

Leeloo, 2011/2016
29 aprile 2022
A volte nei sogni mi ritrovo trentenne nella mansarda di 25 mq che condividevo con Raffaella e due gatti molti anni fa, quando facevo il pittore. Di solito vi scopro spazi inaccessibili, che si modificano ad ogni mia visita, con varchi minuscoli in posizioni improbabili per un normale essere umano. Stavolta in uno di questi spazi c’era il mio cane. Mancavo da tempo (mesi, anni?), era molto contento di vedermi ed io pure. Dopo un sacco di coccole e vari sviluppi di minore importanza, la scena cambia totalmente e mi ritrovo in auto, fermo ad un semaforo. Indosso un certo soprabito che ai tempi portavo e che di recente ho riconsiderato.
Ad un certo punto, nell’auto che affiancava la mia scoppia una rissa e ne schizza fuori dal finestrino un gatto nero dalla forma allungata che si avvinghia al mio collo in una frazione di secondo. Impossibile liberarsene e quindi penso ad una soluzione mentre guido nella notte in un tratto di corso Buenos Aires che non mi è mai piaciuto. Fermo la macchina e decido di entrare in uno studio medico, certo di risolvere facilmente la situazione. Lo studio però è affollatissimo e c’è una lunga coda per accedere a un servizio che non mi interessa. La mancanza di spazio mi obbliga ad accodarmi; pazienza, poi chiederò a qualcuno.
Entra un tale e mi chiede se quella sia la coda per il dentista; annuisco rassegnato ma lui legge sulla porta il nome del medico, dott. Barella. Indignato, dichiara che mai si farà visitare da un medico che si chiama così. Lo guardo incredulo, cercando di capire quale sia il senso di quella scena sciocca e surreale.
Mi trovo adesso molto avanti nella fila e ad alta voce spiego il mio problema al corridoio vuoto. Si apre una porta e ne esce un addetto che con un grosso docciatore inizia ad irrorami, lì in corridoio. Tutto vestito, accetto con entusiasmo la doccia, poi mi asciugherò mi dico, è una buona idea; intanto mi interrogo sul costo di un tale intervento ma non importa ho la carta di credito, penso. Il gatto in effetti non sembra gradire, si svincola dal mio collo e fradicio si precipita nella stanza dell’addetto, una sorta di gabinetto verde. Arrivano altri addetti e ora bisogna acchiappare il gatto. Fradicio come sono temo per la sua vita e dichiaro ad alta voce che il gatto è mio e che l’avrei portato a casa, dove poi ci saremmo asciugati. Da chissà dove spunta addirittura un trasportino, che subito afferro. Sono contento.

19 novembre 2021
Ho sognato un sole quadrato. Si intravedevano fori sui lati, come fosse un frammento di pellicola. C’era anche l’armadio che si trovava nella mia stanza di ragazzo; per la prima volta l’ho trovato bello e ho deciso di riporvi i miei maglioni.

18 Agosto 2018
La storia di mio papà
Ho un bel ricordo della mia infanzia, i rapporti con i miei genitori erano buoni, anche quelli con mio fratello e mia sorella. Una famiglia allargata, con nonni, zie e altri parenti che a turno capitavano da noi. Ho sempre considerato un privilegio vivere in una famiglia con persone anziane e bambini. Ma erano tutti parenti di mia madre. Da parte di mio padre c’era solo la nonna, sua mamma, che stava con noi a Roma.
Un passo indietro. Mio padre e mia madre si conoscevano da bimbi, erano vicini di pianerottolo, a Bari, loro città natale. La famiglia di mia madre era composta dal nonno Romeo (io porto il suo nome) la nonna Checchina, mia mamma Amelia e le sue sorelle maggiori Serafina (zia Nella) e Leonarda (zia Dina). E da una infinita pletora di parenti... non c’era persona che loro non conoscessero e con la quale non fossero in una qualche specifica e documentata relazione. Quando mia zia Nella mi portava in giro con sé, si andava sempre a trovare qualcuno, con una sua storia particolare della quale io venivo informato in anticipo. Queste persone, nel ricevermi, dovevano in qualche modo ribadire la relazione che ci univa. Storie venivano ripetute, che riguardavano
vari parenti e parenti di questi, personalità di spicco, quali ad esempio Ciccillo du’cottone (astuto merciaio) e la commare Potere (obesa signora asmatica e ipertesa), restano nella mia mente figure cariche di significato.
Sono nato a Terni e dopo cinque anni ci siamo trasferiti a Roma ma spesso eravamo in Puglia, a Bari. Io vi venivo spedito non appena la scuola finiva e vi trascorrevo lunghi mesi. Conosco Bari e le sue storie, la guerra, la fame, le usanze di quei tempi. La zia Nella era una fonte inesauribile. In agosto i miei mi raggiungevano e poi si andava al mare. Nei giorni passati insieme a Bari non si poteva mancare di onorare i morti con una visita all’affollatissimo cimitero della città. Ricordo mia mamma con un enorme mazzo di garofani in queste interminabili visite ai defunti, non solo parenti ovviamente. Per ognuno aveva un fiore. Dei parenti più prossimi si lavava anche la tomba. Ci si raccoglieva e si commemorava. Alla domanda inevitabile: “Mamma, ma questo chi è?” mia mamma che non era avvezza a raccontare, ci forniva comunque la mappa per ricostruire la relazione, al punto che noi si osservava poi le foto (sorta di sbiaditi dagherrotipi) in cerca di non so che conferma nello sguardo, una somiglianza... La giornata al cimitero era interminabile, vi erano interi palazzi, condomini di defunti (colombai o loculi) per raggiungere i più alti dei quali bisognava manovrare una enorme scala di ferro con le rotelle. Mio papà seguiva le operazioni con distacco e solo a un certo punto, verso il termine del giro, spiccava
un garofano dal mazzo residuo della mamma e spariva per una mezz’ora. Questo era il momento del mistero, perché non si poteva chiedere e tantomeno seguire. Sapevamo già noi bimbi che mio papà aveva solo la mamma e anche se ci pareva ovvio che sarebbe dovuto esserci o esserci stato anche un suo papà, avevamo comunque accettato il tabù. Non era dato a sapere, non si poteva chiedere, né se ne poteva parlare. Siamo rimasti in questa condizione fino alla morte di mio fratello. Ma c’era la nonna e sapevamo che era vissuta a Torino prima di trasferirsi da noi a Roma. Ma le informazioni qui si esaurivano. Ecco, di Bari ricordo questo fitto tessuto di relazioni che non distingueva molto la vita dalla morte. Tutto aveva un senso preciso e storico e ognuno ne era il portavoce. Tutto veniva continuamente ricordato. Mio padre no, lui era solo. Sì, c’era la sua mamma, ma non c’era nessuna storia.
Roma, poi Milano nel ‘69. Mi sono goduto il meglio di questa città: gli anni delle stragi, della rivolta e della lotta armata. Ero all'accademia di belle arti nel ‘77, non era strano vedere in giro delle armi da fuoco. Mio fratello ha vita difficile, con una forte vena artistica, è costretto da mio padre a studiare cose tecniche. Viene bocciato ripetutamente e lascia la scuola. Inizia una lunga stagione di fallimenti e dolori per lui. Tutti i rapporti si guastano. Io al contrario vengo costretto a fare studi artistici mentre avevo già il mio progetto di studiare grafica con un amico carissimo. Niente, dovetti prendere il diploma. Poi l’accademia.
I rapporti in famiglia sono sempre più tesi. Mio fratello se ne va con la sua donna e un bimbo nato da poco, mia sorella si sposa e ci lascia. Resto da solo in una famiglia che mi fa stare male, giuro di non aprire più bocca in casa dopo che mio padre mi dileggia a tavola per la mia balbuzie. Ma ora il mio silenzio, che prima passava inosservato, è difficile da ignorare. Nel corso dell’ennesima lite me ne vado anch’io di casa.
Nell’aprile del 1990 mio fratello si uccide. Poco tempo prima, tutti erano tornati a vivere insieme fuori Milano: papà e mamma, mio fratello, sua moglie e il bimbo, le due sorelle di mia madre. Tutti in appartamenti adiacenti. Un progetto di mio padre.
Ecco. Da piccolo mi è capitato di assistere alla morte delle mie nonne. Il ricordo che preferisco è quello della morte della nonna Checchina, mamma della mamma, a Bari. Ricordo i parenti, che arrivavano con le paste e il vino. Si stava in cucina e si rideva ma a turno ognuno andava dalla nonna, in camera da letto, per stare con lei e piangerla. Non vi erano restrizioni, potevo andare a vedere ciò che succedeva. La casa era aperta per la morte, gente andava e veniva.
Non ho mai più assistito a nulla di simile, è stata un’esperienza bellissima e per niente triste. Ho sempre messo in realzione questa morte con la morte di mio fratello: certo, morte diversa, non naturale, aveva 36 anni. Ma ognuno stava nella sua casa e si disperava in solitudine, ricordo che questo mi fece stare malissimo.
In qualche modo riusciamo a riunirci, c’era anche mia sorella e la sua famiglia. Mio padre ci convoca nel suo studio. Ci dice che ci avrebbe rivelato qualcosa ma che poi non avrebbe più voluto parlarne. Tira fuori una vecchia foto, sembrava lui stesso a 50 anni, di profilo, con una anacronistica bombetta nera. Ci spiega che quello era il suo padre naturale, tale Carbone di Bari, ricco commerciante, sposato e con figli. Nè lui nè la famiglia vollero mai saperne nulla di mio papà. Ci racconta che con la nonna, emigrarono a Torino per lo scandalo. (Ti lascio immaginare il disagio di una simile avventura in quegli anni. A casa mia il dialetto è sempre stato vietato, guai a usarlo, volavano ceffoni. Solo a Natale e Pasqua, quando arrivavano le zie da Bari lo si poteva usare, ma solo per ridere). Papà ci racconta poi che a Torino mia nonna si mette insieme a un altro tizio sposato, pugliese anch’esso, tira fuori un’altra foto di un tizio tipo Paul Newman, maxicappotto nero e borsalino sulle 23. Fighissimo. Con lui mio padre aveva un buon rapporto – racconta – e quando la moglie di lui morì, questi lo riconobbe. Si chiamava Traversa e io porto il suo cognome.
Mio padre racconta che ai tempi sul documento di identità c’erano le generalità del padre, figlio di Tizio Caio. Lui aveva scritto figlio di NN (nomen nescio). Questo – ci dice – gli procurava enorme vergogna e la sua carriera di libero professionista aveva in questo la sua vera motivazione. Ma poi continua e ci racconta che questo Traversa di mestiere era avvocato tributario – o diceva di
esserlo – tant’è che a un certo punto scappò con i soldi dei suoi clienti. In breve, la fuga terminò in Puglia dove in una masseria si tolse la vita sparandosi una fucilata in bocca.
Io e mia sorella siamo senza fiato. Mio padre continua, è convinto che il cognome sia maledetto e il suicidio di mio fratello ne sarebbe la prova.
Ora finalmente capisco. Provo sensazioni contrastanti, gioia per avere una storia finalmente – e che storia – comprensione e tenerezza per mio papà, poverino, e le sue vicende assai dure. Ma anche provo rabbia, tanta rabbia per la sua vigliaccheria e per la vergogna che mi ha trasmesso. Perché ho sempre sofferto di questa mancanza, incompletezza, vuoto, fantasma di storia, follia, legata al mio cognome, che ho sempre pronunciato con difficoltà, certo a causa della balbuzie, ma non solo, certo non solo.
Gli dico: ma perché il cognome sarebbe maledetto, non era davvero tuo padre. Intendevo forse dire che – si sa – le maledizioni si trasmettono col sangue? Non ne ho idea. Lui per un attimo s’illumina come vedesse la cosa in modo nuovo ma poi si spegne di nuovo, forse scegliendo l’abituale percorso, stavolta con un bel macigno nuovo sulle spalle. Ecco, questa è la sua storia. La mia storia. Si è scavata una galleria nel tempo ed è arrivata a me, al prezzo di tanto dolore. È una storia che non è stata vissuta e reclama adesso di esserlo. Deve vivere in me e nelle mie figlie, alle quali è stata solo accennata. Di mezzo c’è la storia di mio fratello, per me finora difficile da raccontare.
La storia di mio papà ha un finale. Negli ultimi anni della sua vita contrae la malattia che lo porterà alla morte. Tenta il suicidio con delle pillole, senza riuscirvi. Vengo a sapere questo solo dopo la sua morte, da mia sorella. Gli sono stato vicino negli ultimi giorni, parlava con persone immaginarie, solo a tratti era presente. Il giorno della sua morte, in quel momento, io suono il citofono di casa. Quando entro nella stanza vedo mio padre morto in una pozza di vomito scuro, come esploso dalla sua bocca. La mamma e la zia che strillano... non ho potuto fare a meno di pensare al suo padre adottivo – Traversa –e al modo in cui morì.

Amo questa foto, una involontaria doppia esposizione. Si vede la mia famiglia in una pineta romana. Mia nonna paterna viveva con noi allora; mio padre era un rappresentante di commercio, un tutt’uno con la sua Fiat 1100/103. Era forse il 1965.




















