fiori rinsecchiti, i vetri delle fotografie sporchi o rotti. Orrore. Deve essere sempre tutto in ordine, non si possono trascurare le cose importanti. Una persona cara che non c’è più è una cosa importante. Si china con un movimento lento e aggraziato. Dal vaso toglie i fiori sciupati e li appoggia a terra. Versa l’acqua rimasta sul terreno, fra la ghiaia, e va a riempire il vaso con l’acqua della fontana. Torna, sistema il vaso al suo posto e ci mette i fiori freschi, comprati poco prima al chiosco vicino all’entrata. Li sistema con cura in modo che il mazzo si apra bene. Sulla lapide ci sono il nome, le date, una frase semplice. Fabio è morto in ottobre. Un lunedì sera di ottobre. Anni prima. Con una piccola scopa senza manico Delia pulisce la superficie della lapide dalla polvere e dalle foglie secche. Dalla borsa prende un fazzoletto e spolvera con cura la fotografia, passandolo più volte con delicatezza sul vetro che la protegge. Accarezza il vetro, poi si avvicina e lo sfiora con le labbra. La borsa le scivola dalla spalla, si aggancia all’incavo del braccio. Pulisce di nuovo il vetro, lentamente. Si fa il segno della croce e recita una preghiera, chiudendo gli occhi e muovendo appena le labbra. Quando finisce si fa di nuovo il segno della croce e resta lì, in ginocchio, a guardare la fotografia. Il volto, le spalle. Conserva ancora nell’armadio quella maglia, piegata, chiusa dentro una busta di plastica. Se fosse per Giuliano, la tomba del loro unico figlio finirebbe come quelle trascurate, con le erbacce e i fiori rinsecchiti. 24


Una donna cammina lungo il vialetto fra le lapidi. Delia la riconosce e abbassa la testa, guarda di nuovo la fotografia. Ci sono lei e Fabio, che la guarda dal ritratto incorniciato, da una distanza astrale, da un’assenza irrimediabile. Delia e la tomba, Delia e il cimitero, Delia e ottobre. Non c’è rimedio. Si alza, ha le gambe indolenzite. Dà un ultimo sguardo alla lapide. È tutto in ordine. Si bacia la punta delle dita e con queste sfiora la fotografia. Raccoglie i fiori vecchi che ha lasciato per terra e li butta nel bidone alla fine del vialetto, vicino all’uscita. io so tutto. don oreste sapeva tutto. diceva prega prega prega il signore. e poi pregavamo insieme in ginocchio. Tutte le mattine fa lo stesso identico percorso. Con quella gamba malmessa. Prima il rumore poi il silenzio. Quel rumore. Nella veste da casa dai bordi ingialliti. Qualcuno dice che è matta. La vecchia. La matta.

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