Leggo racconto scrivo

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IPSAR “GALILEO FERRARIS” – CASERTA Luca Dalisi

Leggo racconto scrivo Un percorso didattico di Italiano per le classi prime della scuola secondaria di II grado


Appunti per il docente / indice ragionato: Uno: RACCONTARE

(p. 3 – 15)

Sui testi di Kafka si può utilizzare un approccio più immediato e lavorare sul piano emozionale. Possono essere utilizzati per la libera interpretazione o come spunto per la narrazione di sé, preferibilmente predisponendo un setting adatto (disposizione in cerchio). Sui testi di Rodari si può passare ad un lavoro interpretativo più accurato. Oltre all’aspetto emozionale e ai legami con il vissuto si può lavorare: sul messaggio dell’autore; sulla struttura del racconto (narratore, sequenze ecc); sul personaggio (es. LABORATORIO DI SCRITTURA: “CREA UN PERSONAGGIO”) La favola di Fedro, oltre che per il lavoro interpretativo, può rappresentare un collegamento tra le discipline di Italiano e Storia (può essere utile nel periodo in cui la classe affronta la polis nel programma di Storia). Tracce per verifiche scritte ed esercitazioni sono poste dopo i testi a cui fanno riferimento per facilitare il lavoro di verifica/esercitazione/laboratorio (di scrittura, di discussione, attività di gruppo ecc). Due: RACCONTARE 2

(p. 16 – 29)

Il percorso su narrazione, ascolto/comprensione, interpretazione e creazione (scritta/orale) prosegue ad un livello più approfondito con i brani da Cervantes e Carroll, Buzzati e ancora Kafka. Infine un primo approccio alla poesia con due testi di Caproni. Il filo conduttore può essere l’avventura (don Chisciotte) e la fantasia, le paure (Alice nel paese delle Meraviglie), poi con testi più complessi il fantastico, il surreale, l’inquietudine introspettiva (Buzzati, Kafka, Caproni). Il brano dal don Chisciotte è stato utilizzato per attività individuali e di gruppo in cui agli alunni è stato chiesto di inventare: le cause della “visione” di don Chisciotte; ruoli e caratteristiche dei personaggi menzionati; l’incontro tra don Chisciotte e Sancio; il seguito della storia; un’intervista/dialogo tra i protagonisti. Alle tracce di verifica sono associati esercizi di grammatica (analisi logica). Tre: LABORATORIO IMMAGINE

(p. 30 – 36)

LABORATORIO IMMAGINE: come nella Prima parte, l’approccio è più immediato ed emozionale. Stavolta lo spunto è puramente visivo ed il lavoro di espressione (prima orale, poi scritta, poi eventualmente in gruppi) è più libero, e solo in una fase successiva si potrà elaborare quanto fatto in maniera più dettagliata (es. costruzione di un personaggio; scelta di un finale coerente; passaggio al racconto in 1a persona ecc). Dipinti di H. Rousseau, M. Ernst, D.C. Friedrich. Quattro: NARRATIVA

(p. 37 – 51)

Due racconti lunghi di Pirandello, soprattutto per lettura in classe; possibili attività: prova di ascolto/comprensione; sintesi; esercizi sul lessico; spunti per discussioni su tematiche di attualità (quastioni di genere). Cinque: ATTUALITÀ

(p. 52 – 55)

Articoli di Saviano e Quirico sulle migrazioni. Tracce per verifiche Sei: GRAMMATICA e VERIFICHE

(p. 56 – 64)

Sette: STORIA

(p. 65 – 72)

Esercizi, tracce e mappe per verifiche/esercitazioni di analisi logica, temi, argomenti di storia. Infine la scheda di valutazione per le prove scritte.

NOTA: per facilitare ed economizzare al massimo la stampa, le tracce, gli esercizi ed alcuni testi sono ripetuti più volte sulla stessa pagina (alcune pagine sono da stampare fronte/retro e/o da tagliare opportunamente in modo da ottenere più elementi dallo stesso foglio).


Il passeggero

I

n piedi sulla piattaforma del tram, mi trovo nella incertezza più assoluta sulla mia posizione in questo mondo, in questa città, nella mia famiglia. Incapace di precisare, sia pur vagamente, le pretese legittime da avanzare da qualche parte. Non posso nulla, se mi trovo su questa piattaforma, se mi tengo a questo sostegno, se mi faccio trasportare da questa vettura, se c’è gente che scansa la vettura o cammina tranquilla o si ferma davanti le vetrine. Del resto, nessuno lo pretende da me, ma non importa. La vettura s’avvicina a una fermata, una ragazza s’accosta al predellino, pronta a scendere. L’ho davanti e mi pare di conoscerla a perfezione, quasi l’avessi modellata con le mie mani. Vestita di nero, la gonna immobile nelle sue pieghe, la camicetta attillata, col collo di fine candida trina, s’appoggia con la mano aperta alla parete; l’ombrello, stretto nella destra, puntato contro il secondo gradino. Il viso è bruno; il naso, stretto alla radice, s’allarga e arrotonda sulla punta. Ha capelli folti e scuri, corti e scomposti sulla tempia destra. L’orecchio è piccolo e aderente; tuttavia, vicino come sono, posso vedere la parte posteriore del padiglione dell’orecchio destro e l’ombra alla sua attaccatura. Allora mi chiesi: “Come mai non è stupita di se stessa, tiene la bocca chiusa e non dice nulla che risponda ai miei pensieri?”

Gli alberi

Siamo come tronchi nella neve. Posano in apparenza, leggeri, tu pensi di poterli smuovere, con un lieve tocco. Invece no, non puoi, perché sono confitti al suolo. Ma, vedi, anche questa è soltanto apparenza.

Franz Kafka, Racconti

Il passeggero

I

n piedi sulla piattaforma del tram, mi trovo nella incertezza più assoluta sulla mia posizione in questo mondo, in questa città, nella mia famiglia. Incapace di precisare, sia pur vagamente, le pretese legittime da avanzare da qualche parte. Non posso nulla, se mi trovo su questa piattaforma, se mi tengo a questo sostegno, se mi faccio trasportare da questa vettura, se c’è gente che scansa la vettura o cammina tranquilla o si ferma davanti le vetrine. Del resto, nessuno lo pretende da me, ma non importa. La vettura s’avvicina a una fermata, una ragazza s’accosta al predellino, pronta a scendere. L’ho davanti e mi pare di conoscerla a perfezione, quasi l’avessi modellata con le mie mani. Vestita di nero, la gonna immobile nelle sue pieghe, la camicetta attillata, col collo di fine candida trina, s’appoggia con la mano aperta alla parete; l’ombrello, stretto nella destra, puntato contro il secondo gradino. Il viso è bruno; il naso, stretto alla radice, s’allarga e arrotonda sulla punta. Ha capelli folti e scuri, corti e scomposti sulla tempia destra. L’orecchio è piccolo e aderente; tuttavia, vicino come sono, posso vedere la parte posteriore del padiglione dell’orecchio destro e l’ombra alla sua attaccatura. Allora mi chiesi: “Come mai non è stupita di se stessa, tiene la bocca chiusa e non dice nulla che risponda ai miei pensieri?”

Gli alberi

Siamo come tronchi nella neve. Posano in apparenza, leggeri, tu pensi di poterli smuovere, con un lieve tocco. Invece no, non puoi, perché sono confitti al suolo. Ma, vedi, anche questa è soltanto apparenza.

Franz Kafka, Racconti


UN SOGNO Josef K. sognò: Era una bella giornata, e K. volle andare a passeggio. Fatti appena due passi, fu al cimitero. C’erano viottoli molto complicati, scomodi e tortuosi, ma egli ne percorse uno quasi fosse sopra un’acqua rapinosa, mantenendo un perfetto equilibrio. Vide da lontano un tumulo ancora fresco e là decise di fermarsi. Quel mucchio di terra l’affascinava, gli sembrava di non poterlo raggiungere abbastanza presto. A volte glielo nascondeva un gruppo di bandiere che si torcevano e schioccavano; i vessilliferi si mantenevano invisibili, ma dovevano essere molto allegri. Continuava a guardare lontano, quando si accorse che il tumulo gli stava accanto, l’aveva, anzi, già oltrepassato. Saltò subito sul prato. Siccome il sentiero continuava a filare via sotto i suoi piedi, perse l’equilibrio e cadde in ginocchio proprio davanti al tumulo. Due uomini, dietro la fossa, stavano alzando una pietra tombale, reggendola uno da una parte e uno dall’altra: appena scorsero K., lasciarono cadere la pietra, che rimase confitta nel suolo, come cementata. Da un cespuglio uscì fuori un terzo uomo, nel quale K. ravvisò un artista. Indossava una camicia male abbottonata, in testa portava una berretta di velluto, e in mano stringeva una matita, con la quale tracciava segni nell’aria. Con la matita cominciò a scrivere sull’estremità superiore della pietra. Questa era alta abbastanza, perché non si dovesse curvare; tuttavia si piegò, perché non voleva calpestare il tumulo posto tra lui e la pietra stessa. Si reggeva sulla punta dei piedi, appoggiandosi con la sinistra alla pietra. Grazie a un abilissimo procedimento, con la matita comune riusciva a tracciare lettere d’oro. Scrisse: Qui giace... Ogni lettera appariva perfettamente e profondamente incisa, elegante, in oro puro. Scritte le due parole, si volse verso K.; questi, ansioso di conoscere il seguito dell’iscrizione, senza badare all’uomo, teneva gli occhi fissi sulla pietra. L’altro volle riprendere la scrittura, ma non gli fu possibile, doveva esserci un impedimento; lasciò cadere la matita e si volse di nuovo verso K. Questa volta anche K. guardò l’artista e notò che era molto imbarazzato, senza che capisse perché. La vivacità di cui aveva dato prova sino a quel momento era scomparsa. Allora anche K. si sentì imbarazzato. Si scambiarono sguardi perplessi: doveva esserci uno sgradevole malinteso, che nessuno sapeva chiarire. A questo punto, la piccola campana della cappella del cimitero cominciò, a ora indebita, a suonare; l’artista fece un cenno con la mano alzata e quella tacque. Riprese pianissimo, dopo un poco, e di nuovo tacque, senza bisogno di ordini: fu come se volesse provare la voce. K. non riusciva a darsi pace per la difficoltà in cui era l’artista: cominciò a piangere e singhiozzò a lungo, le mani sul viso. L’artista attese che K. si fosse calmato, quindi, visto che non c’era via d’uscita, decise di continuare a scrivere. Il primo, piccolo segno tracciato, rappresentò per K. un grande sollievo, sebbene fosse evidente che l’artista ne era venuto a capo solo con estrema ripugnanza. La scrittura non era più così bella, soprattutto sembrava povera d’oro, i tratti si sviluppavano sbiaditi e incerti, ma la lettera diventò molto grande. La J era quasi ormai finita, quando l’artista, furioso, tirò un calcio contro il tumulo, facendo volare in aria la terra. K., finalmente, capì: ma era troppo tardi per chiedergli di desistere. Già affondava le dita nella terra, che subito cedette: tutto sembrava predisposto, il sottile strato di terra era solo un inganno, si spalancò una voragine dalle pareti scoscese in cui K., ribaltato sul dorso da una lieve corrente, precipitò. Mentre calava in quella profondità impenetrabile, la testa ancora riversa verso l’alto, il suo nome serpeggiò fulmineo, tra immensi arabeschi, sulla pietra. Estasiato da quella vista, si destò.

Franz Kafka (dai Racconti) Dopo aver letto il racconto “UN SOGNO” di Franz Kafka, analizziamolo e commentiamolo, soffermandoci su alcune domande: Quale situazione descrive l’autore? Qual è il suo punto di vista? E le sue sensazioni? Quanti e quali personaggi sono presenti nel testo? Quali parole ci fanno “vedere” uno spazio fisico e/o immaginario? Quali sensazioni suscita in te? Per quali ragioni questo testo ti è piaciuto/non ti è piaciuto?


TONINO L’INVISIBILE

U

na volta un ragazzo di nome Tonino andò a scuola che non sapeva la lezione ed era molto preoccupato al pensiero che il maestro lo interrogasse. «Ah, – diceva tra sé, – se potessi diventare invisibile... » Il maestro fece l’appello, e quando arrivò al nome di Tonino, il ragazzo rispose: – Presente! – ma nessuno lo sentí, e il maestro, disse: – Peccato che Tonino non sia venuto, avevo giusto pensato di interrogarlo. Se è ammalato, speriamo che non sia niente di grave. Così Tonino comprese di essere diventato invisibile, come aveva desiderato. Per la gioia spiccò un salto dal suo banco e andò a finire nel cestino della carta straccia. Si rialzò e si aggirò qua e là per la classe, tirando i capelli a questo e a quello e rovesciando i calamai. Nascevano rumorose proteste, litigi a non finire. Gli scolari si accusavano l’un l’altro di quei dispetti, e non potevano sospettare che la colpa era invece di Tonino l’invisibile. Quando si fu stancato di quel gioco Tonino uscì dalla scuola e salì su un filobus, naturalmente senza pagare il biglietto, perché il fattorino non poteva vederlo. Trovò un posto libero e si accomodò. Alla fermata successiva salì una signora con la borsa della spesa e fece per sedersi proprio in quel sedile, che ai suoi occhi era libero. Invece si sedette sulle ginocchia di Tonino, che si sentì soffocare. La signora gridò: – Che tranello è questo? Non ci si può più nemmeno sedere? Guardate, faccio per posare la borsa e rimane sospesa per aria. La borsa in realtà era posata sulle ginocchia di Tonino. Nacque una gran discussione, e quasi tutti i passeggeri pronunciarono parole di fuoco contro l’azienda tranviaria. Tonino scese in centro, si infilò in una pasticceria e cominciò a servirsi a volontà, pescando a due mani tra maritozzi, bigné al cioccolato e paste d’ogni genere. La commessa, che vedeva sparire le paste dal banco, diede la colpa ad un dignitoso signore che stava comprando delle caramelle col buco per una vecchia zia. Il signore protestò: - Io ladro? Lei non sa con chi parla. Lei non sa chi era mio padre. Lei non sa chi era mio nonno! – Non voglio nemmeno saperlo, – rispose la commessa. – Come, si permette di insultare mio nonno! Fu una lite spaventosa. Corsero le guardie. Tonino l’invisibile scivolò tra le gambe del tenente e si avviò verso la scuola, per assistere all’uscita dei suoi compagni. Difatti li vide uscire, anzi, rotolare giù a valanga dai gradini della scuola, ma essi non lo videro affatto. Tonino si affannava invano a rincorrere questo e quello, a tirare i capelli al suo amico Roberto, a offrire un lecca-lecca al suo amico Guiscardo. Non lo vedevano, non gli davano retta per nulla, i loro sguardi lo trapassavano come se fosse stato di vetro. Stanco e un po’ scoraggiato Tonino rincasò. Sua madre era al balcone ad aspettarlo. – Sono qui, mamma! – gridò Tonino. Ma essa non lo vide e non lo udì, e continuava a scrutare ansiosamente la strada alle sue spalle. – Eccomi, papà, – esclamò Tonino, quando fu in casa, sedendosi a tavola al suo solito posto. Ma il babbo mormorava, inquieto: – Chissà perché Tonino tarda tanto. Non gli sarà mica successa qualche disgrazia? – Ma sono qui, sono qui! Mamma, papà! – gridava Tonino. Ma essi non udivano la sua voce. Tonino ormai piangeva, ma a che servono lacrime, se nessuno può vederle? – Non voglio più essere invisibile, – si lamentava Tonino, col cuore in pezzi. – Voglio che mio padre mi veda, che mia madre mi sgridi, che il maestro mi interroghi! Voglio giocare con i miei amici! È brutto essere invisibili, è brutto star soli. Uscì sulle scale e scese lentamente in cortile. – Perché piangi? – gli domandò un vecchietto, seduto a prendere il sole su una panchina. – Ma lei mi vede? – domandò Tonino, pieno d’ansia. – Ti vedo sì. Ti vedo tutti i giorni andare e tornare da scuola. – Ma io non l’ho mai visto, lei. – Eh, lo so. Di me non si accorge nessuno. Un vecchio pensionato, tutto solo, perché i ragazzi dovrebbero guardarlo? Io per voi sono proprio come l’uomo invisibile. – Tonino! – gridò in quel momento la mamma dal balcone. – Mamma, mi vedi? – Ah, non dovrei vederti, magari. Vieni, vieni su e sentirai il babbo. – Vengo subito, mamma – gridò Tonino pieno di gioia. – Non ti fanno paura gli sculaccioni? – rise il vecchietto. Tonino gli volò al collo e gli diede un bacio. – Lei mi ha salvato – disse. – Eh, che esagerazione, – disse il vecchietto.

Gianni Rodari, Favole al telefono


PIGMALIONE

V

iveva a Cipro, ai tempi delle favole antiche, un giovane scultore di nome Pigmalione. Egli amava la sua arte sopra ogni altra cosa al mondo. Quando i cavatori gli portavano un nuovo blocco di marmo, si metteva a studiarlo, gli girava intorno accarezzandolo e si domandava: – Quale strana creatura vive prigioniera dentro questo blocco? È un uomo o un dio, una donna o una fiera? Una volta immaginò una fanciulla. Doveva essere la più bella fanciulla che mai si fosse vista a Cipro, anzi in tutto il Mediterraneo. Cominciò a lavorare con tanto entusiasmo che parlava ad alta voce e diceva: – Lo so, lo so che tu dormi lì dentro da mille e mille anni, da quando il mondo è cominciato. Ma ora io ti vengo a liberare. Abbi ancora un poco di pazienza e vedrai la luce. Lavorò per giorni e giorni senza riposo, mangiando appena qualche boccone in fretta, e non voleva vedere nessuno. Pigmalione tratteneva il fiato, vedendo nascere dal marmo, un colpo dopo l’altro, la bellissima giovinetta. Esitava, aveva quasi paura di farle male con lo scalpello mentre le sottolineava il naso, la bocca, le piccole orecchie seminascoste dai capelli ricciuti. Lisciò ad una ad una con cura le pieghe della sua tunica. Le dita delle mani non gli sembravano mai abbastanza affusolate. Le fece degli eleganti calzari. Quando ebbe finito di scolpirle gli occhi, parlò alla fanciulla come se essa avesse potuto capire le sue parole: – Ti terrò sempre con me, – disse, – non ci separeremo mai. Sei bella come pensavo, non nascerà mai una donna più bella di te. Nell’intento di farle piacere, Pigmalione tinse le labbra della statua col rossetto, le disegnò lunghe ciglia nere, le colorò le unghie delle mani e dei piedi, le spazzolò a lungo i capelli. Al calar della notte, con mille precauzioni, la fece scendere dal suo piedistallo, la coricò nel suo proprio letto e le rimboccò le coperte sotto il mento. – Dormi, – le diceva, sdraiandosi a sua volta sul pavimento, – io veglierò su di te, perché nessuno disturbi il tuo sonno. Ogni giorno le cambiava l’abito, prendendo dal guardaroba di sua madre un mantello rosso, una tunica ricamata, una cintura ornata di pietre preziose, dei veli di seta. Vestiva e rivestiva la statua come le bambine fanno con le loro bambole. Le portava dei giocattoli, le offriva la frutta più fresca, i dolci piti squisiti. Posava tutta quella roba ai piedi della statua e non dava alcuna importanza al fatto che essa non toccava nulla e non guardava nulla. E intanto, per ore e ore, le parlava vezzeggiandola, le raccontava lunghe favole, le riferiva le notizie della casa

e della città che riuscivano, in qualche modo, a giungere fino a lui. Infatti Pigmalione non usciva quasi mai, non voleva vedere nessuno, e mandava via con parole sgarbate i pochi amici che andavano a visitarlo pensando che stesse male. Non scolpiva nemmeno più. I suoi genitori, stando fuori della sua stanza, gli parlavano accorati: – Figliolo, torna in te. Non puoi amare un pezzo di pietra. Non puoi trascurare la vita per un giocattolo. – Lasciatemi in pace, – egli rispondeva, – ho tutto ciò che voglio e non desidero altro. E tornava a parlare con la sua statua, immaginando anche le risposte e rallegrandosi di esse. – Ah, come sei gentile, come sei spiritosa! Proprio così fanno le bambine con le loro bambole. Ma poi le bambine crescono e mettono le bambole da un canto. Pigmalione, invece, che era un giovanotto alto e robusto, ed anche un bel giovanotto, si comportava come un bambino che non volesse crescere. A lungo andare, però, egli divenne nervoso e inquieto. Anche mentre fingeva che la statua gli parlava e gli diceva cose gentili, la parte sana del suo cervello si accorgeva benissimo che la statua rimaneva muta e fredda, e diceva a Pigmalione: – Sciocco insensato, non vedi che è morta? Pigmalione si irritava e si sforzava di mettere a tacere quella voce, ma essa parlava sempre più forte, e lo induceva alla disperazione. La sua gioia si spegneva come un fuoco di paglia, e il suo cuore era infelice. La leggenda dice che egli un giorno si recò a pregare Venere nel suo santuario, e che la dea dell’amore ascoltò la sua preghiera. Secondo questa leggenda, Pigmalione tornando a casa trovò che la statua si era mutata in una fanciulla di carne e d’ossa, innamorata di lui come egli era innamorato di lei; egli la chiamò Galatea e la sposò. Le cose, però, non sono andate così. È vero che egli andò al tempio di Venere in pellegrinaggio. La leggenda non dice però che, mentre tornava a casa, incontrò una fanciulla che era stata, molti anni prima, sua compagna di giochi. Da un pezzo egli non la vedeva, e se la ricordava ancora bambina: ma ora era cresciuta ed era diventata una donna assai bella. Ella gli rivolse la parola e gli disse soltanto: – Ciao, Pigmalione. Ma mentre glielo diceva lo guardò con i suoi occhi neri e ridenti. E dopo aver guardato dentro quegli occhi vivi Pigmalione cessò improvvisamente di desiderare che gli occhi di marmo della sua statua rispondessero. Si innamorò della fanciulla vera e la sposò, e fece delle bellissime statue che però non rappresentavano più i suoi sogni ma sua moglie, i suoi figli, gli amici e la vita che lo aveva riassorbito nel suo fiume dalle onde robuste e serene.

Gianni Rodari (da Il libro degli errori)


IL GIOVANE GAMBERO

U

n giovane gambero pensò: «Perché nella mia famiglia tutti camminano all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco». Cominciò a esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica: urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole. Quando fu ben sicuro di sé, si presentò alla sua famiglia e disse: – State a vedere. E fece una magnifica corsetta in avanti. – Figlio mio, – scoppiò a piangere la madre, – ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, cammina come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene. I suoi fratelli però non facevano che sghignazzare. Il padre lo stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse: – Basta così. Se vuoi restare con noi, cammina come gli altri gamberi. Se vuoi fare di testa tua, il ruscello è grande: vattene e non tornare più indietro. Il bravo gamberetto voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò per il mondo. Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di rane, che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere intorno a una foglia di ninfea. – Il mondo va a rovescio, – disse una rana, – guardate quel gambero e datemi torto, se potete. – Non c’è più rispetto, – disse un’altra rana. – Ohibò ohibò, – disse un terza. Ma il gamberetto proseguì diritto, è proprio il caso di dirlo, per la sua strada. A un certo punto si sentì chiamare da un vecchio gamberone dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo accanto ad un sasso. – Buon giorno, – disse il giovane gambero. Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: – Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di insegnare ai gamberi a camminare in avanti. Ed ecco cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente si mozzerebbe la lingua, piuttosto che rivolgermi la parola. Fin che sei in tempo, da’ retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio. Il giovane gambero non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava: «Ho ragione io». E salutato gentilmente il vecchio riprese fieramente il suo cammino. Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: – Buon viaggio!

G. Rodari, Favole al telefono


LA VECCHIA ZIA ADA

L

a vecchia zia Ada, quando fu molto vecchia, andò ad abitare al ricovero dei vecchi, in una stanzina con tre letti, dove già stavano due vecchine, vecchie quanto lei. La vecchia zia Ada si scelse subito una poltroncina accanto alla finestra e sbriciolò un biscotto secco sul davanzale. – Brava, così verranno le formiche, – dissero le altre due vecchine, stizzite. Invece dal giardino del ricovero venne un uccellino, beccò di gusto il biscotto e volò via. – Ecco, – borbottarono le vecchine, – che cosa ci avete guadagnato? Ha beccato ed è volato via. Proprio come i nostri figli che se ne sono andati per il mondo, chissà dove, e di noi che li abbiamo allevati non si ricordano più. La vecchia zia Ada non disse nulla, ma tutte le mattine sbriciolava un biscotto sul davanzale e l’uccellino veniva a beccarlo sempre alla stessa ora puntuale come un pensionante, e se non era pronto bisognava vedere come si innervosiva. Dopo qualche tempo l’uccellino portò anche i suoi piccoli, perché aveva fatto il nido e gliene erano nati quattro, e anche loro beccarono di gusto il biscotto della vecchia zia Ada, e venivano tutte le mattine, e se non lo trovavano facevano un gran chiasso. – Ci sono i vostri uccellini, – dicevano allora le vecchine alla vecchia Ada, con un po’ d’invidia. E lei correva, per modo di dire, a passettini passettini, fino al suo cassettone, scovava un biscotto secco tra il cartoccio del caffè e quello delle caramelle all’anice e intanto diceva: – Pazienza, pazienza, sono qui che arrivo. – Eh, – mormoravano le altre vecchine, – se bastasse mettere un biscotto sul davanzale per far tornare i nostri figli. E i vostri, zia Ada, dove sono i vostri? La vecchia zia Ada non lo sapeva più: forse in Austria, forse in Australia; ma non si lasciava confondere, spezzava il biscotto agli uccellini e diceva loro: – Mangiate, su, mangiate, altrimenti non avrete abbastanza forza per volare. E quando avevano finito di beccare il biscotto: – Su, andate, andate. Cosa aspettate ancora? Le ali sono fatte per volare. Le vecchine crollavano il capo e pensavano che la vecchia zia Ada fosse un po’ matta, perché vecchia e povera com’era, aveva ancora qualcosa da regalare e non pretendeva nemmeno che le dicessero grazie. Poi la vecchia zia Ada morì, e i suoi figli lo seppero solo dopo un bel po’ di tempo, e non valeva più la pena di mettersi in viaggio per il funerale. Ma gli uccellini tornarono per tutto l’inverno sul davanzale della finestra e protestavano perché la vecchia zia Ada non aveva preparato il biscotto.

IL SOLE E LA NUVOLA

I

l sole viaggiava in cielo, allegro e glorioso sul suo carro di fuoco, gettando i suoi raggi in tutte le direzioni, con grande rabbia di una nuvola di umore temporalesco, che borbottava: – Sciupone, mano bucata, butta via, butta via i tuoi i raggi, vedrai quanti te ne rimangono. Nelle vigne ogni acino d’uva che maturava sui tralci rubava un raggio al minuto, o anche due; e non c’era filo d’erba, o ragno, o fiore, o goccia d’acqua, che non si prendesse la sua parte. – Lascia, lascia che tutti ti derubino: vedrai come ti ringrazieranno, quando non avrai più niente da farti rubare. Il sole continuava allegramente il suo viaggio, regalando raggi a milioni, a miliardi, senza contarli. Solo al tramonto contò i raggi che gli rimanevano: e guarda un po’, non gliene mancava nemmeno uno. La nuvola, per la sorpresa, si sciolse in grandine. Il sole si tuffò allegramente nel mare.

G. Rodari, Favole al telefono


IPSAR “GALILEO FERRARIS” – CASERTA – PROVA DI ITALIANO CLASSI PRIME Dopo aver letto attentamente il racconto Tonino l’invisibile di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • Chi è e cosa fa il personaggio principale? • Il racconto ti è piaciuto / non ti è piaciuto? Perché? • Perché Tonino alla fine è contento, anche se probabilmente sarà sgridato dai genitori? IPSAR “GALILEO FERRARIS” – CASERTA – PROVA DI ITALIANO CLASSI PRIME Dopo aver letto attentamente il racconto Tonino l’invisibile di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • Chi è e cosa fa il personaggio principale? • Il racconto ti è piaciuto / non ti è piaciuto? Perché? • Perché Tonino alla fine è contento, anche se probabilmente sarà sgridato dai genitori? IPSAR “GALILEO FERRARIS” – CASERTA – PROVA DI ITALIANO CLASSI PRIME Dopo aver letto attentamente il racconto Tonino l’invisibile di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • Chi è e cosa fa il personaggio principale? • Il racconto ti è piaciuto / non ti è piaciuto? Perché? • Perché Tonino alla fine è contento, anche se probabilmente sarà sgridato dai genitori? IPSAR “GALILEO FERRARIS” – CASERTA – PROVA DI ITALIANO CLASSI PRIME Dopo aver letto attentamente il racconto Tonino l’invisibile di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • Chi è e cosa fa il personaggio principale? • Il racconto ti è piaciuto / non ti è piaciuto? Perché? • Perché Tonino alla fine è contento, anche se probabilmente sarà sgridato dai genitori? IPSAR “GALILEO FERRARIS” – CASERTA – PROVA DI ITALIANO CLASSI PRIME Dopo aver letto attentamente il racconto Tonino l’invisibile di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • Chi è e cosa fa il personaggio principale? • Il racconto ti è piaciuto / non ti è piaciuto? Perché? • Perché Tonino alla fine è contento, anche se probabilmente sarà sgridato dai genitori? IPSAR “GALILEO FERRARIS” – CASERTA – PROVA DI ITALIANO CLASSI PRIME Dopo aver letto attentamente il racconto Tonino l’invisibile di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • Chi è e cosa fa il personaggio principale? • Il racconto ti è piaciuto / non ti è piaciuto? Perché? • Perché Tonino alla fine è contento, anche se probabilmente sarà sgridato dai genitori?


Dopo aver letto attentamente i racconti La vecchia zia Ada e Il sole e la nuvola di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Chi sono e cosa fanno i personaggi principali? • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • I racconti ti sono piaciuti / non ti sono piaciuti? Perché? Quale confronto possiamo fare tra i due? • Descrivine i personaggi, completandone le caratteristiche fisiche e psicologiche secondo quanto puoi immaginare dalle storie. Grammatica: nei testi presentati individua: 3 predicati nominali / 3 verbi transitivi attivi con complemento oggetto / 3 verbi intransitivi Dopo aver letto attentamente i racconti La vecchia zia Ada e Il sole e la nuvola di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Chi sono e cosa fanno i personaggi principali? • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • I racconti ti sono piaciuti / non ti sono piaciuti? Perché? Quale confronto possiamo fare tra i due? • Descrivine i personaggi, completandone le caratteristiche fisiche e psicologiche secondo quanto puoi immaginare dalle storie. Grammatica: nei testi presentati individua: 3 predicati nominali / 3 verbi transitivi attivi con complemento oggetto / 3 verbi intransitivi Dopo aver letto attentamente i racconti La vecchia zia Ada e Il sole e la nuvola di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Chi sono e cosa fanno i personaggi principali? • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • I racconti ti sono piaciuti / non ti sono piaciuti? Perché? Quale confronto possiamo fare tra i due? • Descrivine i personaggi, completandone le caratteristiche fisiche e psicologiche secondo quanto puoi immaginare dalle storie. Grammatica: nei testi presentati individua: 3 predicati nominali / 3 verbi transitivi attivi con complemento oggetto / 3 verbi intransitivi Dopo aver letto attentamente i racconti La vecchia zia Ada e Il sole e la nuvola di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Chi sono e cosa fanno i personaggi principali? • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • I racconti ti sono piaciuti / non ti sono piaciuti? Perché? Quale confronto possiamo fare tra i due? • Descrivine i personaggi, completandone le caratteristiche fisiche e psicologiche secondo quanto puoi immaginare dalle storie. Grammatica: nei testi presentati individua: 3 predicati nominali / 3 verbi transitivi attivi con complemento oggetto / 3 verbi intransitivi Dopo aver letto attentamente i racconti La vecchia zia Ada e Il sole e la nuvola di Gianni Rodari, fanne un breve riassunto e poi un commento con tue osservazioni personali. Puoi aiutarti rispondendo alle domande: • Chi sono e cosa fanno i personaggi principali? • Cosa ha voluto dirci l’autore, secondo te? • I racconti ti sono piaciuti / non ti sono piaciuti? Perché? Quale confronto possiamo fare tra i due? • Descrivine i personaggi, completandone le caratteristiche fisiche e psicologiche secondo quanto puoi immaginare dalle storie. Grammatica: nei testi presentati individua: 3 predicati nominali / 3 verbi transitivi attivi con complemento oggetto / 3 verbi intransitivi


LA STRADA CHE NON ANDAVA IN NESSUN POSTO

A

di G.

Rodari

ll’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto. Martino lo sapeva perché l’aveva chiesto un po’ a tutti e da tutti aveva avuto la stessa risposta: – Quella strada lì? Non va in nessun posto!È inutile camminarci. – E fin dove arriva? – Non arriva da nessuna parte – Ma allora perché l’hanno fatta? – Ma non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì! – Ma nessuno è mai andato a vedere? – oh, sei una bella testa dura! Se ti diciamo che non c’è niente da vedere... – Non potete saperlo se non ci siete stati mai. Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo “Martino Testadura” ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto. Quando fu abbastanza grande da attraversare la strada senza dare la mano al nonno, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. Il fondo era pieno di buche e di erbacce ma per fortuna non pioveva da un pezzo così non c’erano pozzanghere; a destra e a sinistra si allungava una siepe ma ben presto cominciarono i boschi. I rami degli alberi si intrecciavano al di sopra della strada e formavano una galleria oscura e fresca nella quale penetrava solo quà e là qualche raggio di sole a far da fanale. Cammina e cammina... la galleria non finiva mai, la strada non finiva mai. A Martino dolevano i piedi e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane. – Dove c’è un cane c’è una casa – riflettè Martino – o perlomeno un uomo! Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani, poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora. – Vengo!Vengo! – diceva Martino incuriosito. Finalmente il bosco cominciò a diradarsi, in alto riapparve il cielo e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro. Attraverso le sbarre Martino vide un castello con tutte le porte e le finestre spalancate e il fumo usciva da tutti i comignoli e da un balcone una bellissima signora salutava con la mano e gridava allegramente: – Avanti! Avanti, Martino Testadura! – Toh! – si rallegrò Martino – io non sapevo che sarei arrivato.. ma lei sì! Spinse il cancello, attraversò il parco ed entrò nel salone del castello in tempo per fare l’inchino alla bella signora che scendeva dallo scalone. Era bella! E vestita anche meglio delle fate, delle principesse e in più era proprio allegra e rideva. – Allora non ci hai creduto! – A che cosa? – Alla storia della strada che non andava in nessun posto – Era troppo stupida e secondo me ci sono anche più posti che strade! – certo! Basta aver voglia di muoversi! Ora vieni, ti farò visitare il castello. C’erano più di cento saloni zeppi di tesori d’ogni genere, come quei castelli delle favole dove dormono le belle addormentate o dove gli orchi ammassano le loro ricchezze. C’erano diamanti, pietre preziose, oro, argento e ogni momento la bella signora diceva: – Prendi! Prendi quello che vuoi! Ti presterò un carretto per portare il peso. Figuratevi se Martino si fece pregare! Il carretto era ben pieno quando egli ripartì. A cassetta sedeva il cane che era un cane ammaestrato e sapeva reggere le briglie e abbaiare ai cavalli quando sonnecchiavano e uscivano di strada. In paese, dove l’avevan già dato per morto, Martino Testadura fu accolto con grande sorpresa. Il cane scaricò in piazza tutti i suoi tesori, dimenò due volte la coda in segno di saluto, rimontò a cassetta e via, in una nuvola di polvere! Martino fece grandi regali a tutti, amici e nemici e dovette raccontare cento volte la sua avventura e ogni volta che finiva, qualcuno correva a casa a prendere carretto e cavallo e si precipitava giù per la strada che non andava in nessun posto. Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l’altro con la faccia lunga così per il dispetto: la strada per loro finiva in mezzo al bosco, contro un fitto muro d’alberi, in un mare di spine. Non c’era più né cancello, né castello, né bella signora, perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova e il primo era stato Martino Testadura.


LA COPERTA DEL SOLDATO

di G.

Rodari

I

l soldato Vincenzo Di Giacomo, alla fine di tutte le guerre, tornò a casa con una divisa lacera, una gran tosse e una coperta militare. La tosse e la coperta rappresentavano tutto il suo guadagno per quei lunghi anni di guerra. – Ora mi riposerò, – disse ai suoi familiari. Ma la tosse non gli diede riposo, e in pochi mesi lo portò alla tomba. Alla moglie ed ai figli rimase solo la coperta per ricordo. I figli erano tre, e il piú piccolo, nato tra una guerra e l’altra, aveva cinque anni. La coperta del soldato toccò a lui. Quando vi si avvolgeva per dormire, la mamma gli narrava una lunga favola, e nella favola c’era una fata che tesseva una coperta grande abbastanza da coprire tutti i bambini del mondo che avevano freddo. Ma c’era sempre qualche bambino che restava fuori, e piangeva, e chiedeva invano un angolo di coperta per scaldarsi. Allora la fata doveva disfare tutta la coperta e ricominciare da capo a tesserla, per farla un po’ piú grande, perché doveva essere una coperta di un solo pezzo, tessuta tutta in una volta, e non si potevano fare aggiunte. La buona fata lavorava giorno e notte a fare e disfare, e non si stancava mai, e il piccolo si addormentava sempre prima che la favola fosse finita, e non seppe mai come andava a finire.

Il piccolo si chiamava Gennaro, e quella famigliola abitava dalle parti di Cassino. L’inverno fu molto rigido, da mangiare non ce n’era, la madre di Gennaro si ammalò. Gennaro venne affidato a certi vicini, che erano girovaghi, e avevano un carrozzone, e viaggiavano per i paesi un po’ chiedendo l’elemosina, un po’ suonando la fisarmonica, un po’ vendendo ceste di vimini che fabbricavano nelle soste lungo la strada. A Gennaro diedero una gabbia con un pappagallo che, col becco, toglieva da una cassettina un biglietto con i numeri da giocare al lotto. Gennaro doveva mostrare il pappagallo alla gente, e se gli davano qualche moneta faceva pescare un bigliettino al pappagallo. Le giornate erano lunghe e noiose, spesso si capitava in paesi dove la gente era povera e non aveva niente da dare in elemosina, e allora a Gennaro toccava una fetta di pane piú sottile, e una scodella di minestra piú vuota. Ma quando la notte calava Gennaro si avvolgeva nella coperta del babbo soldato, che era tutta la sua ricchezza, e nel suo odoroso tepore si addormentava sognando un pappagallo che gli raccontava una favola. Uno dei girovaghi era stato soldato col padre di Gennaro, si affezionò al bambino, gli spiegava le cento cose che si incontravano lungo la strada e per divertimento gli insegnava a leggere i cartelli coi nomi dei paesi e delle città. – Vedi? Quella è A. Quell’altro secco secco, che pare un bastone senza manico, è I. Quel bastone con la gobba è P. Gennaro imparava presto. Il girovago gli comprò un quaderno e una matita e gli insegnava a ricopiare i cartelli stradali. Gennaro riempiva pagine e pagine col nome di ANCONA, o con quello di PESARO, e un giorno riuscí a scrivere da solo il proprio nome, lettera per lettera, senza un errore. Che bei sogni, quella notte, nella coperta del babbo soldato. E che bella storia è questa, anche se non finisce e rimane lì, a mezz’aria, come un punto interrogativo senza risposta.


Le rane chiedono un re

N

el tempo in cui leggi egualitarie facevano prosperare Atene, la libertà sfrenata sconvolse lo stato, e l’anarchia sciolse i freni di un tempo. A questo punto, in seguito a un accordo tra le fazioni politiche, Pisistrato occupa l’acropoli e si fa tiranno. Gli Ateniesi piangevano la loro dolorosa schiavitù (non perché lui fosse crudele, ma perché è gravoso ogni peso per chi non vi è abituato); e quando presero a lamentarsi, Esopo raccontò loro questa storiella: «Le rane, abituate a girare liberamente nel loro stagno, con gran chiasso domandarono a Giove un re che con la forza reprimesse la maniera sregolata di vivere. Il padre degli dèi rise e diede loro un piccolo ramoscello che, appena gettato nello stagno, con il suo tonfo e con il movimento improvviso dell’acqua atterrì quelle timide genti. Le rane rimasero immerse nel pantano per un bel po’ di tempo; quand’ecco che una, senza fare rumore, tira su la testa dallo stagno e dopo avere esaminato il re, chiama fuori tutte le altre. Quelle, lasciato ogni timore, a gara si precipitano nuotando e in massa, sfacciatamente, saltano sopra il pezzo di legno. Dopo averlo insozzato con ogni tipo di oltraggio, inviarono un’ambasceria a Giove per avere un altro re, perché quello che era stato dato era una nullità. Allora Giove mandò loro una biscia che con i suoi denti aguzzi cominciò ad afferrarle a una a una. Incapaci di difendersi, le rane cercarono invano di sfuggire alla morte; la paura tolse loro la voce. Infine, di nascosto, affidarono a Mercurio l’incarico di pregare Giove che le soccorresse nella calamità. Ma il dio rispose: “Poiché non avete voluto sopportare il vostro bene, rassegnatevi a sopportare questo male”». «Anche voi, cittadini», disse Esopo, «tollerate questo male, affinché non ne venga uno maggiore».

Fedro (da Favole esopiche)

Le rane chiedono un re

N

el tempo in cui leggi egualitarie facevano prosperare Atene, la libertà sfrenata sconvolse lo stato, e l’anarchia sciolse i freni di un tempo. A questo punto, in seguito a un accordo tra le fazioni politiche, Pisistrato occupa l’acropoli e si fa tiranno. Gli Ateniesi piangevano la loro dolorosa schiavitù (non perché lui fosse crudele, ma perché è gravoso ogni peso per chi non vi è abituato); e quando presero a lamentarsi, Esopo raccontò loro questa storiella: «Le rane, abituate a girare liberamente nel loro stagno, con gran chiasso domandarono a Giove un re che con la forza reprimesse la maniera sregolata di vivere. Il padre degli dèi rise e diede loro un piccolo ramoscello che, appena gettato nello stagno, con il suo tonfo e con il movimento improvviso dell’acqua atterrì quelle timide genti. Le rane rimasero immerse nel pantano per un bel po’ di tempo; quand’ecco che una, senza fare rumore, tira su la testa dallo stagno e dopo avere esaminato il re, chiama fuori tutte le altre. Quelle, lasciato ogni timore, a gara si precipitano nuotando e in massa, sfacciatamente, saltano sopra il pezzo di legno. Dopo averlo insozzato con ogni tipo di oltraggio, inviarono un’ambasceria a Giove per avere un altro re, perché quello che era stato dato era una nullità. Allora Giove mandò loro una biscia che con i suoi denti aguzzi cominciò ad afferrarle a una a una. Incapaci di difendersi, le rane cercarono invano di sfuggire alla morte; la paura tolse loro la voce. Infine, di nascosto, affidarono a Mercurio l’incarico di pregare Giove che le soccorresse nella calamità. Ma il dio rispose: “Poiché non avete voluto sopportare il vostro bene, rassegnatevi a sopportare questo male”». «Anche voi, cittadini», disse Esopo, «tollerate questo male, affinché non ne venga uno maggiore».

Fedro (da Favole esopiche)


Leggi e commenta uno dei racconti o favole letti in classe. Soffermati sulla struttura del racconto, sul messaggio che l’autore ha voluto dare e sul significato che ha per te. Procedi ad un’analisi e commento del testo, mettendo in campo quanto fatto in classe e a casa: analizza la struttura del testo, scopri in che modo l’autore ci comunica il suo messaggio, commentane il significato rapportandolo ad una situazione reale. Per la favola di Esopo raccontata da Fedro, fa’ riferimento anche all’ordinamento politico di Atene nel periodo che abbiamo studiato (VII – V sec. a. C.). Per tutti i testi aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali?

L’antica Grecia. Parla della società greca arcaica e della nascita della polis, con particolare riferimento a Sparta e Atene, e del significato che i loro ordinamenti e modelli politici hanno per noi oggi. Puoi disegnare una mappa del Mediterraneo posizionando correttamente la Grecia, e i vari popoli, regni o città che conosci.

Leggi e commenta uno dei racconti o favole letti in classe. Soffermati sulla struttura del racconto, sul messaggio che l’autore ha voluto dare e sul significato che ha per te. Procedi ad un’analisi e commento del testo, mettendo in campo quanto fatto in classe e a casa: analizza la struttura del testo, scopri in che modo l’autore ci comunica il suo messaggio, commentane il significato rapportandolo ad una situazione reale. Per la favola di Esopo raccontata da Fedro, fa’ riferimento anche all’ordinamento politico di Atene nel periodo che abbiamo studiato (VII – V sec. a. C.). Per tutti i testi aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali?

L’antica Grecia. Parla della società greca arcaica e della nascita della polis, con particolare riferimento a Sparta e Atene, e del significato che i loro ordinamenti e modelli politici hanno per noi oggi. Puoi disegnare una mappa del Mediterraneo posizionando correttamente la Grecia, e i vari popoli, regni o città che conosci.

Leggi e commenta uno dei racconti o favole letti in classe. Soffermati sulla struttura del racconto, sul messaggio che l’autore ha voluto dare e sul significato che ha per te. Procedi ad un’analisi e commento del testo, mettendo in campo quanto fatto in classe e a casa: analizza la struttura del testo, scopri in che modo l’autore ci comunica il suo messaggio, commentane il significato rapportandolo ad una situazione reale. Per la favola di Esopo raccontata da Fedro, fa’ riferimento anche all’ordinamento politico di Atene nel periodo che abbiamo studiato (VII – V sec. a. C.). Per tutti i testi aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali?

L’antica Grecia. Parla della società greca arcaica e della nascita della polis, con particolare riferimento a Sparta e Atene, e del significato che i loro ordinamenti e modelli politici hanno per noi oggi. Puoi disegnare una mappa del Mediterraneo posizionando correttamente la Grecia, e i vari popoli, regni o città che conosci.

Leggi e commenta uno dei racconti o favole letti in classe. Soffermati sulla struttura del racconto, sul messaggio che l’autore ha voluto dare e sul significato che ha per te. Procedi ad un’analisi e commento del testo, mettendo in campo quanto fatto in classe e a casa: analizza la struttura del testo, scopri in che modo l’autore ci comunica il suo messaggio, commentane il significato rapportandolo ad una situazione reale. Per la favola di Esopo raccontata da Fedro, fa’ riferimento anche all’ordinamento politico di Atene nel periodo che abbiamo studiato (VII – V sec. a. C.). Per tutti i testi aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali?

L’antica Grecia. Parla della società greca arcaica e della nascita della polis, con particolare riferimento a Sparta e Atene, e del significato che i loro ordinamenti e modelli politici hanno per noi oggi. Puoi disegnare una mappa del Mediterraneo posizionando correttamente la Grecia, e i vari popoli, regni o città che conosci.


1. Un racconto che hai letto e che ti ha colpito: raccontalo a tua volta, arricchendolo con dialoghi e descrizioni. Puoi dire cosa ti è piaciuto o non ti è piaciuto della storia, come l’avresti concluso tu, quali idee ti ha suggerito. 2. Immagina una giornata di lavoro in una cucina o una sala di un grande ristorante. Puoi descriverla in forma di racconto, puoi descrivere una o più ricette che conosci e che ti piacerebbe mettere in pratica (senza tralasciare nulla di quello che hai imparato fin qui). 3. Musica, danza, gastronomia, arte, sport: molti di noi hanno una passione che è più di un semplice passatempo, ma un vero e proprio modo di cercare la felicità: parla di ciò che ti piace o piacerebbe fare, raccontando se vuoi anche delle difficoltà che incontri nell’inseguire i tuoi sogni. 4. Tra gli argomenti di Storia fin qui studiati scegline uno che hai trovato interessante e trattane in maniera il più possibile esaustiva (oltre agli eventi storici, parla degli aspetti sociali, culturali, religiosi e politici che li riguardano). 1. Un racconto che hai letto e che ti ha colpito: raccontalo a tua volta, arricchendolo con dialoghi e descrizioni. Puoi dire cosa ti è piaciuto o non ti è piaciuto della storia, come l’avresti concluso tu, quali idee ti ha suggerito. 2. Immagina una giornata di lavoro in una cucina o una sala di un grande ristorante. Puoi descriverla in forma di racconto, puoi descrivere una o più ricette che conosci e che ti piacerebbe mettere in pratica (senza tralasciare nulla di quello che hai imparato fin qui). 3. Musica, danza, gastronomia, arte, sport: molti di noi hanno una passione che è più di un semplice passatempo, ma un vero e proprio modo di cercare la felicità: parla di ciò che ti piace o piacerebbe fare, raccontando se vuoi anche delle difficoltà che incontri nell’inseguire i tuoi sogni. 4. Tra gli argomenti di Storia fin qui studiati scegline uno che hai trovato interessante e trattane in maniera il più possibile esaustiva (oltre agli eventi storici, parla degli aspetti sociali, culturali, religiosi e politici che li riguardano). 1. Un racconto che hai letto e che ti ha colpito: raccontalo a tua volta, arricchendolo con dialoghi e descrizioni. Puoi dire cosa ti è piaciuto o non ti è piaciuto della storia, come l’avresti concluso tu, quali idee ti ha suggerito. 2. Immagina una giornata di lavoro in una cucina o una sala di un grande ristorante. Puoi descriverla in forma di racconto, puoi descrivere una o più ricette che conosci e che ti piacerebbe mettere in pratica (senza tralasciare nulla di quello che hai imparato fin qui). 3. Musica, danza, gastronomia, arte, sport: molti di noi hanno una passione che è più di un semplice passatempo, ma un vero e proprio modo di cercare la felicità: parla di ciò che ti piace o piacerebbe fare, raccontando se vuoi anche delle difficoltà che incontri nell’inseguire i tuoi sogni. 4. Tra gli argomenti di Storia fin qui studiati scegline uno che hai trovato interessante e trattane in maniera il più possibile esaustiva (oltre agli eventi storici, parla degli aspetti sociali, culturali, religiosi e politici che li riguardano). 1. Un racconto che hai letto e che ti ha colpito: raccontalo a tua volta, arricchendolo con dialoghi e descrizioni. Puoi dire cosa ti è piaciuto o non ti è piaciuto della storia, come l’avresti concluso tu, quali idee ti ha suggerito. 2. Immagina una giornata di lavoro in una cucina o una sala di un grande ristorante. Puoi descriverla in forma di racconto, puoi descrivere una o più ricette che conosci e che ti piacerebbe mettere in pratica (senza tralasciare nulla di quello che hai imparato fin qui). 3. Musica, danza, gastronomia, arte, sport: molti di noi hanno una passione che è più di un semplice passatempo, ma un vero e proprio modo di cercare la felicità: parla di ciò che ti piace o piacerebbe fare, raccontando se vuoi anche delle difficoltà che incontri nell’inseguire i tuoi sogni. 4. Tra gli argomenti di Storia fin qui studiati scegline uno che hai trovato interessante e trattane in maniera il più possibile esaustiva (oltre agli eventi storici, parla degli aspetti sociali, culturali, religiosi e politici che li riguardano).


Nella tana del coniglio

A

lice cominciava a essere veramente stufa di starsene seduta senza far nulla accanto alla sorella, sulla riva del fiume. Una o due volte aveva provato a dare un’occhiata al libro che sua sorella stava leggendo, ma non c’erano né figure né dialoghi, e: “A che serve un libro – pensava Alice – senza figure e senza dialoghi?” A dire il vero non era possibile pensare molto, perché faceva così caldo che Alice si sentiva tutta assonnata e con le idee confuse: adesso si stava chiedendo se valesse la pena di alzarsi a raccogliere fiori per fare una collana di margherite, quand’ecco che improvvisamente un coniglio bianco con gli occhi rosa le passò davanti in fretta e furia. La cosa non sembrò troppo strana ad Alice. Non le parve neppure troppo strano che il Coniglio dicesse tra sé: “Povero me, povero me! arriverò tardi!” (Solo in un seguito, quando ripensò a questo fatto, Alice si rese conto che avrebbe dovuto meravigliarsene; sull’istante le sembrò una cosa del tutto naturale). Però quando il coniglio tirò fuori un orologio dal taschino del panciotto e, dopo avergli dato un’occhiata, affrettò il passo ancora di più, Alice balzò in piedi meravigliata, perché ricordava benissimo di non aver mai visto un coniglio con un taschino nel panciotto, né tantomeno con un orologio! Ormai era presa dalla curiosità: lo rincorse attraverso il campo, e arrivò appena in tempo per vederlo infilarsi in una grande buca sotto una siepe. Un momento dopo Alice s’infilava nella tana dietro di lui: non le venne neppure in mente di chiedersi come avrebbe fatto poi a uscirne. Per un tratto la tana era diritta come una galleria, poi sprofondava all’improvviso, ma così all’improvviso, che Alice non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò subito a cadere giù per quella specie di pozzo profondo. O il pozzo era veramente molto profondo oppure Alice stava cadendo lentamente: il fatto certo è che lei, prima d’arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitando. In un primo tempo cercò di guardare in basso per vedere dove stava andando a finire. Ma era troppo buio e non si vedeva niente. Allora guardò le pareti del pozzo e si accorse che erano piene di credenze e di scaffali. Da ogni parte si vedevano carte geografiche e quadri appesi ai chiodi. Alice prese a volo un barattolo da una credenza: sull’etichetta c’era scritto MARMELLATA DI ARANCE. Ma fu molto delusa quando si accorse che il barattolo era vuoto. Non voleva buttarlo via, perché aveva paura che, cadendo, potesse ammazzare qualcuno. Allora lo posò su un’altra credenza, mentre le passava davanti. “Bene!” pensava, “Dopo una caduta come questa, un capitombolo lungo le scale mi sembrerà uno scherzo! A casa diranno che sono proprio coraggiosa! Anzi sono sicura che non avrei paura nemmeno se dovessi cadere dal tetto!” (Questo, molto probabilmente, era vero). E cadeva, cadeva, cadeva. Ma non finiva mai di sprofondare? “Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto finora” disse ad alta voce. “Ormai devo esser vicina al centro della Terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi sembra...” (Alice aveva imparato parecchie cose come questa, a scuola, e anche se non era certamente la migliore occasione per fare sfoggio della sua istruzione, dato che non c’era nessuno ad ascoltarla, era però un buon esercizio ripetere quelle cose). “Sì, dev’essere proprio la distanza giusta, – continuò – però vorrei sapere il grado di latitudine e di longitudine che ho raggiunto”. (Alice non aveva la minima idea di che cosa fosse la Latitudine e tanto meno la Longitudine: però le piaceva sentirsi dire queste parole difficili).


E ricominciò: “Chissà se attraverserò TUTTA la Terra da una parte all’altra... Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù! Mi pare che si chiamino gli Antidoti...” (Questa volta era abbastanza contenta che non ci fosse nessuno ad ascoltarla, perché la parola non le sembrava proprio quella giusta). “Bisognerà che chieda a qualcuno il nome del paese, si capisce. Per favore, signora, questa è la Nuova Zelanda oppure l’Australia?” (Cercò d’inchinarsi con gentilezza, mentre parlava... pensate un po’: inchinarsi educatamente mentre si cade attraverso l’aria! Ci riuscireste voi?). “Chissà che bambina ignorante penserà che sono! No, è meglio non domandare; forse lo troverò scritto in qualche posto”. E cadeva, cadeva, cadeva. Non c’era niente da fare. Perciò Alice ricominciò a parlare. “Credo che Dina sentirà molto la mia mancanza, stasera”. (Dina era la gatta). “Spero che non dimentichino di darle il suo piattino di latte, quando sarà l’ora della merenda. Dina cara, vorrei che tu fossi qui con me ! Non ci sono topi per aria, lo so, ma potresti acchiappare un pipistrello: somiglia molto a un topo, no? Chissà se i gatti mangiano i pipistrelli”. A questo punto Alice cominciò ad avere sonno e continuò a parlare fra sé, come in dormiveglia: “I gatti mangiano i pipistrelli? I gatti mangiano i pipistrelli?” ripeteva. E a volte diceva: “I pipistrelli mangiano i gatti?” Infatti, poiché non era in grado di rispondere a nessuna delle domande, non dava molto peso alla maniera in cui se le poneva. Alla fine si accorse che si stava addormentando. A un certo punto cominciò a sognare di trovarsi a passeggio con la sua Dina, a braccetto, e di domandare alla gatta con molta serietà: “E adesso, Dina, dimmi proprio la verità: l’hai mai mangiato un pipistrello?”, quando a un tratto, TA–TUM! atterrò sopra un mucchio di foglie secche: la caduta era finita. Alice non s’era fatta niente e in un attimo fu in piedi. Guardò in alto, ma sopra di lei era tutto buio. Davanti a lei c’era un altro lungo cunicolo, in fondo al quale fece appena in tempo a vedere il Coniglio Bianco che correva. Non c’era un minuto da perdere. Si mise a correre come il vento e arrivò appena in tempo per sentirlo dire, mentre voltava un angolo: “Per i miei occhi, per i miei baffi, com’è tardi!”. Ormai Alice gli era molto vicina, ma quando anche lei girò l’angolo, il Coniglio non c’era più. Alice si trovò in una sala bassa e lunga, illuminata da una fila di lampade che pendevano dal soffitto. Tutto intorno, lungo le pareti si trovavano molte porte, ma erano tutte chiuse. Alice fece il giro, cercando inutilmente di aprirle, e poi si diresse afflitta verso il centro della sala. Si chiedeva come avrebbe potuto fare per uscire da quel posto. A un tratto vide un tavolino a tre gambe, tutto di vetro, sul quale non c’era altro che una piccolissima chiave d’oro. Alice pensò subito che quella fosse la chiave di una delle porte; invece non era così: o la chiave era troppo piccola, oppure le serrature erano troppo grandi, la cosa certa era che nessuna porta si apriva. Riprovò a fare il giro della stanza e stavolta si trovò davanti a una tendina che prima non aveva visto; dietro c’era una porticina non più alta di una quarantina di centimetri: provò la piccola chiave d’oro nella serratura e... fu proprio contenta di vedere che vi si adattava benissimo! Alice allora aprì la porticina: essa dava su un piccolo corridoio, non più grande della tana d’un topo. S’inginocchiò per guardare e, in fondo al corridoio, vide il più bel giardino che si possa immaginare...

Lewis Carroll, da Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865)


Un fantasioso cavaliere (...)

A

questo punto avvistarono trenta o quaranta mulini a vento che si trovano in quella campagna, e non appena don Chisciotte li vide, disse al suo scudiero: – La fortuna va incamminando le nostre cose assai meglio di quanto potremmo desiderare, perché guarda lì, amico Sancio Panza: ecco trenta e più smisurati giganti, con i quali ho intenzione di azzuffarmi e di ucciderli tutti, così con le loro spoglie cominceremo ad arricchirci, che questa è buona guerra, ed è fare un servizio a Dio togliere questa mala stirpe dalla faccia della terra. – Che giganti? – disse Sancio Panza. – Quelli che vedi là – rispose il suo padrone – dalle smisurate braccia; e ce n’è alcuni che arrivano ad averle lunghe due leghe. – Badi la signoria vostra – osservò Sancio – che quelli che si vedono là non son giganti ma mulini a vento, e ciò che in essi paiono le braccia, son le pale che, girate dal vento, fanno andare la pietra del mulino. – Si vede bene – disse don Chisciotte – che non te n’intendi d’avventure; quelli sono giganti; e se hai paura, levati di qua, e mettiti a pregare, mentre io entrerò con essi in aspra e disegual tenzone. E così dicendo, diede di sprone al suo cavallo Ronzinante, senza far caso a ciò che gli gridava Sancio Panza, per avvertirlo che erano certamente mulini a vento, e non giganti, quelli che andava ad attaccare. Ma lui era talmente convinto che erano giganti che né sentiva le grida del suo scudiero Sancio, né s’accorgeva, nemmeno ora che era arrivato vicino, di ciò che erano; anzi gridava a gran voce: – Non scappate, codarde e vili creature, che è un cavaliere solo che vi attacca! A questo punto soffiò un po’ di vento e le grandi pale cominciarono a muoversi, e don Chisciotte disse, vedendo ciò: – Quand’anche muoviate più braccia del gigante Briareo, me la pagherete! Così dicendo, e raccomandandosi ardentemente alla sua signora Dulcinea per chiederle che lo soccorresse in quel frangente, ben coperto dallo scudo, con la lancia in resta, spinse Ronzinante a gran galoppo e investì il primo mulino che si trovò davanti; e avendo dato un gran colpo di lancia alla pala, il vento la fece ruotare con tal furia che fece in pezzi la lancia, trascinandosi dietro cavallo e cavaliere, che rotolò tramortito per terra. Accorse ad aiutarlo Sancio Panza, con tutta la velocità del suo asino, e quando arrivò lo trovò che non era neanche in grado di muoversi. – Per l’amor di Dio! – disse Sancio – Non gliel’avevo detto io che stesse bene attento a quel che faceva, che quelli erano mulini a vento (...)? – Taci, caro Sancio; – rispose don Chisciotte – poiché le cose della guerra sopra tutte le altre son soggette alla fortuna; tanto più che io credo, ed è e sarà certamente così, che quel mago Frestone che mi ha rubato la stanza e i libri, ha trasformato anche questi giganti in mulini, per togliermi la gloria di vincerli: tale è l’inimicizia che ha verso di me; ma alla resa dei conti, poco varranno le sue male arti contro la bontà della mia spada. – Ci pensi il Signore, che tutto può – rispose Sancio Panza, e lo aiutò ad alzarsi. Così egli risalì su Ronzinante, che s’era mezzo acciaccato. E discorrendo della passata avventura, continuarono in direzione del Passo Lápice, perché lì don Chisciotte diceva che non potevano mancare molte e diverse avventure, dato che era un posto di grande passaggio (...)

da Miguel de Cervantes, don Chisciotte della Mancha (1605) (trad. V. Bodini)


VERIFICA DI ITALIANO Le avventure di don Chisciotte e Sancio Panza. In base al lavoro fatto in classe e a casa su don Chisciotte e Sancio, racconta e completa la storia che hai inventato con i tuoi compagni, ricordando i seguenti passaggi: a) incontro dei due protagonisti; b) vicende che precedono l’avventura dei mulini a vento; c) seguito delle avventure dei due (dopo i mulini a vento); d) conclusione. Racconta la storia in prima persona (nel ruolo di d. Chisciotte, Sancio o un terzo personaggio). All’inizio o alla fine del racconto, aggiungi una intervista immaginaria ad uno dei personaggi. Grammatica, il VERBO: individua almeno un verbo per ciascuno dei seguenti MODI e TEMPI verbali, e spiega perché l’autore usa tali modi/tempi: INDICATIVO: PRESENTE / PASS. REMOTO / IMPERFETTO / FUTURO IMPERATIVO (PRESENTE) CONGIUNTIVO PRESENTE VERIFICA DI ITALIANO Le avventure di don Chisciotte e Sancio Panza. In base al lavoro fatto in classe e a casa su don Chisciotte e Sancio, racconta e completa la storia che hai inventato con i tuoi compagni, ricordando i seguenti passaggi: a) incontro dei due protagonisti; b) vicende che precedono l’avventura dei mulini a vento; c) seguito delle avventure dei due (dopo i mulini a vento); d) conclusione. Racconta la storia in prima persona (nel ruolo di d. Chisciotte, Sancio o un terzo personaggio). All’inizio o alla fine del racconto, aggiungi una intervista immaginaria ad uno dei personaggi. Grammatica, il VERBO: individua almeno un verbo per ciascuno dei seguenti MODI e TEMPI verbali, e spiega perché l’autore usa tali modi/tempi: INDICATIVO: PRESENTE / PASS. REMOTO / IMPERFETTO / FUTURO IMPERATIVO (PRESENTE) CONGIUNTIVO PRESENTE VERIFICA DI ITALIANO Le avventure di don Chisciotte e Sancio Panza. In base al lavoro fatto in classe e a casa su don Chisciotte e Sancio, racconta e completa la storia che hai inventato con i tuoi compagni, ricordando i seguenti passaggi: a) incontro dei due protagonisti; b) vicende che precedono l’avventura dei mulini a vento; c) seguito delle avventure dei due (dopo i mulini a vento); d) conclusione. Racconta la storia in prima persona (nel ruolo di d. Chisciotte, Sancio o un terzo personaggio). All’inizio o alla fine del racconto, aggiungi una intervista immaginaria ad uno dei personaggi. Grammatica, il VERBO: individua almeno un verbo per ciascuno dei seguenti MODI e TEMPI verbali, e spiega perché l’autore usa tali modi/tempi: INDICATIVO: PRESENTE / PASS. REMOTO / IMPERFETTO / FUTURO IMPERATIVO (PRESENTE) CONGIUNTIVO PRESENTE VERIFICA DI ITALIANO Le avventure di don Chisciotte e Sancio Panza. In base al lavoro fatto in classe e a casa su don Chisciotte e Sancio, racconta e completa la storia che hai inventato con i tuoi compagni, ricordando i seguenti passaggi: a) incontro dei due protagonisti; b) vicende che precedono l’avventura dei mulini a vento; c) seguito delle avventure dei due (dopo i mulini a vento); d) conclusione. Racconta la storia in prima persona (nel ruolo di d. Chisciotte, Sancio o un terzo personaggio). All’inizio o alla fine del racconto, aggiungi una intervista immaginaria ad uno dei personaggi. Grammatica, il VERBO: individua almeno un verbo per ciascuno dei seguenti MODI e TEMPI verbali, e spiega perché l’autore usa tali modi/tempi: INDICATIVO: PRESENTE / PASS. REMOTO / IMPERFETTO / FUTURO IMPERATIVO (PRESENTE) CONGIUNTIVO PRESENTE


VERIFICA DI ITALIANO

NOME:

A) Dopo aver letto il brano dalle Avventure di Alice, inventa tu il seguito: immagina e descrivi la protagonista, i personaggi che incontra, i luoghi in cui capita. B) Immagina poi come potrĂ fare per tornare a casa e racconta in prima persona le sue avventure. Grammatica: completa le seguanti frasi, utilizzando le opportune forme di congiuntivo (presente o imperfetto), distinguendo tra azioni che si svolgono nel presente e nel passato:

Nonostante Sancio lo ....................... , don Chisciotte crede che i mulini ......................... giganti. AVVERTIRE

ESSERE

Nonostante Sancio lo ................................. , don Chisciotte credeva che i mulini ......................... giganti. AVVERTIRE

ESSERE

Alice non sa cosa ....................... la longitudine. ESSERE

Alice non sapeva cosa ....................... la longitudine. ESSERE

Alice cerca la chiave che ....................... le porte, ma non sa dove si ....................... APRIRE

TROVARE

Alice cercava la chiave che ....................... le porte, ma non sapeva dove si ....................... APRIRE

VERIFICA DI ITALIANO

TROVARE

NOME:

A) Dopo aver letto il brano dalle Avventure di Alice, inventa tu il seguito: immagina e descrivi la protagonista, i personaggi che incontra, i luoghi in cui capita. B) Immagina poi come potrĂ fare per tornare a casa e racconta in prima persona le sue avventure. Grammatica: completa le seguanti frasi, utilizzando le opportune forme di congiuntivo (presente o imperfetto), distinguendo tra azioni che si svolgono nel presente e nel passato:

Nonostante Sancio lo ....................... , don Chisciotte crede che i mulini ......................... giganti. AVVERTIRE

ESSERE

Nonostante Sancio lo ................................. , don Chisciotte credeva che i mulini ......................... giganti. AVVERTIRE

ESSERE

Alice non sa cosa ....................... la longitudine. ESSERE

Alice non sapeva cosa ....................... la longitudine. ESSERE

Alice cerca la chiave che ....................... le porte, ma non sa dove si ....................... APRIRE

TROVARE

Alice cercava la chiave che ....................... le porte, ma non sapeva dove si ....................... APRIRE

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Tra Alice e il Coniglio, chi credi che ....................... più veloce? CORRERE

Tra Alice e il Coniglio, chi credevi che .......................... più veloce? CORRERE

Alice grida al Coniglio: – Aspetti! Non ...................... così! Si .......................! CORRERE

FERMARE

Don Chisciotte: – ....................... i giganti, e ....................... se so affrontarli! VENIRE

VEDERE

Attenzione: nelle prossime due frasi devi usare anche il cong. trapassato e il condizionale (pres. e pass.): Se ora Alice non ....................... il Coniglio, non ....................... alcuna avventura. INSEGUIRE

FARE

Se quel giorno Alice non .................................... il Coniglio, non .................................. alcuna avventura. INSEGUIRE

FARE

Attenzione: nelle prossime due frasi devi usare anche l’indicativo. Spiega perché. Sancio vede che quelli ....................... mulini, don Chisciotte invece crede che ....................... giganti. ESSERE

ESSERE

Sancio vide che quelli ....................... mulini, don Chisciotte invece credeva che ....................... giganti. ESSERE

ESSERE

Tra Alice e il Coniglio, chi credi che ....................... più veloce? CORRERE

Tra Alice e il Coniglio, chi credevi che .......................... più veloce? CORRERE

Alice grida al Coniglio: – Aspetti! Non ...................... così! Si .......................! CORRERE

FERMARE

Don Chisciotte: – ....................... i giganti, e ....................... se so affrontarli! VENIRE

VEDERE

Attenzione: nelle prossime due frasi devi usare anche il cong. trapassato e il condizionale (pres. e pass.): Se ora Alice non ....................... il Coniglio, non ....................... alcuna avventura. INSEGUIRE

FARE

Se quel giorno Alice non .................................... il Coniglio, non .................................. alcuna avventura. INSEGUIRE

FARE

Attenzione: nelle prossime due frasi devi usare anche l’indicativo. Spiega perché. Sancio vede che quelli ....................... mulini, don Chisciotte invece crede che ....................... giganti. ESSERE

ESSERE

Sancio vide che quelli ....................... mulini, don Chisciotte invece credeva che ....................... giganti. ESSERE

ESSERE


VERIFICA DI ITALIANO

NOME:

A) Dopo aver letto il brano dalle Avventure di Alice, inventa tu il seguito: immagina e descrivi la protagonista, i personaggi che incontra, i luoghi in cui capita. B) Immagina poi come potrà fare per tornare a casa e racconta in prima persona le sue avventure. Grammatica: completa le seguanti frasi, utilizzando le opportune forme di congiuntivo (presente o imperfetto), distinguendo tra azioni che si svolgono nel presente e nel passato:

Nonostante Sancio lo ....................... , don Chisciotte crede che i mulini ......................... giganti. AVVERTIRE

ESSERE

Nonostante Sancio lo ................................. , don Chisciotte credeva che i mulini ......................... giganti. AVVERTIRE

ESSERE

Alice non sa cosa ....................... la longitudine. ESSERE

Alice non sapeva cosa ....................... la longitudine. ESSERE

Alice cerca la chiave che ....................... le porte, ma non sa dove si ....................... APRIRE

TROVARE

Alice cercava la chiave che ....................... le porte, ma non sapeva dove si ....................... APRIRE

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Tra Alice e il Coniglio, chi credi che ....................... più veloce? CORRERE

Tra Alice e il Coniglio, chi credevi che ....................... più veloce? CORRERE

Alice grida al Coniglio: – Aspetti! Non ...................... così! Si .......................! CORRERE

FERMARE

Don Chisciotte: – ....................... i giganti, e ....................... se so affrontarli! VENIRE

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Attenzione: nelle prossime due frasi devi usare anche il cong. trapassato e il condizionale (pres. e pass.): Se ora Alice non ....................... il Coniglio, non ....................... alcuna avventura. INSEGUIRE

FARE

Se quel giorno Alice non .................................... il Coniglio, non .................................. alcuna avventura. INSEGUIRE

FARE

Attenzione: nelle prossime due frasi devi usare anche l’indicativo. Spiega perché. Sancio vede che quelli ....................... mulini, don Chisciotte invece crede che ....................... giganti. ESSERE

ESSERE

Sancio vide che quelli ....................... mulini, don Chisciotte invece credeva che ....................... giganti. ESSERE

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SPAVENTOSA VENDETTA DI UN ANIMALE DOMESTICO di Dino Buzzati

T

ra le molte orribili cose udite in questi anni, nessuna mi ha fatto l’impressione di un racconto fattomi da una ragazza. «Di passaggio a Milano» mi disse «non potevo fare a meno di visitare una zia, già avanti in età, che da parecchi anni non vedevo. Guai se non fossi andata a trovarla, e lei avesse saputo che mi ero fermata a Milano. Si sarebbe offesa mortalmente. Ma siccome avevo il pomeriggio impegnato, le telefonai che sarei andata di sera, dopo il pranzo. Dal tono con cui mi rispose mi parve che l’annuncio della visita le facesse un piacere immenso, perfino esagerato. «Abitava una casa nobile e quieta dalle parti di via Settembrini. Era un vecchio appartamento tenuto con grande pulizia, ma così pieno di mobili, quadri, tappeti, paraventi, vasi, tende, sgabelli, cestelli per lavoro e inutili anticaglie che, entrando, si aveva una sensazione opprimente di noia e di polvere. Per di più le lampadine, riparate da complicati abat-jour, davano una luce malinconica. Appena varcata la soglia, il mio primo desiderio fu di andarmene al più presto e di tornare all’aperto. «La zia mi ricevette nel tinello e non era sola. Seduta di fronte a lei, dalla parte opposta della tavola, vidi un’altra vecchia signora, evidentemente intima della casa dal tono confidenziale con cui si comportava. Poi mi ricordo che c’erano almeno tre persone: seduti un poco indietro, nella penombra, non si vedevano bene, ma mi sembra che fossero una signorina sui trent’anni, una piccola donna insignificante, più anziana, e un signore molto complimentoso con occhiali, sulla cinquantina. Anche costoro, a quanto si poteva capire, erano coinquilini che avevano l’abitudine di fare ogni sera una visita a mia zia. «Avviandosi la conversazione sui temi consueti e previsti (notizie sulla famiglia, sui comuni parenti, sulla guerra) mi stupì il modo con cui la zia e pure gli amici mi guardavano: intensamente, per così dire, quasi che da me si attendessero non una semplice visita di cortesia ma qualcosa di molto più importante, che li tenesse in ansia. «Nello stesso tempo mi colpì, con fastidio ancor maggiore che nelle altre stanze per cui ero passata, il quasi incredibile affastellamento di mobili e soprammobili di ogni sorta. Non si riusciva a capire come ci si potesse muovere là dentro, nell’intrico di quel farraginoso e antiquato bazar. Ne avevo una specie di nausea. «Specialmente la tavola centrale era ingombra fin quasi sull’orlo di una caterva di cose: un basso portavasi con delle grame pianticine verdi, bomboniere, album di fotografie, un calamaio, gomitoli di lana, vasetti, libri e tra l’altro un largo vassoio colmo di bottiglie, flaconi e bicchierini. Le bottiglie, a giudicare dall’aspetto, dovevano contenere sciroppi o appiccicosi rosòlii, ciò che mi ispirò un acuto disgusto all’idea che probabilmente me ne sarebbe stato offerto. Nel mezzo, appeso al soffitto ma abbassato fino a sfiorare il portavasi centrale, era un paralume di stile liberty, a forma di giglio rovesciato, con una lampadina accesa; in basso esso aveva una specie di strana manovella sporgente, come quella dei macinini da caffè, ma di ottone lucido; serviva forse, pensai, alla manovra di saliscendi. «Finché, a quella stanca luce, mi accorsi di una bestiolina che si muoveva inquietamente sul bracciolo sinistro della poltrona della zia. Ebbi subito, chissà perché, l’impressione che fosse un pipistrello, né riesco a spiegamela dato che coi pipistrelli aveva ben poco di comune. La zia evidentemente se lo teneva in salotto come un gattino, compiacendosene. Aveva un piccolo muso cascante da cagnolino più che da topo, il corpo magro e snello, una lunga coda da ratto; ma specialmente singolari erano le sue quattro gambine, lunghe una ventina di centimetri, con in fondo delle zampe palmate come quelle delle anatre, solo che nere”. «Dunque non aveva ali?» «No, non ne aveva. Ma tutto di colore nerastro, con quelle viscide membrane ai piedi, mi pareva più pipistrello di tutti i pipistrelli che avessi visti fino allora. «Con una sua sinistra eleganza, la bestiola, dal bracciolo della poltrona dove finora era rimasta appollaiata, cominciò a saltellare in modo strano, lateralmente, raggiungendo il bordo del tavolo e di qui tornando al bracciolo, con alterna danza, e ogni volta spiccava il balzo con le quattro gambette insieme. E voltava il muso sempre verso di me a guardarmi. «“Un pipistrello?” domandai stupidamente, con l’intenzione di far piacere alla zia. «“Sì” rispose lei sorridendo ma un po’ tristemente. “Una così brava bestiola!”. «Con quei suoi saltini laterali il pipistrello (chiamiamolo pur così) tendeva intato ad avvicinarsi sempre più a me e divincolava il corpo in modo languido, quasi insinuante. A un suo balzo più pronunciato dalla mia parte, ebbi mio malgrado un moto di repulsione e mi ritrassi. «“Oh!” esclamò la zia, come se io l’avessi delusa. “Che cosa vuoi che ti faccia?”


«Ma, notando il mio gesto, il pipistrello a sua volta si era ritratto con un grazioso saltino, pareva proprio che fosse rimasto offeso. E si ritirò nel bel mezzo del tavolo, dove era più denso il groviglio di vasi, flaconi e bottiglie. Tra i quali si spostava con straordinaria delicatezza, non facendoli neanche vacillare. «Non solo la zia ma pure i suoi amici, tutti con un vago sorriso di speranza, di compiacimento e di attesa – come la mamma quando il bimbo sta per recitare la famosa poesia – fissavano alternativamente il pipistrello e me. Aspettavano forse che lo prendessi in grembo per vezzeggiarlo? Notavo i loro sguardi ridicolmente ansiosi, ma non osavo ricambiarli. Avevano in qualche modo reverenza o timore dello schifoso animaletto? O stavano in pena per paura che lo maltrattassi? Oppure contavano che anch’io mi unissi servilmente alla loro abbietta ammirazione? Mi convinsi finalmente di una cosa: l’attesa nei miei riguardi che avevo avvertita appena entrata nella stanza doveva essere, non potevo immaginare come, collegata alla presenza e al contegno del pipistrello. «“Guardalo, che caro” mormorò la zia, non sapendo più trattenersi. «La bestiola stava ora compiendo con le sue zampette membranose degli incomprensibili armeggii fra le bottiglie. Credere o no, mi dovetti persuadere che tentasse proprio di alzare uno dei turaccioli di cristallo: era una bottiglia in stile Louis XV piena a metà di un liquido denso color fragola. «“Maria” mi disse la zia trepidando, e accennò con un moto del capo (quanto affettuoso) agli sforzi della bestiola abominevole, “prendi un bicchierino di Prunella Ballor?” «Prunella Ballor? Mi venne da ridere. Possibile che fosse un liquore di marca quell’intingolo disgustoso? «Ma la zia non si moveva per versarmelo. Osservava invece i maneggi del pipistrello. E io stavo per rispondere con generico ringraziamento quando capii: a versarmi il liquore sarebbe stato lo stesso animaletto. «“Lo prendi, vero, Maria?” ripeté la zia, pressante. «“Ma sì, ma sì, signorina” intervenne il signore con gli occhiali. «Sembravano pendere tutti e cinque dalle mie labbra. I loro sguardi non mi lasciavano più; pareva mi scongiurassero. Accettassi, per amor di Dio, permettessi al pipistrello di compiere la straordinaria prodezza, mi mostrassi gentile con lui, non lo disgustassi, per carità, sembravano dirmi. «“No, grazie” risposi con fermezza, “davvero, zia, non posso prendere niente di sera”. «Sorse una voce querula dall’ombra (doveva essere la signorina sui trent’anni): “Ma signorina, perché vuol fare proprio complimenti?” «“Su, su, Maria”, insistette la zia. “Un bicchierino, una lacrima soltanto” (Mi supplicava come se ne dipendesse la vita, la sua voce per l’emozione tremava). «Ma che cosa voleva dire questa grottesca commedia?, mi chiedevo. Bisognava che io, per accontentarli, facessi la corte al luttuoso quadrupede? «Risposi, dura: “No, grazie, zia, non prendo proprio niente, non insistere”. E non so neppure io perché, feci l’atto di alzarmi. «Uno sgomento inspiegabile discese, alle mie parole, sul volto della zia e degli altri. «“Madonna mia, che cos’hai fatto!” gemette la zia, gli occhi dilatati dallo spavento. «Il pipistrello infatti, dopo aver voltato verso di me il musino per l’ultima volta, aveva lasciato all’improvviso le bottiglie e con uno dei suoi leggeri saltini aveva raggiunto la manovella che sporgeva dalla lampada; quindi con uno scatto rabbioso, come per vendicarsi dell’affronto, diede una spinta alla leva. «Anziché alzarsi, come avevo pensato, la lampada allora ruotò su se stessa di mezzo giro e la luce all’improvviso cadde. «Nello stesso istante orrende detonazioni e tenebrosi schianti di bombe rintronarono intorno, per la città, scuotendo la casa: il rombo di mille e mille aeroplani riempiva il mondo».

Dino Buzzati, da Paura alla Scala (1949) Dopo aver letto il racconto di Dino Buzzati, a) individuane l’argomento (trova un altro titolo); b) attribuiscigli uno o più generi (e spiega perché); c) dividilo in sequenze; d) individua autore e narratore; e) fa’ una brevissima sintesi (max 50 parole); f) esponi le tue considerazioni: cosa significa per te? Cosa può rappresentare lo “strano animale”? Come consideri i vari personaggi? Cosa avresti fatto tu al posto della ragazza? Come avresti concluso il racconto, se fossi tu l’autore?


METAMORFOSI

U

n mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante. «Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in una luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di stoffe svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio. Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo – si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale – si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un’altra dormitina?» pensò, ma non poté mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.

Franz Kafka, da La metamorfosi (1915)

METAMORFOSI

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n mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante. «Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in una luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di stoffe svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio. Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo – si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale – si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un’altra dormitina?» pensò, ma non poté mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.

Franz Kafka, da La metamorfosi (1915)


U

n mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si _________ trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, _________ che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre con-

vesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si _________ a malapena. Davanti agli occhi gli si _______________ le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante. «Che cosa mi __________________?» pensò. Non _________ sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in una luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di stoffe svolto da un pacco (Samsa _________ il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che __________________ qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. (Essa) __________________ una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio. Gregor _________ gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo - si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale - si _________ invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un’altra dormitina?» _________, ma non _________ mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli _________ impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta _________ indietro supino. _________ almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto _________ perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima, __________________ a pungergli il fianco. • Completa il brano utilizzando i verbi giusti nei tempi e modi giusti. • Spiega l’uso dei tempi in tali verbi. • Analizza i verbi sottolineati.

trovare bastare reggere agitare capitare

pensare stare fare ritagliare rappresentare

sollevare girare sentire potere essere

ripiombare tentare smettere cominciare

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n mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si _________ trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, _________ che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre con-

vesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si _________ a malapena. Davanti agli occhi gli si _______________ le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante. «Che cosa mi __________________?» pensò. Non _________ sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in una luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di stoffe svolto da un pacco (Samsa _________ il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che __________________ qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. (Essa) __________________ una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio. Gregor _________ gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo - si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale - si _________ invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un’altra dormitina?» _________, ma non _________ mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli _________ impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta _________ indietro supino. _________ almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto _________ perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima, __________________ a pungergli il fianco. • Completa il brano utilizzando i verbi giusti nei tempi e modi giusti. • Spiega l’uso dei tempi in tali verbi. • Analizza i verbi sottolineati.

trovare bastare reggere agitare capitare

pensare stare fare ritagliare rappresentare

sollevare girare sentire potere essere

ripiombare tentare smettere cominciare


Disperanza

Mi buttai un’altra volta a capo in giù. All’avventura. Nel mio folle ansare, bruciai il fiume. La volta del bosco. L’aratura. Mi fiaccai il collo. Invano. Invano tentai di sfondare il muro della paura.

Giorgio Caproni


Disperanza

Disperanza

Disperanza

Mi buttai un’altra volta a capo in giù. All’avventura.

Mi buttai un’altra volta a capo in giù. All’avventura.

Mi buttai un’altra volta a capo in giù. All’avventura.

Nel mio folle ansare, bruciai il fiume. La volta del bosco. L’aratura.

Nel mio folle ansare, bruciai il fiume. La volta del bosco. L’aratura.

Nel mio folle ansare, bruciai il fiume. La volta del bosco. L’aratura.

Mi fiaccai il collo.

Mi fiaccai il collo.

Mi fiaccai il collo.

Invano. Invano tentai di sfondare il muro della paura.

Invano. Invano tentai di sfondare il muro della paura.

Invano tentai di sfondare il muro della paura.

Giorgio Caproni

Giorgio Caproni

Disperanza

Invano.

Disperanza

Giorgio Caproni

Disperanza

Mi buttai un’altra volta a capo in giù. All’avventura.

Mi buttai un’altra volta a capo in giù. All’avventura.

Mi buttai un’altra volta a capo in giù. All’avventura.

Nel mio folle ansare, bruciai il fiume. La volta del bosco. L’aratura.

Nel mio folle ansare, bruciai il fiume. La volta del bosco. L’aratura.

Nel mio folle ansare, bruciai il fiume. La volta del bosco. L’aratura.

Mi fiaccai il collo.

Mi fiaccai il collo.

Mi fiaccai il collo.

Invano. Invano tentai di sfondare il muro della paura. Giorgio Caproni

Invano. Invano tentai di sfondare il muro della paura. Giorgio Caproni

Invano. Invano tentai di sfondare il muro della paura. Giorgio Caproni


1. Abbiamo letto ed analizzato la poesia Disperanza di Giorgio Caproni, che fa parte di un libro di poesie intitolato Il Conte di Kevenhüller. Il libro prende spunto da un misterioso ed inafferrabile animale che nel tardo Settecento compiva razzie ed aggrediva persone ed animali nelle campagne intorno Milano, e dal “bando” con il quale il Conte del titolo prometteva una ricompensa a chi lo avesse catturato o ucciso. Ripercorriamo la lettura della poesia, soffermandoci su alcune domande: Quale situazione descrive il poeta? Quale è il suo punto di vista? E le sue sensazioni? Quanti e quali personaggi sono presenti nel testo? Quali parole ci fanno “vedere” uno spazio fisico e/o immaginario? Quali sensazioni suscita in te? Per quali ragioni questo testo ti è piaciuto/non ti è piaciuto?

2.

Avvalendoti dell’esperienza fatta con la lettura di Disperanza, analizza e commenta la seguente poesia di Giorgio Caproni, “Invano”, anch’essa tratta dal libro Il Conte di Kevenhüller. Puoi aiutarti con le domande che hanno accompagnato la lettura dell’altra poesia: Quale situazione descrive il poeta? Quale è il suo punto di vista? Quanti e quali personaggi sono presenti nel testo? Quali sensazioni suscita in te? Quali parole ci fanno “vedere” uno spazio fisico e/o immaginario?

Invano Mi armai anch’io. Anch’io mi unii alla “generale Caccia”. Battei accanitamente, a palmo a palmo, la rete fitta dei campi – l’intrico della macchia. La sete mi attanagliava. La faccia l’avevo in fiamme. Dovunque, col cuore che mi scoppiava, non scorsi la più piccola traccia.



Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale). Osserva la foto. È un’immagine scattata nella vita reale, ma potrebbe anche raffigurare una scena di una storia (un racconto, un romanzo, un film, uno spettacolo, un sogno...). Prova a capire e descrivere le sensazioni che suscita in te, e poi prova ad immaginare e a raccontare una storia, della quale questa immagine potrebbe essere una scena (l’inizio, la fine o una parte centrale).







SCIALLE NERO I spetta qua, – disse il Bandi al D’Andrea. – Vado a prevenirla. Se s’ostina ancora, entrerai per forza. Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l’uno di fronte all’altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro, l’uno non aggiustasse all’altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all’altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti. Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all’Università, dove poi l’uno s’era laureato in legge, l’altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all’uscita del paese. Si conoscevano così a fondo, che bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l’uno comprendesse subito il pensiero dell’altro. Dimodoché quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e seguitavano poi in silenzio, come se l’uno avesse dato all’altro da ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi; entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la tentazione di volgere un po’ il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell’aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, che s’accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due vi potessero passar davanti così, senza neppure voltarsi a guardare. Giorni addietro il Bandi aveva detto al D’Andrea: – Eleonora non sta bene. Il D’Andrea aveva guardato negli occhi l’amico e compreso che il male della sorella doveva esser lieve: – Vuoi che venga a visitarla? – Dice di no. E tutti e due, passeggiando, s’erano messi a pensare con le ciglia aggrottate, quasi per rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui dovevano tutto. Il D’Andrea aveva perduto da ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa d’uno zio, che non avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di lui. Eleonora Bandi, rimasta orfana anch’essa a diciotto anni col fratello molto più piccolo di lei, industriandosi dap-

di Luigi Pirandello

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prima con minute e sagge economie su quel po’ che le avevano lasciato i genitori, poi lavorando, dando lezioni di pianoforte e di canto, aveva potuto mantenere agli studii il fratello, e anche l’amico indivisibile di lui. – In compenso però, – soleva dire ridendo ai due giovani – mi son presa tutta la carne che manca a voi due. Era infatti un donnone che non finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i lineamenti del volto, e l’aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si vedono nelle chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi neri, che le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce armoniosa pareva volessero anch’essi attenuare, con un certo studio che le dava pena, l’impressione d’alterigia che quel suo corpo così grande poteva destare sulle prime; e ne sorrideva mestamente. Sonava e cantava, forse non molto correttamente ma con foga appassionata. Se non fosse nata e cresciuta fra i pregiudizii d’una piccola città e non avesse avuto l’impedimento di quel fratellino, si sarebbe forse avventurata alla vita di teatro. Era stato quello, un tempo, il suo sogno; nient’altro che un sogno però. Aveva ormai circa quarant’anni. La considerazione, del resto, di cui godeva in paese per quelle sue doti artistiche la compensavano, almeno in parte, del sogno fallito, e la soddisfazione d’averne invece attuato un altro, quello cioè d’avere schiuso col proprio lavoro l’avvenire a due poveri orfani, la compensavano del lungo sacrifizio di se stessa. Il dottor D’Andrea attese un buon pezzo nel salotto, che l’amico ritornasse a chiamarlo. Quel salotto pieno di luce, quantunque dal tetto basso, arredato di mobili già consunti, d’antica foggia, respirava quasi un’aria d’altri tempi e pareva s’appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro, dell’immobile visione della sua antichità scolorita. I vecchi ritratti di famiglia appesi alle pareti erano, là dentro, i veri e soli inquilini. Di nuovo, c’era soltanto il pianoforte a mezzacoda, il pianoforte d’Eleonora, che le figure effigiate in quei ritratti pareva guardassero in cagnesco. Spazientito, alla fine, dalla lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino alla soglia, sporse il capo, udì piangere nella camera di là, attraverso l’uscio chiuso. Allora si mosse e andò a picchiare con le nocche delle dita a quell’uscio. – Entra, – gli disse il Bandi, aprendo. – Non riesco a capire perché s’ostina così. – Ma perché non ho nulla! – gridò Eleonora tra le lagrime. Stava a sedere su un ampio seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero, enorme e pallida; ma sempre


con quel suo viso di bambinona, che ora pareva più che mai strano, e forse più ambiguo che strano, per un certo indurimento negli occhi, quasi di folle fissità, ch’ella voleva tuttavia dissimulare. – Non ho nulla, v’assicuro, – ripeté più pacatamente. – Per carità, lasciatemi in pace: non vi date pensiero di me. – Va bene! – concluse il fratello, duro e cocciuto. – Intanto, qua c’è Carlo. Lo dirà lui quello che hai. – E uscì dalla camera, richiudendo con furia l’uscio dietro di sé. Eleonora si recò le mani al volto e scoppiò in violenti singhiozzi. Il D’Andrea rimase un pezzo a guardarla, fra seccato e imbarazzato; poi domandò: – Perché? Che cos’ha? Non può dirlo neanche a me? E come Eleonora seguitava a singhiozzare, le s’appressò, provò a scostarle con fredda delicatezza una mano dal volto: – Si calmi, via; lo dica a me; ci son qua io. Eleonora scosse il capo; poi, d’un tratto, afferrò con tutt’e due le mani la mano di lui, contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette: – Carlo! Carlo! Il D’Andrea si chinò su lei, un po’ impacciato nel suo rigido contegno. – Mi dica... Allora ella gli appoggiò una guancia su la mano e pregò disperatamente, a bassa voce: – Fammi, fammi morire, Carlo; ajutami tu, per carità! non trovo il modo; mi manca il coraggio, la forza. – Morire? – domandò il giovane, sorridendo. – Che dice? Perché? – Morire, sì! – riprese lei, soffocata dai singhiozzi. – Insegnami tu il modo. Tu sei medico. Toglimi da questa agonia, per carità! Debbo morire. Non c’è altro rimedio per me. La morte sola. Egli la fissò, stupito. Anche lei alzò gli occhi a guardarlo, ma subito li richiuse, contraendo di nuovo il volto e restringendosi in sé, quasi colta da improvviso, vivissimo ribrezzo. – Sì, sì, – disse poi, risolutamente. – Io, sì, Carlo: perduta! perduta! Istintivamente il D’Andrea ritrasse la mano, ch’ella teneva ancora tra le sue. – Come! Che dice? – balbettò. Senza guardarlo, ella si pose un dito su la bocca, poi indicò la porta: – Se lo sapesse! Non dirgli nulla, per pietà! Fammi prima morire; dammi, dammi qualche cosa: la prenderò come una medicina; crederò che sia una medicina, che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio, non ho coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest’agonia, senza trovar la forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu, Carlo, che dici?

– Che ajuto? – ripeté il D’Andrea, ancora smarrito nello stupore. Eleonora stese di nuovo le mani per prendergli un braccio e, guardandolo con occhi supplichevoli, soggiunse: – Se non vuoi farmi morire, non potresti... in qualche altro modo... salvarmi? Il D’Andrea, a questa proposta, s’irrigidì più che mai, aggrottando severamente le ciglia. – Te ne scongiuro, Carlo! – insistette lei. – Non per me, non per me, ma perché Giorgio non sappia. Se tu credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per te, ajutami ora, salvami! Debbo finir così, dopo aver fatto tanto, dopo aver tanto sofferto? così, in questa ignominia, all’età mia? Ah, che miseria! che orrore! – Ma come, Eleonora? Lei! Com’è stato? Chi è stato? – fece il D’Andrea, non trovando, di fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa domanda per la sua curiosità sbigottita. Di nuovo Eleonora indicò la porta e si coprì il volto con le mani: – Non mi ci far pensare! Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a Giorgio questa vergogna? – E come? – domandò il D’Andrea. – Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto. Piuttosto, mi dica: non si potrebbe in qualche altro modo... rimediare? – No! – rispose lei, recisamente, infoscandosi. – Basta. Ho capito. Lasciami! Non ne posso più... Abbandonò il capo su la spalliera del seggiolone, rilassò le membra: sfinita. Carlo D’Andrea, con gli occhi fissi dietro le grosse lenti da miope, attese un pezzo, senza trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione, né riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio, specchio di virtù, d’abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa. Possibile? Eleonora Bandi? Ma se aveva in gioventù, per amore del fratello, rifiutato tanti partiti, uno più vantaggioso dell’altro! Come mai ora, ora che la gioventù era tramontata... – Eh! ma forse per questo... La guardò, e il sospetto, di fronte a quel corpo così voluminoso, assunse all’improvviso, agli occhi di lui magro, un aspetto orribilmente sconcio e osceno. – Va’, dunque, – gli disse a un tratto, irritata, Eleonora, che pur senza guardarlo, in quel silenzio, si sentiva addosso l’inerte orrore di quel sospetto negli occhi di lui. – Va’, va’, a dirlo a Giorgio, perché faccia subito di me quello che vuole. Va’. Il D’Andrea uscì, quasi automaticamente. Ella sollevò un poco il capo per vederlo uscire; poi, appena richiuso l’uscio, ricadde nella positura di prima.

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II Dopo due mesi d’orrenda angoscia, quella confessione del suo stato la sollevò, insperatamente. Le parve che il più, ormai, fosse fatto. Ora, non avendo più forza di lottare, di resistere a quello strazio, si sarebbe abbandonata, così, alla sorte, qualunque fosse. Il fratello, tra breve, sarebbe entrato e l’avrebbe uccisa? Ebbene: tanto meglio! Non aveva più diritto a nessuna considerazione, a nessun compatimento. Aveva fatto, sì, per lui e per quell’altro ingrato, più del suo dovere, ma in un momento poi aveva perduto il frutto di tutti i suoi benefizi. Strizzò gli occhi, colta di nuovo dal ribrezzo. Nel segreto della propria coscienza, si sentiva pure miseramente responsabile del suo fallo. Sì, lei, lei che per tanti anni aveva avuto la forza di resistere a gli impulsi della gioventù, lei che aveva sempre accolto in sé sentimenti puri e nobili, lei che aveva considerato il proprio sacrifizio come un dovere: in un momento, perduta! Oh miseria! miseria! L’unica ragione che sentiva di potere addurre in sua discolpa, che valore poteva avere davanti al fratello? Poteva dirgli: «Guarda, Giorgio, che sono forse caduta per te»? Eppure la verità era forse questa. Gli aveva fatto da madre, è vero? a quel fratello. Ebbene: in premio di tutti i benefizi lietamente prodigati, in premio del sacrifizio della propria vita, non le era stato concesso neanche il piacere di scorgere un sorriso, anche lieve, di soddisfazione su le labbra di lui e dell’amico. Pareva che avessero entrambi l’anima avvelenata di silenzio e di noja, oppressa come da una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s’eran subito buttati al lavoro, come due bestie; con tanto impegno, con tanto accanimento che in poco tempo erano riusciti a bastare a se stessi. Ora, questa fretta di sdebitarsi in qualche modo, come se a entrambi non ne paresse l’ora, l’aveva proprio ferita nel cuore. Quasi d’un tratto, così, s’era trovata senza più scopo nella vita. Che le restava da fare, ora che i due giovani non avevano più bisogno di lei? E aveva perduto, irrimediabilmente, la gioventù. Neanche coi primi guadagni della professione era tornato il sorriso su le labbra del fratello. Sentiva forse ancora il peso del sacrifizio ch’ella aveva fatto per lui? si sentiva forse vincolato da questo sacrifizio per tutta la vita, condannato a sacrificare a sua volta la propria gioventù, la libertà dei proprii sentimenti alla sorella? E aveva voluto parlargli a cuore aperto: – Non prenderti nessun pensiero di me, Giorgio! Io voglio soltanto vederti lieto, contento... capisci? Ma egli le aveva troncato subito in bocca le parole: – Zitta, zitta! Che dici? So quel che debbo fare. Ora spetta a me.

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– Ma come? così? – avrebbe voluto gridargli, lei, che, senza pensarci due volte, s’era sacrificata col sorriso sempre su le labbra e il cuor leggero. Conoscendo la chiusa, dura ostinazione di lui, non aveva insistito. Ma, intanto, non si sentiva di durare in quella tristezza soffocante. Egli raddoppiava di giorno in giorno i guadagni della professione; la circondava d’agi; aveva voluto che smettesse di dar lezioni. In quell’ozio forzato, che la avviliva, aveva allora accolto, malauguratamente, un pensiero che, dapprincipio, quasi l’aveva fatta ridere: «Se trovassi marito!». Ma aveva già trentanove anni, e poi con quel corpo... oh via! – avrebbe dovuto fabbricarselo apposta, un marito. Eppure, sarebbe stato l’unico mezzo per liberar sé e il fratello da quell’opprimente debito di gratitudine. Quasi senza volerlo, s’era messa allora a curare insolitamente la persona, assumendo una cert’aria di nubile che prima non s’era mai data. Quei due o tre che un tempo l’avevano chiesta in matrimonio, avevano ormai moglie e figliuoli. Prima, non se n’era mai curata; ora, a ripensarci, ne provava dispetto; provava invidia di tante sue amiche che erano riuscite a procurarsi uno stato. Lei sola era rimasta così... Ma forse era in tempo ancora: chi sa? Doveva proprio chiudersi così la sua vita sempre attiva? in quel vuoto? doveva spegnersi così quella fiamma vigile del suo spirito appassionato? in quell’ombra? E un profondo rammarico l’aveva invasa, inasprito talvolta da certe smanie, che alteravano le sue grazie spontanee, il suono delle sue parole, delle sue risa. Era divenuta pungente, quasi aggressiva nei discorsi. Si rendeva conto lei stessa del cangiamento della propria indole; provava in certi momenti quasi odio per se stessa, repulsione per quel suo corpo vigoroso, ribrezzo dei desiderii insospettati in cui esso, ora, all’improvviso, le s’accendeva turbandola profondamente. Il fratello, intanto, coi risparmi, aveva di recente acquistato un podere e vi aveva fatto costruire un bel villino. Spinta da lui, vi era andata dapprima per un mese in villeggiatura; poi, riflettendo che il fratello aveva forse acquistato quel podere per sbarazzarsi di tanto in tanto di lei, aveva deliberato di ritirarsi colà per sempre. Così, lo avrebbe lasciato libero del tutto: non gli avrebbe più dato la pena della sua compagnia, della sua vista, e anche lei a poco a poco, là, si sarebbe tolta quella strana idea dal capo, di trovar marito all’età sua. I primi giorni eran trascorsi bene, e aveva creduto che le sarebbe stato facile seguitare così. Aveva già preso l’abitudine di levarsi ogni giorno all’alba e di fare una lunga passeggiata per i campi, fer-


mandosi di tratto in tratto, incantata, ora per ascoltare nell’attonito silenzio dei piani, ove qualche filo d’erba vicino abbrividiva alla frescura dell’aria, il canto dei galli, che si chiamavano da un’aja all’altra; ora per ammirare qualche masso tigrato di gromme verdi, o il velluto del lichene sul vecchio tronco stravolto di qualche olivo saraceno. Ah, lì, così vicina alla terra, si sarebbe presto rifatta un’altr’anima, un altro modo di pensare e di sentire; sarebbe divenuta come quella buona moglie del mezzadro che si mostrava così lieta di tenerle compagnia e che già le aveva insegnato tante cose della campagna, tante cose pur così semplici della vita e che ne rivelano tuttavia un nuovo senso profondo, insospettato. Il mezzadro, invece, era insoffribile: si vantava d’aver idee larghe, lui: aveva girato il mondo, lui; era stato in America, otto anni a Benossarie; e non voleva che il suo unico figliuolo, Gerlando, fosse un vile zappaterra. Da tredici anni, pertanto, lo manteneva alle scuole; voleva dargli «un po’ di lettera», diceva, per poi spedirlo in America, là, nel gran paese, dove senza dubbio avrebbe fatto fortuna. Gerlando aveva diciannove anni e in tredici di scuola era arrivato appena alla terza tecnica. Era un ragazzone rude, tutto d’un pezzo. Quella fissazione del padre costituiva per lui un vero martirio. Praticando coi compagni di scuola, aveva preso, senza volere, una cert’aria di città, che però lo rendeva più goffo. A forza d’acqua, ogni mattina, riusciva a rassettarsi i capelli ispidi, a tirarvi una riga da un lato; ma poi quei capelli, rasciugati, gli si drizzavan compatti e irsuti di qua e di là, come se gli schizzassero dalla cute del cranio; anche le sopracciglia pareva gli schizzassero poco più giù dalla fronte bassa, e già dal labbro e dal mento cominciavano a schizzare i primi peli dei baffi e della barba, a cespuglietti. Povero Gerlando! faceva compassione, così grosso, così duro, così ispido, con un libro aperto davanti. Il padre doveva sudare una camicia, certe mattine, per scuoterlo dai saporiti sonni profondi, di porcellone satollo e pago, e avviarlo ancora intontito e barcollante, con gli occhi imbambolati, alla vicina città; al suo martirio. Venuta in campagna la signorina, Gerlando le aveva fatto rivolgere dalla madre la preghiera di persuadere al padre che la smettesse di tormentarlo con questa scuola, con questa scuola, con questa scuola! Non ne poteva più! E difatti Eleonora s’era provata a intercedere; ma il mezzadro, – ah, nonononò – ossequio, rispetto, tutto il rispetto per la signorina; ma anche preghiera di non immischiarsi. Ed allora essa, un po’ per pietà, un po’ per ridere, un po’ per darsi da fare, s’era messa ad ajutare quel povero giovanotto, fin dove poteva.

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Lo faceva, ogni dopo pranzo, venir su coi libri e i quaderni della scuola. Egli saliva impacciato e vergognoso, perché s’accorgeva che la padrona prendeva a goderselo per la sua balordaggine, per la sua durezza di mente; ma che poteva farci? il padre voleva così. Per lo studio, eh, sì: bestia; non aveva difficoltà a riconoscerlo; ma se si fosse trattato d’atterrare un albero, un bue, eh perbacco... – e Gerlando mostrava le braccia nerborute, con certi occhi teneri e un sorriso di denti bianchi e forti... Improvvisamente, da un giorno all’altro, ella aveva troncato quelle lezioni; non aveva più voluto vederlo; s’era fatto portare dalla città il pianoforte e per parecchi giorni s’era chiusa nella villa a sonare, a cantare, a leggere, smaniosamente. Una sera, in fine, s’era accorta che quel ragazzone, privato così d’un tratto dell’ajuto di lei, della compagnia ch’ella gli concedeva e degli scherzi che si permetteva con lui, s’appostava per spiarla, per sentirla cantare o sonare: e, cedendo a una cattiva ispirazione, aveva voluto sorprenderlo, lasciando d’un tratto il pianoforte e scendendo a precipizio la scala della villa. – Che fai lì? – Sto a sentire... – Ti piace? – Tanto, sì signora... Mi sento in paradiso. A questa dichiarazione era scoppiata a ridere; ma, all’improvviso, Gerlando, come sferzato in faccia da quella risata, le era saltato addosso, lì, dietro la villa, nel bujo fitto, oltre la zona di luce che veniva dal balcone aperto lassù. Così era stato. Sopraffatta a quel modo, non aveva saputo respingerlo; s’era sentita mancare – non sapeva più come – sotto quell’impeto brutale e s’era abbandonata, sì, cedendo pur senza voler concedere. Il giorno dopo, aveva fatto ritorno in città. E ora? come mai Giorgio non entrava a svergognarla? Forse il D’Andrea non gli aveva detto ancor nulla: forse pensava al modo di salvarla. Ma come? Si nascose il volto tra le mani, quasi per non vedere il vuoto che le s’apriva davanti. Ma era pur dentro di lei quel vuoto. E non c’era rimedio. La morte sola. Quando? come? L’uscio, a un tratto, s’aprì, e Giorgio apparve su la soglia scontraffatto, pallidissimo, coi capelli scompigliati e gli occhi ancora rossi di pianto. Il D’Andrea lo teneva per un braccio. – Voglio sapere questo soltanto, – disse alla sorella, a denti stretti, con voce fischiante, quasi scandendo le sillabe: – Voglio sapere chi è stato. Eleonora, a capo chino, con gli occhi chiusi, scosse lentamente il capo e riprese a singhiozzare.


– Me lo dirai, – gridò il Bandi, appressandosi, trattenuto dall’amico. – E chiunque sia, tu lo sposerai! – Ma no, Giorgio! – gemette allora lei, raffondando vie più il capo e torcendosi in grembo le mani. – No! non è possibile! non è possibile! – È ammogliato? – domandò lui, appressandosi di più, coi pugni serrati, terribile. – No, – s’affrettò a risponder lei. – Ma non è possibile, credi! – Chi è? – riprese il Bandi, tutto fremente, stringendola da presso. – Chi è? subito, il nome! Sentendosi addosso la furia del fratello, Eleonora si strinse nelle spalle, si provò a sollevare appena il capo e gemette sotto gli occhi inferociti di lui: – Non posso dirtelo... – Il nome, o t’ammazzo! – ruggì allora il Bandi, levando un pugno sul capo di lei. Ma il D’Andrea s’interpose, scostò l’amico, poi gli disse severamente: – Tu va’. Lo dirà a me. Va’, va’... E lo fece uscire, a forza, dalla camera. III Il fratello fu irremovibile. Ne’ pochi giorni che occorsero per le pubblicazioni di rito, prima del matrimonio, s’accanì nello scandalo. Per prevenir le beffe che s’aspettava da tutti, prese ferocemente il partito d’andar sbandendo la sua vergogna, con orribili crudezze di linguaggio. Pareva impazzito; e tutti lo commiseravano. Gli toccò, tuttavia, a combattere un bel po’ col mezzadro, per farlo condiscendere alle nozze del figliuolo. Quantunque d’idee larghe, il vecchio, dapprima, parve cascasse dalle nuvole: non voleva creder possibile una cosa simile. Poi disse: – Vossignoria non dubiti: me lo pesterò sotto i piedi; sa come? come si pigia l’uva. O piuttosto, facciamo così: glielo consegno, legato mani e piedi; e Vossignoria si prenderà tutta quella soddisfazione che vuole. Il nerbo, per le nerbate, glielo procuro io, e glielo tengo prima apposta tre giorni in molle, perché picchi più sodo. Quando però comprese che il padrone non intendeva questo, ma voleva altro, il matrimonio, trasecolò di nuovo: – Come! Che dice, Vossignoria? Una signorona di quella fatta col figlio d’un vile zappaterra? E oppose un reciso rifiuto. – Mi perdoni. Ma la signorina aveva il giudizio e l’età; conosceva il bene e il male; non doveva far mai con mio figlio quello che fece. Debbo parlare? Se lo tirava su in casa tutti i giorni. Vossignoria m’intende... Un ragazzaccio... A quell’età, non si ragiona, non si bada... Ora ci posso perdere così il figlio, che Dio sa quanto mi

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costa? La signorina. Con rispetto parlando, gli può esser madre... Il Bandi dovette promettere la cessione in dote del podere e un assegno giornaliero alla sorella. Così il matrimonio fu stabilito; e, quando ebbe luogo, fu un vero avvenimento per quella cittaduzza. Parve che tutti provassero un gran piacere nel far pubblicamente strazio dell’ammirazione, del rispetto per tanti anni tributati a quella donna; come se tra l’ammirazione e il rispetto, di cui non la stimavano più degna, e il dileggio, con cui ora la accompagnavano a quelle nozze vergognose, non ci potesse esser posto per un po’ di commiserazione. La commiserazione era tutta per il fratello; il quale, s’intende, non volle prender parte alla cerimonia. Non vi prese parte neanche il D’Andrea, scusandosi che doveva tener compagnia, in quel triste giorno, al suo povero Giorgio. Un vecchio medico della città, ch’era già stato di casa dei genitori d’Eleonora, e a cui il D’Andrea, venuto di fresco dagli studii, con tutti i fumi e le sofisticherie della novissima terapeutica, aveva tolto gran parte della clientela, si profferse per testimonio e condusse con sé un altro vecchio, suo amico, per secondo testimonio. Con essi Eleonora si recò in vettura chiusa al Municipio; poi in una chiesetta fuorimano, per la cerimonia religiosa. In un’altra vettura era lo sposo, Gerlando, torbido e ingrugnato, coi genitori. Questi, parati a festa, stavano su di sé, gonfi e serii, perché, alla fin fine, il figlio sposava una vera signora, sorella d’un avvocato, e gli recava in dote una campagna con una magnifica villa, e denari per giunta. Gerlando, per rendersi degno del nuovo stato, avrebbe seguitato gli studii. Al podere avrebbe atteso lui, il padre, che se n’intendeva. La sposa era un po’ anzianotta? Tanto meglio! L’erede già c’era per via. Per legge di natura ella sarebbe morta prima, e Gerlando allora sarebbe rimasto libero e ricco. Queste e consimili riflessioni facevano anche, in una terza vettura, i testimonii dello sposo, contadini amici del padre, in compagnia di due vecchi zii materni. Gli altri parenti e amici dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa, tutti parati a festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini; con le mantelline nuove e i fazzoletti dai colori più sgargianti, le donne; giacché il mezzadro, d’idee larghe, aveva preparato un trattamento proprio coi fiocchi. Al Municipio, Eleonora, prima d’entrare nell’aula dello Stato civile, fu assalita da una convulsione di pianto; lo sposo che si teneva discosto, in crocchio coi parenti, fu spinto da questi ad accorrere; ma il vecchio medico lo pregò di non farsi scorgere, di star lontano, per il momento.


Non ben rimessa ancora da quella crisi violenta, Eleonora entrò nell’aula; si vide accanto quel ragazzo, che l’impaccio e la vergogna rendevano più ispido e goffo; ebbe un impeto di ribellione; fu per gridare: «No! No!» e lo guardò come per spingerlo a gridar così anche lui. Ma poco dopo dissero sì tutti e due, come condannati a una pena inevitabile. Sbrigata in gran fretta l’altra funzione nella chiesetta solitaria, il triste corteo s’avviò alla villa. Eleonora non voleva staccarsi dai due vecchi amici; ma le fu forza salire in vettura con lo sposo e coi suoceri. Strada facendo, non fu scambiata una parola nella vettura. Il mezzadro e la moglie parevano sbigottiti: alzavano di tanto in tanto gli occhi per guardar di sfuggita la nuora; poi si scambiavano uno sguardo e riabbassavano gli occhi. Lo sposo guardava fuori, tutto ristretto in sé, aggrottato. In villa, furono accolti con uno strepitoso sparo di mortaretti e grida festose e battimani. Ma l’aspetto e il contegno della sposa raggelarono tutti i convitati, per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona gente, che intendeva farle festa a suo modo, come usa negli sposalizi. Chiese presto licenza di ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito durante la villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s’arrestò di botto, su la soglia: – Lì? con lui? No! Mai! Mai! – E, presa da ribrezzo, scappò in un’altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde a sedere su una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con tutt’e due le mani. Le giungevano, attraverso l’uscio, le voci, le risa dei convitati, che aizzavano di là Gerlando, lodandogli, più che la sposa, il buon parentado che aveva fatto e la bella campagna. Gerlando se ne stava affacciato al balcone e, per tutta risposta, pieno d’onta, scrollava di tratto in tratto le poderose spalle. Onta sì, provava onta d’esser marito a quel modo, di quella signora: ecco! E tutta la colpa era del padre, il quale, per quella maledetta fissazione della scuola, lo aveva fatto trattare al modo d’un ragazzaccio stupido e inetto dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi scherzi che lo avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n’era venuto. Il padre non pensava che alla bella campagna. Ma lui, come avrebbe vissuto d’ora in poi, con quella donna che gl’incuteva tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la vergogna e il disonore? Come avrebbe ardito d’alzar gli occhi in faccia a lei? E, per giunta, il padre pretendeva ch’egli seguitasse a frequentar la scuola! Figurarsi la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva venti anni più di lui, la moglie, e pareva una montagna, pareva...

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Mentre Gerlando si travagliava con queste riflessioni, il padre e la madre attendevano a gli ultimi preparativi del pranzo. Finalmente l’uno e l’altra entrarono trionfanti nella sala, dove già la mensa era apparecchiata. Il servizio da tavola era stato fornito per l’avvenimento da un trattore della città che aveva anche inviato un cuoco e due camerieri per servire il pranzo. Il mezzadro venne a trovar Gerlando al balcone e gli disse: – Va’ ad avvertire tua moglie che a momenti sarà pronto. – Non ci vado, gnornò! – grugnì Gerlando, pestando un piede. – Andateci voi. – Spetta a te, somarone! – gli gridò il padre. – Tu sei il marito: va’! – Grazie tante... Gnornò! non ci vado! – ripeté Gerlando, cocciuto, schermendosi. Allora il padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede uno spintone. – Ti vergogni, bestione? Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni? Va’! È tua moglie! I convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a andare. – Che male c’è? Le dirai che venga a prendere un boccone... – Ma se non so neppure come debba chiamarla! – gridò Gerlando, esasperato. Alcuni convitati scoppiarono a ridere, altri furono pronti a trattenere il mezzadro che s’era lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli guastava così la festa preparata con tanta solennità e tanta spesa. – La chiamerai col suo nome di battesimo, – gli diceva intanto, piano e persuasiva, la madre. – Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora. Non è tua moglie? Va’, figlio mio, va’... E, così dicendo, lo avviò alla camera nuziale. Gerlando andò a picchiare all’uscio. Picchiò una prima volta, piano. Attese. Silenzio. Come le avrebbe detto? Doveva proprio darle del tu, così alla prima? Ah, maledetto impiccio! E perché, intanto, ella non rispondeva? Forse non aveva inteso. Ripicchiò più forte. Attese. Silenzio. Allora, tutto impacciato, si provò a chiamare a bassa voce, come gli aveva suggerito la madre. Ma gli venne fuori un Eneolora così ridicolo, che subito, come per cancellarlo, chiamò forte, franco: – Eleonora! Intese alla fine la voce di lei che domandava dietro l’uscio di un’altra stanza: – Chi è? S’appressò a quell’uscio, col sangue tutto rimescolato. – Io, – disse – io Ger... Gerlando... È pronto.


– Non posso, – rispose lei. – Fate senza di me. Gerlando tornò in sala, sollevato da un gran peso. – Non viene! Dice che non viene! Non può venire! – Viva il bestione! – esclamò allora il padre, che non lo chiamava altrimenti. – Le hai detto ch’era in tavola? E perché non l’hai forzata a venire? La moglie s’interpose: fece intendere al marito che sarebbe stato meglio. forse, lasciare in pace la sposa, per quel giorno. I convitati approvarono. – L’emozione... il disagio... si sa! Ma il mezzadro che s’era inteso di dimostrare alla nuora che, all’occorrenza, sapeva far l’obbligo suo, rimase imbronciato e ordinò con mala grazia che il pranzo fosse servito. C’era il desiderio dei piatti fini, ch’ora sarebbero venuti in tavola, ma c’era anche in tutti quei convitati una seria costernazione per tutto quel superfluo che vedevano luccicar sulla tovaglia nuova, che li abbagliava: quattro bicchieri di diversa forma e forchette e forchettine, coltelli e coltellini, e certi pennini, poi, dentro gl’involtini di cartavelina. Seduti ben discosti dalla tavola, sudavano anche per i grevi abiti di panno della festa, e si guardavano nelle facce dure, arsicce, svisate dall’insolita pulizia; e non osavano alzar le grosse mani sformate dai lavori della campagna per prendere quelle forchette d’argento (la piccola o la grande?) e quei coltelli, sotto gli occhi dei camerieri che, girando coi serviti, con quei guanti di filo bianco incutevano loro una terribile soggezione. Il mezzadro, intanto, mangiando, guardava il figlio e scrollava il capo, col volto atteggiato di derisoria commiserazione: – Guardatelo, guardatelo! – borbottava tra sé. – Che figura ci fa, lì solo, spajato, a capo tavola? Come potrà la sposa aver considerazione per uno scimmione così fatto? Ha ragione, ha ragione di vergognarsi di lui. Ah, se fossi stato io al posto suo! Finito il pranzo fra la musoneria generale, i convitati, con una scusa o con un’altra, andarono via. Era già quasi sera. – E ora? – disse il padre a Gerlando, quando i due camerieri finirono di sparecchiar la tavola, e tutto nella villa ritornò tranquillo. – Che farai, ora? Te la sbroglierai tu! E ordinò alla moglie di seguirlo nella casa colonica, ove abitavano, poco discosto dalla villa. Rimasto solo, Gerlando si guardò attorno, aggrondato, non sapendo che fare. Sentì nel silenzio la presenza di quella che se ne stava chiusa di là. Forse, or ora, non sentendo più alcun rumore, sarebbe uscita dalla stanza. Che avrebbe dovuto far lui, allora? Ah, come volentieri se ne sarebbe scappato a dor-

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mire nella casa colonica, presso la madre, o anche giù all’aperto. Sotto un albero, magari! E se lei intanto s’aspettava d’esser chiamata? Se, rassegnata alla condanna che aveva voluto infliggerle il fratello, si riteneva in potere di lui, suo marito, e aspettava che egli la... sì, la invitasse a... Tese l’orecchio. Ma no: tutto era silenzio. Forse s’era già addormentata. Era già bujo. Il lume della luna entrava, per il balcone aperto, nella sala. Senza pensar d’accendere il lume, Gerlando prese una seggiola e si recò a sedere al balcone, che guardava tutt’intorno, dall’alto, l’aperta campagna declinante al mare laggiù in fondo, lontano. Nella notte chiara splendevano limpide le stelle maggiori; la luna accendeva sul mare una fervida fascia d’argento; dai vasti piani gialli di stoppia si levava tremulo il canto dei grilli, come un fitto, continuo scampanellio. A un tratto, un assiolo, da presso, emise un chiù languido, accorante; da lontano un altro gli rispose, come un’eco, e tutti e due seguitarono per un pezzo a singultar così, nella chiara notte. Con un braccio appoggiato alla ringhiera del balcone, egli allora, istintivamente, per sottrarsi all’oppressione di quell’incertezza smaniosa, fermò l’udito a quei due chiù che si rispondevano nel silenzio incantato dalla luna; poi, scorgendo laggiù in fondo un tratto del muro che cingeva tutt’intorno il podere, pensò che ora tutta quella terra era sua; suoi quegli alberi: olivi, mandorli, carrubi, fichi, gelsi; sua quella vigna. Aveva ben ragione d’esserne contento il padre, che d’ora in poi non sarebbe stato più soggetto a nessuno. Alla fin fine, non era tanto stramba l’idea di fargli seguitare gli studii. Meglio lì, meglio a scuola, che qua tutto il giorno, in compagnia della moglie. A tenere a posto quei compagni che avessero voluto ridere alle sue spalle, ci avrebbe pensato lui. Era un signore, ormai, e non gl’importava più se lo cacciavano via dalla scuola. Ma questo non sarebbe accaduto. Anzi egli si proponeva di studiare d’ora innanzi con impegno, per potere un giorno, tra breve, figurare tra i «galantuomini» del paese, senza più sentirne soggezione, e parlare e trattare con loro, da pari a pari. Gli bastavano altri quattro anni di scuola per aver la licenza dell’Istituto tecnico: e poi, perito agronomo o ragioniere. Suo cognato allora, il signor avvocato, che pareva avesse buttato là, ai cani, la sorella, avrebbe dovuto fargli tanto di cappello. Sissignori. E allora egli avrebbe avuto tutto il diritto di dirgli: «Che mi hai dato? A me, quella vecchia? Io ho studiato, ho una professione da signore e potevo aspirare a una bella giovine, ricca e di buoni natali come lei!». Così pensando, s’addormentò con la fronte sul braccio appoggiato alla ringhiera. I due chiù seguitavano, l’uno qua presso, l’altro lon-


tano; il loro alterno lamentio voluttuoso; la notte chiara pareva facesse tremolar su la terra il suo velo di luna sonoro di grilli, e arrivava ora da lontano, come un’oscura rampogna, il borboglio profondo del mare. A notte avanzata, Eleonora apparve, come un’ombra, su la soglia del balcone. Non s’aspettava di trovarvi il giovine addormentato. Ne provò pena e timore insieme. Rimase un pezzo a pensare se le convenisse svegliarlo per dirgli quanto aveva tra sé stabilito e toglierlo di lì; ma, sul punto di scuoterlo, di chiamarlo per nome, sentì mancarsi l’animo e si ritrasse pian piano, come un’ombra, nella camera dond’era uscita. IV L’intesa fu facile. Eleonora, la mattina dopo, parlò maternamente a Gerlando: lo lasciò padrone di tutto, libero di fare quel che gli sarebbe piaciuto, come se tra loro non ci fosse alcun vincolo. Per sé domandò solo d’esser lasciata lì, da canto, in quella cameretta, insieme con la vecchia serva di casa, che l’aveva vista nascere. Gerlando, che a notte inoltrata s’era tratto dal balcone tutto indurito dall’umido a dormire sul divano della sala da pranzo, ora, così sorpreso nel sonno, con una gran voglia di stropicciarsi gli occhi coi pugni, aprendo la bocca per lo sforzo d’aggrottar le ciglia, perché voleva mostrare non tanto di capire, quanto d’esser convinto, disse a tutto di sì, di sì, col capo. Ma il padre e la madre, quando seppero di quel patto, montarono su tutte le furie, e invano Gerlando si provò a far intender loro che gli conveniva così, che anzi ne era più che contento. Per quietare in certo qual modo il padre, dovette promettere formalmente che, ai primi d’ottobre, sarebbe ritornato a scuola. Ma, per ripicco, la madre gl’impose di scegliersi la camera più bella per dormire, la camera più bella per studiare, la camera più bella per mangiare... tutte le camere più belle! – E comanda tu, a bacchetta, sai! Se no, vengo io a farti ubbidire e rispettare. Giurò infine che non avrebbe mai più rivolto la parola a quella smorfiosa che le disprezzava così il figlio, un così bel pezzo di giovanotto, che colei non era neanco degna di guardare. Da quel giorno stesso, Gerlando si mise a studiare, a riprendere la preparazione interrotta per gli esami di riparazione. Era già tardi, veramente: aveva appena ventiquattro giorni innanzi a sé; ma, chi sa! mettendoci un po’ d’impegno, forse sarebbe riuscito a prendere finalmente quella licenza tecnica, per cui si torturava da tre anni. Scosso lo sbalordimento angoscioso dei primi giorni, Eleonora, per consiglio della vecchia serva, si diede a

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preparare il corredino per il nascituro. Non ci aveva pensato, e ne pianse. Gesa, la vecchia serva, la ajutò, la guidò in quel lavoro, per cui era inesperta: le diede la misura per le prime camicine, per le prime cuffiette... Ah, la sorte le serbava questa consolazione, e lei non ci aveva ancora pensato; avrebbe avuto un piccino, una piccina a cui attendere, a cui consacrarsi tutta! Ma Dio doveva farle la grazia di mandarle un maschietto. Era già vecchia, sarebbe morta presto, e come avrebbe lasciato a quel padre una femminuccia, a cui lei avrebbe ispirato i suoi pensieri, i suoi sentimenti? Un maschietto avrebbe sofferto meno di quella condizione d’esistenza, in cui fra poco la mala sorte lo avrebbe messo. Angosciata da questi pensieri, stanca del lavoro, per distrarsi, prendeva in mano uno di quei libri che l’altra volta s’era fatti spedire dal fratello, e si metteva a leggere. Ogni tanto, accennando col capo, domandava alla serva: – Che fa? Gesa si stringeva nelle spalle, sporgeva il labbro. poi rispondeva: – Uhm! Sta con la testa sul libro. Dorme? Pensa? Chi sa! Pensava, Gerlando: pensava che, tirate le somme, non era molto allegra la sua vita. Ecco qua: aveva il podere, ed era come se non lo avesse; la moglie, e come se non l’avesse; in guerra coi parenti; arrabbiato con se stesso, che non riusciva a ritener nulla, nulla, nulla di quanto studiava. E in quell’ozio smanioso, intanto, si sentiva dentro come un fermento d’acri desiderii; fra gli altri, quello della moglie, perché gli s’era negata. Non era più desiderabile, è vero, quella donna. Ma... che patto era quello? Egli era il marito, e doveva dirlo lui, se mai. Si alzava; usciva dalla stanza; passava innanzi all’uscio della camera di lei; ma subito, intravedendola, sentiva cadersi ogni proposito di ribellione. Sbuffava e, tanto per non riconoscere che sul punto gliene mancava l’animo, diceva a se stesso che non ne valeva la pena. Uno di quei giorni, finalmente tornò dalla città sconfitto, bocciato, bocciato ancora una volta agli esami di licenza tecnica. E ora basta! basta davvero! Non voleva più saperne! Prese libri, quaderni, disegni, squadre, astucci, matite e li portò giù, innanzi alla villa per farne un falò. Il padre accorse per impedirglielo; ma Gerlando, imbestialito, si ribellò: – Lasciatemi fare! Sono il padrone! Sopravvenne la madre; accorsero anche alcuni contadini che lavoravano nella campagna. Una fumicaja prima rada, poi a mano a mano più densa si sprigionò, tra le grida degli astanti, da quel mucchio di carte; poi un bagliore; poi crepitò la fiamma e si levò. Alle grida, si


fecero al balcone Eleonora e la serva. Gerlando, livido e gonfio come un tacchino, scagliava alle fiamme, scamiciato, furibondo, gli ultimi libri che teneva sotto il braccio, gli strumenti della sua lunga inutile tortura. Eleonora si tenne a stento di ridere, a quello spettacolo, e si ritrasse in fretta dal balcone. Ma la suocera se ne accorse e disse al figlio: – Ci prova gusto, sai? la signora; la fai ridere. – Piangerà! – gridò allora Gerlando, minaccioso, levando il capo verso il balcone. Eleonora intese la minaccia e impallidì: comprese che la stanca e mesta quiete, di cui aveva goduto finora, era finita per lei. Nient’altro che un momento di tregua le aveva concesso la sorte. Ma che poteva voler da lei quel bruto? Ella era già esausta: un altro colpo, anche lieve, l’avrebbe atterrata. Poco dopo, si vide innanzi Gerlando, fosco e ansante. – Si cangia vita da oggi! – le annunziò. – Mi son seccato. Mi metto a fare il contadino, come mio padre; e dunque tu smetterai di far la signora costà. Via, via tutta codesta biancheria! Chi nascerà sarà contadino anche lui, e dunque senza tanti lisci e tante gale. Licenzia la serva: farai tu da mangiare e baderai alla casa, come fa mia madre. Inteso? Eleonora si levò, pallida e vibrante di sdegno: – Tua madre è tua madre, – gli disse, guardandolo fieramente negli occhi. – Io sono io, e non posso diventare con te, villano, villana. – Mia moglie sei! – gridò allora Gerlando, appressandosi violento e afferrandola per un braccio. – E farai ciò che voglio io; qua comando io, capisci? Poi si volse alla vecchia serva e le indicò l’uscio: – Via! Voi andate subito via! Non voglio serve per la casa! – Vengo con te, Gesa! – gridò Eleonora cercando di svincolare il braccio che egli le teneva ancora afferrato. Ma Gerlando non glielo lasciò; glielo strinse più forte; la costrinse a sedere. – No! Qua! Tu rimani qua, alla catena, con me! Io per te mi son prese le beffe: ora basta! Vieni via, esci da codesto tuo covo. Non voglio star più solo a piangere la mia pena. Fuori! Fuori! E la spinse fuori della camera. – E che hai tu pianto finora? – gli disse lei con le lagrime a gli occhi. – Che ho preteso, io da te? – Che hai preteso? Di non aver molestie, di non aver contatto con me, quasi che io fossi... che non meritassi confidenza da te, matrona! E m’hai fatto servire a tavola da una salariata, mentre toccava a te a servirmi, di tutto punto, come fanno le mogli. – Ma che n’hai da fare tu, di me? – gli domandò, avvilita, Eleonora. – Ti servirò, se vuoi, con le mie mani,

d’ora in poi. Va bene? Ruppe, così dicendo, in singhiozzi, poi sentì mancarsi le gambe e s’abbandonò. Gerlando, smarrito, confuso, la sostenne insieme con Gesa, e tutt’e due la adagiarono su una seggiola. Verso sera, improvvisamente, fu presa dalle doglie. Gerlando, pentito, spaventato, corse a chiamar la madre: un garzone fu spedito in città per una levatrice; mentre il mezzadro, vedendo già in pericolo il podere, se la nuora abortiva, bistrattava il figlio: – Bestione, bestione, che hai fatto? E se ti muore. adesso? Se non hai più figli? Sei in mezzo a una strada! Che farai? Hai lasciato la scuola e non sai neppur tenere la zappa in mano. Sei rovinato! – Che me ne importa? – gridò Gerlando. – Purché non abbia nulla lei! Sopravvenne la madre, con le braccia per aria: – Un medico! Ci vuole subito un medico! La vedo male! – Che ha? – domandò Gerlando, allibito. Ma il padre lo spinse fuori: – Corri! Corri! Per via, Gerlando, tutto tremante, s’avvilì, si mise a piangere, sforzandosi tuttavia di correre. A mezza strada s’imbatté nella levatrice che veniva in vettura col garzone. – Caccia! caccia! – gridò. – Vado pel medico, muore! Inciampò, stramazzò; tutto impolverato, riprese a correre, disperatamente, addentandosi la mano che s’era scorticata. Quando tornò col medico alla villa, Eleonora stava per morire, dissanguata. – Assassino! assassino! – nicchiava Gesa, attendendo alla padrona. – Lui è stato! Ha osato di metterle le mani addosso. Eleonora però negava col capo. Si sentiva a mano a mano, col sangue, mancar la vita, a mano a mano le forze raffievolendo scemare; era già fredda... Ebbene: non si doleva di morire; era pur dolce così la morte, un gran sollievo, dopo le atroci sofferenze. E, col volto come di cera, guardando il soffitto, aspettava che gli occhi le si chiudessero da sé, pian piano, per sempre. Già non distingueva più nulla. Come in sogno rivide il vecchio medico che le aveva fatto da testimonio; e gli sorrise. V

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Gerlando non si staccò dalla sponda del letto, né giorno né notte, per tutto il tempo che Eleonora vi giacque tra la vita e la morte. Quando finalmente dal letto poté esser messa a sedere sul seggiolone, parve un’altra donna: diafana, quasi esangue. Si vide innanzi Gerlando, che sembrava uscito


anch’esso da una mortale malattia, e premurosi attorno i parenti di lui. Li guardava coi begli occhi neri ingranditi e dolenti nella pallida magrezza, e le pareva che ormai nessuna relazione esistesse più tra essi e lei, come se ella fosse or ora tornata, nuova e diversa, da un luogo remoto, dove ogni vincolo fosse stato infranto, non con essi soltanto, ma con tutta la vita di prima. Respirava con pena; a ogni menomo rumore il cuore le balzava in petto e le batteva con tumultuosa repenza; una stanchezza greve la opprimeva. Allora, col capo abbandonato su la spalliera del seggiolone, gli occhi chiusi, si rammaricava dentro di sé di non esser morta. Che stava più a farci, lì? perché ancora quella condanna per gli occhi di veder quei visi attorno e quelle cose, da cui gli si sentiva tanto, tanto lontana? Perché quel ravvicinamento con le apparenze opprimenti e nauseanti della vita passata, ravvicinamento che talvolta le pareva diventasse più brusco, come se qualcuno la spingesse di dietro, per costringerla a vedere, a sentir la presenza, la realtà viva e spirante della vita odiosa, che più non le apparteneva? Credeva fermamente che non si sarebbe rialzata mai più da quel seggiolone; credeva che da un momento all’altro sarebbe morta di crepacuore. E no, invece; dopo alcuni giorni, poté levarsi in piedi, muovere, sorretta, qualche passo per la camera; poi, col tempo, anche scendere la scala e recarsi all’aperto, a braccio di Gerlando e della serva. Prese infine l’abitudine di recarsi sul tramonto fino all’orlo del ciglione che limitava a mezzogiorno il podere. S’apriva di là la magnifica vista della piaggia sottostante all’altipiano, fino al mare laggiù. Vi si recò i primi giorni accompagnata, al solito, da Gerlando e da Gesa; poi, senza Gerlando; infine, sola. Seduta su un masso, all’ombra d’un olivo centenario, guardava tutta la riviera lontana che s’incurvava appena, a lievi lunate, a lievi seni, frastagliandosi sul mare che cangiava secondo lo spirare dei venti; vedeva il sole ora come un disco di fuoco affogarsi lentamente tra le brume muffose sedenti sul mare tutto grigio, a ponente, ora calare in trionfo su le onde infiammate, tra una pompa meravigliosa di nuvole accese; vedeva nell’umido cielo crepuscolare sgorgar liquida e calma la luce di Giove, avvivarsi appena la luna diafana e lieve; beveva con gli occhi la mesta dolcezza della sera imminente, e respirava, beata, sentendosi penetrare fino in fondo all’anima il fresco, la quiete, come un conforto sovrumano. Intanto, di là, nella casa colonica, il vecchio mezzadro e la moglie riprendevano a congiurare a danno di lei, istigando il figliuolo a provvedere a’ suoi casi. – Perché la lasci sola? – badava a dirgli il padre. – Non t’accorgi che lei, ora, dopo la malattia, t’è grata dell’af-

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fezione che le hai dimostrata? Non la lasciare un momento, cerca d’entrarle sempre più nel cuore; e poi... e poi ottieni che la serva non si corichi più nella stessa camera con lei. Ora lei sta bene e non ne ha più bisogno, la notte. Gerlando, irritato, si scrollava tutto, a questi suggerimenti. – Ma neanche per sogno! Ma se non le passa più neanche per il capo che io possa... Ma che! Mi tratta come un figliuolo... Bisogna sentire che discorsi mi fa! Si sente già vecchia, passata e finita per questo mondo. Che! – Vecchia? – interloquiva la madre. – Certo, non è più una bambina; ma vecchia neppure; e tu... – Ti levano la terra! – incalzava il padre. – Te l’ho già detto: sei rovinato, in mezzo a una strada. Senza figli, morta la moglie, la dote torna ai parenti di lei. E tu avrai fatto questo bel guadagno; avrai perduto la scuola e tutto questo tempo, così, senza nessuna soddisfazione... Neanche un pugno di mosche! Pensaci, pensaci a tempo: già troppo ne hai perduto... Che speri? – Con le buone, – riprendeva, manierosa, la madre. – Tu devi andarci con le buone, e magari dirglielo: «Vedi? che n’ho avuto io, di te? t’ho rispettato, come tu hai voluto; ma ora pensa un po’ a me, tu: come resto io? che farò, se tu mi lasci così?». Alla fin fine, santo Dio, non deve andare alla guerra! – E puoi soggiungere, – tornava a incalzare il padre. – puoi soggiungere: «Vuoi far contento tuo fratello che t’ha trattata così? farmi cacciar via di qua come un cane, da lui?». È la santa verità, questa, bada! Come un cane sarai cacciato, a pedate, e io e tua madre, poveri vecchi, con te. Gerlando non rispondeva nulla. Ai consigli della madre provava quasi un sollievo, ma irritante, come una vellicazione; le previsioni del padre gli movevano la bile, lo accendevano d’ira. Che fare? Vedeva la difficoltà dell’impresa e ne vedeva pure la necessità impellente. Bisognava a ogni modo tentare. Eleonora, adesso, sedeva a tavola con lui. Una sera, a cena, vedendolo con gli occhi fissi su la tovaglia, pensieroso, gli domandò: – Non mangi? che hai? Quantunque da alcuni giorni egli s’aspettasse questa domanda provocata dal suo stesso contegno, non seppe sul punto rispondere come aveva deliberato, e fece un gesto vago con la mano. – Che hai? – insistette Eleonora. – Nulla, – rispose, impacciato, Gerlando. – Mio padre, al solito... – Daccapo con la scuola? – domandò lei sorridendo, per spingerlo a parlare. – No: peggio, – diss’egli. – Mi pone... mi pone davanti tante ombre, m’affligge col... col pensiero del mio


avvenire, poiché lui è vecchio, dice, e io così, senza né arte né parte: finché ci sei tu, bene; ma poi... poi, niente, dice... – Di’ a tuo padre, – rispose allora, con gravità, Eleonora, socchiudendo gli occhi, quasi per non vedere il rossore di lui, – di’ a tuo padre che non se ne dia pensiero. Ho provveduto io a tutto, digli, e che stia dunque tranquillo. Anzi, giacché siamo a questo discorso, senti: se io venissi a mancare d’un tratto – siamo della vita e della morte – nel secondo cassetto del canterano, nella mia camera, troverai in una busta gialla una carta per te. – Una carta? – ripeté Gerlando, non sapendo che dire, confuso di vergogna. Eleonora accennò di sì col capo, e soggiunse: – Non te ne curare. Sollevato e contento, Gerlando, la mattina dopo, riferì ai genitori quanto gli aveva detto Eleonora; ma quelli, specialmente il padre, non ne furono per nulla soddisfatti. – Carta? Imbrogli! Che poteva essere quella carta? Il testamento: la donazione cioè del podere al marito. E se non era fatta in regola e con tutte le forme? Il sospetto era facile, atteso che si trattava della scrittura privata d’una donna, senza l’assistenza d’un notajo. E poi, non si doveva aver da fare col cognato, domani, uomo di legge, imbroglione? – Processi, figlio mio? Dio te ne scampi e liberi! La giustizia non è per i poverelli. E quello là, per la rabbia, sarà capace di farti bianco il nero e nero il bianco. E inoltre, quella carta, c’era davvero, là, nel cassetto del canterano? O glie l’aveva detto per non esser molestata? – Tu l’hai veduta? No. E allora? Ma, ammesso che te la faccia vedere, che ne capisci tu? che ne capiamo noi? Mentre con un figliuolo... là! Non ti lasciare infinocchiare: da’ ascolto a noi! Carne! carne! che carta! Così un giorno Eleonora, mentre se ne stava sotto a quell’olivo sul ciglione, si vide all’improvviso accanto Gerlando, venuto furtivamente. Era tutta avvolta in un ampio scialle nero. Sentiva freddo, quantunque il febbrajo fosse così mite, che già pareva primavera. La vasta piaggia, sotto, era tutta verde di biade; il mare, in fondo, placidissimo, riteneva insieme col cielo una tinta rosea un po’ sbiadita, ma soavissima, e le campagne in ombra parevano smaltate. Stanca di mirare, nel silenzio, quella meravigliosa armonia di colori, Eleonora aveva appoggiato il capo al tronco dell’olivo. Dallo scialle nero tirato sul capo si scopriva soltanto il volto, che pareva anche più pallido. – Che fai? – le domandò Gerlando. – Mi sembri una Madonna Addolorata. – Guardavo... – gli rispose lei, con un sospiro, soc-

chiudendo gli occhi. Ma lui riprese: – Se vedessi come... come stai bene così, con codesto scialle nero... – Bene? – disse Eleonora, sorridendo mestamente. – Sento freddo! – No, dico, bene di... di... di figura, – spiegò egli, balbettando, e sedette per terra accanto al masso. Eleonora, col capo appoggiato al tronco, richiuse gli occhi, sorrise per non piangere, assalita dal rimpianto della sua gioventù perduta così miseramente. A diciott’anni, sì, era stata pur bella, tanto! A un tratto, mentre se ne stava così assorta, s’intese scuotere leggermente. – Dammi una mano, – le chiese egli da terra, guardandola con occhi lustri. Ella comprese; ma finse di non comprendere. – La mano? Perché? – gli domandò. – Io non posso tirarti su: non ho più forza, neanche per me... È già sera, andiamo. E si alzò. – Non dicevo per tirarmi su, – spiegò di nuovo Gerlando, da terra. – Restiamo qua, al bujo; è tanto bello... Così dicendo, fu lesto ad abbracciarle i ginocchi, sorridendo nervosamente, con le labbra aride. – No! – gridò lei. – Sei pazzo? Lasciami! Per non cadere, s’appoggiò con le braccia a gli omeri di lui e lo respinse indietro. Ma lo scialle, a quell’atto, si svolse, e, com’ella se ne stava curva su lui sorto in ginocchio, lo avvolse, lo nascose dentro. – No: ti voglio! ti voglio! – diss’egli, allora, com’ebbro, stringendola vieppiù con un braccio, mentre con l’altro le cercava, più su, la vita, avvolto nell’odore del corpo di lei. Ma ella, con uno sforzo supremo, riuscì a svincolarsi; corse fino all’orlo del ciglione; si voltò; gridò: – Mi butto! In quella, se lo vide addosso, violento; si piegò indietro, precipitò giù dal ciglione. Egli si rattenne a stento, allibito, urlando, con le braccia levate. Udì un tonfo terribile, giù. Sporse il capo. Un mucchio di vesti nere, tra il verde della piaggia sottostante. E lo scialle, che s’era aperto al vento, andava a cadere mollemente, così aperto, più in là. Con le mani tra i capelli, si voltò a guardare verso la casa campestre; ma fu colpito negli occhi improvvisamente dall’ampia faccia pallida della Luna sorta appena dal folto degli olivi lassù; e rimase atterrito a mirarla, come se quella dal cielo avesse veduto e lo accusasse.

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da L. Pirandello, Novelle per un anno (1922)


PRIMA NOTTE Quattro camìce, quattro lenzuola, quattro sottane, quattro, insomma, di tutto. E quel corredo della figliuola, messo su, un filo oggi, un filo domani, con la pazienza d’un ragno, non si stancava di mostrarlo alle vicine. – Roba da poverelli, ma pulita. Con quelle povere mani sbiancate e raspose, che sapevano ogni fatica, levava dalla vecchia cassapanca d’abete, lunga e stretta che pareva una bara, piano piano, come toccasse l’ostia consacrata, la bella biancheria, capo per capo, e le vesti e gli scialli doppii di lana: quello dello sposalizio, con le punte ricamate e la frangia di seta fino a terra; gli altri tre, pure di lana, ma più modesti; metteva tutto in vista sul letto, ripetendo, umile e sorridente: – Roba da poverelli... – e la gioja le tremava nelle mani e nella voce. – Mi sono trovata sola sola, – diceva. – Tutto con queste mani, che non me le sento più. Io sotto l’acqua, io sotto il sole; lavare al fiume e in fontana; smallare mandorle, raccogliere ulive, di qua e di là per le campagne; far da serva e da acquajola... Non importa. Dio, che ha contato le mie lagrime e sa la vita mia, m’ha dato forza e salute. Tanto ho fatto, che l’ho spuntata; e ora posso morire. A quel sant’uomo che m’aspetta di là, se mi domanda di nostra figlia, potrò dirglielo: «Sta’ in pace, poveretto; non ci pensare: tua figlia l’ho lasciata bene; guaj non ne patirà. Ne ho patiti tanti io per lei...». Piango di gioja, non ve ne fate... E s’asciugava le lagrime, Mamm’Anto’, con una cocca del fazzoletto nero che teneva in capo, annodato sotto il mento. Quasi quasi non pareva più lei, quel giorno, così tutta vestita di nuovo, e faceva una curiosa impressione a sentirla parlare come sempre. Le vicine la lodavano, la commiseravano a gara. Ma la figlia Marastella, già parata da sposa con l’abito grigio di raso (una galanteria!) e il fazzoletto di seta celeste al collo, in un angolo della stanzuccia addobbata alla meglio per l’avvenimento della giornata, vedendo pianger la madre, scoppiò in singhiozzi anche lei. – Maraste’, Maraste’, che fai?

di Luigi Pirandello

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Le vicine le furono tutte intorno, premurose, ciascuna a dir la sua: – Allegra! Oh! Che fai? Oggi non si piange... Sai come si dice? Cento lire di malinconia non pagano il debito d’un soldo. – Penso a mio padre! – disse allora Marastella, con la faccia nascosta tra le mani. Morto di mala morte, sett’anni addietro! Doganiere del porto, andava coi luntri, di notte, in perlustrazione. Una notte di tempesta, bordeggiando presso le Due Riviere, il luntro s’era capovolto e poi era sparito, coi tre uomini che lo governavano. Era ancora viva, in tutta la gente di mare, la memoria di questo naufragio. E ricordavano che Marastella, accorse con la madre, tutt’e due urlanti, con le braccia levate, tra il vento e la spruzzaglia dei cavalloni, in capo alla scogliera del nuovo porto, su cui i cadaveri dei tre annegati erano stati tratti dopo due giorni di ricerche disperate, invece di buttarsi ginocchioni presso il cadavere del padre, era rimasta come impietrita davanti a un altro cadavere, mormorando, con le mani incrociate sul petto: – Ah! Amore mio! amore mio! Ah, come ti sei ridotto... Mamm’Anto’, i parenti del giovane annegato, la gente accorsa, erano restati, a quell’inattesa rivelazione. E la madre dell’annegato che si chiamava Tino Sparti (vero giovane d’oro, poveretto!) sentendola gridar così, le aveva subito buttato le braccia al collo e se l’era stretta al cuore, forte forte, in presenza di tutti, come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto, chiamandola con alte grida: – Figlia! Figlia! Per questo ora le vicine. sentendo dire a Marastella: «Penso a mio padre», si scambiarono uno sguardo d’intelligenza, commiserandola in silenzio. No, non piangeva per il padre, povera ragazza. O forse piangeva, sì, pensando che il padre, vivo, non avrebbe accettato per lei quel partito, che alla madre, nelle misere condizioni in cui era rimasta, sembrava ora una fortuna. Quanto aveva dovuto lottare Mammm’Anto’ per vincere l’ostinazione della figlia! – Mi vedi? sono vecchia ormai: più della morte che della vita. Che speri? che farai sola domani,


senz’ajuto, in mezzo a una strada? Sì. La madre aveva ragione. Ma tant’altre considerazioni faceva lei, Marastella, dal suo canto. Brav’uomo, sì, quel don Lisi Chìrico che le volevano dare per marito, – non lo negava – ma quasi vecchio, e vedovo per giunta. Si riammogliava, poveretto, più per forza che per amore, dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d’una donna lassù, che badasse alla casa e gli cucinasse la sera. Ecco perché si riammogliava. – E che te n’importa? – le aveva risposto la madre. – Questo anzi deve affidarti: pensa da uomo sennato. Vecchio? Non ha ancora quarant’anni. Non ti farà mancare mai nulla: ha uno stipendio fisso, un buon impiego. Cinque lire al giorno: una fortuna! – Ah sì, bell’impiego! bell’impiego! Qui era l’intoppo: Mamm’Anto’ lo aveva capito fin da principio: nella qualità dell’impiego del Chìrico. E una bella giornata di maggio aveva invitato alcune vicine – lei, poveretta! – a una scampagnata lassù, sull’altipiano sovrastante il paese. Don Lisi Chìrico, dal cancello del piccolo, bianco cimitero che sorge lassù, sopra il paese, col mare davanti e la campagna dietro, scorgendo la comitiva delle donne, le aveva invitate a entrare. – Vedi? Che cos’è? Pare un giardino, con tanti fiori... – aveva detto Mamm’Anto’ a Marastella, dopo la visita al camposanto. – Fiori che non appassiscono mai. E qui, tutt’intorno, campagna. Se sporgi un po’ il capo dal cancello, vedi tutto il paese ai tuoi piedi; ne senti il rumore, le voci... E hai visto che bella cameretta bianca, pulita, piena d’aria? Chiudi porta e finestra, la sera; accendi il lume; e sei a casa tua: una casa come un’altra. Che vai pensando? E le vicine, dal canto loro: – Ma si sa! E poi, tutto è abitudine; vedrai: dopo un pajo di giorni, non ti farà più impressione. I morti, del resto, figliuola, non fanno male; dai vivi devi guardarti. E tu che sei più piccola di noi, ci avrai tutte qua, a una a una. Questa è la casa grande, e tu sarai la padrona e la buona guardiana. Quella visita lassù, nella bella giornata di maggio, era rimasta nell’anima di Marastella come una visione consolatrice, durante gli undici mesi del fidanzamento: a essa s’era richiamata col pensiero nelle ore di sconforto, specialmente al sopravvenire della sera, quando l’anima le si oscurava e le tre- 49

mava di paura. S’asciugava ancora le lagrime, quando don Lisi Chìrico si presentò su la soglia con due grossi cartocci su le braccia quasi irriconoscibile. – Madonna! – gridò Mamm’Anto’ – E che avete fatto, santo cristiano? – Io? Ah sì... La barba... – rispose don Lisi con un sorriso squallido che gli tremava smarrito sulle larghe e livide labbra nude. Ma non s’era solamente raso, don Lisi: s’era anche tutto incicciato, tanto ispida e forte aveva radicata la barba in quelle gote cave, che or gli davano l’aspetto d’un vecchio capro scorticato. – Io, io, gliel’ho fatta radere io, – s’affrettò a intromettersi, sopravvenendo tutta scalmanata, donna Nela, la sorella dello sposo, grassa e impetuosa. Recava sotto lo scialle alcune bottiglie, e parve, entrando, che ingombrasse tutta quanta la stanzuccia, con quell’abito di seta verde pisello, che frusciava come una fontana. La seguiva il marito, magro come don Lisi, taciturno e imbronciato. – Ho fatto male? – seguitò quella, liberandosi dello scialle. – Deve dirlo la sposa. Dov’è? Guarda, Lisi: te lo dicevo io? Piange... Hai ragione, figliuola mia. Abbiamo troppo tardato. Colpa sua, di Lisi. «Me la rado? Non me la rado?» Due ore per risolversi. Di’ un po’, non ti sembra più giovane così? Con quei pelacci bianchi, il giorno delle nozze... – Me la farò ricrescere, – disse Chìrico interrompendo la sorella e guardando triste la giovane sposa. – Sembro vecchio lo stesso e, per giunta, più brutto. – L’uomo è uomo, asinaccio, e non è né bello né brutto! – sentenziò allora la sorella stizzita. – Guarda intanto: l’abito nuovo! Lo incigni adesso, peccato! E cominciò a dargli manacciate su le maniche per scuoterne via la sfarinatura delle paste ch’egli reggeva ancora nei due cartocci. Era già tardi; si doveva andar prima al Municipio, per non fare aspettar l’assessore, poi in chiesa; e il festino doveva esser finito prima di sera. Don Lisi, zelantissimo del suo ufficio, si raccomandava, tenuto su le spine specialmente dalla sorella intrigante e chiassona, massime dopo il pranzo e le abbondanti libazioni. – Ci vogliono i suoni! S’è mai sentito uno sposalizio senza suoni? Dobbiamo ballare! Mandate per Sidoro l’orbo... Chitarre e mandolini!


Strillava tanto, che il fratello dovette chiamarsela in disparte. – Smettila, Nela, smettila! Avresti dovuto capirlo che non voglio tanto chiasso. La sorella gli sgranò in faccia due occhi così. – Come? Anzi! Perché? Don Lisi aggrottò le ciglia e sospirò profondamente: – Pensa che è appena un anno che quella poveretta... – Ci pensi ancora davvero? – lo interruppe donna Nela con una sghignazzata. – Se stai riprendendo moglie! Oh povera Nunziata! – Riprendo moglie, – disse don Lisi socchiudendo gli occhi e impallidendo, – ma non voglio né suoni né balli. Ho tutt’altro nel cuore. E quando parve a lui che il giorno inchinasse al tramonto, pregò la suocera di disporre tutto per la partenza. – Lo sapete, debbo sonare l’avemaria, lassù. Prima di lasciar la casa, Marastella, aggrappata al collo della madre, scoppiò di nuovo a piangere, a piangere, che pareva non la volesse finir più. Non se la sentiva, non se la sentiva di andar lassù, sola con lui... – T’accompagneremo tutti noi, non piangere, – la confortava la madre. – Non piangere. sciocchina! – Ma piangeva anche lei e piangevano anche tant’altre vicine: – Partenza amara! Solo donna Nela, la sorella del Chìrico, più rubiconda che mai, non era commossa: diceva d’aver assistito a dodici sposalizii e che le lagrime alla fine, come i confetti, non erano mancati mai. – Piange la figlia nel lasciare la madre; piange la madre nel lasciare la figlia. Si sa! Un altro bicchierotto per sedare la commozione, e andiamo via ché Lisi ha fretta. Si misero in via. Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via, sospirava: – Povera sposa! Lassù, sul breve spiazzo innanzi al cancello, gl’invitati si trattennero un poco, prima di prender commiato, a esortare Marastella a far buon animo. Il sole tramontava, e il cielo era tutto rosso, di fiamma, e il mare, sotto, ne pareva arroventato. Dal paese sottostante saliva un vocio incessante, indistinto, come d’un tumulto lontano, e quelle onde di voci rissose vanivano contro il muro bianco, grezzo, 50

che cingeva il cimitero perduto lassù nel silenzio. Lo squillo aereo argentino della campanella sonata da don Lisi per annunziar l’<I>ave</I>, fu come il segnale della partenza per gli invitati. A tutti parve più bianco, udendo la campanella, quel muro del camposanto. Forse perché l’aria s’era fatta più scura. Bisognava andar via per non far tardi. E tutti presero a licenziarsi, con molti augurii alla sposa. Restarono con Marastella, stordita e gelata, la madre e due fra le più intime amiche. Su in alto, le nuvole, prima di fiamma, erano divenute ora fosche, come di fumo. – Volete entrare? – disse don Lisi alle donne, dalla soglia del cancello. Ma subito Mamm’Anto’ con una mano gli fece segno di star zitto e d’aspettare. Marastella piangeva, scongiurandola tra le lagrime di riportarsela giù in paese con sé. – Per carità! per carità! Non gridava; glielo diceva così piano e con tanto tremore nella voce, che la povera mamma si sentiva strappare il cuore. Il tremore della figlia – lei lo capiva – era perché dal cancello aveva intraveduto l’interno del camposanto, tutte quelle croci là, su cui calava l’ombra della sera. Don Lisi andò ad accendere il lume nella cameretta, a sinistra dell’entrata; volse intorno uno sguardo per vedere se tutto era in ordine, e rimase un po’ incerto se andare o aspettare che la sposa si lasciasse persuadere dalla madre a entrare. Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata, imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza: si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime. Fino alla sera avanti s’era buttato ginocchioni a piangere come un bambino davanti a una crocetta di quel camposanto, per licenziarsi dalla sua prima moglie. Non doveva pensarci più. Ora sarebbe stato tutto di quest’altra, padre e marito insieme; ma le nuove cure per la sposa non gli avrebbero fatto trascurare quelle che da tant’anni si prendeva amorosamente di tutti coloro, amici o ignoti, che dormivano lassù sotto la sua custodia. Lo aveva promesso a tutte le croci in quel giro notturno, la sera avanti. Alla fine Marastella si lasciò persuadere a entrare. La madre chiuse subito la porta quasi per isolar la figlia nell’intimità della cameretta, lasciando fuori la paura del luogo. E veramente la vista degli oggetti familiari parve confortasse alquanto Marastella.


– Su, levati lo scialle, – disse Mamm’Anto’. – Aspetta, te lo levo io. Ora sei a casa tua... – La padrona, – aggiunse don Lisi, timidamente, con un sorriso mesto e affettuoso. – Lo senti? – riprese Mamm’Anto’ per incitare il genero a parlare ancora. – Padrona mia e di tutto, – continuò don Lisi. – Lei deve già saperlo. Avrà qui uno che la rispetterà e le vorrà bene come la sua stessa mamma. E non deve aver paura di niente. – Di niente, di niente, si sa! – incalzò la madre. – Che è forse una bambina più? Che paura! Le comincerà tanto da fare, adesso... È vero? È vero? Marastella chinò più volte il capo, affermando; ma appena Mamm’Anto’ e le due vicine si mossero per andar via, ruppe di nuovo in pianto, si buttò di nuovo al collo della madre, aggrappandosi. Questa, con dolce violenza si sciolse dalle braccia della figlia, le fece le ultime raccomandazioni d’aver fiducia nello sposo e in Dio, e andò via con le vicine piangendo anche lei. Marastella restò presso la porta, che la madre, uscendo, aveva raccostata, e con le mani sul volto si sforzava di soffocare i singhiozzi irrompenti, quando un alito d’aria schiuse un poco, silenziosamente, quella porta. Ancora con le mani sul volto, ella non se n’accorse: le parve invece che tutt’a un tratto – chi sa perché – le si aprisse dentro come un vuoto delizioso, di sogno; sentì un lontano, tremulo scampanellio di grilli, una fresca inebriante fragranza di fiori. Si tolse le mani dagli occhi: intravide nel cimitero un chiarore, più che d’alba, che pareva incantasse ogni cosa, là immobile e precisa. Don Lisi accorse per richiudere la porta. Ma, subito, allora, Marastella, rabbrividendo e restringendosi nell’angolo tra la porta e il muro, gli gridò: – Per carità, non mi toccate! Don Lisi, ferito da quel moto istintivo di ribrezzo, restò. – Non ti toccavo, – disse. – Volevo richiudere la porta. – No, no, – riprese subito Marastella, per tenerlo lontano. – Lasciatela pure aperta. Non ho paura! – E allora?... – balbettò don Lisi, sentendosi cader le braccia. Nel silenzio, attraverso la porta semichiusa, giunse il canto lontano d’un contadino che ritornava spensierato alla campagna, lassù, sotto la luna, nella frescura tutta impregnata dell’odore del fieno 51

verde, falciato da poco. – Se vuoi che passi, – riprese don Lisi avvilito, profondamente amareggiato, vado a richiudere il cancello che è rimasto aperto. Marastella non si mosse dall’angolo in cui s’era ristretta. Lisi Chìrico si recò lentamente a richiudere il cancello; stava per rientrare, quando se la vide venire incontro, come impazzita tutt’a un tratto. – Dov’è, dov’è mio padre? Ditemelo! Voglio andare da mio padre. – Eccomi, perché no? è giusto; ti ci conduco, – le rispose egli cupamente. – Ogni sera, io faccio il giro prima d’andare a letto. Obbligo mio. Questa sera non lo facevo per te. Andiamo. Non c’è bisogno di lanternino. C’è la lanterna del cielo. E andarono per i vialetti inghiajati, tra le siepi di spigo fiorite. Spiccavano bianche tutt’intorno, nel lume della luna, le tombe gentilizie e nere per terra, con la loro ombra da un lato, come a giacere le croci di ferro dei poveri. Più distinto, più chiaro, veniva dalle campagne vicine il tremulo canto dei grilli e, da lontano, il borboglio continuo del mare. – Qua, – disse il Chìrico, indicando una bassa, rustica tomba, su cui era murata una lapide che ricordava il naufragio e le tre vittime del dovere. – C’è anche lo Sparti, – aggiunse, vedendo cader Marastella in ginocchio innanzi alla tomba, singhiozzante. – Tu piangi qua... Io andrò più là; non è lontano... La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l’altipiano. Lei sola vide quelle due ombre nere su la ghiaja gialla d’un vialetto presso due tombe, in quella dolce notte d’aprile. Don Lisi, chino su la fossa della prima moglie, singhiozzava: – Nunzia’, Nunzia’, mi senti?

da L. Pirandello, Novelle per un anno (1922)


Quei morti di nessuno pesano sulle nostre coscienze Roberto Saviano - Repubblica.it, 20/4/2015

I

l mediterraneo trasformato in una fossa comune. Oltre novecento morti. Morti senza storia, morti di nessuno. Scomparsi nel nostro mare e presto cancellati dalle nostre coscienze. È successo ieri, un barcone che si rovescia, i migranti – cioè persone, uomini, donne, bambini – che vengono inghiottiti e diventano fantasmi. Ma sappiamo già che succederà anche domani. E tra una settimana. E tra un mese. Spostando la nostra emozione fino all’indifferenza. Ripeti una notizia tutti i giorni, con le stesse parole, gli stessi toni, anche accorati e dolenti, e avrai ottenuto lo scopo di non farla ascoltare più. Quella storia non avrà attenzione, sembrerà sempre la stessa. Sarà sempre la stessa: “Morti sui barconi”. Qualcosa che conta per gli addetti ai lavori, storia per le associazioni, disperazione invisibile. (...) L’Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio. Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. (...)

Il popolo dei migranti Domenico Quirico – “La Stampa”, 4 ottobre 2013

D

ue anni fa mi imbarcai per capire, per tentare di capire. (...) Due anni fa ho accompagnato per un breve tratto l’anabasi [il “ritorno”] di un popolo che non è segnato nei libri di geografia o negli elenchi dell’Onu, ma che cresce ogni giorno, il popolo dei migranti. Nessuno li può contare, né i vivi né i morti. È un popolo che conosce la pazienza per cui le attese si spianano e si allargano in una apparente eternità. È in perenne cammino, scavalca i deserti. Non ha mai visto il mare, eppure sale su barche sfasciate e guarda in faccia le tempeste. (...) Che sappiamo noi di quando sono partiti, se non eravamo con loro? I miei compagni mi hanno raccontato che ogni distacco è uno scoppio di pianto misto di gioia, per la speranza che si imbocca, e di dolore per le cose che si abbandonano. Li ho incontrati nel deserto del Niger, l’immenso sentiero di sabbia: non erano più eritrei somali sudanesi, neri o arabi, con i documenti gettati era già scomparsa la loro identità, erano altra gente, sciancati corrosi spolpati distorti bolsi sradicati. Avevano già molto pagato e ancora molto dovevano pagare, ad ogni tappa, per

settimane per mesi per anni, commossi dal cielo stellato, dal silenzio, dal ricordo rassegnato dei morti, dalla fuga del tempo, dall’empito [= slancio] del cuore. (...) Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! Il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire.

Sul molo di Lampedusa a contemplare la morte Domenico Quirico – “La Stampa”, 4 ottobre 2013

E

siste per ogni uomo un luogo dove gli è impossibile divertirsi, dimenticare la propria vita. (...) Dove non possiamo giudicare o condannare; semplicemente lì abbiamo visto, sappiamo. Per me questo luogo è Lampedusa. Non sapevo, prima di arrivare qui, che esistessero esseri buttati via come l’immondizia quando non sono ancora morti, che nessuno vuole soccorrere e che muoiono a poco a poco stremati dai mali, disfacendosi lentamente all’aria aperta. Fu una scoperta casuale, dopo un viaggio in fondo al quale c’era questa isola. Qui non potrei mai, come gli ultimi turisti abbronzati che ciabattavano ieri nel dolce imbrunire d’autunno, andare al porto «a guardare i morti», dove mai potrei immergermi nel mare. Lampedusa: la terra qui non ama gli alberi e neppure gli uomini li amano, la terra secca e dura non li nutre, ma il mare. Qui c’è una mia storia scritta nel mare, indecifrabile per i non iniziati. Passo, proprio di fronte al molo, davanti al cimitero dei relitti, le barcacce dei «clandestini»; nessuno ha il coraggio di portarle via, distruggerle, i colori un po’ più stinti di due anni fa. La mia barca non c’è perché è affondata, come quella di questi africani, dei morti di ora. Due anni fa sono sbarcato su questo molo: io ero uno di loro, da Zarzis, in Tunisia, a Lampedusa, venti e più ore di mare e poi il naufragio e la morte: per fortuna, per la mano fraterna di uomini coraggiosi, per noi soltanto sfiorata. (...) Cammino sul molo, quel molo, in mezzo ai curiosi, alle televisioni che raccontano, che cercano di spiegare. I miei compagni naufraghi due anni fa scesero a terra avvolti in fogli di plastica luccicanti come corazze. Ora sfilano sacchi neri dei morti. (...) Qui ho imparato che soffrire sembra una cosa meravigliosa all’uomo che si è sentito vicino alla morte e che scopre di essere improvvisamente salvo. Qualcuno, pescatori dagli occhi scuri e lustri come olive nere, si ricorda ancora di me: «Tu sei vivo…».


Il popolo dei migranti

Sul molo di Lampedusa

Domenico Quirico

Domenico Quirico

D

siste per ogni uomo un luogo dove gli è impossibile divertirsi, dimenticare la propria vita. (...) Dove non possiamo giudicare o condannare; semplicemente lì abbiamo visto, sappiamo. Per me questo luogo è Lampedusa. Non sapevo, prima di arrivare qui, che esistessero esseri buttati via come l’immondizia quando non sono ancora morti, che nessuno vuole soccorrere e che muoiono a poco a poco stremati dai mali, disfacendosi lentamente all’aria aperta. Fu una scoperta casuale, dopo un viaggio in fondo al quale c’era questa isola. Qui non potrei mai, come gli ultimi turisti abbronzati che ciabattavano ieri nel dolce imbrunire d’autunno, andare al porto «a guardare i morti», dove mai potrei immergermi nel mare. Lampedusa: la terra qui non ama gli alberi e neppure gli uomini li amano, la terra secca e dura non li nutre, ma il mare. Qui c’è una mia storia scritta nel mare, indecifrabile per i non iniziati. Passo, proprio di fronte al molo, davanti al cimitero dei relitti, le barcacce dei «clandestini»; nessuno ha il coraggio di portarle via, distruggerle, i colori un po’ più stinti di due anni fa. La mia barca non c’è perché è affondata, come quella di questi africani, dei morti di ora. Due anni fa sono sbarcato su questo molo: io ero uno di loro, da Zarzis, in Tunisia, a Lampedusa, venti e più ore di mare e poi il naufragio e la morte: per fortuna, per la mano fraterna di uomini coraggiosi, per noi soltanto sfiorata. (...) Cammino sul molo, quel molo, in mezzo ai curiosi, alle televisioni che raccontano, che cercano di spiegare. I miei compagni naufraghi due anni fa scesero a terra avvolti in fogli di plastica luccicanti come corazze. Ora sfilano sacchi neri dei morti. (...) Qui ho imparato che soffrire sembra una cosa meravigliosa all’uomo che si è sentito vicino alla morte e che scopre di essere improvvisamente salvo. Qualcuno, pescatori dagli occhi scuri e lustri come olive nere, si ricorda ancora di me: «Tu sei vivo…».

ue anni fa mi imbarcai per capire, per tentare di capire. (...) Due anni fa ho accompagnato per un breve tratto [il ritorno] di un popolo che non è segnato nei libri di geografia o negli elenchi dell’Onu, ma che cresce ogni giorno, il popolo dei migranti. Nessuno li può contare, né i vivi né i morti. È un popolo che conosce la pazienza, per cui le attese si spianano e si allargano in una apparente eternità. È in perenne cammino, scavalca i deserti. Non ha mai visto il mare, eppure sale su barche sfasciate e guarda in faccia le tempeste. (...) Che sappiamo noi di quando sono partiti, se non eravamo con loro? I miei compagni mi hanno raccontato che ogni distacco è uno scoppio di pianto misto di gioia, per la speranza che si imbocca, e di dolore per le cose che si abbandonano. Li ho incontrati nel deserto del Niger, l’immenso sentiero di sabbia: non erano più eritrei somali sudanesi, neri o arabi, con i documenti gettati era già scomparsa la loro identità, erano altra gente, sciancati corrosi spolpati distorti bolsi sradicati. Avevano già molto pagato e ancora molto dovevano pagare, ad ogni tappa, per settimane per mesi per anni, commossi dal cielo stellato, dal silenzio, dal ricordo rassegnato dei morti, dalla fuga del tempo, dall’empito [= slancio] del cuore. (...) Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! Il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire. (“La Stampa”, 4 ottobre 2013)

E

(“La Stampa”, 4 ottobre 2013)


Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO

PREDICATO (VERB. / NOM.)

(COMP.

OGGETTO)

COMPLEMENTI

seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Li ho incontrati nel deserto del Niger, l’immenso sentiero di sabbia: non erano più eritrei somali sudanesi, neri o arabi, con i documenti gettati era già scomparsa la loro identità, erano altra gente, sciancati corrosi spolpati distorti bolsi sradicati. Avevano già molto pagato e ancora molto dovevano pagare, (...). Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! Il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire”. (D. Quirico) Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO

PREDICATO (VERB. / NOM.)

(COMP.

OGGETTO)

COMPLEMENTI

seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Li ho incontrati nel deserto del Niger, l’immenso sentiero di sabbia: non erano più eritrei somali sudanesi, neri o arabi, con i documenti gettati era già scomparsa la loro identità, erano altra gente, sciancati corrosi spolpati distorti bolsi sradicati. Avevano già molto pagato e ancora molto dovevano pagare, (...). Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! Il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire”. (D. Quirico) Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO

PREDICATO (VERB. / NOM.)

(COMP.

OGGETTO)

COMPLEMENTI

seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Li ho incontrati nel deserto del Niger, l’immenso sentiero di sabbia: non erano più eritrei somali sudanesi, neri o arabi, con i documenti gettati era già scomparsa la loro identità, erano altra gente, sciancati corrosi spolpati distorti bolsi sradicati. Avevano già molto pagato e ancora molto dovevano pagare, (...). Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! Il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire”. (D. Quirico) Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO

PREDICATO (VERB. / NOM.)

(COMP.

OGGETTO)

COMPLEMENTI

seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Li ho incontrati nel deserto del Niger, l’immenso sentiero di sabbia: non erano più eritrei somali sudanesi, neri o arabi, con i documenti gettati era già scomparsa la loro identità, erano altra gente, sciancati corrosi spolpati distorti bolsi sradicati. Avevano già molto pagato e ancora molto dovevano pagare, (...). Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! Il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire”. (D. Quirico)


VERIFICA DI ITALIANO 1. Migrazioni: il dramma dei barconi, dei profughi, di chi scappa dalla miseria e dalla guerra, la speranza di chi rischia tutto quel che ha per una possibilità di futuro: gli articoli di Domenico Quirico ci hanno aperto una “finestra” sul viaggio dei migranti verso l’Europa. Rileggili, poi esponi le tue conoscenze e le tue opinioni sull’argomento, in generale e sull’esperienza raccontata dall’autore. 2. La nostra classe è composta da ragazzi e ragazze che ogni giorno vengono a Centurano, Caserta, ciascuno da un paese, una città o un quartiere diverso. Descrivi il tuo paese/quartiere/contrada/rione/località ecc., soffermandoti su tutti gli aspetti che ti sembrano importanti, sia negativi che positivi. Unisci alla descrizione fisica del luogo osservazioni su vita sociale, problemi, bellezze e tue sensazioni personali che vorresti comunicare agli altri. Alla descrizione/commento puoi unire un disegno.

VERIFICA DI ITALIANO 1. Migrazioni: il dramma dei barconi, dei profughi, di chi scappa dalla miseria e dalla guerra, la speranza di chi rischia tutto quel che ha per una possibilità di futuro: gli articoli di Domenico Quirico ci hanno aperto una “finestra” sul viaggio dei migranti verso l’Europa. Rileggili, poi esponi le tue conoscenze e le tue opinioni sull’argomento, in generale e sull’esperienza raccontata dall’autore. 2. La nostra classe è composta da ragazzi e ragazze che ogni giorno vengono a Centurano, Caserta, ciascuno da un paese, una città o un quartiere diverso. Descrivi il tuo paese/quartiere/contrada/rione/località ecc., soffermandoti su tutti gli aspetti che ti sembrano importanti, sia negativi che positivi. Unisci alla descrizione fisica del luogo osservazioni su vita sociale, problemi, bellezze e tue sensazioni personali che vorresti comunicare agli altri. Alla descrizione/commento puoi unire un disegno.

VERIFICA DI ITALIANO 1. Migrazioni: il dramma dei barconi, dei profughi, di chi scappa dalla miseria e dalla guerra, la speranza di chi rischia tutto quel che ha per una possibilità di futuro: gli articoli di Domenico Quirico ci hanno aperto una “finestra” sul viaggio dei migranti verso l’Europa. Rileggili, poi esponi le tue conoscenze e le tue opinioni sull’argomento, in generale e sull’esperienza raccontata dall’autore. 2. La nostra classe è composta da ragazzi e ragazze che ogni giorno vengono a Centurano, Caserta, ciascuno da un paese, una città o un quartiere diverso. Descrivi il tuo paese/quartiere/contrada/rione/località ecc., soffermandoti su tutti gli aspetti che ti sembrano importanti, sia negativi che positivi. Unisci alla descrizione fisica del luogo osservazioni su vita sociale, problemi, bellezze e tue sensazioni personali che vorresti comunicare agli altri. Alla descrizione/commento puoi unire un disegno.

VERIFICA DI ITALIANO 1. Migrazioni: il dramma dei barconi, dei profughi, di chi scappa dalla miseria e dalla guerra, la speranza di chi rischia tutto quel che ha per una possibilità di futuro: gli articoli di Domenico Quirico ci hanno aperto una “finestra” sul viaggio dei migranti verso l’Europa. Rileggili, poi esponi le tue conoscenze e le tue opinioni sull’argomento, in generale e sull’esperienza raccontata dall’autore. 2. La nostra classe è composta da ragazzi e ragazze che ogni giorno vengono a Centurano, Caserta, ciascuno da un paese, una città o un quartiere diverso. Descrivi il tuo paese/quartiere/contrada/rione/località ecc., soffermandoti su tutti gli aspetti che ti sembrano importanti, sia negativi che positivi. Unisci alla descrizione fisica del luogo osservazioni su vita sociale, problemi, bellezze e tue sensazioni personali che vorresti comunicare agli altri. Alla descrizione/commento puoi unire un disegno.


PASSATO

PRESENTE

FUTURO

PASSATO

PRESENTE

TEMPO

INFINITO

f. anteriore

f. semplice

trap. remoto

trap. pross.

p. remoto

imperfetto

p. prossimo

INDICATIVO

GERUNDIO

PARTICIPIO

MODI (indefiniti)

CONGIUNTIVO

CONDIZIONALE

MODI (finiti) IMPERATIVO

GRAMMATICA: PROSPETTO DEI TEMPI E MODI VERBALI


I

l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

I

l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

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l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

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l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

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l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

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l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

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l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

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l tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d'Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca. D'un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall'altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Torrione. La retroguardia dell'esercito d'Ovestfalda era stata respinta verso l'interno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)


Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali. Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali. Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali. Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali. Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali. Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali. Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali. Esercizi: Analisi logica del brano. Segnala gli elementi che non conosci. Cataloga i complementi di tempo e di luogo (nelle loro tipologie). Complementi di luogo: cataloga le preposizioni e locuzioni prepositive utilizzate per esprimerli. Analisi dei tempi e dei modi verbali.


Un vento freddo e pungente si levò. Lentamente il buio ad oriente sbiadì e lasciò il posto a un grigio di ghiaccio. Raggi di luce rossa scavalcarono le nere mura dell'Emyn Muil alla loro estrema sinistra. Poi venne l'alba limpida e luminosa; un vento basso attraversava il loro sentiero, correndo sull'erba piegata. D'un tratto Ombromanto si fermò e nitrì. Gandalf indicò qualcosa innanzi a loro. "Guardate!", gridò, ed essi levarono gli occhi stanchi. Davanti a loro si ergevano le montagne del Sud: incappucciate di bianco e striate di nero. Le praterie si stendevano sino ai colli raggruppati ai loro piedi, e inondavano di verde molte valli ancora vaghe e oscure, inviolate dalla luce dell'alba, che serpeggiavano sin nel cuore delle imponenti montagne. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Un vento freddo e pungente si levò. Lentamente il buio ad oriente sbiadì e lasciò il posto a un grigio di ghiaccio. Raggi di luce rossa scavalcarono le nere mura dell’Emyn Muil alla loro estrema sinistra. Poi venne l’alba limpida e luminosa; un vento basso attraversava il loro sentiero, correndo sull’erba piegata. D’un tratto Ombromanto si fermò e nitrì. Gandalf indicò qualcosa innanzi a loro. “Guardate!”, gridò, ed essi levarono gli occhi stanchi. Davanti a loro si ergevano le montagne del Sud: incappucciate di bianco e striate di nero. Le praterie si stendevano sino ai colli raggruppati ai loro piedi, e inondavano di verde molte valli ancora vaghe e oscure, inviolate dalla luce dell’alba, che serpeggiavano sin nel cuore delle imponenti montagne. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Un vento freddo e pungente si levò. Lentamente il buio ad oriente sbiadì e lasciò il posto a un grigio di ghiaccio. Raggi di luce rossa scavalcarono le nere mura dell’Emyn Muil alla loro estrema sinistra. Poi venne l’alba limpida e luminosa; un vento basso attraversava il loro sentiero, correndo sull’erba piegata. D’un tratto Ombromanto si fermò e nitrì. Gandalf indicò qualcosa innanzi a loro. “Guardate!”, gridò, ed essi levarono gli occhi stanchi. Davanti a loro si ergevano le montagne del Sud: incappucciate di bianco e striate di nero. Le praterie si stendevano sino ai colli raggruppati ai loro piedi, e inondavano di verde molte valli ancora vaghe e oscure, inviolate dalla luce dell’alba, che serpeggiavano sin nel cuore delle imponenti montagne. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Un vento freddo e pungente si levò. Lentamente il buio ad oriente sbiadì e lasciò il posto a un grigio di ghiaccio. Raggi di luce rossa scavalcarono le nere mura dell’Emyn Muil alla loro estrema sinistra. Poi venne l’alba limpida e luminosa; un vento basso attraversava il loro sentiero, correndo sull’erba piegata. D’un tratto Ombromanto si fermò e nitrì. Gandalf indicò qualcosa innanzi a loro. “Guardate!”, gridò, ed essi levarono gli occhi stanchi. Davanti a loro si ergevano le montagne del Sud: incappucciate di bianco e striate di nero. Le praterie si stendevano sino ai colli raggruppati ai loro piedi, e inondavano di verde molte valli ancora vaghe e oscure, inviolate dalla luce dell’alba, che serpeggiavano sin nel cuore delle imponenti montagne. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Un vento freddo e pungente si levò. Lentamente il buio ad oriente sbiadì e lasciò il posto a un grigio di ghiaccio. Raggi di luce rossa scavalcarono le nere mura dell’Emyn Muil alla loro estrema sinistra. Poi venne l’alba limpida e luminosa; un vento basso attraversava il loro sentiero, correndo sull’erba piegata. D’un tratto Ombromanto si fermò e nitrì. Gandalf indicò qualcosa innanzi a loro. “Guardate!”, gridò, ed essi levarono gli occhi stanchi. Davanti a loro si ergevano le montagne del Sud: incappucciate di bianco e striate di nero. Le praterie si stendevano sino ai colli raggruppati ai loro piedi, e inondavano di verde molte valli ancora vaghe e oscure, inviolate dalla luce dell’alba, che serpeggiavano sin nel cuore delle imponenti montagne. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Un vento freddo e pungente si levò. Lentamente il buio ad oriente sbiadì e lasciò il posto a un grigio di ghiaccio. Raggi di luce rossa scavalcarono le nere mura dell’Emyn Muil alla loro estrema sinistra. Poi venne l’alba limpida e luminosa; un vento basso attraversava il loro sentiero, correndo sull’erba piegata. D’un tratto Ombromanto si fermò e nitrì. Gandalf indicò qualcosa innanzi a loro. “Guardate!”, gridò, ed essi levarono gli occhi stanchi. Davanti a loro si ergevano le montagne del Sud: incappucciate di bianco e striate di nero. Le praterie si stendevano sino ai colli raggruppati ai loro piedi, e inondavano di verde molte valli ancora vaghe e oscure, inviolate dalla luce dell’alba, che serpeggiavano sin nel cuore delle imponenti montagne. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)


Continuarono a cavalcare, e giunse lento, dopo il tramonto, il crepuscolo, mentre le ombre della notte cominciavano a infittirsi. Quando infine si arrestarono per smontare, persino Aragorn era irrigidito e stanco. Gandalf concesse poche ore di riposo. Legolas e Gimli dormirono, mentre Aragorn giaceva supino; ma Gandalf rimase in piedi, appoggiato al suo bastone, scrutando l’oscurità a est e a ovest. Regnava il silenzio, e non vi era segno né rumore di esseri viventi. Quando si alzarono, la notte era traversata da lunghe nubi che fuggivano portate da un vento gelido. Si rimisero in viaggio sotto la fredda luna, rapidi come in pieno giorno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Continuarono a cavalcare, e giunse lento, dopo il tramonto, il crepuscolo, mentre le ombre della notte cominciavano a infittirsi. Quando infine si arrestarono per smontare, persino Aragorn era irrigidito e stanco. Gandalf concesse poche ore di riposo. Legolas e Gimli dormirono, mentre Aragorn giaceva supino; ma Gandalf rimase in piedi, appoggiato al suo bastone, scrutando l’oscurità a est e a ovest. Regnava il silenzio, e non vi era segno né rumore di esseri viventi. Quando si alzarono, la notte era traversata da lunghe nubi che fuggivano portate da un vento gelido. Si rimisero in viaggio sotto la fredda luna, rapidi come in pieno giorno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Continuarono a cavalcare, e giunse lento, dopo il tramonto, il crepuscolo, mentre le ombre della notte cominciavano a infittirsi. Quando infine si arrestarono per smontare, persino Aragorn era irrigidito e stanco. Gandalf concesse poche ore di riposo. Legolas e Gimli dormirono, mentre Aragorn giaceva supino; ma Gandalf rimase in piedi, appoggiato al suo bastone, scrutando l’oscurità a est e a ovest. Regnava il silenzio, e non vi era segno né rumore di esseri viventi. Quando si alzarono, la notte era traversata da lunghe nubi che fuggivano portate da un vento gelido. Si rimisero in viaggio sotto la fredda luna, rapidi come in pieno giorno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Continuarono a cavalcare, e giunse lento, dopo il tramonto, il crepuscolo, mentre le ombre della notte cominciavano a infittirsi. Quando infine si arrestarono per smontare, persino Aragorn era irrigidito e stanco. Gandalf concesse poche ore di riposo. Legolas e Gimli dormirono, mentre Aragorn giaceva supino; ma Gandalf rimase in piedi, appoggiato al suo bastone, scrutando l’oscurità a est e a ovest. Regnava il silenzio, e non vi era segno né rumore di esseri viventi. Quando si alzarono, la notte era traversata da lunghe nubi che fuggivano portate da un vento gelido. Si rimisero in viaggio sotto la fredda luna, rapidi come in pieno giorno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Continuarono a cavalcare, e giunse lento, dopo il tramonto, il crepuscolo, mentre le ombre della notte cominciavano a infittirsi. Quando infine si arrestarono per smontare, persino Aragorn era irrigidito e stanco. Gandalf concesse poche ore di riposo. Legolas e Gimli dormirono, mentre Aragorn giaceva supino; ma Gandalf rimase in piedi, appoggiato al suo bastone, scrutando l’oscurità a est e a ovest. Regnava il silenzio, e non vi era segno né rumore di esseri viventi. Quando si alzarono, la notte era traversata da lunghe nubi che fuggivano portate da un vento gelido. Si rimisero in viaggio sotto la fredda luna, rapidi come in pieno giorno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Continuarono a cavalcare, e giunse lento, dopo il tramonto, il crepuscolo, mentre le ombre della notte cominciavano a infittirsi. Quando infine si arrestarono per smontare, persino Aragorn era irrigidito e stanco. Gandalf concesse poche ore di riposo. Legolas e Gimli dormirono, mentre Aragorn giaceva supino; ma Gandalf rimase in piedi, appoggiato al suo bastone, scrutando l’oscurità a est e a ovest. Regnava il silenzio, e non vi era segno né rumore di esseri viventi. Quando si alzarono, la notte era traversata da lunghe nubi che fuggivano portate da un vento gelido. Si rimisero in viaggio sotto la fredda luna, rapidi come in pieno giorno. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli)


1. Quest’anno hai cominciato un nuovo percorso scolastico, con nuove sfide e con interessanti prospettive lavorative. Parla delle tue aspettative per il futuro: immagina il tipo di lavoro che ti piacerebbe fare, l’ambiente di lavoro in cui ti piacerebbe trovarti, le difficoltà che dovrai affrontare e le soddisfazioni che potrai ottenere. 2. Racconta la trama di un film o di un libro che ti è piaciuto. Descrivi le situazioni ed i personaggi, e aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore/il regista ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali? 3. Racconta un episodio della tua vita (piacevole o spiacevole, divertente o noioso) che trovi interessante. Descrivi poi gli ambienti ed il periodo in cui è accaduto, i personaggi che vi hanno preso parte ed i loro punti di vista. Aggiungi considerazioni attuali sull’accaduto (ad esempio: come ti comporteresti ora nella stessa situazione? È piacevole/spiacevole per te raccontare questa storia ai tuoi amici o compagni di classe? È interessante per te scrivere ciò che ti accade, in modo da poterlo rileggere e ricordare tra molti anni?)

1. Quest’anno hai cominciato un nuovo percorso scolastico, con nuove sfide e con interessanti prospettive lavorative. Parla delle tue aspettative per il futuro: immagina il tipo di lavoro che ti piacerebbe fare, l’ambiente di lavoro in cui ti piacerebbe trovarti, le difficoltà che dovrai affrontare e le soddisfazioni che potrai ottenere. 2. Racconta la trama di un film o di un libro che ti è piaciuto. Descrivi le situazioni ed i personaggi, e aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore/il regista ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali? 3. Racconta un episodio della tua vita (piacevole o spiacevole, divertente o noioso) che trovi interessante. Descrivi poi gli ambienti ed il periodo in cui è accaduto, i personaggi che vi hanno preso parte ed i loro punti di vista. Aggiungi considerazioni attuali sull’accaduto (ad esempio: come ti comporteresti ora nella stessa situazione? È piacevole/spiacevole per te raccontare questa storia ai tuoi amici o compagni di classe? È interessante per te scrivere ciò che ti accade, in modo da poterlo rileggere e ricordare tra molti anni?)

1. Quest’anno hai cominciato un nuovo percorso scolastico, con nuove sfide e con interessanti prospettive lavorative. Parla delle tue aspettative per il futuro: immagina il tipo di lavoro che ti piacerebbe fare, l’ambiente di lavoro in cui ti piacerebbe trovarti, le difficoltà che dovrai affrontare e le soddisfazioni che potrai ottenere. 2. Racconta la trama di un film o di un libro che ti è piaciuto. Descrivi le situazioni ed i personaggi, e aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore/il regista ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali? 3. Racconta un episodio della tua vita (piacevole o spiacevole, divertente o noioso) che trovi interessante. Descrivi poi gli ambienti ed il periodo in cui è accaduto, i personaggi che vi hanno preso parte ed i loro punti di vista. Aggiungi considerazioni attuali sull’accaduto (ad esempio: come ti comporteresti ora nella stessa situazione? È piacevole/spiacevole per te raccontare questa storia ai tuoi amici o compagni di classe? È interessante per te scrivere ciò che ti accade, in modo da poterlo rileggere e ricordare tra molti anni?) 61 1. Quest’anno hai cominciato un nuovo percorso scolastico, con nuove sfide e con interessanti prospettive lavorative. Parla delle tue aspettative per il futuro: immagina il tipo di lavoro che ti piacerebbe fare, l’ambiente di lavoro in cui ti piacerebbe trovarti, le difficoltà che dovrai affrontare e le soddisfazioni che potrai ottenere. 2. Racconta la trama di un film o di un libro che ti è piaciuto. Descrivi le situazioni ed i personaggi, e aiutati con le domande: Cosa ha voluto dirci l’autore? In che modo l’autore/il regista ci comunica una certa idea? Quali sono e cosa fanno i personaggi principali? 3. Racconta un episodio della tua vita (piacevole o spiacevole, divertente o noioso) che trovi interessante. Descrivi poi gli ambienti ed il periodo in cui è accaduto, i personaggi che vi hanno preso parte ed i loro punti di vista. Aggiungi considerazioni attuali sull’accaduto (ad esempio: come ti comporteresti ora nella stessa situazione? È piacevole/spiacevole per te raccontare questa storia ai tuoi amici o compagni di classe? È interessante per te scrivere ciò che ti accade, in modo da poterlo rileggere e ricordare tra molti anni?)


Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO / PREDICATO / (OGGETTO) / COMPLEMENTI seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Continuava a guardare lontano, quando si accorse che il tumulo gli stava accanto, l’aveva, anzi, già oltrepassato. Saltò subito sul prato. Siccome il sentiero continuava a filare via sotto i suoi piedi, perse l’equilibrio e cadde in ginocchio proprio davanti al tumulo. Due uomini, dietro la fossa, stavano alzando una pietra tombale, reggendola uno da una parte e uno dall’altra: appena scorsero K., lasciarono cadere la pietra, che rimase confitta nel suolo, come cementata. Da un cespuglio uscì fuori un terzo uomo, nel quale K. ravvisò un artista. Indossava una camicia male abbottonata, in testa portava una berretta di velluto, e in mano stringeva una matita, con la quale tracciava segni nell’aria. Con la matita cominciò a scrivere sull’estremità superiore della pietra...” (F. Kafka).

Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO / PREDICATO / (OGGETTO) / COMPLEMENTI seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Continuava a guardare lontano, quando si accorse che il tumulo gli stava accanto, l’aveva, anzi, già oltrepassato. Saltò subito sul prato. Siccome il sentiero continuava a filare via sotto i suoi piedi, perse l’equilibrio e cadde in ginocchio proprio davanti al tumulo. Due uomini, dietro la fossa, stavano alzando una pietra tombale, reggendola uno da una parte e uno dall’altra: appena scorsero K., lasciarono cadere la pietra, che rimase confitta nel suolo, come cementata. Da un cespuglio uscì fuori un terzo uomo, nel quale K. ravvisò un artista. Indossava una camicia male abbottonata, in testa portava una berretta di velluto, e in mano stringeva una matita, con la quale tracciava segni nell’aria. Con la matita cominciò a scrivere sull’estremità superiore della pietra...” (F. Kafka).

Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO / PREDICATO / (OGGETTO) / COMPLEMENTI seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Continuava a guardare lontano, quando si accorse che il tumulo gli stava accanto, l’aveva, anzi, già oltrepassato. Saltò subito sul prato. Siccome il sentiero continuava a filare via sotto i suoi piedi, perse l’equilibrio e cadde in ginocchio proprio davanti al tumulo. Due uomini, dietro la fossa, stavano alzando una pietra tombale, reggendola uno da una parte e uno dall’altra: appena scorsero K., lasciarono cadere la pietra, che rimase confitta nel suolo, come cementata. Da un cespuglio uscì fuori un terzo uomo, nel quale K. ravvisò un artista. Indossava una camicia male abbottonata, in testa portava una berretta di velluto, e in mano stringeva una matita, con la quale tracciava segni nell’aria. Con la matita cominciò a scrivere sull’estremità superiore della pietra...” (F. Kafka). 62 Grammatica: fa’ l’analisi logica del brano dato, secondo lo schema: SOGGETTO / PREDICATO / (OGGETTO) / COMPLEMENTI seguendo due indicazioni: 1) individua prima il predicato e poi il soggetto. (2) Nel predicato distingui tra quello verbale e quello nominale (copula + parte nominale); ricorda anche che a volte più verbi possono costituire un solo predicato (ad esempio nella frase tu vuoi fare = ‘vuoi’ e ‘fare’ sono due verbi ma un solo predicato verbale). “Continuava a guardare lontano, quando si accorse che il tumulo gli stava accanto, l’aveva, anzi, già oltrepassato. Saltò subito sul prato. Siccome il sentiero continuava a filare via sotto i suoi piedi, perse l’equilibrio e cadde in ginocchio proprio davanti al tumulo. Due uomini, dietro la fossa, stavano alzando una pietra tombale, reggendola uno da una parte e uno dall’altra: appena scorsero K., lasciarono cadere la pietra, che rimase confitta nel suolo, come cementata. Da un cespuglio uscì fuori un terzo uomo, nel quale K. ravvisò un artista. Indossava una camicia male abbottonata, in testa portava una berretta di velluto, e in mano stringeva una matita, con la quale tracciava segni nell’aria. Con la matita cominciò a scrivere sull’estremità superiore della pietra...” (F. Kafka).


1. L’accesso ad Internet incide profondamente sul nostro modo di comunicare, di socializzare, di trascorrere il tempo libero e di studiare. Talvolta le possibilità offerte dalla rete, dai social networks e dalle continue innovazioni digitali presentano aspetti ambivalenti: da una parte questi mezzi ci permettono di entrare in contatto rapidissimamente con molte persone e situazioni, dall’altro rischiano di favorire l’isolamento; ci offrono enormi quantità di informazioni, ma poche certezze; possono essere stimolo e strumento della nostra creatività, ma anche un limite all’immaginazione. Parla delle tue opinioni in merito (in generale), e del tuo rapporto con la rete; dell’uso che ne fai, degli svantaggi o svantaggi che ne ricavi e dei tuoi eventuali propositi per un futuro uso del web per lavoro, svago, studio... 2. Abbiamo letto la favola di Esopo raccontata da Fedro. Procediamo ad una analisi e commento di questo testo, mettendo in campo quanto fatto in classe e a casa: analizziamo la struttura del testo, scopriamo in che modo l’autore ci comunica il suo messaggio, commentiamo il significato della favola rapportandolo ad una situazione umana. 3. La nostra classe è composta da ragazzi e ragazze che ogni giorno vengono a Centurano, Caserta, ciascuno da un paese, una città o un quartiere diverso. Descrivi il tuo paese/quartiere/contrada/località ecc., soffermandoti su tutti gli aspetti che ti sembrano importanti, sia negativi che positivi. Unisci alla descrizione fisica del luogo osservazioni su vita sociale, problemi, bellezze e tue sensazioni personali che vorresti comunicare agli altri.

1. L’accesso ad Internet incide profondamente sul nostro modo di comunicare, di socializzare, di trascorrere il tempo libero e di studiare. Talvolta le possibilità offerte dalla rete, dai social networks e dalle continue innovazioni digitali presentano aspetti ambivalenti: da una parte questi mezzi ci permettono di entrare in contatto rapidissimamente con molte persone e situazioni, dall’altro rischiano di favorire l’isolamento; ci offrono enormi quantità di informazioni, ma poche certezze; possono essere stimolo e strumento della nostra creatività, ma anche un limite all’immaginazione. Parla delle tue opinioni in merito (in generale), e del tuo rapporto con la rete; dell’uso che ne fai, degli svantaggi o svantaggi che ne ricavi e dei tuoi eventuali propositi per un futuro uso del web per lavoro, svago, studio... 2. Abbiamo letto la favola di Esopo raccontata da Fedro. Procediamo ad una analisi e commento di questo testo, mettendo in campo quanto fatto in classe e a casa: analizziamo la struttura del testo, scopriamo in che modo l’autore ci comunica il suo messaggio, commentiamo il significato della favola rapportandolo ad una situazione umana. 3. La nostra classe è composta da ragazzi e ragazze che ogni giorno vengono a Centurano, Caserta, ciascuno da un paese, una città o un quartiere diverso. Descrivi il tuo paese/quartiere/contrada/località ecc., soffermandoti su tutti gli aspetti che ti sembrano importanti, sia negativi che positivi. Unisci alla descrizione fisica del luogo osservazioni su vita sociale, problemi, bellezze e tue sensazioni personali che vorresti comunicare agli altri. 63 1. L’accesso ad Internet incide profondamente sul nostro modo di comunicare, di socializzare, di trascorrere il tempo libero e di studiare. Talvolta le possibilità offerte dalla rete, dai social networks e dalle continue innovazioni digitali presentano aspetti ambivalenti: da una parte questi mezzi ci permettono di entrare in contatto rapidissimamente con molte persone e situazioni, dall’altro rischiano di favorire l’isolamento; ci offrono enormi quantità di informazioni, ma poche certezze; possono essere stimolo e strumento della nostra creatività, ma anche un limite all’immaginazione. Parla delle tue opinioni in merito (in generale), e del tuo rapporto con la rete; dell’uso che ne fai, degli svantaggi o svantaggi che ne ricavi e dei tuoi eventuali propositi per un futuro uso del web per lavoro, svago, studio... 2. Abbiamo letto la favola di Esopo raccontata da Fedro. Procediamo ad una analisi e commento di questo testo, mettendo in campo quanto fatto in classe e a casa: analizziamo la struttura del testo, scopriamo in che modo l’autore ci comunica il suo messaggio, commentiamo il significato della favola rapportandolo ad una situazione umana. 3. La nostra classe è composta da ragazzi e ragazze che ogni giorno vengono a Centurano, Caserta, ciascuno da un paese, una città o un quartiere diverso. Descrivi il tuo paese/quartiere/contrada/località ecc., soffermandoti su tutti gli aspetti che ti sembrano importanti, sia negativi che positivi. Unisci alla descrizione fisica del luogo osservazioni su vita sociale, problemi, bellezze e tue sensazioni personali che vorresti comunicare agli altri.


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uando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbeville si mise in agitazione. Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea. Le ricchezze portate dal viaggio erano diventate leggendarie, ed il popolo credeva, benché ormai i vecchi lo neghino, che la collina di Casa Baggins fosse piena di grotte rigurgitanti di tesori. E, come se ciò non bastasse, ad attirare l’attenzione di tutti contribuiva la sua inesauribile, sorprendente vitalità. Il tempo passava lasciando poche tracce sul signor Baggins: a novant’anni era tale e quale era stato a cinquanta, a novantanove incominciarono a dire che si manteneva bene: sarebbe stato più esatto dire che era immutato. Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita: non sembrava giusto che qualcuno possedesse (palesemente) l’eterna giovinezza ed allo stesso tempo (per fama) ricchezze inestimabili. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli) 1. Dopo aver letto il brano, individua tutti i verbi al trapassato prossimo e spiega perché l’autore in questi casi ha usato tale tempo. 2. Poi individua tutti i verbi all’imperfetto e spiega perché l’autore in questi casi ha usato tale tempo. 3. Aiutandoti con il libro di grammatica, individua ed analizza i verbi al congiuntivo (presente ed imperfetto) presenti nel brano. 4. Cosa indica l’uso del congiuntivo in questo brano?

Q

uando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbeville si mise in agitazione. Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea. Le ricchezze portate dal viaggio erano diventate leggendarie, ed il popolo credeva, benché ormai i vecchi lo neghino, che la collina di Casa Baggins fosse piena di grotte rigurgitanti di tesori. E, come se ciò non bastasse, ad attirare l’attenzione di tutti contribuiva la sua inesauribile, sorprendente vitalità. Il tempo passava lasciando poche tracce sul signor Baggins: a novant’anni era tale e quale era stato a cinquanta, a novantanove incominciarono a dire che si manteneva bene: sarebbe stato più esatto dire che era immutato. Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita: non sembrava giusto che qualcuno possedesse (palesemente) l’eterna giovinezza ed allo stesso tempo (per fama) ricchezze inestimabili. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli) 1. Dopo aver letto il brano, individua tutti i verbi al trapassato prossimo e spiega perché l’autore in questi casi ha usato tale tempo. 2. Poi individua tutti i verbi all’imperfetto e spiega perché l’autore in questi casi ha usato tale tempo. 3. Aiutandoti con il libro di grammatica, individua ed analizza i verbi al congiuntivo (presente ed imperfetto) presenti nel brano. 4. Cosa indica l’uso del congiuntivo in questo brano? 64

Q

uando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbeville si mise in agitazione. Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea. Le ricchezze portate dal viaggio erano diventate leggendarie, ed il popolo credeva, benché ormai i vecchi lo neghino, che la collina di Casa Baggins fosse piena di grotte rigurgitanti di tesori. E, come se ciò non bastasse, ad attirare l’attenzione di tutti contribuiva la sua inesauribile, sorprendente vitalità. Il tempo passava lasciando poche tracce sul signor Baggins: a novant’anni era tale e quale era stato a cinquanta, a novantanove incominciarono a dire che si manteneva bene: sarebbe stato più esatto dire che era immutato. Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita: non sembrava giusto che qualcuno possedesse (palesemente) l’eterna giovinezza ed allo stesso tempo (per fama) ricchezze inestimabili. (da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli) 1. Dopo aver letto il brano, individua tutti i verbi al trapassato prossimo e spiega perché l’autore in questi casi ha usato tale tempo. 2. Poi individua tutti i verbi all’imperfetto e spiega perché l’autore in questi casi ha usato tale tempo. 3. Aiutandoti con il libro di grammatica, individua ed analizza i verbi al congiuntivo (presente ed imperfetto) presenti nel brano. 4. Cosa indica l’uso del congiuntivo in questo brano?


STORIA


1. La storia dell’Umanità ha origini molto lontane nel tempo. Descrivi il percorso dell’evoluzione umana, soffermandoti sui cambiamenti del clima e dell’ambiente che lo hanno condizionato, e sui conseguenti processi di adattamento degli esseri umani nel corso della Preistoria. In particolare descrivi i vari tipi di strumenti e attrezzi, dal più semplice al più complesso, che nel corso del Paleolitico e poi del Neolitico sono stati inventati ed utilizzati. Soffermati sui vari aspetti della vita dell’uomo primitivo (migrazioni, abitazioni, alimentazione, attrezzi, vita spirituale, arte). Se vuoi, arricchisci la descrizione con disegni. 2. La Mezzaluna Fertile. Dalla “rivoluzione agricola” all’invenzione della scrittura, parla della nascita delle antiche civiltà dell’area mediterranea e mediorientale (civiltà mesopotamiche, antico Egitto), soffermandoti sugli argomenti che ti sembrano di maggiore importanza (tecniche agricole, divisione del lavoro, organizzazione sociale, religione, scienza, architettura). Puoi aiutarti con una mappa della regione. 1. La storia dell’Umanità ha origini molto lontane nel tempo. Descrivi il percorso dell’evoluzione umana, soffermandoti sui cambiamenti del clima e dell’ambiente che lo hanno condizionato, e sui conseguenti processi di adattamento degli esseri umani nel corso della Preistoria. In particolare descrivi i vari tipi di strumenti e attrezzi, dal più semplice al più complesso, che nel corso del Paleolitico e poi del Neolitico sono stati inventati ed utilizzati. Soffermati sui vari aspetti della vita dell’uomo primitivo (migrazioni, abitazioni, alimentazione, attrezzi, vita spirituale, arte). Se vuoi, arricchisci la descrizione con disegni. 2. La Mezzaluna Fertile. Dalla “rivoluzione agricola” all’invenzione della scrittura, parla della nascita delle antiche civiltà dell’area mediterranea e mediorientale (civiltà mesopotamiche, antico Egitto), soffermandoti sugli argomenti che ti sembrano di maggiore importanza (tecniche agricole, divisione del lavoro, organizzazione sociale, religione, scienza, architettura). Puoi aiutarti con una mappa della regione. 1. La storia dell’Umanità ha origini molto lontane nel tempo. Descrivi il percorso dell’evoluzione umana, soffermandoti sui cambiamenti del clima e dell’ambiente che lo hanno condizionato, e sui conseguenti processi di adattamento degli esseri umani nel corso della Preistoria. In particolare descrivi i vari tipi di strumenti e attrezzi, dal più semplice al più complesso, che nel corso del Paleolitico e poi del Neolitico sono stati inventati ed utilizzati. Soffermati sui vari aspetti della vita dell’uomo primitivo (migrazioni, abitazioni, alimentazione, attrezzi, vita spirituale, arte). Se vuoi, arricchisci la descrizione con disegni. 2. La Mezzaluna Fertile. Dalla “rivoluzione agricola” all’invenzione della scrittura, parla della nascita delle antiche civiltà dell’area mediterranea e mediorientale (civiltà mesopotamiche, antico Egitto), soffermandoti sugli argomenti che ti sembrano di maggiore importanza (tecniche agricole, divisione del lavoro, organizzazione sociale, religione, scienza, architettura). Puoi aiutarti con una mappa della regione. 1. La storia dell’Umanità ha origini molto lontane nel tempo. Descrivi il percorso dell’evoluzione umana, soffermandoti sui cambiamenti del clima e dell’ambiente che lo hanno condizionato, e sui conseguenti processi di adattamento degli esseri umani nel corso della Preistoria. In particolare descrivi i vari tipi di strumenti e attrezzi, dal più semplice al più complesso, che nel corso del Paleolitico e poi del Neolitico sono stati inventati ed utilizzati. Soffermati sui vari aspetti della vita dell’uomo primitivo (migrazioni, abitazioni, alimentazione, attrezzi, vita spirituale, arte). Se vuoi, arricchisci la descrizione con disegni. 2. La Mezzaluna Fertile. Dalla “rivoluzione agricola” all’invenzione della scrittura, parla della nascita delle antiche civiltà dell’area mediterranea e mediorientale (civiltà mesopotamiche, antico Egitto), soffermandoti sugli argomenti che ti sembrano di maggiore importanza (tecniche agricole, divisione del lavoro, organizzazione sociale, religione, scienza, architettura). Puoi aiutarti con una mappa della regione.


verifica – storia 1. Nei periodi storici fin qui studiati, individua almeno cinque “tappe” del progresso o dell’evoluzione umana che ti sembrano fondamentali. 2. La diffusione dell’uomo sulla Terra: come avvenne e da dove ebbe origine? Quando avvenne? Quali sono le due principali teorie in proposito? 3. Quali sono le tracce di una primitiva vita spirituale dell’Uomo? Quale potrebbe essere il significato di numerosi monoliti ritrovati in Europa e risalenti a circa 4000 anni fa? 4. Spiega il cambiamento che avvenne nel passaggio da un’economia di raccolta ad una economia di produzione, ed individua le aree geografiche dove tale cambiamento ebbe luogo. 5. Utilizza le mappe per illustrare meglio le tue risposte (soprattutto alle domande 2 e 4). 6. La nascita della città, dell’organizzazione del lavoro e dell’organizzazione statale: descrivi le principali caratteristiche dell’organizzazione sociale ed economica delle civiltà mesopotamiche. 7. Il progresso tecnologico e culturale delle civiltà mesopotamiche: quali sono gli aspetti che ti hanno maggiormente colpito? Quali, secondo te, sono quelli più rilevanti per la storia dell’Umanità?

verifica – storia 1. Nei periodi storici fin qui studiati, individua almeno cinque “tappe” del progresso o dell’evoluzione umana che ti sembrano fondamentali. 2. La diffusione dell’uomo sulla Terra: come avvenne e da dove ebbe origine? Quando avvenne? Quali sono le due principali teorie in proposito? 3. Quali sono le tracce di una primitiva vita spirituale dell’Uomo? Quale potrebbe essere il significato di numerosi monoliti ritrovati in Europa e risalenti a circa 4000 anni fa? 4. Spiega il cambiamento che avvenne nel passaggio da un’economia di raccolta ad una economia di produzione, ed individua le aree geografiche dove tale cambiamento ebbe luogo. 5. Utilizza le mappe per illustrare meglio le tue risposte (soprattutto alle domande 2 e 4). 6. La nascita della città, dell’organizzazione del lavoro e dell’organizzazione statale: descrivi le principali caratteristiche dell’organizzazione sociale ed economica delle civiltà mesopotamiche. 7. Il progresso tecnologico e culturale delle civiltà mesopotamiche: quali sono gli aspetti che ti hanno maggiormente colpito? Quali, secondo te, sono quelli più rilevanti per la storia dell’Umanità?

verifica – storia 1. Nei periodi storici fin qui studiati, individua almeno cinque “tappe” del progresso o dell’evoluzione umana che ti sembrano fondamentali. 2. La diffusione dell’uomo sulla Terra: come avvenne e da dove ebbe origine? Quando avvenne? Quali sono le due principali teorie in proposito? 3. Quali sono le tracce di una primitiva vita spirituale dell’Uomo? Quale potrebbe essere il significato di numerosi monoliti ritrovati in Europa e risalenti a circa 4000 anni fa? 4. Spiega il cambiamento che avvenne nel passaggio da un’economia di raccolta ad una economia di produzione, ed individua le aree geografiche dove tale cambiamento ebbe luogo. 5. Utilizza le mappe per illustrare meglio le tue risposte (soprattutto alle domande 2 e 4). 6. La nascita della città, dell’organizzazione del lavoro e dell’organizzazione statale: descrivi le principali caratteristiche dell’organizzazione sociale ed economica delle civiltà mesopotamiche. 7. Il progresso tecnologico e culturale delle civiltà mesopotamiche: quali sono gli aspetti che ti hanno maggiormente colpito? Quali, secondo te, sono quelli più rilevanti per la storia dell’Umanità?


verifica – storia 1. L’antico Egitto: parla dell’importanza che ebbe il Nilo per lo sviluppo della civiltà egiziana (economia, cultura, religione). 2. Descrivi la società dell’antico Egitto, soffermandoti sul ruolo del del faraone, sulla condizione della donna e su altre figure che ritieni importanti. 3. La “Mezzaluna fertile” e l’area mediterranea: aiutandoti con la mappa, indica i popoli e le città che ebbero maggiore importanza tra il III ed il II millennio a.C., segnando con frecce i movimenti migratori e le rotte commerciali. 4. I Fenici non fondarono imperi, ma hanno lasciato una traccia significativa grazie alle loro invenzioni e scoperte. Parlane, soffermandoti anche sui contatti che ebbero con altri popoli e sulla loro diffusione nel Mediterraneo. 5. Con la Rivoluzione agricola l’Uomo ha cominciato ad abbandonare il nomadismo a favore di una stabile sedentarietà. Parla del passaggio dal villaggio alla città, e alla formazione di una diversa struttura sociale che darà luogo a dei vasti imperi o a delle città indipendenti. Aiutati con la mappa per indicare gli imperi (quelli fin qui studiati) e le popolazioni che si organizzarono in città indipendenti. 6. Parla di invenzioni, scoperte o innovazioni culturali (ad esempio in campo religioso) che hanno inciso profondamente nella storia delle civiltà del Mediterraneo (in alcuni casi, con effetti anche sul nostro presente). 7. Il mistero di Creta: splendore e fine della civiltà Minoica.

verifica – storia 1. L’antico Egitto: parla dell’importanza che ebbe il Nilo per lo sviluppo della civiltà egiziana (economia, cultura, religione). 2. Descrivi la società dell’antico Egitto, soffermandoti sul ruolo del del faraone, sulla condizione della donna e su altre figure che ritieni importanti. 3. La “Mezzaluna fertile” e l’area mediterranea: aiutandoti con la mappa, indica i popoli e le città che ebbero maggiore importanza tra il III ed il II millennio a.C., segnando con frecce i movimenti migratori e le rotte commerciali. 4. I Fenici non fondarono imperi, ma hanno lasciato una traccia significativa grazie alle loro invenzioni e scoperte. Parlane, soffermandoti anche sui contatti che ebbero con altri popoli e sulla loro diffusione nel Mediterraneo. 5. Con la Rivoluzione agricola l’Uomo ha cominciato ad abbandonare il nomadismo a favore di una stabile sedentarietà. Parla del passaggio dal villaggio alla città, e alla formazione di una diversa struttura sociale che darà luogo a dei vasti imperi o a delle città indipendenti. Aiutati con la mappa per indicare gli imperi (quelli fin qui studiati) e le popolazioni che si organizzarono in città indipendenti. 6. Parla di invenzioni, scoperte o innovazioni culturali (ad esempio in campo religioso) che hanno inciso profondamente nella storia delle civiltà del Mediterraneo (in alcuni casi, con effetti anche sul nostro presente). 7. Il mistero di Creta: splendore e fine della civiltà Minoica.


verifica – storia 1. Le tribù indoeuropee che si stabilirono nel Peloponneso, nell’Attica e nel resto della Grecia fondarono città e civiltà. Quali? Cosa sai della religione dei Greci? 2. Con la città dei Greci nasce un nuovo tipo di società: puoi dire come nacque e si sviluppò? Si dice che la democrazia abbia avuto origine proprio nelle città greche... 3. Sparta e Atene: confronta i loro ordinamenti politici e sociali. 4. Un nuovo regno nasce sull’altopiano iranico e presto si espande fino all’Indo a Est e alla Ionia a ovest: parla dell’Impero Persiano. 5. L’indipendenza dei Greci messa alla prova: parla della prima guerra persiana. 6. La seconda guerra persiana ed il trionfo di Atene e della Grecia. 7. Falange, opliti, triremi, tattica, strategia: cosa ti suggeriscono queste parole? 8. Atene nel V secolo. Splendore e declino (l’età di Pericle e le guerre del Peloponneso).

verifica – storia 1. Le tribù indoeuropee che si stabilirono nel Peloponneso, nell’Attica e nel resto della Grecia fondarono città e civiltà. Quali? Cosa sai della religione dei Greci? 2. Con la città dei Greci nasce un nuovo tipo di società: puoi dire come nacque e si sviluppò? Si dice che la democrazia abbia avuto origine proprio nelle città greche... 3. Sparta e Atene: confronta i loro ordinamenti politici e sociali. 4. Un nuovo regno nasce sull’altopiano iranico e presto si espande fino all’Indo a Est e alla Ionia a ovest: parla dell’Impero Persiano. 5. L’indipendenza dei Greci messa alla prova: parla della prima guerra persiana. 6. La seconda guerra persiana ed il trionfo di Atene e della Grecia. 7. Falange, opliti, triremi, tattica, strategia: cosa ti suggeriscono queste parole? 8. Atene nel V secolo. Splendore e declino (l’età di Pericle e le guerre del Peloponneso).

verifica – storia 1. Le tribù indoeuropee che si stabilirono nel Peloponneso, nell’Attica e nel resto della Grecia fondarono città e civiltà. Quali? Cosa sai della religione dei Greci? 2. Con la città dei Greci nasce un nuovo tipo di società: puoi dire come nacque e si sviluppò? Si dice che la democrazia abbia avuto origine proprio nelle città greche... 3. Sparta e Atene: confronta i loro ordinamenti politici e sociali. 4. Un nuovo regno nasce sull’altopiano iranico e presto si espande fino all’Indo a Est e alla Ionia a ovest: parla dell’Impero Persiano. 5. L’indipendenza dei Greci messa alla prova: parla della prima guerra persiana. 6. La seconda guerra persiana ed il trionfo di Atene e della Grecia. 7. Falange, opliti, triremi, tattica, strategia: cosa ti suggeriscono queste parole? 8. Atene nel V secolo. Splendore e declino (l’età di Pericle e le guerre del Peloponneso).


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VERIFICA DI STORIA: RIEPILOGO Dei seguenti argomenti scegline uno (o più) da esporre sinteticamente: 1. Le Origini dell’Uomo. Parla dell’Evoluzione dell’Uomo e della diffusione di Homo Sapiens. 2. Il Neolitico. dal Nomadismo alla stanzialità. Il villaggio neolitico. 3. La Rivoluzione agricola. La “Mezzaluna fertile” e la nascita dell’agricoltura. 4. L’antico Egitto. Il ruolo del Nilo. Il faraone e la società egiziana. 5. L’area del Mediterraneo e del Vicino Oriente intorno al III-II millennio a.C.: Ittiti, Fenici, Ebrei, Egizi, Civiltà Minoica e Micenea... Parla delle invenzioni e innovazioni con le quali i popoli dell’area mediterranea e medio-orientale accrebbero le loro (e le successive) civiltà. 6. La polis greca. Sparta e Atene: ordinamenti e costituzioni. La nascita della democrazia. Democrazia e cittadinanza. 7. L’Impero Persiano. Racconta le guerre persiane, confrontando la figura del cittadino greco con quella del suddito dell’impero persiano. 8. Atene: l’età di Pericle. La guerra del Peloponneso e il declino della Grecia classica. 9. Il regno di Macedonia. Alessandro Magno e l’ideale universalistico. I regni ellenistici. 10. L’Italia preromana e gli Etruschi. 11. Origini di Roma. Mito, leggenda e verità storica. Le lotte sociali a Roma e nascita della repubblica.

VERIFICA DI STORIA: RIEPILOGO Dei seguenti argomenti scegline uno (o più) da esporre sinteticamente: 1. Le Origini dell’Uomo. Parla dell’Evoluzione dell’Uomo e della diffusione di Homo Sapiens. 2. Il Neolitico. dal Nomadismo alla stanzialità. Il villaggio neolitico. 3. La Rivoluzione agricola. La “Mezzaluna fertile” e la nascita dell’agricoltura. 4. L’antico Egitto. Il ruolo del Nilo. Il faraone e la società egiziana. 5. L’area del Mediterraneo e del Vicino Oriente intorno al III-II millennio a.C.: Ittiti, Fenici, Ebrei, Egizi, Civiltà Minoica e Micenea... Parla delle invenzioni e innovazioni con le quali i popoli dell’area mediterranea e medio-orientale accrebbero le loro (e le successive) civiltà. 6. La polis greca. Sparta e Atene: ordinamenti e costituzioni. La nascita della democrazia. Democrazia e cittadinanza. 7. L’Impero Persiano. Racconta le guerre persiane, confrontando la figura del cittadino greco con quella del suddito dell’impero persiano. 8. Atene: l’età di Pericle. La guerra del Peloponneso e il declino della Grecia classica. 9. Il regno di Macedonia. Alessandro Magno e l’ideale universalistico. I regni ellenistici. 10. L’Italia preromana e gli Etruschi. 11. Origini di Roma. Mito, leggenda e verità storica. Le lotte sociali a Roma e nascita della repubblica.


COMPETENZA SCRITTA

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Lessico: Comprensione, ricchezza, proprietà Competenza grammaticale Conoscenza dei contenuti Sintassi Elaborazione critica

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