Numero 12

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EDITORIALE

Cari amici del calcio d'Oltremanica, Un numero davvero particolare della nostra fanzine questo mese. Tante storie di grande calcio britannico, abbiamo voluto scegliere il massimo per poter immergervi nel modo giusto in un altro viaggio nella memoria. Inizieremo dal Turf Moor, la casa del Burnley e delle sue imprese. Proseguiremo per Leeds, Don Revie, Bremner, John Giles. Serve altro? Fino ad arrivare alla premier del 1992 con Cantona trascinatore. Tutte le tappe piu’ importanti della storia del “Maledetto”. E poi davvero una chicca speciale, una semifinale cittadina nientemeno che di FA Cup, nel palcoscenico di Wembley, dove nel 1993 la città di Sheffield si spostò in massa per seguire il match fra biancorossi dello United e bianco azzurri del Wednesday, con un protagonista tanto bizzarro quanto romantico, Alan Cork. Anche lo stadio preso in esame questo mese non ha bisogno di presentazioni: rivivremo in foto l’ultimo giorno di Highbury, il leggendario impianto di Avenell Road a Londra, dove non basterebbero due libri per raccontare quanti Gunners siano passati di qui ad emozionarsi e a guardare verso l’alto quella scritta “ARSENAL STADIUM”. Chiuderemo poi con un viaggio a Luton, nello stadio della squadra locale, e con un libro dedicato agli hooligans del Chelsea. Insomma, anche questa volta, ce n’è per tutti i gusti!

Buona lettura

BritishStyle

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INDICE

p. 4 p. 9 p. 14 p. 20 p. 25 p. 20 -

GLI ANNI DEL TURF MOOR LE ROSE BIANCHE DI LEEDS IL GIORNO DI SHEFFIELD STADI: HIGHBURY VIAGGI NELLE ISOLE BRITANNICHE: LUTON EXPERIENCE LIBRI: CHELSEA HEADHUNTERS

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GLI ANNI DEL TURF MOOR Al termine del secondo conflitto mondiale, Brian Miller aveva appena otto anni e viveva a Burnley. In quell’Inghilterra industriale del nord che l’aviazione tedesca aveva sorvolato e colpito più di una volta nelle sue incursioni aeree. E così fra muri anneriti, fra simulacri di fabbriche sventrate, e palazzine adattate a rifugio antiaereo di fortuna, ogni giorno, Brian, accompagnato dai suoi genitori se ne andava per empori e panifici a comprarsi il fabbisogno quotidiano. Ma non potevano comprare tutto quello che volevano. Non tanto per mancanza di soldi. C’erano delle regole da rispettare. Esisteva, infatti, un libretto apposito chiamato “ration book” (libretto per le razioni) dove vi era riportato il limite dei viveri che potevano acquistare: 500 gr di burro, 500 gr di zucchero, tè, ma niente frutta e dolci. Le uova che vendevano nei negozi non erano fresche, solo chi aveva la fortuna di abitare in campagna vicino a una fattoria poteva comprarsele buone “di giornata”. Ma alla fine anche chi possedeva una fattoria, non era poi così fortunato in quel momento, perché se comunque si produceva cibo da solo, aveva l’obbligo di darne il 10% allo stato. All’inizio della guerra tutti si dovevano vestire di nero, e avevano orari precisi per uscire di casa. Quando poi i raid aerei cessarono, il vincolo fu abolito, fermo restando l’unico obbligo di non vestirsi di bianco… Una volta a Burnley bombardarono anche un parco, lo Scott Park in pieno centro cittadino, dove Brian ogni tanto andava a giocare e passeggiare. Da lì, quando non c’era troppa nebbia, e con una buona vista, si potevano intravedere in lontananza le tribune del Turf Moor, lassù a nord-est, oltre il canale che confluisce nel Brun. Quello era il sogno di Brian e di tanti altri ragazzini come lui. Giocare con la maglia dei “Clarets”. E lui, alla fine ce la fece. Dopo essere stato assunto nelle giovanili del Burnley e aver trovato lavoro come fattorino per mantenersi, esordì in prima squadra nel 1956 in un incontro di FA Cup contro il Chelsea. Era un ragazzone forte e robusto dalla faccia gentile e giocava come difensore di fascia. Dedicò oltre quattro decenni della sua vita a questo club. Quando nel 1960 il Burnley diventò campione d’Inghilterra, Miller giocò ogni partita di quella stagione, coppa compresa. Nel 1967 in seguito a un brutto infortunio, dal quale non riuscì mai più a riprendersi, divenne membro dello staff tecnico, coronando la sua carriera da dirigente nel 1979 quando la società lo invitò ad assumere la guida della squadra, subentrando al grande e indimenticato Harry Potts. Quello della fine degli anni settanta non era un momento felice per il club del Lancashire. Dopo una serie di alti e bassi, una retrocessione, una promozione, una Wembley sfumata nel 1974, un'altra retrocessione, la fine dell’esperienza di Jimmy Adamson e quella non fortunata di Joe Brown, era tornato in panchina Potts, lo stratega della vittoria del 1960. Due stagioni e poi il testimone a Miller, che però 4


scivola malamente in terza divisione dopo un campionato a dir poco disastroso dove il Burnley non fu capace di vincere nemmeno una delle 42 partite in programma. Ostinatamente, e graziato dalla dirigenza, Miller riportò subito il club fra i cadetti, ma si trattò di un fuoco di paglia perché addirittura, nel 1985 dopo che Brian aveva lasciato a John Bond, i “clarets” finirono in quarta divisione. Un anno a ridosso del precipizio dei dilettanti, poi la ripresa, lenta, quasi impercettibile, che consentì al Burnley di raggiungere un piccolo record detenuto solo da Preston North End e Wolverhampton Wanderers, ovvero quello di vincere un campionato per ogni divisione professionistica. Si, perché come detto in precedenza, ci sono anche lampi di gloria vera dalle parti di Turf Moor, e qualche nome che abbiamo già menzionato ne fu parte integrante e decisiva. E allora, intanto, è giusto fare un salto temporale, perché stiamo correndo troppo e in maniera confusa, bisogna andare con ordine e tornare al 1882. L’embrione della genesi è di stampo rugbistico e le divise non avevano i colori attuali. Infatti nella prima partita ufficiale nell’ottobre del 1882, allorché il neonato club fu sconfitto 8-0 dall’Astley Bridge nella coppa della contea, le maglie presentavano una tonalità biancoblu. Solo nel 1911, per spirito d’emulazione nei confronti della squadra del momento, cioè l’AstonVilla, i colori mutarono in quelli simili al team di Birmingham. A questo punto i ricorsi storici non mancano. Bisogna annoverare un Nickname, anzi tre. “Turfites”,” Moorites” e “Royalites”. Ora, se i primi due sono facilmente riconducibili al nome dello stadio che sin dal 1883 vede, ammonisce, e benedice le gesta della squadra, il terzo è dovuto al destino che in due occasioni ha visto il Burnley associato a grandi nomi della famiglia reale. Nell’ottobre del 1886 il principe Alberto che si trovava in città per l’inaugurazione di un ospedale si recò in visita al Turf Moor, diventando così il primo reale a visitare uno stadio professionistico inglese. In seguito nel 1914 quando il Burnley conquistò la sua prima e finora unica Coppa d’Inghilterra, il trofeo fu consegnato al capitano da Re Giorgio V in persona, in questo caso si trattò del primo Re che premiava i vincitori della celebre competizione. Sette anni dopo, finite le ostilità della grande guerra, dove molti figli di Burnley restarono per sempre nel vento dei campi francesi, manager John Haworth regalò alla città del cotone la prima vittoria nel campionato inglese, nonostante un avvio da brividi con tre sconfitte nelle prime tre partite. Poi la striscia di 30 incontri senza mai perdere, un primato battuto solo in tempi recenti dall’Arsenal di Wenger. Era il Burnley del buon capitano Tommy Boyle, del portiere Jerry Dawson dallo sguardo pensieroso, del bomber scozzese Joe Anderson che le foto d’epoca ritraggono come uno scolaretto grassottello e indolente, ma che evidentemente in campo si faceva sentire, e se la cavava anche molto bene se si considera che in quell’anno mise a segno in totale ben 31 centri. Le stagioni da ricordare da lì in avanti non saranno molte, anzi a dire la verità nell’attesa dell’altro anno di grazia, quello del 1960, bisogna sforzarsi per trovare qualcosa di buono dalle parti di Turf Moor. Di delusioni invece se ne trovano. La retrocessione del 1930 per esempio, che la bella semifinale di FA Cup del 1935 non riuscì 5


chiaramente a compensare. Alla ripresa delle attività agonistiche nel 1946 sembrò che il Burnley potesse tornare a vecchi splendori. Una finale di coppa persa 1-0 contro il Charlton a Wembley, un onorevole terzo posto nel 1948, e l’innesto nella squadra degli anni cinquanta di quei giocatori chiave che porteranno al trionfo del campionato targato 1959/60. Stiamo parlando di Jimmy Adamson e Jimmy McIlroy. Jimmy Adamson all’anagrafe James, era di Ashington. Le orecchie a sventola, un naso più da pugile che da calciatore, e sorriso da caricatura disegnato sul volto. Durante la sua carriera, dal 1947 al 1964, ha giocato solo con il Burnley, collezionando 426 presenze e segnando 17 reti. Fu ingaggiato nel gennaio 1947 dopo aver militato nella squadra della sua città e aver assaggiato carbone nelle miniere. Lo scoppio della seconda guerra mondiale frenò la sua carriera sportiva, che venne interrotta come a molti altri della sua generazione dal servizio militare, svolto nel suo caso nella Royal Air Force, che rimandò il suo debutto in campo al Febbraio 1951, quando entrò nella partita in trasferta tra il Burnley e il Bolton Wanderers. Non fu mai convocato in nazionale, dovette accontentarsi solo di alcune partite nella rappresentativa inglese B. Ma la sua ragione d’essere, fu quella di indossare la fascia da capitano della squadra nell’anno della vittoria del 1960, mantenendola fino al 1962 quando il Burnley raggiunse la finale della FA Cup, persa contro il Tottenham Hotspur. In quell'anno arrivò anche la nomina di calciatore dell'anno. Adamson formava una coppia a centrocampo con Jimmy McIlroy, sulla quale era centrato molto del gioco creativo del Burnley. McIlroy invece era un irlandese del nord, nato nei pressi di Lisburn, dove il fiume Lagan trafigge, col suo corso, il distretto della cittadina, tagliandola in due dopo aver attraversato un paesaggio favoloso fatto di colli, campi coltivati e borghi contadini. Il tutto nel cuore della Lagan Valley, dove la cittadina di Lisburn si immerge nella natura senza disturbarla, assorbendo i ritmi lenti e piacevoli della campagna. Inizierà la carriera nel Glentoran a Belfast, poi nel 1950 a 19 anni, Frank Hill, lo porta al Burnley e lo fa esordire contro il Sunderland al Roker Park nell’ottobre di quell’anno. Assomiglia un po’ a uno di quei saltimbanchi di strada che trovi nelle vie delle grandi città e che provano a intrattenere i passanti con qualche numero di magia, insieme all’immancabile cagnolino al loro fianco. Stupisce che a distanza di anni riguardando le sue foto, sia certamente invecchiato, e i capelli diventati bianchi come la neve, ma non abbia assolutamente perso quella briosità e allegria che lo hanno sempre contraddistinto nella sua vita. In dodici anni ai “Clarets” segna qualcosa come 112 reti. Quando nel 1963 fu venduto allo Stoke City molti tifosi ci restarono male, anzi malissimo, non tanto per essersi sentiti traditi dal giocatore che tanto gli aveva dato, ma semplicemente perché vennero a sapere del trasferimento solo attraverso le pagine di un giornale. In ogni caso il Burnley che vinse il campionato del 1959/60 resta la squadra iconica di questo lembo d’Inghilterra. I semi del successo furono piantati su un humus di squadra già fertile in un freddo gennaio del 1958 quando a Turf Moor arrivò Harry Potts. Uno che aveva prestato servizio nella RAF in India, e che giocò per il Burnley per qualche anno, prima di intraprendervi la carriera di allenatore nel 1958 in sostituzione di Billy Dougall. Appena una stagione e siamo finalmente a quel fatidico 1960. C'e da dire, che forse una delle cose peggiori della vita, è il non sapere quando è l’ultima volta di qualcosa, o quando 6


qualcosa che ci entusiasma si avvicina alla fine. Non abbiamo mai saputo al momento giusto che quello era l’ultimo romanzo di un certo scrittore, o quello l’ultimo film di un certo regista. Troppo spesso quel che è l’ultimo risulta esserlo senza che possiamo prevederlo, e arrivati alla fine abbiamo la sensazione che quel che è stato non sia sufficiente, e di non aver sfruttato a dovere le giuste occasioni successive, se avessimo saputo che non ci sarebbe stata un altra volta... In aspetto strettamente calcistico il fatto che Il Burnley nel 1960 sia diventato campione, sa tanto di canto del cigno, di un club che se avesse voglia di tornare a sedersi sul trono d’Inghilterra dovrebbe di soppiatto entrare sotto le imponenti arcate di Westminster e implorare gli inservienti. Anche se a onore del vero due anni dopo la vittoria del 1960 arrivarono secondi a tre punti dal sorprendente Ipswich Town. Ma torniamo a quel campionato, che prese il via il 22 agosto 1959. Il Burnley non andò mai in testa alla classifica in quel campionato. Come no, direte voi, come diamine ha fatto poi a vincere. In realtà la squadra di Poots il primato solitario in testa al torneo lo raggiunse, ma solo all’ultima giornata, a Manchester contro il City, al Maine Raod, in un atmosfera carica d’adrenalina. La prima squadra ad uscire dal gruppo fu il Blackburn, gli odiati vicini di casa, che mantenne il primato solitario fino alla settima giornata, quando fu superato dal Tottenham, dal Wolverhampton e dallo stesso Burnley.

Furono gli Spurs comunque a staccarsi in maniera importante e a condurre la classifica nelle giornate successive, tallonati dal Wolverhampton e dal West Ham e dal Preston. Queste ultime due squadre però sorpassarono il Tottenham alla diciassettesima giornata e condussero a braccetto fino al diciannovesimo turno, quando il Preston prese solitario la vetta, terminando il girone di andata in testa con un punto di vantaggio sul Tottenham. Alla prima giornata del girone di ritorno gli Spurs riprendono il comando della classifica allungando su un Preston in vistoso calo, mentre si candidò come rivale dei londinesi proprio il Burnley, secondo dalla ventiseiesima giornata con tre punti di ritardo sulla capolista. Il distacco rimase invariato alla trentesima giornata, quando il Burnley cedette il posto al Wolverhampton nel ruolo di rivale del Tottenham. Alla trentaseisima giornata il Wolverhampton raggiunse il Tottenham per poi staccarlo al quarantesimo turno. I Wolves conclusero il campionato al primo posto, ma furono superati dal Burnley, che, vincendo il recupero del match contro il Manchester City, si issarono in testa alla classifica vincendo il loro secondo agognato titolo con un solo punto di vantaggio, 55 contro i 54 dei 7


rivali. Non possiamo esimerci dallo sfuggire dalle partite del “pathos” e del successo, contro le diretti concorrenti. Come ad esempio quella giocata in casa il 7 novembre 1959, quando un ispiratissimo e brillante Jimmy McIlroy, dispensò idee, rese concrete dai goal di Ray Pointer detto “Bombshell Blonde”, uno capace di sostenere una media da un goal ogni due partite, e John Connelly un altro che dava del “tu” alla porta avversaria e che probabilmente se non avesse speso troppo tempo a pettinarsi i capelli avrebbe anche segnato qualche rete in più. Quando arrivo al Burnley stava facendo l’apprendista falegname e aveva 18 anni. Nel 1964 per 56000 sterline si accasò a Old Trafford, e dal Manchester United arrivò nella nazionale campione del mondo di due anni dopo. Quel Burnley era un gruppo che meritò davvero di vincere il titolo. Lo dimostrò anche il 1 marzo con un'altra diretta pretendente, il Tottenham Hotspurs. Il Burnley si impose per 2-0 con due reti nella ripresa. Parole e musica del solito John Connelly. L’ultima giornata è però quella che è passata alla storia. E’ il 2 maggio 1960. Una folla di 65981 persone si accalcò sugli spalti. Fuori dai cancelli, anche un nutrito gruppo di sostenitori dei Wolves accorsi per tifare i citizens. Un lunedì di speranza e di paure. Sarà il giorno di Trevor Meredith e Brian Pilkington. Fu un inizio nervoso da parte di entrambe le squadre, non facilitato nemmeno nel controllo della palla, dalla difficoltà di indirizzare un passaggio preciso, a causa di un campo gibboso e con poca erba. Durante la mattinata era stato innaffiato ma evidentemente non in quantità sufficiente per garantire una morbidezza soddisfacente. Tuttavia il Burnley va in vantaggio subito. Dopo appena quattro minuti, Jimmy Robson serve il “tozzo” ma velocissimo Brian Pilkington che batte Trautmann. Il City non ci sta e perviene al pareggio con Harvey che non da scampo a Adam Blacklaw, il portiere che dopo aver vissuto per anni all’ombra di Colin McDonald aveva trovato posto da titolare proprio in questa stagione. Ma il Burnley vuole, e deve tornare avanti, e così in seguito a un fallo pesante di Ewing su Pointer, guadagna un calcio di punizione. Lo batterà Tommy Cummings e la sua traiettoria va a scovare proprio il punto in cui si nascondeva quel piccolo opportunista di Trevor Meredith, nella mischia, in bilico, fra leggenda e oblio. Andrà a segno e quel goal regalò la vetta della classifica e la coppa di campione d’Inghilterra al Burnley. Quando smise di giocare Meredith si dedicò a fare l’insegnante in una scuola primaria a Preston e chissà se ai suoi allievi ha mai raccontato la storia di quella notte. Una notte dove i tifosi all’unisono si lamentarono delle luci troppo forti di Maine Road che impedivano di seguire a pieno le evoluzioni di quella palla bianca, e allora tutti gridarono spazientiti, e si decise così per la sostituzione della sfera. Oggi la strada adiacente al Turf Moor si chiama Harry Potts Way, una delle stand è dedicata a Jimmy McIlroy. Impossibile dimenticarli, impossibile dimenticare quel Burnley e il suo motto: "Pretiumque et causa laboris", Il premio è il risultato delle nostre fatiche.

SirSimon 8


LE ROSE BIANCHE DI LEEDS A Leeds l'inverno è talmente egocentrico, che ogni anno pretende di essere il più freddo di sempre. Scatena un vento pungente che ti sferza la faccia, duro, come le vocali strette degli inglesi del nord. Un inverno così lungo, che sembra nessuno si ricordi cosa c'era prima, a parte quella breve parentesi autunnale che piega gli alberi e riempe le strade di foglie morenti. Il sole? Una band d'apertura che si sgola qualche minuto e poi cede il passo al protagonista. A precipitazioni prive d'indulgenza che si abbattono al suolo tramando contro l'eroismo di piccoli fiori sbocciati nei giardini di Bramley, di Horsforth o di Roundhay. Ma, no. Non spaventiamo nessuno. Lo scenario non è così cupo. Anzi. La città brulica di vita e di attività, essendo uno dei centri finanziari più importanti dell'intero paese. Affollatissime le zone pedonali, piene di negozi, ristoranti, gallerie, pub che chiudono a tarda ora, e locali alla moda pieni di studenti in Erasmus. Su tutto si erge, lungo l’argine del suo canale anche l’imponente ed austero edificio della Royal Armouries. In ogni caso benvenuti a Leeds, la porta d'ingresso dello Yorkshire, dove le brughiere si alternano ai villaggi, in un coloratissimo patchwork di colture e vegetazioni diverse. Benvenuti nella città del Leeds United AFC. Ma non iniziamo subito ad associare questa squadra con quella che per circa un decennio, a cavallo fra gli anni 60 e 70, visse un autentico periodo da protagonista sia in Inghilterra sia in Europa, raccogliendo trofei importanti, ma anche beffarde sconfitte e conosciuta con il celebre sopranome di dirty Leeds. Si è vero, non erano una comitiva di santi, ma alla fine, nel calcio l'aggettivo “sporco” o “cattivo” potrebbe fare compagnia a molte altre squadre che si vantano di avere una fedina penale pulita e che invece di misfatti dentro e fuori il rettangolo verde ne hanno combinati diversi. Non ci distraiamo, torniamo alle origini allora. Fumi, rumori, abitazioni povere e umide. E' la Leeds del 1904. Quando all'anagrafe cittadina questo club aveva un nome diverso. Leeds City. Ma il sodalizio venne radiato dalla Federazione nel 1919 a causa di certi pagamenti illegali compiuti per l'acquisto di alcuni giocatori durante il periodo del primo conflitto mondiale. Tra i coinvolti anche il futuro tecnico dell'Arsenal Herbert Chapman che successivamente se la cavò grazie a un amnistia. Ma non si poteva restare senza calcio. E quasi subito si decise di formare un nuovo club che rappresentasse la città, ed ecco il Leeds United. Primi anni nella Midland Football League, un campionato di seconda fascia dove spesso giocavano le squadre giovanili delle formazioni della prima divisione. E fu proprio grazie al posto vacante lasciato dalla formazione riserve del Leeds City che la neonata formazione poté iscriversi al torneo. Nel 1920, la squadra venne riconosciuta a tutti gli effetti, acquisendo così il diritto di partecipare ai campionati nazionali. In quello stesso anno il club venne acquistato da Hilton Crowther, ricco proprietario di un lanificio nonché dell' Huddersfield Town, deluso dalla scarsa partecipazione del pubblico dei Terriers, e a quanto pare invece affascinato dalla grande passione della gente di Leeds. Non ci fu la fusione tanto temuta dai tifosi di Huddersfield. Alla fine le due compagini rimasero ben distinte e Crowther si dedicò esclusivamente allo United. L'esordio ufficiale avviene in seconda divisione il 28 agosto 1920 contro il Port Vale, terminato con una sconfitta per 2-0, ma quello che più contava in questo caso non era il risultato ma il ritorno all'attività 9


sportiva per i bianchi del West Yorkshire, che nell'anno di grazia 1923/24 faranno la loro prima apparizione nel massimo campionato. Ho volutamente commesso un errore cromatico. Quel Leeds non giocava in bianco. Fino al 1934 le divise presentavano un disegno a strisce verticali bianco blu. Richiamo voluto al momento dell' aquisizione della squadra da Crowther nel tentativo poi andato a vuoto di unire le due società. Nel settembre del 1934, arrivò l'adozione di una maglia blu e oro simile all'emblema cittadino, e il nick name di "The Peacocks". Intanto due anni prima nel 1932 nello storico impianto di Elland Road l'attesa per la gara con l'Arsenal fu talmente febbrile e coinvolgente che quattro ore prima il pubblico era già al suo posto ad aspettare il fischio d'inizio. Era il 27 dicembre, e sotto le tribune gocciolanti ai piedi di Beeston Hill, ci sono 56796 cappotti e probabilmente altrettanti berretti. Il loro record d'affluenza resisterà per 35 anni. Gli anni seguenti la seconda guerra mondiale si fanno luce giocatori come Willie Edwards, Ernie Hart, e Wilf Copping, con quest'ultimo che si prende anche la soddifazione di vestire la maglia della nazionale inglese. La storia a alti e bassi del Leeds non conosce soste, nel 1947 ecco l'ultimo posto in campionato e la conseguente retrocessione. Ma il sorriso dalle parti di Elland Road non tarda a tornare. Al timone della squadra in quegli anni c'è Frank Buckley. Anzi a dirla esattamente il Maggiore Frank Buckley. Nasce a Urmston nel Lancashire nel 1882. Calciatore e soldato, farà della disciplina e del rigore morale la sua filosofia preferita. Ma lo sguardo burbero non riesce nascondere una malcelata gentilezza che lo renderà benvoluto e rispettato da tutti. Nel 1948 scova un colosso gallese dalla fisicità dirompente e dall'aspetto bonario. Si chiama John Charles e gioca nello Swansea. Nel gennaio del 1949 firmerà il suo primo contratto da professionista con il Leeds United. Centromediano dinamico e sicuro, travolgente negli inserimenti offensivi con un colpo di testa a dir poco strepitoso, ben presto si guadagnerà l'appellativo di “King John”. Un idolo assoluto che nella stagione 1953/54 vincerà il titolo di capocannoniere con l'invidiabile bottino di 42 reti. Ciò nonostante la squadra non toccherà i vertici della classifica, a differenza degli anni successivi che vedranno il club tornare prepotentemente in prima divisione. E' il 1956, ancora con Charles, che questa volta metterà la sua sigla su 30 centri. Il gigante gallese non risentirà nemmeno la differenza del salto di categoria. Nel torneo seguente infatti le reti saranno 38. Ma quel campionato sarà segnato da un episodio che la storia del Leeds e di Leeds non potrà mai dimenticare. L'incendio di Elland Road del 18 settembre 1956. L'odore acre del fumo avvolge l'intera cittadina, le fiamme iniziano a divorare la West End, per poi spargersi ovunque. Ingoieranno palloni, divise, trofei, le attrezzature, gli spogliatoi, le stanze degli amministratori, l'ufficio stampa e i generatori per il sistema di illuminazione. Alla fine tutto era un enorme ammasso di macerie fumanti. Il fuoco sembrò portarsi via non solo lo stadio ma anche il futuro stesso del Leeds United. Ma qui abita gente orgogliosa, tenace. Nessuno vuole abbandonare Elland Road. Nessuno vuole lasciare la casa in cui questo club è cresciuto. Pochi giorni dopo l'incendio, in uno scenario quasi post bellico, gruppi di spettatori si sistemeranno alla meglio fra i resti 10


contorti e anneriti dello stadio per assistere al match contro l'Aston Villa e al goal vincente del solito Charles. Ma adesso bisogna rimboccarsi le maniche, e tirare fuori qualche sterlina per la ricostruzione. “Qualche” non è il termine esatto, ne serviranno 130000. Un impegno economico che fra qualche lacrima di disappunto, non può prescindere dalla cessione del calciatore di spicco del club. John Charles si accaserà in Italia alla Juventus per 65000 sterline. A Torino con la coppia Sivori, Boniperti, darà vita a un ciclo leggendario per i bianconeri. A Leeds il contraccolpo è forte. Nel 1960 la squadra retrocede ancora in seconda divisione. Il vuoto della partenza di John Charles viene colmato con l'arrivo di Donald George Revie. Uno nato a Middlesrough e che a 14 anni ha già lasciato la scuola per giocare a calcio. Alle spalle una discreta carriera con Leicester City, Hull City, Manchester City, Sunderland, prima di arrivare nello West Yorkshire come giocatore nel 1958. In campo è incisivo e preciso, e dotato di una buona visione di gioco. Come uomo assomiglia più a un commissario di Scotland Yard, basette lunghe, capello ondulato, e una faccia rotonda con un mezzo sorriso accennato, che prima ti legge dentro e poi chiude il tuo file in un cassetto della memoria. Forse insieme a quello di qualche arbitro e dirigente della federazione. Preparazione maniacale o tentativi di corrompere l'avversario? Ad ogni modo la carriera di manager di Don Revie a Elland Road parte nel 1961. Vuoi per emulare il grande Real Madrid dell'epoca vuoi per un voto di scaramanzia in seguito a una salvezza rocambolesca, il nuovo tecnico decide di modificare i colori ufficiali del club. Si passerà a un completo totalmente bianco, dove negli anni a venire campeggeranno, gufi, acronimi l.u.afc, rose, fino all'attuale crest moderno. Don Revie, aprirà un epoca. Come successo in altri casi, dove una squadra aveva vinto poco o niente nel suo passato, non appena nel 1964 fa ritorno nella massima serie, riesce a mettere in fila una serie inaspettata di risultati. Non si tratta di poche brillanti stagioni, non una meteora passeggera, ma di ben due lustri nei quali fu recitato sempre un ruolo da protagonista. Dopo aver raggiunto il secondo posto nei primi due campionati e una finale dell’ allora Coppa delle Fiere, nella stagione 67/68 ci fu la conquista della Coppa di Lega e la stagione successiva il tanto sospirato titolo di Campione d’ Inghilterra, con 67 punti. A sei punti il Liverpool, a 10 l'Everton terzo classificato. Maggior numero di vittorie, minor numero di sconfitte. In ogni competizione il Leeds riusciva ad arrivare quasi sempre a contendere il titolo all’ avversario di turno. Ma paradossalmente questa tenacia nel voler conseguire ogni traguardo impedì alla squadra di Revie di vincere ancora di più. Spesso la squadra arrivava alle partite decisive letteralmente spremuta, così si spiegano le numerose e talvolta inaspettate sconfitte. Venne conquistata l’ unica FA Cup della propria storia nel 1972 ma contornata da tre finali perse e non sempre contro avversari di livello, due Coppe delle Fiere nel 68 e 71, la finale della Coppa delle Coppe persa in maniera quantomeno sfortunata contro il Milan, e una serie infinita di piazzamenti, nelle zone di prestigio del campionato. L' ultimo acuto fu la conquista del secondo titolo inglese nel 73/74. La chiamata della nazionale chiude anticipatamente l’era Don Revie, e il nuovo ciclo affidato all’ emergente ed ex-nemico Brian Clough proveniente dal Derby County che però termina mestamente dopo appena 44 giorni con un flop clamoroso. Nel mezzo la rissa di Wembley fra il capitano storico Billy Bremner e Kevin Keegan del Liverpool. Una squadra che annoverava nomi quali, John Charles, Jack Charlton, il regista John Giles, Peter Lorimer, Norman Hunter; ed era etichettata come rude, sleale, esibendo tali doti agonistiche in campo tanto da essere etichettata dagli avversari a torto o a ragione come il Dirty Leeds. 11


Raggiungerà in ogni caso la finale di Coppa dei Campioni a Parigi guidata in panchina da Jimmy Armfield, ma il Bayern Monaco si imporrà per due reti a zero. Cominciano gli anni bui caratterizzati dal ritorno in seconda divisione. Agli inizi degli anni 90, dopo essere tornata nella massima serie, arrivò un inaspettato titolo grazie soprattutto all’ innesto del talento di Eric Cantona. Cantona è un marsigliese, istrionico, e ruvido. Nel gennaio 1992, andò in Inghilterra per effettuare un provino con lo Sheffield Wednesday, allenato da Trevor Francis. Gli venne offerto un secondo provino, ma ciò provocò il risentimento del giocatore, che si ritenne offeso e decise di firmare per il Leeds United, diventando una colonna della squadra che vinse il titolo nel 1992 sotto la guida saggia di Howard Wilkinson. L'avvio del torneo, iniziato il 17 agosto 1991, fu favorevole al Manchester City che vinse le prime tre partite. Alla giornata successiva i rivali cittadini del Manchester United presero il via libera e tentarono la fuga, tallonati dal Chelsea, dal Liverpool, e infine dal Leeds, che al tredicesimo turno prese il comando solitario della classifica. Nelle successive cinque giornate si alterarono al comando della classifica il Leeds, e i Red Devils, che al termine del girone di andata erano con due punti di vantaggio sui rivali. Il testa a testa tra le due squadre continuò anche all'inizio del girone di ritorno e sembrò arrivare ad un punto di svolta quando, alla ventottesima giornata, il Manchester United si portò a +4 sul Leeds. A partire dalla trentesima giornata il Leeds recuperò lo svantaggio sui Red Devils conquistando la vetta dopo due giornate. Al trentacinquesimo turno il Manchester United riprese il comando solitario della classifica, ma dopo quattro giornate i bianchi conquistarono definitivamente la vetta del campionato, assicurandosi la vittoria con una giornata di anticipo e concludendo con quattro lunghezze di vantaggio sugli uomini di Ferguson. Non solo Cantona, quella era la squadra del portiere John Lukic, del terzino Tony Dorigo e dei suoi ricci sempre perfetti, della grinta dell'Irlandese Gary Kelly, del povero Gary Speed e delle sue scorribande, dell'esperienza di Gordon Strachan, dello scozzese Mc Allister, delle due punte, Lee Champan, (inglese barcollante ma puntuale sotto porta), e del velocissimo colored Rod Wallace. Eric Cantona se ne andrà da Leeds nel gennaio del 1992. Troppo acute le sirene dorate del Manchester United. All'Old Trafford arrivarono reti e successi e anche un episodio negativo. Troppo brutto per essere vero. E allora cancellate il 25 gennaio 1995, scordatevi il Selhurst Park di Londra, togliete dalla storia Crystal Palace-Manchester United. Eric Cantona forse finì il suo ciclo nel sud della capitale inglese. Era il simbolo del Manchester, fu espulso per un fallo su Richard Shaw. Protestò con l’arbitro, poi se ne andò. Nervoso, verso gli spogliatoi. L’urlo dagli spalti, l’insulto. Lui parte: un colpo di kung-fu con entrambi i piedi, i tacchetti di ferro sul petto di Matthew Simmons. Uno che non doveva esserci quel giorno allo stadio: non tifava Crystal Palace, ma Fulham. Era un ex carcerato, ex affiliato a un movimento di estrema destra. Un violento. Il grido: “Fottuto francese di merda e deficiente”. Assalto. Vergogna. Tutti scatenati contro il calciatore pazzo: “Cantona deve essere cacciato per sempre dagli stadi di calcio”. “E’ indifendibile”. Eric oggi non si difenderebbe neanche da solo. Sarebbe forse il primo a fare il parallelo, a raccontare con voce impostata la solita parabola del campione che gioca con la vita. Matto, sregolato, cattivo, sbagliato. Quelli su cui è sempre bello e facile sparare: se le cercano. “Non è un vero attore, non può fingere, non è un cialtrone”. Né calciatore, né attore. Eric, punto. Come se fosse un’entità, uno spirito trasversale, un artista completo. Gira con la sua Laika a pellicola. Fotografa il mondo per sapere dove vive, ritrae la gente per capire chi è: “Scatto in bianco e nero, perché il bianco e nero, per me, rappresentano la vita e la morte”. Bianco e nero. Come la continua altalena del club di Leeds. George Graham sostituì Wilkinson sulla panchina; il suo arrivo fu 12


causa di diverse controversie da parte della stampa e dei tifosi. Graham alle spalle aveva subìto una lunga squalifica da parte della Federazione, per via di alcuni pagamenti illegali versati ad alcuni agenti di giocatori. Ad ogni modo il nuovo allenatore mise a segno alcuni astuti acquisti, grazie ai quali il Leeds riuscì a qualificarsi per la Coppa UEFA. Nell'ottobre del 1998, Graham lasciò i Whites ed al suo posto venne ingaggiato l'ex gunners David O'Leary come direttore tecnico, coadiuvato da Eddie Gray. Grazie a questa coppia e alla sua politica di rinnovamento il Leeds, introdusse moltissimi giovani talenti, come il difensore Jonathan Woodgate, il trequartista Alan Smith ed il centrocampista Stephen McPhail, il loro talento contribuì a trascinare la squadra alle semifinali della Coppa UEFA ed al terzo posto in classifica, grazie al quale il Leeds ottenne l'accesso per la UEFA Champions League. Nella semifinale di andata della Coppa UEFA, gli inglesi si trovarono di fronte ai turchi del Galatasaray. Disgraziatamente prima dell'inizio di quella partita persero la vita due tifosi del Leeds, Christopher Loftus e Kevin Speight, vittima della violenza di alcune frange di tifo estreme della squadra turca. Nella partita di ritorno venne osservato un minuto di silenzio, che da allora viene ripetuto ogni volta che il Leeds gioca un incontro in prossimità della data della tragedia. Era il 9 aprile 2000. Le risorse finanziarie non erano però state gestite adeguatamente, ed una nuova crisi colpì nuovamente il club. I giocatori più quotati vennero venduti e i risultati scarseggiarono pesantemente, facendo precipitare il Leeds fino in terza divisione nel giro di poche stagioni. Non senza patemi d’ animo, il Leeds è riuscito al termine della stagione 2009/10 a far ritorno in seconda divisione, nella speranza di poter rivivere altri momenti d’oro. Un altro Eldorado. Ma il presente ci parla di più bassi che alti. Ad ogni modo, comunque, questa resterà una squadra che ha segnato un epoca nel panorama del calcio inglese, ma per favore, alla fine, non chiamatelo sporco, non chiamatelo maledetto, chiamatelo solo e più semplicemente Leeds United. Marching on together....

SirSimon

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IL GIORNO DI SHEFFIELD Non c’è prevedibilità, amico mio, è così che funziona. Cinquanta e cinquanta. E’ quello che accade sempre di fronte a una biforcazione. Di qua o di là. Vita o morte. Testa o croce. Nel nostro caso, al massimo, c’è il pareggio; ma è un accontentarsi, una debolezza che ha il colore del cielo quando tuona. Ha un nome questa cosa, non è astrazione. La colpa è di due gentiluomini inglesi. Un Conte e un Capitano. Non riescono ad accordarsi. Facciamo così dicono: “due bigliettini, uno con il mio nome, uno con il tuo, e poi estraiamo a sorte. Chi vince darà il nome alla gara." Quando srotolano il foglietto prescelto, non c’è scritto Captain Bunbury, bensì Earl of Derby. Era il 1780. Da quell’anno la competizione più importante del circuito ippico reale si chiama Derby. E al Derby, le donne indossano cappelli delle più svariate fogge, mentre per gli uomini vige la celeberrima bombetta che non a caso si chiama “Derby Hat”. Ma siccome spesso le componenti di colpa non ricadono su una singola persona abbiamo portato a testimoniare un intero paese. Si chiama Ashbourne, dove ogni anno nel periodo di carnevale, si tiene un incontro tradizionale tra due squadre del posto documentato almeno dal 1683. Una partita di calcio primitivo e rudimentale, che all’inizio pare si giocasse con un pallone particolare, ovvero, la testa del condannato a morte gettata fra la folla a seguito di un esecuzione. Oggi la “Royal Ashbourne Shrovetide” esiste ancora. Il nostro nesso?. Eccolo, siamo nella contea del Derbyshire. Sono queste le due ipotesi più probabili che hanno dato vita alla parola Derby.

Non spostiamoci troppo da questa regione, solo una sessantina di chilometri più a nord, nel South Yorkshire, a Sheffield. A Sheffield non c’è molto. Ce l'estetica della ricchezza del XIX secolo, il rigore dei palazzi post-bellici, la rabbia giovanile del free-cinema inglese. Ha dato i natali a Joe Cocker e a una band storica dell’hard rock inglese: i Def Leppard. Ci sono ottime birre e robusti manufatti d’acciaio. Non a caso si parla di “Steel City”. La disoccupazione?. Reale, problema concreto. E solo a sentire questa parola, a chi adesso non tornano in mente le celebri immagini di Full Monty. Ma attenzione questa è anche la città dell’assurdo, dove questo film che ha spopolato nel mondo è preso sul serio come un programma politico. Se qualcuno crede che la storia di Gaz, il disoccupato dalla sigaretta perennemente accesa, e i suoi cinque compagni di sventura che si trasformano in improvvisati “stripper” per la gioia di un estasiato pubblico femminile sia solo una semplice pellicola, bene, ricredetevi. Lo so, voi vorreste che iniziassi a parlare di calcio, magari di Sheffield FC, la prima squadra del mondo, oppure di Hallam FC e del suo antichissimo stadio, soprattutto di Wednesday e United e di quel derby con cui siamo partiti. Ci arriveremo, più tardi, ora riprendiamo il discorso altrimenti non mi diverto. 14


Partiamo da Bardwell Road. Chi ha visto il film ricorda il quartiere, questa strada di periferia, in alto. C’è un motivo. Sheffield é stata eretta su sette colli come Roma, ed ecco allora un altro nome associabile: ” The city of seven hills”. A Bardwell Road, Lomper, il disoccupato pel di carota, tenta il suicidio ma non riesce ad accendere il motore dell’auto che dovrebbe avvelenarlo con l’ossido di carbonio. A questo punto entra in scena Steve, altro senza lavoro, uno dalla pancia ben modellata dalle pinte di birra, che all’insaputa dei veri intenti di Lomper, crede di compiere una buona azione e gli fa ripartire il motore mandandolo al creatore. Sembra che dal punto dove è stata girata questa scena fra il macabro e il grottesco, la città appaia in tutto il suo rugginoso declino. Nel 1740 pareva che l’altoforno inventato da Benjamin Hultsman dovesse cambiarle il destino. Ci è riuscito per almeno 250 anni. Ma ora l’acciaio, dopo le riforme dell’era Margaret Thatcher è solo un orpello, una sorta di appendice. La maggior parte delle “gotiche” ferriere sono abbandonate, le fonderie trasformate in uffici, i famosi coltelli quasi reperti da museo. Ha vinto il terziario dicono. E allora che facciamo? Ci spogliamo come nel film, semplice. A lo Shiregreen il grande pub del famoso spogliarello cinematografico, il sipario è lo stesso, e le donne ci sono, pronte a infiammarsi, urlare, e applaudire. Fermi tutti, un passo indietro, per capire meglio. In realtà il locale sarebbe un “Working men club”, un dopolavoro per chi il lavoro ce l’ha. Ma già di prima mattina si riempie di disoccupati. Nella sala dei biliardi giocano a "snooker", personaggi usciti dall'iconografia dell'ufficio di collocamento, braccia tatuate e anello all'orecchio. E l'alternativa, sono le freccette. La sera lo Shiregreen vive di spogliarello. Terry Green, 45 anni, è il segretario del club, e in un intervista spiega la filosofia: "Quando lo strip è femminile, in scena c’è una donna, sola. Quando é maschile gli “stripper” si presentano in gruppo: una sera c'era tanta frenesia che, prima del numero, una spettatrice é salita sul palco e, invasata dalla musica, ha fatto la luna". ..Cioe'? "Si é calata le mutande e ha mostrato il sedere. "Abbiamo dovuto cacciarla di forza. Insomma abbiamo capito che le donne si divertono. E vengono allo Shiregreen". Cosi', la citta' dell'assurdo e dello strip prende "The Full Monty" come un esempio. L'industria siderurgica ha licenziato quarantamila lavoratori, e solo una piccola parte ha ritrovato un altro impiego. Il resto vive di sussidio. E di lavori improvvisati, più o meno strampalati, proprio come questo dello “striptease”. Zac nel film se ne andava in giro con la maglia dello Sheffield United. Una scelta forse non casuale. Il vero disoccupato di Sheffield dicono tifa Blades. Perché bisogna essere sfortunati nella sfortuna. Infatti lo United ha una sala dei trofei e delle memorie piuttosto scarna che inizia dal 1889, l’anno della sua fondazione. Ma forse è proprio questo il bello. C’è forse qualcosa di più profondo e passionale dell’essere incompiuti e perdenti? Cosa affascina di più del non arrivare mai, del sognare sogni irrealizzabili? Del giocarsi partite decisive per la promozione? Non è forse vivere un sentimento di calcio puro, onesto. 15


E poi dalle parti di Bramall Lane possono comunque vantarsi di essere la prima squadra nel mondo a coniugare il suffisso “United” con il nome della città. Abbiamo nominato lo stadio. Bramall Lane. L’impianto più antico ancora in uso, essendo stato inaugurato nel 1855; Un autentica “culla” per lo sport cittadino, casa dello Yorkshire di cricket fino al 1975, del vecchio Sheffield FC dal 1862 al 1875, dello Sheffield Wednesday e, appunto, dello Sheffield United. Il soprannome Blades (lame) è il chiaro riferimento a quell’industria dell’acciaio che abbiamo già menzionato: nello stemma campeggiano due sciabole incrociate, introdotte nel 1977 dal manager Jimmy Sirrel, e disegnato una ventina d’anni prima dall’ex giocatore Jimmy Hagan. Se si esclude la stagione inaugurale e quella del 1891/92 (maglia bianca e pantaloncini blu) i colori sono sempre stati il bianco e il rosso, con pantaloncini neri, salvo in qualche rara eccezione. Il primo presidente fu Sir Charles Gregg, uno che a Sheffield ha ricoperto le più svariate cariche dirigenziali, ed ovviamente persona importante e influente. Talmente influente che dopo il suggerimento del gestore di Bramall Lane Charles Stokes, che vista la grande partecipazione di pubblico e il grande entusiasmo popolare per la semifinale di coppa d’Inghilterra giocata proprio a Bramall Lane il 16 marzo 1889 fra WBA e Preston North End, propone di creare una squadra che giochi proprio in quello stadio. Sei giorni dopo nasceva lo Sheffield United. Per trovare gli altri invece serve trasferirsi più a nord. Chissà cosa avranno pensato i cittadini che il 4 settembre 1867 sfogliando le pagine dello “Sheffield Indipendent” trovarono questa notizia: “SHEFFIELD WEDNESDAY CRICKET CLUB AND FOOTBALL CLUB. – At a general meeting held on Wednesday last, at the Adelphi Hotel, it was decided to form a football club in connection with the above influential cricket club, with the object of keeping together during the winter season the members of this cricket club. From the great unanimity which prevailed as to the desirability of forming the club, there is every reason to expect that it will take first rank.” Nasceva così lo Sheffield Wednesday Football Club. Mercoledì, come i giorni in cui la squadra del cricket club disputava i propri incontri. Dovranno passare però vent’anni, prima che il club passi al professionismo, occorerà attendere il 1887. Nel 1889 viene rifiutato al “The Wednesday” l’ingresso nella Football League, e così i Groveites (nickname di quegli anni) ripiegarono sulla Football Alliance, di cui furono membri fondatori (e che misero in bacheca nel 1892). State pensando a Hillsborough vero? Nel 1899, venne abbandonato Olive Grove, la prima casa, per trasferirsi a Owlerton, in quello che diverrà noto successivamente come Hillsborough. Questo perché Olive Grove era un terreno che il club aveva preso in prestito dalle ferrovie e che adesso doveva essere riconsegnato alle reali locomotive. Il ripiego fu trovato grazie a un certo James Willis Dixon, che offrì al sodalizio una parte del terreno della Hillsborough House Summer di cui era proprietaria la sua famiglia. Divisione equa a un terzo. Una finì al Wednesday, una alla chiesa metodista, una all’attuale City Council di Sheffield. Ecco nato lo storico impianto dello Sheffield Wednesday, che tuttavia inizierà a essere chiamato Hillsborough solo dal 1914. Il trasferimento 16


nella zona di Owlerton causò anche indirettamente il cambio di nickname della squadra, che divenne l’attuale Owls per ovvie ragioni legate al nome del luogo. Conseguentemente ecco anche il nuovo crest, un gufo con la rosa degli York e il motto latino “Consilio et animis”. Continuare a scrivere la storia dei due club potrebbe essere tedioso e come sempre non del tutto esauriente. Per le Blades c’è un campionato inglese datato 1898, e quattro FA Cup di cui l’ultima nel 1925. Per le civette qualcosina in più. Quattro titoli, tre coppe d’Inghilterra, e una coppa di Lega nel 1991. Ma se si esclude quest’ultimo successo, gli altri trionfi recano tutti date precedenti al secondo conflitto mondiale. Insomma anche tifare Owls, indossare quella maglia a strisce bianco blu che qualcuno afferma di essere stata mutuata dai colori dell' uniforme di marinai olandesi, non è poi così redditizio. Però, io credo che alla fine essere di Sheffield è una forma di piacere perverso. L’eterno eremitaggio delle serie minori, le rivalità ambigue con piccola borghesia e nobili decadute. Con la faccia seriosa e malinconica, non tanto perchè ti manca qualche pound in tasca, ma perchè sai che il tuo club potrebbe ambire a qualcosa in più, ma che in fondo rifiuti il Natale e il capodanno, in quanto la vera festa, sono solo quei giorni in cui in una metà campo c’è il Wednesday, e nell’altra lo United. Perché niente qui conta più dello Steel City Derby. E un giorno del 1993, il derby visse un giorno sacro, una sorta di sublimazione, di esaltazione di una collettività. Non a Sheffield. Il derby di sabato 3 aprile 1993 si giocò a Londra, nel tempio di Wembley. In palio l’accesso alla finale di FA Cup. Sembrava che l’intera città di Sheffield fosse scesa sulla capitale. Un esodo davvero di grandi proporzioni. Auto, Bus, mezzi di fortuna, una colonna colorata di bianco rosso e blu, in viaggio verso il nord di Londra. Darren Housley, un tifoso delle blades, ricorda bene quel giorno: “Il nostro minibus si ruppe a qualche chilometro da Wembley, ma non avremmo potuto scegliere un posto migliore in caso di guasto. C’era un pub, un agenzia di scommesse, un negozio di fish&chips, e una stazione ferroviaria per consentirci di arrivare in tempo allo stadio nel caso non fossimo riusciti a riparare il nostro mezzo”. Mark Thomas invece è un fan delle owls: “ Avevamo un auto piuttosto veloce, e sinceramente non abbiamo rispettato tutt i limiti di velocità, ma fu troppo bello, perché ogni volta che superavamo un gruppo di tifosi dello United, gonfiavamo un paio di palloncini biancoblu e li lanciavamo verso il cielo dal finestrino”. Si ritroveranno in 75364. Uomini, donne, bambini, bandiere e sciarpe. Il tutto in un’atmosfera piacevole e cordiale. Come parenti persi da qualche tempo che si rincontrano felici. Di derby storici comunque ce ne erano stati. Impossibile dimenticarne almeno due. Uno per parte. Quello del 1951 quando le due squadre militavano in seconda divisione e a Bramall Lane lo Sheffield United si impose con il clamoroso risultato di 7-3, e quello giocato invece a Hillsborough nel 1979 addirittura in terza divisione dove a vincere fu il “Wednesday” con un perentorio 4-0. Mattatore di quella partita il baffuto Terry Curran, che alla sera fu protagonista di un simpatico aneddoto. Infatti, rivolgendosi ad una ragazza in un pub chiese: 17


“Sai chi sono io?”. Lei sorride e scuote la testa. “Sono Teddy Curran”- prosegue lui. “Oh siete quello che gioca per il Wednesday..?”. “No – sorride compiaciuto- Io, sono il Wednesday!”. Ma torniamo a quel sabato d’inizio aprile. Per la prima volta le due semifinali si giocano a Wembley. Fu una scelta logistica legata ai nomi delle altre due semifinaliste. Arsenal e Tottenham Hotspur. Ordine pubblico, incasso, ritorno d’immagine, vicinanza dell’impianto alle sedi dei due club. Primi squilli d’avvertimento che la tradizione di aprire le porte dello storico impianto solo per la finale andava a farsi benedire in nome dei soliti interessi. United- Wednesday si sarebbe dovuta giocare in realtà all’ Elland Road di Leeds, ma le proteste e le polemiche indussero alla fine la federazione a scegliere Wembley per entrambe le partite. Un mare di palloncini colorati salutò l’ingresso in campo delle due formazioni guidate dai rispettivi manager: Dave Bassett per le “lame” e Trevor Francis per le “civette”. Prima c’era stato un altro mare, questa volta di applausi per un ragazzo sfortunato. Mel Rees, un giovane calciatore dello Sheffield United colpito da una brutta malattia. Un giro di campo in mezzo alle ovazioni di tutti. Indistintamente. Sembrava che avesse superato il problema, che avesse vinto la malattia, invece purtroppo qualche mese dopo lasciò questo mondo ad appena 26 anni. Lo Sheffield United non giocava a Wembley dal 1935. Forse l’impaccio e l’emozione iniziale di quest’incontro si fece sentire più su di loro che sui rivali, e Chris Waddle la talentuosa ala dello Sheffield Wednesday e della nazionale inglese, che di esperienza ne aveva invece da vendere colpì subito. Dopo 62 secondi. Una punizione magistrale da trenta metri che si infilò alle spalle di Alan Kelly. E per tutta la partita Waddle fu un’autentica spina nel fianco nella difesa avversaria. Curvo, inquietante, quasi altezzoso nei suoi numeri di magia calcistica. Poi lentamente lo United provò a riordinare le idee e a recuperare lo svantaggio. Franz Carr e Brian Deane i due colored delle blades tentarono di trovare spazi fra le maglie strette di Carlton Palmer e Viv Anderson. Ma sarà lo Sheffield Wednesday a farsi ancora pericoloso. Anzi pericolosissimo. Il solito Waddle servì su un piatto d’argento il pallone del raddoppio a Paul Warhurst ma l’incrocio dei pali respinse la conclusione del giocatore nativo di Stockport. Passata la paura quando in ogni caso sembrava che il primo tempo si dovesse concludere con quelli di Hillsborough in vantaggio, Franz Carr servì sul filo del fuorigioco il centravanti Alan Cork che infilò Woods in uscita pareggiando la gara. Cork è un personaggio. Quel giorno se non avesse avuto la maglia biancorossa poteva essere scambiato per un profeta dell’antico testamento. Calvo e corposa barba grigiastra a contornare due occhi spiritati. Quando giocava nel Wimbledon e la sua inclemente calvizie era ormai sotto gli occhi di tutti, i tifosi iniziarono a cantarli una canzone: “Alan Cork, Alan Cork, Alan Alan Cork. He's got no hair but we don't care”. Più o meno, Alan Cork non ha capelli ma a noi non importa. E lui lasciò Plough Lane proprio per Sheffield dopo aver realizzato la bellezza di 145 reti seppure spalmate in quattordici anni al servizio dei Dons. Nel secondo tempo la pressione del “Wednesday” si fa sempre più intensa e le occasioni non mancheranno. Prima Harkes, poi John Sheridan centrocampista veterano di mille battaglie impegnano severamente 18


Kelly. Ma al termine dei novanta minuti la situazione è ancora in perfetta parità. Ai punti le “owls” meriterebbero di vincere, e alla fine i loro sforzi saranno premiati nel secondo dei due tempi supplementari. John Harkes batte un calcio d’angolo dalla sinistra e telecomanda un pallone sulla testa del puntuale Mark Bright che anticipa tutti e manda in finale i suoi in un’esplosione di biancoblu. Quel giorno vinsero le “civette”, ma tutto sommato, a vincere fu il derby di Sheffield. … ”Una volta ho letto una bella frase sui tifosi di Sheffield presenti a quella semifinale": Un giorno quella gente che era a Wembley forse si ritroverà tutta nella città dell’acciaio. Sullo stessa strada che porta allo stadio, ognuno con la propria sciarpa, la propria orgogliosa maglietta. Alticci e contenti. Pronti come sempre ad alimentare la loro fede. Si saluteranno come vecchi amici, berranno una birra, ricorderanno il passato, quel giorno a Londra, e parleranno di calcio; poi ognuno seguirà la sua strada, mentre la nebbia della sera riempirà le strade di buio, e farà freddo"…

SirSimon

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STADI: HIGHBURY Dici Highbury, dici storia. Il Woolwich Arsenal lo inaugura nel 1913, e ci resta fino al 2006. Il giorno di Arsenal-Wigan. Il giorno del salute a un tempio che ha scandito le imprese dei Gunners nelle coppe e in campionato, immortalate anche dal celebre film “Febbre a 90�.

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The Last Day

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Conor

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VIAGGI: LUTON EXPERIENCE Ecco il racconto del mio "debutto" in uno stadio inglese (prima di questo momento li avevo visti solo da fuori)... Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei soggiornato a Luton? Come si dice, nella vita mai dire mai! Al massimo a Luton ci si può trovare per il fatto che ospita uno degli aeroporti di Londra (il London Luton Airport) ma poi, di norma, da lì ci si sposta subito nella capitale. Ebbene vi sto per raccontare come un appassionato di calcio (e soprattutto di calcio inglese) può trasformare una giornata di costrizione in una town inglese che non ha molto da offrire a un turista, in un’esperienza affascinante! Il pomeriggio dello scorso 24 giugno 2010 mi reco all’aeroporto di Luton per rientrare da una 3 giorni londinese dedicata al vedere “live” il mitico torneo di Wimbledon. Arrivati all’aeroporto apprendo (oltre che l’Italia è stata eliminata dal mondiale) che il mio volo per Milano è cancellato e viene comunicato che il volo successivo disponibile per il rientro è quello di 24 ore dopo. A questo punto, anziché tornare a Londra (che dista 50 km), decido di rimanere e pernottare a Luton. E cosa possono fare da fanatico del football per riempire una giornata estiva in una piccola cittadina inglese? Andare a visitare lo stadio!!! La sera decido quindi di fare un giro in città come una sorta di piccola perlustrazione e con grande gioia apprendo che lo stadio (che ovviamente vista l’ora decido di andare a visitare “col chiaro” la mattina dopo) dista a soli 5 min. a piedi dall'hotel. Dopodiché scopro, passeggiando per il centro, un altro punto cardine del tifo a Luton: un pub, il “Duke Of Clarence”, ritrovo dei supporters locali. La prima cosa che faccio il giorno dopo al risveglio quindi è quella di recarmi al Kenilworth Road lo stadio del Luton Town Football Club! Faccio ora una piccola premessa introduttiva: la squadra di calcio del Luton (fondata nel 1885) attualmente limita nella Football Conference (Premier) che si può considerare, giusto per fare un paragone alla serie D italiana (ma non c’è paragone visto che in Inghilterra tutte le squadre e gli stadi sono ricchi di fascino e storia a prescindere della categoria dove giocano). Questo per il fatto che nella stagione 2008/2009 la squadra è stata penalizzata di 30 punti per inadempienze societarie e, di conseguenza, non ce l’ha fatta a salvarsi nonostante a fine stagione sia riuscita comunque a conquistare il “Johnstone’s Paint Trophy” (secondo trofeo nella storia del club dopo la coppa di lega dell’88) a Wembley nella finale vinta per 3 a 2 sullo Scunthorpe United. Dopo esser quindi retrocesso in Conference, nell’ultima stagione (2009/2010) il Luton, grazie anche al nuovo sponsor easyjet (la famosa compagnia aerea dell’aeroporto cittadino), punta subito alla risalita in Football League 2, ma l’impresa non riesce al primo colpo, infatti viene sconfitto ai play-offs dallo York City. Nonostante ciò però a Luton, come in tutte le altre città inglesi, a prescindere in quale campionato limita la propria squadra, si respira passione e appartenenza ai colori: per esempio, le auto riportano spesso appiccicate le vetrofanie e gli adesivi con lo stemma del club e non è difficile trovare bandiere esposte fuori dalle case o persone che indossano la divisa della squadra, squadra che in passato ha limitato anche ai vertici del calcio inglese quando la Premier League si chiamava ancora prima divisione. Dopo questa parentesi storica torniamo a noi e al nostro racconto. Lo stadio, che come abbiamo detto

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si chiama Kenilworth Road (costruito nel 1905 ha una capacità di oltre 10.000 posti), è davvero particolare; la prima cosa che ci incuriosisce è che un intero lato di esso (Oak stand) presenta le entrate “incastonate” nelle case, quindi diventa difficile arrivando da quel lato capire di essere allo stadio! Percorrendo a piedi la Oak Road arriviamo al parcheggio dello stadio che si trova di rimpetto all’entrata principale (main entrance/main stand) dove chiediamo al parcheggiatore se possiamo fare delle foto (ovviamente veniamo accontentati), se c’è uno shop del club e se è aperto (visto il periodo estivo). Ci viene riposto che lo shop c’è ed è pure aperto e ci spiega la strada per raggiungerlo (in Inghilterra alcuni stadi, come nel nostro caso, sono incastrati in spazi angusti tra case e strade, non come in Italia che siamo abituati a vederli nella maggior parte dei casi in mezzo a spazi aperti e quindi a volte diventa complicato spostarsi agevolmente da una parte all’altra). Percorriamo quindi una viuzza strettissima (che affianca la Bobbers Stand), dove a malapena ci si passa in 2 uno di fianco all’altro, quando ad un certo punto viene aperto un cancellone dello stadio per fare entrare un trattore (si stavano svolgendo le operazione di manutenzione del manto erboso)…che occasione! All’inserviente che sta per chiudere il cancello dico che sono italiano e se posso entrare per scattare delle foto. Con estrema gentilezza e disponibilità mi viene concesso l’onore di entrare e di fare tutte le foto del caso con un’unica restrizione: non calpestare il terreno di gioco. Dopo aver scattato le foto ringrazio l’inserviente e lui, con orgoglio e un pizzico di ironia, mi racconta a grandi linee la storia e le ultime vicissitudini del club! Felice come un bambino (finalmente ho calcato un campo inglese!!!) raggiungo lo shop dove posso dare libero spazio agli acquisti! Il negozietto è ricavato in una specie di prefabbricato ma è fornitissimo per essere il negozio di una squadra che limita in una serie minore, ma si sa che gli inglesi in fatto di merchandising (e non solo) sono i numeri uno! Il negoziante, stupito di avere come cliente un turista italiano, mi chiede da dove vengo, come mai sono a Luton e che squadra tifo e rimane sbalordito nel vedere un tifoso di una squadra del calibro di Milan e poter vedere Beckham a San Siro esser così contento di essere a Kenilworth Road! Acquisto la maglia da gara sulla quale il negoziante mi stampa come regalo (dopo avermi chiesto come mi chiamo) il mio nome e il numero (dopo avermi chiesto qul'era il mio numero preferito)! Infine, prima di salutarmi, mi viene detto che una delle amichevoli precampionato il Luton la giocherà proprio in casa contro il club più titolato d’Inghilterra: il Liverpool! Peccato non avere le ferie per andare a vedere il match…. Arriva il momento dei saluti, non so se di addio o di arrivederci, ma ciò che più conta è che, come nelle favole, alla fine sono felice e contento della fantastica esperienza! Ora mi sentiamo anche un po“hatter” (cappellao), questo è il soprannome della squadra e dei tifosi del Luton Town (per via del fatto che la città era famosa per la produzione di cappelli di paglia) e con un po’ di malinconia mista alla tanta euforia per ciò che Ho appena vissuto mi appresto a fare un ultimo giretto in centro città prima di rientrare in albergo. Sono quindi pronti per tornare in aeroporto e far rientro a Milano, soddisfatto di portare nel cuore questa esperienza e una bella storia da raccontare; storia che è difficile da far capire al tifoso medio italiano (figuriamoci alle nostre mamme e fidanzate!) ma che la rende ancora più magica, speciale, unica! Sono dunque orgoglioso di condividere questa avventura con voi appassionati e “malati” di calcio (soprattutto di calcio british) come me che, ne sono sicuro, potete capire tutto questo!

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CHELSEA HEADHUNTERS Chris "Chubby" Henderson formò i Chelsea Headhunters che si guadagnarono la fama di essere il più pericoloso gruppo di hooligans in Inghilterra. Dopo l'incarcerazione di Stephen "Hickey" Hickmott, Henderson si mise ad organizzare le trasferte con pullmann di lusso per una ristretta gang di tifosi del Chelsea, affamati di football, azione, confusione, confronto, violenza e birra. Alla fine furono arrestati. Il loro processo fu costruito per far raggiungere la gloria eterna alla campagna della Thatcher per estirpare l'hooliganismo, ma il suo drammatico collasso suonò a morte per tutte le operazioni di polizia sotto copertura e gli indiscriminati arresti di massa che erano stati ordinati dalle autorità per spazzare via Henderson e gli altri. Questo è il racconto sincero di cosa significasse essere un Chelsea Headhunter. Tutti i vari pubs usati come ritrovo. Le infinite sessioni di bevute pre-partita e le risate con gli amici. Gli attacchi a sorpresa, le imboscate studiate a tavolino o improvvisate all'istante. Le cariche e i disordini intorno a Stamford Bridge o nelle retrovie del nemico. Le facce, i capi, i personaggi. Le gradinate. Solo posti in piedi, il parco giochi di questi ragazzi liberi ed innamorati della loro squadra; ansiosi di dimostrarlo in maniera violenta. I codici non scritti, la ricerca di un confronto solo con altri gruppi di tifosi vogliosi di mettersi alla prova. I derby Londinesi e gli scontri per la supremazia cittadina. Le rivalità con le altre tifoserie e le risse con chiunque volesse misurarsi con il mito degli Headhunters. Lo scenario naturale delle stazioni ferroviarie, della rete della metropolitana, di una frenetica Londra imbevuta di musica e tendenze. Il flusso delle mode, da skinhead a soulboy, da punk a casual. Il seguito della Nazionale. Disordine in Europa. Le rivalità di club e il loro riaffiorare in occasione delle partite dell'Inghilterra. I rapporti con la stampa, la polizia e l'opinione pubblica. I tentativi politici di sfruttare il pazzo amore dei ragazzi per la maglietta blu. Dimenticate quello che avete letto sui giornali o visto in TV, e ce ne è a schifo. Questa è la vera storia senza censure di cosa significasse essere un Chelsea Headhunter, come riportato da Chris Henderson a Colin Ward.

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Questo viaggio nella storia del calcio Britannico e non solo e’ finito, vi ricordo di venirci a trovare sul nostro forum, ma di visitare anche i siti amici Quindi vi diamo tutti i nostri indirizzi http://rulebritanniauk.forumfree.it http://www.ukcalcio.com http://londracalcistica.blogspot.com http://rulebritannia.blogspot.com http://englishfootballstation.wordpress.com/

Arriverderci al prossimo mese

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