Invisibile è la tua vera patria

Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Invisibile è la tua vera patria Reportage dal declino Luoghi e vite dell’industria italiana che non c’è più

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Invisibile è la tua vera patria

Sommario

1. Il buio e la luce a Taranto

11

2. Attacco al sole

43

3. La città dell’uomo

79

4. Camelot sull’Adda

117

5. L’isola del tesoro

149

6. Viaggio al termine della notte

185

7. Eclissi di luna

215

Bibliografia

247

Il racconto delle immagini

249

Ringraziamenti

253

1. Il buio e la luce a Taranto

Io sono un occhio. Un occhio meccanico e sono in costante movimento!

Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa

«Va bene, andiamo a controllare di persona. Ma quando fa buio. Così almeno vediamo l’aurora boreale.»

«Non è vero. L’aurora boreale c’è solo al Polo Nord.»

«Ingenuo. C’è anche qui da noi. Scommetti?»

Esisteva un tratto di superstrada, tra Martina Franca e Taranto, e forse esiste ancora, in cui la legge di gravità era stravolta. Era un sacrario, un reliquiario, un santuario in cui c’erano fiori sempre freschi posati come ex voto e dove prendevano vita e polpa lugubri leggende metropolitane, alimentate dalla cronaca nera e dall’inspiegabile numero di incidenti automobilistici che si susseguivano nei paraggi di anno in anno. Pochi metri d’asfalto in discesa costeggiati da spine selvatiche e sporadiche margherite, su cui, si diceva in giro, le auto spente e lasciate in folle s’inerpicavano al contrario, in salita, come tignose capre di montagna, anziché prendere velocità e lanciarsi sulla piana, secondo la percepibile pendenza che trasformava la collina in pianura, quasi in depressione, e in linea con le leggi incontrovertibili dell’esperienza umana.

Da bambinello scettico e saputello, tronfio per la sfilza di «bravissimo» collezionati in seconda elementare e per le carezze di una maestra che non sapeva resistere all’intelligenza vivida e sicura di sé di un bimbo moretto cui stava badando come una Penelope fin troppo devota, io non ci credevo. Non ci credevo proprio.

Né allo stravolgimento della legge di gravità, né all’aurora boreale.

Nessuna creatura è più conservatrice, devota alle regole ferree della lo-

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gica e fedele nel senso più cristiano alle scoperte consolidate della scienza di un bambino col cipiglio diligente alle scuole dell’obbligo.

E allora una domenica costrinsi mio padre a portarmi lì, al punto inesplicabile del bosco dell’Orimini, dove per i creduloni era collocato il passaggio segreto a un’altra dimensione spaziotemporale. Ero deciso a scendere e piantonare la nostra auto lasciata in folle e aspettare, attendere vigile e coraggioso il poltergeist, il miracolo, il crudo manifestarsi dell’ignoto, o in alternativa il mio trionfo, ovvero l’assenza di avvenimenti cui avrei appoggiato i «ve l’avevo detto» che tenevo sempre in canna e l’indice roteante, mia personale e infantile parodia dell’uomo adulto fin troppo scettico e fiero.

Eppure, fu un altro evento a rapire la mia attenzione, quasi immediatamente.

Un incendio patinato sembrava galleggiare in cielo, bruciandolo fino ad aprire una breccia: l’aurora boreale c’era davvero.

Cingeva l’intero orizzonte visibile a occhio nudo, il prismatico e illimitato spazio circostante, uno scenario che fu in grado di scaraventarmi per la prima volta, e piuttosto violentemente, nell’amplificazione empirica del concetto di infinito, e farmi percepire la mia condizione immutabile di molecola infinitesimale, troppo leggera, e per questo destinata a soccombere alle armi segrete del vuoto.

Puntare Taranto dall’Orimini significa duellare con il mare dall’alto, come da un canyon, e aver fiducia almeno per qualche secondo che stagliarsi in volo dal declivio sia davvero possibile, e non per migrare fantasticando su insicuri ritorni, ma per possedere il golfo intero con l’ambiziosa idea di proteggerlo, e ideare una strategia di resistenza valevole contro qualsiasi minaccia o violazione, facendo della boscaglia aggrovigliata di querce, rovi, lecci e piante di viburno una tignosa fanteria. O trasmutando fossili di masserie fantasma, relitti setteottocenteschi il cui declino è datato con precisione radiometrica dal rifluire fluorescente della vegetazione, in inespugnabili torri di vedetta. O immaginando muri a secco, sentieri e stalle, avanzi di civiltà che l’uomo edifica e abbandona e tradisce, per necessità o ambizione, come fiere batterie di cannoni nascosti dall’ampio calibro, dalla potenza di fuoco roboante e dalla balistica perfetta. Avamposti schierati contro i nemici più infidi, insomma. Che un tempo erano i cartaginesi o i saraceni e, in tempi più recenti, feroci cercatori vestiti all’ultima moda e ossessionati dall’oro.

1. Il buio e la luce a Taranto 13

«Hai visto il cielo?» disse mio padre. «Non è rosso. È color melagrana.»

I vastissimi miasmi, che dal mio punto di osservazione sembravano volteggiare per chilometri, si perdevano come segnali di fumo nell’ampiezza dell’empireo, molto in alto, là dove la stratosfera diventa mesosfera e la vista umana fatica a distinguere la filigrana del nero spaziale, inesauribile. Ma ciò che più importava è che se nell’aurora boreale comune, quella cui gli uomini e soprattutto gli scandinavi sono abituati, l’origine non è visibile a occhio nudo e avviene per processi chimici, quella mia personale aveva una genesi precisa, individuabile e chimica anch’essa, sì, e tuttavia esplicitamente umana: nasceva nelle ciminiere dell’Ilva, l’ex Italsider, il grande centro siderurgico che (appresi in seguito), l’Iri e tutta la nomenclatura politica nazionale del boom economico pretesero e avallarono come locomotiva del progresso italico e, ben presto, come medaglia simbolica dell’orgoglio produttivo nazionale.

Una cattedrale della modernità, un luogo sacro della civiltà industriale.

Io sono qui, anche oggi, per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale, questa volta rappresentato dal complesso degli impianti del iv centro siderurgico dell’Italsider. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla.

Giuseppe Saragat, 10 aprile 1965, giorno dell’inaugurazione ufficiale del centro siderurgico

E fu mutata, in effetti, la realtà meridionale.

Completamente.

Ma per me bambino, ed erano solo gli anni ottanta, la vista dall’alto dell’imperiosa fortezza dell’acciaio era piuttosto come trovarmi di fronte alla pentola piena d’oro da cui fuoriesce, fluorescente e ipocrita, l’arcobaleno.

«Bruciare sembrerebbe il destino di questo cielo» disse mio padre ipnotizzato «e quando è l’aria a bruciare, porta tutto con sé. Anche quando ero bambino io accadeva, cosa credi? Che ce l’hai soltanto tu ’sta gran fortuna? Ti affacciavi e ti saltavano via gli occhi. Erano centinaia.

Rendevano il cielo rosso fuoco. Superare il pendio e affacciarsi sulla baia

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illanguidita dall’ampiezza dell’orizzonte era come arrivare col fiatone al confine tra paradiso e inferno, e inspiegabilmente essere attratti dall’inferno.»

«Cosa, le ciminiere?»

«No. Che. Che ciminiere. Le ciminiere non sono lì da sempre, stutc.»

«E allora cosa rendeva il cielo infuocato?»

«Gli sciaraball. Una catena infrangibile, senza inizio né fine, di sciaraball.»

Gli sciaraball erano il mezzo di trasporto più in voga nei primi decenni del Novecento, calessi di varie grandezze a una sola asse su cui viaggiavano merci o persone, e quando non c’era altro modo di trasportare carichi ingombranti come pomodori o cocomeri, la gente dei paesi si muoveva così alla volta di Taranto, per rimpinguare dispense o bancarelle dei negozi. Frusta, cappello, cavallo e sciaraball.

Taranto, dopotutto, era la città.

Era cresciuta a dismisura a partire dal 1865, quando il Regno d’Italia finalmente unito aveva bisogno di una roccaforte militare sul Mediterraneo, forse per alimentare uno smanioso desiderio di guerre di conquista a nutrimento di un futuro di ricchezza, guerre che poi sarebbero state perdute senza appello. Lì, in città, si facevano buoni affari, e in un’epoca in cui il turismo non esisteva e per chi non era aristocratico l’idea di viaggio era naturalmente legata al pellegrinaggio, alla tragicità di cambi di vita generati dalla miseria o all’imponderabilità di eventi unici inviati dal demonio come malattie non c’erano posti più belli da vedere che il golfo abbacinato sul mar Ionio, con i suoi ardimentosi accessi al mare e il cobalto liquido che restava sempre quieto, come mosto versato lì a fermentare, come un lago vulcanico o un quadro del Canaletto, dove le acque sono sempre specchi paradisiaci che si lasciano scrutare fin nel profondo.

Naturalmente, quella a Taranto era una spedizione da programmare con cura.

Perché tra i chilometri, il carico e lo scarico e le normali operazioni burocratiche allungate da una sosta refrigerante per la gazzosa, ad andare e tornare dai luoghi di rifornimento ci si poteva impiegare un’intera giornata.

Così, specialmente nei mesi estivi, mi raccontò mio padre, per evitare di vagare per strada sotto l’arsura desertica sia all’andata che al ritorno,

1. Il buio e la luce a Taranto 15

si partiva a pomeriggio inoltrato col carro leggero e si rientrava in piena notte, con le braccia distrutte, e al calar delle tenebre si accendevano le lanterne di bordo per scrutare il necessario, non più d’uno o due metri davanti al cavallo, nubi di luce subito assaltate da orde di insetti, come se quel bianco fosse cibo. Nel buio assoluto, ecco allora il divampare di una scia capillare e fugace, quella di un bengala o di una torcia, una via lattea di lucciole.

Certo, non si vedeva nient’altro dalla vetta delle colline.

Gli abitanti delle masserie assiepate sul dirupo, se il tempo lo consentiva, andavano a godersi lo spettacolo come se attendessero il passaggio di una cometa, e le coppie di amanti ne approfittavano per dotare di una suggestiva scenografia la labile fugacità dei baci e del desiderio.

Sparute oasi luminescenti dovute all’illuminazione pubblica indicavano il centro città, gli uffici comunali, l’arsenale e il ponte girevole. Osservando il fluire spiroidale di una girandola si poteva individuare il faro di San Paolo in guerra contro la triplice alleanza di mare, notte e cielo, ma il nero spaziale fagocitava alberi e case, uliveti e pascoli, vitigni e pergolati, e di certo mimetizzava tra loro una miseria comunque dignitosissima e le non così rare oasi di benessere. Lo stesso mare si mimetizzava, e solo qualche lampara richiamava alla memoria stelle ribelli ancora bisognose di un nome, fino al momento in cui, a tarda notte, l’ultimo lumino affogava nella poderosa densità del consueto e persistente buio comunque imperante, che nella maggior parte delle notti concedeva alla luna giusto qualche rugosa striatura.

Da quel racconto paterno, gli sciaraball sono entrati per sempre nel mio immaginario, come accade a certi particolari o a certe visioni che la memoria sembra selezionare in combutta con l’anima, secondo chissà quali processi cognitivi e quali schemi di discernimento. A me era sembrato di vederli in modo nitido, in processione, e c’era una forza sacra di elementi, acqua, cielo, fuoco, terra e umanità in quella visione evocata dalle parole, che fu in grado di operare in me una fulminea e duratura penetrazione. Che mio padre avesse detto la verità, quel giorno, non l’ho mai messo in dubbio. Così com’era di certo vero che sull’Orimini la nostra macchina non si era mossa. E forse una verifica casuale di quei ricordi narrati e ancora oggi vivi nella mia memoria, una verifica non cercata ma incrociata per caso a distanza di molti anni, e soprattutto conclusa da

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un esito positivo, mi ha regalato, col tempo, un senso di soddisfazione ancora più profondo. L’idea, cioè, di poter poggiare il lento procedere dei giorni su qualche certezza soffusa e invischiata nel sottosuolo, la fiducia umana come materia prima da centellinare, una preziosa riserva energetica che si può e si deve intaccare soltanto in caso di blackout totale, quando vengono meno altre e più esteriori conferme. Ecco, nel lungo periodo, qual è l’unica vera differenza tra verità e menzogna.

Amedeo N., poco più di ottant’anni, oggi mi ha confermato per intero, parola per parola, il racconto paterno. Degli sciaraball. Dei cocomeri e delle lanterne. E non ho alcun dubbio che Amedeo N. possa non avermi detto la verità. Troppo coincidenti le due versioni per lasciare spazio a interpretazioni, dichiarerebbero inquirenti di professione. Inattaccabili i risultati dei miei sofisticati confronti incrociati e, soprattutto, nessuna possibilità che i testimoni abbiano messo in piedi una combine.

Amedeo e mio padre neppure si conoscono.

Non possono essersi accordati a mio discapito, come luminari del conflitto d’interessi, perché interessi comuni non ne hanno. Mio padre è architetto, Amedeo può contare su una pensione di invalidità. Mio padre è diventato bambino nel dopoguerra, quando alcune forme di dolore collettivo evaporavano dalla pelle e dal corpo per mitigarsi in ricordo; Amedeo è stato balilla e, nonostante ciò, il passato è il tempo della vita di cui gli restano le immagini più nitide, quelle che invoca come vitamine rigeneranti a base di malinconia, afflizione e affezione, o che chiama a sé come erinni incarognite, quando vuole sentirsi male e piangersi un po’ addosso, perché altrimenti ci sarebbe meno gusto a essere vecchio, e nessuno a essere invalido. In comune, a pensarci bene, non hanno però nemmeno il vissuto domestico, o i giochi di strada dell’infanzia o l’abitudine a districarsi nelle ristrettezze. Né, infine, concepiranno mai gli stessi orizzonti, in tutti i sensi. Perché Amedeo N. è cieco da mezzo secolo.

Nel trapasso tra l’inferno e il purgatorio, e tra il purgatorio e il paradiso di ciò che resta dell’immenso centro siderurgico tarantino, una città stato di 15 milioni di metri quadri, 50 chilometri di strade asfaltate interne e 200 di ferrovie, sarà lui la mia guida, il mio Virgilio, o meglio ancora il mio Omero.

Lo vado a prendere a casa, un rudere di masseria biancastra che sembra seicentesca, e forse lo è, dove i recinti in pietra delle aie per le galline

1. Il buio e la luce a Taranto 17

potrebbero risalire al tempo dei dolmen apotropaici o a un assemblaggio imbastito durante il più recente degli albeggi, e non ci sarebbe alcuna differenza, perché le pietre incastonate sono lì da sempre. Un lungo viale, un tratturo così come si chiamavano in questa terra, un tempo, le strade sterrate che si avventuravano per chilometri nei campi e formavano vaste arterie di comunicazione per favorire la pastorizia e il trasporto del grano.

Poi m’investe un’arida atmosfera di abbandono abitato, segnalato da bottiglie di vetro sistemate alla meglio sui muri di cinta a secco, alti poco più di un metro. Intorno a me, vecchi edifici di servizio, mangiatoie e magazzini per attrezzi sono recintati da grossi pezzi di intonaco scrostato e lentamente sembrano subire la vendetta della vegetazione selvatica, che sembra desiderosa di recuperare l’antico spazio perduto, espropriato, sbranando quanto più possibile tutti i segni d’antico lavoro umano. Anche lo stato del corpo centrale, dove Amedeo vive, ancora mostra segni di impoverimento progressivo, impressionanti. Dopo il saluto canonico e un’energica stretta di mano, è facile per Amedeo riempire di senso il mio silenzio.

«Sì. Lo so. È da molto che manca un po’ di manutenzione ordinaria qui. Manca, come si dice, il passepartout, la cartamoneta. Porte e finestre sono solide però. Si scrosta giusto un po’ di vernice.»

Mi guardo intorno più per curiosità che per compassione.

I tendaggi sono lisi, i divani logori, gli angoli delle volte sono ornati di ragnatele e macchie di marciume e umido disegnano strane figure sui soffitti, giganti e mostri disumani, cui il proliferare micotico delle muffe dona un inaspettato fascino tridimensionale.

Da un residuo fossile, reliquia in grado di simboleggiare il superamento di un intero sistema di vita economico, oltre che antropologico, perpetuato per millenni, stiamo per avventurarci verso l’involucro di lamiera di un altro relitto, non ancora del tutto esanime, che simboleggia lo strenuo attaccamento a un sistema di vita economico, oltre che antropologico, il cui disastroso superamento è già in fieri e pare irreversibile, e solo dopo poco più di cinquant’anni. Siamo a dieci, al massimo quindici chilometri dal più grande tempio di Efesto e del cancro d’Italia, che pur di restare in vita brucia terra e brucia vita, e richiede ancora sacrifici umani, e che, sebbene caduto in disgrazia, lascia ancora liberi i suoi aneliti arroventati. Amedeo è già pronto, appena inarcuato ma sicuro nel passo e nel maneggiare uno strano bastone color ambra con pomo bianco d’avorio,

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quasi che sia un esperto interprete dell’antica arte della paranza. È arzillo e le parole gli scendono come lava da un viso ancora vulcanico, improntato a una forzata trascuratezza che tuttavia è gradevole come l’espansione di certi rampicanti selvatici, con il fiammeggiare di lunghi ciuffi bianchi dal cranio, con l’intricato groviglio di rughe che fa di lui l’ex possibile assistente di un lanciatore di coltelli e il segreto inviolabile di quella fascia del suo viso compresa tra fronte e zigomi, occultata da quel forziere d’espressioni senza più luce che sono i suoi vecchi occhiali da sole.

«In città non ci potevo più stare» confessa Amedeo. «Lo dico con gran dispiacere, eh, qui ci si annoia. E a me piacciono molto i rumori della città. Ma Taranto, per un cieco, ha più insidie della foresta amazzonica, compà. Non è cosa proprio.»

Amedeo N. arrivò in città da novello quarantenne, dalle campagne vicine inginocchiate a quel soffio di ignoto evocato dal mare nei pressi di Uggiano, un nome che ben si combinava alla canicola di certe giornate uggiose, per l’appunto, trascorse nelle vigne a pergolato.

Così da passeggiare all’ombra anche a mezzogiorno e fantasticare sull’invisibile battaglia tra verderame e peronospora su distese verdi d’uva da tavola, il cui esito poteva elargire ai proprietari, nel nome del fatidico trionfatore, prosperità in carrozza o preponderanti angustie.

La sua famiglia aveva dieci ettari di terra e una masseria che per un paio di generazioni era stata un perfetto microrganismo economico autosufficiente. Produzione agricola con prevalenza di grano, olivi e viti, bestiame, tre ettari di bosco ceduo e vinicola per il fabbisogno annuale di proprietari e mezzadri. Ma con l’invecchiare sordido di suo padre, che aveva sperperato la maggior parte del denaro di famiglia per finanziare i suoi spettacoli al teatro di varietà (che a Taranto era molto attivo a inizio secolo, prima che fosse demolito per la ben più patriottica costruzione del palazzo del Governo) non solo le terre avevano via via smarrito la loro capacità produttiva, ma anzi le spese di mantenimento della tenuta si erano moltiplicate, fino a imporre il licenziamento di unità sempre crescenti di contado, categoria maledetta e abbandonata al suo destino alla prima difficoltà. Ma l’economia politica non lascia margini di manovra nemmeno ai cuori più teneri: via i mezzadri, era tempo di invocare il sacrificio di qualche soldato di famiglia. Bisognava smetterla di contare sulle rendite. Bisognava lavorare. Olio di gomito e volontà.

1. Il buio e la luce a Taranto 19

«Sotto il fascismo avevo fatto l’artificiere» dice Amedeo. «Il mio maresciallo capo mi vide, un giorno, mentre mettevo in piedi un castello di carte. Le avevo usate quasi tutte. Ben sistemate una sull’altra, in equilibrio, e non cadevano. Mai, nemmeno se soffiavi. Prima uno, poi due, poi dieci o quindici commilitoni mi guardavano. E non è che ci stava molto altro da fare! Un castello a tre piani che sembrava eretto sulle fondamenta.

Lui, un napoletano verace, ebbe l’intuizione. «Ehi, tu» mi disse «camerata. Quando hai finito di fare il circo equestre… passa a trovarmi. Ho giusto bisogno di un uomo con le mani da cerusico.» Ci andai, e mi chiese se ero pronto. Gli dissi di sì, convinto che mi volesse trasferire. Lui si alzò e mi strinse la mano. Poi si congratulò e aggiunse che da quel momento nella vita avrei montato e disinnescato bombe, per la pace e la floridezza del mio popolo. Semel errare licet. Si sbaglia una volta sola. Il nostro motto di allora è stato ripreso oggi dalla polizia, sai?»

«E con l’Italsider? Che c’entravano le bombe?»

«Non sapete niente, voi, ormai. Niente di lavoro manuale. Di fatica fisica. Bisognava dissodare il terreno. E dovevamo sistemare le mine. Servivano buchi profondi, caverne, fosse, gallerie, chiamale come vuoi. Per sbriciolare le colline o disintegrare la roccia che dovevamo fare, usare il piccone? L’aratro con il ciuccio davanti? No, non per costruire il futuro.

Ma come? Noi eravamo lì per costruire il futuro, il futuro, capisci, mica una fabbrica. Ce lo dicevano ogni giorno, i capi. Un’impresa così importante era nelle nostre mani, e non dovevamo fare nemmeno un po’ di rumore? Agli uomini piace farsi notare. Ecco perché i ciechi hanno pochi amici.»

Una spoletta difettosa, o un innesco lavorato male.

Amedeo non lo ricorda, e nemmeno, dice, gli interessa più. Forse nicchia per mostrarsi un po’ più fiero di quanto è in realtà. La colpa è un nesso causale opinabile, per di più ignorato dagli esiti finali.

Poi la detonazione, immediata e imprevedibile come una magia, e proprio come una magia, senza alcuna possibilità di replica, senza la speranza di elaborare una contromossa. La condizione dei condannati a morte, o se si è fortunati, all’interdizione alla luce. La perdita dei sensi e di sangue. Le dita recise come grappoli d’uva, il volto tumefatto, l’anima avvelenata dalla sensazione di aver subito un torto.

«Mi sono svegliato uno o due giorni dopo in questo stato. Solo un po’

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più a poltiglia. L’esplosione è stata come tutte, come a Capodanno, niente di tragico, credimi, proprio niente di tragico. Anche il rumore fu trascurabile. Insignificante. Meno… ma molto meno dell’accensione di una motozappa, o di una sgasata col marmittone. Un solo attimo di tempo che non va come previsto e che, quando lo vedi succedere, è irreversibile come qualsiasi altra cosa. La caduta di una pietra, o di un limone dal ramo.

Non tocca nessun altro. Nessun altro che te. Per te cambia tutto, per chi è a un metro da te, niente. Io non ricordo molto, ma nessuno ricorda qualcosa. Troppo veloce la vita. Poi la giudichiamo, come si dice, con il periodo ipotetico. Si sbaglia una volta sola, ma per me il motto non è stato vero.

Almeno, non in senso letterale. E se ci penso non è così per nessuno, forse. C’è gente che sbaglia, fa disastri, stragi. Errori che cambiano la vita a tutti nel raggio di migliaia di chilometri. E non gli succede mai niente.»

In famiglia, tra sorelle mancuner e fratelli artistoidi scottati al sacro fuoco dell’ispirazione paterna, solo Amedeo aveva delle possibilità concrete di affacciarsi con successo sul mercato del lavoro, sebbene il rigoglioso bagliore di crescita nazionale, quello che sui giornali era chiamato boom economico, avesse contribuito, secondo la vox populi, a moltiplicare le occasioni. E per chi? Non per tutti. O, quanto meno, erano le occasioni a non manifestarsi succulente secondo logiche plebiscitarie. Ma di quel che sapeva fare lui c’era richiesta.

«Io sapevo pure dormire, a dir la verità. Ma chi ci stava disposto a pagarmi?»

Chi aveva capitali da investire, come accade in qualsiasi momento storico propizio, vedeva ovunque pietre filosofali in grado di trasformare muri a secco in recinti di lingotti d’oro. Per chi aveva maturato, per opportunità o strenua ricerca da rabdomante, consolidati rapporti con le istituzioni, c’erano buone possibilità di accedere al nutrito ménage di posti pubblici che sarebbero spuntati come muffa fungina sotto i lampioni, gli impianti di stoccaggio e le ciminiere.

Il terziario non era proprio l’Olimpo del capitale o la Federal Reserve, ma il denaro transitava anche per corridoi e uffici, e poi c’erano orari non troppo rigidi, di certo meno rigidi del lavoro quotidiano per addomesticare la terra in religiosa osservanza dei cicli agresti, e anche i muscoli avrebbero di certo faticato meno. Molti ex proprietari finirono lì, specie chi aveva un diploma di ragioneria o una laurea. E anche per chi, come

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un paio di suoi amici d’infanzia, pensava che il cogliere al volo le moltissime occasioni avventurose che la nuova espansione industriale offriva non fosse una rinuncia poi così spasimata ai solidi principi di Rousseau, ci fu margine per agire di conseguenza, sotto il naso otturato dei moltissimi per cui la siderurgia fu fin da subito un ospite sgradito, uno sconosciuto da alloggiare in casa propria giusto un po’ di più dei canonici tre giorni.

Gestione del personale in subappalto, smaltimento dei materiali, indotto in campo edilizio. La ruota della fortuna prometteva di girare all’infinito.

«Li ricordo bene quei primi giorni, fino all’incidente. Bisognava fare lo sbancamento. C’erano i cineoperatori a girare, come quando facevamo i cinegiornali dal fronte. Arrivavano gli scrittori a prendere appunti.

Erano ricevuti con tutti gli onori. Nacque persino una rivista, la Rivista Italsider, che ci veniva distribuita gratis e parlava del futuro, e soprattutto raccontava degli operai che erano modelli di efficienza, uomini fieri che erano importanti come i padroni, e forse anche di più, perché le mani sul metallo, o nel fuoco, ce le mettevamo noi. Volti fieri, braccia virili. Bei disegni, io ne ho avuto un numero solo, mi strappavo le pagine e me le attaccavo al muro, i quadri che poi finivano alle mostre in tutto il mondo, eh… Su di noi, non sui dirigenti. Uno come me protagonista di un quadro di arte contemporanea, era bello! Io leggevo ai quei tempi, non ero uno sprovveduto e, che ti devo dire, l’avevo davvero la sensazione di fare la storia. Si respirava entusiasmo, eravamo eccitati. Nella mia squadra c’erano molti tarantini, gente della provincia, ma anche altri. Veneti di Treviso, di Chioggia, lavoratori di Terni, piemontesi e napoletani, gente che era stata chiamata apposta perché teneva l’esperienza, e che aveva lavorato alla costruzione o alla manutenzione degli impianti al Nord e a Bagnoli.

Ci raccontavano dell’imponenza degli impianti, di quello che era in grado di fare la tecnologia, altro che miracoli di Gesù Cristo! Passeggiare sulle acque era una cosa da niente se sul mare ci camminava l’acciaio. Tonnellate di tubi d’acciaio che erano stati prodotti dalla sera alla mattina. E del resto pure Gesù non voleva fare il monopolista secondo te? La moltiplicazione del pane e dei pesci è stato il primo esempio storico di produzione su larga scala, solo che qui si dovevano fare numeri titanici, non poche centinaia di pezzi. Gesù Cristo S.p.A.… tempo due anni e pure lui avrebbe attinto al lavoro nero.»

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«È un sito immenso. È più grande della città. Credimi. Non si riesce a immaginare fermo. È come se avesse una sua anima demoniaca.»

«Lo so. Me l’hanno detto. Mi ricordo il tempo che ci mettevo per andare al circolo ricreativo. Il pulmino, venti minuti dentro il recinto. Una capitale. E del resto, non lo senti l’odore di kerosene, di ferro bruciato, di ossigeno putrefatto che arriva fin qui? Non è come stare in una solfatara?»

«Ancora no, non sento niente.» «È vero quel che si dice.»

«Cosa?»

«Che se perdi un senso, la forza di quel senso si sposta negli altri. Io qui, nel naso, ho il potere di due occhi e quattro dita.»

Una curva mi nasconde per un breve frangente la ferraglia incandescente.

Lo comunico ad Amedeo, che non si scompone. Fa una smorfia dietro gli occhiali neri un po’ demodé. Poi riprende a raccontare, sicuro di sé.

«La maggior parte nemmeno lo immaginavamo cosa poteva venire fuori, che cosa stavamo costruendo. Scaricavano e ammassavano tonnellate di ferraglia e tubi che, accatastate, sembravano mura difensive, la preparazione a un assedio feroce. Già a quei tempi si diceva che l’uomo si preparava ad andare sulla luna, e a noi sembrava di fare esattamente quello. Una nave spaziale. Chissà il mostro, un giorno, che muso avrebbe avuto! Boh! E quante teste poi. Una o dieci o cento o mille teste! O quante ali, o quanti artigli! L’idra dalle sette teste, la settima fatica mi pare, la settima fatica di Ercole. La nostra era la prima grande fatica del Meridione unito… dopo il brigantaggio. Ecco, un po’ mi dispiace. Nonostante quello che si dice… che la fabbrica ha avvelenato tutto, che ha mandato tutto a catafascio… a me dispiace che la bestia completa e funzionante non l’ho vista mai. Io avevo messo l’entusiasmo, era una bella cosa da fare nella vita no? Costruire qualcosa che doveva far arricchire tutti. Martino invece, sì, lui l’ha vista la bestia, eccome se l’ha vista.»

Martino Calimero, così soprannominato per il colore della sua pelle, un marrone scuro tendente al carbone, e per l’abitudine di portare sempre in testa un borsalino bianco, era stato un compagno di scuola un po’ ottuso e grassoccio, l’unico verso cui Amedeo aveva maturato un affetto sincero, e tuttavia più uncinato alle ore trascorse insieme per strada che a un’effettiva comunione dello spirito.

Martino aveva una dote che surclassava tutte le altre, vere o pre-

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sunte: faceva ridere in modo involontario. O perché si veniva a sapere che i suoi genitori portavano le sue magliette della salute dal mago Sultan per una benedizione contro le malattie respiratorie (e già che c’erano per contrastare eventuali malocchi), o perché portava con sé, come una seconda pelle, una specie di sfortuna atavica, un po’ inseguita inconsciamente come le api col polline e un po’ distillata dal fato. Eppure, quando il grande progetto siderurgico prese corpo e i tentacoli della piovra organizzativa si estesero in modo così rapido e brulicante che era del tutto impossibile tenerli sotto controllo, anche lui trovò un brandello di mondo ospitale e piuttosto remunerativo in cui sguainare e far sfavillare la spada affilata della legge del più forte, un brandello di savana che tuttavia andava difeso non solo con la lama, ma con lama e canini.

Col passare degli anni, si era incattivito. Il ruolo del buzzurro dai comportamenti eccentrici gli stava stretto. Aveva cominciato a rispondere agli sfottò diventando manesco e irritabile già agli ultimi anni di scuola, appena gli era apparsa, come una rivelazione, la certezza di possedere una certa prestanza fisica, un’arma segreta a difesa dell’esistenza, concreta e visibile a occhio nudo. Il peso contundente del suo braccio, da ingombro dalle sembianze porcine gli si era manifestato come una giuntura meccanica in grado di innescare la sua mano sassosa, per far male, per minacciare con efficacia, e fatalmente gli erano cambiati i connotati. Girava col coltellino. Non aveva più paura. Gli occhi grandi e neri, in passato perennemente indifesi e spalancati sul mondo come se vi fosse sempre qualcosa da far entrare, accogliere e non lasciar più scappare via, si trasmutarono in ghiande protuberanti e impenetrabili, sorrette da un ghigno criminaloide.

Gli occhi si fecero sottili e neri, capaci di aprirsi al mondo esterno come se esistesse qualcosa da catturare e mettere in trappola, da trattenere per sempre, ma con tutta l’avidità possibile. Dai diciotto anni in poi Martino si era barcamenato: furti, furtarelli, un po’ di contrabbando. Aveva adottato il cappello e non se l’era più levato, diventando per tutti Calimero.

Il nuovo battesimo all’inizio lo innervosì, ma poi divenne uno strumento di riconoscibilità, la maschera pubblica di un personaggio che, secondo certi canoni materialisti divenuti di moda ben più dell’onore, si ammantava comunque dell’aura del successo, e persino lui vi si affezionò. Compiuti i quarant’anni Martino aveva iniziato a lavorare in grande,

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dedicandosi alle truffe alimentari: sofisticazione dell’olio di oliva allungato con gli scarti ossei dei mattatoi.

Vitelli, maiali e anche asini, giunture e crani polverizzate cui erano aggiunti sottoprodotti degli idrocarburi per esterificazione e, abracadabra, l’olio moltiplicava il suo volume. Perché non è che a Taranto prima dell’Italsider vivessero proprio tutti secondo gli umori dei raccolti o saccheggiando il mare pescoso. L’olio veniva fuori denso e dorato, l’odore delle ossa e dei residui cadaverici impallidiva al cospetto dell’aroma prepotente della macinatura in frantoio, e il prezzo del prodotto finale invogliava le tasche più leggere e soprattutto i palati meno esigenti, che erano la maggioranza. Quando quell’area professionale si fece un po’ troppo rischiosa per il nubifragio di leggi antisofisticazione, Martino, che non era quanto a coraggio esattamente un emulatore dell’ammiraglio Nelson a Trafalgar, si tuffò a piene mani in un’area liminale all’illegalità che godeva dell’ombra ampia e rilassante generata dalle solide pensiline erette dal potere istituzionale intorno ai propri campi profittevoli. Bulimie di bilancio e pragmatiche necessità di concretare i tempi di costruzione rendevano particolarmente funzionali i servigi del caporalato, efficiente sistema a garanzia di un surplus di pressione e vigilanza sui lavoratori, che quasi naturalmente si traduceva in un aumento di plusvalore. Niente è più anarchico del potere. Niente è più anarchico del capitale.

E infatti negli uffici amministrativi dove si discuteva di subappalti non si disdegnavano affatto gli interlocutori più rampanti, quelli abili a districarsi nelle ampie periferie limitrofe al grande motore produttivo internazionale, ai guadagni dell’import-export, dove le maglie dei reticoli investigativi erano giocoforza allentate. Anche Martino poté allora conservare la sua natura, per così dire, anarchica, e inventò a suo modo la professione di agente del lavoro, o per dirla con il moderno e neutro linguaggio aziendale che s’interseca e prolifica l’omertà diffusa, di recruiter.

Girava le parrocchie come i padroncini facevano nell’Inghilterra del Settecento, in cerca non di contadini, o non solo, ma di nullatenenti e anticomunisti da riunire in piccoli gruppi di lavoratori indipendenti. Oppure si buttava come uno sciacallo sugli scarti umani evacuati dai cantieri navali Tosi, o almeno su quelli che il vaccino antirabbia dei sindacati non ancora addomesticati l’avevano ingurgitato da tempo.

Per entrare nell’équipe di Martino bisognava pagare una quota d’i-

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scrizione, e in cambio lui garantiva un canale privilegiato per accreditarsi da manovali protagonisti nell’era industriale. Anche Amedeo fu cooptato attraverso l’intercessione di Martino, ma a lui fu risparmiata, nel nome di una vecchia amicizia, la quota associativa a quel parasindacato, partorito dal così felice matrimonio tra inventiva personale e interessi dell’aristocrazia del pragma.

«Erano ritrovi di disoccupati. Martino aveva un modo di parlare che faticavo a riconoscere. Nelle sue frasi usava sempre il futuro ma, anziché nel regno dei cieli, lui la serenità, la libertà dalla miseria che stranamente non richiedeva contropartite, la prospettava a due, massimo tre anni dall’assunzione. Sembrava ci considerasse un po’ carne da macello però. Forse era per il suo lavoro di sofisticatore, che appena abbandonato gli faceva ribrezzo e ne parlava male, dopo che per anni aveva provato a trascinarmi dentro. Io, però, a quel tempo non avevo bisogno. Poi dopo sì. Mio padre era diventato antifascista quando buttarono giù l’Alhambra per costruirci sopra il palazzo del governo, e non ha mai approvato che io restassi nell’esercito. Fai il disertore, mi diceva. Poi te ne vai a Palagianello da una mia amica costumista, e lì chi ti cerca più. Ti mascheri da ballerina e sei salvo. Ma non fece nulla per tirarmi fuori davvero, il suo era solo un giudizio morale dettato dalle aspirazioni d’artista, un po’ frustrate. Un giro psicologico un po’ assurdo secondo me. Mo’ non è che uno può mettere sempre l’onore, la propria visione del mondo o delle cose dietro ai cazzi propri, o no? Comunque poi non aveva fatto molto per noi, per assicurarci un futuro. Non che fosse dovuto, però è quello che avrei provato a fare io.»

Sorride.

Entriamo in macchina con l’obiettivo di sfidare la fortezza, come rudimentali Blackbird antiradar privi di ultrasuoni ma generosi per volontà e determinazione, più di gamba, io, più di memoria Amedeo. Lo aiuto, ritrae il braccio. Vuole fare da solo. Riprende a ricostruire il passato.

Martino Calimero i capi di bestiame se li sceglieva con attenzione maniacale. Quasi con cupidigia. C’era di mezzo la fiducia del padronato e, sotto forma di materializzazione della fiducia, gli introiti. Se qualcuno poi non andava bene, ecco che lui faceva anche da cassa integrazione, e se lo riprendeva per piazzarlo altrove. Anche per brevi periodi. Aveva messo in piedi, nell’ombra, un vero e proprio sistema sociale alternativo obbe-

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diente alla solita legge di natura secondo cui i privilegiati opprimono i non privilegiati, solo un po’ più conveniente per chi, nella filiera gerarchica a governo di un’area di società dove proliferava d’improvviso il denaro, era nell’attico più rifinito, cioè nella posizione di chi, dall’alto, dava inizio alla grandinata delle briciole a favore delle formiche più operose e obbedienti.

«Martino Calimero è morto dieci anni fa, cancro ai polmoni. È stato sempre un uomo sfortunato. Un po’ di soldi però li aveva fatti e non credo che alla vita potesse chiedere molto di più.»

Amedeo parla senza sosta durante il tragitto.

Io mi distraggo presto, è evidente che vuole approfittare di me. Ho aperto un vaso di pandora chiedendogli di accompagnarmi agli impianti.

Sono stato fortunato a incontrarlo, potere del passaparola. Un mio amico che ha una cartoleria ha saputo da un suo amico che ha un’agenzia immobiliare che c’era un vecchio cieco voglioso di vendere le proprie terre intorno all’arcaica masseria, un mastodonte messo male verso la costa ionica; e tra le vaporose informazioni di contorno era passato il gossip, attraverso le forche caudine del telefono senza fili, che al Sud è sempre il mass media più efficace, che Amedeo aveva iniziato a lavorare all’Italsider ai tempi della costruzione, una sorta di pioniere del West, e che poi per anni, dopo l’incidente, era stato ammesso al circolo bocciofilo degli operai come una specie di invalido di guerra. Una serpe in pectore, ho subito pensato, il mio uomo.

«A quanto la vuoi vendere la masseria, Amedè?» chiedo.

«Tre milioni di euro. Ci sono molti ettari di terra.»

«Amedè, tu quei soldi non li vedrai mai.»

«Che fai, sfotti?»

«Tre milioni, dici, eh? Mi sa che sfotti tu.»

Mi parla delle coltivazioni che c’erano un tempo, dei campi di carciofi, degli uliveti, di un piccolo tavolo di lamiera azzurra che stava nella corte interna, il luogo dove ai bei tempi, cioè quando ancora non era scoppiata la fissazione paterna del teatro di varietà, a primavera e di domenica si pranzava tutti insieme, all’aria aperta che sembrava impregnata di salsedine, e che alla prova respiro premeva giusto un po’ di meno, nei bronchi, di quella arricchita di amianto e diossina.

«Questione di peso specifico» commenta Amedeo.

I cani da pastore abbaiavano a ogni rumore sospetto e i polli rantola-

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vano in un alveo sabbioso sotto una grande acacia, per metà morta e per metà incredibilmente risorta, i cui rami più giovani s’erano stranamente aggrovigliati per poi aprirsi a forma di croce, e mentre lui parla ecco un’altra carcassa a cielo aperto, l’ennesima che sembra sfidare il bordo strada e il serrato passaggio di veicoli a restituirle il lustro di un tempo. È una delle moltissime ville abbandonate che si trovano da queste parti.

Di colpo si materializza dinanzi a me l’immagine un po’ macabra di una tomba pietrosa e imbiancata, incoronata da un crocifisso di legno, aste grezze e diseguali, bitorzolute e cancerose proprio come rami d’acacia, l’unico rilievo a stagliarsi nel territorio pianeggiante, un vetusto bastione che si erge dalla tundra malata. O forse, più che una tomba, è un trono. Il trono sassoso dei re del nulla che qui si arricchiscono ancora, spremendo anime morte e macerie, finché ce ne saranno, e che per la maggior parte dell’anno vivono altrove, se gli resta un po’ di senno, magari in qualche area che contribuiscono a tenere incontaminata intorno all’Equatore. Forse è lì, sui quei resti che siedono nei brevi soggiorni di rappresentanza, penso, quando scherani, sceriffi o amministratori delegati, o capiarea o manovali hanno bisogno di congratulazioni o lavate di capo, e su quel ragionamento mi si svela, all’improvviso, il corpo metallico e diseguale dell’immenso sito industriale e, con esso, la scia implacabile del suo respiro nervino, imposto tirannicamente a tutti. È impossibile, osservandola da altezza umana, cogliere l’acciaieria intera nel proprio campo visivo. Anche da lontano. È troppo immensa, sfuggevole, proliferante di ramificazioni infinite, come binari, viadotti, discariche, esalazioni. Mi balzano all’occhio le altezze dei camini, minareti che sembrano sputare incenso avariato, ma basta una curva perché l’alligatore torni a mimetizzarsi con le frange più irregolari di un territorio arido, appestato, esasperato, o col grigio cimiteriale di certi palazzoni che in esso si specchiano pregni di malafede, e sembrano decadere pezzo per pezzo, mattone dopo mattone, al trascorrere del minimo intervallo di tempo, quasi che la distruzione in fieri sia la sabbia di una clessidra.

Sotto le ciminiere, la metropoli industriale sembra accasciarsi al suolo col suo dorso corazzato di scudi ossei, emanando la statuaria e minacciosa immobilità di un rettile intento a temperare il proprio sangue metallico sotto l’ecumenica generosità del sole. È uno spettacolo straniante, lunare e un attimo dopo azteco, per la

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maestosità di certe rovine, o di tutto ciò che, sembra così chiaro, è destinato a diventare pura distruzione.

Alla mia destra, s’innalzano all’improvviso, come se fossero erbacce cementifere di campi incolti, i casermoni di Paolo vi, il primo figlio deforme della brutale ragione economica e competitiva partorito in questa terra. È un immenso quartiere dormitorio che detiene ancora oggi, nel suo intestino, circa ventimila persone. Le case sono degradate cisterne di forza lavoro, silos che in niente si distinguono dalle casematte o dai casermoni di servizio intorno agli ingranaggi produttivi o agli altiforni, se non per la profusione di biancheria stesa che sembra incenerirsi al fluire delle polveri, o per il senso di sfida alla vastità della pianura o il senso d’occupazione dello spazio, qui incalzato per longitudine e non per latitudine, come se al cielo si volessero raccomandare le anime di chi abita.

«Siamo a Paolo vi» dico ad Amedeo, interrompendo il suo flusso di coscienza.

«A che altezza?»

«Non saprei. All’inizio. Abbiamo appena superato l’Ipercoop.»

«Fermati e torna indietro. Fammi il piacere.»

«Per fare cosa?»

«Ho bisogno di sentire l’odore.»

«L’odore di cosa, qui c’è solo putridume.»

«Di campo S.» Campo S, o Campo Sant’Andrea, oggi non esiste quasi più. È un campo di concentramento britannico di cui ignoravo l’esistenza e che invece Amedeo N. ricorda nei minimi dettagli. A Campo S affluivano i prigionieri di guerra italiani smistati da un altro campo, quello di Afragola, in Campania. Non c’ero mai stato. Eppure i pochi elementi originali che rimangono, innestandosi nelle suggestioni provocate dalle fotografie e del materiale che da tempo chiunque ha potuto visionare su Auschwitz, Birkenau, Treblinka o Bergen Belsen, o Dachau, o Mauthausen-Gusen, sono sufficienti a creare in me, in modo nitido e chiaro, una ricostruzione mentale fedele alla topografia della struttura carceraria, così come doveva presentarsi ai tempi in cui era sfruttata al massimo regime. Corpose conferme arrivano da ciò che Amedeo sta per raccontarmi a parole. L’inesattezza di alcuni dettagli ornativi, la foggia delle camicie da lavoro, la modesta rigorosità geometrica delle baracche, non possiede alcun signifi-

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cato se si calpesta questa terra: qui, con la forza di ondate poderose, a divampare c’è solo la furia mefitica di eccessi di violenza irreversibili e, allo stesso tempo, ormai perduti.

Eppure gli scavi perimetrali delle baracche, le rimanenze dell’impianto fognario, le tracce di muratura in pietra che dovevano delimitare i confini del lager, oltre cui sorge claustrofobico un tetro casello ferroviario che evoca deportazioni di prigionieri e importazione di pendolari, e gli ormai corrosi binari che s’interrompono d’improvviso nella terra come se portassero verso una dimensione che non ha nulla a che fare con l’umano, paiono assimilati per osmosi agli interventi più moderni di manipolazione del paesaggio. Paiono essere assorbiti nella mescola del cemento, nell’impossibilità apparente di far crescere arbusti rigogliosi, ma soltanto sofferenti e malandati, tisici e agonizzanti. Sembrano rivivere nel rapporto tra edificazione e spazialità, nei parchi d’asfalto che circondano i casermoni, così simili a recinti, o nel suolo circostante che appare sempre saccheggiato, depauperato nelle sue falde, nell’incalzare di straducole appestate da crateri e spartitraffico di fortuna.

Sembrano assieparsi nel quasi impercettibile alternarsi tra sole e ombra innescato da una luce che, come oggi, qui è sempre spettrale e s’infrange al suolo come coperta da una patina d’alluminio, quasi a voler impedire una visione nitida della realtà.

Se il passato ha imposto una lezione sullo sfoggio di violenza incontrollata elevata allo zenit nei campi di sterminio, è che non bisogna più esibirla, né dichiararla.

Bisogna piuttosto rinchiuderla, transennarla, mimetizzarla con gli incidenti sul lavoro o con la vita quotidiana, rappresentarla come casuale.

Bisogna che appaia indiretta, ovvero che non sia possibile stabilire un nesso semplice, lapalissiano, tra cause ed effetti critici, tra vittime e carnefici.

E se le condizioni economiche e gli accordi commerciali internazionali lo rendono possibile, la si deve spostare altrove. Esternalizzarla, dove non appare per quello che è, cioè fondamento primario dell’innocente quotidiano, e non scandalizza. Bisogna che la matrice, che l’origine del male, sia sempre un passo più avanti di chi cerca di catturarla. Il nazismo, affrontando il problema di come rendere la violenza sopportabile alle masse e ai propri bracci armati, gli esecutori fisici, aveva strutturato un sistema burocratico che mirava alla vaporizzazione della responsabilità individua-

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le. Un metodo perfetto, che alla violenza assoluta faceva da supporto. La tecnica era quella del plotone d’esecuzione: una moltitudine di spari contemporanei e solo un proiettile letale, anonimo e senza padrone. Così era attenuata, mistificata, la responsabilità individuale, ma non quella assoluta. Il referente ultimo restava l’uomo, il male era comunque un’azione perpetrata dall’uomo sull’uomo.

La società consacrata al capitale è andata oltre. Ha esteso il metodo del plotone d’esecuzione al massimo della sua portata possibile, cancellando della violenza anche il senso della responsabilità assoluta. L’ha mimetizzata. L’ha resa indecidibile. L’ha voluta inglobare e strumentalizzare, e ne ha mutato i connotati profondi. Mi basta guardarmi intorno, tra materiali di scarto, vetri e siringhe sotto i portici di vespai a sette piani che, come allo Zen di Palermo, sono del tutto inutili, perché qui non piove mai. Sono un habitat perfetto per il degrado, creano anfratti, luoghi di spaccio, trincee controllabili e difendibili da adolescenti assoldati a far da palo mentre giocano. La violenza è distillata ovunque, in modo che si autogeneri ovunque e al tempo sia sfuggente, senza origine, asfaltata sotto le ragioni del profitto, frattanto innalzato come un idolo totemico a valore assoluto collettivo, a immenso e pilatesco fattore di giustificazione universale. La violenza è trasformata, definitivamente, in danno collaterale. Quel che vedo intorno all’ex Campo S ne è la prova schiacciante.

Amedeo non può sapere che mi sono distratto, e racconta ciò che sa di questo posto.

«I prigionieri arrivarono in un carro bestiame. Erano sporchi, stanchi, affamati. Provenivano dall’Egeo, da Algeri, dalla Grecia, dalla Gran Bretagna e dai campi di concentramento italiani. Insomma, da battaglie per la sopravvivenza e scenari disastrati, come chi poi è venuto a lavorare all’Italsider. Erano alcune migliaia. C’erano dieci grandi recinti che le guardie chiamavano pollai e verso la provinciale vedi, proprio lì, c’era un doppio reticolato in filo spinato. Fra le due reti c’era un camminamento, e per ricevere l’elemosina bisognava oltrepassarlo per non finire nelle mani delle sentinelle. Ci potevo finire anch’io, lì. Ma scelsi di combattere con gli alleati. Non sai quanti pacchi ho portato a quelli che stavano dentro, c’era un tale caos. Pure in quella situazione bisognava prendere una tangente dai prigionieri per effettuare la consegna dei pacchi. Ecco perché dico sempre a chi si lamenta che deve essere contento. Che anche

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nelle difficoltà oggi è assicurato un minimo di libertà umana che nel passato è stata messa in discussione. E che tutto sommato anche un posto da operaio, anche in uno stabilimento che inquina, e che ti accorcia la vita, non è da buttare.»

Mi sale una rabbia feroce, che provo a bruciare come se fossi io un altoforno. Le visioni del mondo sub specie aeternitatis contengono sempre un’autoassoluzione, oltre che l’accettazione di ogni sortilegio come se provenisse dall’imponderabile. Eppure, che nel giro di mezzo secolo un’acciaieria di dimensioni colossali inglobata nell’area urbana avrebbe portato a morte e degrado, lo si sapeva di certo. Esistevano esperienze e cicli già conclusi, come nelle aree tedesche della Ruhr o in quelle inglesi di Manchester, Birmingham o Brighton. La visione candida delle élite al potere, mi provoca sempre il voltastomaco.

Risaliamo in macchina un po’ corrucciati, divisi dal peso di un disaccordo che implica, inevitabilmente, un giudizio reciproco, sebbene estemporaneo o parziale. L’ingenuo utopista senza traumi, io per lui, uno che si è ritrovato l’intero arcobaleno di bisogni di prima necessità garantiti per diritto o per censo. Il vecchio che porta addosso il peso di una vita tragica oltremisura, lui per me, vecchio sacerdote profetante portatore di una mentalità secondo cui il minimo benessere garantito per i più è già comunque una benedizione.

Lasciamo cadere il discorso. Consapevoli che una mediazione tra noi, la terza via, la formulazione di un pensiero che accolga le idee dell’altro, equivarrebbe comunque a un’insopportabile abiura di noi stessi.

D’improvviso, la bocca cilindrica di una ciminiera, anziché sbucare alle spalle di un condominio o della boscaglia di antenne che prolifica sui tetti, diviene l’improbabile protuberanza di un antico acquedotto romano, che fu costruito, probabilmente, per portare l’acqua a un porto mercantile che doveva essere attivo sul Mar Grande, o alle ville nobiliari dei Gracchi che un tempo si affacciavano sull’immensa promenade a conca, coincidente, oggi, con la fetta di costa occupata dallo stabilimento. È l’acquedotto del Triglio, chiamato così perché si alimenta dalle sorgenti omonime che scavano un’immensa gravina tra Taranto, Crispiano e Statte. Amedeo, da insospettabile guida onnisciente mi dice che le gallerie costruite dai romani sono alimentate da sei sorgenti dai nomi coloriti, fiere rimanenze dell’era umanista che cercava diciture in un certo senso onomatopeiche o ispirate a visio-

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ni morfologiche, come fanno gli speleologi che vogliono caricare di vita ed epos antri, stalagmiti e stalattiti delle caverne.

Boccaladrona, Lazzarola, Rosamarina, Alezza, Miola e Monte Specchia sono le sorgenti, e alcune di queste sono fossili. Le immagino irreparabilmente inquinate, ma spero di sbagliare. Alle spalle delle volte s’intravedono già le recinzioni del parco industriale, ora transenne e ringhiere di ferro, ora altri muri di cemento. L’acqua è un bene fondamentale per l’industria, così come lo è per la vita.

Che l’insediamento industriale occupi la posizione migliore dell’intera area costiera, non è certo una casualità.

Come la Coketown dickensiana, anche la nuova Taranto, quella che ha raggiunto i 250mila abitanti in pochi decenni, si rapporta alla fabbrica mantenendo un chiaro stato di vassallaggio. È replicato, senza troppi camuffamenti, lo schema medievale dei centri abitati che si assiepavano ai piedi del castello signorile. A Taranto, ovviamente, le case non circondano il buio alveare che sbuffa ininterrottamente, che stride e cigola come una locomotiva impegnata nel suo furioso e sempiterno incedere, seguendone la circonferenza come i comuni medievali. Eppure sembrano volgere a esso come mani protese in cerca di elemosina, così come i girasoli cercano la luce. Il quartiere Tamburi è incredibilmente tangenziale ai camini e ai parchi minerali, quasi integrato nella cinta muraria. E non perché si sia espanso dopo l’instaurazione del polo siderurgico, nient’affatto, ma proprio perché il grumo tumorale doveva imporre allo scorrere basico della vita non solo la sua presenza fisica, ma una precisa ideologia. Quella di un potere che ha annullato lo spirito barocco che era volto al profitto anch’esso, è vero, ma in funzione dell’alta qualità della vita e dell’estetica, e ha eletto l’accumulazione di capitale finanziario a brutale e ossessivo scopo verso cui tendere senza freno, all’unanimità, anche per i milioni che a dosi di capitale accumulabile come ricchezza non hanno e non avranno mai accesso, e anche a loro ha ordinato giocoforza di contribuire.

Ecco il perché della vicinanza al centro urbano, ecco perché il trasferimento nell’antica struttura cittadina di un’organizzazione a ben vedere non così dissimile da quella di Campo S; con le baracche, o casermoni, inginocchiate intorno alle fornaci. Ecco il perché dell’agglomerazione: perché i motori avessero sempre a disposizione un ampio serbatoio di manodopera cui attingere mantenendo al livello minimo i salari.

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Rallento e accosto, e Amedeo, accortosi del cambiamento d’andatura, mi chiede se per caso mi sento male. Non gli rispondo. Voglio uscire e fare due passi fino a bordo strada, chinarmi e prendere in mano un pugno di terra. Fuori dall’auto il cattivo odore è lancinante. Impregna i polmoni, le narici, la pelle, le fauci, gli abiti, la trachea, qualsiasi cosa sia fisicamente a contatto con le particelle d’ossigeno mistificato. Non so se si tratta di suggestione, del resto qui c’è la più alta percentuale europea di morti per cancro, ma la nausea comincia a serpeggiare da subito, ci si sente oleosi, avvelenati, e sono recalcitrante a ingoiare la mia stessa saliva, timoroso che possa essere infetta. È un odore indefinibile, di minerali bruciati, o forse di gomma incendiata, miasmi ora più intensi, ora mitigati da qualche soffio di vento. A poche decine di metri da me ci sono i luoghi della normalità. I vicoli del quotidiano stretti come suq orientali, fontane, edicole, bar, cortili recintati di palazzi cascanti, fruttivendoli. Tutto è decadente, fatiscente. Le crepe, i vasti frantumi di intonaco, i calcinacci, i crateri nell’asfalto avvisano che presto tutto ciò che vedo sarà archeologia. Un branco di cani randagi in squadra attraversano la strada giusto davanti a me, nella canicola che rende liquido l’orizzonte, e trasmettono molto meglio di qualsiasi metafora il senso della battaglia per la fame. È evidente che la promessa di eterno benessere è disattesa, e ciò che mi scivola via dal palmo aperto non è terra, è polvere nera. Mi salta in mente Finale di partita di Beckett quando Hamm, il padrone, si rivolge così a Clov, il suo servo: hamm:

Non ti darò più niente da mangiare.

Allora moriremo. hamm: Te ne darò quel tanto che basta per impedirti di morire. Avrai [fame sempre. clov:

Sembra quasi che le nuove élite abbiano prodotto un mondo a propria immagine e somiglianza, truce e insensibile, che è destinato a essere soppiantato con la stessa spietatezza con cui il loro ha soppiantato il precedente. È stata inseguita la perenne instabilità delle classi lavoratrici, e il degrado ha assunto il ruolo di parte integrante dell’intero processo, affinché i fumi venefici, i rumori metallici di cinghie e bielle, il fragore degli scavi, il fetore dei rifiuti e l’ansare dei convogliatori accompagnino la

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routine familiare. In modo che non ci si possa abituare mai a nient’altro che allo squallore.

Ecco ciò che è rimasto come lezione viva dei lager.

Tutto, fuorché la violenza esibita, la tortura a cielo aperto e lo sterminio calcolato. Ma basta guardare la doppia banda di filo spinato che incorona l’alto muro di cemento a protezione della cokeria, che a pochi metri da me segrega ciò che non tutti devono poter vedere, per respirare quella stessa atmosfera di allora, e per accorgersi che molte delle leggi di sopravvivenza descritte da Levi in Se questo è un uomo, sono nient’altro che le leggi della vita nel mondo in cui l’uomo smette di essere il fine e, esautorato per sempre, non gli resta che degradarsi a mezzo del mero profitto.

«Che vedi? Perché sei affannato?» mi chiede Amedeo. «Dove siamo?

Dimmi quel che vedi. Me lo sono fatto raccontare cento volte, forse duecento. Ma ne voglio ancora. È come rivedere un bel film.»

«Macchine, montagne, tralicci, raffinerie.»

«Scavatori, ne vedi?»

«Qualcuno.»

«Lì, da qualche parte, è successo quel che è successo.»

«Cosa?»

«L’incidente, è lì che ho perso gli occhi.»

Sono tentato dall’approfittare della mia posizione vantaggiosa. E narrare sventure, calcare il linguaggio descrittivo per suscitare in Amedeo un certo disgusto, sofferenza se devo. Mi brucia ancora il suo discorso sulla necessità di accontentarsi. A volte mi sembra addirittura voglia beatificarsi della sua cecità, come se il fatto di non vedere questo cieco sviluppo devastatore equivalga a non concepirne l’esistenza. Ma è la sensazione di un attimo, e me ne pento. E poi, rifletto, qui non c’è niente di più tragico della realtà.

Stiamo circumnavigando il sito e potremo guardarlo solo dal di fuori dei muri di recinzione. In realtà, ci sarebbe anche una visita guidata in pulmino, con tanto di autista, e un po’ si fatica a pensare a questo posto come a un parco domenicale per famiglie. «È interessante, però. Ci sono le giornate per le famiglie e le scuole, ti danno il camice e l’elmetto azzurro e spiegano quanto è importante l’acciaieria per la collettività, che prestigio regala alla patria operando sui mercati internazionali, quali ideali ci stanno dietro il lavoro di gestione

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di una fabbrica. Ci vanno le scuole medie, gli scout, i Rotary Club, perfino gli ordini religiosi.»

«Chissà se li portano fin qui» rispondo.

Alle spalle del muro sorgono, come il frutto maciullato di sventramenti facinorosi, i parchi minerali, vaste aree desertiche e sbancate dove vengono accumulate le materie prime, ferro, calcare e carbone soprattutto, dune nere che non si discostano dall’idea comune di paesaggio marziano.

L’approvvigionamento avviene attraverso il brulicare delle navi che si vedono arrivare in golfo arrancando, minuscole per la lontananza e appena galleggianti a filo d’acqua, giacché i piroscafi sono sommersi da pesi insopportabili. Mi arrampico e vedo un fitto percorso di nastri trasportatori che dalle banchine confluiscono all’interno dello stabilimento. Osservando così da vicino lo spettacolo che ai tempi di Amedeo gli intellettuali festeggiavano come futuro, come progresso, come collettiva scolarizzazione nel nome della sapienza tecnica, mi sembra di essere lo spettatore privilegiato di una monumentale macchina di Goldberg, quei meccanismi dinamici in cui decine di operazioni concepite in modo estremamente complesso, attraverso movimenti d’acqua, percorsi di biglie, lancio di frecce, giravolte, capriole e bracci meccanici verticali come caruggi, che innescano energie sempre attivate da vettori eccentrici e sproporzionati al cospetto del fine ultimo, e producono azioni finali di estrema banalità, come accendere un interruttore o suonare il tasto di un pianoforte.

L’intreccio di nastri convogliatori e torri di giunzione è quasi più impressionante dei cumuli di minerali vezzeggiati dal vento, e alcune autocisterne a gettito continuo d’acqua umidificano i giganteschi ammassi di ciottoli che sembrano catene montuose in miniatura, armoniose cordigliere erose secolarmente da agenti atmosferici che mai saranno addomesticate dall’uomo. Alcuni dumper robotici nelle sterzate e apparentemente indistruttibili, si arrampicano grazie agli artigliosi pneumatici e caricano pietrisco nerastro, poi sembrano puntare decisi verso gli altiforni. «È loppa» dice Amedeo. «Loppa cementifera. E non va agli altiforni, ma alle navi.»

Come ne sia a conoscenza, lo ignoro.

Confondersi, qui, è facile. È impossibile, mi pare, catturare l’intero moto coordinato di ciò che accade nello stabilimento. Il soccombere del corpo, o l’infortunio, sono accadimenti connaturati alla normale attività

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che scandisce il trascorrere del tempo, che sembra così metodico, organizzato e banale nella meccanicità coordinata di quello che senza apparente difficoltà succede e si ripete, che l’imprevisto sembra manifestarsi come necessità segreta, come scintilla di vita, come ripristino benefico del caos non soltanto fuori dai recinti.

Non riesco tuttavia a scrollarmi di dosso il fascino ammiccante del luogo, che comunque trasmette uno strano senso di eternità e riflette la magnificenza dell’intelletto umano, oltre che una furia tecnica e organizzativa senza limiti, ontologicamente legata all’ambizione, come se il passo successivo fosse la serena conclusione di un processo biologico, l’annichilimento di tutto ciò che qui è governato, che si tratti di carne, materia o robot.

In questo recinto l’uomo è davvero in grado di sottomettere la natura, eppure è evidentemente sottomesso a sua volta. E la prova arriva quando vedo passare un operaio avanzare placido sotto i cumuli che un attimo prima mi sembravano avanzi morti di litosfera, duri e ingovernabili. È un controllo reciproco, il padrone che ottiene il dominio, e che in quello stesso istante, in quel dominio si esaurisce interamente, devitalizzandosi in modo irreversibile.

La proporzione tra uomo e natura, in un’acciaieria, si stravolge sempre come in un gioco di maree, così come quella tra uomo e macchina.

Osservando le andature, o la serena attesa di molti degli uomini impiegati ci si stranisce. Io stesso avevo l’idea di un lavoro fisico genericamente più duro, e invece, in un certo senso è proprio l’automazione estrema, il fluire indipendente dei processi produttivi che paiono autoinnescarsi a testimoniare l’anima profonda di questo luogo, come ennesimo tributo a quello che sembra l’effetto finale, segreto, che non è quello più esteriore, la produzione, ma per l’appunto, è la devitalizzazione.

Avanzando verso la cokeria, che fa da anticamera agli altiforni, l’aria si fa più truce e calda, le sue celle sembrano forni crematori che sputeranno ghisa e ossido di carbonio, oppure un immenso carcere dalle cui celle è impossibile evadere, se non pietrificati, infrangibili, morti.

«Hai mai visto una colata?» mi chiede Amedeo.

«No» ammetto.

«Nemmeno io, ma da come me l’hanno descritta, mi sa che è l’unica cosa che mi può far vedere di nuovo. È il lavoro secolare di un vulcano ri-

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prodotto in miniatura, tenuto sotto controllo. La ghisa liquida finisce in contenitori che si chiamano carri-siluro, perché ci sta un’energia lì dentro… in grado di distruggere qualsiasi cosa… la colata fa una luce rossa maledetta… o benedetta, che so… è come stringere in mano un pezzo di sole. Millequattrocento gradi. Chi è che non si sentirebbe un dio a tenere in mano un pezzo di sole, eh?»

L’impressione del lager tuttavia non si scrolla di dosso nemmeno osservando gli zuccherosi cerchi concentrici e alternati bianchi e rossi che colorano i camini e le torri cilindriche, i cowpers che servono a riscaldare l’aria e a mandare nel forno un vento caldissimo, facendoli assomigliare a una vetrina di candy canes natalizi dalle forme diverse.

Decidiamo di spostarci, e il cammino è lungo. Non tutti i punti offrono visuali interessanti. Le due mastodontiche acciaierie, per esempio, sembrano innocenti capannoni di color rosso vinaccia, ma i mattoni esterni sono solo l’involucro refrattario del vero cuore pulsante di tutta l’area.

Da qualche anfratto aperto s’intravedono i ponti mobili che agganciano con le loro tenaglie giganteschi contenitori, mentre all’interno esplodono i rumori assordanti di spianatrici, bobinatrici, bozzatori e rompiscaglie, e da un treno slabbing entrano enormi lingotti da decine di tonnellate che poi saranno compressi e finiranno nei convertitori e nei laminatoi a caldo e a freddo, che dalla mia posizione non si vedono per niente, e da cui uscirà, finalmente, l’acciaio lavorato in nastri, tubi e lamiere.

«Si vede l’acciaio lavorato? È lucido? Brilla?» chiede Amedeo.

«Mi spiace Amedeo, non vedo niente di simile» rispondo.

«Guarda meglio. Voglio che me lo racconti, l’acciaio. Dimmi se ci si può specchiare.»

«Sarà ammassato vicino alle navi.»

Continuiamo la circumnavigazione.

Il ciclo produttivo non potrebbe essere completo senza l’estrazione del calcare dalla cava Mater Gratiae. La zona prende il nome da una piccola abbazia abbandonata, un vero e proprio luogo di culto antico che ha radici nella roccia scavata, un complesso rupestre che Amedeo ricorda bene. Come la chiesa doveva essere un tempo lo si capisce ancora, piccola ma capiente, con la sua forma rettangolare e il suo nartece essenziale e imbiancato, e l’unica, minuta navata che raddoppia al piano superiore, come due cubi incastonati insieme. È cadente ma il suo scheletro resiste,

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diviso com’è da un reticolato che divide il demanio pubblico dal terreno di proprietà dell’Ilva. Vetri, gomme vecchie e detriti sono dappertutto.

L’abbazia non è molto lontana dal bordo strada, benché l’accesso sia di fatto impraticabile. Durante il percorso l’odore di ammoniaca si aggiunge ai miasmi chimici, all’ossido di carbonio o a chissà cos’altro, e la nausea aumenta, diviene quasi insopportabile. Qualche scritta illeggibile, graffiti di vandali si aggiungono agli affreschi settecenteschi che non si vedono quasi più, e ciò che sembra incredibile è che la cappella, sebbene un rudere, una suppurazione non ancora debellata di un’altra era, viene ancora utilizzata dai fedeli, e un altare di fortuna, circondato da sdraio e sediacce di legno, è ancora venerato, così come un commovente Cristo rupestre del Seicento.

«La cappella faceva parte di una masseria, un tempo. Bellissima. Poi è stata inglobata nella proprietà dell’Italsider, quando era già morente, espropriata. Magari ci fosse stata casa mia qui! Mi sarebbe entrato in tasca qualcosa.»

L’enorme area della cava è un paesaggio lunare, la cui ampiezza è pari a circa mille campi di calcio posti uno di fianco all’altro. Grossi condotti che assomigliano, per il nitore lattiginoso in cui si confondono, a piste di quercia per slittino immerse nel paesaggio innevato, e i molti crateri in cui girano a zonzo i rimorchiatori e i tunnel sono inframezzati da fette di roccia levigate e acuminate, iceberg approdati finalmente a un posto sicuro dopo l’infinito vagare oceanico. Nelle zone più periferiche della cava sono stati scaricati, nel tempo, tutti i residui generati dalla produzione dell’acciaio e, più in generale, tutti i rifiuti prodotti dallo stabilimento.

Il risultato è un’enorme pattumiera pregna di scorie di lavorazione, pneumatici usati, legnami contaminati, quintali di segatura e, come se la compressione potesse dar vita a leghe infrangibili adatte anch’esse alla costruzione di muraglie o monumenti, tutto è stoccato in cumuli alti come cattedrali.

Ormai quasi non riesco a scendere giù dalla macchina. Ho il cuore in gola e respiro a fatica. Sembra di volteggiare, già morti, nel manto di fumo venefico che avvolge ogni cosa, e mentre in uno dei canali di servizio che costeggiamo in macchina nel nostro percorso che ci sta portando verso il mare, saltano all’occhio macchie oleose di bitume, il cianuro di un corso d’acqua sventurato destinato a ripulire le miriadi di evacuazioni e

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scoli e scaricamenti che gli vengono offerte, prima che sia la massa d’acqua marina, immensa e molto più efficiente come nascondiglio, a completare l’occultamento. È stupefacente come la natura, stuprata, contribuisca a limitare e nascondere le ondate di devitalizzazione imposte dall’area industriale. Sole e acqua e sapone ripuliscono e distruggono i microrganismi virulenti che infliggevano alle Coketown del passato carestie, epidemie e alti tassi di mortalità infantile. Ma nulla può, nemmeno attraverso il lavoro depurativo degli agenti atmosferici, contro le polveri pesanti, interpreti perfette dell’ideologia della violenza senza causa, imprevedibili nei loro effetti, mai dimostrabili con un’equazione ma feroci, letali nel lungo periodo, chirurgiche a infliggere sofferenze a chi le ha create, lavorate, accarezzate, liberate, sfruttate.

Amedeo è un superstite qui, e mi sembra che non lo sappia.

Eppure quando superiamo i bracci meccanici roteanti dell’impianto marittimo dove gli scaricatori a benna con le loro chele, e i nastri trasportatori saccheggiano e riempiono le navi come miopi alchimisti che sperimentano mescole in cerca della pietra filosofale, e invece maneggiano e rimestano solo ghisa, e ferro, e catrame, alla vista dei laminatoi e dei reparti di produzioni e nastri e di rivestimento tubi mi viene in mente il racconto di un ex compagno di liceo, mio questa volta, impiegato proprio nelle aree di lavorazione finale dei prodotti, che mi ha spiegato, una volta, la perizia con cui gli operai devono rapportarsi al prodotto finale, quello da vendere. I controlli a ultrasuoni sul prodotto, gli impianti a raggi laser di cui Giovanni mi raccontava la precisione computerizzata, l’attenzione spasmodica impiegata sulla verifica degli spessori delle smerigliature di cui si mostrava fiero, rilevando, con ragione, la meravigliose possibilità offerte dalla tecnica all’uomo e il suo grado di specializzazione, appaiono, se collegati a una prospettiva più omnicomprensiva, per quello che sono.

Strumenti, meri strumenti. Al servizio, però, soprattutto della merce. Nelle parole di Giovanni, quella volta avevo letto una sorta di resa definitiva: l’uomo stesso, l’individuo, che ammaina le vele dell’umanesimo per festeggiare il primato della sua opera. Forse il mio confronto incrociato tra perizia verso il prodotto preteso dall’azienda e il recalcitrante indugiare, i comprovati tentennamenti nel dotare gli impianti delle più efficienti normative di sicurezza, potrà apparire incongruo. Ma di certo è indicativo di

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un fine esplicito, di una Weltanschauung ormai consolidata, il primato assoluto della merce, che tuttavia è a sua volta una maschera, un depistaggio o una simulazione, perché la merce ha un’anima occulta, seminascosta nella materia che la compone, e quell’anima è il denaro.

Mi rivolgo ad Amedeo, con un po’ di rabbia.

«Vedo l’acciaio fragrante, appena sfornato, Amedè. Vuoi sapere com’è fatto?» dico.

«Sì. Ma poi ce ne torniamo. Sono stanco. E mi fa male lo stomaco.»

«Pure a te?»

«Sì.» «È una meraviglia. Brilla come il mare calmo. Riflette il paesaggio come uno specchio, ma gli alberi sembrano più verdi, la terra più umida, i volti più giovani, senza rughe, e il cielo più celeste, senza nubi. Assorbe calore e lo rilascia, protegge dal freddo, come il sole. È perfetto.»

Amedeo accenna un sorriso, forse di scherno.

«E poi» dice «tutto qui? Non taglia, non ferisce?»

«E perché dovrebbe. Ti farebbe piacere?»

«No, ma le ferite le riesco a immaginare. Bracci meccanici, camini colorati, acque oleose e cancro, no.»

Un murales beffardo sancisce il nostro congedarci, proprio quando le banchine dell’acciaieria si confondono con i serbatoi della raffineria Eni, lucidi come meringhe, e ai condotti ferrosi della Cementir, altro coagulo tetro che la modernità, a Taranto, sfoggia come un anello di fidanzamento. benvenuti in paradiso, si legge, e la mia anima si spezza in due.

Il viaggio di ritorno è silenzioso.

Siamo entrambi provati, il respiro fatica a tornare regolare. Nel petto sento una lama far pressione sullo stomaco e sui polmoni, e ho voglia di sputare. Amedeo forse si è addormentato dietro gli occhialoni, di certo il suo respiro è tenue come il mio, e nemmeno si sente. Lo accompagno in casa e ci stringiamo la mano. Con poche parole ci ringraziamo a vicenda, più per galantomia che per un moto autentico. Uscendo, trovo sulla soglia, più o meno integro, un giornale cittadino di quelli gratuiti che si distribuiscono sugli autobus, e con un gesto meccanico lo faccio mio.

Amedeo non se ne accorge. Sono stato impercettibile e naturalmente non può avermi visto, e durante l’appropriazione mi chiedo banalmente cosa l’abbia raccolto a fare. Ci penso un attimo, vorrei chiedergli se posso dar-

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gli un’occhiata, ma la mia mente elabora due o tre formule interrogative e tutte mi paiono offensive verso la sua cecità. Coscienza ipertrofica, una vera maledizione. Ma è solo un foglio, e decido di portarlo con me. Tecnicamente, lo rubo. È vecchio di qualche giorno, e al centro un articolo di cronaca riporta la dichiarazione di una donna tarantina che ha fatto il giro dei media nazionali. meglio morire di cancro, che di fame

La dichiarazione è vera, quella che leggo è solo una notizia ripresa da un’intervista televisiva.

La rabbia mi sale ancora, sempre più feroce.

Può sembrare una verità scomoda, una frase disperata detta da una persona realmente implicata nei fatti, la sorteggiata dalla cupa, tardiva e altrettanto violenta ragione salutista, il campione della minoranza di famiglie che con i sigilli sull’acciaieria piomberebbe nella miseria. Un pensiero laconico e crudo come una ferita di guerra. Colpisce il restringimento della prospettiva, l’aut aut. Come se la fabbrica fosse lì da sempre, come se per l’uomo non vi fossero alternative oltre il veleno o la fame, tra vita e ragione economica, come se in gioco non vi fosse dell’altro oltre la ferocia di interessi privati. Convinzioni tradotte in linguaggio violento, difensivo.

Non il lamento dell’oppresso, ma la minaccia dell’oppressore.

Leggo la frase ad Amedeo, non so con quale preciso intento.

L’ultima provocazione, un banale bisogno di condivisione, l’ultimo adescamento prima di quello che con ogni probabilità sarà, per noi, un addio.

Ripeto la frase, in tono pomposo. «“Meglio morire di cancro che di fame.” Lo dice una donna, la moglie di un operaio licenziato.»

Amedeo era distratto. Poi con l’udito potenziato, recupera l’eco delle mie parole.

«Dove? Qui da noi? In Italia? A Taranto?»

«Sì.»

«E qui di fame non è morto mai nessuno.»

Mi allontano, raggiungo la macchina.

L’odore di melma è scomparso, almeno per me. Sento più che altro

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quello del grano selvatico e della terra umida. Tra un appostamento e l’altro s’è fatta sera, e il tramonto scompare sul mare, eclissando, nonostante tutto, qualsiasi altra percezione. È solo un frangente, che il tempo né il presente governano più. Eppure è meraviglia in fieri, che farà da antidoto, ne sono certo, a tutta l’aria maledetta che ho ingerito. Sono felice, nonostante il cielo si vada placidamente rabbuiando. Torno verso casa, lasciandomi alle spalle un vortice truce di nubi sanguigne.