Scartuzz

Roberto Tabaroni

SCARTUZZ ( o se preferite imballaggi )

ricordi, aneddoti, curiositĂ e qualche riflessione senza pretese di uno della PACKAGING VALLEY

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INDICE Dai “scartuzz” agli imballaggi ................................................................................... 5 Alla Wrapmatic .............................................................................................................. 15 All’ACMA .......................................................................................................................... 29  in sala Progetti ................................................................................................ 35  dal dentista ....................................................................................................... 38  nel sindacato .................................................................................................... 41  tentazioni da Arco Plessey e da Procter & Gamble ......................... 44  la prima esperienza esterna ...................................................................... 52  il progetto Cuoco Mio con la STAR ......................................................... 54  il primo incontro con la BFB ..................................................................... 56  la vicenda Nestlè e le prime “riflessioni strategiche” ..................... 58  al servizio Post Vendite ............................................................................... 62  alla Lever di Casalpusterlengo ................................................................. 68  la proposta di Belloli e Battisti ................................................................. 75  la fortuna di essere mattiniero ................................................................. 76  in Israele ............................................................................................................ 79  il ballerino super manager ......................................................................... 83  in Yemen ............................................................................................................ 87  lezioni di vita a Chicago e Hammond .................................................... 96  la Panigal, la Comag e Sumitomo ............................................................. 99  in Algeria ......................................................................................................... 104  imprenditore ................................................................................................. 110  in Costa d’Avorio ......................................................................................... 113  l’inizio del dramma ..................................................................................... 118  l’ultimo errore; la linea liquidi .............................................................. 122  alle vendite ..................................................................................................... 126  alla Colgate Palmolive di Anzio ............................................................. 131  la speranza con GD ..................................................................................... 135  e la resa alla dura realtà ........................................................................... 141 Alla Mab, BFB e Penta, con un occhiata in PRB e IMA ................................ 147 Alla Macofar ................................................................................................................. 163 Con il TBE group all’Ingenews e Sacpack ....................................................... 169 All’Unifill - con il TBE group ............................................................................... 187  uno schizzo da oscar ................................................................................ 190  in Vietnam ................................................................................................... 193  la prima volta in Cina ............................................................................. 206  con la famiglia Bartoli ............................................................................ 215  in India .......................................................................................................... 230  e alleati della Elopak .............................................................................. 242 In Pensione ................................................................................................................. 253

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Non posso sapere se anche senza il colpo di testa che mio padre fece oltre sessant’anni fa, sarei diventato comunque “uno di quelli della Packaging Valley”: una delle “strade” aperte ai giovani bolognesi di quegli anni, ma solo, appunto, una delle tante. Quindi non lo ringrazierò mai abbastanza per averlo fatto quel colpo di testa, perché percorrere quella strada è stato il più bel viaggio che avrei mai potuto sognare.

Dai “Scartuzz” agli Imballaggi

In quell’ormai lontano 1955, mio padre Tristano mi appariva come una persona serena e soddisfatta della vita. Dopo i primi difficili anni del dopo guerra durante i quali era stato a lungo disoccupato e aveva suo malgrado dovuto contare sul lavoro di mia madre per tirare avanti, da qualche anno lavorava per le Cooperative di Consumo del Popolo, e da un paio era il gerente del negozio di Corticella. Era un lavoro sicuro, ben retribuito, e che, visto come cantava quasi sempre nell'andarsene all'alba in sella alla sua "Vespa" verso Corticella, anche se pioveva o faceva un freddo cane, gli doveva piacere davvero molto. Anche mia madre mi sembrava soddisfatta: da quando mio padre era diventato gerente, aveva potuto smettere di fare camice senza sosta giorno e notte (ricordo che a volte cullava il mio insonne fratellino Dante con una funicella legata al predellino della macchina da cucire) e avere una vita quasi normale. Ne faceva ancora di camice, aiutando significativamente il bilancio familiare, ma riusciva a ritagliarsi un po’ di tempo per se stessa, per stare dietro come si doveva a me e mio fratello e per tenere in ordine la casa. Una casa che però era motivo di frequenti discussioni con mio padre.

Da quello che capivo, mia madre non desiderava altro che un poco più di spazio e quelle comodità ormai normali per larghi strati della popolazione e che le loro finanze di sicuro permettevano, ma mio padre da quell’orecchio sembrava proprio non sentirci. Eppure non doveva essere né comodo né piacevole nemmeno per lui vivere senza acqua calda corrente, con il riscaldamento fornito dalla sola cucina economica che serviva per cucinare e che obbligava a faticosi su e giù dalla cantina con gravosi carichi di legna o carbone, e con due locali per i servizi igienici tanto piccoli - forse poco più di un metro quadro ciascuno - da non riuscire quasi a muovercisi dentro. Nel primo c’era solo un lavello in cemento che serviva sia per lavarsi mani e viso sia per lavare i piatti, il più delle volte con acqua fredda, e nel secondo, dal quale si accedeva solo dal primo attraverso una porticina che per essere aperta quasi sbatteva contro il water, c’era appunto solo il water.

Per fare il bagno quindi, una volta a settimana, mia madre scaldava enormi pentoloni d’acqua sulla cucina economica, spostava la tavola della cucina, metteva al suo posto una grande e pesante catinella d’acciaio zincato, e a turno, nelle stessa acqua, si procedeva. Anche la 5

cucina non era molto grande, ma mia madre riusciva a preparare i pasti, a metterci a tavola, a fare le sue camicie, e in un lettino, in una rientranza adiacente ai servizi, a fare dormire me. La ciliegina sulla torta era però la camera dove dormivano i miei e mio fratello, sulla quale, per non dire proprio sul letto, si affacciava la porta d’ingresso alla casa. Una cosa che oltre che scomoda, doveva anche essere molto imbarazzante quando ricevevano visite, ma sulla quale mio padre aveva addirittura il coraggio di scherzare, facendo imbestialire ancor di più mia madre. Parlandone, quasi facendosene un vanto, diceva che non c’era un’altra casa al mondo dove entrando si doveva dire prima buona notte e poi buon giorno.

Forse state pensando che potevo anche risparmiarvi le condizioni di vita che ci offriva la nostra casa e l’insensibilità di mio padre di fronte alle più che legittime richieste di mia madre. Dettagli in effetti un po’ fuori tema. Ci andrò fuori tema di tanto in tanto, ve lo anticipo fin da ora, per ricordare episodi estranei al lavoro che però mi stanno particolarmente a cuore, ma in questo caso l’ho fatto per stigmatizzare l’insensibilità di mio padre nei confronti delle esigenze degli altri, anche se legittime, perché fu proprio grazie a questo suo atteggiamento, alla sua impulsività e ad una buona dose di orgoglio che fece quel colpo di testa che ci cambiò la vita a tutti. Ad una banale e molto probabilmente giusta osservazione fattagli da un amico ispettore sulla sistemazione di alcune merci sugli scaffali in vista, reagì infatti mandandolo a quel paese, e dopo avergli urlato che ne aveva abbastanza, lo lasciò a bocca aperta in negozio a metà pomeriggio e venne a casa a spiegare a mia madre che era venuto il momento di “mettere su bottega”.

Dei dettagli della sfuriata con l’ispettore seppi naturalmente in seguito, ma di quel pomeriggio ho un ricordo abbastanza nitido in quanto non avevo mai visto mia madre tanto inferocita. Dopo che mio padre le ebbe spiegato in modo agitato e confuso quello che aveva fatto e cosa pensava di fare, lei lo assalì con invettive irripetibili, urlandogli che non avevano un soldo e che avevano due figli piccoli, e gli ordinò, fra lacrime e insulti, di tornare subito al lavoro e chiedere scusa. Ma lui quel pomeriggio in negozio non ci tornò, e non lo convinsero a tornarvi nemmeno l’amico ispettore che venne quella sera a casa nostra, che arrivò a chiedergli scusa per la sua ingiusta osservazione; né altri colleghi, un paio di dirigenti della Cooperativa, alcuni degli amici più intimi e un paio dei parenti più stretti che tentarono di farlo ragionare nei due o tre giorni che seguirono. Mio padre infatti li stava a sentire annuendo con la testa, ma non li ascoltava più, perché da quello che raccontava a mia madre che lo stava ad ascoltare come ipnotizzata, ma almeno aveva smesso di piangere e offenderlo, lui stava già cercando quel negozio tutto suo al quale forse non aveva mai pensato.

Non ho idea di quanti ne vide, ma da quello che captavo dai resoconti che faceva a mia madre al ritorno dai suoi giri esplorativi, riuscii a capire che ne valutò un primo in via dei Falegnami, che però scartò dopo essersi reso conto di avere troppo vicino un concorrente temibile come la Drogheria della Pioggia, e un secondo in via Marsala che fece la stessa fine in quanto troppo vicino al mercatino rionale. Ci 6

furono poi alcuni giorni senza novità, poi, una sera, entrò raggiante in casa annunciando a mia madre sbigottita di averlo finalmente trovato il negozio giusto, e per non farselo sfuggire, di aver già firmato il compromesso per l’acquisto. Si trattava, continuò entusiasta senza lasciarla parlare, di una salumeria e drogheria nella Bolognina, in via Nicolò dall’Arca al numero sedici; a dieci minuti a piedi da Porta Galliera e a venti da Piazza Maggiore. Il “miglior negozio che si potesse desiderare” quasi le urlò, situato fra una latteria e un panificio, e con dietro l’angolo, in via Zampieri ma nello stesso edificio, addirittura una farmacia. Un centro di attrazione unico per tutti gli abitanti del quartiere; una posizione davvero d’oro, concluse trionfante.

Anche di quella sera il ricordo più nitido che ho è quello delle urla e delle offese con le quali mia madre lo investì dopo che lui gli ebbe spiegato i dettagli “dell’affare”; urla e offese che sul momento mi parvero eccessive - non avevo capito bene quei dettagli - ma che non potei che condividere quando li conobbi. Il negozio, o meglio la licenza, gli arredi, la merce in magazzino e l’avviamento, costavano otto milioni di lire, che avrebbero dovuto essere pagati in cento rate mensili; inoltre, c’erano prime spese da sostenere subito per alcune altre centinaia di migliaia di lire e si sarbbe dovuto, naturalmente, pagare un affitto mensile al proprietario dei muri. Se tenete conto che a quel tempo un operaio guadagnava circa 30.000 lire al mese, capirete che quello, a mia madre, più che un’affare doveva essere sembrato una follia.

Tornando comunque a quella sera, ricordo che dopo un tempo che mi parve infinito mia madre smise di urlare e piangere e forse pensando che lui le avesse detto di aver firmato il compromesso per metterla davanti al fatto compiuto, ma non lo avesse fatto, tentò di farlo recedere. Gli prese tutte due le mani con le sue, e guardandolo fisso negli occhi gli chiese disperata se si rendeva conto che con quella montagna di soldi si sarebbero potuti comprare tre appartamenti nuovi di zecca a Porta Lame e che i pochi soldi che avevano da parte non sarebbero bastati nemmeno per le prime spese. Ma o quella firma Tristano l’aveva fatta davvero, oppure era davvero convinto di averlo fatto, un affare. Si alzò dalla sua sedia e accarezzandole dolcemente i capelli le disse che si rendeva conto benissimo di quello che aveva fatto, ma che non c’era da aver paura. Quel negozio non avrebbe solo assicurato da subito una vita più agiata a tutti noi, ma anche un futuro senza problemi a me e mio fratello quando lui si sarebbe ritirato in pensione. I soldi che servivano subito, concluse, li avrebbero trovati certamente in prestito. E a quelle carezze e parole mia madre cedette.

Con una punta d’orgoglio nella voce gli disse che non c’era bisogno di “chiedere niente a nessuno” perché aveva da parte un gruzzoletto per eventuali emergenze; e quella era un’emergenza. Poi si gettarono piangendo l’uno nelle braccia dell’altro.

I mesi che seguirono dimostrarono che mio padre aveva visto giusto con la sua scelta; la posizione di quel negozio era davvero d’oro, ma Tristano ci aveva anche “messo del suo”per farlo crescere: grazie alla scelta di vendere solo “alta qualità”, allora piuttosto rara, i clienti erano molto aumentati rispetto a quelli dichiarati dal precedente proprietario 7

e alcuni venivano da altri quartieri e perfino da San Lazzaro e Casalecchio. Così mia madre si rasserenò, mio padre riprese a cantare dall’alba al tramonto, e mio fratello e io, anche noi più sereni, ci demmo alla pazza gioia senza aver più addosso nostra madre a sorvegliarci.

A quei tempi i negozi aprivano dal lunedì al sabato dalle sei del mattino all’una e dalle tre alle sette di sera. La domenica mattina serviva per pulire, sistemare le cose e fare l’elenco delle merci da comprare, e ci si riposava solo la domenica pomeriggio. I nostri genitori se ne andavano quindi all’alba, e tranne pochissime occasioni nelle quali tornavano di corsa a casa nell’intervallo di mezzogiorno, li rivedevamo solo la sera tardi e la domenica pomeriggio. Mi chiedo mentre scrivo se era lavorando a quel modo che si guadagnava bene e pur pagando tutte le tasse, come vi assicuro faceva Tristano, si riusciva a costruire il futuro boom economico! Chissà? Forse; comunque certamente anche.

Quella nostra sfrenata libertà e i disagiati viaggi andata e ritorno dei nostri genitori durarono comunque solo fino al giugno dell’anno dopo.

La piovosa e fredda stagione invernale durante la quale non erano quasi mai potuti rientrare a casa il mezzogiorno per un pasto caldo, o per fare un riposino, o almeno per usare il bagno e potersi rinfrescare - allora non era obbligatorio disporre di locali per servizi igienici nei negozi - li aveva stremati, e mio padre si convinse finalmente a cambiar casa. E furono fortunati. Trovarono infatti in affitto un appartamento nello stesso fabbricato del negozio, al terzo piano. Appena quindi mio fratello ebbe finito alle “Dino Sassoli”, la quarta o forse la terza elementare, verso la metà di giugno del ‘56 lasciammo senza rimpianti la palazzina in pietra a vista in via Lame 446, oggi via Zanardi 196, a Pescarola, e ci trasferimmo in un bel palazzo, sempre in pietra a vista, ma di tutt’altra qualità e età, in via Zampieri 36.

Di quel trasloco ricordo che fu facile e certamente non faticoso per tutti tranne che per me. Oltre aver preso in affitto l’appartamento, i miei avevano comprato dai precedenti affittuari, i Sermoneta, tutto l’arredo, e quindi caricarono su un furgoncino prestato e guidato da un amico - i miei non avevano né la patente né un’automobile - solo vestiti, biancheria, stoviglie, pochi oggetti di uso comune e qualche ricordo, e con mio fratello si avviarono verso via Zampieri. Sarebbero tornati a prendermi, mi dissero, con le ultime cose rimaste, fra le quali la carriola di legno senza sponde che mia madre usava per recarsi al lavatoio pubblico che si affacciava sul canale a cento metri da casa. E a me venne un’idea. Caricai la carriola e mi avviai. E fu davvero una faticaccia. Non avevo mai portato la carriola e per tutta via Lame e via Carracci zigzagai paurosamente nel traffico, per fortuna ancora scarso a quei tempi; inoltre ogni pochi metri mi dovevo fermare per raccogliere e risistemare alla bene meglio le cose che cadevano sull’asfalto.

Comunque, senza aver fatto troppi danni ce la feci. Finimmo di portare in casa e in cantina il tutto, cenammo e, stanchi ma soddisfatti, ce ne andammo tutti a letto nella nuova casa; che il mattino dopo ci riservò una graditissima sorpresa. A Pescarola eravamo abituati a svegliarci con il buon odore del pane all’olio appena sfornato che 8

entrava dalle finestre dispensato dal forno di Bonazzi, situato nella palazzina accanto, e li, scoprimmo con piacere che un’odore del tutto simile entrava in casa salendo per le scale dal forno dei fratelli Gaiba, al piano terra. Una scoperta piacevole ma certamente non tanto quanto le altre che facemmo già in quella prima giornata e nella settimana che seguì. Eravamo andati ad abitare in una “reggia”! La porta d’ingresso dava su un lungo e spazioso corridoio, sul quale si affacciavano la camera dei miei, una grande cucina-soggiorno, un bagno enorme con un’altrettanto enorme vasca da bagno, e infine una camera solo per mio fratello e me. E c’era il telefono! Tutte comodità incredibili rispetto a prima, senza contare che i miei potevano andare al lavoro e tornare in casa a piacere in un minuto, e farlo, grazie a una larga pensilina che andava dalla farmacia alla latteria, senza nemmeno bagnarsi le scarpe.

Anche mio fratello ed io apprezzammo naturalmente tutte quelle belle novità e l’evidente serenità dei genitori, e dopo che io ebbi superato senza lode e senza infamia gli esami di terza media, ancora sperimentale, alle “Aldini Valeriani”, ci mettemmo ad esplorare i dintorni per fare nuove amicizie; un’attività nella quale ottenemmo un isperato e immediato successo, ma che io dovetti quasi subito fare a tempo parziale. In attesa di riprendere la scuola, che peraltro mia madre non aveva ancora scelta, mio padre mi “chiese” infatti di cominciare a lavorare in negozio per imparare il mestiere.

Lavoravo, ma certo esagero a definire quello un lavoro, solo poche ore al giorno, e prevalentemente “fuori sede”. Il mio compito principale era infatti consegnare spese a domicilio e andare a ritirare merci varie di drogheria in un magazzino all’ingrosso a pochi passi e salumi e pezzi di carne di maiale dall’Alcisa salumi, allora ancora un piccolo laboratorio in via Massarenti, subito fuori Porta San Vitale. In negozio mi limitavo a porgere dal retro ai miei o a Sandro - un commesso che dava una mano a tempo parziale - quello che mi si chiedeva, e a guardarli, devo dire con curiosità e attenzione, lavorare. Ho ricordi vaghi e confusi di quel periodo lontano: i nomi e i volti di alcuni clienti, di qualche fornitore, di alcuni dei figli dei clienti miei coetanei con i quali mi trattenevo - troppo secondo mio padre - quando andavo a consegnare la spesa, e qualche scenetta in negozio fra clienti petulanti e mio padre intollerante. Uno solo è molto nitido: l’odore e il sapore delle incredibili colazioni a base di “barillini” all’olio ancora caldi di forno e di fette di pancetta che feci per molto tempo in compagnia di un certo signor Berti e dei suoi tre aiutanti.

Il signor Berti, commerciava cassette in legno nuove e usate per frutta e verdura in uno spiazzo in mezzo alla campagna fra il mercato ortoflorofrutticolo di via Fioravanti e via Gobetti, e si era messo d’accordo con mio padre per avere tutte le mattine alla sei, pane e pancetta. La prima volta, dopo la consegna ero scappato infreddolito; il giorno dopo mi ero fermato a scaldarmi le mani al fuoco sul quale quegli uomini facevano abbrustolire le fette di pancetta infilate in stecche di legno appuntite e ne raccoglievano il grasso sui panini; e il terzo, sedotto da quell’incredibile profumo avevo chiesto di partecipare a quell’orgia di gusto, ero stato accolto con entusiasmo, e ne ero rimasto 9

stregato. Dal giorno dopo mio padre aveva dovuto aggiungere alla “roba” per Berti un paio di panini e due belle fette di pancetta per me.

Ho avuto l’occasione di frequentare migliaia di alberghi in ogni parte del mondo, e in molti ho fatto colazioni eccellenti, ma chissà perché non ne ricordo nessuna.

Chiuso questo saporito fuori tema, devo purtroppo passare al ricordo di una tragedia che ci fece piombare tutti nella più cupa disperazione e che fece fare alla nostra vita un’altra svolta importante. Un urto violento che mia madre diede con il seno sinistro contro la manovella dell’affettatrice le fece scoprire o le provocò - non si è mai saputo con certezza - un tumore molto aggressivo. Una malattia terribile, in particolare per una donna di soli quarantacinque anni, che la costrinse a sottoporsi a un devastante intervento chirurgico seguito da una forte terapia radiante. Una cura che, dissero i medici, l’avrebbero costretta nel migliore dei casi, a non poter dare a mio padre qualsiasi aiuto per un periodo molto lungo. E così, per l’economia familiare, mio padre, pur distruggendo i sogni di mia madre che aveva sempre pensato a me come un futuro dottore o ingegnere, e facendomi accantonare i miei, appena in embrione, di diventare un esploratore/archeologo, decise che avrei dovuto smettere di studiare e mettermi a fare il salumiere a tempo pieno. Un futuro, il mio in quel campo, che dovette apparirgli fin da subito quanto meno incerto.

Imparai infatti in poco tempo e abbastanza bene a tagliare braciole, disossare prosciutti e dividere in spicchi le enormi forme di formaggio grana, che erano i lavori più difficili, senza fare scarti eccessivi, ma ero un vero disastro a fare il lavoro in apparenza più semplice, ma forse il più importante. Forse oggi è difficile da capire: tutto è imballato dalle industrie produttrici, ma a quei tempi le cose erano molto diverse. Gran parte dei prodotti, in particolare alimentari, pervenivano sfusi ai negozianti, che per venderli dovevano porzionarli, pesarli e imballarli per renderli trasportabili senza che dentro le borse della spesa dei clienti si rovinassero o ancor peggio si contaminassero l’uno con l’altro.

Saper fare bene i “scartuzz” era quindi necessario e “distintivo” per un negoziante; una abilità che io sembravo proprio non avere. Ricordo ancora mio padre, esasperato e deluso dopo avermi osservato per l’ennesima volta incartare malamente dello zucchero, che mi urlava: “Ma insamma! El mai pussebil t’an sep propi baun ed fer un scartoz ed zocar !” ( ma insomma! E’ mai possibile che non sia proprio capace di fare un cartoccio di zucchero !) Ma nonostante ci mettessi tutto il mio impegno, non riuscivo a fare qualcosa di decente.

Per fortuna, però, se non sapevo fare “scartuzz”, sapevo disegnare e anche dipingere, e mio padre, di quella mia dote, stimolata fin dall’infanzia da mia madre, andava fiero. Tanto da esporre ogni mia nuova opera sugli scaffali del negozio nascondendo alla vista dei clienti marmellate e scatolette varie, perdendo forse qualche vendita. Gran parte di quei dipinti li regalava ai clienti più affezionati e ad amici, ma alcuni riusciva incredibilmete a farseli pagare. Non avevo fatto nessuna scuola e non ero certo un artista, ma avevo fantasia, una discreto senso della prospettiva e sapevo combinare abbastanza bene i colori; tanto 10

che avevo perfino vinto un concorso di pittura indetto fra tutti gli alunni delle terze medie della citta. E quei dipinti in bella mostra fra marmellate e fagiolini in scatola che secondo mio padre avrebbero dovuto consacrarmi salumiere/artista, alleandosi con una “benedetta” influenza che colpì la famiglia dell’ingegner Bertin, mi spinsero invece in una direzione completamente diversa.

Una mattina infatti, al posto di sua moglie o della signora che l’aiutava in casa, entrambe appunto influenzate, a fare la spesa venne per la prima volta lui, l’ingegnere. Diede a mio padre la lista di quello che gli occorreva, e in attesa si mise a osservare con attenzione e un po’ di stupore due dei miei capolavori che mio padre aveva appena esposto. Lui si accorse subito di quell’interesse, e cominciò, come faceva con tutti, a tessere le mie lodi e a chiedergli, fra una lode e un’altra, cosa pensasse delle mie doti. L’ingegnere per qualche minuto fece finta di non sentirlo, poi, anziché dargli soddisfazione, si limitò a dirgli che era un peccato che un ragazzo tanto giovane e con quella attitudine facesse il salumiere. Forse, concluse, sarebbe stato meglio mandarmi a scuola di disegno.

A quelle parole, mio padre reagì, quasi a discolparsi, dicendogli dei problemi di mia madre e dell’importanza che il mio impegno in negozio aveva per l’economia familiare. Ma l’ingegnere non desistette, e dopo avergli detto che che lo capiva perfettamente, suggeri che se avevo però buona volontà, potevo continuare ad aiutarlo e nello stesso tempo imparare a disegnare. Avrei potuto frequentare un corso biennale serale per disegnatori meccanici da poco aperto presso le “Aldini Valeriani”, e avrei potuto fare anche pratica lavorando per il suo studio tecnico. Un discorso che ci mise in imbarazzo. Dall’espressione di mio padre capivo bene che l’idea dell’ingegnere non lo entusiasmava per niente, e nemmeno a me piaceva tanto. Vi vedevo infatti molto impegno, poco divertimento, e soprattutto, anche se non avevo idea di cosa facesse un disegnatore meccanico, mi sembrava che tecnica e meccanica avessero poco a che fare con la pittura. Ma mia madre, per fortuna, sbloccò la situazione.

Era scesa da qualche minuto e aveva ascoltato in silenzio l’ingegnere; e quando percepì dalle espressioni mie e di mio padre cosa stavamo per rispondergli, intervenne con decisione. Gli chiese scusa, con un gesto perentorio “invitò” mio padre e me a seguirla nel retro, e con un tono che non ammetteva repliche disse a mio padre che non voleva che dopo aver perso la possibilità di laurearmi perdessi un’altra occasione per non dover fare per sempre il salumiere. Era da quando aveva visto alcuni giovani in camice bianco disegnare ai loro tavoli dietro una vetrata della Galleria del Toro, in cima a via Ugo Bassi, concluse, che pensava per me ad un mestiere del genere, e la proposta dell’ingegner Bertin gli sembrava portasse proprio in quella direzione. Era fatta: a mia madre appena convalescente non si poteva negare nulla e nel giro di due mesi mi ritrovai inscritto al corso serale e in casa un bel tavolo da disegno cedutomi in uso dall’ingegnere.

Nei due anni che seguirono, mentre frequentavo il corso serale, stetti sempre meno tempo in negozio, smisi a poco a poco di dipingere e, 11

relegando alla lettura di viaggi e scoperte già fatte le mie velleità da esploratore/archeologo, disegnai per Bertin un po di tutto: allegati grafici per le tesi di laurea di studenti di ingegneria, piccoli impianti di ogni genere, e perfino ascensori artigianali che un certo Nerino Gamberini, un ex della Sabiem, installava in vecchi edifici. Fu un periodo molto bello: oltre a imparare ogni giorno cose nuove e interessanti, grazie ai contatti con gli studenti entrai nei loro simpatici “giri” e, con la scusa di non voler arrivare in ritardo alle lezioni del corso, in via Castiglione, anche in quelli, molto ambiti dai ragazzi di periferia come me, del centro. Nel tardo pomeriggio cenavo, poi via di corsa a godermi quasi tre ore, o facendo “fughino” sei o sette, di vera “dolce vita”. Mi aggregai prima alla compagnia di Ferruccio, il figlio del proprietario del ristorante Donatello di via Augusto Righi che organizzava feste nell’enorme appartamento sopra al ristorante; poi ad altre attratte dalle “mozzarelle in carrozza” di Lazzarini, in via Clavature, dalle “focacce con panna” e dai gelati di Pino, a Porta Castiglione, e dagli aperitivi proposti sotto il Portico del Pavaglione da Zanarini, dal Cristallo, o dal Roxi.

Tornando alle cose serie, anche se l’esperienza con Bertin fu certo preziosa e variegata, la più importante, se non proprio fondamentale, fu quella al corso. Oltre infatti a trovarevi insegnanti capaci, motivati, e pazienti fui davvero fortunato con i compagni. Erano tutti meccanici già più o meno esperti e si erano accorti subito che, contrariamente a loro che erano li a sacrificare le loro serate, dopo otto ore di lavoro vero in officina, per migliorare il loro futuro, per me quello era invece poco più di un passatempo e non sapevo niente di meccanica. Ma invece che emarginarmi, come sarebbe stato forse normale fare, o solo ignorarmi, più o meno tutti, ma in particolare i miei coetanei Paolo Mingardi, Mario Musiani, Franco Priori e Beppe Armenti, con i quali ero entrato più in confidenza, si adoperavano per aiutarmi; in particolare cercando di farmi capire come “quotare” i disegni in modo da poter realizzare i pezzi nel tempo più breve e senza possibilità di errori. Una nozione non facile da far entrare in testa a uno come me che non sapeva cosa fosse una macchina utensile, ma anche la più imporante che un disegnatore meccanico doveva sapere, sulla quale insistevano naturalmente anche i professori.

Solo che i professori basavano i loro insegnamenti su esperienze fatte molto tempo prima e su macchine utensili già vecchie forse allora, mentre i miei quattro tutori lavoravano tutti i giorni sui più recenti modelli arrivati dal Giappone. E così, i miei disegni “quotati in un modo molto attuale” indussero la commisione esterna che ci giudicò alla fine del biennio, formata anche da un paio di imprenditori, a classificarmi fra i migliori. Abbracciai quindi molto grato e anche un po’ commosso quei quattro splendidi ragazzi quando li salutai nel giugno del ’59, e non immaginavo certo che due di loro mi avrebbero aiutato ancora a “crescere”.

Il“boom” cominciava a far sentire i suoi effetti a tutta la società ed in particolare ai commercianti come mio padre. Mia madre stava bene - i medici dicevano che era fuori pericolo - e lo aiutava di nuovo a tempo pieno in negozio. Anche un devastante incendio non coperto da 12

assicurazione che l’aveva quasi distrutto era stato superato senza problemi grazie ai guadagni assai superiori a quanto sperato, e le cambiali si pagavano con facilità e spesso in anticipo. La nostra famiglia, pur non potendo definirsi ricca, era certo molto agiata per gli standard di allora, anche se non lo faceva vedere, e io dividevo il mio tempo fra la “dolce vita”, la lettura di un po’ di tutto, il lavoro in negozio e i disegni per Bertin; aiutato in questi da mio fratello che aveva iniziato anche lui alle “Aldini Valeriani”, un corso serale per perito elettrotecnico. Non pensavo più a riprendere gli studi e grazie alla sicurezza nel futuro garantita del negozio, nemmeno a cercare di far fruttare quello che avevo imparato da Bertin e al corso. Vivevo in una specie di limbo senza pensieri, con il solo cruccio di non avere il motorino che invece tutti i miei amici avevano. Mio padre, infatti, spaventato da un brutto incidente che aveva avuto anni prima, su quel punto non cedeva, e per far fare qualche giretto alle mie amichette sulla “Lambretta” di Piero Gnudi, uno degli amici di Zanarini, ero costretto a “rubargli” ogni volta dalla cassa 500 lire per pagarne l’esoso noleggio. Era una vita che potete immaginare dunque niente male, ma che finì, grazie, ma grazie davvero, a Paolo Mingardi, un tardo pomeriggio di maggio del ’60.

Non avevo più visto ne sentito Paolo dopo la fine del corso serale, e quando lo vidi entrare in negozio gli andai incontro e lo abbracciai davvero contento di rivederlo. Dopo qualche conveneveole con i miei, ce ne andammo in un vicino bar a bere qualcosa, e per un po’ ricordammo i tempi del corso e gli amici, poi Paolo mi fece una sorpresa. Mi disse infatti che non era venuto solo per rivedermi, anche se gli faceva piacere, ma per propormi un lavoro. Da qualche mese, mi spiegò, faceva il disegnatore alla Wrapmatic; una piccola azienda nata da poco per iniziativa di un tecnico della Ducati Meccanica, un certo Guzzinati, e di un tale Monterumici, un montatore dell’ACMA, per fare macchine per l’imballaggio, che sembrava avere ottime prospettive.

Avevano già quasi pronto il protipo di una macchina per confezionare caramelle e già pensavano ad altri sviluppi; i due soci gli avevano chiesto di trovare un disegnatore per aiutarlo e lui aveva pensato a me.

Con sincerità mi disse anche che non lo aveva fatto per le mie capacità professionali, che del resto conosceva solo per quel poco che mi aveva visto fare al corso, ma perché ricordava che ero l’unico che non aveva un “lavoro vero” a quei tempi e perché secondo lui abitavo a meno di venti minuti a piedi dalla sede dell’azienda; che si trovava giusto a ridosso dei viali, fra le Officine del Gas e la Curtisa, in via Ranzani 11.

Una comodità non da poco. Se ero interessato, concluse, potevo cominciare subito come apprendista disegnatore, con uno stipendio di 27.000 lire nette al mese.

La proposta non mi entusiasmò. Anche se imparare a fare il disegnatore meccanico mi era piaciuto, non avevo mai pensato, contrariamente a mia madre, di farne il lavoro della vita; per non deluderlo però, anche se non ne avevo affatto l’intenzione per non stuzzicare appunto mia madre, gli dissi che ne avrei parlato con i miei e in un paio di giorni gli avrei dato una risposta. E quando lo salutai pensai che molto probabilmente non lo avrei più rivisto. Ma 13

fortunatamente i miei erano “genitori attenti”: come rientrai in negozio mi chiesero infatti cosa fosse venuto a fare Paolo, che non era più venuto a casa nostra dai tempi del corso e del quale non mi avevano più sentito parlare; io non fui capace di mentire e il mio futuro cambiò.

Come mi ero aspettato mio padre affermò perentorio che sarebbe stato assurdo lasciare un lavoro indipendente e remunerativo come quello del negozio per andare a fare “l’impiegatuccio” con incerte prospettive. Mia madre invece, disse che quella era una occasione da cogliere al volo. Ne nacque una discussione vivace, che prosegui durante la cena e per tutto il giorno seguente, ma senza che riuscissero a mettersi d’accordo, poi, finalmente, si decisero a chiedere a me cosa volessi fare. Ed io stremato dal sentirli litigare, ma anche un po’ stanco di ascensori e tesi di laurea e di certo poco convinto di fare il salumiere a vita, feci felice mia madre. Il giorno dopo chiamai Paolo per dirgli che accettavo, poche ore dopo lui mi richiamò per dirmi che la “cosa era fatta” e darmi l’elenco dei documenti per le pratiche di assunzione che avrei dovuto portare il primo giorno di lavoro. Primo giorno di lavoro che lo scaramantico Guzzinati fissò per il 13 di giugno “perché mi avrebbe portato fortuna”; e devo dire che ha avuto ragione da vendere…. Ma giudicate pure voi !

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Alla Wrapmatic

Non ero particolarmente emozionato quel mattino del 13 giugno mentre andavo con passo svelto verso il modesto capannone con le pareti solo intonacate e già parzialmente scrostate che in un giro esplorativo di un paio di giorni prima avevo scoperto, con una certa delusione, essere la sede della Wrapmatic; ma ero curioso, questo sì, me lo ricordo bene. Non vedevo l’ora di vedere finalmente un’officina meccanica e naturalmente il prototipo della macchina per confezionare le caramelle. Dai discorsi che captavo dai clienti di mio padre che lavoravano all’ACMA, la grande azienda che confinava “a muro” con la mia camera da letto e che loro definivano con orgoglio leader mondiale di quel settore, sapevo solo a grandi linee cos’erano le macchine per l’imballaggio e che noi bolognesi ne eravamo i “migliori costruttori al mondo”.

Arrivai con largo anticipo, come mio padre mi aveva insegnato a fare e come da allora faccio ancora ad ogni appuntamento; dovevo trovarmi con Paolo prima delle otto per entrare con lui, ma alle sette e venti mi aggiravo già fra i cumuli di macerie che circondavano il capannone, che illuminato all’interno faceva presagire che qualcuno vi fosse già al lavoro. Paolo arrivò puntuale cinque minuti prima delle otto e con le chiavi di cui disponeva entrammo da una piccola porta posta a fianco di una grande serranda chiusa. La porticina dava su un ambiente spoglio di una diecina di metri quadrati, sul quale si affacciavano tre piccole porte e una ripida rampa di scale. La rampa di scale, mi disse, portava agli uffici, una delle porte immetteva nello spogliatoio e nei servizi igienici, un’altra nella sala d’aspetto per visitatori, e la terza, quella che imboccammo, in officina. Come la superammo, scorgemmo pochi metri più avanti due signori di mezza età che, come ci videro, vennero verso di noi sorridenti e l’uno dopo l’altro, stringendomi energicamente la mano, si presentarono come Guzzinati e Monterumici. Sicuramente mi dissero anche i loro nomi, ma non li ricordo; forse perché mi sono sempre rivolto a loro come faceva anche Paolo chiamandoli con rispetto signor Guzzinati e signor Monterumici. Mi ricordo invece che non furono molto loquaci; dopo avermi dato il benvenuto e fatto oggetto di pochi convenevoli, mi chiesero i documenti che mi aveano richiesto per regolarizzare l’assunzione, mi augurarono buon lavoro e mi affidarono a Paolo per fare il giro dell’azienda.

Dopo un rapido passaggio in sala d’aspetto e nello spogliatoio, salimmo le scale e ci trovammo in uno vano completamente spoglio sul quale si affacciavano, come al piano terra, tre porte. Una introduceva all’ufficio commerciale, un’altra ad un servizio igienico, e la terza all’ufficio tecnico. La superficie totale del piano non doveva essere più di cinquanta o al massimo sessanta metri quadrati; era identica comunque a quella degli ambienti sottostanti dei quali era un soppalco.

Tutto il capannone copriva una superfice che valutai in circa quattrocento metri quadrati. Diedi solo una rapida occhiata all’ufficio 15

commerciale, che mi parve molto modesto, mentre mi soffermai naturalmente con più interesse nell’ufficio tecnico. Il locale occupava forse la metà della superficie del piano, e l’arredo consisteva di tre tavoli da disegno, due scrivanie, un paio di scaffalature porta documenti, un contenitore per disegni “lucidi” grandi, uno per piccoli e medi, e una libreria appesa; il tutto così fitto da lasciare ben poco spazio per muoversi. L’attrezzatura, oltre a quanto necessario per disegnare, consisteva di un telefono, un paio di regoli calcolatori “Aristo Studio” e una calcolatrice meccanica a manovella “Brunsviga”. Paolo mi indicò quale era il suo tavolo, quello che sarebbe stato il mio - il terzo veniva utilizzato saltuariamente da entrambi i soci - e poi ritornammo dove non vedevo l’ora di tornare: in officina.

Guzzinati e Monterumici non c’erano più, e ci dirigemmo verso un angolo in fondo all’ambiente. Nei pochi passi per arrivarvi notai lungo le pareti alcuni scaffali che contenevano pezzi meccanici vari, alcuni ferri infissi nel muro che sostenevano lunghe barre di materiali metallici, quattro banchi da lavoro muniti di morse e coperti di utensili e attrezzi, e credetti di riconoscere un paio di macchine utensili; tutte cose dall’aspetto molto datato che non mi colpirono più di tanto, ma quando Paolo si fermò accanto ad una struttura di ferro piena zeppa di pezzi meccanici, che mi disse essere la macchina per confezionare le caramelle, il mio interesse si risvegliò di colpo. Anche se palesemente non finita, con molte parti un po’ ossidate e non verniciate, quella “roba” faceva davvero impressione. Era complicatissima!

La macchina, mi spiegò Paolo mentre gli giravamo attorno, doveva avvolgere prima ogni singola caramella, poi accumularne un numero stabilito e avvolgerle formando un pacchetto - la tipica confezione esposta davanti ad ogni cassa di ogni bar -, era composta da sei gruppi per un totale di circa trecento singoli pezzi, e a parte un banale errore nel progetto al quale si sapeva però come rimediare, era praticamente finita. Il programma di lavoro prevedeva ora per Guzzinati e Monterumici lo smontaggio completo per mandare i singoli pezzi agli artigiani che dovevano cromarli, verniciarli ecc., e per noi il raffronto di ogni singolo pezzo con il suo disegno - molti erano stati modificati nel corso del montaggio - e l’aggiornamento e completamento dei disegni per essere pronti a produrre macchine in serie. Nel contempo sarebbe stato deciso come rimediare all’errore e a disegnare e costruire le varianti necessarie.

Rimanemmo vicino alla macchina a parlarne fino all’ora di pranzo, mangiammo un panino in un bar, riprendemmo a parlarne girandole attorno fino a sera, e quando tornammo in ufficio per prendere le nostre cose e andarcene, ricordo perfettamente che avevo in testa un solo pensiero: doveva essere una gran bella soddisfazione essere capaci di realizzare una cosa del genere. Un pensiero che esternai con entusiasmo ai miei genitori che mi aspettavano ansiosi a casa per sapere come fosse andata e con lo stesso entusiasmo il giorno dopo cominciai a lavorare. Non cominciai però rilevando pezzi di ferro come mi ero stato detto, ma facendo qualcosa di più artistico.

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Forse Paolo aveva detto a Guzzinati dei quadri da me dipinti che aveva potuto vedere alle pareti di casa mia durante le visite che mi aveva fatto ai tempi del corso serale; e così fui incaricato di realizzare un logo identificativo dell’azienda per la carta intestata e le targhette da applicare alle macchine. Non mi ci volle molto: dopo qualche schizzo estemporaneo che non mi piacque, mi venne in mente di “sposare” un simbolo dell’avvolgimento alla meccanica e feci partire dai due bracci destri della doppia vu di Wrapmatic una specie di nastro che andava ad avvolgere un ingranaggio stilizzato che la sovrastava. L’idea piacque e prima di mezzogiorno l’avevo già trasformata in due o tre disegni in scale diverse; poi, nel pomeriggio - Paolo era andato alla “mutua” per un esame e Guzzinati e Monterumici dai grafici con i miei disegni del logo tornai in officina a riguardare con calma la zona della macchina dove l’errore di progetto “faceva danni”.

L’errore, mi aveva spiegato Paolo, era tutto in un albero verticale che anziché girare in senso orario girava al contrario. Un errore davvero banale, solo che quell’albero era pieno di “camme” e doveva anche comandare l’intero gruppo di formazione e avvolgimento del pacchetto ( già costruito e “assemblato a banco”). I rimedi ipotizzati erano quindi o ridisegnare alcuni componenti del gruppo avvolgimento pacchetto, oppure il sistema di comando dell’albero e le “camme” che vi erano montate sopra. Era solo una questione di scegliere il male minore dal punto di vista costi che però in entrambi i casi sarebbero stati abbastanza alti per le esaute casse dell’azienda. Una spiegazione interessante che però mi era “scivolata addosso” come una questione non certo di mia competenza, ma nei venti minuti che avevo impiegato a tornare a piedi a casa, mi era venuto in mente che forse, pensandoci bene, potevano esserci altri rimedi meno costosi per risolvere il problema.

Stetti un’oretta buona ad osservare la zona incriminata, presi qualche misura degli ingombri e tornai al mio tavolo in ufficio con un’idea in testa. Feci qualche schizzo, lo buttai, ne feci qualche altro e alla fine il rimedio meno costoso saltò fuori. “Inventai”, me tapino, un sistema ad “ingranaggi satelliti”, con l’ultimo esterno a dentatura interna, che poteva lasciare quasi tutto come era.

Il mattino dopo esposi con l’entusiasmo di un bambino la mia soluzione a Guzzinati, il quale, anche se mi lanciò uno sguardo misto di sorpresa ed interesse, non ne sembrò però tanto entusiasta. Senza dir niente, ma con un sorriso sornione sulle labbra si girò, prese da uno scaffale un libro dalla copertina in tela celeste, lo “Spelluzzi e Tassarotto”, e sfogliandolo mi fece vedere la mia invenzione, che veniva fatta risalire addirittura a Leonardo da Vinci, illustrata nei dettagli con diecine di possibili varianti. Sul momento rimasi deluso, ma subito dopo pensai che siccome non sapevo che esistessero, in fin dei conti li avevo inventati anch’io gli “ingranaggi satelliti”. Che soddisfazione! Sia la mia soluzione che quelle già individuate, non furono comunque disegnate, e per un paio di mesi pensammo solo a rilevare pezzi e a sistemare disegni, poi, quando avemmo quasi finito l’atmosfera in azienda cambiò.

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Guzzinati e Monterumici stavano ore a parlare fra di loro, si assentavano spesso, erano sempre seri, di poche parole, e non ci sollecitavano più a finire in fretta i disegni definitivi del loro gioiello. Un atteggiamento che durò un paio di settimane, poi una mattina arrivarono con due visitatori che per quanto sapevo non potevano essere né clienti né fornitori. Erano infatti Lele Faccioli e Giorgio Occhialini, due assidui frequentatori di Zanarini che, anche se non erano proprio miei amici, conoscevo bene, e che erano noti per essere allergici a qualsiasi forma di lavoro. Quando entrarono in ufficio tecnico li guardai quindi interrogativamente, e a loro volta non nascosero il loro stupore nel vedere me. Ma se ne andarono senza che riuscissi a chiedergli cosa erano mai venuti a fare.

Curiosissimo, la sera non mi mossi da Zanarini e quando arrivarono, curiosi anche loro di incontrarmi per parlarmi, scoprii che erano venuti a “ dare un’occhiata” all’azienda perché era in vendita. Erano venuti, mi spiegarono, per conto di un loro amico di famiglia, il signor Vittorio Gentili, membro della storica famiglia imprenditoriale di Bologna che controllava le saponerie Panigal e molte altre realtà industriali e commerciali, che era molto interessato a rilevarla. Parlammo un po’ di cosa facevo io e del ruolo di Paolo, poi ci rioccupammo dei nostri “Martini” e delle ragazze che ci stavano intorno.

Me ne andai a letto senza sentirmi particolarmente scosso da quella inaspettata novità, e anche Paolo, quando il mattino lo informai, reagì come me. Continuammo quindi a fare il nostro lavoro facendo finta di niente in attesa degli eventi; eventi che non tardarono molto. Dopo nemmeno una diecina di giorni infatti, Guzzinati e Monterumici ci annunciarono di aver venduto l’azienda al signor Gentili, che questi aveva la volontà e i mezzi per sviluppare il nuovo acquisto in tempi rapidi e che il nostro posto di lavoro non sarebbe stato in discussione. Il giorno seguente tornarono con Giorgio e Lele che ci presentarono rispettivamente come i nuovi direttori generale e commerciale, ci ringraziarono e ci salutarono.

Non ho idea di cosa pensò Paolo di quel cambio di gestione così repentino, ricordo però che io ero particolarmente curioso di vedere alla prova i miei due compagni di baldorie. E Giorgio e Lele mi sorpresero. Dopo averci comunicato infatti che non avremmo più visto in azienda Guzzinati e Monterumici e rassicurati per il nostro impiego, Giorgio ci annunciò con sconcertante naturalezza che potevamo smettere da subito di disegnare i pezzi della macchina per caramelle, che potevamo buttare tutta la documentazione e i disegni, e che la macchina sarebbe stata rottamata. L’azienda, concluse, si sarebbe dedicata alle macchine di “fine linea” e a quelle per avvolgere risme di carta, queste ultime sotto la guida di un “grande progettista” che sarebbe arrivato da li a pochi giorni.

Rimasti soli, Paolo ed io ci guardammo un poco frastornati e penso entrambi dispiaciuti di aver lavorato fino a quel giorno per niente, ma non facemmo commenti. D’altro canto potevamo solo dare o meno fiducia a quell’idea e a quei due e scegliere di restare a vedere come sarebbe andata, oppure andarcene. E per fortuna, di entrambi devo 18

dire, decidemmo di restare. Nella settimana sucessiva, seguendo le istruzioni di Lele e Giorgio, posizionammo nel loro ufficio e nella saletta d’aspetto due nuove scrivanie e alcuni mobiletti, poi sistemammo l’ufficio tecnico per fare spazio al grande progettista, e quando Giorgio ci annunciò che il mattino dopo questi sarebbe arrivato, tutto era pronto per riceverlo. Si chiamava Paolo Cassoli, ci anticipò Giorgio, aveva lavorato fino a pochi giorni prima all’ACMA, e il suo primo lavoro sarebbe stato progettare una macchina che “aveva già in testa” per avvolgere risme di carta, ma non solo, per la quale era già stato scelto l’emblematico nome di Multipack.

Cassoli, dunque: che dire di lui? Bèh, innanzitutto che si presentò in un modo a dir poco singolare. Paolo ed io eravamo soli in azienda Giorgio e Lele arrivavano di solito verso le nove - e fumando una sigaretta passeggiavamo fuori dalla porticina in attesa di quello che nella nostra fantasia doveva essere un grande progettista: un signore di una certa età un po’ sulle sue al volante di una berlina di grossa cilindrata. Rimanemmo quindi abbastanza sorpresi nel vedere fermarsi a pochi passi da noi una malandata “Topolino” giardinetta con al volante un ragazzo che non doveva essere molto più vecchio di noi; tanto che sul momento lo ignorammo pensando che fosse uno in cerca di lavoro. Ma quando scese, ci venne incontro e si presentò, rimanemmo a bocca aperta. Porgendoci la mano e facendo un gran sorriso disse infatti: “Buongiorno! Sono il conte Cassoli di Reggio Emilia; ma a causa delle avversità della vita sono costretto ad insegnare al mondo come si fanno le macchine automatiche! ” Ci aspettavamo un grande, certo, ma non un conte! Di sicuro, pensai io ma credo anche Paolo, con quella giacchetta verde un po’ stretta e fuori moda e quei calzoni grigi, corti da lasciare vedere i calzini bianchi corti, non lo sembrava. Quanto all’auto poi, dovevano essere state davvero grandi le avversità che aveva dovuto affrontare. Ma l’ imbarazzo e quei pensieri durararono solo un attimo; scoppiò in una fragorosa risata e aggiuse: “Scherzavo! Sono solo un “tristo” montatore che vuole vedere se e’ capace di disegnare “.

Due battute simpatiche che però, lo confesso, unite alla candida ammissione di non essere un progettista ma un montatore, mi lasciarono un po’ perplesso. Comunque lo conducemmo subito in ufficio a prendere possesso del suo tavolo, gli facemmo vedere gli altri ambienti, e dietro sua espressa richiesta, lo portammo al montaggio a vedere la macchina per caramelle di cui Gentili, ci disse, gli aveva parlato. La esaminò con attenzione per alcuni minuti, poi sorridendo ci disse con la stessa noncuranza che aveva dimostrato nel dirci che in pratica ne sapeva meno di noi di disegno, che il signor Gentili aveva fatto bene a decidere di rottamarla. All’ACMA, concluse, stavano completando con successo un prototipo che se non era identico era molto simile; anche la GD era sulla stessa strada, e la piccola Wrapmatic non avrebbe mai potuto competere con quei due giganti. E su quella lapidaria sentenza lasciammo il montaggio, tornammo in ufficio e cominciammo a lavorare; e di corsa!

Sì, prorio di corsa, avete capito bene. Anche se era solo un montatore, Cassoli sapeva disegnare piuttosto bene, ma soprattutto in fretta. In 19

pochi giorni riempì un lucido grande come il tavolo. Una cosa stupefacente! E lavorava a quella velocità visibilmente rilassato e addirittura canticchiando. E noi, per rilevare i particolari dai suoi studi dovemmo imparare in fretta a “stargli dietro”. Un modo di lavorare che in pochi giorni mi divenne naturale e molto utile. Ma Cassoli, lavorando, per fortuna non canticchiava solo: fra un motivetto e un’altro ci raccontava di lui, delle “trasferte” che aveva fatto in paesi esotici - a quel tempo per me lo erano tutti - , della sua abilità nel gioco del biliardo, del suo secondo lavoro - produceva in cantina e vendeva compassi in plastica per misurare la distanza fra le boccette -, e soprattutto parlava dell’ACMA, anzi, come la chiamava lui, della “grande mamma”.

Dell’ACMA, oltre ad aver saputo dai clienti di mio padre che era l’azienda leader del settore e la più vecchia in Italia, avevo imparato nei rari sprazzi di loquacità del taciturno Monterumici che il suo nome per esteso era Azionaria Costruzione Macchine Automatiche, che era stata fondata nel 1924 dal commendator Barbieri, un industriale dai tanti interessi, e dal cavalièr Gazzoni, e che nata all’inizio per imbustare “L’ Idrolitina” prodotta da quest’ultimo, era diventata capace di imballare praticamente “tutto”. Ma da Cassoli in poche settimane imparai tutta la sua storia: quali e quanti tipi di macchine produceva, i loro pregi e difetti, e che veniva chiamata grande mamma perché da lei erano usciti quasi tutti i gli uomini chiave delle aziende del settore della nostra regione.

L’ingegner Bruto Carpigiani - da tutti ritenuto il padre di tutti i progettisti - che dopo aver tracciata la via tecnologica dell’azienda di via Fioravanti inventando fra l’altro una “cosa” apparentemente favolosa chiamata “ruota a zeta” e il sistema per fabbricarla, aveva poi con la sua Carpigiani conquistato una posizione di prestigio nel mondo dei produttori di macchine per gelati. Natalino Corazza, che da qualche anno infastidiva non poco i produttori tedeschi, svizzeri e olandesi di macchine per formare e avvolgere dadi da brodo, formaggini, panetti di burro e di margarina. Antonio Martelli, che dopo avervi lasciato la sua impronta tecnologica con il progetto di una fantastica macchina “a moto continuo” per avvolgere caramelle, con l’aiuto di Bruno Gnudi aveva da tempo iniziata la sua avventura nel settore delle astucciatrici e fascettatrici. Andrea Romagnoli che con l’ingegner Renato Taino, stava proprio in quei giorni facendo compiere i primi passi all’IMA, in un piccolo garage in via Bondi. Agostino Billi, progettista polivalente che molti anni prima si era messo a fare concorrenza alla grande mamma con un innovativo “sistema a giostra frontale” per avvolgere caramelle e cioccolatini: un sistema che il gigante milanese Carle & Montanari, produttore di macchine per cioccolato, aveva ritenuto talmente interessante da comprarsi il piccolo Billi per averne la disponibilità.

Giovanni Preci, che dopo aver fatto esperienze nei settori più diversi, aveva pensato di metterla a frutto dedicandosi per proprio conto a soddisfare la miriade di richieste di imballaggi particolari snobbate dalle aziende più grandi e meno genialoidi. Renato e Dante Zucchini, che si erano invece dedicati alle macchine di “fine linea” come stavamo 20

pensando di fare noi. E Ariosto Seràgnoli, che dopo aver lasciato l’ACMA e passato anni di sofferte esperienze nel settore delle motociclette, aveva con il cugino Enzo dedicato la GD alle macchine per confezionare saponi, cioccolatini, caramelle e altro ancora.

Non credo che l’enfasi e l’entusiasmo che Cassoli metteva nel parlarci di quelle macchine, di quegli uomini e dell’ACMA avesse lo scopo di farci innamorare di quel lavoro, ma che lo volesse o meno dopo un paio di mesi di quei racconti avevo ormai quasi deciso che quello sarebbe stato il mio mestiere. Una decisione che divenne definitiva dopo circa cinque o sei mesi, durante i quali, anziché i locali alla moda del Pavaglione, frequentai quasi tutti i venerdì sera uno sconosciuto bar con sala biliardi sulla destra di via Marsala, ad una cinquantina di metri da via Indipendenza.

Vi ho accennato che Cassoli ci raccontava delle sue prodezze al biliardo, ma siccome né Paolo né io ne capivamo qualcosa, le nostre fredde reazioni gli dovevano aver fatto pensare che non ci credevamo.

Per dissipare quindi i nostri dubbi aveva insistito perché lo andassimo ad ammirare e un venerdi sera lo accontentammo. Il bar era molto angusto e poco attraente, ma sul retro vi era una grande sala fumosa piena di biliardi e di gente molto più grande di noi che, scoprimmo dopo solo poche diecine di minuti, faceva parte di una specie di club molto esclusivo: quello dei “montatori trasfertisti” di macchine automatiche per l’imballaggio. Quando non litigavano per questioni di gioco, infatti, quegli uomini, che sembravano lavorare per tutte le aziende delle quali ci aveva parlato Cassoli, ma anche per altre, parlavano solo di macchine, trasferte, problemi risolti e non; difendendo il loro operato e le loro abilità, ma anche e con maggior foga il “primato” delle loro aziende.

Insomma, per “farsi bello” Cassoli ci aveva offerto un’opportunità unica di imparare, che, tornando a casa, decisi di sfruttare.

Per una ventina di venerdì feci compagnia a Cassoli in quel bar Paolo venne solo una seconda volta e poi più - e anche se non imparai a gocare a biliardo bene come mi sarebbe piaciuto, fra “un’andata a punto” mal riuscita e un raro “filotto”, credo che diventai uno dei più approfonditi e appassionati conoscitori di “problemi di packaging” a quel tempo sulla piazza. Rischiai anche di cambiare mestiere, tanto i racconti di quegli uomini, a volte certamente un po’ “montati”, ma sicuramente sempre in un quadro di verità, mi affascinavano. Mi sembrava un mestiere da eroi il loro; cos’altro potevo pensare di gente che parlando quasi solo il dialetto bolognese, aveva il coraggio di andare in giro per il mondo a cercare di far funzionare macchine spesso spedite non perfettamente messe a punto e che in molti casi dovevano essere adattate a materiali di imballo e prodotti differenti da quelli pervenuti in azienda. Macchine spesso installate in posti dimenticati da Dio, privi di ogni genere di supporto tecnico e con a disposizione, per chiedere aiuto a casa, al massimo un telefono o un telex.

Non smisi di fare il disegnatore per fare il montatore, e visto come sono andate le cose, feci certamente bene; ma ci andai davvero vicino, e sono convinto che se quella sala biliardi fosse rimasta aperta - chiuse tempo dopo come tante altre per la caduta d’interesse per quel gioco 21

qualche altro giovane capitato li per caso e indeciso come me sul suo futuro lo avrebbe convinto a farlo, il montatore, limitando, anche se certamente in modo non determinante, la pericolosa mancanza di vocazioni per quel mestiere registrata negli anni ’70 e ’80. Comunque, per fortuna il mondo del packaging riuscì di nuovo ad attirare l’interesse dei giovani con i suoi successi sul mercato e con il passaparola, e quella crisi rientrò senza far danni irreparabili. E adesso ritorno a Cassoli, perché con lui non ho ancora finito.

Avrete capito da quanto vi ho raccontato fino ad ora che si trattava di un uomo molto particolare, ma forse non potete immaginate quanto. E quindi vi voglio raccontare alcune altre sue caratteristiche comportamentali e qualche episodio della sua vita che sono convinto vi sorprenderanno. A giocare a biliardo, ad esempio, era davvero bravo, e così sicuro di ersserlo da esclamare platealmente prima di ogni tiro difficile : “Sa sbali cla bucciatta què a vag a cà e a pèc al ragazol” ( se sbaglio questa boccetta vado a casa e picchio mio figlio). Tutti sapevano che adorava Stefano e non gli avrebbe mai torto un capello, ma per far parlare gli altri lui insisteva! Era anche un gran burlone; in quelle serate in via Marsala ne faceva di continuo a tutti, credo però che le più simpatiche furono quelle che mi raccontarono aveva perpetrato nei confronti dei suoi colleghi quando lavorava all’ACMA. La più geniale era certamente stata quella che aveva messo in atto in sala Esperimenti; il reparto d’elite nel quale lavorava quando era in sede. Quel reparto, era il primo obbiettivo della rassegna giornaliera delle “truppe d’officina” da parte dell’ammiraglio Oggioni; direttore generale e amministratore delegato. Un personaggio tutto di un pezzo, l’ammiraglio, ritenuto da tutti difficilmente avvicinabile. Ebbene, Cassoli aveva voluto dimostrare che non era vero e aveva scommesso che l’ammiraglio gli avrebbe rivolto la parola di sua iniziativa. E sapete cosa aveva fatto? Utilizzando vecchi vestiti multicolori usati come “stracci d’officina” si era travestito da donna e quando l’ammiraglio era passato, non avendo potuto fare a meno di notarlo, gli si era avvicinato per chiedergli spiegazione del suo abbigliamento. Avuta la risposta, si era allontanato con una sonora risata fra lo stupore dei presenti e la soddisfazione di Cassoli che aveva vinto la scommessa.

La seconda, anche questa molto teatrale, l’aveva messa in atto in occasione di una gara di corsa a piedi fra i dipendenti delle diverse aziende del settore che si svolgeva ogni anno attorno all’ACMA alla presenza di dipendenti e dirigenti. Alla fine dell’ultimo giro Cassoli si era trovato in testa con molto vantaggio, inducendo i suoi colleghi ormai certi della sua vittoria, a schernire gli spettatori delle altre aziende. Bene! sapete cosa aveva combinato? Sbucando dall’ultima curva aveva finto un malore; si era sdraiato per terra; aveva atteso che il secondo gli arrivasse a pochi metri; si era rialzato con uno scatto repentino, e aveva vinto.

Tornando alla cronaca, devo dire che in ufficio di burle non ne faceva, anzi, quando non canticchiava e non ci parlava di quello che vi ho gia detto, si addentrava in lunghe e filosofiche dissertazioni sui “grandi temi della vita”; dissertazioni che concludeva invariabilmente dicendo 22

con l’aria di uno che le aveva viste tutte: “E poi ricordatevi, ragazzi, che la vita è un orizzonte di m…a”. Una frase che mi dà lo spunto per concludere i ricordi che lo riguardano con il racconto di un episodio molto istruttivo della sua vicenda imprenditoriale.

Dopo molti anni che non ci vedevamo ci incontrammo ad una fiera e ci mettemmo a parlare dei bei tempi insieme e di quanto ci era successo dopo che ci eravamo persi di vista. Stemmo assieme un paio d’ore, e nel salutarmi mi disse: “Ti ricordi Roberto quando dicevo che la vita e’ un orizzonte di m…a , bene, non è stata proprio “lei” a farmi fare fortuna!” A dir la verità non era stata proprio “lei” a fargliela fare, la fortuna, ma qualcosa di “attinente”, e questo grazie ad un incredibile abbaglio di Vittorio Gentili, secondo quello che mi aveva raccontato Mingardi, che vi aveva assistito e vissuto in seguito le conseguenze.

La Wrapmatic era ulteriormente cresciuta e si era trasferita, già da quando vi lavoravo ancora io, in un magazzino della Panigal a Borgo Panigale, trasformato in officina. Gli uffici erano concentrati senza alcun divisorio in un angolo del capannone e il tavolo da disegno di Paolo Mingardi, divenuto da tempo progettista, era dietro alle spalle della scrivania di Giorgio Occhialini, alla quale era solito sedere il signor Vittorio quando era in azienda. Una mattina Cassoli era arrivato con diversi rotoli di “lucidi” e un po’ emozionato gli aveva detto che era d’accordo con il signor Vittorio di fargli vedere il progetto di una versione semplificata della Multipack, che aveva disegnato in casa la sera. Si trattava di una variante per avvolgere quattro rotoli di carta igienica, formando un “multipacco”. Il signor Vittorio era arrivato, aveva chiamato Cassoli, voltando le spalle a Paolo avevano cominciato a srotolare lucidi e a fare commenti, e alla fine il signor Vittorio aveva concluso:“Molto bene, Paolino, davvero un bel lavoro, ma credimi, fin che si venderanno giornali la carta igienica non la userà quasi nessuno; altro che multipacco, hai perso il sonno per niente!”

Nient’altro. Ma Cassoli non era stato della stessa opinione. Aveva disegnato alla velocità della luce tutti i particolari della sua macchina, ne aveva fatto costruire tutti i pezzi facendo fare alla famiglia un grande sacrificio, si era licenziato, aveva preso un garage in affitto al villaggio Barca dove aveva montato e collaudato con successo il suo gioello, ed era riuscito a venderlo. Il passa parola fra i produttori di carta igienica gli aveva fatto pubblicità e grazie alla sua capacità e con l’aiuto indispensabile della fortuna aveva iniziato con la sua CASSOLI, una splendida avventura industriale, obbligando la Wrapmatic a rincorrerlo, nel settore della carta igienica, fino ai giorni della fusione delle due aziende. Chissà quanti eventi simili sono stati i benemeriti responsabili della nascita di nuove aziende; forse parecchi.

Ho forse parlato un po’ troppo di Cassoli, vero? Ma quel periodo al suo fianco, pur se breve, è stato importantissimo se non proprio fondamentale per tutto il resto della mia vita di lavoro, e quindi non potevo non ricordarne almeno i momenti e gli aspetti per me più interessanti e formativi. Ma torno adesso ai ricordi delle vicende della Wrapmatic, che non credo meno interessanti. Dopo soli tre mesi o poco più che ci avevano “regalato” Cassoli, Gentili e Occhialini si misero a 23

correre allo stesso frenetico ritmo con il quale Cassoli disegnava e Paolo e io lo rincorrevamo. Pur se avevano già programmato il trasferimento dell’intera azienda nel magazzino della Panigal cui ho accennato sopra, per dare più spazio all’ufficio tecnico e all’ufficio commerciale presero in affitto un grande appartamento a cento metri dal capannone, sempre in via Ranzani, e iniziarono una massiccia campagna di assunzioni, delle quali ben quattro per potenziare l’ufficio tecnico. Due progettisti: Sergio Sanzani, che ci venne presentato come responsabile dei progetti di macchine per “fine linea”, e Giovanni Boccato; e due disegnatori per “servirli”, Giorgio Tassi e Bortolini.

Sanzani era un signore di mezza età dall’aria molto professionale ma bonaria da bravo papà, ed era stato fino al giorno prima, ci disse, un progettista dell’ACMA, dove si era occupato in particolare dell’ imbustinatrice 733. In pochi giorni mi resi conto che aveva una vera passione per il suo lavoro di inventore, e che lo sapeva fare bene. Anche Boccato era un signore di mezza età e anche lui aveva un’aria molto professionale; ma burbera da severo capo ufficio. Proveniva dalla Rangoni e Puriccelli dove aveva disegnato macchine elettromedicali e diceva di essere il sindaco di Palazzo dei Rossi, un’antico borgo dalle parti di Pontecchio Marconi. Tassi era invece un ragazzo di solo qualche anno più vecchio di me; alto, biondo, con gli occhi azzurri: non ricordo se ci disse dove aveva lavorato prima ma ricordo che era simpatico, educato, e che diventammo subito amici. Anche di Bortolini non ricordo la provenienza e, come avrete intuito, nemmeno il nome, ma doveva avere più o meno la mia età e grazie alla balbuzie era di una simpatia disarmante che lo fece diventare subito amico di tutti. L’arrivo di queste forze nuove scatenò l’azienda, che mentre Cassoli con Paolo completava gli ultimi disegni della Multipack, concentrò tutte le forze, comprese le mie, sulle macchine di “fine linea”.

A quel tempo quel tipo di macchine venivano prodotte ed utilizzate quasi esclusivamente negli Stati Uniti, dove erano giustificate dalle alte produttività richieste e dall’alto costo della forza lavoro, ma il boom italiano, ormai più che una speranza, faceva gia prevedere la stessa tendenza. La rapidità era però fondamentale per il successo in un contesto di creatività e di voglia di impresa quale era Bologna in quel periodo. Renato e Dante Zucchini erano già partiti a produrre una incartonatrice semiautomatica e una incollatrice, e non si poteva lasciarli correre troppo avanti. Ma trovammo una soluzione facile e rapidissima: alle saponerie Panigal avevano messo in produzione da tempo una incollatrice, americana credo, per chiudere cartoni contenenti sapone da bucato, l’ancor oggi famoso fra le massaie di una certa età, “Panigal Sole”. La macchina venne completamente smontata, ne furono rilevati in pochi giorni i pezzi, e in un mese disponemmo di tutti i disegni costruttivi. Nel contempo, progettammo in parte internamente ed in parte esternamente, presso la BTB, in via Triumvirato, di fianco alle Fonderie Manfredi, un “monoblocco di formatura e riempimento cartoni” e una modifica all’incollatrice che consentiva al cliente di risparmiare spazio scegliendo di chiudere i cartoni con una colla solida fondibile a caldo ( Hot - Melt ) al posto di 24

quella liquida che necessitava a valle di un ingombrante nastro di compressione ed essiccazione. Nel giro di quattro mesi fummo in grado di proporre al mercato il Trimatic con le due versioni di chiusura cartoni e di presentarci con il prototipo e un depliant - miserino in verità ( pagina 265 ) - alla prima edizione della fiera Ipack - Ima a Milano.

Di quel periodo frenetico ho ricordi frammentati: alcuni nitidi, altri meno. Ricordo con disappunto alcune liti con Boccato per assoluta incompatibilità caratteriale che rischiarono addirittura di sfociare in scontri fisici, mentre di tutt’altro tenore è il ricordo di un episodio che vide Bortolini protagonista assoluto. Eravamo quasi pronti per le prove di funzionamento della prima Multipack; che era stata venduta alla Motta per avvolgere i suoi panettoni, prove per le quali ci erano stati inviati da tempo alcuni scatoloni di ottimi panettoni freschi. Erano tanti, più che sufficienti per le prove, e davvero molto buoni, così buoni che Bortolini se li era mangiati di nascosto quasi tutti, alternandoli ad altrettanti torroni che la Sperlari ci aveva inviato per provare la seconda Multipack. Ci ridemmo tutti sopra quando scoprimmo il “crimine”, compresi Giorgio, Lele, Sanzani e il signor Vittorio, ma fummo costretti con un certo imbarazzo a richiederne altri ai clienti, un po’ contrariati.

Un altro bel ricordo è quello che ho dei due mesi trascorsi alla BTB a disegnare i particolari del Trimatic. Bertuzzi, Tinarelli e Bettini, il cui lavoro principale consisteva nel revisionare, ripararare e modificare macchine di ogni tipo, mi presero a ben volere e mi insegnarono un sacco di cose che ben difficilmente avrei potuto imparare da altri e in così breve tempo. Devo quindi davvero molto a tutti tre, ma ad Orazio Tinarelli, dai cui studi rilevavo i particolari e col quale ero quindi più a contatto, devo qualcosa di più: il risveglio della passione per la pesca, che avevo avuto da ragazzino, una passione che mi ha fatto trascorrere per molti e molti anni in tanti splendidi posti tante bellissime e rilassanti giornate.

Il ricordo però più nitido di quei due mesi non riguarda né il lavoro né la pesca, ma qualcosa di molto, molto più importante. Una domenica pomeriggio, il 12 di novembre del 1961, ad una festa in uno scantinato di una palazzina affacciata sul viale che da porta Sant’Isaia va verso porta San Felice conobbi una ragazza bella, esile, con gli occhi color verde mare e lunghi capelli biondi di nome Luciana e me ne innamorai.

Tornando al lavoro, ho accennato prima che fummo pronti per presentare alla prima Ipack - Ima il Trimatic, ma penso valga la pena accennare a come ci riuscimmo. Ricordo che per spedire in tempo la macchina lavorammo tutti l’ultima notte, anche il signor Vittorio.

Ovviamente montatori ed elettricisti facevano il loro lavoro, ma anche tutti gli altri: chi a pulire parti verniciate che non dovevano esserlo, chi a lucidare, chi a montare protezioni. Insomma, tutti ci rendemmo utili, e la fiera premiò i nostri sforzi. Andò bene, anzi benissimo; a parte il furto della “Giulietta” spider di Lele. Io non andai a visitarla, ed è stata l’unica Ipack - Ima alla quale non ho partecipato né ho visitato da allora fino al 2011. Grazie alla fiera e all’impegno di Lele il lavoro divenne fin 25

troppo e, come per le ciliegie una ne tira un’altra, anche i nostri clienti cominciarono a chiederci macchine per fare altri lavori; in particolare per incartonare lattine metalliche e bottiglie. E anche in quel caso fummo velocissimi: acquistammo i disegni e i diritti dall’americana Standard Knapp, ridisegnammo in un mese il tutto trasformando le quote da pollici in millimetri e fummo in grado di produrre e vendere in poco tempo la Bottle-Can-Pack. Nel frattempo, fra impiegati e tecnici d’officina eravamo già diventati cinquanta.

Andava dunque tutto a gonfie vele, per l’azienda e anche per me, che mi trovavo benissimo con i miei colleghi, e facevo un lavoro che mi piaceva ogni giorno di più. Avevo solo un cruccio: con il trasferimento da via Ranzani a via Decumana avevo dovuto smettere di andare a pranzo a casa e avevo perso più della metà del prezioso tempo serale che dedicavo agli svaghi in centro. In via Ranzani andavo a piedi in venti minuti e nello stesso tempo la sera arrivavo da Zanarini. Per andare in via Decumana dovevo invece prendere due autobus e ovviamente altrettanti per tornare a casa; e quello per tornare da Borgo Panigale in centro ci metteva quasi un’ora. Solo un cruccio, per me, come dicevo, ma che per mia madre era invece un problema grave. Non me ne aveva mai fatto cenno, ma era molto seccata che mi dovessi letteralmente “mangiare” in trattoria a mezzogiorno oltre la metà dello stipendio; anche se aumentato a 37.000 lire, e, sempre senza dirmi niente si era data da fare per risolverlo a modo suo.

Pur sapendo assai poco di quello che facevo, sapeva però che in Wrapmatic facevamo macchine dello stesso genere di quelle costruite all’ACMA, e aveva deciso che quello avrebbe dovuto essere il mio “approdo”. Aveva quindi iniziato con tutti i clienti del negozio che vi lavoravano una campagna promozionale a mio favore e verso la metà di marzo del ‘62 aveva fatto centro con la signorina Valentini, segretaria dell’ammiraglio Oggioni. Doveva averla o stremata o impietosita, fatto stà che era riuscita a convincerla a farmi inserire fra i venti candidati già convocati per una prova per scegliere un disegnatore da assumere per coprire il vuoto lasciato da uno in partenza per il servizio militare. E così, un bel giovedì, mia madre, dopo avermi raccontato raggiante “quello che aveva fatto per me”, mi comunicò che il sabato dopo ero convocato per partecipare come ventunesimo candidato a quella prova.

Le sue parole per qualche momento mi indispettirono e fui tentato di dirle che ci andasse lei, ma poi ci ripensai e mi convinsi che valeva la pena di tentare: non era giusto dare un calcio alla fortuna che mi era capitata. Nell’ambiente, lavorare all’ACMA era considerato “un terno al lotto”; figuratevi poi per uno che abitava a meno di un minuto a piedi dal suo portone d’ingresso!

E feci bene a non darle un calcio, alla fortuna: infatti penso che se lo avessi fatto mi si sarebbe rivoltata contro disgustata, perchè quella volta aveva deciso di aiutarmi in un modo davvero spudorato. La prova, sorvegliata da un tale Zanardi, un progettista, e dall’ingegner Benazzi, capo dell’ufficio tecnico, consisteva nel rilevare in un tempo massimo di sei ore il più alto numero possibile di particolari da uno studio di un gruppo progettato da Zanardi, un gruppo, che, non ci crederete e quasi 26

non ci credetti nemmeno io, conoscevo già, e anche molto bene. Era incredibile, ma la copia dello studio che mi consegnò Zanardi raffigurava il gruppo di avvolgimento pacchetto della macchina da caramelle fatta in pratica da Monterumici e Guzzinati per motorizzare il quale avevo “inventato” gli “ingranaggi satelliti”, e proprio io, non Paolo Mingardi, ne avevo rilevato i pezzi e disegnato i particolari nei primi giorni alla Wrapmatic. Così, grazie a quel non piccolo vantaggio e alla velocità di lavoro impostami da Cassoli, poco prima di mezzogiorno, con due ore di anticipo sul tempo a disposizione, consegnai a Zanardi tutti i disegni dei particolari del suo studio; completi dell’indicazione dei materiali per costruirli, relative tolleranze e trattamenti termici.

Lui li guardò con attenzione lanciandomi di tanto in tanto uno sguardo fra lo stupito e l’interrogativo, poi mi chiese di aspettare ad andarmene al tavolo al quale avevo lavorato e si diresse coi miei disegni alla scrivania di Benazzi. Riguardarono i miei disegni insieme per qualche minuto confabulando, e presili uscirono dall’ufficio. Poi Zanardi tornò dopo circa dieci minuti e mi chiese di seguirlo nell’ufficio dell’ingegner Maulini, il direttore tecnico, che voleva parlarmi. Devo dire che mi aspettavo qualcosa del genere, visto che aggirandomi fra gli altri candidati in attesa del ritorno di Zanardi mi ero accorto che erano più o meno tutti ancora molto indietro, ma non mi aspettavo certo di sentire quello che sentii. Quell’anziano signore dall’aria trasandata, bonaria e svampita che mi accolse con un gran sorriso mi disse infatti, chiamandomi inaspettatamente per nome: “Caro Roberto, non ho idea di come andrà la prova degli altri, ma comunque, se vuoi, tu sei già assunto. Ascolta dall’ingegner Benazzi a quali condizioni, ma spero di rivederti presto”. Mi strinse la mano e ci congedò.

Le ascoltai subito le condizioni di Benazzi, e le accettai altrettanto velocemente senza nemmeno consultare i miei, che comunque esultarono alla notizia pochi minuti dopo. La tanto agognata ACMA era disposta ad assumermi il giorno dopo in qualità di impiegato di terza categoria A - esistevano più in basso una terza B, una quarta, una quinta e gli apprendisti come me - con uno stipendio netto di 67.000 lire al mese. Quasi il doppio di quello della Wrapmatic, senza contare il valore della mensa gratuita, famosa in tutta Bologna e non solo per la sua qualità, e il risparmio dei biglietti degli autobus. Anche se di quegli innegabili vantaggi io non me ne sarei accorto perché avrei continuato a dare lo stipendio in casa, a ricevere la solita “paghetta” o poco più, e sarei andato quasi certamente a pranzo a casa anche per rinfrescarmi un po’, c’erano due cose che mi piacevano e molto in quella proposta.

Innanzitutto, non mi vergogno a confessarlo, avrei tornato ad avere un sacco di tempo per i miei svaghi in centro, in secondo luogo, grazie ai rapporti che avevo instaurato con alcuni dei clienti di mio padre che vi lavoravano e ai racconti di Cassoli e dei giocatori di biliardo di via Marsala, conoscevo l’ACMA forse meglio della gran parte dei suoi dipendenti, e non avrei dovuto pagare nessun “noviziato”.

Il lunedì mattina, con timidezza ed un po’ di imbarazzo presentai le dimissioni a Sanzani che mi guardò stupito da sopra gli occhiali, ma non disse nulla. Nel pomeriggio il signor Vittorio e Giorgio Occhialini fecero 27

un tentativo, in verità non pressante, per farmi cambiare idea, al quale però non cedetti. Anche Sanzani, a mia insaputa, fece un salto in negozio da mio padre per fare anche lui un tentativo, ma quando seppe dove sarei andato e a quali condizioni, convenne con lui che era un’occasione da non perdere. Così, il 28 di marzo del 1962 salutai con un po’ di malinconia tutti i miei colleghi, augurai a tutti, ricambiato, buona fortuna, e lasciai la Wrapmatic. Mentre in autobus andavo verso il centro rividi tutte le cose vissute in quegli intensissimi ventidue mesi e fui preso un poco dalla nostalgia, ma arrivato in piazza la nostalgia era passata e i miei pensieri già fantasticavano sulla nuova avventura che mi aspettava.

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All’ A C M A

Eccomi dunque, il 2 di aprile del ‘62 - forse il primo era domenica entrare, senza aver fatto tanta fatica, nella grande squadra di donne e uomini che dal numero 27 di via Fioravanti, contribuivano non poco a far conoscere Bologna nel mondo. Ma nonostante, a differenza del primo giorno in Wrapmatic, percepissi di star facendo un passo fondamentale per la mia vita, anche quel giorno non ero molto emozionato. Consegnai al sorridente portinaio - cliente di mio padre - il “libretto di lavoro”, e senza incertezza mi avviai all’ufficio dove si era svolta la prova, dove sapevo mi aspettava il signor Zanardi. E già su per le scale e lungo il corridoio che vi portavano, il caloroso benvenuto cui fui fatto segno da alcuni altri clienti di mio padre, mi confermò che non avrei certo dovuto faticare per inserirmi.

Zanardi mi accolse con un mezzo sorriso - la massima espressione della sua cordialità, come imparai presto - ma con una energica stretta di mano, e dopo avermi comunicato - forse per togliermi ogni illusione di aver goduto di riguardi particolari, o forse solo per farmi piacere che alla prova ero risultato il migliore, senza perdere tempo mi accompagnò in giro fra i tavoli da disegno presentandomi a tutti come il rimpiazzo di Luciano Nannini; quello, benedetto lui, che era partito per il servizio militare. Poi, dopo avermi mostrato il mio tavolo - a fianco di una finestra posta a sud che dava su un terrazzino interno - mi condusse a fare il giro della fabbrica.

Fu un giro molto veloce, che mi permise comunque di avere un’idea della collocazione dei vari reparti di produzione e degli uffici, di conoscerne alcuni capi, di constatare compiaciuto e orgoglioso che almeno la metà delle persone che scorgevo apprezzavano le leccornie di mio padre, di salutare alcuni degli amici che mi ero fatto nel bar di via Marsala che non avevo più rivisto, e di abbracciare con gran sorpresa al reparto montaggio Musiani, Priori e Armenti. Completato quel rapido giro panoramico si era fatta ora di pranzo e, sempre scortato da Zanardi, ebbi la prova che quanto si favoleggiava nell’ambiente sulla mensa era proprio vero.

Nel pomeriggio, presa rapidamente confidenza con il nuovo tecnigrafo, sistemati gli strumenti di lavoro nella scrivania e scambiate poche parole con i colleghi più vicini di tavolo, andai dall’ingegner Benazzi a chiedergli cosa fare, e, incredibilmente come era accaduto alla Wrapmatic, anche lì mi fu assegnato un compito più artistico che tecnico. L’ingegnere mi chiese infatti di disegnare per le vendite uno schema dimensionale della confezionatrice per caramelle 770. Una coincidenza davvero strana: alla Wrapmatic ero andato per rilevare e disegnare i particolari di una macchina che faceva quel lavoro; grazie a quell’esperienza avevo vinto la prova per entrare all’ACMA; e lì il mio primo lavoro riguardava lo stesso tipo di macchina. Una coincidenza che mi fece anche scoprire subito che Cassoli aveva detto la verità. La macchina che mi mostrò finita e funzionante in sala Esperimenti Oscar 29

Manfredi, il progettista che ne era responsabile, era infatti una “fotocopia d’acciaio” del prototipo di Guzzinati e Monterumici.

In un paio di giorni realizzai il disegno SP-644 (pagina 267), del quale ho conservato una “copia eliostatica”, che pur se ingiallita e scolorita, porta ancora bene i suoi oltre cinquant’anni, e subito dopo Benazzi mi “assegnò” a Giorgio Billi, un progettista di mezza età, alto, con occhiali dalle lenti spesse, che stava progettando per la Colgate Palmolive di Anzio, una macchina per avvolgere con ecologica “carta kraft”combinazioni diverse di astucci contenenti tubi di dentifricio, con il quale mi trovai fin da subito a mio agio.

Mi trovai subito a mio agio anche con molte ragazze dei diversi uffici, e con quasi tutti i colleghi dell’ufficio tecnico e degli uffici collegati, in particolare, naturalmente, dei miei coetanei. Fra questi in pochi giorni “legai” con Giancarlo Legnani, disegnatore come me alle prime armi, dal carattere più che espansivo; con Giorgio Fenara, disegnatore anche lui, dal carattere schivo ma educato e disponibile; con Piergiorgio Baldassarri, ragazzo d’ufficio tutto fare con l’esuberanza del romagnolo puro sangue; con Romano Fioravanti, disegnatore di schemi elettrici, padovano con una forte impronta dialettale, elegante, colto, intelligente e molto abile nel disegno a mano libera; con Ferdinando Sala, ex ufficiale di artiglieria addetto all’analisi dei tempi e metodi di lavorazione, che se non raccontava almeno due barzellette nuove ogni mattina a mezza azienda “non stava bene”; ed infine, più di tutti, con Piero Soavi, fotografo addetto ai manuali d’istruzione. Con Piero, un gaudente bolognese doc, e con la sua inseparabile Silvana, Luciana ed io scoprimmo infatti di avere molti gusti in comune e cominciammo ad uscire insieme abbastanza di frequente. In particolare andavamo spesso la sera da Wolf, in via Massarenti.

Sul lavoro non avevo problemi, anzi, Giorgio, stupito dai miei ritmi, mi incitava a prendermi delle pause e approfittarne per conoscere meglio l’azienda. Cominciai quindi a fare brevi puntate esplorative negli altri reparti e uffici per conoscerne le funzioni, le persone che vi lavoravano, le procedure da seguire nei rapporti con loro e, grazie al rinnovato entusiastico aiuto di Musiani, Priori, Armenti, che motivati e forse anche vanitosamente appagati, facevano di tutto per togliermi dallo stato di “penosa ignoranza” nel quale mi trovavo, cominciai a conoscere i segreti delle diecine di macchine diverse che erano al montaggio e ad imparare come eliminare i “tanti difetti” che, secondo loro, i progettisti si ostinavano a non considerare tali.

Oltre che in montaggio, andavo anche a far sfoggio della mia ignoranza nel reparto macchine utensili dove, dal signor Sita che ne era il capo e dai suoi uomini, quasi tutti clienti di mio padre, ricevevo risposte a tutte le mie domande. Fra loro mi affascinava in particolare il sigor Bacci, l’addetto alle macchine per fabbricare le “camme” e le “ruote a zeta”; l’osservavo infatti incantato mentre collaudava i nuovi “copia per camme” passando l’indice sul loro profilo e li “ritoccava” delicatamente, squotendo la testa, con una piccola“lima fine”che, finito il lavoro, riponeva fra un panno di lana in un cassetto che richiudeva a chiave. Nel giro di un paio di mesi, conobbi comunque tutti o quasi e mi 30

sentii totalmente inserito nell’ambiente come se vi avessi lavorato da sempre; e a proposito di ambiente, scoprii anche la ragione per la quale nel bar di via Marsala, parlando dell’ACMA, oltre a “grande mamma”, molti la definivano anche “allegra fattoria”.

L’azienda aveva circa 270 dipendenti suddivisi più o meno in parità fra impiegati e operai. Le cose sembravano andare a gonfie vele: si spediva e fatturava una macchina ogni due giorni, le vendite più che promuovere il prodotto si limitavano a selezionare clienti impazienti di ordinare macchine senza discutere né sugli alti prezzi né sui lunghi tempi di consegna, e l’ufficio tecnico non aveva problemi ad esaudire le richieste delle vendite per nuovi modelli, gruppi, e applicazioni speciali.

Una situazione che apparentemente poteva solo migliorare e che aveva indotto molti, se non proprio tutti, a comportamenti lavorativi a dir poco inconsueti; tollerati comunque e forse addirittura favoriti, alcuni, da una direzione appagata dai risultati e non sollecitata dalla proprietà ad ottenerne di migliori.

Così il controllo degli orari di ingresso e d’uscita era più che altro una formalità, i tempi di produzione molto elastici e l’orario di lavoro degli impiegati amministrativi - alcuni dei quali avevano sede nelle sale affrescate di villa Cicogna a San Lazzaro - era di 36 ore la settimana, invece delle 44 comuni a tutti gli altri e in generale a tutti i dipendenti dell’industria. E quell’elasticità nei tempi e orari di lavoro era solo un dei vantaggi di lavorare all’ACMA: con il tacito accordo dei capi reparto e ufficio, che ne approfittavano comunque anch’essi, tutti potevano usare le attrezzature di uffici e officina per ripararare apparecchi di casa, battere a macchina documenti personali ecc. Dulcis in fundo, alcuni fra i dipendenti più intraprendenti e geniali, erano stati stimolati e favoriti a diventare, con indubbi vantaggi, fornitori dell’azienda. Gli elettricisti Kodric e Zuccheri, per esempio, avevano fondata la loro KZ e fornivano le loro oneste cellule fotoelettriche per “centrare” la carta degli imballaggi e le loro resistenze impiegate per le funzioni più diverse.

Quell’andazzo che, come dicevo era un’assoluta normalità, si rivelò per me un’altro insperato colpo di fortuna. Con la velocità con la quale lavoravo, emersi senza fatica e senza volerlo fra i miei colleghi particolaristi, e prima uno poi l’altro progettista cominciarono a chiedere a Benazzi di non lasciarmi tutto a Billi, ma di farmi lavorare anche per loro. Benazzi e Billi acconsentirono, e io mi trovai a fare un’inaspettata esperienza variegata, così coinvolgente che quasi non feci caso al comunicato che verso la fine dell’anno ci annunciò, senza che ci fosse stata nessuna avvisaglia, che l’ACMA era stata ceduta al gruppo americano Emhart. Una sorpresa che non mi preoccupò per niente e che, anche se piccoli gruppi di americani, svizzeri e tedeschi cominciarono ad aggirarsi curiosi per i vari reparti dell’azienda, mi parve non preoccupare la gran parte degli altri colleghi.

Per tre o quattro mesi il via vai di quegli educati e gentili “invasori” fu continuo e in crescita: alcuni andavano e venivano, altri li vedemmo una sola volta, altri ancora si fermavano per qualche giorno. Sembravano particolarmente interessati agli uffici amministrativi e commerciali, ma 31

non disdegnavano né noi né la produzione, e comunque si limitavano ad osservarci lavorare e in un italiano in genere stentato, a fare qualche domanda. Poi, cominciò la “necessaria ristrutturazione”.

Senza sacrificare nessuno, ma anzi assumendo costantemente nuovi elementi, furono creati nuovi uffici con nuove funzioni a guidare i quali vennero poste sia persone già in azienda che nuovi assunti e nei reparti e uffici che mantennero le loro funzioni, ai vecchi capi furono affiancati elementi più giovani e con maggiore cultura destinati a prenderne a tempo debito il posto. Certo ad alcuni fu richiesto di cambiare mansione, ma non a tanti e soprattutto ricercando le soluzioni meno traumatiche. Infine si cominciò a decentrare la produzione presso subfornitori e per la prima volta nella sua quasi ormai quarantennale storia l’azienda fu dotata di un organigramma funzionale che stabiliva con chiarezza funzioni, responsabilità e referenti.

Una parte fondamentale della ristrutturazione riguardò il settore vendite. Come accenavo poco fa, il vendere non era mai stato un problema per l’ACMA, e quindi l’azienda non si era preoccupata di creare una struttura degna di tale nome per farlo. La “baracca” era andata avanti infatti con solo nove addetti: un certo dottor Bellei come responsabile, il dottor Trifirò per i mercati esteri, tre venditori per l’Italia: Franzoni, Mirabelli, e Mazza e tre segretarie. Ma gli americani avevano certamente comprato l’azienda per vendere molto di più e partirono davvero di gran carriera per farlo. Favoriti dall’andata in pensione del dottor Bellei, dalla Svizzera arrivarono un direttore commerciale, tale Pfister, e un direttore vendite estero, un certo Koeberle Albert, che rivoluzionarono il settore.

A dirigere, per non dire sorvegliare, i venditori per l’Italia, per tutti “un po’ troppo liberi”, fu messo l’ingegner Benazzi, mentre Koeberle strutturò le vendite estero. Come ho accennato sopra, le vendite all’estero erano state gestite dal dottor Trifirò che le aveva affidate sul campo ad amici, segnalatori, e soprattutto al passa parola fra i clienti, ma con Koeberle e con l’arrivo di alcuni elementi commerciali provenienti da controllate estere della Emhart, prese forma una struttura oganica e una rete di agenti che copriva tutti i paesi del mondo ritenuti interessanti. Il dottor Trifirò, in attesa anche lui dell’ormai prossima pensione, trovò un’onorevole collocazione continuando ad occuparsi degli aspetti amministrativi interni di tutto il settore. Infine, con l’arrivo sempre dalla Svizzera di un certo Yoho e con l’assunzione in suo aiuto del begamasco signor Lozza, nacque, per curare l’immagine dell’azienda e organizzare la partecipazione alle fiere, l’ufficio Fiere e Pubblicità.

Anche il nostro settore, rafforzato più di tutti gli altri come organico, venne rivoluzionato. Nacque ex novo l’ufficio Norme e Brevetti, nel quale due nuovi assunti, l’ingegner Zucchi e lo svizzero Kraembull, iniziarono un tentativo di normalizzazione dei componenti più comuni delle diverse macchine e ad occuparsi a tutto campo e per la prima volta sul serio, di brevetti. E noi disegnatori fummo divisi in quattro uffici separati. L’ufficio Formati, che sotto la guida dell’anziano progettista Badini fu destinato al solo studio delle parti di macchina specifiche per 32

il prodotto da imballare; l’ufficio Progetti Elettrici, nel quale ad aiutare Fioravanti nello studio degli impianti che l’imperversare dell’elettronica rendeva sempre più complessi, venne assunto, come suo capo, un certo Roberto Bottarelli; la sala Disegno e la sala Progetti.

La sala Disegno, alla cui testa andò Zanardi, rimase dove era, e fino a che non fu pronta la sala Progetti, davvero congestionata come spazio.

Era arrivato infatti ad aiutarci Romano Umberto, arrivato secondo alla prova che io avevo vinto, seguito a ruota da altri cinque disegnatori: Gamberini, Albertazzi, Zorzan, Vaccaro, e Bruno Bretoni Piazza. Tutti ragazzi molto in gamba dei quali conservo bei ricordi, ma sicuramente quello di cui ho il ricordo più nitido è Bruno Bretoni Piazza; un disegnatore estroso ma soprattutto un personaggio davvero speciale.

Rimasto claudicante dopo un terribile incidente in “Vespa” - era passato sotto ad un TIR - che l’aveva lasciato in coma per un mese e in ospedale a subire diversi interventi di “riparazione” per quasi due anni, non sembrava per niente sofferente di quanto vissuto e di quella non piccola menomazione per un giovane di poco più di vent’anni. Era sempre allegro, perfino quando gli arrivavano terribili coliche renali, e sempre pronto a gesti fuori del comune. Il più fuori del comune dei quali lo fece senza nessuna remora per dimostraci di aver ragione nell’affermare che a fare il mendicante si guadagnava dieci volte un disegnatore. Diede appuntamento a noi scettici un mattino alle sei e tre quarti davanti all’ingresso centrale della stazione, e quelli che ci andarono, come feci io, forse il più scettico, poterono constatare esterefatti che quel cludicante e male in arnese burlone ”incassò”, in un’ora esatta di “lavoro”, ben 8450 lire!!!. Più di un decimo della mia paga mensile!

Ed eccomi alla sala Progetti, che fu ricavata sgomberando una parte del magazzino “modelli”. Mentre facevano i lavori, naturalmente tutti noi disegnatori, oltre una quarantina, ci chiedevamo chi vi sarebbe andato a “stare”, e quando fu finita e arredata con sette tavoli svizzeri ISIS nuovi di zecca, e tutto il resto, l’attesa divenne ansiosa: anche se le alternative non erano poi tante, non si poteva mai sapere, con gli americani. Io comunque non me lo sognavo neppure, e invece mi sbagliavo. Fisicamente, anche se solo per pochi minuti, fui infatti il primo, accompagnato fino ad esso da un divertito ingegner Maulini, ad installarmi al mio nuovo tavolo ISIS. Che momento! Ero cosi emozionato che, non mi vergogno a confessarlo, mi tremavano le gambe.

Una mossa inaspettata da tutti, oltre che da me, che sicuramente creò non poche dicerie sul mio conto, ma del tutto fuori luogo. Dopo avermi assunto in un modo che avrebbe potuto sembrare in effetti un po’ “partigiano”, l’ingegnere non mi aveva più dimostrato un interesse o un’attenzione diversa da quella che riservava a tutti gli altri, anzi, posso dire che era abbastanza indispettito nei miei confronti in quanto facevo orecchie da mercante ai suoi inviti quasi giornalieri a fare, come tutti, un’ora di straodinario. Anche se quel lavoro mi piaceva moltissimo, non nascondo che mi piaceva almeno altrettanto divertirmi, e alle cinque, quasi sempre unico, uscivo e me ne andavo in centro dai miei amici e amiche del Pavaglione. Solo in un caso mi aveva favorito; ma penso solo

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per esibirmi all’ammiraglio Oggioni come un “prodotto del suo buon lavoro” di maestro.

Vi ho già accennnato raccontandovi di Cassoli che l’ammiraglio non era un uomo che si poteva definire “alla mano”, ed ero rimasto quindi imbarazzato quando nell’ufficio dell’ingegner Maulini, me lo ero trovato davanti a chiedermi se per favore potevo far da guida a lui e sua moglie all’imminente seconda edizione della fiera Ipack-Ima a Milano. Ma naturalmente gli avevo risposto entusiasta di sì. Si sapeva da giorni l’elenco dei progettisti e dei disegnatori anziani che l’azienda vi avrebbe mandato in visita, ed io, che avevo perso con molto dispiacere la sua prima edizione quando ero in Wrapmatic e che non vi ero incluso, avevo già deciso che vi sarei andato per conto mio. Era stata quindi una bella sorpresa quella, e devo dire che la giornata non lo era stata meno: l’ammiraglio e sua moglie mi avevano coccolato in tutti i modi facendomi sentire “un bravo nipotino”. Peccato che il mattino quando eravamo partiti dalla portineria ed ero salito sui sedili posteriori della Borgward dell’ammiraglio, molti dei colleghi che consideravo amici mi avessero guardato in un modo che non lasciava dubbi su cosa pensassero.

Tornando a quel primo giorno in sala Progetti, con me vi entrarono oltre a Franco Aiuola, un ottimo progettista ripescato da una breve esperienza alla Zamboni, che ne divenne il capo, Mario Gardini, Giorgio Billi, Oscar Manfredi, tutti progettisti senior, Luciano Nannini, tornato dal servizio militare, e Giancarlo Legnani. Come dicevo ero emozionatissimo; non mi sembrava vero a poco più di venti anni d’età, di essere un progettista, e in effetti il lavoro che mi chiese di fare Maulini per “spianare” il mio nuovo tavolo ISIS, non fu un progetto.

Incredibilmente, come era accaduto il primo giorno in Wrapmatic e in ACMA, mi fu chiesto di dar sfoggio delle mie doti artistiche disegnando di corsa, uno “schema operativo”in prospettiva di una linea di astucciamento e incartonamento. Gli americani lo volevano per una pagina pubblicitaria da pubblicare nel numero di maggio della prestigiosa rivista Packaging Review ( pagina 269 ). Fu il mio secondo lavoro divenuto pubblico, dopo il logo Wrapmatic, fatto il quale, cominciai a fare progetti.

Ah! Un’ultima cosa prima di passare ai ricordi da progettista. Quasi dimenticavo di dirvi che in tutto quel trambusto che come avrete intuito pose fine all’atmosfera rilassata, agli orari di lavoro privilegiati, alle rendite di posizione o d’anzianità e ai lavoretti per proprio conto, successe un’altra cosa importante. Cominciarono a circolare il giornale interno del gruppo, l’Emhart news, e riviste italiane, francesi, inglesi, americane e tedesche specializzate in imballaggio: e io, credo unico fra i miei colleghi, cominciai a portarle a casa e a leggerle. Prima solo quelle italiane, poi ripescando con la memoria quanto avevo imparato alle scuole medie, quelle francesi, e infine, aiutato da dieci lezioni di “inglese primario” nel frattempo organizzate in azienda, il giornalino della Emhart e le riviste inglesi e americane. Portavo a casa anche quelle tedesche, ma mi limitavo a guardarne le fotografie. Comunque credo di poter affermare che quelle letture furono un altro importante tassello 34

del mio futuro: non tanto per quanto imparai sui vari argomenti, comunque non poco, quanto perché mi costrinsero ad imparare a leggere e a cercare di capire l’inglese e il francese.

----------------- o -----------------Eccomi progettista, dunque, un percorso che cominciai, come del resto era naturale e mi aspettavo, con lo studio di gruppi di modesta difficoltà. Per eventuali lettori non strettamente addetti ai lavori devo spiegare che il progetto di una macchina complessa era un lavoro cui si dedicavano più persone; non esisteva, per lo meno all’ACMA, un progettista che disegnasse una macchina da cima a fondo. Tutti ci occupavamo di gruppi diversi di macchine diverse coordinati da Aiuola e visitati ogni giorno dall’ingegner Maulini. Solo quando il prototipo era finito e funzionante veniva affidato alla responsabilità di un solo progettista che, con l’aiuto di particolaristi, provvedeva a farne una macchina da produrre in serie e in seguito ad apportarvi le eventuali modifiche ritenute utili e convenienti. Ogni progettista poteva essere responsabile di più modelli di macchina, di solito raggruppate per stili d’imballaggio.

Di quel primo periodo non ricordo tanto i lavoretti che feci, quanto l’impegno che ci mettevo e come mi piacesse il metodo di lavoro che Maulini e Aiuola avevano. La loro giornaliera presenza al nostro fianco, lo scambio continuo di opinioni, spesso contrastanti, con loro e gli altri colleghi, le critiche ed i suggerimenti spesso giusti dei montatori; sempre coinvolti, erano davvero un modo di lavorare entusiasmante ed estremamente formativo.

L’ingegner Maulini, poi, era davvero un vulcano di idee, capace di tirarci sempre fuori dalle difficoltà. E lo faceva in un modo davvero accattivante. Non ci indicava infatti una via da seguire, ma diverse, lasciando a noi la scelta di quella che ritenevamo la migliore. Con un unico problema: schizzava freneticamente un’idea dopo l’altra con la sua stilografica ad inchiostro verde su di un unico foglio, e quando pensava di aver finito e ovviamente di essere stato ascoltato con attenzione, se ne andava. Ma da quei confusi schizzi verdi sovrapposti non si capiva un accidente. Il segreto consisteva quindi nel ricordare, fra le tante, la soluzione vincente; perchè quasi sicuramente l’aveva descritta. A parte essere un vulcano di idee, Maulini era anche un “buon maestro”; che sapeva come far ricordare errori e riconoscere i meriti, e per darvi un esempio emblematico di che metodi usasse, vi racconterò due episodi dei quali fui io l’oggetto delle sue attenzioni.

Qualcuno ricorderà i primi “fustini” di polvere detergente; quelli cilindrici fabbricati con un durissimo cartone pressato, con il coperchio fatto dello stesso materiale ed il manico in plastica. Bene, in quel periodo stavamo disegnando le macchine per riempirli e chiuderli, le 794 e 795, i cui prototipi erano stati venduti alla Colgate Palmolive di Anzio, e io ero stato incaricato di realizzare lo studio di una torretta a quattro gruppi di pinze che doveva prelevare i coperchi provenienti da un nastro di alimentazione ed inserirli nei fustini precedentemente riempiti, prima di inviarli al gruppo nastrante di chiusura. Un lavoro 35

molto semplice, il cui unico problema, che oggi non sarebbe tale con i componenti commerciali a disposizione, era stato disegnare il cilindro pneumatico che doveva azionare, mentre ruotavano, ognuno dei gruppi di pinze, e che in effetti mi era riuscito un “poco pesante”; ma niente di tragico.

Comunque, mentre al montaggio assistevo con alcuni colleghi e l’ingegnere alle prove della macchina, che andava “come un orologio”, questi, con una tonalità di voce tanto alta e irritata da sovrastare il rumore, prese a criticare i miei cilindri con aggettivi del tutto fuori luogo, visto che stavano facendo il loro dovere senza dare alcun problema. Una “sparata”che non mi sarei mai aspettato, che mi colpì come una mazzata e mi fece correre in bagno a sfogarmi con un bel pianto e a pensare di licenziami immediatamente. Non lo feci, anche se me ne andai a casa seduta stante senza chiedere il permesso; e il giorno dopo ero al mio posto quando Maulini mi chiese al telefono di andare da lui. Non sapevo cosa aspettarmi ancora, ma non avrei sopportato altri rimproveri. Non fu però necessario nessun colpo d’orgoglio, anzi.

Come entrai, mi rivolse un gran sorriso e mi disse: “ Te la sei presa vero ?” E io di rimando:“Certo che me la sono presa: e molto anche! Mi e’ sembrato davvero eccessivo ingegnere! E poi di fronte a tutti!” E lui continuando a guardarmi concluse: “ Te la ricorderai per un pezzo questa sgridata e quando disegnerai cose che si muovono sono certo che le farai sempre le più leggere possibili !” Ed è stato così.

Il secondo episodio fu di natura completamente differente, anzi opposta, e si verificò poco prima che partissi per il servizio militare, quando mi affidò, sempre per la macchina per i fustini, il progetto del sistema di alimentazione ed inserimento dei “bicchierini dosatori”.

Come di consueto, con la sua stilografica verde mi aveva schizzato alcune soluzioni, tutte molto complesse a mio avviso, ma una in particolare sembrava gli piacesse più delle altre e, contrariamente alle sue abitudini, aveva insistito perché lavorassi su quella nei due o tre giorni durante i quali egli sarebbe stato assente per un viaggio. Si trattava di alimentare i bicchierini inserendoli fra tre “viti senza fine” verticali poste a 120° che, comandate da una frizione elettromagnetica, avrebbero espulso e lasciato cadere nel fustino un bicchierino ad ogni ciclo macchina. Una soluzione che con tutto il rispetto per l’ingegnere mi era parsa una vera follia tecnica! Ci avevo pensato su un poco, e poi convinto, avevo disegnato prima del suo ritorno un’alternativa che mi sembrava molto più semplice.

Quando arrivò guardò il disegno, e dopo averci pensato un po’, mi chiese perplesso: “Ma non avevamo parlato di un sistema con tre viti senza fine, o mi sbaglio ?” Io, un po’ intimidito, gli risposi quello che avevo pensato e cioè che il sistema da lui proposto mi era sembrato molto complesso, costoso e poco flessibile nel cambio di formato, e quindi avevo fatto di testa mia. Non disse niente, continuò per qualche altro minuto ad esaminare il disegno, poi si voltò e sorridendomi mi disse:“ Bravo! Un’ottima soluzione! E’ proprio vero che gli ingegneri sanno fare solo cose complicate”. Potete immaginare la mia soddisfazione a quelle parole! Soddisfazione che fu ancora più grande 36

quando, già militare, ricevetti insieme ad una lunga lettera scrittami di pugno da quasi tutti i miei amici in azienda, anche un foglietto ( pagina 271 ) dove Luciano Nannini, che ho sempre considerato un progettista migliore di me, aveva scritto con la biro rossa: “Il gruppo bicchierini funziona alla perfezione! Anche tu ti sei fatto un drago!”

Visto che ho appena accennato al servizio militare, prendo l’occasione per ricordare che poco prima che partissi Giorgio Billi ci lasciò per andare alla ormai decollata IMA e nel farlo mi diede una grossa soddisfazione. Mi chiese infatti di raggiungerlo quando sarei ritornato, ma io gli risposi che stavo benissimo dove ero. Il suo tavolo venne occupato da Alessandro Fanti, 135 chili di simpatico figlio del capo officina Armando, all’ACMA da sempre. Per quanto riguardò invece “il servizio” devo dire che non fu affatto noioso e inutile come mi era stato descritto da tutti quelli che lo avevano fatto prima di me. Feci il soldato dall’11 gennaio del ‘65 fino al 20 marzo del ‘66, e non ricordo un giorno di noia. Di disagio, certo, anzi, di tragico disagio nei tre mesi di CAR ( Centro Addestramento Reclute ) a Diano Marina prima, poi a Imperia, durante i quali rifiutai infantilmente di adattarmi agli ovvi disagi e al cambio di vita e feci passare tre mesi d’inferno ai miei genitori, a mio fratello e a Luciana per “sostenermi”. Ma dopo, a Verona, dove trascorsi tutto il resto della “ferma”, le cose andarono ben diversamente.

A parte che trascorsi tutti i fine settimana o a fare con Luciana il turista in quella bellissima città, oppure a casa con buona pace di tutti, svolsi infatti un comodo e interessante lavoro d’ufficio, movimentato per di più da un corso di addestramento che non credo di esagerare nel definire addirittura esaltante. Un corso che fece di me un’altra persona dandomi una visione di me stesso, degli altri e delle cose, molto diversa da quella che avevo prima, ma soprattutto una carica e un’autostima che mi ha aiutato in modo determinate per il resto della vita. Forse la storia di quel periodo e dei risvolti che determinò per una gran parte del resto della mia vita vi piacerebbe di più di questa che state leggendo, ma vedrò se avrò tempo e voglia di scriverla e se sarà opportuno farlo. Al ritorno all’ACMA, comunque, autostima e carica crollarono di colpo sotto la suola delle scarpe. Scoprii infatti sgomento di aver perso il mio posto in sala Progetti.

Al mio tavolo lavorava infatti un certo ingegner Rueff di Stoccarda, ex della nostra concorrente Hesser, che mi dissero “in odore” di sostituire Maulini. E non era tutto: Rueff aveva voluto al suo fianco Mario Musiani, da qualche tempo diventato disegnatore, e per un tavolo per me, mi disse imbarazzato Aiuola, ed era vero, non c’era proprio più posto.

Dovevo tornare in sala Disegno. Inutile descrivervi il mio stato d’animo; ero distrutto e furioso allo stesso tempo, e le assicurazioni di Maulini, Aiuola e Zanardi che comunque avrei continuato a lavorare ai nuovi progetti, non riuscivano a rasserenarmi. Non ce la facevo proprio ad accettare quella situazione e mi ribellai. Smisi di canticchiare, come facevo da sempre lavorando, come Cassoli, e di lavorare.

Non facevo assolutamente niente! E poiché il mio tavolo era proprio di fronte alla scrivania di Zanardi, la cosa era del tutto evidente. Uno 37

sciopero bianco che andò avanti per circa venti giorni, durante i quali tutti continuarono a rassicurarmi sul mio ruolo di progettista, ma senza successo, poi, un venerdi sera, mentre uscivamo, una nutrita squadra di muratori invase l’area degli uffici tecnici ed il lunedì seguente la sala Progetti era diventata più lunga di cinque metri. In quel nuovo spazio, il martedì, mentre gli imbianchini ancora finivano le pareti, furono collocati due nuovi tavoli da disegno - non svizzeri, ma moderni -, uno dei quali era per me! L’altro venne anch’esso occupato da li a pochi giorni da un nuovo assunto: Romano Musi. Avevo vinto la mia battaglia e tornai a lavorare canticchiando ignorando le implorazioni di fare almeno ogni tanto una pausa che Rueff mi faceva con la sua voce nasale e il suo buffo parlare in italiano con accento tedesco, ma quell’anno mi riservò un’altra prova difficile. Per una banale iniezione di anestetico per l’estrazione di un dente rischiai di morire! Roba da non credere!

----------------- o -----------------Dopo mesi di sofferenze mi ero finalmente convinto a farmi estrarre un dente, ed ero andato dal dottor Pucci, mio dentista da anni e fratello del mio medico di famiglia. Subito dopo l’iniezione, cominciai ad avvertire un formicolio generalizzato in tutto il corpo ed in pochi attimi mi trovai completamente paralizzato, anche se totalmente cosciente.

Riuscivo a muovere appena gli occhi, ma dentro di me ero stranamente calmo mentre attorno a me succedeva il finimondo. Fortunatamente lo studio del dottore, situato in via Orefici, era parte di un poliambulatorio, e l’allarme e la reazione degli altri medici fu immediata.

Elettrostimolatore per il cuore, ossigeno per farmi respirare - dopo aver strappata la maschera dal tubo per potermelo infilare fra le mascelle contratte - medici e infermiere che urlavano e mi correvano attorno, ed il povero dottor Pucci che, massaggiandomi il torace, quasi piangendo continuava a ripetere:“Ti prego Roberto non addormentarti ti prego; ma proprio a te doveva capitare!” Poi, all’improvviso, sentii di nuovo il formicolio alle dita dei piedi e delle mani e con la strana calma di cui vi ho detto cominciai a tentare di muoverle. Le dita si mossero, e in pochi minuti, o forse secondi, non ne ho idea, tornai perfettamente normale e con un balzo di gioia mi alzai in piedi e camminai. Ero un po’ pallido, ma mi sentivo benissimo e anche se il cuore, mi dissero, si era fermato per diversi secondi, gli accertamenti che mi fecero in pochi minuti dettero parametri più che regolari: quindi, con il mio dente che non mi faceva più male e nonostante le raccomandazioni di non farlo, me ne andai a fare quattro passi sotto il Pavaglione.

Per inciso, il dente mi venne estratto poco dopo alla clinica Beretta, allora in via San Vitale, dal “team” del professor Muratori. Avevo attorno a me diversi medici pronti ad intervenire, ma vi confesso che ero terrorizzato. Venne utilizzato lo stesso anestetico usato da Pucci, ma tutto filò liscio, e nonostante molti esami non si scoprì mai cosa fosse successso la prima volta. Fu un’esperienza interesante, non è vero?

Andare vicino alla morte non capita tutti i giorni; anche se a me è capitato forse un po’ troppe volte. Comunque lo spavento che avevo 38

provato mi “consigliò” di fare a meno di anestesie per molto tempo; anche per devitalizzare alcuni denti. Vi assicuro una cosa per niente piacevole. Ma adesso torniamo all’ ACMA. Dopo aver riconquistato il mio posto in sala Progetti e beffata la morte, per alcuni anni la mia vita lavorativa non fu particolarmente densa di grandi eventi. Certo progettai molti gruppi per diverse macchine, sempre più complessi e quindi impegnativi, di soddisfazione e formativi, senza fare né grandi errori né grandi invenzioni, ma di tutti quei lavori ricordo bene solo una modifica che feci a una astucciatrice per saponette, la 761/OA per aumentarne la velocità di produzione da 90 a 120 pezzi al minuto. E non perché fu un lavoro importante o complesso, ma perché conobbi Ted Hammond, un giovane tecnico che la P & G ( Procter & Gamble) di Cincinnati inviò a Bologna per aiutarmi.

Un ragazzo d’oro Ted, che mi aiutò fare un buon lavoro sulla macchina, una bella figura nei confronti della mia e della sua azienda, e mi costrinse a migliorare il mio povero inglese. Diventammo molto amici in quei giorni, e quell’amicizia fra coetanei si consolidò in seguito diventando, come vedrete, un aiuto importante per la mia carriera.

Anche dal punto di vista personale di tutti quegli anni ho pochissimi ricordi. La grande emozione del luglio del ‘69 nel vedere Neil Amstrong posare il piede sulla Luna, non guastata dal riprovero di mio padre per essere andato, per inciso per la prima e unica volta, a lavorare in ritardo; il dolore che condivisi con Luciana alla scoperta che Gianluca, il figlio di sua sorella Laura nato tre giorni dopo “lo sbarco”, avrebbe dovuto passare la vita su una sedia a rotelle; l’ansia che condivisi credo con mezzo pianeta per la sorte degli astronauti dell’Apollo 13; la morsa che mi tenne serrato il cuore per le quattro o cinque domeniche che, chissà perché, spesi con caparbietà ad accompagnare a pescare “in attesa di rimettersi in forze”, il nostro capo magazziniere, il signor Orsi; e la crisi di pianto irrefrenabile che mi prese al suo funerale che fece spaventare e preoccupare tutti i presenti.

Non altrettanto senza eventi degni di nota fu invece la vita dell’ACMA, anzi, quelli furono certamente oltre ai suoi anni migliori, anche i più “movimentati”: grazie alle sue capacità tecnologiche, all’alleanza con la Zucchini, e alla forza commerciale diffusa, l’azienda si propose e impose in tutti i settori merceologici e su tutti i mercati ai quali decise di dedicarsi, come un “partner globale” affidabile, ottenendo la fiducia di un gran numero di clienti e in particolare delle grandi multinazionali.

Un successo impetuoso che, complici anche molti pensionamenti, richiese trasformazioni organizzative e sostituzioni di persone che, purtroppo, non furono sempre indovinate.

Fra un sempre meno frequente andirivieni di stranieri, dei quali alla fine se ne fermarono pochi, andarono in pensione figure di primo piano come l’ammiraglio Oggioni, il capo officina Fanti, e l’ingegner Maulini.

Ma se Vincenzo Borghi; un modenese ex FIAT da qualche anno direttore di produzione, non fece sentire la mancanza dell’ammiraglio, né Dante Gentilini, da sempre in azienda, quella del vecchio Fanti, devo dire che noi progettisti, della sostituzione di Maulini con Rueff ci accorgemmo, eccome! Certo quel “tedeschino” timido, gentile, educato e sicuramente 39

un’ottima persona, aveva buone conocenze tecniche, organizzative e linguistiche; ma niente a che vedere, purtroppo, con la vulcanica e inesauribile inventiva del suo predecessore.

Quei cambi ai vertici, altri pensionamenti e la partenza, come dicevo, di quasi tutti gli stranieri, ebbero naturalmente effetti a cascata sulla struttura. A dirigere la produzione andò l’ingegner Onofrio Meola, un “edile” riciclato nella meccanica, da tempo in azienda, noto più che altro per avere una moglie luminare mondiale in ortopedia spinale; al suo fianco Borghi mise un suo ex collega in FIAT, un tale Antonelli: e a capo del montaggio, a sostituire Gentilini, andò un giovane ma esperto montatore, Franco Odorici.

Nel settore commerciale, la partenza di Pfister fece fare carriera all’ingegner Benazzi, che ne prese il posto, mentre quella di Koeberle non fece felice Udo Grafe, il venditore per i paesi di lingua tedesca che si era aspettato di prenderne il posto. A dirigere il settore arrivò infatti da Udine Andrea Rossolatos, che prese al suo fianco la dottoressa Fortuzzi, che aveva fatto da assistente a Pfister, e assunse due nuove figure per curare i paesi del nord Africa e il sud America e le multinazionali: Vittorio Zanella e il dottor Gino Mazzamurro. Anche alle vendite Italia ci furono cambiamenti; andarono in pensione Franzoni e Mazza, sostituiti più che degnamente da Baldassarri e Soavi, e quando l’ingegner Benazzi andò a sostituire Pfister, a coprire il suo posto venne assunto Franco Ferrari, modenese come Borghi. Una figura particolare Franco, al quale venne data anche anche la responsabilità dell’ufficio ricambi e del servizio montatori, che non suscitò grandi entusiasmi.

L’unico che fu contento del suo arrivo fu Mario Rossi, da tempo in azienda come impiegato amministrativo di supporto alle vendite, che Franco elevò al rango di venditore. Mirabelli, che se non per altro, per anzianità si era aspettato quel posto, cominciò ”cordialmente” a odiarlo, e Baldassarri e Soavi se ne fecero filosoficamente una ragione.

A parte della perdita di Maulini, noi progettisti di tutti quei movimenti quasi non ci accorgemmo, ma io personalmente gradii molto che Derek Broomfield, che con il tecnico John Heath curava il mercato inglese e del Commonwealth, fosse diventato “di casa”. Forse per il fatto che ero l’unico progettista a parlare un poco la sua lingua, con Derek ero entrato subito in confidenza, e tutte le volte che ne avevamo l’occasione stavamo insieme. In quel periodo mio fratello ed io leggevamo uno dopo l’altro i libri di Wodehouse, e i modi di fare, di vestire e l’umorismo di Derek mi ricordavano i personaggi di cui leggevo. Da lui imparai anche un sacco di cose sul suo paese e su alcuni di quelli del Commonwealth, e che l’americano e l’inglese erano due lingue diverse. In quanto poi al suo umorismo, era davvero da Wodehouse. Per darvene un’idea vi dirò solo che per rafforzare l’immagine di “parsimonioso scozzese” che presumeva i suoi interlocutori avessero di lui, scherzava sulla gamba che aveva lasciato sulla spiaggia di Dunkerque, dicendo che il vero guaio di quella perdita era il costo del sovrappeso bagaglio che gli toccava spendere per portarsi appresso in ogni volo la “spare leg” ( gamba di ricambio) che ci mostrava senza alcun imbarazzo.

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Per chiudere con i ricordi di quei cambiamenti, non mi resta che registrare che a sostituire Badini, andato in pensione, a capo dell’ufficio Formati era andato il progettista Gianfranco Marchiorri; a guidare Bottarelli e Fioravanti era arrivato l’ingegner Vivi, una persona peraltro squisita e non certo invadente; che Lozza si era invece finalmente disfatto di Yoho, che aveva odiato dal primo giorno; che Mario Musiani se ne era andato a dirigere una nuova “divisione” della Arco, un’azienda di Sasso Marconi del gruppo Plessey che faceva condensatori, dedicata a fare macchine per farli, i condensatori; e che fra una cosa e un’altra era arrivata quasi la fine del la fine del 1971. Un’anno che conclusi aiutato da Luciana, con una “sfaticata” che ci fece perdere più di cinque chili a testa, per mettere su casa e preparare il matrimonio.

Sopravvivemmo, comunque, e inaugurammo il ‘72 sposandoci in un piovoso pomeriggio il 2 gennaio e partendo il mattino dopo in treno, in seconda classe, per Parigi. Era per entrambi la nostra prima volta lassù, e anche se alloggiammo in un modesto alberghetto che trovammo subito fuori dalla stazione; il Modern Hotel Lyon, i giorni che vivemmo in quella magica città ce ne fecero innamorare. Al ritorno andammo a vivere nel piccolo appartamento preso in affitto da un amico di mio padre in via Nicolò dall’Arca al 43; solo un paio di centinaia di metri più distante dall’ACMA rispetto a prima, e usai gli ultimi giorni del “congedo matrimoniale”per completare la sistemazione della casa. Per arredarla, implorato da Luciana rispolverai i miei colori ad olio e riprodussi malamente su tela il mazzo di tulipani che aveva resistito al viaggio di nozze nel vaso sul tavolo della saletta. Poi ripresi a lavorare con molto più “senso di responsabilità” di prima.

Disegnai il gruppo incollatore per la nuova inscatolatrice 753; un altrettanto complesso gruppo di alimentazione saponette per sostituire in tutta fretta quello non funzionante sul prototipo della nuova avvolgitrice 791, in prova presso la Lever di Port Sunlight, e diverse altre cose abbastanza importanti per altre macchine. Poi ci fu una svolta decisiva. Iniziai a lavorare al progetto della nuova linea di imbustinamento e astucciamento 712-723. Un lavoro corposo; anche se in verità di sola “robusta” modernizzazione e velocizzazione delle ormai più che decennali imbustinatrici a “giostra orizzontale” 772 e delle astucciatrici 702, ma di estrema importanza per l’azienda. Con le 772702 migliaia di clienti dell’ACMA sparsi per il mondo mettevano in buste e astucciavano una miriade di polveri e granulari, centinaia di liquidi, semiliquidi e creme, e perfino collari antisettici per cani, e con la nuova versione, si sperava di bissarne il successo e fare anche meglio.

Per me, quindi, una grande opportunità che mi “stabilizzò” connotandomi definitivamente in quel settore. Ma se mi stabilizzai nel lavoro, mi destabilizzai nell’ambiente.

----------------- o -----------------Erano più di quattro anni, dai moti del ‘68, che facevo fatica a sopportare i picchetti di piccoli drappelli di decisi estremisti che mi impedivano di entrare al lavoro, ma da quando avevano cominciato ad 41

invadere gli uffici e a fare uscire noi “crumiri”, volenti o nolenti, perfino sollevandoci di peso con le nostre seggiole e portandoci fuori, il mio istinto e la mia esuberanza - dopo il corso nei militari mi sentivo “imbattibile” - mi avevano portato più di una volta molto vicino allo scontro fisico, che, “fortunatamente per i miei avversari”, non era mai avvenuto. Per quei miei gesti di insofferenza da “reazionario” avevo però subito minacce; del tipo: “Ti faremo piangere”, alle quali avevo risposto senza timidezza che avremmo pianto in compagnia. E la situazione si era fatta “delicata”. Avevo comunque continuato a reprimere la mia esuberanza, e con la testa a posto di uomo sposato e responsabile decisi di tentare di cambiare quelle teste matte facendole ragionare. Povero illuso!

Mi iscrissi all’organizzazione sindacale più vicina alle mie idee; la UIL, non certo stimata da CISL e CGIL, anzi appena tollerata, e cominciai a prendere parte attiva ad assemblee e riunioni. Fu un’esperienza frustrante ma certamente utile, come tutte le esperienze del resto, che terminò bruscamente dopo solo pochi mesi senza che avessi ottenuto nulla di quanto mi ero proposto. C’era stata un’assemblea in fabbrica per l’approvazione della linea rivendicativa portata avanti per la prima volta unitariamente dai tre sindacati nazionali. Una rivendicazione strategica, che chiedeva alle controparti di unificare i salari all’interno delle categorie; contro la quale avevo fatto un lungo intervento spiegando in dettaglio le ragioni della mia contrarietà. Un intervento che, sotto lo sguardo stupito dei tre delegati sindacali esterni, aveva ottenuto un applaudito consenso da parte di quasi tutta l’assemblea, e che aveva acceso in me un barlume di speranza. Quella sera, però, quella speranza fu bruciata dal responsabile nazionale del mio sindacato in persona, Ruggero Ravenna, che mi fece una lunga e dura reprimenda telefonica. Ed io gli risposi “muto” stracciando la tessera e non pensandoci più.

Ero contrario allora e lo sono ancor di più oggi al non riconoscimento del merito individuale. Non riconoscere i meriti demotiva gli individui a migliorarsi e a migliorare quindi con il loro impegno e genialità l’azienda per la quale lavorano e la società in generale; credo che i guasti generati da quella “vittoria“ stiano purtroppo ancora influendo sulle scarse capacità di innovazione e sviluppo dell’azienda Italia che tutti lamentano; sindacati “in primis”. Di certo, per l’ACMA, la firma di quel contratto di lavoro significò la perdita di ben cinque promettenti aiuto progettisti, che vistisi livellati nel salario a professionalità oggettivamente meno impegnative, scelsero di diventare conduttori di taxi, e di molti giovani montatori che se ne andarono a fare gli “artigiani”.

L’ultimo ricordo che ho del ‘72 non riguarda il lavoro, ma l’ultimo mio dipinto, e non perché fu l’ultimo o risultò un capolavoro, anche se è uno di quelli di cui sono rimasto più soddisfatto, ma perché l’ispirazione per farlo mi venne stando a guardare per quattro ore uno splendido mattino di nebbia forata da un pallido sole nel delta del Po. Già proprio così. Nella gara di pesca decisiva per il campionato aziendale, nella quale ero dato per sicuro vincitore, alla mia lenza esperta non abboccò 42

nemmeno un pesce ed ebbi tutto il tempo, purtroppo, di “guardarmi attorno”.

Il 1973, cominciò dal punto di vista lavorativo in azienda come era finito il ’72, ma “fuori” con una novità. Cambiando casa, avevo portato in quella nuova il vecchio tavolo da disegno che Bertin non aveva più voluto indietro e che era stato dieci e più anni inutilizzato. L’avevo sistemato, anche se con un bel sacrificio di spazio, in cucina, pensando alla possibilità di qualche lavoretto straordinario per l’ACMA che, nella nuova situazione di indipendenza economica, avrebbe potuto aiutare il bilancio familiare. Cosa che si era puntulmente verificata durante tutto il ’72, ma i primi di gennaio, momentaneamente “scarico” da quel versante, disegnai per un certo Valentino Peri una macchina per ottenere da blocchi di polistirolo espanso angolari da usare per imballare elettrodomestici; e per il mio amico Lazzarini di via Clavature, che mi tampinava da due anni, un sistema per triplicare la produzione delle sue famose “mozzarelle in carrozza”con la metà degli addetti.

In entrambi i casi feci solo gli studi di massima, la parte più creativa e stimolante, poi, per realizzare i disegni costruttivi e seguire il montaggio della macchina, suggerii a Peri di avvalersi di Roberto Furlan, un disegnatore della sala Disegno che sapevo bisognoso di guadagni extra, mentre Lazzarini, vistomi riluttante ad andare oltre la fase creativa, si incaricò lui di fare realizzare il mio progetto. Per inciso e anche un po’ per vanità, devo dire che entrambi i prototipi funzionarono perfettamente, ma devo anche aggiungere che se non avessi fatto quei lavoretti in quel primo scorcio d’anno, di certo non li avrei più fatti; non certo per guadagnare soldi, almeno. State a sentire cosa mi successe.

Alla fine di marzo finimmo il progetto della 712; un lavoro che era andato liscio come l’olio e che - lo dico solo per orgoglio bolognese - alla ricerca di un’alternativa alle cellule fotoelettriche della svizzera Sick, mi aveva dato l’opportunità di assistere ai primi passi di un’aziendina chiamata Datalogic. E cominciammo subito a lavorare alla 723; un lavoro ancor più semplice. Vivevo dunque una situazione idilliaca, in armonia con quasi tutti i miei colleghi, guadagnavo bene e pensavo, visto che ogni anno avevo ricevuto un ragguardevole aumento di stipendio, di godere della considerazione dei miei superiori. Tutto bene dunque, penserete, ma perché ne stiamo parlando? Tutto male invece.

Ed eccolo il perché.

Il primo di giugno ero al tavolo di un disegnatore che in quel periodo rilevava i particolari dai mie studi, un certo Giuliano Monopoli, mentre passavano a distribuire le buste paga. Io presi la mia e la misi in tasca, mentre Giuliano aprì la sua, e dopo averla esaminata con attenzione me la passò e mi chiese se potevo spiegargli la ragione di una trattenuta che a lui sembrava ingiustificata. Esaminai il documento, gli chiarii il suo dubbio, e tornai nel mio ufficio mentre venivo assalito da un gran vuoto allo stomaco. Già, perché guardando quel “ruolino paga”avevo scoperto che Monopoli, di ben due categorie inferiore alla mia, particolarista non eccelso né particolarmente dedito all’azienda, guadagnava più di me!

Non mi sembrava vero! Non dissi niente a nessuno, e men che meno 43

accennai la cosa a Luciana, quella sera, ma quella notte quasi non dormii e il giorno dopo, senza che lo facessi di proposito, il mio atteggiamento sul lavoro cambiò drasticamente.

Non smisi completamente di lavorare come quando mi ero ritrovato fuori dalla sala Progetti, ma cominciai a essere molto critico e conflittuale anche senza ragione; specie con il povero Aiuola, che forse pensava stessi per diventare matto. Se fossi stato più maturo sarei andato da Rueff, gli avrei spiegato la cosa, e quasi certamente avrei avuto soddisfazione con un adeguato aumento di stipendio. Ma non evidentemente non lo ero a sufficienza e proseguii nella mia silenziosa guerra fredda, finché un giorno, era passata credo una settimana dalla scoperta fatta al tavolo di Monopoli, di primo pomeriggio esagerai con una delle mie pretestuose prese di posizione nei confronti di Aiuola e di fronte a tutto l’ufficio ebbi con lui uno scontro violentissimo che terminai dicendo: “Visto poi quanto mi pagate, me ne frego! Non c’è solo l’ACMA a Bologna” . E uscii.

Ero infuriato, e visto l’orario insolito e l’agitazione che mi pervadeva, non passai a salutare i miei, come facevo tutti i giorni, per non farli preoccupare, e mi avviai a piedi verso il centro sperando di rilassarmi.

Ma non successe, anzi, arrivai sotto il Pavaglione convinto che fosse ora di “cambiare aria”. Andai come di consueto a prendere mia moglie dal lavoro e riuscii a non farle capire niente di quanto mi passava per la testa. Rientrammo a casa, cenammo parlando del più e del meno e andammo a letto a guardare la televisione. Ma ci dovevamo essere appena addormentati, quando, verso le dieci e tre quarti, venimmo svegliati di soprassalto dal trillo del campanello.

Non era la prima volta e pensammo alle solite ragazzate; ma il campanello insistette. L’appartamento dove abitavamo era al quinto piano di una palazzina senza ascensore e con il citofono non funzionante; diedi il “tiro”, e, quasi nudo come ero, e parecchio seccato, mi affacciai alla tromba delle scale. C’erano due mani sinistre che salivano sul corrimano già al secondo piano, e all’altezza di quella più in alto il viso ansimante di Mario Musiani mi chiese se disturbava.

Disturbava eccome! ma era tanta la sorpresa e la curiosità per quella visita insolita, che gli dissi di salire. Lasciai la porta socchiusa, andai a darmi una sistemata, avvertii Luciana, e tornai alla porta mentre Mario la scostava timidamente chiedendo permesso e dicendomi che il suo capo, il signor Savoia, voleva assolutamente parlarmi quella sera.

-------------------- o -------------------Ammetto che a quelle parole immaginai la ragione di quella visita; feci comunque finta di niente, li invitai ad entrare, strinsi la mano a Savoia, li feci accomodare in salotto, e dopo aver offerto un bicchiere d’acqua, mi sedetti a mia volta ed ebbi la conferma di aver immaginato giusto. Fu Mario a parlare, e mi disse senza tanti preamboli che erano li perché avevano appena saputo a cena con conoscenti della mia sfuriata di quel mattino con Aiuola, e siccome erano in zona, Savoia aveva insistito per venire subito a farmi una proposta di lavoro. Si dice a volte 44

del caso: erano poco più di sei ore che avevo pensato di lasciare l’ACMA, ed ecco pronta un’alternativa.

Savoia, che si era presentato come l’amministratore delegato della Arco, mi spiegò in poche parole cos’era la Arco e cosa la Plessey; mi confermò che Mario stava formando il gruppo di progettisti che avrebbero dovuto disegnare nuove e avveniristiche macchine per fare condensatori; mi disse con molta convinzione che c’era sicuramente un grande futuro in quella nuova impresa e certamente grandi prospettive per tutti coloro che vi avrebbero partecipato fin dall’inizio; e mi invitò a visitare l’azienda, il mattino dopo, per convincermi ad essere uno di questi. E io che sapevo a malapena cosa fossero i condensatori, per niente come si facesse a fabbricarli, ma sul piede di guerra con l’ACMA e desideroso che mi lasciassero tornare a dormire - era ormai più di mezzanotte, per le mie abitudini un’ora “impossibile”- gli dissi che ci sarei andato. Che giornata ragazzi ! E non era che un preludio!

Il mattino, completamente sveglio nonostante mi fossi addormentato dopo le due, partii subito per Sasso Marconi dove arrivai alle otto e venti. Mi fermai in un bar a prendere il caffé e chiamai Maria, la segretaria di Rueff, per dirgli che stavo in permesso tutta la mattinata e di considerare come permesso anche le ore di assenza fatte il pomeriggio precedente. Rispose di sì, ma mi disse anche che l’ingegnere mi stava cercando per tutta l’azienda e voleva vedermi subito. Ed io, stupito di me stesso, gli risposi con noncuranza di dirgli che sarei andato da lui “non appena avessi avuto tempo”. Alle nove precise entrai alla Arco e fui ricevuto subito da Mario e da Savoia, con i quali, dopo pochi convenevoli, visitai rapidamente l’intero stabilimento. Un bel stabilimento devo dire, pieno di macchine automatiche di diversi modelli che producevano piccoli oggetti colorati di diverse forme e dimensioni che riconobbi come condensatori. Anche le macchine mi piacquero; con una meccanica più miniaturizzata e più veloce di quelle alle quali ero abituato, ma fondamentalmente basate su concetti molto simili e che certamente avrei potuto disegnare anch’io senza problemi.

Quando quindi tornammo a sedere nell’ufficio di Savoia e lui mi chiese se ero rimasto soddisfatto della visita e mi ero convinto, gli dissi di sì, e lui di rimando, ribattè : “ Bene, allora, Tabaroni, sembra che non ci resti che parlare di soldi; mi dica, quanto guadagna netto al mese?”

Glielo dissi, lui ci pensò su per pochi secondi poi disse: “O.K , noi le offriamo il doppio e la “prima super”, e se saprà meritarlo, cosa di cui sono più che sicuro, entro pochi anni lei sarà un dirigente della nostra società; cosa mi risponde ?” E cosa potevo mai rispondergli! A parte il raddoppio dello stipendio, all’ACMA ero inquadrato nella seconda categoria A; al di sopra della quale c’erano una “prima”, nella quale erano inquadrati alcuni capi ufficio, pochi capi reparto d’officina e un paio dei miei colleghi progettisti più anziani; ed una “prima super“ che inquadrava cinque o forse sei responsabili di settore: ufficio tecnico, progetti, capo officina ecc. Sopra questi ultimi c’erano solo i dirigenti, a quei tempi molto pochi. Non ci avevo mai creduto, ma qualche volta avevo sperato che in un lontano futuro avrei potuto anch'io arrivare alla mitica “prima super”; ero ben conscio della mia miserevole terza media, 45

e poi avevo l’impressione di essere già “salito” più di quello che meritavo in relazione allo sforzo profuso. E invece quel lontano e incerto obbiettivo era lì a portata di mano. Inoltre, avrei avuto l’opportunità di vivere una nuova esperienza in un settore del tutto sconosciuto. Quindi gli risposi che la proposta mi andava benissimo.

Visibilmente soddisfatto Savoia si sporse porgendomi la mano, che strinsi, poi chiamò la segretaria e gli dettò la lettera di impegno all’assunzione. Ero talmente euforico che mentre le fornivo i miei dati personali gli chiesi di battermi anche la lettera di dimissioni. Firmai una delle due copie della lettera d’impegno all’assunzione, che Savoia corresse “a biro” in quanto la segretaria aveva dimenticato l’importante aggettivo “super” a fianco di “prima”, dettai e firmai anche quella delle dimissioni, le presi entrambe, salutai tutti con l’accordo di tenerci in contatto e vederci il prima possibile, e alle undici e mezza circa ero in ACMA. Passai dall’ufficio di Rueff per chiedergli cosa volesse e per consegnargli la lettera di dimissioni, ma siccome non c’era, lasciai con noncuranza la lettera a Maria e me ne andai nel mio ufficio, dove salutai tutti con allegria, compreso Aiuola, e mi sedetti alla scrivania. E qualche minuto dopo, con lo squillo del telefono di Aiuola ebbe inizio il mio “purgatorio”.

Aiuola rispose, mi rivolse uno sguardo interrogativo e uscì di corsa.

Dieci minuti più tardi anche il mio telefono squillò, e come mi aspettavo era Maria che mi chiedeva di andare subito da Rueff. Era tutto previsto; ma mentre mi accingevo ad entrare da Rueff mi accorsi che tutta l’euforia se ne era andata e dovetti fare una lunga inspirazione per calmare il cuore. Rueff era seduto alla sua scrivania e aveva lo sguardo puntato in basso sulla mia lettera. In piedi, ai due lati della sua poltrona, c’erano Aiuola e Zanardi che mi guardarono con un mezzo sorriso sulle labbra. Nessuno mi salutò, ed io, con una voce che non era la mia, mi limitai a dire solo buon giorno. Al mio saluto Rueff parve svegliarsi dal sonno e scostando con stizza la mia lettera, sollevò lo sguardo, mi fissò con astio e con il suo “nasale” italiano/tedesco che di solito sollevava ilarità ma che quella volta non sollevò un bel niente, mi disse: “ Ma signor Tabaroni! ma come ha potuto lei fare una cosa simile?!” Già, pensai in quell’istante con sgomento anch’io, come avevo potuto? Ma mi ripresi subito e risposi tutto d’un fiato: “ Ho potuto perchè mi sono reso conto che tutte le belle parole che mi avete sempre detto erano solo falsità e che io valgo come tutti gli altri; anzi forse un po’ meno, mentre fuori c’e’chi mi apprezza veramente!”

Calò il silenzio, poi Aiuola disse che se avevo fatto quel colpo di testa a causa dei contrasti che avevo con lui, mi sbagliavo, e che fra colleghi era normale che ci fossero momenti di tensione; anche se ultimamente gli ero sembrato eccessivo, ma tutto si poteva chiarire senza che nessuno dovesse dare le dimissioni! Anche Zanardi fece la sua parte dicendomi che la considerazione dell’azienda nei miei confronti era e restava altissima, e che su questo non potevo avere dubbi. Forse, pensavo mentre Zanardi parlava, era tutto giusto e vero quello che mi stavano dicendo, forse ero stato troppo impulsivo: ma allora perché il mio stipendio era quello che era? Ma quei dubbi mi lasciarono subito: 46

ormai, a ragione o torto, dentro di me mi ero convinto di valere veramente quanto mi era stato offerto dalla Arco e quindi, lasciata ogni remora sbottai: “Ma insomma lo sapete che io guadagno meno di Monopoli e c’e’ chi mi offre esattamente il doppio!” E porgendo la lettera di assunzione della Arco a Rueff, aggiunsi: “Ecco, secondo lei cosa dovevo fare, dire di no ?”

Rueff prese la lettera, la lesse in pochi attimi, e la porse ad Aiuola che lettala la passò a sua volta a Zanardi. Poi si guardarono l’un l’altro per qualche istante muti ed infine Rueff disse che certamente la categoria che mi offrivano era alta, ma non poteva credere che lo stipendio fosse tanto più alto di quello che percepivo lì e che Monopoli guadagnasse più me; mi ero certamente sbagliato. Poi chiamò la signora Ines Baviera, responsabile dell’ufficio personale, e gli disse di raggiungerci con tutti gli elementi retributivi miei e di Monopoli. La signora Ines arrivò dieci minuti più tardi e confermò che effettivamente Monopoli aveva uno stipendio netto superiore, anche se di poco, al mio, ma, aggiunse rivolgendomi lo sguardo, che bisognava tener conto che raggiungeva quella cifra grazie agli assegni familiari per la moglie e quattro figli a carico più altre agevolazioni dovutegli per gli anziani genitori conviventi senza reddito. Un chiarimento che mi mise in difficoltà.

In effetti, alla luce di quegli elementi la mia ira era del tutto ingiustificata, e fui assalito dal dubbio di aver fatto una grossa cavolata; rimaneva però il fatto che la Arco mi aveva comunque offerto il doppio e ormai “avevo fatto la bocca” a quella cifra astronomica che mi cambiava la vita. Non feci quindi nessun commento, aspettando che fosse Rueff a dir qualcosa, ma evidentemente non sapeva cosa dire nemmeno lui. Stette in silenzio pensoso per forse un minuto, poi tutto d’un fiato mi disse che Arco o non Arco, per l’azienda il progetto 712723 era strategico e non poteva permettersi che io lo lasciassi a metà; avrebbe discusso dell’argomento con il signor Borghi - divenuto da poco anche amministratore delegato - ed era certo che si sarebbe trovata una soluzione. Con un vago accennno che voleva essere di “indifferenza”, ma non lo era, uscii senza dire nulla e tornai nel mio ufficio, dove, dagli sguardi dei miei colleghi capii che il “gazzettino” interno aveva già diffuso la notizia. Nessuno però mi chiese niente e io non dissi niente a nessuno.

Ero molto confuso, ma anche soddisfatto. Il sincero sgomento e le parole di Rueff mi facevano pensare che era vero che per la mia azienda contavo qualcosa, e che forse si erano solo dimenticati di riconoscere il mio valore con una retribuzione adeguata. Con tutti quei pensieri in testa, alle cinque andai a salutare i miei genitori in negozio senza dir loro ancora nulla e come tutte le sere andai da Zanarini per il solito aperitivo e le solite chiacchere in attesa di andare a prendere mia moglie dall’ufficio. A lei, alla quale avevo solo accennato il motivo della visita notturna di Musiani e Savoia, dissi solo che ero stato alla Arco, che l’azienda mi era piaciuta e la proposta che mi avevano fatto molto interessante; ma che ci dovevo pensare.

Il giorno dopo lo passai tutto in estenuanti colloqui con Aiuola, Rueff e Borghi, e la sera uscii con in tasca una contro offerta che mi aveva 47

sorpreso più dell’offerta della Arco. L’ACMA era disposta a concedermi la stessa categoria offertami dalla Arco e lo stesso stipendio, meno 20.000 lire al mese; il costo stimato della benzina che non avrei consumato restando di fianco a casa. Dovevo solo decidere cosa fare.

Sempre senza dir loro niente, passai a salutare i miei in negozio, andai in centro a prendere Luciana e con lei parlai per tutta via Indipendenza di quella situazione che mi era sfuggita di mano. Cenammo e ce ne andammo a letto senza essere arrivati ad una decisione, anche se Luciana mi aveva ripetuto più volte che dovevo fare quello che pensavo meglio per me. Ma non fu una serata, come avevo sperato, di serena rifessione. Musiani e Savoia, che dovevano avere in ACMA “un’antenna” piuttosto ben informata, mi chiamarono entrambi per dirmi che sapevano della contro offerta, ma che non dovevo cedere: il futuro che potevo avere alla Arco era di certo più premiante di quello che l’ACMA, un’azienda ormai ”matura”, poteva offrirmi.

Dormii poco quella notte, ma per fortuna il giorno dopo in ufficio nessuno chiese di me, la Arco non si fece viva, e potei quindi riflettere con calma sui pro e contro delle due scelte. Quella sera coinvolsi di nuovo Luciana nei miei ragionamenti, ma ci addormentammo come la sera prima senza essere arrivati a nessuna decisione. Poi, il terzo giorno, come nelle sacre scritture, accadde il miracolo. Dopo una giornata ancora di tregua come la precedente, verso sera Borghi mi convocò e, forse senza immaginarselo del tutto, o forse si, calò la carta giusta. Oltre alle condizioni economiche e normative che mi aveva già offerto si impegnò ad affidarmi, una volta completato “tutto il programma buste”, la direzione del Servizio post Vendite. Una posizione nuova in azienda, che avrebbe fatto di me l’unico referente di tutti clienti; con forti poteri di intervento sia sulla produzione che sull’ufficio tecnico per risolvere i loro problemi.

Conoscevo bene il programma buste, e sapevo benissimo che ci sarebbe voluto qualche anno per completarlo: oltre alle 712-723 e ai loro gruppi opzionali, c’erano da studiare le varianti della 712 per produrre buste grandi che potessero “stare in piedi“, la 722/ Stand-Up, e la 730 per buste ancor più grandi, in una versione resistente ai liquidi corrosivi e la sua variante Stand-Up. Ma il lavoro che mi offriva Borghi era il mio desiderio nascosto. Non avrei più lavorato al tavolo, certo, ma non avrei nemmeno dovuto reprimere la mia creatività da progettista, anzi; stimolato dalla necessità di risolvere i problemi più diversi, l’avrei sicuramente esaltata. Inoltre sarei dovuto andare spesso in giro, un po’ dovunque, e avrei certo conosciuto tanta gente interessante. Una vita da sogno per la mia indole irrequieta, che valeva la pena aspettare con pazienza; anche perché fare il mio mestiere mi piaceva ancora molto. E quindi gli dissi che accettavo. Nel congedarmi stringendomi la mano visibilmente soddisfatto, Borghi volle comunque prendersi una piccola rivincita e mi disse che era l’ultima “bizza” che avrebbe sopportato! La sera chiamai al telefono Musiani per dirgli che avevo cambiato idea, e lui, con un tono molto seccato che comunque capii, mi disse solo che secondo lui sbagliavo ma che erano fatti miei.

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Tornata la “pace” ripresi a lavorare a testa bassa, pensando che prima avrei finito prima sarei andato a fare quel nuovo e affascinante mestiere, ma dopo le ferie, il giorno che Romano Musi ci annuciò entusiasta che ci avrebbe lasciato per andare alla Arco, ricevetti una telefonata dal mio amico Ted Hammond, e mi trovai di nuovo davanti alla tentazione di cambiare vita. Ted, vi ricordate, quello della P&G, per un progetto o per l’altro, veniva a Bologna molto di frequente, e anche se non doveva venire all’ACMA o veniva per progetti nei quali non ero coinvolto, trovavamo comunque il modo di passare qualche ora insieme rafforzando di volta in volta la nostra amicizia. La sua telefonata quindi non mi sorprese più di tanto. Mi sorprese invece un poco quello che mi disse. Tre suoi colleghi desideravano vedermi; ma non potevano venire in ACMA. Se avevo un ora disponibile avrebbero avuto piacere di incontrarmi due giorni dopo, alle nove del mattino, al Jolly Hotel.

Accettai ovviamente, pensando che si trattasse di “cose” per l’ACMA da trattare di corsa fra un treno ed un altro da parte di gente che non aveva tempo da perdere, ma quando mi sedetti con loro scoprii con sorpresa che erano venuti per parlare con me di me e del mio futuro.

Senza tanti giri di parole, mi dissero infatti che erano alla ricerca di un uomo che per la P & G avrebbe dovuto coordinare gli acquisti di macchine e impianti per l’imballaggio che le diverse sussidiarie mondiali avrebbero trattato con fornitori europei, e che il mio nome era stato talmente sponsorizzato da Ted, che si erano sentiti quasi obbligati ad incontrarmi per chiedermi se mi sarebbe piaciuto diventare io quell’uomo. Aggiunsero inoltre i termini di posizione ed economici della loro offerta; termini a dir poco lusinghieri e attraenti, e conclusero ammettendo senza reticenze che l’unico neo di quella loro proposta poteva essere che avrei dovuto mettere in conto di diventare una specie di “piccione viaggiatore mondiale”.

Pur se avrei avuto a disposizione uno staff, avrei dovuto dividere il mio tempo fra i vari stabilimenti nel mondo, la sede di Cincinnati, e le fabbriche potenziali fornitrici d’Europa. Avrei potuto certo continuare a vivere a Bologna, aggiunsero per mitigare l’effetto di quella “pillola”, dove avrei dovuto comuque far tappa molto spesso, vista la concentrazione di potenziali fornitori presenti, ma non dovevo illudermi: l’avrei vista solo di tanto in tanto e per periodi di pochi giorni. In effetti pensai, quel neo non era un neo da poco; ma la proposta era di quelle difficili da rifiutare. Senza contare quanto mi sarei divertito a vedere la faccia che avrebbero fatto i miei colleghi venditori e quelli della concorrenza trovandomi di fronte in quella veste e ascoltare le loro inevitabili “ruffianate”. Chiesi quindi qualche giorno per riflettere, e siccome loro sarebbero andati a vedere Roma, rimanemmo d’accordo di rivederci nello stesso posto e alla stessa ora il lunedì seguente.

Quella sera ne parlai con Luciana che pur perplessa, mi disse come al solito di fare quello che credevo meglio, e il giorno dopo ne parlai anche con i miei; che invece calcarono un poco la mano sulla loro età avanzata.

Arrivai quindi alla domenica sera senza aver ancora preso nessuna decisione; ero molto attratto dalla cosa, ma avevo anche molte 49

perplessità. Quell’incarico significava un cambio totale e irreversibile di strada e di vita; altro che le proposte che avevo ricevuto fino a quel momento, Arco compresa. Ma anche se a me le svolte piacevano molto, in quella lunga notte quasi del tutto insonne pensai che sia io che Luciana facevamo un lavoro che ci piaceva; che mi avevano da poco promosso, quasi raddoppiato lo stipendio e promesso una carriera comunque prestigiosa e stimolante; che i nostri genitori erano tutti anziani e forse a breve termine bisognosi di “vicinanza”; e che a Bologna si stava piuttosto bene a quei tempi. E mi alzai convinto a declinare l’offerta.

Alle nove precise trovai i tre ad attendermi con i bagagli fatti, e dopo un saluto e una stretta di mano, il più anziano dei tre; che più tardi Ted mi disse che era uno psicologo, mi osservò per qualche secondo e anticipandomi mi disse:“Capisco dalla sua espressione che ha deciso di non diventare un membro della nostra famiglia; ci dispiace, ma rispettiamo ovviamente la sua decisione, la ringraziamo comunque del suo tempo e le auguriamo un futuro brillante e di soddisfazione che certo non le mancherà”. Non trovai niente da dire, se non farfugliare qualche grazie o improbabile arrivederci, strinsi di nuovo loro la mano e andai in ufficio a lavorare. Quella sera chiamai Ted per dirgli le ragioni che mi avevano indotto a rifiutare quella “sua” offerta e lui si dimostrò l’amico che era scusandosi per la forzatura che aveva fatto nei miei confronti e non facendo alcun tentativo per farmi cambiare idea. Mi ribadì però la sua convinzione che io sarei stato l’uomo ideale per quel lavoro. Ma io, ormai convinto della mia scelta, tornai a dedicarmi con impegno alla 723.

Ma passarono sì e no una ventina di giorni che quel mio lavoro, impegnativo solo perché non vedevo l’ora di portarlo a termine, si complicò; e per colpa nostra, anzi, in fondo devo dire mia. Verso il dieci di settembre, il prototipo della 712 cominciò a funzionare senza evidenziare problemi, e cominciammo ad invitare a vederlo gli oltre trenta clienti che l’avevano ordinata fiduciosi “sulla carta”. I primi che invitammo furono due vecchi amici della Lepetit di Anagni, che oltre a due 712 ci aveva ordinato anche due 723 da abbinarvi per astucciare le bustine di “Agruvit”nelle tradizionali unità di vendita da cinque e dieci buste. La visita andò bene, furono soddisfatti, ma nel salutarci, ci chiesero, come se fosse la cosa più semplice di questo mondo, di poter astucciare anche un “formato famiglia”da venticinque bustine. Una richiesta, niente di più, e se fossimo stati meno presuntuosi, non sarebbe successo assolutamente niente, anzi: avremmo guadagnato da quella fornitura più soldi e fatto esperienza a spese di quel cliente.

Da anni producevamo una macchina che abbinata alla 772 consentiva di impilare e inserire in “astucci aperti” da bar un gran numero di bustine; una macchina super collaudata che avevamo venduto in un gran numero di esemplari, in particolare alla Crippa & Berger, per le sue buste di caffè “Hag”. Avremmo potuto proporla in una versione modernizzata e adattata agli astucci chiusi che desiderava la Lepetit, sia in abbinamento ad una 712 dedicata, che in abbinamento a una delle due con un sistema di deviazione per farla lavorare in 50

alternativa alla 723. Una delle due proposte certamente sarebbe stata accettata. Ma la Lepetit era la Lepetit e, come dicevo, noi dell’ACMA eravamo piuttosto presuntuosi; quindi ci lasciammo con l’impegno di esaminare la richiesta. Un esame che malauguratamente fu affidato a me e alla mia fantasia che, purtroppo, una soluzione me la suggerì.

Mi immaginai un sistema basato su una ruota per accumulare e stratificare le buste; la ruota, con semplici regolazioni, avrebbe potuto essere posizionata davanti alla “bocca” degli astucci in modo da potervi introdurre le buste “in piano” per i formati da cinque e dieci, e “di costa” per quello da venticinque. Un sistema che venne giudicato tanto geniale da tutta la direzione da diventare, prima di essere illustrato alla Lepetit, oggetto di una richiesta di brevetto ( pag. 273 ). Anche la Lepetit apprezzò la soluzione, accettando sia il ritardo che la sua complessa realizzazione avrebbe determinato nella cosegna sia i sovraccosti da noi richiesti. E altrettanto fecero purtroppo anche gli altri clienti che avevano acquistate le altre otto 723, felici di poter avere anche loro l’opportunità di proporre eventualmente al mercato un ”formato famiglia” per i loro prodotti. Carichi come molle, quindi, Gardini e io ci mettemmo di buzzo buono, lui a realizzare lo studio della ruota di stratificazione e io quello del sistema di abbinamento alla 712 e, anche se si rivelarono due gruppi estremamente complessi, li finimmo a tempo di record. Poi facemmo, anzi questa volta fecero gli altri, un errore mostruoso.

Borghi, spinto dalla fretta di consegnare e fatturare, decise di costruire i pezzi per tutte le dieci 723 al montaggio. E quando verso la fine del ‘74 finimmo di montare in sala Esperimenti la prima 723 con la sua ruota di stratificazione, cominciarono i guai. Guai molto seri. Il “disinnesto” che doveva impedire alla ruota di ruotare quando lo spingitore che trasferiva le buste impilate dai suoi raggi all’astuccio si trovava appunto fra i raggi, non lo faceva sempre al momento giusto.

Per un paio di settimane tentammo diverse messe a punto e modifiche, ma ad un certo punto dovemmo prendere atto che si trattava di un “difetto di sistema” rimediabile solo ridisegnando, appunto, l’intero sistema. Un guaio molto serio, come dicevo, perché nessuno sembrava avere un idea per come farlo diversamente; senza contare che qualsiasi soluzione avrebbe implicato certamente altri mesi di ritardi nelle consegne con conseguenti costi mostruosi e irritazioni dei clienti difficili da contenere.

Sulla base di questi dati di fatto, Borghi e Rueff decisero che in attesa di un’idea salvifica, si doveva tentare a tutti i costi di far funzionare al meglio quello che avevamo e in un mese spedimmo una dietro l’altra le due linee della Lepetit, quella della Bristol di Latina, quella della Pierrel sud di Capua e infine le due destinate alla Sigma-Tau di Pomezia. Per fortuna quella destinata alla Nestlè di Abbiategrasso e le tre destinate a clienti francesi avevano tempi di consegna più lunghi, e quindi ce le tenemmo prudentemente in casa in attesa di tempi migliori. E le cose divennero davvero difficili.

Il “disinnesto”, infatti, nel funzionamento prolungato in produzione, faceva ruotare ancor più di frequente che durante le prove la ruota 51

quando fra i suoi raggi c’era lo spingitore, e cominciammo quindi a spedire prima diecine poi centinaia di raggi “pressofusi” in alluminio per sostituire quelli che si troncavano quando questo succedeva. Ma ai clienti questo non bastava e naturalmente chiedevano di avere non solo i raggi ma anche montatori per sostituirli, riparare gli immancabili danni collaterali e tentare messe a punto più affidabili. Già, proprio un bel problema! Tutti sapevamo, montatori compresi, che il problema non si poteva certo risolvere con messe a punto; forse attenuare, ma non risolvere. E ai montatori, molto orgogliosi della loro immagine, non piaceva partire per fare quasi certamente brutte figure: volevano un “cuscinetto” fra loro e i clienti esasperati. Così in attesa di un miracolo, a fare da cuscinetto e forse per farmi fare esperienza sul campo in vista dell’incarico che mi era stato promesso, anziché i venditori come era sempre stata prassi in caso di difficoltà, fui destinato io.

-------------------- o -------------------Fin dalla prima visita che feci a tutti quattro in una giornata fortunatamente distavano meno di un’ora d’auto l’uno dall’altro - mi resi conto che la situazione sarebbe stata davvero difficile da gestire.

Erano tutti al limite della pazienza, e due, i meno amici, mi dissero senza mezzi termini che in mancanza di una soluzione in tempi brevissimi ci avrebbero rese le macchine e che quasi certamente la direzione ci avrebbero fatto causa per danni per mancata produzione.

Eventi che ci avrebbero rovinati. Per prendere quindi tempo e tenere la tensione sotto il livello di guardia, decisi di non abbandonarli più nemmeno un minuto, e con Bolognesi, De Nunzio e Corazza, i montatori che meglio conoscevano la linea, mi misi a “saltare” dall’uno all’altro senza soluzione di continuità. Fu davvero dura; ma sudando ve lo assicuro, e non in senso figurato, ben più delle canoniche sette camicie, con piccole modifiche e messe a punto più o meno efficaci riuscimmo ad arrivare al benedetto giorno nel quale Aiuola comunicò trionfante di avere avuto finalmente un’idea che gli sembrava buona. Lo comunicai immediatamente di persona a tutti quattro, poi tornai a Bologna e chino sul mio tavolo, in soli cinque giorni di intenso lavoro trasformai quell’idea in un progetto esecutivo.

Anche quel lavoro non fu facile, anzi: probabilmente dal punto di vista meccanico fu il lavoro più complesso che abbia mai fatto. Per agevolare la sostituzione dei gruppi riuscii infatti a ridisegnare completamente il meccanismo di comando della croce di stratificazione delle buste riuscendo a salvare integralmente la cassa in fusione che lo conteneva; e senza dovervi aggiungere nemmeno un foro di trapano.

Vista l’esperienza precedente, prudenza avrebbe voluto che si realizzasse e provasse un prototipo, ma non c’era più tempo di farlo.

Costruimmo quindi a tempo di record dieci serie di pezzi, ne montammo una su una delle macchine ancora al montaggio, che funzionò a meraviglia, e in due settimane, si era già alla metà del ’75, Bolognesi, De Nunzio, e Corazza, riuscirono a sostituire tutti quei sei maledetti gruppi.

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Quell’impresa, a torto o a ragione, mi fece acquisire parecchi punti professionali sia agli occhi dei clienti che a quelli di tutta la direzione; che infatti mi affidò ufficialmente la potestà sulle 712-723 e su tutte le nuove macchine del programma buste. Oltre a quella responsabilità, Borghi, Benazzi e Rueff, concordi, mi chiesero anche di affiancare venditori e agenti già nelle fasi di prevendita; avrei capito senz’altro meglio di loro le esigenze reali dei potenziali clienti, che avrei potuto orientare verso le soluzini tecniche più convenienti e meno rischiose per loro e per noi.

Non avrei potuto chiedere di più: non mi sembrava vero che quello che era stato un grosso problema per l’azienda, del quale ero stato in parte involontario responsabile, si rivelasse una delle occasioni più fortunate per il mio futuro. Si perché anche le tribolazioni per il “disinnesto” erano state un bel colpo di fortuna. Osservando per giorni e giorni i miei“gioielli”in produzione, avevo scoperto che si coprivano di polvere in poche ore nei punti più strani e guarda caso più delicati e difficili da pulire; che dovevano lavorare con materiali di imballaggio non proprio conformi al 100 % alle specifiche, e dosare prodotti che se nei pochi minuti dei collaudi interni erano stati scorrevoli, in produzione si amalgamavano e non scorrevano più. Avevo scoperto anche che per rilevare l’usura o la rottura di un componente si facevano diecine di chili di produzione da scartare e che per sostituire alcuni “componenti d’usura” come nastri, molle, resistenze elettriche, ecc. che si guastavano, come era normale e accettato che accadesse, si perdevano ore di produzione. Insomma, dopo quell’esperienza non avrei salvato più del 60 - 70% di tutto quello che avevo progettato fino a quel momento.

A parte poi quegli gli aspetti puramente tecnici, avevo imparato a “stare” con i montatori, con i quali, anche se avevo da sempre un rapporto di particolare confidenza e complicità, non avevo mai condiviso difficoltà; e soprattutto con i clienti, che quasi tutti mi erano diventati amici. Consci che il guaio riguardava non solo l’ACMA ma anche loro, e vedendo quanto ci davamo da fare per venirne a capo, avevano collaborato indistintamente tutti e in tutti i modi possibili. Se avessero tenuto un atteggiamento ostile, al quale avrebbero avuto anche diritto, non ce la saremmo cavata; e quindi li ricordo con gratitudine, e anche con una certa nostalgia.

Il dottor Carones, della Pierrel sud, che ricordo osservare sconsolato, appollaiato su di uno sgabello, il nostro Bolognesi tentare un’ennesima messa a punto del “disinnesto” osservando: “Sembra che adesso non vada male vero ?! “ Come era felice il giorno che risolvemmo il problema; quasi più di noi. Peccato che non l’abbia più rivisto; era veramente un uomo di grande umanità: di quelli che solo a starci insieme ti fanno crescere senza che te ne accorga. Ricordo anche gli ingegneri Matteucci, Destito, Panaccione e Mugnaini della Sigma -Tau, per aderire ad una convocazione urgente dei quali feci il mio primo volo, Bologna-Roma, e che da avversari si erano trasformati in splendidi amici, e lo sono rimasti fino a quando ci siamo frequentati. E infine Battisti, della Lepetit, educato, competente, disponibile e mai nervoso.

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Anche con lui era nato bel rapporto di fiducia, durato negli anni, che ci portò addirittura quasi a diventare soci. Ma questa è un’altra storia che ricorderò a tempo debito.

Credo che ogni giovane progettista dovrebbe fare un’esperienza come quella, anche se non necessariamente estesa e drammatica come la mia, e non dover contare sempre e solo sulle informazioni di venditori inesperti, montatori a volte troppo critici sia verso la loro azienda, sia verso il cliente, o agenti, salvo casi rari a favore dei clienti.

La sua azienda, e ovviamente lui, ne trarrebbero vantaggi enormi.

Purtroppo molte aziende pensano di non avere risorse sufficienti per una politica del genere, ma forse, se ci pensassero meglio e facessero bene un calcolo esatto dei costi e dei benefici, si darebbero più da fare per trovarle risparmiando da altre parti.

Ma lasciamo da parte le nostalgie e le considerazioni più o meno condivisibili, e torniamo a quella metà del ’75. Gratificato dalle responsabilità che mi erano state date e eccitato dagli stimolanti risvolti che intravvedevo nell’attività di affiancamento di venditori ed agenti, mi buttai a capofitto nel lavoro. I guai del “disinnesto” avevano infatti scompaginato tutti i tempi per il completamento del programma buste, e volevo recuperare prima che Borghi si scordasse di avermi promesso il Servizio post Vendite. Mi dedicavo alternativamente ai progetti e a visitare o a ricevere in visita potenziali clienti, in compagnia di agenti e venditori, e devo dire che quel mix di attività mi piaceva moltissimo, tanto che non mi vergogno a dire che arrivavo spesso a barare facendo il “tonto” con venditori e agenti per farmi invitare al loro fianco per “capire meglio”. E per capire meglio, ma davvero, e per il timore di prendere pericolosi abbagli o non farmi capire, imparai anche a migliorare il mio inglese e francese in un modo molto semplice, poco impegnativo, per niente costoso e devo dire molto efficace. Oltre a continuare a leggere l’Emhart news e le riviste di packaging, in occasione di ogni viaggio all’estero presi l’abitudine di leggere i giornali locali e seguire i programmi televisivi. Un’abitudine che non ho più perduto. Feci molte interessanti esperienze, in quel doppio incarico, molte delle quali sarebbero certo interessanti e istruttive, ma non posso raccontarle tutte. Mi limiterò quindi a quelle con la STAR, con la Cussons e con la Nestlè; per me le più significative.

--------------------- o -------------------L’esperienza con la STAR scaturì da un’idea per quei tempi rivoluzionaria del dottor “Chicco” Nughes, figlio dello storico signor Nughes; creatore del “Buon Brodo STAR”, il prodotto che aveva dato inizio alla fortuna dell’azienda di Agrate Brianza di proprietà di Danilo Fossati. Il dottor Nughes, come il padre lungimirante tecnologo di prodotti alimentari, era molto ascoltato da Danilo Fossati e dal dottor Corno, direttore generale, e li aveva convinti a produrre diversi tipi di vivande precotte mono e pluri componente, e di confezionarle in buste da commercializzare con l’invitante marchio “Cuoco Mio”. Era un progetto di grande respiro nel quale la STAR aveva coinvolto in gran 54

segreto due aziende: la Luigi Goglio per realizzare un film termosaldabile speciale con il quale fabbricare le buste, e la tedesca Hesser, a quei tempi leader del “sotto vuoto”, per realizzare una macchina ad hoc per formare con quel film le buste, riempirle e sigillarle.

Mentre la STAR procedeva, noi in ACMA avevamo completato la nostra 712, e il nostro Mirabelli, all’oscuro di quel progetto pur se di casa alla STAR, dove lavoravano in ogni reparto diecine di nostre macchine per imballare i prodotti più diversi, aveva invitato a vederla l’ingegner Ghermandi; un bonario bolognese trapiantato in Brianza con tanta nostalgia della sua città e dei tortellini, che ad Agrate faceva il direttore tecnico. Una visita solo conoscitiva quella di Ghermandi, alla quale per alcuni mesi non aveva fatto seguito nessuna dimostrazione di interesse, poi, improvvisamente Ghermandi aveva chiesto a Mirabelli di andare con urgenza ad Agrate Brianza dove, dopo averlo informato del segreto progetto “Cuoco Mio”, gli aveva comunicato di essere convinto che la nostra nuova e semplice 712 poteva benissimo fare il mestiere della sofisticata Hesser ad un costo molto inferiore. E a quel punto ero entrato in ballo io.

Ci fu un primo incontro puramente informativo con il dottor Nughes e l’ingegnere, poi ne seguirono altri nei quali furono coinvolti via via diversi tecnici e tecnologi del cibo, fra i quali un certo signor Mutti, braccio destro di Ghermandi; con i quali discussi in particolare le caratteristiche dei dosatori. Si sarebbero infatti dovuti “dosare”nelle buste, senza danneggiarli, tortellini e ravioli freschi, i prodotti più ostici, ma anche pezzi di carne e verdure varie precotte e premiscelate, sughi contenenti parti solide e tre fette di brasato cotte nel barolo. Tutte cose che né noi né loro avevamo mai trattato ma per le quali trovammo soluzioni condivise. Infine, mi venne fatto incontrare un certo Rigato, un responsabile della manutenzione, che sembrava essere stato colui che aveva indotto Ghermandi a prendere in considerazione la nostra 712.

Quel diavolo d’un uomo gli aveva infatti suggerito un sistema talmente banale per “fare il vuoto” nelle buste da sembrare impossibile.

Semplicissimo, a suo dire, da installare sulla nostra macchina. Al posto delle sedici sofisticate e costosissime campane rotanti previste sulla Hesser, sulla nostra 712 sarebbe bastato prevedere un ugello mobile in verticale che avrebbe iniettato nella busta, già riempita col prodotto, un getto di vapore d’acqua a bassissima pressione - diffuso ovunque e in abbondanza in fabbrica - subito prima della saldatura di sigillatura. Il vapore avrebbe fatto uscire l’aria e l’ossigeno e condensandosi, a busta chiusa, si sarebbe ridotto ad una goccia d’acqua sterile lasciando “vuoto” tutto il resto del volume interno non occupato dal cibo. Un uovo di colombo che valeva centinaia di milioni di allora!

Definito tutto facemmo l’offerta che l’ingegner Ghermandi trasformò in ordine firmandola quasi senza leggerla, e io partii subito con gli studi pensando con entusiasmo che quel mercato era ai suoi primi passi e che se avessimo avuto successo con un marchio di prestigio come la STAR la cosa si sarebbe saputa in tutto il mondo e noi avremmo potuto “giocarci” con un ruolo di tutto rispetto. L’obbiettivo era realizzare il 55

più in fretta possibile un prototipo per poterlo paragonare con vantaggio alla Hesser e vincere così la gara per la fornitura di un primo lotto di ben sei macchine! E tutta l’azienda corse per conseguirlo. Io conclusi a tempo di record il mio lavoro, anche la produzione si diede da fare realizzando una splendida macchina, e vincemmo il confronto.

La STAR ci ordinò le sei macchine, che avevamo chiamato 712/1- spec. ( speciale ): le costruimmo, le consegnammo e mettemmo in produzione senza problemi, ma il sogno finì lì. Le nostre macchine funzionavano bene, i prodotti erano ottimi e fabbricati con componenti di alta qualità - il barolo era davvero “d’annata”- e la confezione, anche se in verità non molto attraente esteticamente, garantiva sia la conservazione che il gusto al prodotto per molto più tempo di quanto richiesto; c’era solo un problema: i consumatori non l’acquistavano. E il progetto morì.

Per la STAR, e in particolare per Chicco Nughes, fu naturalmente una grande delusione, oltre che un salasso dal punto di vista economico, ma fortunatamente avevano scelto le nostre macchine e non le Hesser. Se avessero infatti scelto queste ultime, realizzate “su misura” avrebbero avuto serie difficoltà ad utilizzarle per altri lavori, come invece riuscirono a fare con le nostre 712/1/-spec. Con piccole modifiche le riciclarono in differenti consociate estere per produrre egregiamente sia prodotti meno ambiziosi e più richiesti dal mercato, sia prodotti simili a quelli per i quali erano nate ma destinati a consumatori che non avevano la possibilità di rifiutarli: le Forze Armate. Anche per l’ACMA, la delusione per la perdita delle prospettive che aveva visto in quell’avventura fu ovviamente forte, ma si consolò: in fondo aveva venduto sette macchine ad un ottimo prezzo e aveva imparato un sacco di cose sulle tecnologie delle barre di saldatura e sui sistemi di dosaggio; un’esperienza che non avrebbe mai pensato di fare senza un progetto specifico pagato da un cliente.

Anche a me dispiacque, ma non più di tanto. In fin dei conti avevo fatto un bel progetto funzionante; ero diventato amico di Rigato che con i suoi insegnamenti mi era stato molto utile per i progetti 722/Stand-Up e 730; mi ero guadagnato la fiducia di uomini chiave della STAR, e soprattutto avevo fatto il mio primo viaggio in America. Ero infatti “dovuto” andare a Washington a illustrare le caratteristiche della macchina all’U.S.D.A (il dipartimento dell’agricoltura) e all’F.D.A (l’ente regolatore degli alimenti e dei farmaci) per ottenere l’autorizzazione ad esportarla colà. Una bella occasione per vedere un po’ di quella splendida città, e per imparare come fermare la concorrenza straniera facendo finta di volerla aiutare ad entrare!

-------------------- o -------------------Del tutto diversa fu invece l’esperienza con la Cussons. Non dovetti infatti risolvere nessun problema, ma grazie a quel cliente, ritrovai un vecchio e caro amico perduto da anni, scoprii ai suoi albori una realtà divenuta in seguito di primaria evidenza nel panorama del packaging mondiale, e mi feci degli amici che lo sono ancora, dopo quasi quarant’anni. La vicenda era nata quando quella storica azienda inglese 56

ci aveva chiesto di modificare la nostra 761/OA - quella che forse ricorderete avevo velocizzato per la P & G -, per farle astucciare le sue saponette di più alta gamma, le Imperial Leather ( pelle imperiale). Le saponette avevano una forma particolare, anzi unica, e dovevano essere avvolte con uno “skillet”( un’astuccio aperto), anch’esso ovviamente particolare. Un lavoro rognoso, ma non certo difficile, senza altri sbocchi se non per quel cliente, ma che Benazzi, dopo avermi coinvolto come unico esperto sulla 761/OA nelle discussioni per definire le modifiche da fare alla macchina, aveva deciso di accettare in previsione della vendita di altre cinque macchine. Io, senza togliere troppo tempo al programma buste avevo disegnate le modifiche, poi mi ero dimenticato della faccenda fino a quando, verso la meta di marzo del ‘76, Benazzi me le fece tornare in mente.

La macchina, mi disse, era stata montata da un nostro sub-fornitore di montaggi di Funo di Argelato, la BFB, un’azienda che conoscevo solo per sentito dire, e secondo il nostro capo del montaggio che era andata a vederla, sembrava funzionare bene. A scanso però di guai, visto che il collaudo e l’accettazione da parte del cliente erano stati programmati da li a dieci giorni, era bene che andassi anch’io a vederla per verificare che tutto quello che avevo concordato con il cliente fosse stato effettivamente fatto. Già che c’ero poi, concluse, avrei dovuto dare anche un’occhiata alla fardellatrice per formare un “multipacco” di più saponette realizzata dalla BFB, e messa in linea a valle della nostra 761/ OA, e dirgli cosa ne pensavo: aveva intenzione di metterla a listino sotto la nostra blasonata egida.

Feci una certa fatica ad individuare il piccolo capannone fra i tanti, tutti uguali, della zona artigianale; quasi tutti senza insegne ben visibili e alcuni privi di numero civico. Come vi entrai - la porta non era chiusa a chiave - notai a colpo d’occhio da un lato l’ufficio tecnico, ricavato in un separè vetrato, con dentro due tavoli da disegno, due scrivanie e la solita confusione di rotoli di lucidi carpette e altri documenti, a fianco, un altro separè vetrato con un altro paio di scrivanie, e sul lato opposto alcuni banchi da lavoro e tre o quattro macchine utensili. Tutto il resto dell’ambiente era pieno all’inverosimile di macchine a diversi stadi di montaggio, nastri trasportatori e mille altri pezzi. Una confusione indescrivibile in mezzo alla quale faticai ad individuare la nostra linea, e dalla quale uscì con mia grande sorpresa Guerrino Frabetti, uno dei primi montatori che mi ero fatto amico in ACMA, un grande specialista sulle incellofanatrici 721 e le avvolgitrici per saponette 761, che se ne era andato molti anni prima e del quale non avevo più saputo niente.

Prima mi guardò con aria incerta, poi, come mi riconobbe mi fece un gran sorriso e venendomi incontro esclamò:“Ma vè chi as vad què; Tabaroni! “( ma guarda chi si vede qui; Tabaroni!) e aggiunse con falso sussiego: “Buongiorno signor Tabaroni!”

In un’atmosfera di colpo rilassata, Guerrino mi disse con un certo orgoglio nella voce di essere la F della BFB, poi mi trascinò in giro e mi presentò le due B; Gino Benedetti e Dario Bonettini, e due dei cinque o sei collaboratori: Marco Grassilli, un simpaticissimo ragazzone alto e robusto, e Silvano Biagi, scuro di pelle, di capelli, e, all’inizio, ma solo 57

all’inizio, di carattere. La mia confidenza con Frabetti ci portò tutti in pochi minuti a chiamarci per nome e invece di parlare di Cussons, cominciammo a parlare di noi e delle nostre vicende. Imparai così che i tre soci, Biagi e io, avevamo avuto uno stesso maestro, quel Tinarelli della BTB, se vi ricordate, che ai tempi della Wrapmatic mi aveva fatto tornare a pescare; che la BFB era nata un paio di anni prima quando la BTB era passata al gruppo CAM e loro avevano preferito “fare da soli”, in un garage; e che si erano trasferiti da poco in quella sede. Io mi limitai a fare il riassunto delle mie vicende in una diecina di minuti.

A pranzo, alla Grigliata di Casadio, parlammo un po’ del lavoro in generale e imparai che la BFB montava macchine non solo per noi, ma anche per la Wrapmatic, e in particolare per l’IMA, e da quei discorsi mi parve di capire che forse Benazzi era “arrivato lungo” con le sue ambizioni di cooptare la fardellatrice. Quell’azienda aveva ben altre ambizioni per quella macchina. Altro che saponette. Dal rapporto con l’IMA aveva già intuito le opportunità che la loro tecnologia aveva nei settori del thè, farmaceutico e cosmetico, e per entrarvi si era già affidata sia allo Studiopack degli ingegneri Carletti e Belloli che alla So.Te.Co, la società tecnico commerciale che si occupava delle vendite per il gruppo IMA. Dopo il caffè, in pochi minuti scoprii che la linea funzionava alla perfezione, che quello che avevo concordato con il cliente per la 761/OA era stato fatto, organizzammo il collaudo e tornai da Benazzi a dirgli che per quello non c’era da preoccuparsi, ma per i suoi programmi sì; ma lui quasi non ci fece caso. Per inciso il collaudo fu effettuato con successo, nei mesi seguenti il promesso ordine di altre cinque linee arrivò puntuale, e negli anni ne seguirono alti .

-------------------- o -------------------L’esperienza con la Nestlè fu molto diversa dalle altre due. Dovetti infatti assistere a quello che a mio avviso fu uno degli errori strategici più gravi della mia ACMA, e quindi vi chiedo un po’ di pazienza perché dovrò scrivere qualche riga in più di quanto ho scritto su STAR e Cussons per parlarvene in modo esaustivo. Ma credo ne varrà la pena.

Non ero mai stato nello stabilimento di produzione di Abbiategrasso: era stata infatti l’unica delle aziende italiane che non avevo dovuto andare a “tener buona” nel travagliato periodo del “disinnesto” della croce, in quanto aveva ricevuto la sua linea 712-723, per le bustine di Nescafè, dopo che avevamo risolto il problema; e, secondo il nostro Mirabelli ne era talmente soddisfatta da essere sul punto di ordinarne una seconda e forse una terza. Ma l’ordine non arrivava, e Benazzi, spazientito, chiese a Mirabelli di portarmi con sé per vedere se quel ritardo fosse dovuto a qualche problema tecnico del quale il cliente non ci voleva mettere al corrente. Accadeva infatti spesso che i clienti, in particolare le grandi multinazionali, modificassero le macchine per loro esigenze particolari, che si trovassero in difficoltà, e che pur di mantenere i loro segreti non chiedessero il nostro aiuto.

All’arrivo ci accolse il signor Bonfiglio, capo della produzione, e in pochi minuti di chiacchere informali scoprimmo che in effetti avevano 58

sostituito il materiale ultra collaudato per formare le buste, con uno più economico, avevano modificato la granulometria del prodotto per renderlo meglio solubile, ed erano in difficoltà. Il nuovo film infatti non dava le stesse garanzie di tenuta nelle saldature, le quali inoltre non venivano certo favorite dalla troppa polvere sospesa che il prodotto, nella nuova formulazione, generava in fase di dosaggio. Non ci avevano naturalmente detto niente in quanto erano problemi loro, ma erano fiduciosi di venirne presto a capo. A quel punto potevamo andarcene, e anche parzialmente soddisfatti; non appena la Nestlè avesse risolto quel problema gli ordini sarebbero certamente arrivati. E stavamo per farlo, salutando e ringraziando Bonfiglio, quando arrivò inatteso a salutarci il signor Tranchellini, il responsabile degli acquisti tecnici che avevo conosciuto durante la trattativa che aveva portato all’acquisto della linea. E quelle nostre speranzose deduzioni subirono un duro colpo.

Non fu lui a sferrarlo; ma certamente lo provocò chiedendo a Bonfiglio se ci aveva mostrato i progressi che stavano facendo nella messa a punto della linea con il nuovo materiale e dicendosi anche lui fiducioso su una rapida soluzione dei problemi. Mirabelli, infatti, si “agganciò” a quella frase chiedendogli confidenzialmente quando doveva tornare ad Abbiategrasso per avere l’ordine delle altre due linee, ma lui, visibilmente imbarazzato, fece finta di non sentirlo, e accennando ad un impegno dimenticato al quale non poteva mancare, ci salutò in fretta e se ne andò. Un atteggiamento quanto meno strano, che Mirabelli, che da anni aveva con Tranchellini un rapporto di cordiale amicizia più che di affari, non mancò di fare notare a Bonfiglio, il quale, visibilmente imbarazzato anche lui, ci chiese di seguirlo in un reparto riservato e pregandoci di non accennare nulla a Tranchellini se non fosse stato lui a parlarcene, ci mostrò per alcuni minuti la nuova linea della svizzera SIG. In ACMA si sapeva che la nostra “nemica” svizzera nel settore delle inscatolatrici, lavorava a quel nuovo concetto di imbustinamento; e che non era l’unica. Anche l’ Universal Pack di Gino Donati, un piccolo costruttore di Rimini, aveva già realizzato una semplicissima macchina che operava con lo stesso concetto. Ma tutti, me compreso, avevamo pensato che le imbustinatrici “multifile verticali” non fossero un pericolo per le nostre 712 in quanto il loro modo di saldare non poteva garantire una tenuta e quindi una conservazione del prodotto nemmeno paragonabili a quelle che garantiva la nostra 712, e l’uscita delle bustine finite era talmente poco controllabile da rendere impossibile, o comunque molto complicato e costoso il necessario collegamento automatico ad astucciatrici. Bene! Anzi male! Molto male: era evidente che non un “pinco pallino” qualsiasi, ma la Nestlè, una delle più grandi multinazionali del mondo, uno dei più grandi produttori di prodotti in buste e uno dei migliori clienti che ci vantavamo di servire, non la pensava come noi.

Mentre giravamo attorno alla linea; molto compatta, sinceramente bella, e un poco più piccola della nostra, Bonfiglio ci confidò che produceva senza problemi 650 bustine al minuto - quasi tre volte la nostra 712- 723 -, con una buona tenuta, e che il complesso ma geniale 59

sistema di astucciamento, che sembravano funzionare a meraviglia, era stato realizzato da un piccolo costruttore di Bologna, del quale però non volle dirci il nome. L’acquisto della linea, concluse quasi scusandosi, era stato loro imposto dalla casa madre di Vevey, e da quello che aveva saputo il suo prezzo era più o meno pari a quello della nostra. Ne sapevamo anche troppo: lo ringraziammo, lo salutammo e ci avviammo verso Bologna per dare l’allegra notizia a Benazzi. E io per tutto il viaggio pensai che avevo preso una bella cantonata nel considerare quella tecnologia con sufficienza; quella era proprio una gran bella linea!

Ovviamente il perdere un ordine già dato per acquisito presso uno dei nostri più affezionati clienti, oltretutto una grande multinazionale e nel settore nel quale ci ritenevamo leader indiscussi, provocò in azienda un vero terremoto. Il caso fu oggetto di diverse discussioni ad alto livello, ad alcune delle quali fui invitato anch’io in quanto ero l’unico tecnico che aveva potuto osservare il nemico al lavoro. Poi fu indetta una riunione plenaria tecnico commerciale per fare il punto e decidere il da farsi; e di questa riunione io fui, mio malgrado, il protagonista. Mi toccò infatti dire che la linea SIG era un nemico molto pericoloso. Anche se il sistema di saldatura non poteva certo competere in affidabilità e tenuta con il nostro, occorreva considerare che era “appena nato” e quindi suscettibile di miglioramenti; che i film saldabili erano in pieno sviluppo e che molto probabilmente si sarebbero addattati sempre meglio a quel sistema; ed infine che della miriade di prodotti confezionati in buste, soltanto pochi esigevano davvero le nostre saldature a ”prova di tutto”. Ma non dovetti essere molto convincente!

Borghi decise infatti di non far nulla in attesa che i “poveri clienti” che ci abbandonavano o quelli che non ci sceglievano a favore di quella “tecnologia inaffidabile” tornassero pentiti a Canossa.

Fu una decisione che mi lasciò interdetto; di una presunzione incredibile, sulla quale rimuginai per gran parte della giornata e anche della notte. E più remuginavo e più mi convincevo che la scelta della direzione era un errore abnorme. E più mi convincevo di questo, più altre scelte: come la rinuncia al mercato delle caramelle, o il non entrare in quello delle “Flow pack” ( per i non addetti ai lavori la foggia d’incarto delle merendine ferrero e di un milione di altri prodotti, specie biscotti ) , delle “Pillow pack”, ( sempre per i non addetti ai lavori la foggia d’incarto delle “patatine” e di un altro milione di altri prodotti ) o dei biscotti sfusi in sacchetti tipo Mulino Bianco, o nella “termoformatura”, una tecnologia solo agli inizii ma della quale si intravvedevano già, almeno dalle fiere, enormi potenzialita in una miriade di settori merceologici, mi sembravano anch’esse clamorosi errori e non scelte strategiche di marketing.

Mi consolai solo quasi all’alba dicendomi, poco convinto, che di quei settori io ne sapevo troppo poco per dare giudizi e ricordandomi che anche Vittorio Gentili non aveva creduto nella carta igienica, pur avvertito, anzi, invitato da Cassoli; e la Wrapmatic aveva comunque continuato a crescere e svilupparsi. In ufficio non dissi nulla a nessuno

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degli incubi che mi avevano tenuto sveglio e ripresi a fare il mio lavoro con impegno e dedizione, non pensandoci più.

La Nestlè, però, non tornò a Canossa, e solo quando imparammo che aveva comprato un’altra linea SIG e ci accorgemmo che il flusso delle richieste d’offerta per linee 712-723 scemava giorno dopo giorno, la direzione finalmente si decise a prendere contromisure. Contromisure!

Si fa per dire. Poco più di un pannicello caldo. Anziché ordinarci di studiare una nostra linea simile alla SIG, che avremmo sinceramente potuto realizzare in pochi mesi parando sicuramente il colpo con onore, si limitò ad autorizzare le vendite a fare sconti sui prezzi e a chiedere a noi tecnici di provare a far andare più in fretta le nostre 712-723. Una iattura quest’ultima, perché purtroppo ci riuscimmo. E dico purtroppo perché se non ci fossimo riusciti, forse l’ACMA avrebbe cambiato strada.

Con un malaugurato colpo di genio Aiuola trovò il modo di raddoppiare non la velocità della linea, ma la sua capacità produttiva; io mi misi al lavoro, e verso la fine di giugno del 1977 in sala esperimenti vide la luce la nuova linea 712/4 - 723, capace di produrre, anche se con criticità funzionali non trascurabili, 420 bustine al minuto: solo due terzi della linea SIG, ma quasi il doppio della 712-723, e la direzione, soddisfatta, la fece mettere a listino e si dimenticò delle imbustinatrici “multifile verticali”.

Con quel progetto non certo esaltante sotto tutti i punti di vista finì la mia carriera da progettista. I gruppi opzionali principali della 712 e quelli che mi erano stati affidati per la 722/Stand-Up e la 730 li avevo finiti, e due giorni prima della chiusura estiva fui convocato da Borghi, che, alla presenza di Rueff, Benazzi e Ferrari mi comunicò ufficiamente che dal primo di settembre sarei stato il direttore del Servizio post Vendite. Il mio primo referente sarebbe stato Ferrari e il mio ufficio quello già occupato da Aurelio Guidi e Sandra Sandoni, che sarebbero diventati i miei collaboratori. Fra gli aspetti più importanti di quel mio nuovo incarico, proseguì, c’era naturalmente quello di intrattenere buoni rapporti con tutti i clienti, che avessero o non avessero problemi da risolvere, e quindi avrei dovuto cercare di incontrarne e conoscerne il maggior numero possibile, presenziando a tutte le fiere cui l’azienda avrebbe deciso di partecipare e al maggior numero possibile di collaudi interni. Infine, concluse che visto il sempre maggior numero di vendite di macchine speciali, quel mio nuovo incarico assumeva un’importanza strategica e che se avessi trovato difficoltà per svolgerlo come credevo necessario, avrei potuto rivolgermi direttamente a lui. Si alzò, mi strinse la mano augurandomi buon lavoro, e ci congedò.

Aveva dunque mantenuto fede alla sua parola, Borghi, pensai mentre uscivo emozionato dall’ufficio, e anche se avrei preferito avere come capo Benazzi e non Ferrari, che era noto per non capire un gran che di macchine, il lavoro che Borghi mi aveva prospettato era quello che mi ero immaginato di dover svolgere. E forse ancora più bello. Mi avviai quindi con Ferrari, che sembrava invece contentissimo di avermi a fianco, verso il mio nuovo ufficio, per essere presentato formalmente ad Aurelio e Sandra. L’ufficio lo conoscevo, era grande e c’era posto comodamente anche per me; Aurelio non mi sembrò tanto entusiasta di 61

avermi come capo, mentre Sandra, che conoscevo fin da quando bambina veniva a fare la spesa con sua madre in negozio, mi sembrò contenta di diventare mia assistente. Fatto il suo lavoro Ferrari se ne andò per fatti suoi e io tornai in sala Progetti dove - la voce era corsa veloce in azienda - venni accolto da un coro di congratulazioni e assicurazioni di totale collaborazione. Il giorno dopo ciondolai per l’azinda facendo chiacchere con l’uno e con l’altro e poi, come tutti, me ne andai tre settimane in ferie.

Al rientro feci sistemare nel nuovo ufficio una scrivania e qualche accessorio “identici” a quelli di Aurelio e Sandra, vi sistemai le mie carte e cercai di convincere Aurelio, che continuava a “tenermi il muso”, che non avevo nessuna intenzione di rubargli il mestiere e che anzi lo avrei valorizzato, infine feci il giro dei venditori e dei capi ufficio e reparto, i quali, come avevano fatto i miei ex colleghi progettisti, mi garantirono una collaborazione totale. Un’atteggiamento che non mi ero aspettato da gente alla quale avrei probabilmente dovuto “rompere le scatole”, ma che scoprii in seguito dettato fondamentalmente, anche se non solo, dal sollievo di avere finalmente fra loro e i clienti “un amortizzatore” di primo impatto. Ricevetti anche un entusiastico benvenuto dai miei amici montatori; non pochi dei quali si lasciarono sfuggire, di proposito ad alta voce se in giro c’erano venditori, frasi del tipo: “Finalmente potremo parlare con qualcuno che ci ascolterà capendo quello che diciamo!”E il primo di settembre del ’77 partii per la nuova avventura.

-------------------- o -------------------Una nuova avventura che cominciò davvero sottotono. Trascorsi infatti l’intera giornata a far chiacchere informali e generiche con Sandra e Aurelio e solo verso sera potei esibirmi nel mio nuovo ruolo, facendo peraltro non propriamente una gran bella figura di fronte ai miei nuovi collaboratori. Quando infatti la centralinista mi passò un tale Dolader della Henkel Iberica, per qualche minuto mi trovai in difficoltà.

Non avevo mai parlato al telefono “in lingua”di argomenti tecnici seri e nei gesticolanti colloqui diretti che avevo avuto mi ero convinto di cavarmela a sufficienza sia in inglese che in francese; ma di tutto quello che mi disse quel signore, certamente in un ottimo inglese, non capii praticamente nulla. E Sandra e Aurelio se ne accorsero. Ma ne uscii con grande faccia tosta: gli dissi che avevo capito, ma di confermarmi il tutto via telex, e gli risposi in pochi minuti con lo stesso mezzo.

Anche i successivi quindici giorni non furono né impegnativi né caotici come mi ero immaginato e quindi riuscii ad organizzarmi come volevo senza arrabattarmi. Imparai a conoscere meglio Aurelio e Sandra e definii i loro nuovi compiti, che cercai di rendere più premianti; con il capo del montaggio concordai come gestire al meglio i collaudi interni e l’invio in trasferta dei montatori; e con il capo reparto ricambi come riuscire a reagire con la massima celerità possibile alle richieste di clienti in emergenza. Trovai in verità il capo del montaggio abbastanza ”conservatore”, mentre invece Andrea Pallavicini, mi assicurò senza obiezioni la massima disponibilità a far fronte alle 62

richieste di pezzi di ricambio; anche andandoli a rubare al montaggio da macchine finite.

Poi cominciai a farla quella vita che avevo tanto desiderato. Una vita di molte soddisfazioni, devo dire, ma anche di delusioni e qualche scofitta, a volte stressante e perfino pericolosa. Una vita che mi ha fatto incontrare migliaia di persone di ogni genere e lingua, alcune da prendere ad esempio e altre no, mi ha consentito di visitare centinaia di aziende, osservare processi produttivi di ogni genere, misurarmi con i problemi più diversi e, in una sequenza quasi continua di viaggi, mi ha portato in una gran parte del mondo quando il mondo era molto più lontano e meno conosciuto di oggi e quindi incuriosiva molto di più. In sostanza una vita tutto fuorché noiosa, che forse meriterebbe di essere raccontata in dettaglio, ma sarebbe troppo lungo farlo. Mi limiterò quindi agli eventi e alle persone che più mi hanno colpito, segnato, insegnato, deluso, e sorpreso. A cominciare dal primo viaggio che feci in quella mia nuova veste, che fu davvero una gran bella sorpresa: non andai infatti in qualche sperduta e squallida zona industriale a cercare di risolvere qualche rogna, ma nello splendido centro di Chicago a divertirmi.

Da qualche tempo, fra i nostri agenti negli USA, c’era la Angelus Sanitary Can Machine Company di Los Angeles, uno storico produttore di macchine per barattoli metallici che, nell’ambito di una fiera specializzata del suo settore in quella città, aveva pensato di esporre anche la 712/1-spec. che gli avevamo consegnato per dimostrazioni ai clienti. Non aveva però personale già esperto che potesse ragguagliare eventuali interessati, aveva chiesto la presenza di uno di noi e Benazzi aveva chiesto a me di andare. Si trattava quindi più che di un lavoro, di una vacanza; anche se il viaggio non iniziò proprio nel migliore dei modi. Innanzitutto dovetti partire con un “bagaglio appresso”composto anche da una pesante cssa contenente una serie di pezzi che dovevano servire ad aggiornare un gruppo della macchina, poi a Milano c’era nebbia, il mio volo per Londra partì con quasi tre ore di ritardo e quando vi arrivai il volo per Chicago se ne era gia andato; scombussolando tutto il mio programma che prevedeva l’arrivo a Chicago in serata, e gettandomi nello sconforto.

Dovevo arrivare quella sera per poter sdoganare subito i pezzi, e avere tutto il giorno dopo a disposizione del tecnico della Angelus per fare le modifiche e testarle. E non sapevo come fare. A complicare le cose, poi, facevo fatica a capire quello che annunciavano gli altoparlanti - gli schermi video erano ancora rari a quei tempi - e anche quello che dicevano gli incaricati della British Airways con i quali cercavo disperatamente una soluzione. Soluzione che trovarono facendomi imbarcare su un volo Canadian Airways che mi portò quella sera a Toronto, e dal momento che vi atterrai mi sembrò di vivere una favola.

La B.A mi trattò come un principe. Che tempi!

All’arrivo fui preso in carico da una hostess che dopo avermi assistito per farmi comunicare all’ACMA e alla Angelus il cambio di programma sarei arrivato a Chicago il tardo mattino del giorno dopo - si occupò dei pezzi per le modifiche che necessitavano di pratiche di transito, e mi 63

accompagnò ad una enorme limousine nera dove mi attendeva un ragazzo che parlava italiano. Questi mi portò in hotel, poi a cena in un famoso ristorante italiano, poi su una torre panoramica girevole alta più di trecento metri dalla quale potei ammirare una sfavillante Toronto nottura, e poi di nuovo in hotel. Il mattino dopo lo stesso ragazzo mi accompagnò fino all’aeroporto dove un altro addetto della B.A si incaricò dei bagagli e di farmi arrivare alla porta d’imbarco del mio volo, e, nonostante molta neve sia a Toronto che a Chicago arrivai in perfetto orario all’aeroporto O’Hare; dove, come previsto, trovai ad aspettarmi con un cartello in mano con il mio nome scritto sopra, Sal Titone.

Era un ragazzo di circa la mia età, non tanto alto, con due bei baffi nerissimi “alla siciliana” ed un sorriso accattivante. Dopo avermi stretto la mano ed essersi presentato, prese il mio bagaglio e mi scortò ad una limousine con la quale ci spostammo in un’altra area dell’aeroporto, dove in pochi minuti sdoganammo i pezzi e nemmeno un’ora più tardi eravamo nello stand tutto bianco e ornato di rose rosse della Angelus.

Sal si dimostrò un buon tecnico, riuscì senza difficoltà a sostituire tutti i pezzi e a provarne l’efficacia prima che venisse sera, poi, con un taxi raggiungemmo il Conrad Hilton in Michigan Avenue - il primo Hilton - e salii nella mia lussuosa camera: la 2220/A al ventiduesimo piano, con vista sul lago Michigan.

Eravamo rimasti d’accordo di vederci dopo un’ora per cenare avevamo saltato il pasto di mezzogiorno - e dopo un’ora esatta Sal bussò alla porta. Scendemmo nella hall e attraversammo alcuni saloni veramente sontuosi. Era certamente il più bell’ albergo che avessi mai visto, pensai, nemmeno nei film; e io non solo ci abitavo ma ero addirittura pagato, e bene, per farlo! Mi sembrava un sogno. E non era finita! Per darmi il benvenuto Sal mi condusse addirittura a cena al Drake, allora uno dei ristoranti più esclusivi della città; quello di Al Capone ! E fu una cena favolosa - non dappertutto in America si mangia male - ma soprattutto fu una gran serata. Parlammo fino a notte fonda di noi, dell’Italia, della Sicilia, dell’America e del Vietnam, e andai a dormire contento di aver avuto la fortuna di incontrare un “uomo speciale”. Si perché qel ragazzo dall’aspetto mite e quasi comico qualcosa di speciale in sé doveva averlo per essere ancora vivo dopo essere stato due anni prigioniero dei Viet Cong. Due anni dei quali, pur essendo passato tanto tempo, non era riuscito a parlarmi che per pochi minuti e piangendo come un bambino.

La fiera ebbe un discreto successo di visitatori anche se furono per la verità più che altro curiosi. Conoscevano la Angelus per le sue macchine e rimanevano stupiti di veder esposta una macchina per buste flessibili.

Sal mi disse comunque che i suoi capi non si erano aspettati di più. Da parte mia ebbi la conferma che fare il venditore non era affatto difficile, conobbi persone interessanti, quel poco, purtroppo, di Chicago che riuscii a vedere mi piacque molto e il giorno della partenza potei godermi dalla terrazza del ristorante Seven Continents dell’O’Hare, l’incredibile sequenza di atterraggi e decolli: uno spettacolo per un provinciale bolognese di quegli anni, quale ero. Tornai quindi a casa 64

soddisfatto da quella prima esperienza, con il solo rammarico di aver visto troppo poco di Chicago e soprattutto di non aver potuto ascoltare da Sal qualcosa di più sulla sua esperienza in Vietnam. Ma ho recuperato.

Chicago è stata la città degli Stati Uniti che ho frequentato più volte e per più tempo e che ho quindi conosciuto meglio, e Sal è riuscito a raccontarmi, senza piangere, per intero quella sua terribile quanto affascinante storia. Continuammo a vederci infatti, diventammo amici, e anche quando entrambi abbiamo preso strade che non ci hanno più dato l’opportunità di vederci per lavoro, lo siamo rimasti. Abbiamo continuato a scriverci, a sentirci per telefono e ci siamo anche visti ancora un paio di volte: una a casa mia a Bologna e un’altra a Los Angeles, dove era ritornato a fare gelati, dopo un disastrato matrimonio che l’aveva fatto finire per diversi anni in Brasile. Poi la vita e le cose hanno diradato i nostri contatti e da qualche anno ci scriviamo solo a Natale per farci gli auguri e per raccontarci con poche righe quanto ci è capitato. L’anno scorso mi ha detto che è andato anche lui “in pensione” e mi ha promesso che se ci riuscirà verrà a trovarmi. Chissà se lo farà mai, lo spero, mi piacerebbe rivederlo ancora una volta.

Tornando a quel primo viaggio, devo purtroppo registrare che l’entusiasmo che mi aveva infuso si stemperò brutalmente al ritorno per la cupa atmosfera che trovai in famiglia a causa delle straziante agonia dell’ancor giovane padre della moglie di mio fratello; una bravissima persona che se ne andò nei giorni della grande nevicata che mise in ginocchio Bologna e l’intera regione. Quella triste vicenda e lo stress che mi provocarono i diverrsi collaudi interni dei quali dovetti occuparmi perché si potesse spedire e fatturare il più alto numero possibile di macchine, mi fecero arrivare alle feste di fine d’anno stremato. Per tutto gennaio e fino alla metà di febbraio dell’anno nuovo non dovetti attendere a nessun collaudo interno - avevamo vuotato il montaggio - ne andare in giro, e quindi mi riposai ascoltando montatori di ritorno da trasferte e trattando problemi vari ma senza contrasti impegnativi, poi tornai a Chicago per presenziare, sul nostro stand, alla mia prima PMMI, la fiera americana dell’imballaggio. Un’esperienza che oltre a rivelarsi piacevole e di tutto riposo, mi fece cambiare l’idea che avevo sulla concorrenza.

Dai pochi costruttori americani e giapponesi che avevo visto esporre alle fiere europee, mi ero fatto l’idea che in quei due paesi non fossero molto interessati a far macchine per l’imballaggio, e che noi stentassimo a penetrare nei loro mercati, come in altre parti del mondo sviluppato, a causa della concorrenza degli svizzeri e dei tedeschi. Ma scoprii che non era affatto così: americani e giapponesi trovavano dai loro costruttori tutte le macchine che potevano desiderare. Forse meno belle delle nostre, specialmente quelle dei primi, ma con prestazioni, almeno quelle dichiarate in pubblicità, quasi sempre superiori, e anche di molto a quelle delle nostre. Per fortuna sembravano non pensare di venire a venderle a casa nostra!

A parte quella scoperta, essendo la fiera aperta per sole cinque ore al giorno, riuscii a vistare il favoloso museo di storia naturale e a salire 65

sulla nera e lucente Sears Tower, allora l’edificio più alto del mondo.

Partecipai anche ad alcuni eventi collaterali alla fiera, dei quali ricordo in particolare il suggestivo pranzo di gala offerto dalla Old Guard Society del packaging nella sontuosa Grand Ballroom del Conrad Hilton, dove alloggiai per la seconda volta.

Tornai quindi anche da quel viaggio con ricordi più turistici che di lavoro, e non feci nemmeno in tempo a dare un’occhiata alla posta, rispondere alla più urgente e presenziare ad un paio di collaudi che dovetti ripartire; ancora una volta per andare a fare un mestiere che non era proprio il mio; ancora una volta in sostanza a fare il turista.

Visto che non avevo grane in giro che mi tenessero occupato a tempo pieno e solo pochi collaudi interni a cui dover presenziare, Benazzi mi chiese il “sacrificio”di addestrare sul campo, sulle macchine per buste, un nuovo agente per la Francia; un certo Cristian Salomon. Si trattava mi disse, di dargli un supporto tecnico nelle prime visite ai clienti, niente di più che qualche viaggetto turistico di due o tre giorni, fintanto che lo avessi ritenuto idoneo “nuotare”da solo. E io naturalmente accettai di sacrificarmi.

Nel giro di tre o quattro settimane feci altrettanti viaggenti a Parigi per “formare” Cristian, ma non li ricordo certo ancora per il lavoro che feci. Cristian si rivelò infatti un mio coetaneo, simpatico e molto affine a me nei gusti, negli svaghi e anche negli intressi generali che, pur se si definiva con orgoglio un“campagnard”, frequentava da sempre e conosceva molto bene Parigi, e non solo quella turistica. Con lui infatti conobbi quella Parigi speciale dove i parigini si rifugiavano per continuare a vivere indisturbati in un’atmosfera da anni Cinquanta che non immaginavo fosse sopravissuta alla modernità: luoghi da film dove ogni volta mi aspettavo di trovare Jean Gabin o qualcuno dei suoi comprimari, per intenderci.

Ho un ricordo simpatico anche delle sortite che comunque facemmo anche nelle zone turistiche canoniche, come la cena da Chez Stèphanie, in place Wagram, vicino all’Etoile, uno dei primi ristoranti di nouvelle cuisine: un locale molto bello, arredato rosa pallido, con addette ai clienti davvero mozza fiato, dove spendemmo una fortuna per una cena raffinatissima, ma dal quale uscimmo con una fame che ci fece entrare di corsa nel primo Hippopotamus che trovammo a riempirci lo stomaco con un’enorme cotoletta. Nouvelle cuisine e cotolette a parte, si stava “da dio”anche negli intriganti locali, anche se un po’ turistici, del quartiere della Sorbonnè, dove, dal secondo di quei viaggetti andai ad alloggiare abbandonando il lussuoso Grand Hotel de Marignan, a due passi dai Champs elysées, con il quale l’ACMA aveva una convenzione.

Non lo feci perché al de Marignan non mi trovavo bene, ma era “troppo impegnativo”, mentre l’Hotel des Grands Hommes, in place du Panthéon, dove avemmo un incontro con alcuni clienti, mi aveva fatto sentire a casa. Da allora, quando ho potuto prenotare io, gli sono rimasto quasi sempre fedele: è un hotel a conduzione familiare, piccolo, grazioso, che mi sento di consigliare a tutti. Comodo per la stazione di metrò e RER, per una passseggiata a piedi sulla Senna, a Notre Dame, ai giardini del Luxemboug e circondato da tutti i migliori ristoranti e locali 66

del quartiere; a mio avviso uno dei più belli della città. E anche molto tranquillo e sopratttutto sicuro. Nell’edificio a fianco abita, o almeno vi ha abitato fino all’ultima volta che ci sono stato, Laurent Fabius, un politico di altissimo livello, oggi presidente del Consiglio Costituzionale; e la zona è sorvegliatissima.

Pubblicità turistica a parte, dopo pochi giorni che ero rientrato dall’ultimo giro con Cristian accaddero due cose che mi cambiarono la vita. Ricevetti infatti una seducente proposta del tutto inaspettata, e subito dopo dovetti occuparmi per diverse settimane quasi a tempo pieno del primo problema veramente serio che però si dimostro un altro gran colpo di fortuna.

La proposta mi arrivò da un’agenzia che si occupava di ricerche di mercato e di pubbliche relazioni a livello internazionale, un’agenzia che si era interessata a me in modo generico molti anni prima, ma senza che ci fosse un seguito, e che avevo completamente dimenticato. Questa volta, invece, il funzionario che mi contattò mi propose di approfittare dei viaggi che facevo per l’ACMA per fare qualcosa anche per loro.

Nient’altro che un piacevole e stimolante “diversivo”, mi rassicurò, tanto che non avrebbe potuto riconoscermi nessun tipo di compenso ma solo il rimborso di eventuali spese specifiche. Non avrei però avuto obblighi o responsabilità di nessun genere, e grazie alle relazioni che mi avrebbe procurato, avrebbe certamente molto favorito il mio lavoro per l’ACMA. Non era una proposta chiara, anzi, era piuttosto ambigua e fumosa, ma proprio per quello molto intrigante. E così, senza certo immaginare quanto utile mi sarebbe stata davvero per il mio lavoro e che la cosa sarebbe durata più di vent’anni, l’accettai.

Il giorno dopo, pero, mentre fantasticavo su quella strana proposta, ma una riunione di direzione straordinaria che il signor Borghi convocò con urgenza verso l’ora di pranzo mi obbligò a dimenticare per qualche tempo quelle eccitanti fantasie.

L’argomento della riunione era una lettera pervenuta quel mattino dalla Lever di Casalpusterlengo, con la quale uno sconosciuto ragionier Conconi, che si qualificava nuovo direttore dei servizi tecnici di quello stabilimento, ci faceva sapere che la linea formata dalle macchine 753713-714, in funzione da circa un anno, dava un rendimento del 31 anzichè del 78% garantito all’ordine, ci chiedeva un incontro urgente per vedere quali provvedimenti prendere e ci informava che nel frattempo si vedeva costretto a sospendere l’ordine delle altre quattro linee di quel tipo. Non era una cosa da poco, anzi era una vera “bomba”; e ve ne spiego il motivo.

A parte che la casa madre Unilever era allora in assoluto il nostro miglior cliente e che, se confermato, il blocco dell’ordine delle quattro linee (del valore di un miliardo di lire ciascuna e già quasi finite al montaggio) significava un disastro dal punto di vista finanziario, su quella linea avevamo riposto gran parte delle speranze per il futuro. Era infatti l’ultima nata della fortunatissima serie di inscatolatrici e incartonatrici che avevano avuto una parte importantissima nel nostro sviluppo: il nostro fiore all’occhiello come si usa dire, e la massima espressione di tanta passata esperienza, che avevamo garantito alla 67

Lever in grado di produrre 450 astucci al minuto di polvere detergente Bio Presto e di incartonarne 48 pezzi con un nuovo sistema denominato “wrap around”. Erano prestazioni eccezionali rispetto ai 300 scarsi ottenuti sul modello precedente 793; che ci facevano sperare con ragionata fiducia di raggiungere finalmente in quel settore il definitivo predominio sui nostri concorrenti svizzeri e tedeschi della SIG e della Hesser e forse riuscire perfino a fare concorrenza alle americane Velocitron e altre, nei mercati dove queste erano da sempre solidamente egemoni.

Conoscevo la 753 sia perché ne avevo disegnato alcuni gruppi, sia per averla vista in reparto montaggio durante le prove di messa a punto; non avevo invece mai visto le incartonatrici di Zucchini 713-714, modelli al loro esordio, e quindi stetti prudentemente in silenzio mentre i miei colleghi dell’ufficio tecnico e del montaggio esprimevano a Borghi le loro assai più esperte opinioni: opinioni che comunque rifiutarono nostre responsabilità per quell’impossibile inefficienza. Si decise quindi naturalmente di aderire all’invito di Conconi, ma certi di tornarne vincitori; e in una nebbiosissima mattina della settimana seguente, con Mirabelli, Ferrari e Raimondo Mazzacurati, capo progetti della Zucchini, entrai per la prima volta in uno dei più moderni centri di produzione di polveri detergenti d’Europa di quel tempo, per dimostrare di essere adatto anche a fare cose serie, non solo chiacchere e viaggetti di piacere come avevo in effetti fatto fino a quel giorno.

-------------------- o -------------------A dir la verità non fu facile entrare; la nebbia era così spessa che non riuscivamo a vedere il cancello, ed una volta individuatolo ci trovammo la strada sbarrata da un picchetto di dipendenti in sciopero. Dall’altra parte del picchetto c’era comunque il signor Cambiaghi: un signore dai modi gentili che avevo incontrato in occasione di alcune delle sue frequenti visite in ACMA per i collaudi di macchine destinate a diverse consociate Lever sparse in tutto il mondo, il quale, dopo aver scambiato poche parole con i picchettanti riuscì a farci entrare. Non aveva il suo solito sorriso e i suoi modi affabili quel giorno Cambiaghi, era evidentemente teso e preoccupato: del resto proprio lui aveva collaudato ed accettato la linea presso di noi e quindi si doveva sentire molto in difficoltà per quella situazione, sia nei nostri confronti che verso i suoi superiori. Mentre facevamo il lungo tragitto dal cancello al reparto di confezionamento non fece commenti sull’argomento dell’incontro, ma ci informò che con il rapimento di Aldo Moro le Brigate Rosse si erano fatte vive anche in Lever, dove c’era un allarme bomba quasi ogni settimana con relativo intervento dei Carabinieri, evacuazione dello stabilimento e ovviamente atmosfera conseguente, aggravata da una concomitante dura vertenza sindacale.

Una situazione non certo ideale per lavorare bene, pensai, che dava ancor più spazio alla nostra convinzione di non avere responsabilità, o di averne solo marginali. Con gli operatori in quello stato d’animo, anche le macchine più perfette avrebbero avuto difficoltà a dare il loro 68

meglio. Facemmo un rapido passaggio nel reparto dove la linea sembrava funzionare senza problemi, anche se alla velocità di soli 250 astucci al minuto, poi andammo in una sala riunioni dove ci attendevano il ragionier Conconi e alcuni suoi giovani collaboratori: gli ingegneri Bandiera, Rebagliati, Bottini e De Leva, e i signori Valcarenghi e Bongiorni, che ci accolsero con una cortesia e un atteggiamento così palesemente collaborativi che ci suggerirono di partire prudenti, senza fare alcun accenno a responsabilità dell’uno o dell’altro. E fu la mossa giusta. Ognuno espose i propri punti di vista, si fecero domande e si ottennero risposte, e alla fine, con l’avvallo del signor Bucci, direttore di stabilimento, venne addottata la soluzione da me suggerita.

Memore dell’esperienza sul campo fatta con le 712-723, mentre tutti esponevano i loro punti di vista io avevo pensato che come quella linea anche la 753-713-714 era un prototipo, e forse mancava solo di tutte quelle “malizie” che solo ore e ore di produzione potevano indicare come necessarie. Avevo quindi proposto che dopo una accurata messa a punto da parte di nostri specialisti, la linea venisse monitorata lungo i suoi oltre trenta metri di sviluppo da tre coppie miste di tecnici loro e nostri per un intero turno di lavoro di otto ore alla velocità contrattuale, prendendo nota di ogni singolo inconveniente e di ogni causa d’arresto, ma senza fare alcun intervento. Solo sulla base dei dati rilevati si sarebbe deciso cosa fare.

Una soluzione che ci portò soddisfatti e convinti che il nostro gioiello avrebbe dimostrato il suo valore verso Bologna. Con quella convinzione la settimana seguente il nostro asso sulle inscatolarici Muzzarelli e il mago della Zucchini sulle incartonatrici Uber Ferioli fecero il loro lavoro e come mi comunicarono di averlo finito li raggiunsi a cena al ristorante Barracuda. Erano con Rebagliati, Valcarenghi e Bottini, gli uomini Lever ci avrebbero affiancati nel monitoraggio, con i quali in una atmosfera allegra e cameratesca da quasi amici concordammo senza contrasti il programma per l’indomani, poi ce ne andammo rilassati a dormire. La sera dopo però, al ristorante dell’hotel Fiesta l’atmosfera era molto divesa.

Eravamo soli Muzzarelli, Ferioli ed io; muti, stanchi, demoralizzati e increduli davanti ai nostri piatti che sembravano non attrarci per niente nonostante non avessimo toccato cibo a mezzogiorno. Quello che avevamo visto non ci sembrava vero! In otto ore la linea aveva prodotto solo due ore! Tutto il resto del tempo era stata ferma; con un rendimento quindi addirittura inferiore a quel misero 31% denunciato da Conconi. E meno male che l’avevano messa a punto i due migliori al mondo per farlo! Alla fine comunque cedemmo ai morsi della fame e tentammo anche, aiutati da un paio di grappe, di leggere le diecine di fogli sporchi e mal scritti dove ognuno di noi aveva elencato cosa era successo e quante volte; ma eravamo troppo stanchi per avere le idee chiare e ce ne andammo quindi a letto a dormire rimandando alla riunione con gli uomini Lever in programma per il mattino ogni ulteriore considerazione sull’argomento. E siccome l’indomani è sempre “un altro giorno”, lo fu anche per noi: quando infatti mettemmo insieme i nostri con i loro dati, per prima cosa vedemmo che 69

combaciavano, e per seconda ci accorgemmo che pur se disastrosi in linea generale, non lo erano altrettanto scendendo nei dettagli.

Se era infatti vero che la linea si era fermata 48 volte e che era stata ferma per tre quarti del tempo, era anche vero che di quei 360 minuti di fermo quasi cento erano stati persi per la rottura di una “spinetta” del valore di poche lire che si era dovuta andare a prendere nel magazzino centralizzato dei ricambi, a cinquecento metri di distanza, dove in quel momento il magazziniere non c’era; altri settanta per ripristinare la 713 dopo due inceppamenti nella zona di accumulo degli astucci e che tutte le altre fermate si erano si erano verificate per inceppamenti di astucci nella zona di estrazione dal magazzino e “messa in forma”. Fermate, queste ultime, che oltre ad aver richiesto tempi eccessivi per disincastrare gli astucci coinvolti, ne avevano indotte altre per il deposizionamento di guide fissate senza riferimenti.

Insomma tutte cose rimediabili senza difficoltà, convenimmo, che ci portarono a decidere concordi un piano d’azione. La Lever avrebbe sollecitato i suoi fornitori a fare astucci di migliore qualità e avrebbe rivisto alcuni aspetti della sua organizzazione produttiva e noi avremmo fatto una serie di modifiche per evitare che se un astuccio si incastrava si creassero disastri e reso più accessibile l’area della 713 nella quale si potevano verificare inceppamenti; che comunque, con astucci di miglior qualità, sarebbero dovuti diventare rari. Un programma che trovò d’accordo i nostri rispettivi capi senza che si parlasse di soldi, ma non il signor Renato Zucchini. Con la motivazione in verità condivisibile che la sua macchina si inceppava per colpa degli astucci mal fatti che era costretta a “digerire”, si impegnò a fare le modifiche di sua competenza, ma pretese l’impegno che gli venissero pagate. Non c’era tempo per discutere di responsabilità, anche se ce ne sarebbe stato il motivo, quindi accettammo e si partì.

Mentre la Lever organizzava quanto di sua competenza e la Zucchini si impegnava sulle modifiche concordate, il lavoro di gran lunga più impegnativo, io definii con l’ufficio tecnico le caratteristiche dei pezzi per sostituire quelli che non consentivano un sicuro riposizionamento dopo un incidente, e mano a mano che la produzione cominciò a consegnarceli Armando cominciò a sostituirli e a provarne l’efficacia. E un giorno ebbi un insperato colpo di fortuna. Mentre stavamo facendo una delle tante prove dopo una modifica, arrivarono a sorpresa Renato Zucchini e Raimondo Mazzacurati e mi misi a far chiacchiere con loro osservando la linea funzionare. Funzionava bene in effetti, tanto che dopo una diecina di minuti il signor Renato cominciò a dire che gli avevamo fatto fare un enorme lavoro sulla 713 per niente; ma proprio su quelle parole avvenne un provvidenziale inceppamento. Con spavalderia Renato e Raimondo fecero cenno agli operatori di scostarsi, si tolsero le giacche, e quando dopo quaranta minuti, sporchi, scarmigliati, e con qualche graffio ebbero finito di far pulizia, ammisero che era un tempo inaccettabile e magnanimamente mi concessero le modifiche al prezzo di costo.

A parte quell’episodio, sia noi che la Lever finimmo tutto quanto di rispettiva competenza molto prima di Zucchini, ma senza le sue 70

modifiche non si potevano fare prove provanti, quindi, mentre Muzzarelli continuava a Casalpusterlengo a curare la “sua” 753, io andai alla fiera di Dusseldorf, dove, nel corso del “sales meeting”( riunione delle forze di vendita) che si teneva con tutti gli agenti il giorno prima dell’inizio, venni presentato ufficialmente nella mia nuova veste professionale, e mi sembrò che tutti o quasi quelli che si congratularono con me lo facessero convinti e sinceri. Mi trattenni in fiera per tutta la sua durata facendo il mio mestiere e anche il venditore, e un paio di giorni dopo il ritorno, dopo aver saputo da Muzzarelli e Ferioli che gli astucci erano decisamente migliori, che la Lever aveva dato corso alle modifiche organizzative di sua competenza e che la “linea era perfetta”, tornai finalmente a Casalpusterlengo per dimostrarlo; ma non subito.

Per un’intera settimana facemmo prove e messe a punto con risultati via via sempre più confortanti, con Muzzarelli che ad ognuna di esse, specie se c’era Conconi nei paraggi, ripeteva che“La bella figura era solo rimandata; ma di poco“ ed infine d’accordo con i ragazzi della Lever decidemmo che era venuto il momento della verità.

Apro una breve parentesi per gli addetti ai lavori, per dire che le modifiche meccaniche ed elettriche che erano state via via messe in atto, se si esclude quella importante sulla 713, erano state insignificanti, sia come complessità che come valore dei materiali impiegati: un totale di una diecina di milioni di lire. Si era trattato quindi più che altro di cura e messa a punto di piccoli dettagli. Avevamo reso più rapidi i rilevamenti di anomalie e la conseguente attivazione dei blocchi di sicurezza cambiando qualche fase elettrica e rendendo più rapido l’intervento di alcuni cilindri pneumatici o elettrovalvole; per evitare regolazioni o ripristini sbagliati di pezzi da parte degli operatori dopo inceppamenti, avevamo applicato targhette di riferimento; avevamo fatto guide più robuste e meno sensibili a possibili interventi per disincaglio troppo decisi; e avevamo fatto in modo che i componenti soggetti a usura, pochi per fortuna, durassero almeno un turno. Dal canto suo la Lever, oltre ad approvigionarsi di astucci di migliore qualità, aveva “specializzato” sulla linea un team di operatori dedicato, aveva modificato alcune procedure di produzione e di pulizia e aveva dislocato una piccola quantità di ricambi d’usura in reparto affinché fossero disponibili per sostituirli in pochi secondi. Insomma si era fatto quello che bisognerebbe poter fare per ogni macchina, in particolare per quelle cui sono richieste prestazioni eccezionali.

Tornando alla cronaca, dopo aver concordato di fare un test che non lasciasse dubbi di sorta a nessuno ( su quattro turni di lavoro di otto ore ciascuno) eccomi al primo di questi che, devo dire, cominciò e finì in allegria; e non grazie al suo esito, pur eccezionale, ma per due battute di Muzzarelli.

Con la prima esordì all’inizio, quando scoprì che l’operatore designato da Lever per servire le 713-714 era il “cane”, un operatore che lui aveva preso a chiamare in quel modo, anche direttamente, per stigmatizzarne a suo avviso le capacità. Come lo vide, si rivolse verso gli uomini Lever, si coprì con una mano gli occhi in un gesto di costernazione ed esclamò scimmiottando una famosa pubblicità 71

televisiva di un’automobile francese:“No!! Il cane sulla 14!!” E tutti ridemmo; anche il “cane”, che ormai conosceva bene il nostro tecnico, ma che non venne sostituito.

La seconda battuta, certo molto più irriverente e pesante, la produsse alla fine quando, sparsasi la voce che la linea stava funzionando oltre ad ogni aspettativa, in reparto erano confluiti molti altri dirigenti, oltre ai signori Conconi e Bucci già lì da tempo. Stavo con loro, soddisfatti e sorridenti, in cima alla linea a fare commenti, quando Armando si mosse dal fondo con la sua andatura dondolante e arrivato alla nostra altezza, con stampato sul viso un sorriso canzonatorio indescrivibile, si fermò e disse: “Quante volte vi avevo detto che la bella figura era solo rimandata! Adesso sono c…i vostri fare abbastanza polvere per alimentare questa belva!” E giù una fragorosa risata che ci coinvolse tutti.

Quel giorno la linea si fermò solo otto volte; per pochi secondi ogni volta, raggiungendo un rendimento vicino al 100% e dando ragione a Muzzarelli. Per dargli polvere a sufficienza si dovette limitare le velocità delle altre cinque linee del reparto! Una meraviglia che durò anche per i successivi tre giorni, con un solo momento di apprensione il secondo giorno, quando improvvisamente le ventose del sistema di aspirazione degli astucci della 753 cominciarono ad emettere un suono diverso. Il fenomeno non era continuo: durava stranamente pochi secondi ogni quattro minuti e anche se sembrava non inficiare il funzionamento della macchina, era preoccupante. Confuso mi appoggiai al pallet che conteneva gli astucci e mi misi a fissare il gruppo di aspirazione al lavoro, nella speranza di individuare cosa succedeva, e feci di più: la manica della mia giacca si innumidì e le ventose smisero di cambiare suono. Proprio così: senza la barriera della mia giacca, le gocce di condensa che un tubo sul soffitto lasciava cadere sarebbero finite sugli astucci inumidendoli in un angolo preciso di ogni strato; uno strato che durava esattamente quattro minuti. Ero stato in apprensione solo perché qualcuno aveva pensato di agevolare l’operazione di prelievo e caricamento degli astucci da parte degli operatori, posizionando il pallet che li conteneva più vicino al magazzino della 753: non sempre le buone intenzioni danno buoni risultati!

La settimana dopo, nel corso della riunione plenaria che si tenne a Casalpusterlengo fra i dirigenti delle due società ci furono grandi sorrisi, complimenti reciproci, strette di mano e anche qualche piccola ripicca dell’uno sull’altro, ma la Lever accettò definitivamente la linea, sbloccò l’ordine delle altre quattro e quando nel trattare la suddivisione dei costi sostenuti io proposi di dividerli a metà, il signor Bucci mi fece uno degli apprezzamenti che ho più gradito sulla mia professionalità.

Alla mia proposta il signor Borghi intervenne dicendomi con voce maliziosa: “Non le sembra di essere troppo generoso Tabaroni; non sarà per caso stipendiato dalla Lever ?” E il signor Bucci gli rispose al mio posto secco che no, non lo ero, ma che gli sarebbe piaciuto molto se lo fossi diventato. Poi tornammo a Bologna felici e contenti.

Per inciso, quel successo aprì la strada a molte altre forniture sia all’interno del gruppo, ma anche al di fuori, decretando, come avevamo 72

sperato, la rinuncia definitiva a quel settore di SIG e Hesser, e per me fu, come accennavo sopra, un ennesimo gran colpo di fortuna. Allora non me ne resi conto, ma con gli anni capii che quell’esperienza era stata senza dubbio la più importante della mia vita professionale da “dopo progettista” all’ACMA, non solo perché ne ero uscito, senza in verità grandi meriti, con una immagine di “risolutore di problemi” che mi ha accompagnato finchè ho lavorato, ma soprattutto perché mi fece assumere fin dall’inizio di quell’incarico la collaborazione con il cliente come metodo di lavoro.

Così problemi difficili si rivelarono meno difficili, se non proprio facili, clienti astiosi e conflittuali si rivelarono come era successo in Lever solo ansiosi di risolverli, e io mi feci un sacco di giovani e riconoscenti amici: giovani posti a capo di reparti produttivi complessi e difficili da gestire, spesso con poca esperienza, che non ci avrebbero certo fatto una bella figura se le cose non fossero andate a posto.

Giovani che nel cercare di rimediare ai nostri errori aiutavo senza forzature a capire i loro e a porvi rimedio facendoli apparire agli occhi dei loro superiori sempre o quasi come i risolutori del problema.

Molti di quei giovani, con il tempo e forse in qualche caso anche con il mio aiuto, facevano carriera; sia nelle aziende nelle quali li avevo conosciuti sia migrando in altre. E quando divenni un commerciale a tutto campo li trovai sempre ben disposti ad ascoltare quanto avevo da proporre. Le amicizie fatte poi in particolare a Casalpusterlengo nel corso di quella vicenda, si rivelarono un vero tesoro. A pochi mesi dalla sua conclusione, quello sperduto paesino della bassa lodigiana divenne la sede del P.D.C (Packaging Developement Center) dell’intero gruppo Unilever, e guarda caso, alcuni dei miei giovani amici ne divennero i principali dirigenti. Favorito quindi dalla loro stima e amicizia, dalla vicinanza geografica e dalla possibilità di interloquire in italiano, mi trovai la strada aperta per ottimi rapporti di lavoro durati fino alla pensione e di rapporti personali di amicizia che durano tutt’oggi e dei quali vado orgoglioso.

In particolare ero e sono ancor oggi orgoglioso di di essere stato amico di Cesare Valcarenghi, che purtroppo devo “ricordare” con tristezza. Il suo cuore generoso si fermò infatti solo qualche anno dopo; proprio mentre stavamo completando con successo un nuovo progetto insieme. Era un grand’uomo il piccolo Cesare, e la sua morte lasciò sgomenti e addolorati non solo i suoi familiari, i suoi colleghi e i tanti fornitori che avevano avuto la fortuna di conoscerlo, ma anche le tante, tante persone che egli aiutava nel suo poco tempo libero.

Ricordo anche con gratitudine: Bandiera, De Leva, Rebagliati, Bottini e Bongiorni, con i quali da quell’ormai lontanissimo ‘78 ho lavorato per tanti anni e in tanti progetti vedendoli occupare via via posizioni di sempre maggior prestigio e ricevendo una collaborazione che non potrò mai dimenticare. E infine Duilio, Duilio Sgorbani, che conobbi, giovane laureato alla sua prima esperienza lavorativa e che ho visto salire, forse anche grazie a me, fino quasi ai vertici europei della sua società. In un momento infatti nel quale aveva perso la fiducia nella Lever e aveva ricevuto da “fuori” una proposta molto interessante, lo consigliai di 73

avere ancora un po’ di pazienza. E lui mi ascoltò dandomi due soddisfazioni: quella di aver visto giusto e quella di essersi fidato di me.

Che bella storia anche con Duilio! Ci prendemmo perfino insieme l’Oscar dell’imballaggio nel ‘93; ma questa è un’altra storia di cui parlerò più avanti. E a proposito di soddisfazioni, non posso non citare quella avuta dal “signor” Bucci.

Davvero un signore con la S maiuscola, Michele Arcangelo Bucci, che, dopo un’incredibile carriera nell’Unilever culminata con un incarico prestigiosissimo a livello europeo, andato in pensione, si fa per dire, fece nientemeno che il senatore della republica! Niente male per uno che aveva cominciato come operaio generico! Sono onorato di averlo conosciuto e di aver avuto la sua fiducia e considerazione. Ancora ricordo la festa che diede per ringraziare tutti i suoi fornitori di macchine ed impianti quando lasciò l’Unilever. In quei giorni io dirigevo l’Unifill e poiche la U si trovava in quel contesto di aziende alfabeticamente all’ultimo posto, mi citò per ultimo dicendo: “Per ultimo, ma non ultimo per importanza, voglio ringraziare l’amico Tabaroni”. E quelle parole mi fecero commuovere fin quasi alle lacrime.

Ho dovuto correre molto avanti nel tempo con i ricordi della Lever per spiegare come e perché quella prima esperienza a Casalpusterlengo ha influenzato in modo significativo il mio futuro, ma torno alla sua felice conclusione perché pochi giorni dopo mi presi una bella rivincita sulla “punzecchiatura” abbastanza maligna che Borghi mi aveva inferto nel corso della riunione conclusiva; anche se non lo feci di proposito.

Se ricordate, quando mi aveva “ripescato” dalla rete della Arco mi aveva detto che quella sarebbe stata l’ultima mia “bizza” che avrebbe sopportato, ebbene; gli toccò di sopportarne un’altra, e addirittura di adeguarglisi. Faceva molto caldo quell’anno, l’estate era in anticipo, e io avevo anticipato la dismissione della cravatta a favore delle mie colorate Lacoste: una divisa per me fin da ragazzino, che però non sapevo indigesta a Borghi. Certo non mi era sfuggito che lui vestiva sempre e in ogni stagione con camicia, cravatta e giacca completamente abbottonata, tanto da essere sopranominato “tre bottoni”, ma non avevo idea che pretendesse la stessa divisa dai suoi collaboratori diretti.

Ero entrato a farne parte in autunno, quando già portavo anch’io la cravatta. Mi presentai quindi a una riunione di direzione verso la fine di maggio in quello stato disdicevole e mi beccai un pubblico richiamo all’ordine. Ma figuratevi se potevo accettarlo e alla riunione successiva mi ritornai a presentare a modo mio e mi beccai un altro richiamo. Ma non potevo dargliela vinta, insistetti e vinsi: alla terza riunione non mi disse niente, alla quarta tutti gli altri venti dirigenti si presentarono con le camice aperte sul collo, e alla quinta lo fece anche lui. Fu una soddisfazione, ma che mi godetti purtroppo solo per un paio di giorni, perché il cuore di Aurelio, quel ragazzone che faceva tutti gli sport e sembrava il ritratto della salute, una mattina lo tradì mentre si alzava dal letto.

Fu una vera tragedia che gettò tutti nello sconforto, in particolare Sandra, che lavorava con lui da anni, ma anche me che lo frequentavo solo da pochi mesi. Nonostante all’inizio i nostri rapporti non fossero 74

stati idilliaci, conoscendoci stavamo diventando amici, e fu davvero dura dover guardare la sua scrivania vuota, così dura che la feci togliere dicendo a Ferrari, che mi aveva sollecitato a trovare un sostituto, che avremmo fatto da soli. Con il pieno accordo di Sandra affidai all’agenzia di viaggi la gran parte delle sue incombenze e lei si prese in carico quelle di Aurelio, poi, per cercare di stare il meno possibile in ufficio dove quel vuoto continuava a pesare, dedicai molto più tempo del necessario ai collaudi interni e ai viaggi.

-------------------- o -------------------Stavo come dicevo quasi sempre fuori ufficio, e naturalmente - di cellulari non si parlava ancora - perdevo molte telefonate. Sandra ovviamente ne prendeva nota, mi segnalava, cercandomi dove ero, le più importanti e delle altre mi lasciava tutte le sere un promemoria sulla scrivania. E un mattino, fra quei nomi, trovai con sorpresa quello dell’ingegner Gianpaolo Belloli. Conoscevo Gianpaolo fin da quando eravamo due ragazzini della Bolognina, non eravamo mai stati veramente amici, ma ci eravamo incontrati spesso specie quando crescendo avevamo preso a frequentare entrambi il centro, e quando avevo saputo che si era laureato in ingegneria meccanica, lo avevo sollecitato a far domanda all’ACMA. Pensavo che intelligente, colto e affabulante come sembrava essere, avrebbe potuto dare un ottimo contributo al nostro settore commerciale e fatto fare a me una bella figura; ma lui aveva rifiutato. L’avevo poi perso di vista, ma sapevo che era andato in CAM e che ne era uscito per fondare con l’ingegner Carletti lo Studiopack; un’impresa che sembrava “volare”.

Lo chiamai naturalmente, curioso, ma soprattutto per il piacere di risentirlo dopo tanti anni, e quando mi chiese di vederci l’indomani, per fare due chiacchere, accettai. Ci eravamo messi d’accordo per trovarci verso le dieci del mattino in un hotel dalle parti di via Emilia Levante, a ridosso della ferrovia, e vi arrivai in anticipo. Mi sedetti a prendere un caffè, e mentre finivo di sorseggiarlo Paolo entrò in compagnia di una persona che conoscevo molto bene e che fu davvero una gran bella sorpresa. Il mio vecchio e caro amico Battisti, della Lepetit di Anagni.

Non so se vi ricordate di lui, era stato uno dei clienti più comprensivi e collaborativi ai tempi dei problemi sul “disinnesto” della 723, e dopo la fine dell’incubo avevo continuato ad andarlo trovare, ma erano almeno un paio d’anni che non lo vedevo, e lo abbracciai con sincero piacere. Ci sedemmo, e scoprii perché mi trovavo lì. Avevano avuto, mi dissero entusiasti, l’idea per realizzare un’incartonatrice “vincente” e mi proposero, in società alla pari con loro, di far diventare quell’idea una macchina e la macchina un’azienda nostra.

Devo dire che anche se le incartonatrici non erano le macchine che conoscevo meglio, l’idea che mi illustrarono, anche se a grandi linee, mi parve davvero geniale e anche facile da realizzare. La partecipazione poi di Battisti, era una garanzia di successo; sia per la sua esperienza di utilizzatore che per l’apporto che poteva dare nella costruzione e messa a punto del prototipo. Altrettanto valide erano anche le motivazioni per 75

l’impresa: la domanda di incartonatrici automatiche aumentava di giorno in giorno, e la Zucchini, pur se si era svincolata dall’ACMA, non tentava nemmeno di farvi fronte e continuava ad occuparsi solo dei saponi e dei detergenti. Un’inerzia che lasciava uno spazio enorme nei settori farmaceutico, cosmetico e del thè.

A tutte quelle considerazioni certamente favorevoli ad una adesione al progetto si sovrappose però il pensiero che stavo facendo all’ACMA il lavoro che avevo sempre desiderato fare, che guadagnavo già molto di più di quanto le mie ambizioni di vita mi facevano spendere per soddisfarle, e soprattutto che non avevo nessuna, ma proprio nessuna ambizione di fare l’imprenditore. Nonostante ammirassi gran parte di quelli che lo facevano, e lo dico sinceramente, mi sembrava un mestiere troppo impegnativo per quello che volevo fare della mia vita. Li ringraziai quindi della fiducia, ma rifiutai di impegnarmi. L’atmosfera si raffreddò un poco, e me ne dispiacque; ma ci salutammo comunque ancora, credo, amici, e il giorno dopo, senza pensarci più, me ne andai a consolarmi e a fare un colpaccio davvero insperato a Parigi.

-------------------- o -------------------Erano alcuni mesi che facevo orecchie da mercante alle richieste di Salomon di andare a trovare quel famoso produttore di cibi alsaziani in scatola cui, circa un anno prima, avevamo consegnato una 712/1 - spec.

- come quelle di STAR - per mettere in buste i suoi celeberrimi wurstel e crauti in salamoia. E lo avevo fatto non solo perché ero stato impegnato nell’affare Lever, ma anche perché ero quasi certo che quel cliente volesse “fare il furbo”. Per diversi mesi, mentre riempiva i magazzini di buste per prepararsi al lancio sul mercato, non si era mai lamentato della macchina, ma da quando il prodotto era arrivato sugli scaffali dei supermercati aveva cominciato a denunciare un problema dietro l’altro: problemi però che il nostro tecnico Corazza, intervenuto più volte, negava esistessero.

La macchina, secondo Corazza, lavorava in modo eccellente e sicuro, e quindi era logico pensare che anche quel cliente stesse sperimentando le stesse difficoltà incontrate sul mercato dalla STAR e cercasse di limitare i danni tentando di rendercela. Un intento tutto sommato legittimo e comprensibile, che se perseguito con lealtà e sincerità mi avrebbe trovato disponibile a una qualche soluzione di compromesso, ma essere preso in giro non mi piaceva per niente. Comunque, siccome prima o poi di quella questione mi sarei dovuto occupare, avevo chiesto a Cristian di fissare un incontro, e con lui e con Corazza ci trovammo quel mattino nei sobborghi di Parigi di fronte ad un nutrito gruppo di dirigenti e di responsabili di laboratorio e di produzione.

Come avevo immaginato discutemmo “ di niente” fino a sera, e anche se davanti a quella montagna di stupidi pretesti mi venne più di una volta la voglia di dire quello che pensavo, mi trattenni e ci lasciammo la sera con l’accordo di riprendere l’indomani. Sconsolati tornammo al Novotel vicino alla fabbrica dove cenammo cercando una strategia per il giorno dopo, ma riuscimmo solo ad individuare nel direttore 76

marketing; un quarantenne con curatissimi baffetti neri, vestito con ricercatezza e dai modi arroganti, noto, ci disse Salomon, per essere tutto “azienda e famiglia”, il nostro nemico. Ce ne andammo quindi a dormire convinti che l’unica carta da giocare sarebbe stata la minaccia di una azione legale; ma fortunatamente non ce ne fu bisogno.

Non so se l’ho già accennato, ma da sempre vado a letto presto e mi sveglio presto, e lo feci anche quel mattino. Imparai un po’ di francese alla TV e, verso le sei e mezza, aprii la porta per andare a fare una passeggiata a piedi in attesa che venisse l’ora di colazione; proprio mentre dalla porta di fronte usciva una splendida ragazza nera seguita da un uomo. E sapete di chi si trattava? Ma sì, proprio di lui, del mio nemico, che sembrava proprio non essere solo azienda e famiglia! La ragazza, che dall’età apparente, dall’aspetto e dall’abbigliamento poteva essere tutti tranne sua moglie, andò avanti senza farmi caso, mentre lui rimase letteralmente di sasso: cambiò colore, e balbettando disse, in francese ovviamente: “Buon giorno signor Tabaroni, il mondo è piccolo vero?” Ed io, con il cattivo proposito di farlo sentire sotto ricatto, risposi nella sua lingua:“Buon giorno a lei, signor…; già il mondo è proprio piccolo e a volte anche cattivo! Vero?” e mi avviai precedendolo verso l’uscita.

A colazione raccontai l’episodio a Cristian e Corazza, ma dissi anche di non avere troppe speranze che il mio accenno di possibile ricatto nei confronti del nostro nemico, potesse avere qualche effetto. E invece avevo proprio fatto centro. Alle nove cominciò la riunione, e ci sembrò di farla con persone diverse da quelle del giorno precedente; anche se erano indubbiamente le stesse. Il nostro nemico in particolare, che non aveva sicuramente dormito troppo, si spinse addirittura ad ammettere quello che noi sapevamo, ma che l’azienda poteva utilizzare la macchina per sperimentare in laboratorio le tante innovazioni che aveva in cantiere! Avevo sperato in un mutamento di atteggiamento con la mia frase sibillina, ma quella era una resa senza condizioni!

La riunione si concluse prima di mezzogiorno fra sorrisi e strette di mano con l’accordo che la macchina restava dov’era, con l’impegno del direttore generale ad onorare le fatture sospese e con il nostro impegno di inviare i nostri tecnici ad assisterli - naturalmente dietro compenso in tutte le iniziative sperimentali che avessero intrapreso. Usciti ce ne andammo a pranzo alla Maison d’Alsace, sui Champs, durante il quale Cristian e Corazza, pur non riuscendo a trattenersi dal dirmi cosa pensavano di me; che non vi riporto per decenza, convennero che svegliasi presto il mattino era davvero una gran buona abitudine.

Fu un bel colpaccio come dicevo sopra, soprattutto perché oltre a non dover subire i costi e le grane di un litigio, avevamo evitato la referenza negativa che un ritiro avrebbe comunque comportato; in particolare nel “settore buste”, che stava manifestando preoccupanti sintomi di una grave malattia.

Nonostante per avere una referenza spendibile sul mercato fossimo riusciti a convincere un cliente francese dalle parti di Caen, del quale non ricordo il nome, e la Nestlè, a trasformare le loro linee 712-723, la versione ad alta produttività 712/4 non riusciva a convincere nuovi 77

clienti. I produttori di bustine piccole contenenti monoprodotti o prodotti premiscelati, la cosideravano, e giustamente aggiungo io, funzionalmente troppo al limite, e per non rischiare grane compravano sempre più spesso imbustinatrici “multifile verticali” prodotte oltre che da SIG, Universal Pack e altri, anche dal nostro geniale concittadino ex CAM, Massimo Marchesini. L’ACMA veniva interpellata solo per applicazioni per le quali le nostre “saldature” erano ritenute, spesso solo per prudenza, insostituibili, o più spesso quando il progetto, veniva ritenuto troppo complesso e rischioso dai nostri concorrenti.

Ma la cosa più preoccupante era che eravamo in difficoltà anche nelle “buste grandi”, e in particolare nel mercato ricco e in continua espansione dei preparati disidratati per minestre. A parte negli Stati Uniti, in Giappone e in Argentina, dove il mercato era sempre stato in mano a costruttori di macchine locali, in tutto il resto del mondo quei prodotti erano stati imbustati fin dalla loro nascita con le nostre 772 e avevamo contato di continuare a farlo e di migliorare con la nuova 712.

Ma ci eravamo riusciti solo nell’Unione Sovietica, e quasi certamente solo grazie alle amicizie di Benazzi. Nel resto del mondo eravamo sempre più sotto l’attacco degli spagnoli che avevano rispolverato la vecchia e dimenticata tecnologia americana delle imbustinatrici “lineari”. Macchine certamente più lente della nostra, con sistemi di saldatura meno sofisticati e meccanicamente arcaiche, che avevano però alcuni vantaggi non di poco conto sulla nostra. Vi si potevano montare contemporaneamente più dei tre dosatori possibili sulle nostre macchine a “giostra di pinze” e quindi riempire le buste con più componenti separati nelle dosi volute, inoltre quei dosatori erano distanti dalle zone di formatura delle buste e saldatura finale, che erano quindi meglio protette dalle inevitabili polveri sospese; infine erano molto meno care.

Era un pericolo noto da tempo, segnalato a Borghi e Benazzi da agenti, addetti alle vendite all’estero e, da quando ero nella mia nuova posizione, anche da me in tutte le riunioni di direzione. Grazie alle visite nei reparti di produzione dei clienti, alle loro confidenze, e alla lettura dei rapporti dei montatori ai quali avevo chiesto espressamente di essere attenti alle novità nelle fabbriche che visitavano, in azienda ero quello che avevo il polso più diretto del mercato. Ma la direzione non aveva ascoltato nessuno e non aveva impegnato, come sarebbe stato a mio avviso necessario, l’ufficio tecnico in progetti simili o, meglio ancora, alternativi. L’unica contromisura che aveva messo in atto, sollecitata dal nostro validissimo agente spagnolo Lapeyra & Taltavull, preoccupato per la caduta verticale di vendite in Spagna e nei paesi di lingua spagnola di sua responsabilità, era stata di incaricarlo di prendere contatto con quello che sembrava essere il concorrente più pericoloso, la Volpak, per cercare di trovare qualche tipo di alleanza o accordo commerciale. Ma l’iniziativa non aveva portato a nulla di concreto, e la Lapeyra si era dovuta accontentare di una una “forte azione promozionale di alto livello tecnico” in mia compagnia.

Verso la fine dell’anno feci quindi un lungo giro in Spagna presso i nostri clienti più affezionati e alcuni che stentavano a diventarlo, e fu 78

davvero un viaggio molto piacevole. Dopo aver appreso dal disperato ma sempre elegantissimo dottor Dalmau, che la trattativa con la Volpak era fallita solo perché, a suo avviso, gli incaricati dell’ACMA avevano guardato l’orgoglioso catalano Martì, fondatore dell’azienda, troppo “dall’alto al basso”, con lui e con l’esperto Isidro Cano visitai mezza Spagna, mi innamorai degli splendidi hotel Parador, e, inaspettatamente mi tirai anche su di morale. Proprio un viaggio che mi ci voleva.

Constatai infatti che godevamo ancora di una grande fiducia da parte dei clienti, da uno dei quali poi, il più importante, ebbi anche la soddisfazione di ricevere un generoso e inaspettato complimento. Il signor Riera Marsà, titolare della omonima azienda, si rallegrò in mia presenza con il dottor Dalmau per la scelta che l’ACMA aveva fatto mettendomi in quella delicata posizione, concludendo, rivolto a me, di fare al più presto una imbustinatrice “lineare” ma di classe ACMA; sarebbe stato il primo a comprarla! Lasciando Barcellona ero un poco meno pessimista sul futuro: ce la potevamo ancora fare, bastava dar retta a Lapeyra o a Riera Marsà; o magari a tutti due. Ma a casa purtroppo, ancora una volta, nessuno mi prese sul serio.

Con il viaggio in Spagna finiscono i ricordi di quel “pieno” ‘78, e voglio iniziare quelli del ‘79 con un emblematico esempio del potere sindacale di quei tempi. Da tempo il vecchio stabile di via Fioravanti, pur rielaborato e modificato costantemente negli anni per tentare di adeguarlo alle sempre nuove esigenze produttive e al costante incremento del numero di dipendenti, era giudicato inadeguato e inefficiente sia dalla direzione che dal sindacato. Si erano discusse varie ipotesi, e alla fine la Emhart aveva proposto di costruire un nuovo stabilimento in un’area disponibile all’interno del perimetro di un’altra società sotto il suo controllo che produceva lucchetti e serrature a San Giovanni in Persiceto, la Corbin.

Una soluzione che era piaciuta a molti e anche a me, anche se mi avrebbe tolto un po’ di tempo libero. Oltre a costi limitati, avrebbe consentito a quasi il 40% dei dipendenti, ingegner Benazzi compreso, di andare a lavorare sotto casa, mentre ai bolognesi sarebbe stato offerto, per sopportare quella “drammatica delocalizzazione di ben diciotto chilometri”, un comodo servizio gratuito di navette e un rimborso spese carburante. A fine gennaio l’azienda chiamò quindi tutti i dipendenti ad esprimersi, ma il referendum, grazie ad una assurda campagna sindacale contro quella banale delocalizzazione che avrebbe dato non pochi vantaggi di efficienza alla stanca ACMA, fallì. Gli unici ad esprimere parere favorevole furono gli abitanti in quella zona, e pensate l’assurdità e la capacità di convinzione dei sindacati, nemmeno tutti. Fu una delusione per molti quindi, ed anche per me, che però dimenticai già il giorno seguente, tutto preso a preparare il mio primo viaggio in Israele.

-------------------- o ------------------Da sempre quel paese stimolava la mia curiosità e la mia fantasia; avevo letto un sacco di cose sulla sua storia e seguivo con interesse la 79

sua tribolata attualità. Ero quindi molto eccitato di potere andare a visitarlo, anche se purtroppo solo per una visita lampo. Dovevo infatti solo andare a vedere perché mai il nostro Gino Corazza non riusciva, dopo dieci giorni di tentativi, a far funzionare un nuovo “dosatore ad elica” installato su una 712 che avevamo venduto alla Mata Food di Hedera, e prendere le misure del caso. Il cliente, pur se di lunga data e certamente molto affezionato all’ACMA, cominciava ad essere allarmato per quel ritardo che poteva compromettere le consegne di prodotto negli negli Stati Uniti, e ci aveva sollecitati ad intervenire.

Preoccupato come era giusto essere davanti ad un problema - le notizie da Gino erano confuse e contradittorie -, ma non più del necessario, partii, e già a Fiumicino, Israele, da paese speciale qual’era volle darmi un benvenuto speciale. Era il periodo dei dirottamenti, lo ricordate? Ce ne eravamo dimenticati fino all’11 settembre del 2001, e prima di potermi sedere sulla poltroncina del DC8 “lungo” della TWA che mi doveva portare a Tel Aviv, dovetti sottostare prima a un interrogatorio e poi a una perquisizione del bagaglio e personale a dir poco accurate. Procedure forse non dissimili da quelle in atto oggi, non lo so perché non volo da tredici anni, ma allora adottate solo dagli israeliani.

All’arrivo trovai come previsto Corazza ad attendermi, ma un Corazza abbastanza diverso da quello che conoscevo. Non aveva per niente la solita aria da saputello “svizzero” - aveva lavorato in quel paese per una diecina d’anni - che gli attirava le prese in giro dei suoi bolognesissimi colleghi; era serio, triste ed emotivamente in uno stato pietoso. D’altro canto era da capire: quella macchina l’aveva messa a punto lui in ACMA, e alla Mata, dove si era recato tante volte a fare manutenzione a due vecchie 772, era di casa, e quindi non ci stava facendo una gran figura. Anche se era quasi notte decisi quindi di farlo rilassare; gli dissi che avevo fame, lo presi a braccetto facendo finta di non sentire il fiume di parole che mi stava dicendo per descrivermi la situazione, e gli chiesi di portarmi in un buon ristorante, dove, davanti ad un buon bicchiere di vino, mi avrebbe potuto raccontare tutto con calma.

Avevo davvero fame - non ho quasi mai mangiato in aereo - , ma quando gli sentii dire con tono triste che aveva già cenato e che era astemio, ma che se proprio volevo poteva portarmi nella vecchia Jaffa, quasi mi passò. Ma feci finta di niente, andammo a Jaffa, cenammo, e a tarda notte, in compagnia di un Corazza non più astemio e molto più allegro di quanto forse fosse mai stato, avevo capito che per fortuna non era il dosatore il problema, prodotto peraltro da un famoso e affidabile costruttore tedesco, ma solo l’elica che, senza nessuna esperienza avevamo presuntuosamente voluto disegnare e costruire senza il suo aiuto. Un problema, ma certo non grave.

La macchina doveva trattare ventuno prodotti diversi per i quali erano stati previsti tre dosatori; due tradizionali destinati a trattarne venti che non potevano dare problemi in quanto identici a quelli che da anni lavoravano gli stessi prodotti sulle 772, e quello nuovo a elica che doveva trattarne solo uno. Bastava quindi fare solo quello che in verità 80

avrebbe dovuto fare Gino appena si era reso conto di essere in difficoltà. Chiedere aiuto a casa e procedere, in attesa di riceverlo, con la messa in produzione del resto dei prodotti. Il cliente non si sarebbe accorto di niente. Senza far nessun accenno alla scarsa professionalità del suo comportamento, del quale si era forse già reso conto, gli spiegai solo il piano, gli augurai buona notte, e me ne andai a dormire pensando deluso che dopo averlo illustrato l’indomani al cliente me ne sarei dovuto tornare a casa senza aver visto quasi niente di quello che avevo sperato. Ma la mia solita fortuna decise diversamente.

Il mattino dopo andammo in taxi prima a Netanya, a metà strada circa fra Tel Aviv e Haifa, dove lasciammo i bagagli nell’albergo di Gino, poi in fabbrica a Hedera, dove incontrai Yoel Pery, il direttore tecnico della Mata. Era un uomo di circa la mia età, Yoel: non tanto alto, con i capelli ondulati prematuramente bianchi, informale all’eccesso nell’abbigliamento, tanto da farmi sentire ridicolo nella mia incravattata divisa manageriale invernale, e con uno sguardo penetrante e spavaldo difficile da ignorare. Fu molto gentile, educato, e anche più che generoso nel difendere l’operato di Corazza; e dopo essersi detto d’accordo sul piano che mi ero immaginato, mi chiese di portarlo a termine entro dieci - quindici giorni al più tardi. Gli obblighi di consegne che aveva non potevano essere soddisfatti dalle due 772, nemmeno facendole lavorare su tre turni: un’ operazione comunque problematica per le implicazioni organizzative e sindacali che avrebbe indotte.

Quella richiesta, del resto più che legittima, mi mise però in difficoltà: quindici giorni potevano essere pochi per far studiare ai tedeschi nuove eliche, costruirle, e farcele avere, e pensai quindi che fosse meglio ricorrere all’autorità di Borghi. E feci non bene ma benissimo! Chiesi a Yoel di farlo chiamare, gli esposi in sua presenza in inglese cosa mi serviva e per quando, e lui, dopo avermi assicurato che avrebbe seguito di persona la cosa per garantire i tempi richiesti, mi passò Rueff per “competenza” e mi fece il più bel regalo che avrebbe potuto farmi.

Pensate un po’; mi chiese “il sacrificio” di rimanere in Israele fino a che la macchina non fosse stata in produzione con “tutti” i prodotti. Che sacrificio! Quando uscii dall’ufficio di Yoel ero al settimo cielo! Anche se fossi stato un poco impegnato, in quindici giorni avrei certo potuto vedere un sacco di cose, ma non potevo certo immaginare quante.

Il giorno dopo ci demmo ovviamente da fare Gino ed io, e cominciammo a provare i prodotti più critici per verificare se ci fossero altri problemi da risolvere, e quando verso sera apparve evidente che non ce ne sarebbero stati, Yoel, evidentemente tranquillizzato, mi propose di farmi da guida turistica. Scherzavo! Mi disse solo che doveva vedere alcune persone in posti diversi del paese, e che visto che Corazza sembrava non aver bisogno di me fino all’arrivo delle nuove eliche, se volevo potevo fargli compagnia. Gli avrei fatto piacere e nel contempo avrei potuto fare il turista. Non dovevo preoccuparmi di lasciare solo il mio tecnico, aggiunse vedendomi titubante, Israele era molto piccolo e Netanya quasi nel suo centro. Saremmo partiti ogni giorno dopo aver fatto il punto della situazione delle prove, e rientrati la sera, in grado quindi il giorno dopo di risolvere eventuali problemi insorti nel 81

frattempo. Mi convinsi, e i dieci giorni seguenti- le eliche arrivarono in perfetto orario - furono indimenticabili.

Non visitai infatti solo gran parte dei luoghi santi, storici e monumentali; quelli che più o meno tutti i turisti visitano. Grazie a Yoel, che era un “Sabra”, un ebreo nato in Israele e quindi un israeliano già speciale per questo; con per di più amicizie e contatti fra i militari, potei vedere cose che ben pochi turisti avevano potuto vedere, e senz’altro alcune, delle quali però Yoel mi pregò di non parlare con nessuno, che certamente non vedranno mai. La più impressionante, certo, il mausoleo eretto agli eroi del deserto fra le pietre del Negev, dalle parti di Be’er Sheva. Una struttura allora proibita ai turisti, stando all’interno della quale, mentre si leggono i loro nomi dei caduti incisi sulle pareti spoglie, si sentono mille pianti generati dal vento che si insinua in apposite fessure. Una “roba” indescrivibile!

Visitai anche a Cesarea, un’osteria romana, con mobili e suppellettili vecchi di duemila anni, che i militari stavano dissepellendo dai cinque metri di sabbia secca che li aveva perfettamente conservati; il primo Kibbutz, dove grazie alla cortesia di alcuni dei gentilissimi abitanti, ne imparai le origini, le vicissitudini e la filosofia di vita che lo animava ; e infine andammo a pranzo in un buio e fumoso locale di Gerico, nella turbolenta Cisgiordania occupata, dove mi resi conto di una delle ragioni che rendevano tanto difficili, per non dire impossibili, i rapporti fra arabi e israeliani. Tranne noi due e due giovani militari biondi che sedevano in un angolo tenendo in vista appoggiati sul tavolo i loro fucili “Galil”, c’erano solo arabi nel locale, che ci guardavano con sguardi che trasudavano odio. Ma sotto i loro Ray-Ban scuri i due ragazzi e Yoel li guardavano, indovinai, con un atteggiamento che non faceva certo trasparire paura e nemmeno timidezza. Anzi….

A parte nei giretti con Yoel, ebbi naturalmente modo di vivere l’atmosfera generale di quel paese speciale, un’atmosfera che non credo molto diversa da quella di oggi. Ovunque c’erano soldati in assetto da guerra, perfino sui tetti delle casette che costeggiavano la “via Crucis”; sulle magnifiche spiaggie ogni duecento metri svettava una postazione sopraelevata munita di mitragliatrice; le giovani e belle ragazze in divisa quando salivano sugli autobus toglievano il caricatore dai loro “Galil“, ma lo rimettevano subito appena ne discendevano, e la sera coppie di persone anziane in abiti civili, ma visibilmente armate, facevano la ronda attorno al loro isolato. Incombenza, mi spiegò Yoel, che toccava a turno a tutti i suoi abitanti validi; spesso coppie di sposi.

Insomma un paese costantemente “sul chi vive” e per quello che potei sperimentare io, a ragione.

Corazza ed io alloggiavamo in un hotel con una bellissima terrazza sul mare, e una delle prime sere, al ritorno da una delle mie gite con Yoel, nell’attesa di Corazza che si stava cambiando per cenare, andai per la prima volta sulla terrazza, stranamente deserta, per guardare le onde che si infrangevano subito sotto la balaustra. Ma non feci a tempo a vedere un bel niente. Fui raggiunto di corsa da un militare che mi invitò a rientrare senza tanti complimenti e mi disse che se volevo guardare il mare potevo farlo da dietro le vetrate; che erano corazzate. Fuori, 82

concluse convincente, era molto pericoloso in quanto i terroristi arrivavano di notte dal Libano su piccoli gommoni non individuabili e facevano il tiro a segno! Non ho mai assistito a nulla di simile, fortunatamente: l’unico episodio cruento fu un’esplosione fortissima che ci sorprese una sera mentre stavamo cenando in albergo, ma della quale non potemmo vedere né la causa né gli effetti. I militari presenti, molti, impedirono infatti immediatamente di uscire a tutti. Solo il giorno dopo imparammo da Yoel che una bomba messa in un cestino per rifiuti di una gelateria di un albergo a cento metri dal nostro aveva ucciso undici persone e ferite non ricordo quante altre!

Potrei chiudere i ricordi di quel viaggio dicendo che due delle tre eliche che ricevemmo risolsero perfettamente il problema, che Yoel fu soddisfatto, che Corazza si riprese e che io tornai a casa con una visione della vita certamente molto diversa da quella che avevo prima di partire, ma pur sapendo di andare un’altra volta fuori tema, non posso non ricordare che stare undici giorni con Yoel mi fece scoprire di avere con lui “affinità elettive” molto profonde e molti interessi in comune anche al di fuori del lavoro, e che diventammo amici. Tanto amici da farmi conoscere sua moglie Naomi, una donna anch’essa non comune, e i suoi figli Anat, una graziosa bambina impertinente, e Nir, un bambino di circa quattro anni incredibilmente vivace.

Già, Nir, nonostante la differenza d’età, in due sere che trascorsi con lui in casa diventai anche amico suo, tanto che per ricordami - lo scoprii anni dopo quando tornai a trovarli- aveva voluto essere chiamato dai suoi familiari e dagli amici più intimi”birichino”; un nomignolo comune dalle nostre parti per definire i bambini vivaci come lui, che gli avevo affibbiato scherzando. Chissà se lo chiamano ancora così: l’ultima volta che andai in Israele non lo incontrai e non ebbi modo di accorgermene, ma scoprii che quel nomignolo forse non gli si adattava più. Anche se forse era ancora un “biricchino, era un “biricchino” serio, molto serio.

Yoel mi mostrò infatti orgoglioso una foto che lo ritraeva in tuta di volo con il casco sotto braccio di fianco al muso del suo caccia F-16 e in seguito seppi che era diventato un alto ufficiale e aveva passato molti anni negli Stati Uniti.

Da quanto vi ho appena detto avrete intuito che sono tornato più volte a trovare Yoel, e anche lui e Naomi sono venuti a trovarmi a Bologna, purtroppo una sola volta, e anche se credo che ormai non ci vedremo mai più, siamo rimasti legati da una di quelle amicizie che la lontananza non cancella, e ogni anno, in occasione degli auguri che non manchiamo di scriverci, ci raccontimo un po’ delle nostre cose. Lo scorso anno ho saputo che purtroppo Yoel è costretto su una sedia a rotelle e che il “biricchino” è tornato a casa a fare qualcosa di molto importante.

-------------------- o -------------------Tornato da quel viaggio, per diversi mesi non mi capitarono episodi meritevoli di essere raccontati. Poi mi dovetti occupare di un nuovo

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cliente francese al quale avevamo consegnato una linea 712-723. Una faccenda interessante e istruttiva.

La linea produceva buste contenenti una polvere per degradare i liquami nelle fosse biologiche; si trattava di una polvere di caolino abrasiva e volatile alla quale era premiscelato un componente attivo, un prodotto quindi “difficile”, ma niente di tragico; il collaudo da noi era andato bene, e la messa in produzione altrettanto. Solo che dopo un paio di mesi il cliente aveva cominciato a chiedere l’assistenza dei nostri tecnici, che poi, addossandoci responsabilità varie, si rifiutava di pagarci. In prima battuta, come era prassi, avevo mandato avanti Salomon a difendere le nostre buone ragioni, ma per tutta risposta il direttore di fabbrica aveva bloccato anche il pagamento a saldo della fornitura.

Dai rapporti dei tecnici e anche di Salomon che li aveva sempre accompagnti e seguiti, appariva evidente che il problema non era la nostra linea, ma l’organizzazione aziendale, il personale inadeguato e soprattutto lui, il direttore; un vecchio amico di famiglia del quale il proprietario sembrava avere la massima fiducia, ma che con tutta evidenza non sapeva fare quel mestiere. Decisi quindi che era ora di intervenire e chiesi a Salomon di farmi parlare a tu per tu con il proprietario; un vecchio signore di nobili origini che aveva messo su quell’impresa per sfruttare il caolino delle sue terre, per convincerlo a cambiare direttore.

Ad una prima richiesta quel signore si rifiutò di incontrarmi da solo, ma Cristian insistette e finalmente fummo ricevuti nel suo castello; ma non partimmo per niente bene. Dopo aver ascoltate le nostre ragioni, infatti, il vecchio signore ci si scagliò contro inferocito difendendo a spada tratta il suo uomo e ci trovammo naturalmente in difficoltà.

Cristian, con molto tatto, tentò di spiegare più in dettaglio i dubbi che avevamo sul suo uomo, ma io, che osservavo l’espressione del nostro interlocutore e avevo la netta impressione che Cristian stesse parlando al vento, stanco e scocciato lo interruppi e con il mio fracese/bolognese dissi senza mezzi termini al nostro ospite che perdurando quella situazione avrei ritirato la linea. Una presa di posizione che lasciò senza parole Cristian, ma anche il nostro interlocutore, il quale, dopo un paio di minuti di silenziosa meditazione, ci promise di valutare le nostre argomentazioni, di farci sapere, e ci congedò.

Era già una mezza vittoria, e quando un mese più tardi Cristian mi fece sapere entusiasta che l’amico di famiglia era sparito e c’erano un nuovo direttore generale e un nuovo capo meccanico che non vedevano l’ora di incontrarci per discutere della faccenda, pensai che le cose avessero preso la piega giusta. Per accelerare i tempi chiesi a Cristian di proporre al direttore di dare alla nostra visita un carattere risolutivo; avrei portato con me il nostro miglior tecnico per una messa a punto della linea e per dare istruzioni al nuovo capo meccanico sulla sua conduzione e manutenzione. E lui, entusiasta si era detto d’accordo.

Eravamo quindi molto fiduciosi Cristian, io e Francesco de Nunzio, mentre nella portineria di quella fabbrica che spiccava come un UFO in

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mezzo ai boschi del Massiccio Centrale, aspettavamo che ci ricevesse, ma la nostra fiducia era destinata a crollare miseramente.

Lo aspettavamo da pochi minuti, seduti muti di fronte ad una centralinista molto carina, quando apparve un giovane magro, con lunghi capelli biondi scomposti, jeans bianchi un poco sporchi, ed una vistosissima camicia a fiori multicolori aperta sul petto nudo. Lo ignorammo pensando che facesse i fatti suoi, ma scoprimmo increduli che i fatti suoi eravamo proprio noi. Ci venne infatti incontro sorridente e nel tenderci la mano e dirci il suo nome ci informò di essere il nuovo direttore generale.

Certo dall’aspetto non lo sembrava per niente, pensai io dallo sguardo che fecero anche Cristian e Francesco, ma cercando di mascherare quel pensiero lo seguimmo in una saletta dove era ad attenderci un ragazzo ancor più giovane di lui che ci venne presentato come il suo capo meccanico di fiducia. Dopo qualche convenevole, quest’ultimo se ne andò con Francesco in reparto e Cristian e io seguimmo il direttore nel suo ufficio dove ci diede il “colpo di grazia”.

Dopo averci infatti detto di essere stato scelto dopo aver risposto ad un annucio di lavoro apparso su un giornale di Parigi ed avere avuto un colloquio di una ventina di minuti con il proprietario, ci confessò con un candore disarmante che, pur essendo laureato in ingegneria meccanica, aveva sempre fatto solo il ballerino e il coreografo in alcuni locali Parigini. Si aspettava quindi il nostro massimo supporto per riuscire nel suo lavoro, e se glielo avessimo dato non ce ne saremmo pentiti.

Cosa potevo dirgli? Pur se pensavo che eravamo caduti dalla padella alle brace e che quasi certamente mi sarebbe toccato andare per vie legali gli dissi che avremmo fatto del nostro meglio, ma per mettere le cose in chiaro gli domandai cosa intendesse esattamente per “supporto”, e la sua sorprendente risposta mi fece di nuovo sperare di cavarmela, anche se pensai che il proprietario avesse fatto ancora una volta una scelta infelice per il futuro della sua avventura industriale.

Chiedeva solo, poveretto, quello che avevamo concordato per telefono e che eravamo li per fare, e in cambio, se la linea avesse dimostrato la sua validità, ci rassicurò che avrebbe saldato tutti i sospesi.

Non avemmo difficoltà con Francesco a fare in poche ore una perfetta messa a punto, che già in serata ci permise di dimostrare al direttore entusiasta e al capo meccanico che la linea era un gioiello; e il giorno seguente scoprimmo anche che quel ragazzino di capo meccanico che sembrava conoscere solo teoria, imparava molto in fretta la pratica.

Tanto in fretta da dichiarare con sicurezza la sera al direttore di essere convinto della validità della linea e certo di poterla condurre senza problemi senza il nostro aiuto. Tranquillizzati da come sembrava si stessero mettendo le cose, il terzo giorno, visto che aveva finalmente smesso di piovere, con Cristian decidemmo di lasciare Francesco solo con il capo meccanico a dargli gli ultimi ragguagli, e di andarcene a fare una lunga passeggiata a piedi fino al paese vicino. Era da quando mi aveva fatto scoprire la sua Parigi che non ero più stato solo con lui abbastanza per poter parlare liberamente di cose extra lavoro, e in quella passeggiata recuperammo ampiamente.

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Al ritorno, nel tardo pomeriggio, mentre Cristian si intratteneva con il ballerino ormai rilassato cercando di sondarlo sulle prospettive di ulteriori vendite in caso di successo di quel prodotto sul mercato e mentre Francesco continuava ad istruire il capo meccanico, io decisi di fare il periplo dello stabilimento e trovai una cosa che sognavo di trovare fin da bambino. Sul retro una scavatrice stava sbancando il pendio circostante per procurare il caolino che sarebbe finito essiccato e polverizzato nelle buste prodotte sulla nostra linea e mentre la osservavo meditabondo, dopo un ennesimo colpo di benna, vidi uno stranissimo punto nero apparire circa alla metà della scarpata, omogeneamente bianca, che la benna stava formando. Il punto, lo ricordo come se lo vedessi ora perché ricordo bene come accelerò i battiti il mio cuore, era seguito verso l’alto da una scia grigia che si interrompeva mezzo metro più in alto dove il terreno tornava bianco fino allo strato d’erba, due metri più su. Ebbi un’intuizione: corsi verso la scavatrice urlando all’operatore di fermarsi; e questi, pur certamente senza aver capito cosa stessi urlando, lo fece.

Se avesse dato un altro colpo di benna avrebbe sepolto quel puntino nero fra i quintali di caolino che se ne andavano su di un nastro trasportatore verso la fabbrica ed io non sarei mai entrato in possesso di un meteorite! Si proprio così! Quel punto che raggiunsi facilmente allungando le braccia come la benna fu ferma si rivelò un bel sasso nero di circa tre centimetri di diametro, lucido e pesantissimo, che due mesi più tardi un esperto geologo certificò essere sicuramente un meteorite!

A completamento di una splendida giornata, la serata non fu da meno: il propritario ci invitò a cena nel castello, ci offrì un ottimo pasto accompagnato da vini nobili delle sue terre e, visbilmente soddisfatto, diede istruzione al ballerino di regolare tutti i pagamenti in sospeso.

Durante il viaggio in auto verso Parigi con Cristian convenimmo di essere stati davvero fortunati a chiuderla in quel modo, ma entrambi dubbiosi sulle possibilità che il ballerino potesse farcela. Francesco invece, non la pensava allo stesso modo: il capo meccanico era a suo avviso il più in gamba che gli fosse capitato di incontrare e quindi lui era molto più fiducioso di noi sul futuro. E ebbe ragione lui: non ci fu più richiesta assistenza, cinque mesi dopo fu ordinata una seconda linea e un anno più tardi una terza; che vennero addirittura installate e messe in produzione senza un nostro tecnico. Quel ballerino e il suo meccanico avevano costruito un’azienda impeccabile, facendo di un potenziale disastro una vera miniera d’oro, sia per la proprietà che per loro.

Del ‘79 non ricordo altri eventi particolari: l’anno finì con la consueta frenesia delle ultime consegne per fatturare e poi cominciò il 1980, un anno indimenticabile. Se ricordate: quello fu l’anno delle due grandi tragedie bolognesi, che sfiorarono anche l’ACMA. Nell’attentato alla stazione venne ferito un membro della famiglia di Giuliano Bolognesi, uno dei montatori a me più vicino, e con il DC-9 abbattuto sul mare di Ustica si inabissarono l’ingegner Prestileo e due suoi collaboratori di un’azienda siciliana che ci avevano fatto visita quel giorno maledetto. E nella disgrazia fummo fortunati a non dover piangere anche il nostro 86

Piero Soavi. Piero, che si era occupato di loro, avrebbe dovuto accompagnarli a Palermo su quello stesso aereo, per firmare l’indomani un importante contratto. Quando si dice il caso! Non partì solo perché Silvana, sua moglie, proprio quella sera non si sentì bene e lui non volle lasciarla sola. Non ricordo però così nitidamente quell’anno solo per quelle due tragedie, ma anche per una terza, nella quale purtroppo fui coinvolto io nel corso del mio primo e unico viaggio in Yemen.

-------------------- o -------------------Fino ad ora non vi avevo parlato di biscotti se non per accennare nelle riflessioni dopo la vicenda Nestlè che avevo pensato un errore non entrare nel loro confezionamento con i sistemi “Flow pack” e sfusi in sacchetti; e non lo avevo fatto perché nei biscotti non avevamo mai avuto problemi. Nelle confezioni tradizionale non eravamo secondi a nessuno ed eravamo leader indiscussi in quelle confezioni speciali che dovevano garantire una totale integrità al prodotto per tempi lunghi. La Carlo Erba, la Plasmon, la Mellin e la Buitoni, in Italia, e tutte o quasi le aziende che producevano prodotti simili ai loro nel resto del mondo, si affidavano esclusivamente alle nostre linee. Linee fantastiche capaci di assorbire da tre forni inarrestabili fino a 8000 fragilissimi biscotti al minuto, e dopo averli protetti con morbido cartoncino ondulato, avvolti e sigillati con un’impenetrabile carta alluminata, astucciati, incartonati e palettizzati in modo totalmente automatico, con efficienze del 98%, di inviarli ai magazzini. Comunque, vanterie a parte, ma di tanto in tanto ne ho bisogno, nell’ambito di una fornitura chiavi in mano di un intero stabilimento sponsorizzato e coofinanziato dalla Buitoni, avevamo venduto una linea alla Yemen Company for Biscuit and Soap di Taiz, nello Yemen del nord; a quel tempo ancora diviso da quello del sud.

Era una linea supercollaudata e identica a quelle che il nostro cliente italiano usava da anni, che era stata installata e messa in funzione con successo dal nostro supertecnico Arturo Bonora affiancato dagli specialisti della Buitoni che la conoscevano come le loro tasche. Una fornitura quindi che non poteva davvero dare problemi, e che in effetti non ne dava, ma ciò nonostante la ditta Yemenita faceva orecchie da mercante da mesi alle nostre richieste di pagamento dell’ultima quota residua a suo carico; circa centomila dollari americani. La Buitoni, che ci aveva già pagato la maggior parte del prezzo convenuto e comunque tutto quanto di sua competenza, pur essendo dispiaciuta non poteva fare nient’altro che sollecitare a sua volta gli yemeniti, ma anch’essa senza successo. La somma era alta per quei tempi e non potevamo rinunciarvi a cuor leggero; ma cosa si poteva fare? Di certo non fare causa al cliente: in Yemen sarebbero stati tempo e danaro buttati al vento, e quindi si era deciso di mandare me a tentare di convincerli. Un viaggio che però, fra date proposte da noi rifiutate dal cliente, date proposte dal cliente ma rifiutate da me, visti ottenuti e scaduti, e difficoltà ad avere la conferma sicura della disponibilità di una camera nel solo hotel di Taiz adatto agli occidentali per fissare definitivamente i

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voli, si era dimostrato complicato da organizzare. Comunque, sistemato tutto, verso il quindici di settembre, partii.

A quei tempi, a parte Bonora, conoscevo ben poche altre persone che sapevano dell’esistenza dello Yemen: pochissime che sapevano dove si trovasse, e quasi nessuna che avesse una idea di come fosse là la vita; ma non io. Il fatto che il nostro Pasolini, dopo avervi girato alcune scene dei suoi capolavori, avesse detto che avrebbe voluto salvarlo dalla “modernità”, insieme alla mia passione per la storia delle antiche civiltà mi aveva spinto ad interessarmene, e avevo imparato un sacco di cose molto tempo prima di immaginare che sarei andato a vederle con i miei occhi. Sapevo che era davvero rimasto indietro di secoli rispetto alla nostra civiltà, che peraltro sembrava avervi avuto inizio ai tempi della favolosa regina di Saba; che era governato da una dittatura militare in perenne guerra con lo Yemen del sud; che era del tutto insicuro al di fuori delle poche grandi città a causa del potere tribale della miriade di tribù che si dividevano il territorio; quasi sicuramente sede di campi d’addestramento per terroristi, e quindi fortemente sconsigliato se non proprio vietato al turismo.

Ma avrei fatto carte false pur di andarvi, ed ero quindi eccitatissimo mentre mi imbarcavo a Fiumicino sul malandato 727 della Yemenia Airways che, dopo aver fatto scalo a Larnaca e Jedda, mi avrebbe portato a tarda sera a Sana’a; la favolosa capitale dello stato, da dove, con un volo interno, l’indomani sarei dovuto arrivare a Taiz. L’aereo era quasi vuoto, il servizio a bordo sembrava non esistere, e quindi dopo aver scorso una rivista che forniva un quadro sintetico di quello che c’era da vedere nel paese, mi misi a guardare, come facevo sempre affascinato, la terra dal finestrino. Mentre contemplavo la frastagliata costa greca, una hostess, finalmente, mi chiese se desiderassi qualcosa: mi sarebbe piaciuto un Martini e qualche patatina, ma guardando il carrello vidi solo poche bibite colorate, una bottiglia d’acqua, e una ciotola di sferette incartate molto simili alle povere caramelle di zucchero aromatizzato che mia madre mi comprava da bambino; mi limitai a chiederle un bicchier d’acqua, a prendere dalla ciotola una caramella e, accidenti a me, esclamai: “A nunv sfurzee mea dimondi col sarvezi!” (non vi sforzate di certo molto con il servizio! ).

Lei non capì ovviamente niente, fece comunque un mezzo sorriso e proseguì per il corridoio. Ma qualcuno purtroppo, le mie parole in dialetto le aveva capite benissimo. Un signore di indubbie origini arabe si alzò non appena la hostess ebbe superato la sua poltroncina, poco davanti alla mia, venne verso di me e mi disse in un italino perfetto: “Mi scusi, mi è sembrato di sentirla parlare in dialetto bolognese; mi chiamo Abdul, ho studiato medicina nella sua splendida città e mi piacerebbe parlarne un po’ con lei per ravvivare i tanti bei ricordi che mi ha lasciato”.

Aveva un bel sorriso, un aspetto molto distinto ed affidabile, e sembrava tanto entusiasta della mia Bologna che mi piacque subito. Lo invitai a sedermi accanto presentandomi a mia volta, e cominciammo a parlare; prima un po’ di noi e poi di Bologna.

Era un personaggio, il dottor Abdul, che a quel nome ne affiancava altri sei o sette. Uno specialista in malattie dell’infanzia, primario 88

dell’unico ospedale di Taiz, presidente della Croce Rossa, o forse Mezza Luna Rossa, dello Yemen del nord e, ovviamente, aveva fatto un matrimonio adeguato sposando la figlia del capo dell’esercito. Ma nonostante queste credenziali non si dava certo arie: aveva una conversazione varia ed interessante, era affabile e anche un buon ascoltatore. Si dimostrò infatti molto attento a quanto gli raccontai di me, del mio lavoro e della ragione del mio viaggio in Yemen. Allo scalo a Larnaca avevamo già scoperto di essere quasi coetanei, di aver frequentato a Bologna più o meno gli stessi luoghi ed ambienti, e addirittura di avere avuto anche conoscenze in comune. Allo scalo di Jedda ci davamo già del tu e parlavamo da vecchi amici ripercorrendo il passato attraverso i bar, le osterie, i ristoranti e il locali di ritrovo della favolosa Bologna degli anni 60.

Se non si fosse creata quell’atmosfera e fossimo rimasti solo due semplici conoscenti di volo, non sarebbe successo niente e sarei qui a parlarvi quasi solo delle bellezze dello Yemen, ma andò così. Stavamo per atterrare a Sana’a quando, interrompendo i ricordi, Abdul mi chiese:“Perchè invece di andare a Taiz in aereo non ci vieni con me in auto, visto che da quello che ho capito domani non hai impegni di lavoro?” E proseguì:”Stasera non posso cenare con te - avremmo dormito entrambe allo Sheraton - perchè devo vedere delle persone, ma domani mattina alle 7.30 verrà a prendermi il mio autista; facciamo colazione al circolo ufficiali dove devo vedere mio suocero, poi un rapido giro turistico per la città e partiamo per Taiz; ti assicuro che vedrai trecentocinquanta chilometri di uno Yemen che ben pochi europei hanno visto fino ad oggi”.

Figuriamoci se c’era da chiederla a me una cosa del genere: non mi sembrava vero di avere una simile opportunità e quindi risposi entusiasta di sì. In albergo cancellai il mio volo di corsa, cenai splendidamente nel ristorante interno gestito da un simpatico veneziano, scambiai quattro chiacchere con lui e con una coppia di archeologi italiani che da tempo lavoravano laggiù alla ricerca di testimonianze del favoloso regno di Saba e me ne andai a dormire presto pregustando il viaggio del giorno dopo.

Alle sei del mattino ero già con il bagaglio fatto e il conto pagato fuori dall’hotel a godermi l’incredibile luminosità dell’alba a duemila metri d’altezza e i colori fortissimi delle rocce e dei fiori che mi circondavano.

Che panorama! Dopo poco, invidiandoli da morire, salutai i due archeologi in partenza sulla loro Land Rover per un ennesimo viaggio di ricerca, e alle sette e mezza, come previsto, una vecchia ma lustra Mercedes nera si fermò davanti all’ingresso. Quasi nello stesso istante Abdul sbucò dall’hotel, mi salutò con un gran sorriso, mi chiese come era stata la cena, si accostò alla Mercedes dalla quale era uscito l’autista, gli disse alcune parole e mi pregò, aprendomi lui la portiera, di sedermi d’avanti per poter meglio gustare il panorama. Lui si accomodò dietro.

L’autista mise la sua e la mia valigia nel portabagagli e ci avviammo.

La colazione nel favoloso ed elegante ambiente del circolo ufficiali, i baffuti uomini in divisa che sembravano usciti da una scena di un film tratto da un racconto di Salgari, l’ossequio di cui Abdul era fatto oggetto che si riverberava anche su di me e la squisitezza dello suocero nei miei 89

riguardi, mi fecero trascorrere come in un sogno due ore che non dimenticherò mai. Altrettanto stupefacenti furono anche le tre ore seguenti, spese ad aggirarci fra indescrivibili palazzi di sei, sette piani costruiti in mattoni rossi e decorati alle finestre con inserti di pietra nera e bianca scolpiti ad arte. Molti di quegli edifici, mi spiegò Abdul con malcelato orgoglio, nonostante fossero costruiti con mattoni di fango e paglia erano vecchi di oltre mille anni: erano provvisti fin dall’origine di sistemi di scarico delle acque usate per i servizi igienici, ed erano ancora utilizzati come abitazioni. Era chiaro che conoscendo bene la medioevale Bologna ci teneva a farmi vedere che anche il suo Yemen aveva avuto un grande passato!

Uscimmo da Sana’a verso verso l’una fra diecine di persone che ai lati della strada, nella prima periferia, pestavano paglia e fango per fare mattoni, e con gli incredibili colori rossi e neri delle rocce e i verdi smeraldo e rosso fiamma dei cespugli a lato della strada finiscono i miei ricordi del paradiso terrestre e cominciano, purtroppo ancora troppo nitidi dopo tanti anni, quelli dell’inferno.

Eravamo in strada da circa un’ora o poco più e l’auto correva veloce; troppo veloce su quella strada che, pur deserta, era tutta buche! Certo era una Mercedes, ma sicuramente d’annata; ed io ero un po’ preoccupato e guardavo di continuo il tachimetro e la strada di fronte a noi distraendo purtroppo lo sguardo dal magnifico panorama. Abdul, evidentemente abituato a quel percorso e allo stile di guida del suo autista, leggeva alcune carte che questi gli aveva portato. Ad un certo punto ci trovammo davanti ad un lungo rettilineo in leggera discesa, completamente deserto, a metà circa del quale si intravedeva sulla sinistra una pompa di carburante e sulla destra, ad un centinaio di metri dalla strada, un agglomerato di casupole. L’autista accelerò superando i cento all’ora, e successe la tragedia. Mentre ci avvicinavamo, dalle casupole sbucarono alcuni ragazzini che attraversarono correndo la strada verso la pompa del carburante: l’autista, anziché rallentare come prudenza avrebbe voluto, si limitò a suonare il clacson; l’ultimo dei ragazzini decise di tornare indietro, e lo prendemmo in pieno.

Non dimenticherò mai il rumore che fece la sua testa contro il vetro proprio davanti a me! Poi l’inferno. L’auto sbandò sulla destra, entrò nel roccioso fossato laterale, sbattè contro un masso, si impennò, si girò più volte e alla fine si fermò appoggiata su di un fianco. Scrivendone mi vengono ancora i brividi e ricordo ogni piccolo dettaglio: i lamenti dell’autista, gli sforzi miei e di Abdul per aprire le portiere e sopratutto che non sentivo nessun dolore e che volevo solo uscire e correre da quel ragazzino. Abdul, che evidentemente non vedeva il momento di fare la stessa cosa, uscì per primo e corse verso di lui; io, che per uscire avevo dovuto scostare a forza l’autista svenuto, lo seguii dopo pochi minuti.

Quando lo raggiunsi gli stava dando colpi al petto e tentava una respirazione bocca a bocca: io, stordito e senza sapere cosa fare, li guadavo inginocchiato e fissavo attonito il rivolo di sangue che usciva dall’orecchio del ragazzino. Poi, fummo circondati da un gruppo di uomini barbuti, sdentati, malvestiti, e con enormi Janbiya ( i tipici 90

pugnali ricurvi ) alla cintura e il loro bravo Kalashnikov a tracolla che, indicando il ragazzino esanime, presero ad urlare e gesticolare guardandoci in un modo che non prometteva niente di buono. E io, anche se non sono credente, mi raccomandai a Dio. Ho pensato spesso a cosa sarebbe potuto succedere se non fossi stato con Abdul, o se questi fosse rimasto ferito gravemente o addirittura fosse morto nell’incidente; oppure, ancora peggio, se io fossi stato uno dei tanti solitari ed incauti turisti fai da te. Ma nella vita sono stato sempre fortunato, e pur se l’incontro con Abdul si stava rivelando una vera tragedia, per fortuna ero con lui, che non era ferito né morto e che era un personaggio conosciuto anche in quello sperduto villaggio. Mi disse dopo, quando ci rimettemmo in viaggio, che la sua notorietà era dovuta ad una trasmissione televisiva nel corso della quale insegnava periodicamente le più fondamentali regole di igiene per evitare le più diffuse malattie nei bambini: una trasmissione molto seguita anche nei villaggi sperduti come quello dove, almeno un televisore c’era.

Dunque, fortunatamente lo riconobbero ed il loro atteggiamento mutò. Ma intanto il sangue che usciva dall’orecchio del ragazzino si era fermato; come il suo cuore! E a quel punto Abdul, stravolto e con un tono di voce che non lasciava dubbi mi disse: “Dobbiamo fare finta che non sia morto, cercare di fare ripartire la macchina, e dire a questa gente che lo portiamo in un ospedale. Ci fermeremo invece ad un posto di polizia militare poco distante; dove sicuramente saremo al sicuro!” E io, anche se intontito, capii che eravamo in pericolo! Si alzò e cominciò a parlare con quegli uomini in modo concitato e dopo pochi secondi tutti corsero verso l’auto, dalla quale, fortunatamente, era nel frattempo uscito un po’ malconcio e sanguinante anche l’autista. Io rimasi come in trance inginocchiato accanto al ragazzino ad accarezzargli meccanicamente la fronte.

Ci vollero alcuni minuti di tentativi ad Abdul e agli uomini, forse una ventina, per rimettere l’auto sulle quattro ruote. Era tutta ammaccata e con alcuni vetri rotti, ma Abdul riuscì ad avviare il motore e con la spinta degli uomini, sobbalzando fra i massi, a rimetterla sulla strada; un altro bel colpo di fortuna! Abdul rimase al volante, l’autista si sedette dietro il posto di guida, io di fianco a lui, ed il ragazzino ci fu disteso sulle ginocchia. A fianco di Abdul salì uno degli uomini - il padre del ragazzino - con il suo Janbiya e l’immancabile Kalashnikov, e finalmente partimmo.

L’auto funzionava ma andava pianissimo; sobbalzava anche senza buche, doveva essere tutta storta, le marce non entravano tutte, ma andava! Non so quanto tempo impiegammo per raggiungere la casermetta della polizia militare: ricordo solo che per tutto quel tempo non smisi mai di fissare il bellissimo viso di quel bambino e di accarezzargli la fronte e i riccioli neri mentre Abdul mi spiegava come ce la fossimo cavata grazie alle sue apparizioni in TV. Comunque, finalmente, nei pressi di un’altro piccolo agglomerato di casupole di fango e paglia, ci fermammo di fronte ad un cancello che rinchiudeva con un alto muro una costruzione in cemento. Ma a quel punto tornammo, credo, ad essere in pericolo. Il padre del ragazzino, resosi 91

conto che quello non era l’ospedale, cominciò ad urlare e a strattonare Abdul con violenza facendogli segno di riprendere la strada, e Abdul, in palese difficoltà, non trovò di meglio che mettersi disperatamente a suonare il clacson. E ebbe, o meglio, avemmo ancora fortuna; il cancello si aprì, due o tre uomini in divisa si avvicinarono spazientiti all’auto, Abdul riuscì a sporgersi dal finestrino nonostante il padre del ragazzino che continuava ad urlare cercasse di impedirglielo, e accadde il miracolo.

I soldati riconobbero il marito della figlia del loro comandante supremo, si irrigidirono in un saluto militare, e lo strapparono letteralmente dalle grinfie disperate del padre del ragazzino che, vedendo quella deferenza e forse intimidito, smise di urlargli contro.

Dopo lo scambio di poche parole fra Abdul e il soldato forse più alto in grado, nonostante le proteste del padre del ragazzino, un soldato si mise al volante, portò la Mercedes all’interno del muro ed il cancello si richiuse alle nostre spalle. Abdul entrò nell’edificio seguito dal padre del ragazzino e da un paio di soldati mentre l’autista ed io rimanemmo immobili in macchina con il bambino sulle ginocchia. Ci misi diversi minuti, ma piano piano cominciai ad uscire dallo stato di apnea respiratoria e mentre mi guardavo attorno realizzando che il cortile era coperto di immondizie e che i soldati che mi osservavano come se fossi un marziano avevano divise sporche e lacere, udii arrivare dall’interno della palazzina gli urli di un padre che doveva aver saputo che suo figlio era morto.

Dopo un po’ di tempo Abdul uscì e mi fece cenno di scendere. Era molto teso; mi disse di essere addolorato di quanto stava succedendo ma che mi avrebbe fatto arrivare a Taiz senza ulteriori conseguenze. Lui e l’autista dovevano restare ad attendere i membri del consiglio del villaggio del ragazzino che dovevano approvare l’indennizzo di seicento dollari - i contanti che aveva con se - che lui aveva proposto al padre. La cosa poteva andare per le lunghe ed era comunque meglio che io uscissi di scena. Aveva già organizzato la mia partenza. Mi disse anche che il ragazzino aveva nove anni e ben ventisette fratelli, e forse per alleviare la mia palese angoscia e il suo senso di colpa, aggiunse che il valore della vita in quei luoghi era molto, molto diverso rispetto a quello a cui io potevo essere abituato.

Mentre Abdul rientrava nell’edificio e un militare usciva di corsa dal cancello, mi sedetti su di un bidone rovesciato, chiuso nei miei pensieri.

Nel cortile i soldati continuavano a guardarmi curiosi masticando quasi sicuramente del “qat”, foglie allucinogene di un arbusto che, avevo letto, sembrava che quasi tutti gli yementi di età adulta consumassero abitualmente. Dopo circa mezz’ora il cancello che dava all’esterno si riaprì per fare entrare il soldato uscito prima e un ragazzo che a me parve poco più che coetaneo di quello che avevamo investito; entrarono nella palazzina e dopo pochi minuti ne riuscirono con Abdul e si diressero verso di me. Abdul mi disse che quel ragazzo mi avrebbe accompagnato a Taiz in auto in circa tre ore; si scusò ancora dei guai che mi aveva causato; mi chiese dei riferimenti per rintracciarmi sia a Taiz che a Bologna; mi raccomandò di non parlare a nessuno in Yemen 92

di quello che era successo per evitare di essere coinvolto quale testimone in un eventuale processo, cosa che avrebbe potuto prendere mesi, se non anni; e mi abbracciò quasi piangendo. Salutai il suo autista che forse ancora dolorante e rintronato nemmeno se ne accorse; detti un’ultima occhiata al bambino sdraiato sui sedili della Mercedes e mi avviai con il mio nuovo autista verso una nera Citroen d’anteguerra parcheggiata fuori dal cancello. Era quasi sera.

Voi penserete, ed anch’io lo pensai, che i guai fossero finiti, ma non era purtroppo così. Nell’auto c’era solo il sedile dell’autista, e mi dovetti sedere a gambe in avanti sul pianale coperto da rinsecchiti escrementi di pecore - forse da anni le uniche passeggere trasportate - e vi giuro che il viaggio fu allucinante. La strada, tutta una curva, si snodava al fianco di precipizi di cui non si vedeva il fondo, era sterrata, piena di buche, e da quel poco che riuscivo a vedere alla luce dei fari, nelle curve completamente priva di muretti di protezione o di guard rail. Quel pazzo di guidatore, poi, la percorreva ad una velocità da rally sbandando ad ognuna di esse e rischiando di precipitare nel vuoto, ed inoltre dovevo fare sforzi molto dolorosi per tenermi ancorato alle due maniglie fissate ai montanti centrali fra i due sportelli, per non rotolare da una parte all’altra del pianale. Ero terrorizzato e cercavo in tutti i modi di fargli capire di rallentare, ma, vista l’inutilità delle mie parole, non mi rimase che aspettare rassegnato l’inevitabile disastro.

E invece, incredibilmente, non ci successe niente e verso le dieci di sera ci fermammo davanti all’hotel di Taiz che avevo prenotato. Presi la mia valigia, salutai con un gesto quel pazzo di autista pensando fra me e me che non sarebbe rientrato vivo al suo villaggio, e mi avviai alla reception. Finalmente! Finalmente un corno! La mia camera non c’era più! Non ero arrivato all’ora di pranzo come previsto e non avevo avvertito del ritardo; figuriamoci se avevo pensato all’albergo, e la camera era stata data ad un altro. Ero disperato, stanco, demolito sia psicologicamente che fisicamente e chiesi pietà, ma l’unica pietà che ricevetti fu una sdraia sistemata nella lavanderia sul tetto dell’albergo, senza porta, e ovviamente senza servizi igienici. Mi ci sdraiai comunque grato, a stomaco vuoto, e mi addormentai come un sasso. Il mattino mi fu data una camera e finalmente potei lavarmi e cambiarmi.

La doccia e la colazione mi riassestarono un poco; quasi mi sembrava di aver sognato e non vissuto quell’orrore di giornata; alle undici presi un taxi e mi feci portare dal cliente per tentare di risolvere il mio problema. Fui fatto accomodare nella stessa saletta d’aspetto le cui finestre guardavano, come mi aveva detto Bonora, su quello che sembrava un enorme campo militare, e dopo due ore, che impiegai a osservare l’andirivieni in quel campo, venni raggiunto da tre signori che si presentarono, in un inglese peggiore del mio, come il direttore generale, il direttore tecnico e il responsabile amministrativo. In un paio d’ore ognuno espose i propri punti di vista sulla ragione del contendere - i loro erano chiaramente pretestuosi e infondati - e ci lasciammo senza un nulla di fatto con l’impegno di rivederci l’indomani alle undici, per “chiudere”. Tornai in taxi in albergo e siccome era presto per cenare andai un po’ in giro.

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L’albergo era nel centro di quella favolosa città di cui tanto avevo letto, e so di aver visto in quelle due o tre ore, alcune delle cose che avevo tanto sperato di vedere, ma incredibilmente non ne ricordo nessuna. Mi sono rimasti in mente solo gli sguardi curiosi delle rare donne, del resto coperte da capo a piedi “di nero”, e soprattutto gli uomini: erano in tanti quelli che, pur portando come quasi tutti gli altri alla cintura il loro Janbiya, a tracolla il kalashnikov e masticando l’immancabile qat (cioè i simboli distintivi di mascolinità) non volevano certo essere scambiati per maschi. Infatti se ne andavano in giro a coppie, indossando senza imbarazzo corte gonnelline di garza che lasciavano scoperte le gambe e scarpe con suole e tacchi alti che ne aumentavano la statura; e si tenevano curiosamente agganciati, con un atteggiamento inequivocabile al quale peraltro nessuno sembrava fare caso, con il dito mignolo. Rientrai in albergo che era già buio, cenai, e me ne andai finalmente a letto fra lenzuola pulite, ma non dormii nemmeno un minuto: per tutta la notte continuai a sentire il rumore sordo che aveva fatto la testa del ragazzo sbattendo nel vetro.

L’indomani, stravolto dal sonno, dopo aver avuto conferma del mio volo per Sana’a prenotato per il mattino seguente, mi recai alla fabbrica alle otto e mezza sperando di potervi entrare subito. Volevo aver un poco di tempo per osservare ancora quella specie di campo militare che si stendeva sotto le finestre della sala d’attesa. Aveva tutta l’aria di uno dei campi d’addestramento per terroristi di cui si parlava dalle nostre parti e mi incuriosiva parecchio. Come avevo sperato in portineria fui riconosciuto come ospite dei direttori, e anche se loro non c’erano, fui fatto accomodare nella stessa saletta del giorno prima, forse l’unica, dove per tre ore venni quasi “annegato” di thè. Alle undici e mezza fui raggiunto dai miei tre interlocutori, tornammo ognuno a dire e sostenere le nostre ragioni e dopo tre o quattro ore capii che non avrei ottenuto più dei miserabili ventimila dollari che mi offrivano, e che anzi, se avessi insistito avrebbero potuto rimangiarsi anche quelli. Accettai quindi, anche se quei soldi avrebbero pagato a malapena il mio viaggio e il tempo speso a organizzarlo, li ringraziai, li salutai, e rifiutando il loro invito a cena me ne tornai in albergo dove cenai e andai di corsa a letto sperando di riuscire a dormire. Quello che dovevo fare l’avevo fatto e non vedevo l’ora che venisse il giorno dopo per ripartire. Ma anche quella notte fu come la precedente.

Il mattino, quasi vinto dalla stanchezza, chiesi un taxi per l’aeroporto, distante circa dieci chilometri, e durante quel brevissimo viaggio dovetti fermarmi a ben cinque, dico cinque, posti di blocco.

Praticamente dopo ogni incrocio con un'altra strada “carrabile”. Ad ognuno dovetti scendere, e con alle spalle militari armati fino ai denti, mostrare passaporto e visto a ragazzini che parlavano un inglese davvero stentato e rispondere alle loro domande. Dovevo spiegare perché ero in Yemen, dove ero stato, con chi avevo avuto contatti ecc.

Una cosa abbastanza seccante se subita di tanto in tanto, anche se non si ha nulla da nascondere: ma cinque volte in meno di mezz’ora! Con quello che mi era successo di cui non dovevo fare trasparire nulla e con il timore di aver dimostrato troppo interesse per quel campo militare 94

agli inservienti che mi avevano rifornito di thè nell’attesa dell’incontro: credetemi, fui preso quasi dal panico, ma bene o male arrivai comunque all’aeroporto senza impazzire.

Aeroporto? Bèh, certo una pista c’era e anche asfaltata, ma l’aerostazione mi ricordava tanto una di quelle baracche per la vendita di cocomeri comuni lungo le strade della bassa emiliana negli anni sessanta, e non contribuì certo a farmi sentire più tranquillo. Pesai sulla bilancia a doppio piatto il mio bagaglio a mano, feci controllare biglietti e passaporto ad un addetto molto probabilmente analfabeta, ma che forse proprio per quello mi fece passare senza problemi, e sedetti su di una panca al sole ad attendere il mio aereo e ad osservare un vecchio MIG -15 russo che giaceva senza una ruota, con un’ala rotta e coperto di rampicanti a pochi metri. Il sonno e il sole mi fecero assopire, ma mi risvegliai di colpo rischiando un infarto quando sentii qualcuno dire:“Mister Tabaroni?”

Aspettai un attimo prima di aprire gli occhi mentre pensavo nell’ordine: “Ci siamo, mi hanno beccato! Chissà se e quando potrò andarmene da qui”, ma quando mi decisi a farlo e alzai lo sguardo il cuore riprese a battere. Non era certo un arabo quello che mi aveva chiesto se ero io; dai calzoni grigi, dalla giacca blu e dalle enormi scarpe nere con la suola sporgente non poteva che essere un uomo d’affari americano. E quando ripetè: “Mister Tabaroni of ACMA ?” Mi ricordai di lui e ripresi anche a respirare. Per uno di quegli incredibili casi, che però succedono, in quel luogo sperduto del mondo e in quel giorno qualsiasi, mi veniva in soccorso “uno del mio mondo”. Non ricordavo il suo nome, che non ricordo neppure ora, pur se me lo ricordò lui subito, ma mi sovvenne di averlo conosciuto tempo prima ad una fiera. E pur di non stare ancora da solo ad aver paura, mi ci agrappai.

Seppi così che lavorava per la FMC America, che era in Yemen per affari, e che siccome non voleva correre rischi, non dormiva in Yemen ma faceva ogni giorno andata e ritorno dal Cairo. Era imprudente per funzionari di aziende americane stare in Yemen oltre lo stretto necessario; mi disse a voce bassa, e mi chiese se anch’io mi fossi cautelato in tal senso almeno non portando appresso documenti che potessero collegare l’ACMA alla Emhart. Ne sapevo certo molto più io su quell’argomento, ma feci finta di essere sorpreso e corsi verso la latrina, che non vi descrivo per decenza, dicendogli che andavo a strappare i biglietti da visita. Dopo poco arrivò il suo DC-9, ci salutammo, e dopo mezz’ora anch’io, finalmente, mi imbarcai con due o tre compagni di viaggio arabi sul mio aereo. Non era un DC-9, si trattava di un vecchissimo bimotore turboelica da una diecina di posti e il mio sedile non era ben fissato e ballava cigolando, ma non mi preoccupai più di tanto: sarei partito anche in groppa ad un’aquila senza un’ala! Ma quel maledetto viaggio voleva prorio essere maledetto fino all’ultimo!

Da quel che avevo letto, il clima dello Yemen in quel periodo dell’anno, avrebbe dovuto essere calmo, uniforme, senza piogge, e tanto meno senza temporali o tempeste. Bene, roba da non credere: in quel breve volo fra montagne impervie e pareti che sfioravamo di continuo ci beccammo una tempesta fortissima che fra tuoni e fulmini fece 95

ballare l’aereo per tutto il volo; ci spaventò tutti e provocò lo sganciamento quasi completo del mio sedile. Bene o male atterrammo comunque incolumi a Sana’a verso l’imbrunire. Il mio volo per Roma partiva alle ventitre, ed io, il solo passeggero in attesa, non mi mossi dalla sala imbarchi. Non c’era quasi luce, ed in quella penombra guardavo di continuo l’orologio e i due militari che compivano senza soste un largo giro attorno alle poltroncine; e pregavo che non venissero verso di me. Ma non vennero e partii in orario. Solo però quando vidi in basso sulla mia destra il meraviglioso spettacolo notturno della Ka’aba illuminata della Mecca, e fui certo di essere fuori dallo Yemen, riuscii a respirare con regolarità e a “distendermi” sul seggiolino.

Fui molto segnato da quell’episodio: per tre mesi dormii agitatissimo poche ore per notte continuando a sentire quel rumore sordo; solo dopo un anno ne parlai a mia moglie e a mio fratello, e solo dopo molti anni con qualche amico intimo. In ACMA non ne parlai mai; quanto ad Abdul, non ho più avute sue notizie.

Di quel maledetto 1980 non ho altri ricordi significativi, e anche il 1981 non brillò per episodi che abbiano lasciato un segno particolare nella mia memoria. Ricordo infatti con una certa nitidezza solo due brevi viaggi che feci in America, perché furono molto istruttivi.

-------------------- o -------------------Con il primo, nella tarda primavera, mi recai a Chicago, anzi: in uno sperduto Holiday Inn di campagna nei pressi della cittadina di Aurora, a una sessantina di chilometri dall’aeroporto O’Hare. Li vicino, a Montgomery, c’era quella che allora era considerata la più grande fabbrica di saponette del mondo, la Armour Dial, alla quale, dopo anni di fatiche del nostro agente Luis Spitz, eravamo riusciti a vendere, circa un anno prima, una nostra avvolgitrice 791. Si trattava di un cliente che consideravamo importantissimo - aveva più trenta vecchie avvolgitrici americane da sostituire - e quando ci aveva richiesto un corso di conduzione e manutenzione per un suo team di tecnici, per servirlo nel migliore dei modi era stato deciso “in alto” di non inviare un montatore, ma che ci sarei andato io. Ero quindi là per insegnare, anche se in verità da come andava la macchina - in modo impeccabile - sembrava che quei tecnici se la cavassero molto bene: e infatti anziché insegnare mi toccò di imparare.

Il primo giorno se ne andò fra presentazioni dei partecipanti, stesura di un programma di massima e discussioni varie sulle procedure usate per la pulizia e la manutenzione. Anche il secondo passò senza problemi di sorta fra domande e risposte attorno alla macchina in produzione che, come dicevo, funzionava in modo impeccabile; il terzo giorno, invece, cominciò malissimo: come la mettemmo in moto, scoprimmo che la macchina si era completamente “sfasata”. Tutti i dispositivi elettrici ed elettronici agivano fuori tempo. Fortunatamente la cosa non provocava danni meccanici, ma montagne di saponette da buttare sì. La fermammo naturalmente subito, e quando aprimmo la scatola delle 96

“camme” che “davano le fasi” scoprimmo che si erano tutte allentate.

Una cosa inspiegabile, o meglio spiegabile solo in un modo, ma che tenni per me. Pur se non l’avevo mai fatto, riuscii a rifasare il tutto e ripresi il mio corso.

La mattina dopo però c’erano altre piccole cose fuori posto: ancora una volta feci finta di niente - inimicarsi i tecnici di conduzione e manutenzione era il modo migliore per non vendere più macchine - e riuscii a risistemare il tutto, però quando alla sera venne a trovarmi Luis, non potei fare a meno di raccontargli quanto stava succedendo e chiedergli - sapevo che era di casa alla Dial - di far smettere quella “sceneggiata” che cominciava a farmi arrabbiare. Lui mi promise che ne avrebbe parlato quella sera stessa con Fred Simonian, il direttore tecnico di stabilimento, e la mattina dopo pensai che lo avesse fatto: la macchina funzionava infatti perfettamente. Terminai il mio corso, fui ringraziato e salutato da tutti con un inaspettato calore che mi fece dimenticare in parte quei dispetti (che comunque mi avevano obbligato ad imparare a mettere a punto la 791) e me ne tornai a casa.

Negli anni seguenti vendemmo molte macchine alla Dial, tornai là più volte, divenni amico di Fred, e una sera, ricordando quella mia prima visita, scoprii che Spitz, come tutti gli agenti, si era ben guardato dall’indispettire il suo cliente, ma anche che mi ero meritato il rispetto dei meccanici della Dial e forse avevo contribuito un poco a quelle vendite. Quando ringraziai Fred per il suo intevento sui meccanici lui scoppiò in una sonora risata e mi disse: “ Allora l’hanno fatto anche a te?

So che i miei meccanici, per mettere alla prova la professionalità dei nuovi arrivi, mettono a volte in atto piccoli sabotaggi, ma non pensavo che si azzardassero a farlo con estranei e tanto meno con fornitori.

Comunque, se ti può far piacere, il loro esame lo hai superato, visto che io non ne sapevo nulla e quindi non ho fatto nulla per farli smettere”.

Con il secondo viaggio andai invece all’inizio dell’inverno ad Hammond, in uno stabilimento della Lever sulle sponde del lago Michigan, per tirare purtroppo le somme di una fornitura andata male.

Con la CAM, avevamo fornito a quella fabbrica una linea formata da una nostra avvolgitrice 791 e da una sua astucciatrice per confezionare un nuova saponetta di alta gamma chiamata Dove; una fornitura che avevamo pensato senza problemi e che si era invece rivelata un disastro. Né il cliente né noi avevamo infatti immaginato che l’acqua salata necessaria per estrarre le saponette dagli stampi sarebbe arrivata fino alle nostre macchine corrodendole inesorabilmente. In un primo tempo avevamo tentato di risolvere il problema sostituendo alcune parti con altre trattate anticorrosione o in acciaio inox, ma quando ci eravamo resi conto che erano solo palliativi destinati a durare poco tempo avevamo deciso, d’accordo con il cliente, di rinunciare a quella fornitura. Il mio compito era quindi solo quello di definire con Jack Budakian, direttore del progetto, la ripartizione delle responsabilità, degli oneri e le procedure per il rientro. Un lavoro di poche ore, ma un’esperienza che non ho dimenticato.

Innanzi tutto arrivare ad Hammond non fu proprio una cosa tranquilla: avevo previsto di fermarmi prima a New York per 97

incontrare un tale della Colgate Palmolive che insisteva da tempo per vedermi, e il giorno dopo, prendere un volo per Hammond; ma le cose andarono diversamente. Era un inverno precoce, e da qualche giorno nevicava in tutto il nord Europa e sugli Stati Uniti. Mi era già successo di viaggiare con la neve, specie in nord America, e non avevo mai avuto problemi, ma quella volta la neve che cadeva doveva essere davvero molta, e in prossimità della costa il comandante ci comunicò che i tre aeroporti di New York erano stati chiusi e che saremmo dovuti andare a Chicago. Era una seccatura, ma che mi avrebbe solo costretto a incontrare l’uomo della Colgate sulla via del ritorno, arrivati però in prossimità di Chicago il comandante ci informò che anche là non si poteva più atterrare causa neve e che, suo malgrado avrebbe dovuto andare fino a Toronto; dove sarebbe comunque atterrato. Quel “comunque” non mi lasciò proprio tranquillo: era una nemmeno tanto velata ammissione che non avevamo autonomia per andare da qualche altra parte, ma tutto sembrò filare liscio. Ad un certo punto venne annunciato che stavamo per atterrare, e l’aereo cominciò a scendere fra un turbinio di fiocchi di neve.

Non fu un bell’atterraggio; quando toccammo la pista, l’enorme 747 slittò di lato prima da una parte e poi dall’altra, poi lo rifece, e solo dopo una ventina di secondi che a me e non certo solo a me sembrarono anni, finalmente si fermò. In cabina per alcuni secondi nessuno fiatò, poi apparve il comandante che ci informò sorridendo che era stato un atterraggio del tutto normale in quella stagione, e che non avevamo corso nessun rischio. Ma noi tutti, hostess comprese, lo applaudimmo con entusiasmo e gratitudine perdonandogli la più che evidente bugia.

Dopo il nostro atterraggio anche Toronto venne chiuso per neve, e ho sempre pensato che se avessimo avuto più carburante non avrebbero fatto scendere nemmeno noi. Comunque, l’indomani la neve concedette una tregua, arrivai ad Hammond, in poche ore definii con Jack tutti i dettagli dell’operazione, e a cena aggiunsi a quell’atterraggio quanto meno insolito un paio di altre ragioni per ricordare quel viaggio.

Andammo da Phil Smidt & son, uno dei più antichi locali sulle sponde del lago Michigan, famoso per i suoi menù a base di pesci di lago, e nello scorrere il menù, del quale ho conservato una copia per gli increduli, quasi non riuscivo a credere ai miei occhi: sull’angolo in alto a destra, su un fogliettino “puntato”, i proprietari chiedevano scusa per aver dovuto aumentare di venticinque centesimi di dollaro i prezzi dei piatti a base di “lake perch”. Una misura che avevano dovuto prendere a causa dell’impoverimento delle acque, ma che speravano di poter togliere quanto prima. Incredibile! Quel ristorante, rinomatissimo, sentiva il dovere di giustificare un aumento del 2,56 % e chiederne scusa! Chissà cosa avrebbero pensato i suoi clienti se fossero venuti a soggiornare per qualche tempo nel nostro bel paese a “vocazione turistica”? Dopo cena, poi, Jack, di origini armene, mi parlò fino a tarda notte della diaspora del suo sfortunato popolo, del quale fino a quel giorno sapevo solo che fra i suoi figli più noti c’era Aznavur, uno dei cantanti che più mi piacevano; e quello che mi raccontò mi affascinò e mi commosse.

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Ed eccomi dunque al 1982, che di ricordi me ne ha lasciati invece davvero parecchi, a cominciare da quello di un’indimenticabile anche se freddissima Vienna, e del nostro agente lassù; Helmut Weiss, un uomo difficile da dimenticare. Da quando ci eravamo sposati, se ricordate il 2 di gennaio, con Luciana tentavamo di festeggiare con un viaggetto sia l’ultimo giorno dell’anno che l’anniversario del matrimonio; e quell’anno, il decimo, avevo chiesto a Helmut il favore di organizzarmi qualcosa di adatto alla particolare circostanza nella sua bella città. E devo dire che andò molto al di là delle mie aspettative. Fin troppo.

Aveva prenotato infatti in pieno centro all’hotel Principe Eugenio, arredato solo con mobili dell’epoca del principe, che pensai che mi sarebbe costato una fortuna. E invece non mi costò niente! Quando dopo una settimana da favola, passata fra l’altro in compagnia di una simpatica coppia di Alessandria, chiesi il conto, mi fu detto che il signor Weiss aveva già provveduto.

Fu un bel regalo, anche se certamente imbarazzante, che ci portò, fra una mia insistenza per rimborsarlo e un suo rifiuto, a parlarci e frequentarci sempre più spesso, anche senza averne la necessità per lavoro, e a diventare amici. Amici di quelli con i quali ci si confida, e un giorno, quel discreto e timido signore mi fece vedere un numerino che aveva impresso sull’avambraccio e mi “confidò” la storia più allucinante e struggente che ho mai ascoltato. Tornato da Vienna, ebbi un paio di settimane di normalità in azienda, poi due settimane abbastanza impegnative durante le quali, pur se con qualche patema d’animo, riuscii finalmente a chiudere positivamente una spinosa faccenda che andava avanti da più di un anno.

-------------------- o -------------------Circa un’anno prima, appunto, la Panigal di Calderara di Reno, il nostro più vicino cliente e uno dei più affezzionati, si era inventata in collaborazione con il suo fornitore, un fustone per polveri detergenti molto furbo che poteva far risparmiare un sacco di soldi nei trasporti e un bel po’ di spazio nelle case dei consumatori. Si trattava, in verità, di un’uovo di colombo: di forma parallelepipida anziché cilindrica. Ci aveva quindi chiesto di adattare la nostra 794 con la quale produceva da sempre senza problemi i suoi fustoni cilindrici per renderla idonea a quel nuovo formato. Una richiesta che avevamo esaudito facilmente e rapidamente, tranne che per il gruppo di nastratura dei coperchi che, nato per operare su cilindri, si era dimostrato inadatto. Non essendoci però venuta né a noi né alla Panigal un’idea per superare il problema, in attesa che ci venisse, avevamo deciso di comune accordo di cercare di far produrre comunque la linea per riempire i magazzini in attesa del lancio sul mercato.

Per diversi mesi, pur se con una montagna di scarti e con l’intervento giornaliero di nostri montatori che si prodigavano in irrisolutive messe a punto, eravamo andati avanti a riempire i magazzini, poi finalmente, la soluzione era arrivata. E incredibilmente non da noi o dalla Panigal,

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ma dal suo più forte concorrente in Italia: la Dosa di Castrocelo, dalle parti di Cassino.

Anche la Dosa era un nostro ottimo cliente, con il cui proprietario, il signor Lillo Annunziata, il nostro ingegner Benazzi aveva da sempre rapporti strettissimi. E anche lei, per caso o per qualche altro motivo, aveva deciso più o meno contemporaneamente alla Panigal di cambiare sagoma ai fustoni; ma non aveva chiesto in nostro aiuto. Il signor Lillo aveva infatti al suo servizio come capo fabbrica un certo Mario Ghini, un vero genio della meccanica pratica, che aveva deciso di adattare da solo la sua 794 per il nuovo formato. Anche Mario Ghini, però, si era trovato nelle nostre stesse difficoltà con il gruppo nastratore coperchi, ma le aveva risolte brillantemente costruendone uno completamente diverso e perfettamente funzionante.

Come dicevo, il signor Lillo era un grande amico del nostro Benazzi, e sapeva sia da lui che per normale “spionaggio” fra concorrenti delle difficoltà che avevamo in Panigal, e insieme avevano ideato un piano che avrebbe salvato noi, la Panigal, e premiata l’intraprendenza e le ambizioni di Mario Ghini; un uomo che per il signor Lillo valeva molto più oro di quanto pesava, e comunque molto di più di quanto avrebbe potuto perdere agevolando i suoi concorrenti; che comunque prima o poi una soluzione l’avrebbero trovata.

Finanziata per la partenza dal signor Lillo, era quindi nata a Ceprano la CoMaG (Costruzioni Macchine Ghini) con lo scopo di costruire in serie quel nastratore, che noi ci eravamo impegnati a vendere a tutti i clienti che avessero voluto trasformare le loro 794 e a eventuali nuovi.

A guidare l’azienda, il signor Mario, aveva messo suo figlio Enrico, il quale si era impegnato a consegnarci la prima macchina destinata all’ impaziente Panigal alla fine di novembre dell’81. Ma tutti presi dall’entusiasmo: noi e la Panigal di aver trovato una soluzione al problema, e Mario ed Enrico di poter finalmente dar sfogo alle loro ambizioni imprenditoriali con una prospettiva più che certa, non avevamo però valutato appieno le difficoltà che comportava creare un’impresa e farla produrre, oltretutto in tempi strettissimi, e ci eravamo trovati nei guai. Enrico, Mario e il paio di meccanici ed elettricisti della Dosa che costituivano la sera, il sabato e la domenica l’organico della CoMaG, pur facendo del loro meglio non erano riusciti a consegnarci la macchina né a fine novembre né a fine dicembre. E quando la Panigal ci aveva dato un ultimatum per metà gennaio, non avevamo potuto fare altro che farla venire a Bologna per quella data anche se non era completamente finita e messa a punto. E a quel punto la cosa diventò di mia competenza.

Insieme al camion che aveva trasportato la macchina, arrivarono anche Enrico ed un elettricista, e la macchina fu messa in linea e collegata elettricamente e meccanicamente alla 794 in mia presenza, senza particolari difficoltà. Due giorni dopo, fatta la messa a punto funzionale, fu messa in produzione e cominciarono i problemi. Tutte stupidaggini, devo dire: si allentava un bullone, si sregolava una guida, si sfasava una camma; tutte cose rimediabilissime se non avessero causato danni collaterali come la rottura di pezzi, e ancora rimediabili 100

anche in quel caso se ci fossero stati pezzi a magazzino per sostituire rapidamente quelli che si rompevano. Ma la CoMaG era appena nata e fare scorta di pezzi a magazzino era stato l’ultimo dei suoi pensieri.

Così il mio compito divenne quello di tener calmo il direttore tecnico della Panigal, l’ingegner Davide Cagnolati, un compito che mi apparve subito difficile, ma che si rivelò invece facile.

L’ingegnere era infatti un omone alto e robusto che sfoggiava “sempre e con tutti” uno sguardo da cerbero e modi da duro, ma che in realtà, scoprii, servivano solo a mascherare la sua bontà d’animo e la disponibilità ad aiutare gli altri. Il suo braccio destro poi, l’ingegner Luigi Malagoli, che già in apparenza era l’opposto del suo capo in tutto: non troppo alto, magro e di modi fin troppo discreti e gentili con tutti; si rivelò il miglior collaboratore che avessimo potuto desiderare. Le cose finalmente cominciarono a filare per il verso giusto e alla fine del mese la Panigal accettò la macchina.

Da quanto vi ho raccontato quella non fu certo un’esperienza meritevole di essere ricordata per i suoi contenuti professionali, anzi, lo fu assai meno di molte altre che vi ho risparmiato, ma mi è rimasta in mente perché mi diede l’opportunita di conoscere, frequentare e diventare amico del signor Lillo e di suo fratello Gino, degli ingegneri Cagnolati e Malagoli, di Mario Ghini, ma soprattutto di Enrico. Un raporto durato molti anni con tutti loro ma che con Enrico fu davvero molto stretto. Lo seguii infatti con consigli e suggerimenti mentre costruiva in quel “deserto” senza alcun supporto tecnologico la sua impresa: prima con le nastratrici, poi con le manigliatrici “a nastro adesivo”, che ebbero un grande successo in particolare per i fardelli da sei bottiglie di acqua minerale; infine con le macchine per l’applicazione degli “sleeves”. Certo che i rapporti che avemmo come cliente/fornitore rimasero critici come la prima volta a causa della sua inguaribile mancanza di tempismo nelle consegne, ma mi ci ero affezionato e anziché arrabbiarmi mi limitavo a prendere atto del suo genio e della sua sregolatezza semplicemente chiamandolo il Caravaggio di Ceprano e cercando di tener buoni gli esasperati clienti. Mi dispiace di non aver più sue notizie da tempo; spero che stia bene e che le cose gli vadano bene.

Anche il rapporto con il signor Lillo durò molti anni: gli dovevo piacere molto. Mi invitò personalmente all’inaugurazione della sua grande cartiera e mi chiese, con una offerta molto generosa, ma senza successo, di diventare il “suo uomo su Bologna”dove, scoprii con sorpresa, aveva forti interessi di diverso genere. Scoprii anche, frequentandolo, che di interessi ne aveva un po’ dovunque in Italia e non solo, e che in Ciociaria era davvero una potenza; adorato dalla gran parte dei suoi abitanti cui con le sue imprese dava lavoro, e per quel motivo anche “molto ascoltato” a Roma. E per darvi un esempio di quanto fosse ascoltato vi racconto cosa credo combinò un giorno che ero da lui con Benazzi.

Eravamo andati a Castrocelo per chiudere un affare, ma la discussione aveva preso più tempo del previsto e stavamo rischiando di perdere il nostro aereo per Bologna. Niente di male, in altre circostanze 101

avremmo chiuso e volentieri a cena, ma Benazzi per ragioni sue voleva rientrare quella sera, e glielo disse. Il signor Lillo però voleva chiudere quel giorno, e lo tranquillizzò dicendogli che avremmo certamente fatto in tempo. Chiamò la segretaria, le disse qualcosa all’orecchio e questa sparì. Dieci minuti più tardi si affacciò sulla porta facendogli un cenno col capo e Benazzi e io venimmo a sapere che il nostro aereo aveva un “guasto tecnico”ma che sarebbe certamente partito; anche se con due ore di ritardo. E chiudemmo l’affare.

Quei quindici giorni in Panigal e le diverse visite al signor Lillo in Dosa mi danno lo spunto per un’altra delle mie modeste riflessioni. Né a me né a Benazzi era sfuggito che in entrambe le fabbriche le linee destinate a confezionare detergenti liquidi per piatti in flaconi di plastica crescevano di numero; e il signor Lillo, interrogato in proposito, ci aveva confidato che a suo avviso presto tutti o quasi i detergenti, compresi quelli per l’igiene personale, sarebbero diventati liquidi.

Costava infatti enormemente meno produrli in quella forma che in quella di polveri atomizzate o di saponette.

Era una previsione che, visto che noi non producevamo linee per liquidi e che le macchine per inscatolare polveri e avvolgere saponette rappresentavano ormai il nostro solo affare, era divenuta oggetto di riflessioni nelle riunioni di direzione; ma la questione era stata liquidata decidendo che Lillo e gli altri “piccoli” produttori come lui la pensavano in quel modo solo perché non potevano combattere che con il prezzo contro le grandi multinazionali. Ma queste ultime, era stata l’opinione generale e anche la mia, non sarebbero mai cadute nel tranello di combattere su quel piano e avrebbero certo difeso con il marketing le loro polveri e le loro saponette. Purtroppo, come dimostrano gli scaffali dei supermercati di oggi dai quali gli astucci di polvere e le saponette sono praticamente scomparsi, ci sbagliammo. Se avessimo realizzata allora una linea per liquidi - una cosa certamente alla portata delle nostre capacità tecniche - avremmo potuto combattere con onore e molto probabilmente anche vincere la gara fra i costruttori di macchine per soddisfare quella irreversibile scelta di marketing dei nostri clienti.

E salvare l’ACMA. Ma è meglio che la smetta di riflettere sugli errori altrimenti rischio di cadere in depressione, e che parli di successi; perché anche di quelli, anche se sempre meno, continuavamo a conseguirne. Come ad esempio il collaudo Sumitomo; il più impegnativo e complesso che un cliente ci avesse mai richiesto, ma anche importantissimo per gli effetti che avrebbe potuto avere se avesse avuto successo, che mi tenne impegnato dalla metà di maggio alla fine di luglio quasi senza soluzione di continuità.

Erano anni che tentavamo di penetrare l’impermeabile mercato giapponese con qualcosa di più consistente di qualche sporadica macchina qua e là, e il buon esito di quell’ordine di ben quatto linee di astucciamento e incartonamento per polveri detergenti da una conglomerata del calibro della Sumitomo, un gigante in Giappone e in tante altre parti del mondo, che si occupava di innumerevoli attività, poteva essere la referenza che ce lo avrebbe finalmente consentito.

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Certo la richiesta del cliente di approntare e collaudare presso di noi l’intero complesso simulando un vero reparto di produzione in funzione per tre turni di otto ore ciascuno ci aveva messo in imbarazzo, ma ci aveva anche offerto l’insperata opportunità di chiedere in cambio che una volta superato il collaudo le nostre responsabilità, a parte la fornitura di parti di ricambio o l’invio di nostri tecnici a pagamento, sarebbero cessate.

Prendemmo in affitto dalle parti di Castel Maggiore un capannone idoneo dove installammo le linee, e predisponemmo il necessario per la simulazione di produzione. Anche il cliente fece la sua parte inviandoci astucci, cartoni da spedizione e colle, e i primi di luglio arrivarono i tre tecnici giapponesi che avrebbero installato e condotto l’impianto coordinati da un certo Matsuo. Non furono due settimane facili quelle che seguirono: i tre giapponesi parlavano un inglese stentato e di certo il mio e quello dei due nostri montatori e dei due di Zucchini che mi affiancavano non era meglio, quindi incontrammo non poche difficoltà nel capire le loro domande, rispondere a tono e nel spiegare in modo chiaro e inequivocabile le procedure di messa a punto, di conduzione, di manutenzione e di pulizia; poi, dopo alcune brevi prove funzionali complete che ci dimostrarono che eravamo pronti per il test, demmo finalmente concordemente l’OK per fare arrivare la polvere.

Il primo giorno tutto andò liscio come l’olio, rendendo tutti, noi e loro, euforici, e anche il secondo cominciò e andò avanti per più di cinque ore nello stesso modo, poi, improvvisamente e senza una ragione visibile, molti astucci cominciarono a non essere incollati bene e a creare problemi sui “fine linea” di Zucchini, e l’euforia svanì. Senza fermare le macchine, che comunque si fermavano abbastanza di frequente per gli inceppamenti causati dagli astucci non chiusi, ci mettemmo ad osservarle nei punti che potevano causare il problema mentre i giapponesi controllavano astucci e colle, ma, dopo circa un ora, senza aver riscontrato nessuna anomalia, stremati, inermi e sudaticci ci sedemmo tutti intorno ad un tavolo a riflettere. Era quasi fine luglio, c’era un sole splendente, faceva un caldo pazzesco e nell’aria c’era un’umidità da far paura; pensai quindi di far circolare un poco d’aria per smettere di sudare. Mi alzai, andai alla manovella che apriva le grandi finestre situate a circa quattro metri d’altezza lungo tutte le pareti del capannone, rimaste chiuse negli ultimi tre giorni per evitare che la pioggia caduta in continuazione fino alla sera prima entrasse, la girai, e risolsi il problema.

Dopo pochi minuti che l’aria aveva ripreso a circolare, gli astucci ripresero ad incollarsi perfettamente e fino alla fine del turno, prolungato di tre ore per recuperare, tutto funzionò come il giorno prima. L’indomani le otto ore passarono senza problemi, e quando la sera ci trovammo tutti a far bisboccia alla Grigliata di Casadio, scherzando sull’umidità convenimmo che non provocava solo artriti: potevamo testimoniarlo!

Il giorno seguente, completate le procedure burocratiche e stesi verbali vari, affidai Matsuo e i suoi ad una addetta alle vendite per fare loro da guida in una breve visita turistica di Bologna e finalmente li 103

salutai. Era andato tutto molto bene; i giapponesi erano stati puntigliosi ma non pedanti, ma vi assicuro che venti e più giorni con quattro giapponesi a parlare di cose tecniche, senza mai una battuta o una risata, erano stati davvero lunghi e non vedevo l’ora di stare da solo, inoltre dovevo sistemare tutte le cose che avevo lasciato forzatamente indietro, fra le quali, organizzare il viaggio che subito dopo le ferie mi avrebbe portato per una intera settimana a vagare per l’entroterra algerino per visitare tre “siti” per produrre detergenti costruiti anni prima ma mai completati dalla società di ingegneria Italconsult di Roma e da allora rimasti abbandonati. Lo scopo del viaggio era vedere se le macchine che avevamo fornito c’erano ancora, in che stato erano, e fare un’offerta per ripristinarle e rimetterle in funzione all’Italimpianti di Genova che, nell’ambito di un accordo intergovernativo fra Italia e Algeria, si era impegnata a completarli. Una missione molto importante dal punto di vista economico, ma di tutto riposo e in luoghi che non avevo mai visto e quindi molto “stuzzicante”.

Mi diedi quindi da fare e riuscii a fare tutto, compreso accontentare un cliente inglese che voleva protezioni antinfortunistiche speciali per la sua inscatolatrice 782, che trovai presso la nascente MilPass di Roberto Milani e Paolo Passuti, inoltre, fatti i programmi dei voli, mi accorsi che al ritorno dall’Algeria avrei dovuto aspettare per tre ore a Roma il volo per Bologna, e riuscii ad organizzare un pranzo con Gerardo Fiorani, direttore tecnico della P & G di Santa Palomba, dalle parti di Pomezia: un vecchio e caro amico che per impegni miei o suoi non riuscivo a vedere da tempo. Poi, soddisfatto, me ne andai in ferie. Al rientro, in compagnia di Gilberto Ferrarini, il montatore che meglio conosceva le macchine che avevamo spedito laggiù, volai a Roma dove incontrammo un certo Cavatorta della Co.Ma.Co di Parma, che doveva fare per la sua azienda il mio stesso lavoro. Tutti insieme ci imbarcammo per Algeri, e all’aeroporto, come previsto, trovammo ad attenderci Mario, l’uomo dell’Italimpianti che aveva organizzato tutto laggiù e che ci avrebbe accompagnati nel viaggio.

-------------------- o -------------------Mario era un uomo più o meno della della nostra età, di poche parole ma molto cortese ed efficiente; dopo averci fatto fare una rapida visita agli uffici della società situati in un imponete palazzo bianco di epoca coloniale affacciato sul mare, altrettanto rapidamente ci informò che il giorno dopo alle undici saremmo volati ad Orano, dove avremmo pernottato, e il giorno successivo ci saremmo addentrati nell’entroterra in auto. Per primo avremmo visitato il sito di Ain-Temouchent, dove avremmo trovato un buon hotel; per secondo quello di Chelghoum-elAid, dove doveva esserci anche un cementificio e dove ci saremmo dovuti accontentare dell’ospitalità di una locanda non meglio specificata. Infine, dopo aver dormito una notte a Costantina, saremmo andati allo stabilimento di Sour-el-Ghoziane dove ci aspettava un discreto hotel. Poi saremmo tornati ad Algeri, e quindi, se non avessimo voluto fare un po’ di turismo, a casa. Un programma che non suscitò 104

obiezioni né richieste di chiarimenti. Rifiutammo concordi il suo invito a cena dicendogli che preferivamo andare un po’ a zonzo da soli e gli chiedemmo di accompagnarci in hotel.

Si trattava dell’hotel Eurassi, una costruzione gigantesca che dominava la collina che a sua volta dominava la città. Sistemammo i bagagli, facemmo una doccia, vagammo per un paio d’ore nella caratteristica zona del porto, e dopo aver cenato con ottimo pesce ai ferri; andammo a dormire e ci svegliammo tutti verso le cinque. Non ci eravamo messi d’accordo né dovevamo partire così presto; ma le nostre camere, l’una accanto all’altra su uno stesso lato dell’edificio, non distavano piu di venti metri dalla cima di un minareto dal quale un altoparlante diffondeva la preghiera del muezzim. Niente di tragico, specie per me che come vi ho già detto mi sveglio presto, e spesso a quell’ora, ma una sorpresa. Verso le otto ci alzammo, facemmo colazione e un altro giretto di un paio d’ore attorno all’albergo, poi Mario venne a prenderci e andammo all’aeroporto dove ci imbarcammo su un vecchio 737. Che forse era un po’ troppo vecchio.

Mentre facevo la fila per salirvi dal portellone di coda, evitai per miracolo delle goccie d’olio che cadevano dal motore centrale, e quando un poco allarmato segnalai la cosa all’ uomo in divisa che ritirava i biglietti, lui con un gran sorriso mi disse: “Nò problem”. E senza problemi in effetti, con un breve volo e con un inaspettato ottimo pasto a bordo, arrivammo ad Orano. Lasciammo i bagagli in albergo, ne visitammo il centro che aveva certamente avuto un importante passato ma che stava cadendo a pezzi, cenammo ancora con un ottimo pesce ai ferri e subito dopo ce ne andammo tutti a dormire.

Il mattino dopo ci avviammo in auto verso ovest, verso il Marocco, e dopo un paio d’ore di strada fra piccoli villaggi di case bianche con infissi azzurri raggiungemmo il primo sito. Non c’era gran che da vedere; gli enormi capannoni di cemento erano l’unica cosa che era rimasta quasi integra, tutto il resto era ruggine ed era stato depredato di quanto asportabile. Le nostre macchine erano però integre nella parte strutturale principale e le casse stagne contenenti gli organi di movimento non erano state toccate. Quelle della Co.Ma.Co erano invece distrutte. Presi i nostri appunti ce ne andammo al nostro albergo abbastanza ordinato e pulito - facemmo un giro nelle vie del centro, cenammo a base di montone - il mare era ormai lontano - e ce ne andammo a dormire presto. Il giorno dopo, ci aveva avvertito Mario, ci aspettavano quasi ciquecento chilometri di strada non proprio bella e almeno dieci ore di viaggio.

Ci alzammo presto ( ricordo che era ancora buio) e dopo aver fatto una rapida colazione e scorta di acqua e cibo ci avviammo. Non c’è molto da dire di quelle dieci ore: una strada a tratti indecente e a tratti appena decente; un traffico quasi inesistente ma pericolosissimo; e ai lati chilometri e chilometri di un deserto pietroso fatto di niente interrotto ogni tanto da gruppi di case senza nome, via via, sempre più piccoli. L’unica cosa che ricordo bene, è la richiesta perentoria che feci a Mario dopo che avemmo attraversato il primo di questi gruppi di case, che, per il tono, aveva sorpreso Gilberto, Cavatorta, e anche me! Dopo 105

aver visto un paio di ragazzini uscire di corsa da una di quelle porte azzurre e quasi finirci sotto le ruote, ero stato preso dal panico e mi ero ricordato dello Yemen. Gli avevo perciò quasi ordinato, urlando, di procedere a passo d’uomo ovunque ci fossero case o anche capanne: altrimenti sarei sceso e tornato a casa. Era già tarda sera quando scorgemmo in lontananza le ciminiere del cementificio e a poca distanza le strutture dei capannoni che dovevano essere la nostra meta.

La notte che seguì merita di essere raccontata.

Il nostro rifugio si rivelò una specie di casamatta di un solo piano di forse cento metri quadrati di superficie, con poche finestre e una sola porticina sovrastata da una lampada a penzoloni che illuminava un’ insegna con scritto sinteticamente hotel, e pur se pensammo che non era il massimo, per una notte poteva andare. Ci accolse un signore coi baffi degnamente vestito che molto gentilmente ci offri dei dolci che rifiutammo, al quale chiedemmo solo, stanchi morti, di mostrarci le camere. E lì cominciarono le sorprese spiacevoli: nella mia c’era un odore di “umanità” quasi nauseabondo; le lenzuola e il cuscino non erano forse mai state cambiate e lavate dall’inaugurazione e nell’armadietto metallico da palestra che fungeva da guardaroba facevano bella mostra un pigiama marrone che odorava di tabacco e non solo, e due ciabatte che certamente avevano visto tempi migliori.

Sul momento pensai di chiederne un’altra, ma era quasi mezzanotte ed ero stanchissimo, e quindi, senza andare alla toeletta per non avere altre sorprese, mi avvolsi la testa con un asciugamano che avevo con me per non toccare il cuscino, mi coricai vestito cercando di non respirare con il naso e senza accorgermene mi addormentai. Ma fui risvegliato di soprassalto da un forte bussare alla porta e da urla incomprensibili, ma non certo amichevoli.

Non sapendo cosa stesse succedendo, mi misi le scarpe e mi diressi alla finestra per aprirla e uscire eventualmente da quella parte, se fosse stato necessario, ma mentre mi apprestavo a farlo, alle urla se ne sovrapposero altre appartenenti certamente ad un’altra persona. A queste si aggiunse un feroce abbaiare di un grosso cane. Le urla si trasformarono in una conversazione concitata, il cane cessò di abbaiare e tornò il silenzio. E io tornai a dormire. Il mattino dopo i miei compagni di viaggio mi chiesero se avessi sentito anch’io quel trambusto e quando dissi loro che l’oggetto delle urla e del bussare alla porta erano stati la mia camera e io che ero dentro, rimasero di sasso.

Alla richiesta di spiegazioni che Mario fece all’albergatore, questi tergiversò facendo finta di non capirlo, e quindi, senza insistere, visto che in fondo non era successo niente, facemmo i bagagli, li mettemmo in auto e ci avviammo verso i capannoni lontani circa un chilometro. Nel breve tragitto, Mario si scusò con me, e fece un’ipotesi su quanto accaduto: a suo avviso nella mia camera soggiornava qualcuno che doveva fare il turno di notte al cementificio e l’albergatore doveva aver pensato che fosse un vero peccato lasciare quel letto vuoto. Era una ipotesi molto realistica; al posto dell’albergatore pensai, molti avrebbero fatto lo stesso, e al posto dello “sfrattato” io avrei reagito decisamente peggio.

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Quel secondo stabilimento, notammo subito, non era stato depredato come il primo, forse perché vicino al cementificio che certamente determinava un certo via vai di gente e forse anche perché troppo lontano da centri abitati e da possibili predatori. I macchinari però, e anche il pavimento, erano ricoperti da uno strato uniforme di guano; spesso in alcuni punti anche più di cinque centimetri, e da carcasse di uccelli morti. Le grandi finestrature erano quasi tutte aperte e centinaia di piccioni svolazzavano ovunque. Prendemmo in fretta nota di tutto e per non rischiare di dover dormire di nuovo nel posto della sera prima ci avviammo spediti verso Costantina dove, senza inconvenienti, arrivammo in tarda serata. Mangiammo solo un paio d’uova fritte in albergo e andammo subito a dormire.

Il mattino, riposati e finalmente puliti facemmo una sontuosa colazione, ci prendemmo tre o quattro ore per fare i turisti e scoprimmo che quella citta doveva essere stata davvero bella; i segni della sua bellezza si vedevano ancora nei suoi grandi palazzi ormai decadenti. Mi colpì anche la folla di giovani di bell’aspetto e ben vestiti che ne affollavano strade e caffè; certamente in gran parte studenti della sua famosa università. Ma la cosa che mi impressionò più di tutte fu il ponte di ferro e ghisa che scavalcava un profondo orrido proprio nel centro della città: impressionante per la sua raffinata fattezza, per la sua altezza sul suolo sottostante ma soprattutto per i bassissimi parapetti in ghisa fusa che separavano i pedoni dal vuoto; non più alti di ottanta novanta centimetri, e quindi a mio sentire pericolosissimi! Dopo aver pranzato decentemente lasciammo la città e ci dirigemmo, in direzione di Algeri, verso Sour-el- Ghoziane, dove, dopo aver attraversato finalmente verdi colline coperte di ulivi e querce da sughero e fatto un lungo tratto di strada al fianco di un fiume ricolmo d’acqua, arrivammo all’imbrunire.

Il paese non era né piccolo né grande, trovammo subito il nostro albergo; cenammo leggeri, facemmo quattro passi nei pressi e ce ne andammo a dormire. Memori del tempo che avevamo impiegato negli altri due stabilimenti per fare il nostro lavoro, e considerando che il programma prevedeva tutto il giorno in quel sito e il pernottamento nello stesso albergo, il mattino ce la prendemmo con calma. Fatta colazione all’aperto, facemmo un poco i turisti e notammo subito che dovevamo trovarci in una zona abitata da una forte maggioranza di islamici osservanti. Tutte le donne, come a Taiz in Yemen, erano vestite di nero e di loro si scorgevano solo gli occhi. Finito il giretto ci recammo alla fabbrica e ci trovammo davanti ad una fotocopia di quanto avevamo visto a Ain-Temouchent: anche quella era una zona densamente abitata e i predatori avevano pensato bene, visto che nessuno se ne curava, di prelevare da quella fabbrica tutto quanto pensavano potesse loro servire. Prendemmo nota con calma di tutto quanto ci interessava e tornammo all’albergo.

Era finita! Faceva un gran caldo e ci sedemmo all’ombra e, ne fui convinto allora e lo sono tuttora, facemmo una cosa da non fare mai!

Avevamo visto le donne coperte da capo a piedi di vestiti neri e dovevamo aver capito che aria tirava da quelle parti! E invece non 107

avevamo capito un accidente visto che chiedemmo quattro birre.

L’espressione cordiale del cameriere mutò infatti di colpo e con voce tagliente ci disse in italiano che da lui non si beveva birra ma solo acqua, aranciata o limonata! E li facemmo la seconda cavolata: sorseggiando le bibite scherzammo troppo e a voce troppo alta sulla rigidità dei dettami del Corano riguardo all’alcool. Dopo aver fatto un altro giretto, cenammo in albergo, e nel masticare un pezzo di pollo allo spiedo ebbi la spiacevole sensazione che non fosse ben cotto e un poco troppo frollato; ma ormai l’avevo inghiottito. Dormimmo benissimo, ci alzammo di buon ora, facemmo colazione e i bagagli, e partimmo. La strada per Algeri era lunga e non volevamo arrivare di notte, ma quasi quasi non arrivammo per niente!

Eravamo partiti da circa un’ora quando quasi contemporaneamente Cavatorta e io cominciammo a stare male, ma male davvero! Sentivamo terribili fitte all’intestino e necessità continue. Anche Cavatorta, come me, aveva mangiato il pollo, ma non gli era sembrato ne crudo ne marcio, ma i sintomi che avevamo erano quelli di una bella, si fa per dire, infezione intestinale, e cominciammo a bere come oche, ma le fitte erano sempre più lancinanti e le necessità sempre più frequenti e improvvise. Stremati e disidratati incitavamo Mario, che invece come Gilberto non accusava nessun disturbo, a correre verso Algeri e cominciammo a prendere, una dopo l’altra, compresse di un antibiotico potentissimo, il Bimixin, che portavo sempre con me; ma il cui dosaggio raccomandato era di una, massimo due compresse al dì. Ad un certo punto, fra un gruppo di casupole in mezzo al nulla, scorgemmo una croce verde che ci apparve come un miraggio e ci dirigemmo di corsa verso l’edificio sulla quale era appesa sperando di trovarvi soccorso, ma come salimmo i tre gradini che portavano all’interno, Cavatorta, che mi precedeva, lanciò un urlo, si girò di scatto gridando che lui in quel posto non si sarebbe fatto visitare da nessuno e, scansandomi uscì di corsa.

Effettivamente il luogo non sembrava molto affidabile: nel corridoio che avevamo imboccato si aggiravano indisturbate alcune pecore! Uscii anch’io, e con Gilberto e Mario tentammo di convincere Cavatorta a rientrare; ma non ci fu verso e quindi ci rimettemmo in strada. Per due lunghissime ore continuammo a stare malissimo, poi, fortunatamente, il Bimixin cominciò a fare il suo dovere. I dolori da lancinanti divennero solo forti e le necessita diminuirono; anche perché non dovevamo avere più niente nell’intestino. Arrivammo all’Eurassi a notte fonda e Mario, tranquillizzato dallo stato mio e di Cavatorta nettamente migliorati, ci salutò dandoci appuntamento per salutarci il mattino dopo e accompagnarci all’aeroporto. Ci avviammo distrutti alla reception e scoprimmo di non avere più le nostre camere! Eravamo, ci dissero, arrivati fuori orario, e le nostre tre camere erano state date ad altri.

Avremmo dovuto avvertire! E avevano ragione!

Spiegammo il nostro stato al direttore, che dopo averci pensato un poco ci disse che l’unica cosa che poteva fare era di farci dormire in una camera di un villaggio turistico in costruzione sulla spiaggia, ad una diecina di chilometri di distanza. Le camere, ci disse, non avevano ancora le porte, ma c’erano acqua corrente, luce elettrica e brandine da 108

spiaggia a volontà; se volevamo potevamo andarci in taxi accompagnati da un suo uomo. Volevamo! Nonostante tutto dormimmo, ma quando ci svegliammo io e Cavatorta stavamo di nuovo male, non malissimo, ma non eravamo certamente in forma. Fortunatamente fuori dal villaggio c’era Mario, che all’Eurassi avevano informato del nostro cambio di sistemazione. Con lui tornammo in albergo dove prendemmo una sola camera per lavarci e cambiarci, e io telefonai a Gerardo a Roma per dirgli quello che ci era capitato e suggerirgli di rimandare il nostro pranzo. Ma lui, pur se con un tono di voce un po’ strano, ribattè che sarebbe comunque venuto all’aeroporto per salutarmi.

Anche all’aeroporto non andò tutto liscio; avemmo qualche difficoltà in quanto non avevamo confermato le prenotazioni del volo, difficoltà che misero in crisi Cavatorta. Prima andò in escandescenze con il malcapitato addetto al check - in urlandogli in parmense invettive di ogni genere; poi se la prese con il povero Mario dicendogli che lui in quel posto non ci sarebbe stato un’ora di più e che si desse da fare per trovare un altro volo per l’Europa oppure per noleggiare o comprare una barca. Ovviamente con le barche esagerava, ma fortunatamente riuscimmo a imbarcarci: si calmò e un paio d’ore più tardi atterrammo in orario a Roma dove trovammo Gerardo, che palesemente sollevato di vedermi in uno stato migliore di quello che si era forse immaginato, ci portò tutti a mangiare nel paese di Fiumicino ottimi tonnarelli mari e monti. Poi ci riportò agli imbarchi e se ne andò di corsa.

Un gesto strano che mi lasciò perplesso visto che era venuto fino lì e che sapeva che il nostro volo per Bologna partiva molto tardi, ma che mi spiegò tempo dopo sua moglie facendomi davvero molto felice. Il giorno prima della mia telefonata da Algeri, il padre di Gerardo era stato ricoverato per un malore, e da quel momento lei e lui avevano dedicato il loro tempo a stargli vicino all’ospedale. Ma la mia telefonata aveva allarmato Gerardo che era voluto ad ogni costo venire a sincerarsi delle mie condizioni. Bèh, che dire, avevo scoperto di avere un altro amico vero, di quelli che ci sono quando se ne ha bisogno.

A casa non dissi niente a Luciana dell’avvelenamento e dei miei sospetti sull’albergatore; e visto che stavo ogni giorno meglio non andai neppure dal medico. Nei giorni che seguirono, con l’azienda in agitazione per l’annuncio ufficiale che in un’area di ben cinquantamila metri quadri alla fine di via Cristoforo Colombo, in primavera sarebbe cominciata a sorgere la nuova ACMA, preparai con l’ufficio ricambi una bella offerta per oltre sette miliardi di lire di valore, e, accompagnato dal signor Borghi, la portai all’ingegner Odino, direttore acquisti dell’Italimpianti di Genova, dove feci un colpo niente male per la mia ACMA, che mi compensò ampiamente dei disagi subiti in quel viaggio.

Dopo avere esaminato tutti gli aspetti tecnici dell’offerta, quando arrivammo a parlare di soldi l’ingegner Odino ci chiese con naturalezza quello che forse per lui era uno sconto abituale da parte dei suoi fornitori; ma aveva preso male. Io ero uno che leggeva molto e di tutto, e da un trafiletto di poche righe sul Sole 24 ore avevo imparato che l’Italimpianti aveva ricevuto per quel ripristino la mostruosa ciffra di cento miliardi e che si era impegnata a portarlo a termine in tempi così 109

stretti che solo con il nostro aiuto avrebbe potuto rispettare. Avevamo il coltello dalla parte del manico e lo usai; anche se con 15% di sconto che ci aveva chiesto per noi quello sarebbe comunque stato un grosso affare, decisi che non era giusto lasciare quei soldi all’Italimpianti; e anticipando Borghi che quasi certamente lo avrebbe concesso dissi a Odino che ero molto dispiaciuto ma il 3% era lo sconto massimo che i nostri capi americani ci autorizzavano per ordini di quell’entità. E feci centro. Odino guardò un attimo Borghi che per fortuna alzò solo le spalle con una convincente espressione di impotenza; e l’ACMA portò a casa la bazzecola di 840 milioni in più.

Il resto dell’anno se ne andò con i dolori a stomaco e intestino, senza che fosse stato necessario l’intervento di un medico, e senza altri fatti degni di nota, mentre il 1983 esordì alla grande con l’inizio dei lavori per la costruzione del nuovo stabilimento. Lavori che scoprii tanto affascinanti da mettermi a seguirli ogni fine settimana dispiacendomi ogni volta di essere diventato un meccanico e non un edile. Quei lavori mi diedero nuova fiducia sul futuro dell’azienda, ma la riunione di direzione di metà febbraio cambiò tutte le carte i tavola.

Borghi ci informò infatti con aria molto seria che il portafoglio ordini era del 15% inferiore a quello dell’anno precedente. Era la prima volta negli ultimi venti anni che il portafoglio diminuiva anziché crescere: una gran brutta novità; che nel contesto dell’impegno appena preso per la nuova fabbrica assumeva contorni a dir poco preoccupanti. A quel pensiero, aggiunsi anche fra me e me la costante diminuzione della “riserva di garanzia”, un serbatoio noto solo oltre a me che lo utilizzavo, a Borghi, Benazzi, Ferrari e Pratellini, il direttore amministrativo, causata dalla sempre più frequente necessità di fornire pezzi e prestazioni, appunto in garanzia, e uscii quindi da quella riunione senza più quella fiducia nel futuro che la costruzione del nuovo stabilimento mi aveva ispirato, e mi tormentai per gran parte della notte pensando che la nuova fabbrica, anziché ridarci slancio, avrebbe potuto farci precipitare verso la fine.

Comunque, visto che Borghi ci aveva spronato tutti a darci da fare per tornare al più presto a “crescere”, un incitamento tanto in voga anche in questi malandati ultimi anni italiani che tanto mi ricordano quelli dell’ACMA di allora, anch’io come credo tutti gli altri miei colleghi mi diedi da fare, e spalleggiato da Benazzi, mi inventai delle azioni promozionali di assistenza tecnica gratuita presso quei clienti già acquisiti che potenzialmente potevano necessitare di nuove macchine.

E devo dire che pur se il primo viaggio che feci in quell’ambito verso la metà di marzo per andare a solleticare il signor Waldstein non portò né subito né più tardi alcun risultato concreto, qualcosa da ricordare e raccontare me lo lasciò.

-------------------- o ------------------Lo spunto per quell’iniziativa, me la diede proprio il signor Waldstein in persona che, con una telefonata “disperata” mi chiese di inviargli quanto prima un montatore a istruire sulla nostra 756 per avvolgere 110

zollette di zucchero, un nuovo capo meccanico che aveva dovuto assumere per sostituire il precedente che se ne era andato improvvisamente. Avrei potuto semplicemente aderire alla sua richiesta e mandare uno dei nostri tecnici a pagamento, ma quell’ aziendina sperduta fra le montagne Bavaresi che produceva una vasta gamma di prodotti per prima colazione da hotel, sembrava avere, secondo il nostro agente, ottime prospettive di crescita, vista la crescita generalizzata del turismo, inoltre la 756 l’avevo disegnata quasi tutta io e la conoscevo benissimo, e quelle zone ai limiti dell’est - il muro non era ancora stato abbattuto - non le conoscevo invece per niente e mi incuriosivano. Gli proposi quindi di andare io gratuitamente, e lui ovviamente accettò di buon grado.

Partii in auto il mattino presto del giorno prima di quello che avevo concordato per essere là, e verso mezzogiorno arrivai a Straubing, un paesino da favola a nord est di Monaco di Baviera, vicino al confine con la Repubblica Ceka. Per tutto il pomeriggio mi aggirai sulle innevate colline circostanti godendomi panorami da favola; la sera percorsi affascinato le stradine di quel paesino davvero incredibile, e dopo una grassa cena bavarese me ne andai soddisfatto a dormire in un hotel per fate. Il mattino seguente me la presi comoda, andai ancora un po’ in giro, pranzai, e nel primo pomeriggio arrivai come previsto alla fabbrica, dove fui ricevuto con grande deferenza dal signor Waldstein, da sua figlia e dal capo meccanico. Spesi gran parte del pomeriggio in giro per la fabbrica accompagnato dalla figlia, molto carina; scambiai quattro chiacchere con il nuovo addetto alla manutenzione che oltre a parlare un buon inglese mi parve sveglio e con la voglia di dimostrarlo; e alla sera feci una delle cene panoramiche più belle della mia vita. Se non la più bella. Il signor Waldstein mi volle infatti suo ospite nella sua incredibile casa fra i boschi, e cenai davanti ad una enorme vetrata dalla quale potei assistere all’abbeverata di un gruppo di maestosi cervi in una pozza appositamente scavata e sapientemente illuminata per non disturbare i “clienti”. Mica male, vero!?

Il giorno dopo, in tre o quattro ore insegnai al tecnico tutto quello che mi sembrava utile insegnargli, poi fui io a chiedere qualcosa a lui. A valle della nostra 756 c’era una macchinetta che formava uno strato di zollette e ne inseriva uno o più in un astuccio a “cielo aperto”, che un’altra macchina avvolgeva poi con film plastico. Quest’ultima era una delle mille sul mercato che facevano quel lavoro, mentre non avevo mai visto un’astucciatrice come quella e soprattutto non avevo mai visto una macchina azionata esclusivamente da “motori passo passo”. Quei motori erano una novità tecnologica recente e venivano utilizzati dalle nostre parti solo per servizi poco gravosi; chiesi quindi al tecnico di poterla fotografare. Salutai tutti grato per l’accoglienza e a tarda sera arrivai a casa. Il giorno dopo consegnai a Maria il rullino delle foto da dare a Rueff per documentazione e mi dimenticai della faccenda. Ma la faccenda non finì lì.

Dopo solo pochi giorni Benazzi mi chiamò da lui e mi chiese di contattare il signor Waldstein per avere il nome del costruttore di quella macchinetta in quanto voleva che ne costruisse anche per noi. Un 111

po’ stupito per quell’iniziativa - come sapevo io, anche Benazzi sapeva benissimo che il mercato delle zollette di zucchero era in discesa verticale e di quella macchinetta se ne sarebbero potute vendere si e nò un paio - per togliermi il pensiero chiamai subito Waldstein, di fronte a lui, il quale, pur dicendoci di non poterci aiutare in quanto la macchina era stata costruita su una sua idea da un suo amico che però era fallito e sparito dalla circolazione, ci invitò ad andare a copiarla quando ci pareva e costruirne quante ne volevamo senza dovergli nulla. Lo ringraziai, e gli dissi che ci avremmo pensato e gli avremmo saputo dire, ma mentre glielo dicevo, mi era venuta in testa una strana idea, anzi una folle idea.

Prima e dopo la proposta di Belloli e Battisti che avevo rifiutato, mi erano capitate altre occasioni di fare l’imprenditore in società con qualcuno - una cosa abbastanza normale in quei tempi nei quali nuove aziende spuntavano come funghi - ma le avevo sempre lasciate perdere per le stesse ragioni di quella volta. Tuttavia quel pomeriggio, senza una ragione, mi sentii pervadere da un incontenibile spirito imprenditoriale e mi sentii stupito dire ad un ancor più stupito Benazzi che la macchina gliel’avrei fatta io. Sul momento, come dicevo, mi guardò stupito, ma subito dopo, senza chiedermi né cosa né come, mi disse di procedere senza indugio a fare tutto il necessario per fargli un ‘offerta concreta.

Come uscii dal suo ufficio confesso che per un attimo mi diedi dello stupido per quella iniziativa, ma fu solo un attimo; mi misi infatti subito a pensare a come mantenere al meglio l’impegno che avevo preso. La prima cosa che mi venne in mente fu che mio fratello Dante era un elettronico molto bravo, appassionato di quella materia, aggiornato su tutte le novità, e che per mestiere conosceva artigiani di ogni genere in grado di costruire ogni cosa. La seconda che Gilberto Ferrarini - il montatore che era stato con me in Algeria e con il quale avevo fatto amicizia - mi aveva accennato più volte di aver voglia di fare qualcosa per proprio conto nel suo garage/officina. Non avevo bisogno d’altro: se Dante e Gilberto fossero stati d’accordo, fare quella macchina sarebbe stato un “gioco”.

Quella sera stessa li chiamai, ci incontrammo, furono entrambi entusiasticamente d’accordo, e da li a pochi giorni nacque la ATA (Applicazioni Tecnologiche Avanzate), che, fatta l’offerta all’ACMA e ricevuto l’ordine ufficiale, cominciò la sua attività. Io in pochi giorni disegnai le parti meccaniche; mio fratello, dopo aver individuato ingrandendo le mie foto le caratteristiche e il produttore dei motori ne progettò le schede per “pilotarli” e fece costruire pezzi meccanici e schede ai suoi fornitori; Gilberto montò con facilità il tutto; e dopo qualche “pena elettronica”, peraltro superata rapidamente da Dante, alla fine delle ferie d’agosto la macchina fu accettata, consegnata e pagata. Sarebbe stata esposta, mi disse Benazzi, alla fiera di Dusseldorf dell’anno dopo.

A questo punto forse penserete che la mia vita cambiò indirizzo e obbiettivi, ma non fu così. Nonostante dopo tanti anni di sole chiacchere, mi fosse piaciuto tornare a fare il disegnatore e partecipare alle diverse fasi della costruzione e messa a punto di quel gioco, lo 112

spirito imprenditoriale che mi aveva spinto ad impegnarmici mi abbandonò all’indomani della sua conclusione e, forse deludendo i miei due soci, mi dimenticai completamente dell’ATA e ripresi a fare solo il mio mestiere. Mestiere che verso la fine di settembre mi portò per un altro viaggio promozionale, in Africa questa volta, e in un angolo di quel continente che non conoscevo e quindi di per sé stuzzicante.

-------------------- o ------------------Il viaggio era stato sollecitato e organizzato dal mio amico Salomon; che si occupava non solo della Francia ma anche delle sue terre oltremare, e se non avessi dovuto portare con me anche Ermanno Cornia, contitolare della UTIT di Modena e nostro partner per l’automazione di linee complete, sarebbe stato un viaggio vacanza del quale sarei qui a ricordare solo cose interessanti e anche molto piacevoli. Invece, per la sola sua presenza sul volo Swissair che ci portò da Zurigo ad Abidjan, in Costa d’Avorio, incorsi in un episodio del quale avrei fatto volentieri a meno. Non che su quel volo successe qualcosa di speciale, fu anzi un volo perfetto: solo che impegnato a parlare con Ermanno di lavoro per tutto il tempo, non ebbi modo di leggere, come avrei certamente fatto se fossi stato solo, la rivista della compagnia aerea che stava nella tasca posteriore del sedile davanti al mio. Se l’avessi letta, non avrei solo migliorato il mio francese, ma avrei imparato cose a dir poco preziose sulla Costa d’Avorio e in particolare su Abidjan.

Avrei letto ad esempio, come feci purtroppo solo sul volo di ritorno, che in quel periodo dell’anno ad Abidjan faceva un caldo feroce, e che il controllo dei biglietti, dei passaporti e dei visti, a causa dei lavori in corso per la ristrutturazine dell’aeroporto, veniva effettuato ai piedi della scaletta di discesa dagli aerei; e mi sarei certamente preoccupato di bere molta più acqua di quanto avevo fatto in volo. Ci stetti in piedi infatti quasi un’ora su quella maledetta scaletta, mentre ai suoi piedi un soldato in tuta mimetica controllava con lentezza esasperante i documenti di ogni passeggero, e feci un vero e proprio bagno di sudore, che, impregnando i miei jeans nuovi, mi fece macchiare di blu le belle scarpe di tela coloniale che avevo comprato apposta per quel viaggio.

Comunque, con l’aria condizionata del taxi ci ristorammo in fretta, e quando arrivammo in hotel dove trovammo Cristian, arrivato il giorno prima per organizzare il tutto, eravamo di nuovo quasi a posto. L’hotel era molto bello: espletammo in fretta con l’aiuto di Cristian tutte le formalità, e ci sedemmo con lui nella hall per reidratarci con, credo, due bottiglie intere a testa di acqua minerale. Poi Cristian, sorridendoci maliziosamente, ci sollecitò ad andare a farci una bella doccia e a rilassarci in attesa dell’ora di pranzo, aggiungendo che se non ci avesse visti dopo un’ora, avrebbe pranzato da solo. Un sorriso e una premura che mi parvero un po’ strani, ma che capii non appena l’inserviente che mi aveva accompagnato con la valigia mi fece strada in camera. Una splendida ragazza nera, più alta di me, abbigliata con raffinatezza e con un sorriso da reclame per un dentifricio mi venne incontro e mi disse in 113

un buon italiano: “Buon giorno signor Tabaroni, ben arrivato: mi chiamo Annette e sono la sua escort di camera, a sua completa disposizione per tutto il tempo del suo soggiorno”; e concluse ammiccando: “Il mio compenso è gia compreso nel prezzo della camera!”

Una sorpresa che devo dire mi lasciò a bocca aperta: non avevo mai sentito parlare di escort, un termine oggi piuttosto diffuso, vi giuro però che non mi rilassai. Mentre lei sistemava con cura le mie cose feci una bella doccia, mi cambiai, e raggiunsi Ermanno e Cristian al ristorante dove, pranzando con ostriche fresche della Normandia arrivate in aereo insieme a noi, venni a sapere tutto su quell’originale “servizio in camera”. Le ragazze, ci disse Cristian che sorpreso pure lui si era naturalmente già informato, erano tutte belle, educatissime, poliglotte, istruite - alcune a livello universitario - e molte avevano soggiornato all’estero, specialmente a Parigi. Erano inoltre “garantite” dal punto di vista sanitario e davvero a “completa disposizione” dei clienti; che peraltro potevano rinunciare in tutto o in parte ai loro servizi.

Comunque il loro costo era compreso nel prezzo della camera, non indicato a parte, e non poteva essere dedotto in caso di rinuncia.

Capita l’antifona e finito il pranzo, Cristian ci disse, deludendoci un poco, di essere riuscito ad organizzare solo due visite, entrambe in una città chiamata Bouakè, polo industriale nel nord del paese, dove sperava di convincere due clienti consolidati a comprare macchine di “fine linea”. Una delusione, come dicevo, per le prospettive d’affari; ma almeno, da quanto avevo capito, avrei fatto un viaggio interessante.

Avremmo infatti attraversato con un fuoristrada un bel pezzo di Africa nera; prima fino a Yamoussoukro - la nuova capitale ancora in costruzione nell’ ex villaggio natale del presidente - dove avremmo dormito, poi fino a Bouakè.

Eravamo sazi, riposati e rilassati, e facemmo un po’ i turisti, ma decidendo di andare a dare un’occhiata a un mercatino nei pressi dell’albergo, “ci giocammo” la compagnia di Ermanno. Quando vide le carni esposte coperte di mosche, cominciò a vomitare in un modo così violento da consigliarci di riportarlo subito in camera. E non finì lì: anche disteso sul letto i sintomi non passavano. Preoccupati gli suggerimmo di chiamare un medico, ma lui non volle sentire ragioni e ci chiese perentoriamente di prenotare il primo volo disponibile per tornarsene a casa. Non essendo la sua presenza indispensabile, non insistemmo per farlo desistere e per non prenderci responsabilità lo accontentammo riuscendo a fargli prendere a tarda sera lo stesso aereo con il quale eravamo arrivati.

Rientrati in albergo cenammo leggeri al ristorante in compagnia delle nostre splendide escort, fra l’altro simpaticissime, e con loro ci recammo dopo nel bar attiguo a vedere che genere di gente viaggiasse in quel paese e possibilmente fare pubbliche relazioni. Il bar era pieno di ragazze nere e bianche, tutte molto belle, di uomini neri vestiti elegantemente con abiti europei oppure con uniformi militari, e di un campionario vastissimo di uomini bianchi e gialli ai quali ci mescolammo tenendo le antenne ritte per captare qualche informazione utile o fare conoscenze interessanti. E di conoscenze, se 114

non interessanti originali, io ne feci subito una: un biondo nordico palesemente alticcio mi apostrofò in inglese chiedendomi cosa facessi laggiù; e quando gli risposi che vendevo macchine automatiche per l’imballaggio, mi guardò per qualche secondo con gli occhi appannati e, sbottando in una fragorosa risata, fece con le braccia il gesto inequivocabile di chi sta usando un fucile automatico dicendo in un inglese inconfondibile: “Ah già, sì, sì, macchine automatiche vero? ta -ta ta -ta -!!!”

Cose da pazzi! Vendevano, scoprimmo dopo, quasi tutti armi!

Davvero! Quello era l’affare del momento in quel posto! Sembrava proprio di essere attori di quel famoso film con Alberto Sordi; solo che non era un film. Eccitati per quanto avevamo appena vissuto, ma delusi dalle prospettive per noi, ce ne andammo a letto. L’indomani salutai Annette, che però mi sembrò offesa. Forse si era aspettata più attenzione. Avrei voluto dirle che avevo dovuto fare un grosso sacrificio a lasciarla dormire sola nella sua cameretta, perché era una ragazza davvero splendida e certo il sogno di moltissimi uomini, ma non lo feci.

Scesi nel ristorante, facemmo colazione e lasciammo Abidjan imboccando stupiti una fantastica autostrada a quatto corsie per senso di marcia il cui inizio era segnalato con un enorme cartello che portava scritto: Autoroute du Nord. Rimasi un po’ deluso; mi aspettavo un viaggio più avventuroso su uno “sterrato selvaggio”, ma la mia delusione durò solo una ventina di minuti. Dieci o forse quindici chilometri più avanti un cartello altrettanto gigantesco annunciava: Fin de l’Autoroute du Nord, e piombammo di colpo in un viottolo di rossa terra battuta in mezzo alla foresta della vera Africa nera.

Attraversammo piccoli villaggi dove nerissimi maschi nudi stavano sdraiati all’ombra mentre le loro donne lavoravano letteralmente come “negre“ e ci fermammo un paio di volte per fotografarli pagando l’equivalente di un dollaro: una vera fortuna per loro. Guadammo anche piccoli corsi d’acqua, vedemmo piante coloratissime cariche di fiori e frutta di tutti i generi, e ogni tanto, ai lati della strada, montagne di avocado che marcivano al sole. Scorgemmo anche tanti uccelli diversi e qualche scimmia, ma nessun animale di grossa taglia. Comunque, tutte cose mai viste e quindi interessanti; ciò che però più mi impressionò fu l’incredibile numero di auto evidentemente semidistrutte da incidenti abbandonate ai lati della strada: imparai solo sull’aereo al ritorno, sempre leggendo la famosa rivista, che quella era ritenuta in assoluto la strada con il più alto numero di incidenti del mondo! Non sapendo questo, l’unico pensiero che mi fecero venire quelle carcasse fu che molti avevano sicuramente tratto vantaggi da quegli incidenti, visto che le multicolori casette dei villaggi erano quasi tutte costruite con cofani, sportelli e vetri d’auto.

Il nostro viaggio andò comunque benissimo e nel tardo pomeriggio quando il viottolo si riallargò improvvisamente tornando ad essere una splendida e deserta autostrada a otto corsie, capimmo di essere arrivati a Yamoussoukro. Ai lati della strada cominciarono a sfilare ville bellissime con prati all’inglese perfettamente curati, giardini e fontane disegnati certamente da architetti. Scorgemmo anche un campo da golf 115

adeguatamente innaffiato, dopo il quale, le ville sparirono e ci ritrovammo a costeggiare per un paio di chilometri un muro alto seisette metri; all’interno del quale, imparammo in albergo, vivevano il presidente e i suoi più stretti collaboratori! Una fortezza pensai, ma che spreco! Non sto a descrivervi nei dettagli l’albergo dove dormimmo e cenammo, perché quasi mi vergogno: vi dico solo che era una torre di una ventina di piani interamente rivestita di lucidissimo rame e vetrate corazzate, e il ristorante di un lusso tale da farci sentire in imbarazzo nei nostri abiti sportivi. Le due coppie di raffinati ed eleganti giovani neri cui cenammo a fianco, erano poi l’emblema di come diversamente si vivesse in quella capitale da cartolina rispetto al resto del paese.

Avevano al polso quattro orologi il cui valore poteva facilmente corrispondere al reddito di tutta la vita di almeno dieci lavoratori del posto, ma forse di molti di più.

Nella tarda mattinata del giorno dopo senza particolari problemi o cose interessanti da raccontare arrivammo a Bouakè e facemmo le visite previste, che, pur piacevoli - le nostre macchine funzionavano perfettamente e i nostri interlocutori, tutti francesi bianchi, furono molto affabili e gentili - furono brevi e purtroppo del tutto inutili. I responsabili di entrambe le fabbriche, come se si fossero messi d’accordo, ci dissero senza mezzi termini che i sistemi di logistica interna e d’imballaggio di “fine linea” erano del tutto inutili in quel paese: almeno fino a quando il costo giornaliero di un manovale sarebbe rimasto inferiore al costo dell’energia necessaria a muovere, per lo stesso periodo di tempo, un solo motore elettrico di piccola potenza. Senza contare, aggiunsero, che mentre la disponibilità di energia elettrica era poca e discontinua, la manodopera era abbondante e disposta agli orari più duri pur di lavorare. Le diecine di donne che certamente avevamo notato accalcate fuori dei cancelli erano li a testimoniarlo! Così ci disse ridendo uno dei responsabili della seconda fabbrica: erano lì, e ci stavano giorno e notte rifornite dai parenti di cibo e acqua per non perdere il posto in attesa di essere chiamate.

Dopo quell’edificante notizia ce ne tornammo a Yamoussoukro dove, quasi a notte fonda, cenammo e dormimmo nello stesso posto della sera prima. Ma mi ricordo che ero molto meno affascinato da quell’ambiente da mille e una notte e provavo un forte senso di colpa. Il giorno seguente nel rientrare ad Abidjan assistemmo in diretta a un fuoristrada con piroette multiple di una vecchia Peugeot stracarica che ci aveva appena superati a velocità folle in una semicurva, ma a parte quello il viaggio fu senza storia. Ci rilassammo un po’ in hotel e, pensando che il mattino dopo saremmo ritornati a casa, decidemmo di concederci una serata da turisti andando a cena in un ristorante sul mare chiamato Re dell’Aragosta, che, secondo la locandina che avevamo trovato in hotel era il massimo ad Abidjan. Un posto dove, se avessi letto quella benedetta rivista, saremmo certamente andati, come in essa fortemente raccomandato, con un auto organizzata dall’hotel; visto che per arrivarvi bisognava attraversare una fra le più pericolose bidonville del mondo, ma che non avendola appunto letta, raggiungemmo tranquilli con il nostro fuoristrada.

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Il ristorante fu all’altezza della locandina: la serie di capanne con il tetto di paglia sulla spiaggia dove le onde lambivano e rinfrescavano i nostri piedi nudi furono davvero suggestive, le aragoste a un dollaro l’una, squisite, e la musica in sottofondo e l’ottimo vino non furono meno gradevoli. Ma al ritorno ci perdemmo nei bui meandri della bidonville e passammo un quarto d’ora a dir poco difficile.

Stavamo vagando a passo d’uomo per viottoli con fogne centrali a cielo aperto alla ricerca di una via d’uscita, un po’ preoccupati certo, ma non più di tanto, quando alla luce dei fari e della luna piena, vedemmo una sagoma di un uomo gigantesco in tuta mimetica e armato di mitraglietta che, piantato in mezzo al viottolo, ci fece cenno di fermarci.

Meno male, pensai, un militare, ci aiuterà ad andare a letto ad un’ora decente! Ma mi sbagliavo di grosso. Scesi sorridente e gli andai incontro, ma quando gli fui di fronte, lui alzò la canna della mitraglietta verso il mio stomaco e mi intimò in francese: “Donne moi l’argent” e accompagnò la frase sputandomi in faccia una mistura nera che stava masticando. Rimasi di sasso e mi voltai cercando l’aiuto di Cristian, che pensavo mi avesse seguito; ma lui non c’era. Lo vidi con sgomento ancora al volante, alla luce della luna piena, con le mani contratte su di esso, pallido e con gli occhi sbarrati che fissavano il vuoto; evidentemente era colto da una crisi di panico, e capii di essere in difficoltà serie. Ma non persi la calma.

Farfugliando nel mio povero francese qualcosa che voleva significare che non avevo molti soldi con me, svuotai lentamente il contenuto di tutte le tasche accumulando sul cofano dell’auto una bella quantità di biglietti in valuta locale, forse pari a cinquanta dollari. Poi mi tolsi l’orologio di poco valore e misi anche quello sul cofano, ma lui non sembrò convinto: mi guardò con disprezzo, mi colpì sulle costole con la canna del mitra facendomi un male cane, mi risputò in faccia e mi ripete con durezza: “Donne moi l’argent” . In quel momento capii che la cosa si stava facendo pericolosa: avevo circa duemila dollari nei calzini, una cifra che se minimamente sospettata, sarebbe stata una ragione per farci fuori tutti e due. Salomon purtroppo continuava a rimanere impietrito al volante e non poteva essermi di nessun aiuto, e mi venne in mente che potevo cavarmela solo neutralizzando quel gigante. A quel tempo avevo un’altissima fiducia delle mie capacità fisiche, e quasi certamente ci sarei riuscito, ma mentre pensavo a come distrarlo per poter ottenere il miglior risultato con il minimo di eventuali effetti collaterali, la fortuna ancora una volta mi venne in aiuto. Il gigante raccattò veloce danaro e orologio dal cofano, mi risputò cortesemente in faccia e, dicendomi: “Va-t-en, va-t-en” , sparì veloce nel buio.

Solo mentre tiravo un gran sospiro di sollievo ancora incredulo di essermela cavata cosi a buon mercato, capii la ragione di quella fuga repentina che certo mi aveva evitato di cacciarmi in un brutto pasticcio.

I fari di un’auto che evidentemente il nero aveva sentito arrivare illuminarono il viottolo, pochi istanti dopo l’auto si fermò dietro la nostra, e i due francesi bianchi che ne scesero mi chiesero se avevo qualche problema. Definitivamente rinfrancato spiegai loro che ci eravamo perduti e quello che era successo e mentre parlavo, mi accorsi 117

di avere di fianco Cristian, che di nuovo colorito era uscito dal coma ma puzzava come una latrina; e non ve ne dico il motivo.

Eravamo stati veramente fortunati, ci dissero i due, il loro arrivo ci aveva quasi certamente evitato guai veramente seri. Episodi di quel genere erano frequenti e colpivano di solito i turisti che erano facilmente individuabili dalle targhe delle auto prese a nolo - di colore diverso dalle altre -; alcuni dei quali, erano stati trovati, anche di recente, uccisi! I due furono talmente gentili da farci strada addirittura fino all’hotel, dove però rifiutarono la bottiglia di champagne che volevamo offrirgli. Ci salutarono sbrigativamente (era in effetti tardissimo) e se ne andarono. E il giorno dopo, senza aver fatto affari, ma con un bel po’ di esperienza in più tornai a casa e lessi in aereo la rivista che avrei dovuto leggere all’andata.

-------------------- o ------------------Dopo quell’avventura, mentre seguivo sempre più affascinato il crescere a vista d’occhio delle gigantesche strutture della nuova fabbrica, finì senza altri episodi particolari anche quell’anno e il 1984 si presentò purtroppo come tutti gli elementi in mio possesso mi avevano fatto temere: nel peggiore dei modi. Nella prima riunione di direzione il signor Borghi, palesemente a disagio e con lo sguardo concentrato sui fogli che aveva davanti, ci annunciò che il portafoglio ordini era inferiore di oltre un terzo rispetto a quello già in discesa del gennaio precedente; che il calo degli ordini riguardava più o meno tutti i settori merceologici e tutti i paesi nei quali operavamo, Unione Sovietica compresa; e parlando per la prima volta della “riserva di garanzia” ci annunciò che era esaurita. Fece una lunga pausa nel silenzio più totale, e concluse dicendo mestamente che poiché sembrava che al contrario di noi tutti i nostri concorrenti stessero aumentando invece il loro giro d’affari in ogni parte del mondo e in tutti i settori meceologici, era evidente che il nostro problema era il prodotto: che o serviva sempre meno o non era competitivo.

Il silenzio continuò per alcuni minuti mentre pensavo con tristezza che purtroppo erano vere entrambe quelle ragioni; poi l’assemblea reagì e si aprì una vivace e devo dire penosa discussione che degenerò in scambi di accuse di incapacità e incompetenza; in gran parte, devo dire, campate in aria. Saltato il pranzo, comunque, cui nessuno accennò, gli animi si placarono e si passò ad analizzare le ragioni del disastro e a cercare e proporre rimedi. Vi risparmio l’analisi delle ragioni del disastro, che se avete letto fino ad ora con attenzione conoscete benissimo, e vado direttamente alle azioni che furono decise per tentare di porvi rimedio.

Innanzitutto Benazzi sarebbe partito a spron battuto per Mosca per tentare di appurare tramite i suoi contatti se la caduta di “tender” dall’Unione Sovietica, che negli ultimi anni aveva rappresentato mediamente dal 20 al 30% del nostro fatturato e oltre il 50% dei nostri profitti, era un fatto momentaneo o una tendenza determinata da orientamenti strategici. In secondo luogo, meglio tardi che mai, Benazzi 118

e Rueff avrebbero dovuto preparare un progetto di investimento per una linea liquidi da presentare agli azionisti per l’approvazione. La costante diminuzione di ordini e la loro sempre minore marginalità nel settore buste era ormai da tempo nota a tutti; e lì davvero, se non rinnovare completamente la gamma di macchine per combattere almeno ad armi pari con la concorrenza, c’era ben poco altro da fare. Si decise quindi solo di abbassare i prezzi e di essere più flessibili alle richieste dei clienti, e di farlo in generale anche per tutta la gamma di macchine, oltre a ricercare agenti e segnalatori su tutti i territori non coperti.

Per l’esaurimento della “riserva per garanzia”, chiamato in causa, ebbi ben poco da dire. Spiegai a tutti che gli ordini di macchine standard senza problemi erano sempre più rari: e che le macchine speciali, ormai quasi tutte, causavano problemi a non finire che costavano, in parti di ricambio e prestazioni in garanzia di tecnici, una fortuna. Borghi raccomandò quindi ai venditori di essere più prudenti nell’accettare gli ordini, all’ufficio tecnico di valutarne con più attenzione i costi per poter proporre prezzi adeguati, al montaggio di curare il più possibile le messe a punto interne, e a me di essere più severo nei collaudi prespedizione, sia con il capo del montaggio che con i rappresentanti dei clienti. La riunione terminò con l’indicazione di tenerne un’altra al ritorno di Benazzi dal suo giro.

Ci mise quindici giorni, Benazzi a fare la sua indagine, e quando al ritorno gli vedemmo spalancare le braccia con un gesto inequivocabile di impotenza capimmo subito cosa ci avrebbe detto. Con aria da funerale ci comunicò infatti che per molto tempo sia noi che i nostri concorrenti; ma non era una consolazione, avremmo dovuto scordarci del flusso di tender di un tempo. Secondo i suoi amici di laggiù i piani quinquennali per lo sviluppo di certi consumi avevano subito un drastico ridimensionamento a favore di altri, concluse, e si sedette sudato e pallido in volto.

Era un disastro! Frastornati da quella notizia nessuno fece quasi caso al signor Borghi che ci informò che il progetto di linea liquidi preparato da Rueff e Benazzi era stato approvato da Josephson, l’uomo Emhart in capo all’ACMA. Non restava che realizzarlo nel più breve tempo e nel migliore dei modi; credo che pensammo tutti. La riunione fu chiusa da Borghi con l’annuncio che si sarebbe impegnato personalmente per acquisire o trovare qualche sorta di accordo con una azienda statunitense per poter disporre di un centro produttivo e soprattutto di assistenza tecnica sul territorio che avrebbe sicuramente aumentate le probabilità di ottenere ordini da quel paese. Me ne tornai mesto in ufficio ad occuparmi delle mie grane e a meditare su quante volte avevo sollecitato l’ingresso nei liquidi e spinto per avere una sede negli Stati Uniti: una condizione indispensabile, quest’ultima, risaputa e per di più spesso sollecitata anche ufficialmente dai rappresentanti delle grandi multinazionali che avevano là le loro sedi centrali nelle quali eravamo praticamente di casa. Ma noi niente!

Purtroppo, come del resto accadeva quasi sempre, anche da quella riunione di direzione filtrarono dettagli che in un batter d’occhio si 119

sparsero per l’azienda; e già dal giorno dopo si cominciò a respirare ovunque una atmosfera da panico silente. A Sandra, che mi interrogò perplessa, non potei fare a meno di accennare come stavano le cose, ma con l’amaro in bocca le mentii dicendole di essere sicuro che le iniziative che l’azienda aveva in programma, e che le descrissi, avrebbero certamente risolto le difficoltà.

A quella riunione seguì un periodo di normali incombenze, anche se più impegnativo che in passato in quanto a causa delle vendite quanto meno incaute degli ultimi tempi, le grane da risolvere erano quasi giornaliere. Per fortuna, o forse anche grazie ai miei interventi in fase di pre-vendita, quelle grane non riguardavano quasi mai macchine imbustinatrici, o se le riguardavano si trattava quasi sempre di sciocchezze. Ma un giorno, verso metà marzo, credo, mi chiamò il mio amico ingegner Sommi, della Nabisco di Liscate, ex Cammeo o Piletti, non ricordo bene, per chiedermi di andarlo a trovare perché linea per preparati per budini che gli avevamo consegnato circa otto mesi prima, dopo un primo periodo di funzionamento impeccabile, aveva cominciato a fare capricci preoccupanti capricci.

Una telefonata dal tono nemmeno tanto allarmato, in effetti, ma che non mi piacque; per due ragioni. Perché era stranissimo che una linea si mettesse a fare i capricci solo dopo un così lungo periodo di buon funzionamento, e, soprattutto perché ero stato io, nella mia attività di supporto tecnico alle fasi di pre-vendita, a orientare il cliente verso la soluzione che era stata adottata. Una soluzione in effetti abbastanza complessa. La linea era infatti composta da tre macchine collegate automaticamente: una 712 che produceva bustine contenenti caramello semiliquido, una 730 che produceva buste di preparato farinoso per budini, e un’astucciatrice della CAM che doveva inserire una busta di preparato farinoso e una di caramello in un astuccio e chiuderlo. Un layout al quale si era arrivati dopo aver preso in esame diverse opzioni in un’atmosfera di collaborazione che mi era molto piaciuta. Mi ero infatti trovato benissimo con gli ingegneri Sommi e Saltarella, rispettivamente direttori tecnico e di produzione, e in particolare con l’ex proprietario e fondatore dell’azienda, il signor Piletti.

Con quest’ultimo, infatti, mi ero trovato a mio agio fin dal primo incontro in quanto avevamo scoperto di avere lo stesso interesse verso la natura in generale e in particolare verso giardini e orti. Era andata così: dopo una lunga discussione tecnica all’ACMA, per rilassarci un po’ eravamo andati a pranzo da Sandro al Navile, e lasciati da parte i problemi, discutevamo a ruota libera di argomenti diversi. Io in paticolare avevo preso a parlare con Sommi dell’orto che avevo impiantato a Bazzano e delle splendide piante selvatiche di capperi che vi crescevano rigogliose. Ma evidentemente parlavo a voce troppo alta, perché il signor Piletti, che stava parlando di non so cosa con Bruno Gnudi, della Cam, mi aveva interrotto improvvisamente chiedendomi di andarle a vederle. Sul momento avevo pensato ad una battuta, e forse l’avevano pensato anche tutti gli altri, ma lui, sotto lo sguardo esterefatto dei suoi collaboratori - allora era ancora lui il proprietario -

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si era alzato da tavola, aveva detto che sarebbe stato all’ACMA al più tardi due ore dopo, e mi aveva invitato a scortarlo in campagna.

Anche il rapporto con la CAM era stato molto interessante: mi ero fatto una cultura piuttosto approfondita sulle sue macchine che conoscevo poco, avevo conosciuto l’azienda, ed ero entrato in ottimi rapporti personali con Guglielmo Martelli, Bruno Righi, il suo braccio destro tecnico, e in particolare con Bruno Gnudi, che avevo scoperto essere davvero il mito che si diceva in giro fosse. Un uomo, oltre che di straordinaria competenza, anche molto affabile, disponibile e alla mano: insomma, un mito vero, del quale ero diventato amico.

Per tutte queste ragioni, e per non rischiare che la situazione si deteriorasse come era accaduto in Lever tanti anni prima con la linea 753-713-714, della quale forse vi ricordate, dopo aver contattato Gnudi e averlo convinto a venire con me, dissi quindi a Sommi che sarei stato da lui l’indomani mattina. E a Liscate, scoprii di essere, per fortuna, davanti ad un problema gia visto, per il quale avevo pronta una soluzione. Dopo essere stati un paio d’ore ad osservare la linea in compagnia di Sommi e Saltarella, li convinsi che questa non si era “deteriorata” come avevano pensato, ma aveva solo bisogno di quelle “finezze” che solo un’attenta osservazione poteva suggerire. Un’azione che proposi di fare congiuntamente a partire dall’indomani e che trovò d’accordo Gnudi, Sommi, Saltarella e soprattutto il signor Piletti; non più proprietario, ma sempre in fabbrica per “passione e competenza”.

Io telefonai a Sandra per avere a Liscate la sera stessa due tecnici, altrettanto fece Gnudi per uno dei suoi, e la sera dopo, fatta ognuno la nostra parte, ci trovammo a cena per tirare le somme. C’eravamo tutti al tavolo di un ristorante esclusivo fatto prenotare da Piletti: lui, Saltarella, Sommi, Gnudi i miei tecnici Corazza e De Nunzio, un tecnico CAM e due della Nabisco dei quali non ricordo i nomi, e bevuti i caffè esaminammo i rispettivi rilevamenti, che, come avevo pensato e sperato mi diedero ragione. La linea, convenimmo, aveva solo bisogno di modifiche al programma di controllo, di regolazioni più accurate e meglio ripetibili, di guide varie e di sensori che comportavano qualche nuovo pezzo di ferro, ma poca cosa; e di essere pulita con regolarità in alcune aree sensibili fino a quel momento trascurate. Facemmo il tutto in pochi giorni senza difficoltà, e in capo ad un paio di settimane chiudemmo la partita con successo. Non ho più avuto in visita nel mio orto il signor Piletti, che spero stia benissimo come allora, ma sono rimasto in contatto fino a pochi anni fa, seguendolo prima in Parmalat e poi alla Del Monte, con Sommi, e per molto tempo ho trattato affari anche con Saltarella.

Forse vi chiederete perché vi ho parlato della vicenda Nabisco, in effetti una storia tutto sommato “senza storia”, capperi a parte. L’ho fatto perché quella fu l’ultima volta che mi occupai di “buste”, il mio settore, quello che mi aveva fatto crescere e fatto nascere e crescere l’ACMA e del quale penso di essere stato un esperto. E proprio per questa presunzione, visto che negli anni che seguirono l’ACMA praticamente uscì da quel mercato, per chiudere con una riflessione sull’argomento. Non so se l’ACMA sarebbe tornata a risplendere come 121

una stella di prima grandezza se fossimo andati subito in guerra contro le “multifile verticali”; se avessesimo approcciato Martì con meno spocchia o meglio avessimo ascoltato l’appello del signor Riera Marsà; ma di certo se la sarebbe cavata molto meglio di quanto non abbia fatto fino ad ora, perché se nel marketing strategico non eravamo certo acuti, a fare le macchine, lo dico senza falsa modestia, eravamo “piuttosto bravini”. Sicuramente, ad esempio, il mio amico israeliano Yoel e come lui tanti altri avrebbero scelto le nostre imbustinatrici “lineari” invece di quelle spagnole; e forse l’unico che se avesse ritenuto di combattere ci avrebbe potuto dare del filo da torcere, perché “bravino” era ed è anche lui, sarebbe stato Marchesini; ma tutti gli altri li avremmo lasciati per strada e forse oggi l’ACMA non si chiamerebbe AcmaVolpak e sarebbe la Volpak a chiamasi ACMA Spagna o qualcosa del genere.

Bando comunque alle tristi riflessioni postume, perché i primi di aprile, ci furono finalmente delle novità che ci fecero finalmente “tirare un po’ il fiato” a tutti e riprendere a sperare. Nel corso della prima riunione di direzione di quel mese, infatti, un Borghi finalmente con il viso meno tirato, ci comunicò che Benazzi era riuscito ad aggiudicarsi un ultimo tender in Unione Sovietica, che anche se modesto comunque portava un paio di mesi di lavoro; che lui, aiutato dagli americani, aveva iniziato le trattative per acquisire una storica azienda produttrice di macchine per l’imballaggio con sede nella città di Durham, in Nord Carolina, e che la linea liquidi, in avanzato stato di progettazione esecutiva, aveva già trovato, manco a dirlo nella solita affezionata Colgate Palmolive di Anzio, un acquirente.

-------------------- o ------------------La linea, ci spiegò Rueff, ci era stata ordinata per confezionare in flaconi di plastica il detergente Aiax europeo, ed era molto complessa: si sviluppava per oltre quaranta metri con una forma ad “u“ che iniziava con un riordinatore di flaconi realizzato dall’ACMA su brevetti dell’ americana Pace; proseguiva con una dosatrice volumetrica rotativa multi teste, sempre realizzata da noi ma su brevetti dall’americana Laub, e via, via seguivano una tappatrice della Corniani di Mantova, un’etichettatrice della Maco di Zola Predosa, un apritore cartoni della Zucchini e finiva con una incartonatrice della Garbo del Bargellino. Un bel casino, mi ricordo che pensai alla fine dell’esposizione! Ma meglio un casino che niente, e poi Corniani, Risi , Zucchini e Guerzoni non erano certo nati ieri nei loro rispettivi settori, mi consolai, quindi partii per la fiera di Dusseldorf abbastanza su di morale, ma purtroppo là tornai ad intristirmi.

Cosa posso dire di quella fiera? Non so come descriverla! Di certo l’ACMA aveva deciso di investire su quella manifestazione come non mai: uno stand gigantesco; un dispiegamento di venditori, agenti e tecnici mai visto; e quasi tutti i modelli di macchine in produzione esposti e funzionanti, ATA compresa. Erano inoltre stati invitati a nostre spese non pochi rappresentanti di nostri clienti storici. Ma 122

nonostante quello sfarzo i clienti e gli agenti che si aggiravano fra le macchine avevano tutti o quasi un’espressione delusa stampata sul viso. Era evidente che si erano aspettati qualche novità e che non vedendone alcuna, ci erano rimasti davvero male.

Gli agenti esclusivi poi, che vivevano solo delle commissioni sulle macchine dell’ACMA, erano decisamente arrabbiati. Alcuni di quelli con i quali ero più in confidenza si spinsero a confessarmi che dovendo pensare al futuro delle loro famiglie stavano considerando seriamente di rinunciare alle esclusive che avevano con noi e si stavano “guardando attorno” alla ricerca di altre opportunità di lavoro con altri costruttori.

Uno di loro, paragonò l’ACMA a Roma, dicendo che pur se era stata grande, ormai se ne vedevano solo le rovine! Anche alcuni amici delle multinazionali mi espressero, pur con molto tatto, la delusione provata nel vedere sempre le stesse macchine viste e riviste da anni, e uno, sconsolato, arrivò a dirmi che era ormai evidente che l’ACMA, che aveva sempre “fatto il mercato”, non riusciva più nemmeno ad inseguirlo!

Anche la “mia” ATA non mi diede grandi soddisfazioni, come del resto mi ero aspettato. Fu quasi ignorata, come la 756 cui era abbinata, decretando di fatto la fine della mia esperienza come imprenditore.

L’unica soddisfazione mi venne dai clienti, che sembravano voler parlare solo con me.

In sostanza, dunque, una fiera triste e carica di foschi presagi, che per fortuna venne rallegrata il giorno della partenza per tornare ognuno a casa propria, da due episodi interpretati da due matricole del nostro staff.

Eravamo tutti radunati fra valige nostre, dei clienti e degli agenti nella reception del Novotel di Neuss impegnati in ultimi saluti, ringraziamenti e nel regolamento dei singoli conti, quando Attilio Brizzi, da poco assunto come venditore di sede per i mercati di lingua tedesca, cominciò a carambolare, Rosso in faccia come un peperone, sudato nonostante il clima e agitatissimo, dall’uno all’altro di noi sventolando il conto dell’albergo dichiarando concitatamente a voce alta che lui aveva bevuto sì e no cinque o sei birre e che quel conto non era certo il suo. Ed era vero. La gran parte delle centinaia di birre addebitategli per un totale di quasi due milioni di lire le avevamo bevute noi tutti; solo che firmando le ricevute dei camerieri avevamo concordemente indicato il numero della sua camera. La ricordo ancora; la 201. Povero Brizzi: lo lasciammo cuocere per una buona diecina di minuti ridendo di gusto alle sue spalle - Borghi e Benazzi compresi - poi gli rivelammo lo scherzo e pagammo le nostre quote di conto.

Il secondo episodio, lo mise invece in scena Giancarlo Gabrielli, ex disegnatore e anche lui alla sua prima fiera, dopo aver sostituito Andrea Pallavicini alla testa dell’ufficio ricambi. Nell’intento lodevole di essere d’aiuto e certo un po’ anche per farsi conoscere, aiutava tutti a caricare valigie sui taxi per l’aeroporto, ma in quella frenesia, caricò fra le nostre, anche quella dell’amministratore delegato della Plasmon, l’avvocato Casu, che era stato nostro ospite. Ce ne accorgemmo ovviamente al ceck-in, ma se ne era già accorto anche Casu, che ancora in hotel in attesa di un altro volo aveva pensato ad un furto e lo aveva segnalato 123

alla polizia. Certo al giorno d’oggi, con i cellulari, sarebbe stato facilissimo venire a capo di quel banale inconveniente, ma allora fu un problema; anche se si risolse con una risata. Gabrielli, comunque, a farsi conoscere ci riuscì!

Finita la fiera, il 1984 si trascinò nella “tesa” normalità della situazione, tanto che i ricordi che ne ho si limitano agli incontri che ebbi con Gino Donati, il titolare della nostra concorrente Universal Pack di Cattolica, e con Gianni Bosi, un ex progettista della GD che aveva da qualche tempo avviato dalle parti del golf club di Crespellano la sua Verpak. Due incontri senza conseguenze per l’ACMA, ma che per ragioni diverse mi hanno lasciato un ricordo particolare.

Conoscevo Donati; ci eravamo incontrati a tante fiere ma da bravi concorrenti non ci eravamo mai scambiati altro che formali saluti, ma quella sera, però, seduti a pochi tavoli di distanza al ristorante dell’hotel Fiesta di Casalpusterlengo, poco prima delle vacanze di Natale, quasi all’unisono decidemmo di rompere il ghiaccio invitandoci l’uno al tavolo dell’altro, e anche se scoprimmo subito di essere stati convocati entrambi dal Packaging Development Center della Lever, per lo stesso progetto - un tentativo di rivitalizzare le polveri detergenti, distrutte dai liquidi, proponendole in monodosi confezionate, come il thè, in “buste filtro”, da mettere direttamente fra la biancheria - continuammo a cenare chiacchierando e fu una serata molto piacevole e stimolante.

Dopo infatti aver scherzato per pochi minuti incensando, io la mia 712 e lui le sue “multifile verticali”, smettemmo di parlare di lavoro e cominciammo a parlare di noi, delle vicende che ci avevano condotti a fare quel mestiere, e addirittura delle nostre famiglie. Non so cosa scoprì di me Gino e se quello che scoprì gli piacque: io scoprii che dietro a quel burbero aspetto c’era una persona notevolissima, di grande cultura e con un animo sensibile e poetico. Scriveva poesie Gino, e la sera dopo, preso dall’entusiasmo di potermene leggere una, mi mise addirittura in imbarazzo. Eravamo stati tutto il giorno in Lever con due team separati ed eravamo tornati casualmente in hotel nello stesso momento. Quando mi vide uscire dalla mia auto, lui, che stava facendo la stessa cosa mi chiamò e mi pregò di salire sulla sua perché voleva mostrarmi qualcosa. Mi sedetti, e lui, estratto dal vano porta oggetti un plico e accesa la luce interna, mi disse di ascoltare e si mise a leggere.

Un’ora dopo eravamo ancora al gelo in macchina, osservati con curiosità abbastanza giustificata dagli avventori del ristorante che ci parcheggiavano vicino ma anche dai clienti dell’albergo che ci sapevano ospiti, e che, ovviamente, facevano fatica a capire cosa mai facessimo al buio e al freddo che non potessimo fare al caldo e alla luce seduti ad un tavolo! Per inciso, qella fornitura se la aggiudicò lui, ma purtroppo il prodotto fu un vero flop: pensate ad una massaia che debba cercare fra la biancheria lavata, umida e annodata, una busta divenuta informe e viscida al tatto, e capirete il perché. Di Gino, sono rimasto buon amico: ho continuato a seguire i suoi successi, a vistare il suo stand alle fiere, e sono andato anche qualche volta a trovarlo in fabbrica per fare quattro piacevoli e stimolanti chiacchiere.

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Gianni Bosi lo incontrai invece accompagnando Borghi alla Verpak alla ricerca di opportunità per ampliare la nostra gamma d’offerta e soprattutto il nostro fatturato. Da tempo si sapeva che la sua azienda era in difficoltà e lui cercava ansiosamente un partener per uscirne, ma dalle informazioni che avevamo non si capiva bene perché lo fosse.

Sulle fiere, le macchine di Bosi, basilarmente due modelli, apparivano infatti sia molto belle d’aspetto che ben costruite, e scoprimmo che proprio quello era era il loro problema. Viste da vicino e nei dettagli, erano “troppo ricche”. Si vedeva benissimo che erano state progettate da un ex GD, ma se questo era sicuramente un merito dal punto di vista tecnico, non lo era purtroppo per il mercato che, per le funzioni che svolgevano, poteva trovare un’ampia offerta a prezzi molto più bassi.

Dissi il mio parere a Borghi, apertamente di fronte a Bosi, e nel tornare a casa lo consigliai di lasciare perdere con quell’iniziativa. E lui per una volta, finalmente mi ascoltò. Una bella soddisfazione perché ero davvero convinto della mia opinione, che fu ancor più grande qualche tempo dopo quando, in due altre occasioni, ebbi modo di constatare che una di quella macchine, l’avvolgitrice “a stella frontale”, pur fatta bene, non valeva davvero gran chè per il mercato.

Il 1984 si chiuse con l’annuncio ufficiale della acquisizione della americana Wright, che sarebbe stata effettiva dal marzo successivo, e che sempre in marzo si sarebbe dato inizio al trasloco nel nuovo stabilimento. E quindi ce ne andammo tutti, a “sciare”, si fa per dire, interrogandoci su dove sarebbero stati i nostri uffici, quanto sarebbero stati grandi e come sarebbero stati arredati. Io, che non ero e non sono mai andato a sciare, passai il tempo delle canoniche feste fra amici e parenti e solo di tanto in tanto pensai al lavoro. Ma non pensavo a dove sarebbe stato il mio ufficio e come sarebbe stato arredato; mi chiedevo piuttosto se sarebbe stato qualcuno di noi, e se sì chi, a dover andare in America a condurre la Wright.

Speravo con tutto il cuore che non lo avessero chiesto a me, anche se pensavo immodestamente di essere il più idoneo a farlo fra i miei colleghi: non avevo infatti nessuna intenzione di andare a vivere laggiù, ma se me lo avessero chiesto e avessi rifiutato mi sarei trovato quasi certamente emarginato e costretto ad andarmene; cosa che non volevo assolutamente fare in quel momento. Anche se le prospettive per la mia ACMA erano sempre meno rosee e pur se capivo di non poter essere di certo il suo salvatore, pensavo ancora di poter dare il mio contributo per tenerla in vita e forse farle risalire la china, ma il problema non si pose. Avevamo appena ripreso il lavoro che Borghi mi convocò e alla presenza di Benazzi e Ferrari mi chiese se fossi disponibile ad assumere tutte le responsabilità di Ferrari: sarebbe stato infatti Udo Grafe, export manager da quando il suo predecessore Andrea Rossolatos se ne era andato a Udine a mettere su la sua Semca, ad andare a condurre la Wright, che avrebbe cambiato il nome in ACMA Division. Ferrari aveva già accettato di sostituire Udo e io, se me la sentivo, potevo andare a sostituire Ferrari, prendendomi in carico anche la responsabilità delle vendite in Italia e del reparto ricambi.

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Non ero d’accordo su quelle scelte; non ritenevo né Grafe né Ferrari adatti a quei ruoli, ma poter dare il mio apporto alle vendite e al reparto ricambi organizzandole a modo mio era una cosa stimolante e sicuramente non troppo impegnativa, quindi accettai volentieri. Nella successiva riunione di direzione la cosa fu ufficializzata e quindi resa nota a dipendenti e sindacati e io cominciai a organizzarmi per espletare il nuovo incarico e per il trasloco, trovandomi innnanzitutto due nuove segretarie. Ferrari non conosceva clienti esteri, aveva chiesto di avere con lui Sandra, che al mio fianco li aveva conosciuti praticamente tutti, ed era stato giustamente accontentato. E io pescai fra i curricula del capo dell’ufficio personale, il dottor Pantano, Alessandra Bonzi per sostituire Sandra, e un’altra Sandra, Zoboli, per le vendite Italia. Entrambe erano alla loro prima esperienza di lavoro, ma si diedero subito da fare con entusiasmo e mi furono molto utili per vagliare i documenti ed evitare di traslocare montagne di carte ormai obsolete.

Per il resto non ci fu nessuna difficoltà: con Gabrielli feci il punto della situazione dell’ufficio ricambi e, proponendogli di aiutarmi nei rapporti e contatti con i clienti, ne ottenni l’immediato consenso; e da Ferrari ricevetti tutta la documentazione relativa al budget vendite previsto per l’anno, agli ordini e alle offerte emesse e da emettere, tutte pratiche delle quali, anche se a grandi linee, ero comunque già al corrente. Anche con i venditori andò abbastanza liscia: li conoscevo tutti benissimo e da anni frequentavo in loro compagnia tutti o quasi i loro clienti. Come avevo immaginato, Mirabelli e Rossi non mi sembrarono molto entusiasti di avere un capo tanto più giovane di loro, mentre i miei coetanei e amici da sempre, Baldassarri e Soavi, non mi nascosero al contrario di gradire molto di avermi al loro fianco a tempo pieno. La reazione di agenti e clienti poi, fu davvero inaspettata e molto gradita. Quasi tutti, nel congratularsi, non mi nascosero di sentirsi sollevati di sapermi in quella veste, preludio certamente, azzardarono in molti, di un’ulteriore carriera.

-------------------- o -------------------Il primo di aprile dunque, del 1985, ventitre anni esatti dopo aver varcato i portoni dell’ACMA in qualità di disegnatore, dimentico dei miei foschi presagi sul futuro, carico come lo sono sempre stato ad ogni cambiamento e pronto a dare il mio massimo, varcai quelli della nuova sede in qualità di “Direttore Vendite Italia, Servizio post Vendite e Ricambi” e presi possesso dei miei domini. Logisticamente il mio nuovo ufficio era collocato al terzo e ultimo piano dell’imponente palazzina degli uffici che occupava tutto il fronte del gigantesco stabile; sullo stesso piano avevano sede tutti gli uffici amministrativi, commerciali e la grande sala per le riunioni di direzione. Consisteva di tre moduli separati comunicanti di tre per quattro metri ciascuno: in quello di mezzo stavo io solo, da un lato Sandra e Alessandra, e quello dall’altro lato serviva da punto d’appoggio per i venditori in sede il lunedi e tutti gli altri giorni da sala riunioni o per ricevere i miei ospiti. A fianco dei 126

miei tre moduli, c’era il grande ufficio ricambi dove Gabrielli guidava i suoi dieci collaboratori. Nei giorni precedenti, con l’aiuto di Alessandra e Sandra avevo sistemato arredi, documenti e tutto il resto e quel giorno, il mio unico impegno era ricevere un amico: Gabriell Taltavull.

Avevo conosciuto Gabriell a Barcellona nei primi mesi dell’82. Era appena stato assunto dalla Lapeyra & Taltavull (vi ricordate, il nostro agente?) che aveva pensato di affiancarmelo nelle visite che facevo ai clienti spagnoli per fargli fare esperienza. Ed eravamo diventati subito amici. Viaggio dopo viaggio mi ero reso conto che quel Catalano non era solo affascinante d’aspetto e di modi da fare innamorare un iguana, ma anche molto intelligente, colto, capace di imparare al volo e molto, molto ambizioso. In sostanza mi piaceva, e la nostra amicizia era diventata sempre più forte, tanto che in più di una occasione mi aveva voluto con sé fra i suoi amici, fra i quali, l’intera squadra di calcio del Barcellona. Avevo detto subito a quei simpatici ragazzi di non essere un’appassionato del loro sport, ma mi avevano accolto lo stesso con entusiasmo e con una familiarità che aveva indotto alcuni di loro a chiamarmi “Robertino”. Paco Martinez poi, il loro capitano, aveva voluto assolutamente omaggiarmi con una sua foto con dedica; preziosissima per i collezionisti. Fui quindi molto contento che fosse Gabriell il primo agente a farmi le congratulazioni di persona nel mio nuovo ufficio. Ma se io fui contento, sicuramete lo fu di più Alessandra. Nonostante non glielo avessi chiesto, né ci fosse bisogno di lei, rimase con noi in saletta per tutto il tempo a guardarselo estasiasta, muta, e a bocca aperta, e come se ne fu andato mi chiese quasi senza fiato: “Ma era vero o ho sognato?”

Partito Gabriell, piombai nella confusione del trasloco. Come penso tutti i traslochi di grandi aziende di beni strumentali di grandi dimensioni, anche il nostro aveva creato e continuava a creare disagi, disservizi, grane, ritardi sui programmi e relative perdite di fatturato. Io e i miei collaboratori ne risentivamo in modo marginale, e vero, ma comunque non lavoravamo al meglio. L’unico lavoro di quel mese di aprile e del successivo maggio che mi gratificò davvero, fu che approfittando del molto tempo lasciatomi libero dai collaudi interni, pochissimi purtroppo, riuscii ad impostare con Gabrielli una iniziativa promozionale alla quale pensavo da tempo: cercare di convincere il maggior numero possibile di clienti ad “aggiornare” le macchine già in loro possesso con le ultime novità. L’ufficio ricambi, con i suoi sette miliardi di fatturato e con gli utili che faceva, era la nostra risorsa principale, ma a mio avviso poteva esserlo molto di più.

Impostata e fatta partire quell’iniziativa, molto apprezzata da Borghi e Benazzi, verso la fine di maggio, andai a rilassarmi con un bel viaggetto premio in America. Non dovevo far niente inerente i miei mestieri, ma Borghi mi aveva chiesto di andare a tirare un po’ su di morale Grafe, che sembrava mal sopportare il peso dell’ACMA Division, e Rueff di andare a trovare il mio amico Vincent Conticelli della Colgate Palmolive di Kansas city, per chiedergli di poter dare un’occhiata alle linee liquidi che aveva in fabbica che sapevamo equipaggiate con gli stessi riordinatori e le stesse dosatrici della Pace e della Laub che 127

avevamo previsto per la nostra linea liquidi, e cosa ne pensasse. Un viaggetto che mi fece scoprire un’America che non conoscevo.

Il viaggio, per la verità, non cominciò sotto buoni auspici: partiti da Milano stavamo ancora salendo per portarci in quota quando l’aereo fece una improvvisa e rapida picchiata che mi fece saltare il cuore in gola e guardando istintivamente dal finestrino scorsi in alto, forse un paio di centinaia di metri sopra di noi, la coda di un altro aereo che si allontanava perpendicolarmente. Nessuno altro passeggero sembrò averlo visto, e comunque nessuno ci disse niente, ma mentre l’aereo riprendeva a salire io pensai che forse avevamo evitato una bella collisione. Senza altri patemi arrivai che era quasi sera all’aeroporto di Durham- Raleigh, mi feci portare all’hotel che Udo mi aveva fatto prenotare e mi ritrovai in un ambiente che non avevo mai visto: l’hotel era al centro di un parco alberato che lo isolava completamente dai dintorni, e sembrava una fotocopia della casa bianca; bianco come lei e con enormi colonne che delimitavano un patio sotto il quale cenavano commensali vestiti con un’eleganza che avevo visto solo in qualche film.

Vergognoso dei miei jeans e della mia camicia stropicciati - divisa comodissima che ho sempre indossato nei lunghi viaggi - sbrigai velocissimo le formalità e corsi in camera a fare una doccia e cambiarmi per scendere a cena con Udo, che avevo trovato ad attendermi già accomodato ad un tavolo del patio. Mi sedetti a mia volta e dopo che mi fui guardato con discrezione attorno, decisi che il “profondo sud” c’era davvero! Dal silenzio sembrava di stare in un ristorante svizzero; nessuno faceva caso a noi, pur evidentemente stranieri; e i camerieri, neri e inappuntabili nelle loro divise bianche e nere, si chinavano per ascoltare il bisbiglio che facevano i commensali per ordinare. Cosa che facemmo ovviamente anche noi. Fu una cena splendida ma surreale: con noi due che ci sporgevamo l’uno verso l’altro per bisbigliarci poche parole per non disturbare. Poi me ne andai a letto. Il mattino feci colazione nel patio fra il cinguettio di uccellini vari mentre un cameriere inappuntabile mi porgeva una serie di giornali italiani del giorno prima e mi informava meticolosamente sulle condizioni meteo previste per la giornata. Proprio un’altra America!

Passai due giorni con Udo; parlammo del più e del meno, di cosa stava succedendo in ACMA con il trasloco e delle difficoltà che stava incontrando lui. Non era facile, capii, gestire un’azienda con oltre cento neri fortemente sindacalizzati e diffidenti verso un nuovo capo tedesco, giovane, e palesemente digiuno di tecnica. Udo mi parlò anche, molto preoccupato, a sorpresa, dell’ acquisizione in corso da parte della Emhart di un’altra storica azienda del packaging americano, la Redington; le cui attività sarebbero state concentrate a Durham aggiungendo difficoltà a difficoltà. Non potei comunque fare gran che per dargli una mano, se non fargli notare quali potevano essere i punti tecnicamente critici delle macchine che doveva gestire e vendere e metterlo in guardia, memore di quanto mi era capitato alla Armour Dial ai tempi del corso sulla 791, sugli scherzi che gli americani potevano fare agli estranei che volevano fare i maestri per metterli alla prova.

Povero Udo, pensavo nel salutarlo, convinto che si sarebbe divertito 128

davvero poco in quell’impresa, e dal suo sguardo capii che se ne rendeva conto benissimo anche lui.

A Kansas city mi fermai solo un giorno e una notte, ma feci in tempo ad imparare un sacco cose: innanzitutto che ero tornato nella solita America; poi che c’erano due Kansas city, la Kansas e la Missouri, separate dall’omonimo fiume che fungeva da confine fra i due stati; e, la cosa più spiacevole, che le macchine Pace e Laub funzionavano bene ma erano ormai superate. Parlando poi a ruota libera, scoprii anche un’altra cosa molto interessante e per certi versi preoccupante: che la Colgate Palmolive stava addottando una nuova filosofia nell’acquisto di macchine per l’imballaggio. Ad esempio le avvolgitrici per saponette dovevano essere pagate al massimo mille dollari al colpo per minuto: duecento saponette al minuto = duecento mila dollari, fermo restando il privilegiare semplicità costruttiva, facilità di pulizia e di manutenzione, la rapida individuazione di cause d’arresto e la loro rapida risoluzione, senza aver subito danni collaterali; tutto questo anche se a discapito della flessibilità di utilizzo e riutilizzo; che era sempre stata invece la nostra filosofia progettuale.

Per darmi un’idea di quanto importante fosse questo orientamento, Vincent mi fece un esempio assurdo ma molto emblematico che mi impressionò e che mi fu molto utile non molto tempo dopo: avrebbe pagato molto volentieri, mi disse, duecentomila dollari per una struttura completamente vuota nella quale avesse potuto fare entrare duecento saponette nude al minuto e il materiale per avvolgerle e ne fossero uscite saponette non danneggiate e ben incartate. Ecco perché, concluse, la Colgate era ancora molto restia verso la nostra complicata e delicata 791; come del resto sapeva esserlo la Procter & Gamble.

Al ritorno raccontai a Borghi le impressioni che avevo avuto dell’ACMA Division e i dubbi che avevo sulle possibilità di Udo di farcela a condurla, e a Rueff, Benazzi e Borghi insieme, quanto mi aveva detto Vincent sulle Pace, sulla Laub e sulle nostre 791. Tutte notizie preoccupanti, in particolare quelle su Pace e Laub, che indussero Borghi a indire una riunione congiunta delle forze di vendita e tecniche per esaminare nei dettagli la linea liquidi che Rueff aveva “pensato”, ed eventualmente avere suggerimenti per migliorarla. Un po’ in ritardo forse, ma meglio che mai, la riunione si tenne subito dopo le ferie, ma non portò, come era del resto prevedibile, a cambiamenti significativi del progetto, e anzi, io ne uscii ancora più preoccupato. Le modifiche che Aiuola ci spiegò di aver apportato al concetto originale delle “teste dosatrici” Laub per rendere variabile il volume di dosaggio di ogni singola testa a macchina in funzione, mi sembrarono complicate, costose, pesanti e soprattutto inutili. Mi dimenticai però quasi subito di quelle quelle preoccupazioni, tutto preso, come i miei colleghi, ad organizzare l’inaugurazione ufficiale della nuova ACMA prevista per il 12 di ottobre, il giorno della scoperta dell’America.

Ricordo ancora molto bene quella giornata perché fu davvero memorabile: via Cristoforo Colombo era coperta nel suo tratto finale verso la ferrovia di bandiere italiane e americane e c’erano molti vigili a disciplinare l’intenso traffico indotto dalla manifestazione. All’ACMA 129

dovevano convergere oltre a tutti i dipendenti, gran parte delle loro famiglie e almeno altre trecento persone fra autorità locali, esponenti di spicco dell’imprenditorialità bolognese in generale, tutti i principali costruttori italiani del settore concorrenti e non, agenti e clienti.

A me era stato affidato il compito di accogliere e prendermi cura dei concorrenti e di alcuni dei clienti italiani e stranieri che meglio conoscevo, e pur se ero intimamente angosciato nel pensare a quanto ci sarebbe costata quella cerimonia, riuscivo a non farlo trasparire sprizzando orgoglio e ottimismo nonostante qualche infelice battuta.

Alcuni concorrenti, mi chiesero con palese cattiveria se fossimo sicuri di avere i soldi per pagare quella megafabbrica - in effetti impressionante e quella festa galattica: battute maligne, che anche se giustificate dalla realtà delle cose, mi ferirono e intristirono. Ma a intristirmi di più fu vedere mio padre, vestito del suo abito migliore, aggirarsi come in estasi per l’immenso capannone declamando orgogliosamente a destra e a manca a perfetti sconosciuti frasi del tipo: “Che meraviglia di stabilimento vero? Mio figlio lavora qui: sono il padre di Tabaroni; un pezzo grosso sapete! Molto bravo! E’ anche suo il merito di tutto questo!

Che grande azienda l’ACMA!“ Povero papà! Se avesse saputo come stavano le cose, sarebbe morto di dolore.

E di come stavano le cose, appunto, non potei invece fare a meno di parlare quella sera alla cena di gala organizzata a villa Albergati, a Zola Predosa; e purtroppo alla presenza di mia moglie che non sapeva nulla della situazione dell’azienda. Ero a tavola con con alcuni dei miei clienti/amici e con le loro compagne: l’avvocato Casu della Plasmon, l’ingegner Mastroianni della Findus, l’ingegner Odino dell’Italimpianti, l’ingegner De Leva della Lever e Aldo Paglieri della Paglieri profumi, per gli amici e per me “Felce Azzurra”; che tutti preoccupati delle voci sulle nostre difficoltà, in modo garbato e prudente mi fecero domande alle quali non potei che rispondere con sincerità e con certamente tanta tristezza nella voce. E credo che fu quella tristezza che indusse l’ingegner Odino, certo per tirarmi su di morale, a darmi una dimostrazione di stima che se non sortì lo scopo, mi fece comunque molto piacere. Citando l’episodio dello sconto sulla fornitura per l’Algeria sul quale non avevo ceduto, mi disse infatti, e non credo che scherzasse, che se ero “bravo” a comprare come lo ero stato a vendere potevo prendere il posto che lui stava per lasciare per “salire”: mi avrebbe raccomandato con convinzione.

Comunque la festa finì e purtroppo, come avevano insinuato i maligni, scoprimmo quasi subito di essere davvero senza soldi.

Fabbrica, festa e trasloco ci erano costati un’enormità in danaro ma soprattutto in mancata produzione e fatturazione. Cifre da brivido!

Scoprimmo anche con sgomento di avere a disposizione un’enorme reparto montaggio però quasi completamente vuoto e destinato a rimanerlo. La prima riunione di direzione del 1986 certificò che il budget ordini a fine anno era letteralmente crollato e che con quell’andamento l’ACMA sarebbe stata costretta per la prima volta nella sua storia a parlare di cassa integrazione; se non di qualcosa di ancora più grave. E il peggio non era ancora arrivato. Si presentò infatti alla 130

fine di gennaio nella veste della linea liquidi consegnata ad Anzio che doveva segnare l’inizio della rinascita. La linea era stata consegnata subito dopo l’inaugurazione della nuova fabbrica, e dopo ritardi vari, modifiche dell’ultimo momento e disguidi di ogni genere si erano cominciate a fare prove di produzione che avevano immediatamente evidenziato grossi problemi. E così, nella scomodissima posizione di responsabile della sua vendita e della sua aderenza alle clausole contrattuali, cominciai a fare la spola fra Bologna e Anzio.

-------------------- o -------------------La descrizione dettagliata del travaglio di quel collaudo potrebbe essere l’oggetto di un voluminoso testo utile a molti costruttori per imparare cosa non fare mai, ma anche un breve riassunto dei fatti più salienti penso possa essere molto istruttivo. Innanzitutto devo dire che la Colgate Palmolive di Anzio, facendoci quell’ordine, aveva dimostrato di riporre in noi una fiducia più che smisurata: avrebbe infatti potuto tranquillamente rivolgersi ai tanti altri fornitori che già avevano installato con successo linee per lavorazioni simili sia in altri stabilimenti della Colgate stessa che in quelli dei suoi maggiori concorrenti. L’ACMA, dal canto suo, aveva colto al volo quella dimostrazione di fiducia che poteva permetterle, anche se con grande ritardo, di inserirsi nel gioco dei liquidi; ma certamente non aveva valutato con sufficiente lucidità la sua inesperienza tecnologica in quel campo e soprattutto le difficoltà a gestire sotto la sua responsabilità nei confronti del cliente quattro costruttori. Uomini fattisi da soli; con uno spirito a dir poco indipendente e con i quali, a parte Renato Zucchini, non aveva mai avuto esperienze di forniture congiunte.

Toccò quindi a me, nei miei settimanali viaggi ad Anzio, scoprire passo passo le ingenuità e i tanti errori tecnici commessi e cercare di porvi rimedio, ma soprattutto cercare con estenuanti e tesissime riunioni di appianare i contrasti sia tecnici che caratteriali dei nostri quattro difficili partner, uno dei quali, fra l’altro, quasi ci lasciò le penne in quell’impresa! Ci sarebbe mancato solo quello! Guerzoni, il titolare della Garbo, mentre rientrava a Bologna dopo un’ennesima estenuante riunione ad Anzio, fu coinvolto in un terribile incidente autostradale all’altezza di Chiusi - Chianciano nel quale subì ferite tanto gravi da essere costretto ad un lungo e travagliato ricovero in ospedale.

Dal punto di vista tecnico, come dicevo, fummo obbligati a rimediare a tante ingenuità ed errori con una miriade di interventi di ottimizzazione funzionale; in particolare sui “collegamenti polmone”fra le varie macchine, ma anche sulle macchine stesse. Onestamente, in prevalenza sulle due macchine “quasi nostre”. Ricordo con sgomento le difficoltà sull’orientatore flaconi derivato dalla Pace, che affidava la sua efficienza di “captazione” ad una incredibile serie di cinghie toroidali.

Muzzarelli, Priori e Armenti, i tre che le avevano montate, tutti e tre bravissimi, eseguivano una perfetta messa a punto del sistema di cinghie il mattino; tutto funzionava a meraviglia; poi, al variare della temperatura, dell’umidità dell’ambiente o della partita di flaconi 131

provenivano da tre differenti fornitori ma sembravano identici in tutto e per tutto - non andava più nulla! Era evidentemente il sistema ad essere troppo sensibile! Impazzimmo letteralmente per arrivare a una funzionalità accettabile. Anche la dosatrice derivata dalla Laub ci fece passare notti insonni e portò ad Anzio più volte Rueff, Aiuola e Gentilini, e a proposito di quest’ultima, vi voglio raccontare una storia abbastanza curiosa che può darvi un’idea della “delicatezza” di quei momenti.

Dopo molto penare eravamo giunti finalmente quasi a capo dei difetti delle singole macchine e potevamo lavorare con una certa continuità con la linea completa, che però subiva ancora frequenti arresti rapidi per emergenza. Scoprimmo così, con angoscia, un difetto inaccettabile che fino a quel momento non si era potuto notare. Non la sto a fare lunga per rispetto ai non addetti ai lavori: c’era un problema di inerzie differenti fra due testate rotanti, quella di dosaggio - come dicevo poco addietro appesantita dalle modifiche fatte da Aiuola alle teste - e quella che sosteneva i flaconi da riempire, che, in caso appunto di arresto d’emergenza, faceva piegare tutti gli uggelli che stavano dosando in “risalita” il prodotto all’interno dei flaconi. Un difetto tecnicamente facile da rimediare, riprogettando il sistema di motorizzazione della macchina, ma una prospettiva aggiacciante dopo mesi e mesi di fatiche, in termini di tempi d’esecuzione.

Eravamo tutti stanchi, anzi stremati, con gli uomini della Colgate che pur continuando ad essere pazienti e collaborativi, evidentemente pressati dalla casa madre che certamente non riusciva a capire come una banale linea liquidi non producesse ancora; ci stimolavano ormai giornalmente a concludere. Così partorii un’idea che mi sembrò potesse salvare la “capra” Colgate e i “cavoli” ACMA e soci. Suggerii agli ingegneri Mezzabotta, Di Magno e Sambucini; che non ringrazierò mai abbastanza dell’aiuto e della comprensione che mi riservarono, una soluzione che avrebbe consentito a loro di produrre comunque e zittire la casa madre, e a noi e ai nostri partner di portare a termine il collaudo e chiudere la fornitura prima delle ferie d’agosto. Si trattava di applicare un ”volano” che avrebbe reso uguali le inerzie delle due testate rotanti. La soluzione era certo tecnicamente empirica, e quindi mi impegnai a sostituirla quanto prima con una “motorizzazione seria e adeguata”, e a quelle condizioni fu accettata. Ma incredibilmente, però, in ACMA l’accoglienza che ebbe questa mia soluzione fu ben diversa.

Mi era capitato in altre occasioni di dover faticare per ottenere la collaborazione dell’ufficio tecnico per risolvere problemi di sua competenza e responsabilità, ma quella volta esagerò davvero: dovetti infatti calcolare e disegnare io quel semplice cilindro d’acciaio. Per costruirlo poi, dovetti passare dall’ufficio tecnico per la codifica e la denominazione del disegno, e siccome la fiducia su quella soluzione era decisamente bassa e nessuno ne voleva la paternità, ci fu una “forte insistenza” perché risultasse inequivocabilmente mia. Una cosa inaudita! Non credo la GD abbia conservato il vecchio archivio lucidi dell’ACMA, ma se lo avesse fatto dovrebbe essere ancora reperibile un disegno denominato “Volano Tabaroni”. Più chiara di così la paternità non poteva essere!

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Comunque, un paio di settimane dopo l’istallazione del volano il contrattuale collaudo di otto ore con un’efficienza del 75% si concluse positivamente, anche se tutti eravamo consci che sarebbe stato un evento irripetibile. La linea era troppo delicata e sensibile per produrre con costanza secondo i parametri stabiliti al momento dell’ordine, ma l’argomento fu chiuso. Tirammo tutti un lunghissimo sospiro di sollievo e noi emiliani, esausti, ce ne tornammo a casa e andammo in ferie. Per inciso, il volano continuò a fare il suo onesto lavoro e la Colgate non ci richiese mai più di modificare il sistema di motorizzazione. Seppi qualche tempo dopo che avevano provveduto a rendere la linea meno automatica, meno veloce, e quindi, meno sensibile agli arresti di emergenza, e che la utilizzavano per produzioni marginali.

Al rientro dalle ferie, la riunione che si tenne per dibattere sui risultati del collaudo della linea liquidi aggiunse un’ulteriore ragione d’angoscia alle tante altre che ormai ci opprimevano quasi tutti. Dopo un dibattito dai toni accesi e anche se con quella scelta la situazione dell’ACMA si faceva davvero tragica, venne per fortuna accettato il mio suggerimento di toglierla per il momento dal listino e fare una profonda analisi critica della sua concezione tecnica prima di procedere con qualsiasi ulteriore azione commerciale.

Il reparto montaggio restava desolatamente mezzo vuoto; le iniziative promozionali, sconti, tempi di consegna rapidi ecc., non stavano dando i frutti sperati; Udo in America aveva il suo bel da fare soltanto per tener viva la sua ACMA Division e non aveva certo modo di aiutare la casa madre; e visto che le disgrazie non vengono mai da sole, nel primo semestre dell’anno, per la prima volta nella storia dell’azienda, anche il volume d’affari del reparto ricambi, ormai unico sostegno finanziario, era diminuito rispetto al precedente. Nonostante Borghi continuasse a tentare di tranquillizzarci in tutti i modi, in quasi tutti noi dirigenti e in gran parte dei dipendenti c’era ormai la convinzione di trovarsi in una situazione pre-fallimentare irreversibile, e in molti cominciammo a sperare che fossero vere le voci insistenti che si andarono diffondendo verso la metà di settembre su una imminente cessione. Pervenivano da altri costruttori, da agenti e perfino da clienti; ma alle nostre richieste sulla loro veridicità fatte a Borghi, egli ci rispondeva che erano del tutto infondate.

Credo di essere stato l’unico fra noi dirigenti a sapere con certezza che quelle voci erano fondate checché ne dicesse Borghi; forse perché continuavo a essere l’unico che leggeva da cima a fondo l’Emhart news.

Nel numero di ottobre del giornalino trovai infatti un articolo, non tanto in vista in verità, dove si diceva che la Emhart pensava di spostare dall’Europa all’Estremo Oriente alcuni dei suoi interessi strategici oltremare di lungo termine. Una tendenza di cui non era la prima volta che sentivo parlare. Circa un’anno prima, durante una di quelle conversazioni a ruota libera che si fanno a volte sul “futuro del mondo”, un amico, top manager di una grande multinazionale americana, mi aveva mostrato un rapporto riservato che analizzando a livello globale i più probabili scenari economici, sociali, demografici e politici a medio e

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lungo termine, suggeriva alla sua azienda di agire più o meno nello stesso modo con gli investimenti strategici.

Già abbastanza angosciato dalla situazione della mia ACMA, avevo rimosso dalla mente quel rapporto, che non diceva poi cose molto diverse da quelle che scienziati, economisti e altri esperti dicevano da anni sulla stampa, in TV e in ogni occasione di grandi dibattiti fra i potenti, per metterci in guardia su possibili forti turbolenze e foschi scenari in arrivo nel mondo in generale e dalle nostre parti in particolare. Ma, come dicevo, ricordandomene, feci due più due e giunsi alla conclusione che le voci sulla vendita dovevano essere molto più che voci e senza certo dimostrare particolari doti di analisi strategiche indovinai anche che a “comprarci” sarebbe stata la GD. Solo lei infatti poteva avere interesse a farlo, visto in che stato ci trovavamo.

Grazie al successo nel “tabacco” faceva una montagna di soldi, in attesa di una strategia di rilancio poteva utilizzare il nostro nuovo stabilimento e noi dipendenti anche per i suoi prodotti in continua espansione, operava in alcuni settori merceologici in concorrenza con noi e quindi si sarebbe tolta un problema, era la più grossa società del ramo della città e non poteva restare insensibile alle inevitabili pressioni della politica e delle forze sociali per salvare i nostri oltre cinquecento posti di lavoro e, infine, non poteva aver dimenticato che la sua fortuna era stata costruita in gran parte da quel modesto ma eccezionale elettricista di Ariosto Seragnoli che aveva imparato il “mestiere” proprio all’ACMA. Dicevo quindi che indovinai chi sarebbe stato il compratore, ma prima di proseguire con i ricordi di quei giorni turbolenti, credo interessante, visto come stanno andando le cose da un po’ di tempo dalle nostre parti, raccontarvi con due parole il contenuto di quel rapporto, in quanto forse vi sorprenderà. In sostanza vi si prevedeva che in Europa, in particolare in alcuni paesi fra i quali la nostra Italia, a partire dagli anni attorno al 2015-2020 si sarebbe assistito ad una graduale quanto ineluttabile caduta del reddito disponibile di una fetta consistente della popolazione. Una caduta stimabile da un minimo del 15 ad un molto più probabile 30% ed oltre, che avrebbe obbligato i consumatori dei prodotti della multinazionale a diminuirne fortemente i consumi. Piuttosto profetico, purtroppo, quel rapporto, vero? Ma anche una ragione per una bella arrabiatura! Anche se era un rapporto riservato, non poteva certo essere l’unico in circolazione, chissà quanti altri, che con motivazioni simili portavano a previsioni simili ne circolavano. Quindi o coloro che dovevano indirizzarci e guidarci erano ciechi e sordi, oppure semplicemente con il “diciotto garantito“ nelle università per tanti anni, a fare quel mestiere c’era una schiera di gente che proprio non capiva un accidente.

Forse, anzi, quasi certamente anche persone illuminate i miracoli non li avrebbero potuti fare: la televisione, i viaggi e la generale diffusione delle informazioni e quindi del sapere avrebbero messo in grado prima o poi tutti; dappertutto, di saper fare tutto; e quindi di eroderci quelle quote di mercato e di valore aggiunto che ci permettevano la bella vita.

E poi come tutte le cose anche i sistemi economico-politici, le “civiltà” in 134

sostanza, nascono, crescono, decadono e finiscono; è successo sempre nel passato e continuerà a succedere. Comunque ormai quel che è fatto è fatto e non ci resta che sperare nel prossimo “ciclo storico favorevole”: rimango però convinto che certi danni collaterali avrebbero però potuto essere mitigati!

Tornando alla cronaca, le voci di vendita divennero giorno dopo giorno sempre più insistenti, ma alle richieste di chiarimenti in merito che più di uno di noi fece a Borghi nella riunione di direzione di fine novembre, egli ribadì che il presidente della Emhart in persona l’aveva rassicurato che l’ACMA non sarebbe stata ceduta: una affermazione davvero incredibile, almeno per me. Sul numero di dicembre dell’ Emhart news ( pagina 275 ) avevo infatti letto la sera prima che la società aveva deciso di accantonare nel bilancio centocinquanta milioni di dollari per coprire le perdite in conto capitale che si sarebbero prodotte con le dismissioni in atto o programmate di sedici unità produttive; che fra queste c’era l’ACMA; e che il quasi certo compratore era, come avevo sperato e pensato, il gruppo GD! Non feci però nessun accenno all’articolo del giornale né in riunione né dopo, in quanto poteva esserci stato un ripensamento; anche se speravo tanto di no.

Ma non c’era stato nessun ripensamento. La mattina del dodici o del tredici di dicembre, non ricordo esattamente, una affannata signorina Fontebasso - la segretaria di Borghi - venne personalmente a chiedermi di raggiungere i miei colleghi in sala riunioni per una comunicazione urgente. E là, il signor Borghi, pallido in volto, con lo sguardo basso e la voce palesemente rotta dall’emozione ci comunicò che eravamo stati ceduti alla GD. Aggiunse solo, sempre senza sollevare lo sguardo dai fogli che aveva davanti, che la nuova proprietà l’aveva rassicurato su tutte le nostre funzioni e posizioni, che lui sarebbe rimasto fino a quando la GD lo avesse ritenuto opportuno e che prima delle feste di Natale ci avrebbe presentato gli uomini che ci avrebbero guidati. Non so in quanti credemmo alle rassicurazioni di Borghi sul nostro futuro, io pensai solo, e lo dissi una volta usciti dalla sala, che se GD voleva davvero tentare di curare la malattia dell’ACMA, sempre che fosse ancora curabile, per prima cosa avrebbe dovuto dare una bella sfoltita al nostro costoso plotone di venti membri più Borghi, il doppio dei dirigenti che un’azienda del nostro tipo e dimensione avrebbe dovuto schierare, e che quindi era il caso di cominciare a guardarci attorno! E l’incontro con gli uomini GD per fare conoscenza reciproca confermò le mie previsioni.

-------------------- o -------------------Eravamo tutti schierati ai nostri soliti posti attorno al lungo tavolo ovale della sala riunioni, una mattina della settimana dopo; ci eravamo solo un po’ ristretti per far posto ai quattro uomini GD in visita: l’amministratore delegato del gruppo, il dottor De Martis, il dottor Gariglio e gli ingegneri Grossi e Strazzari, che Borghi ci presentò come il triunvirato che ci avrebbe guidato da quel giorno in poi. E devo dire che come primo impatto fu più duro di quello che mi ero aspettato. Gariglio, 135

Strazzari e Grossi non aprirono mai bocca, limitandosi ad osservarci con aria inquisitrice, e De Martis pronunciò solo una trentina di parole o poco più, ma pesanti come macigni. Mentre Borghi ci presentava uno ad uno declinando le nostre funzioni esclamò infatti senza interromperlo: “Mamma mia! Quanti dirigenti!” E come la presentazione fu finita si alzò e guardandoci ruotando lo sguardo, ci disse con una freddezza raggelante che l’ACMA andava male, anzi, malissimo, che la colpa di quella situazione era nostra, e che pur se il gruppo GD aveva tutte le intenzioni di salvarla e risollevarne le sorti, ci sarebbero certamente stati duri sacrifici da fare. E dopo uno stacco ad effetto di pochi secondi, ci augurò buon Natale.

Come dicevo, un approccio più duro di quanto mi fossi aspettato, ma De Martis non aveva fatto altro che dirci cose che più o meno tutti conoscevamo o comunque sospettavamo; in particolare che come dirigenti eravamo più del doppio di quelli necessari. Non ho idea se i miei colleghi si sentirono colpiti dalla sua accusa generica, e se sì in che misura; io comunque non lo fui per niente. Sapevo di aver operato sempre con buoni risultati nei panni di disegnatore e di progettista anche se non avevo fatto invenzioni epocali - , di non aver causato mai danni di nessun genere all’azienda e di aver fatto di tutto, quasi sempre con successo, per rimediare a quelli fatti da altri. Potevo solo rimproverarmi di non essere stato più deciso nel denunciare le scelte a mio avviso sbagliate e quelle non attuate che ci avevano portato fuori mercato. Ma ormai era fatta! Uscimmo mesti e in silenzio dalla sala riunioni dove gli uomini GD rimasero con il signor Borghi e ci avviammo lentamente lungo il corridoio azzurro sul quale si affacciavano le porte dei nostri uffici fra commenti del tipo: “Mi sà che sarà dura; Non drammatizziamo; Comunque avranno bisogno di noi; E’ facile dare colpe! Avrei voluto vedere loro al nostro posto!“, e altri simili.

Non furono bei giorni i pochi che ci separavano dalla chiusura natalizia: l’impietosa analisi del dottor De Martis sullo stato dell’ACMA era trapelata, e si assisteva un po’ ovunque in azienda al formarsi e riformarsi di piccoli gruppi di persone che discutevano preoccupate e parlavano esplicitamente di colpe e responsabilità cominciando a “far nomi”. I più preoccupati erano comunque i “colpevoli” o presunti tali, cioè i miei colleghi dirigenti, in gran parte ultracinquantenni. Le tranquillizzanti parole che ad ogni occasione continuava a dire Borghi, che però si era giocata ogni credibilità, non servivano ormai più a rassicurarli. Io invece, pur molto coinvolto emotivamente, per il mio posto non avevo nessuna preoccupazione: avevo solo quarantatre anni; ero il più giovane dei dirigenti; parlavo due lingue straniere; ero l’unico commerciale a profonda base tecnica e i clienti, in particolare quelli delle grandi multinazionali, mi adoravano. Insomma era la GD, pensavo, ad avere bisogno di me; non io di lei! Se poi questa non fosse stata del mio stesso parere, peggio per lei! Da anni ricevevo offerte di lavoro attraenti da altre aziende: le avrei semplicemente ascoltate! Ero un po’ troppo “carico” vero? Può darsi.

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Venne comunque finalmente il 23 e nella falsa allegria delle varie feste d’auguri che comunque vennero organizzate nei vari reparti, finì l’epoca spensierata e incosciente nella quale eravamo vissuti per tanti anni. Chissà perché quest’ultima frase mi sembra adatta anche alla situazione della nostra Italia di oggi….

Alla ripresa, dopo l’Epifania, mi ero aspettato una rivoluzione sicuramente avevo pensato la GD aveva già esaminato la situazione generale e predisposto gli interventi più urgenti - ma invece le cose procedettero con calma. L’unico segnale immediato arrivò infatti in produzione, a capo della quale si insediò ufficialmente l’ingegner Strazzari, che andò a far compagnia all’ingegner Meola nel suo ufficio.

L’ingegner Grossi e il dottor Gariglio mantennero invece un ruolo indefinito insediandosi entrambi in sala riunioni e passando il tempo, il primo, in gran parte con Borghi e in giro un po’ in tutti i reparti a far domande all’uno e all’altro, mentre il secondo si aggirava per gli uffici amministrativi e del personale chiedendo solo documenti. E noi dirigenti continuammo a fare quello che facevamo prima, alcuni con “maggiore impegno” e a riferire a Borghi. Poi una mattina, verso il 20 del mese, l’ingegner Grossi mi convocò e mi chiese di rappresentare l’ACMA ad un incontro sulle prospettive dell’industria delle macchine automatiche per l’imballaggio della nostra regione, organizzato dall’ERVET all’hotel Carlton per il 6 febbraio.

Un incarico del tutto inaspettato, in quella situazione, che interpretai come il segno di una particolare attenzione e considerazione nei miei confronti, che mi portò a pensare, forse un po’ prematuramente, che non avrei dovuto cercarmi un altro posto. Quando poi lessi sull’invito l’elenco di coloro che avrebbero rappresentato le altre aziende partecipanti, devo ammettere che mi inorgoglì parecchio: erano tutti proprietari, azionisti di maggioranza e amministratori delegati.

Insomma tutti “pezzi” ben più grossi di me, con i quali, in quella appagante giornata, entrai in confidenza. Il mio intervento a braccio fu infatti applaudito da gran parte degli intervenuti, compreso il dottor De Martis che in rappresentanza della GD non si perdette una parola; e quando me ne tornai a casa ero davvero soddisfatto di aver potuto finalmente dire a orecchie che contavano un sacco di quelle cose che da anni mi frullavano in testa. E le soddisfazioni non erano finite.

Nemmeno una settimana dopo, il 13 di febbraio, potei anche dire tutto quello che pensavo sui problemi che attanagliavano l’ACMA e su come tentare di risolverne almeno una parte.

Conservo ancora una copia del questionario che Gariglio ci “invitò” a riempire indicando oltre a curriculum, funzioni, responsabilità, referenti, difficoltà, e un sacco di altre informazioni, anche finalmente suggerimenti per migliorare l’azienda e la sua competitività. Mi ci dedicai con passione e assoluta onestà, riempiendolo con tutta sincerità e con l’unico intento di fare del bene alla mia ACMA e con lei ai tanti amici e colleghi che ammiravo e stimavo e che sapevo tanto preoccupati; molto più di me! Certo fui molto critico sia nei confronti dell’organizzazione che di alcuni colleghi, ma soprattutto fui critico su di me affermando senza mezzi termini che la mia comoda funzione di 137

direttore vendite Italia era del tutto inutile; che i venditori italiani ma soprattutto quelli per l’estero non avevano certo bisogno di direttori, ma di prodotti richiesti dal mercato e competitivi da vendere; e che anche il responsabile dei ricambi non sapeva che farsene della mia supervisione.

Non arrivai a chiedere di essere licenziato; altruista sì, ma non masochista; ma memore dell’esperieza fatta in appoggio alle vendite tanti anni prima che oltre a essermi tanto piaciuta sapevo aveva evitato molti guai, suggerii di essere “ricollocato” ad esaminare in prima battuta le richieste dei clienti per indirizzare ufficio tecnico e vendite all’emissione di offerte più realistiche di quelle emesse negli ultimi anni.

Nell’immediato avrei certo evitato di continuare a deteriorare la nostra immagine e le nostre finanze con forniture disastrose, e per il futuro avrei potuto dare il mio modesto contributo alla realizzazione di nuove macchine per tentare il rilancio. Mentre scrivevo quei “suggerimenti” capivo di propormi come un supervisore tecnico - commerciale al di sopra di Rueff e Benazzi, ma era quello che ritenevo, non utile, ma indispensabile fare in quel momento. E la mia franchezza fece colpo.

Cinque giorni dopo aver riconsegnato il questionario venni convocato da Grossi e Gariglio, e passai quasi tutta la giornata; saltando anche il pranzo, a dar risposte alle loro domande. Risposte che li resero via via sempre più perplessi e preoccupati. E avevano ragione, poveretti, di essere perplessi e preoccupati! Dalle loro domande era più che evidente che non sapevano nulla o quasi della reale situazione dell’ACMA e che le mie parole costituivano una tragica sorpresa. Poi dopo qualche giorno Grossi mi riconvocò e mi disse che avevano deciso di darmi retta: dal giorno dopo sarei stato il “Direttore Progetti Speciali”; avrei riferito unicamente a lui, e avrei avuto la responsabilità tecnico-commerciale di tutte le forniture di macchine non di serie; dalla supervisione e autorizzazione all’emissione delle offerte all’indicazione delle soluzioni tecniche da adottare per la realizzazione dell’eventuale ordine fino alla cura di tutte le eventuali grane nel periodo di garanzia; grane che però in quel modo sarebbero “certamente” state ridotte al minimo. Non mi restava dunque che cominciare a darmi da fare, concluse sorridendo; mi strise la mano e mi congedò.

Quella sera fu davvero una gran sera: andai a prendere Luciana le dissi entusiasta della nuova situazione che naturalmente entusiasmò anche lei, cenammo in un ristorante del centro degno dell’occasione e ce ne andammo a letto felici. E anche la notte fu una gran notte, anche se la passai praticamente in bianco. Ma non a pensare, come potreste credere, alle difficoltà nelle quali mi ero andato a cacciare con le mie stesse mani - quel lavoro non sarebbe stato certo una passeggiata - ma, non ci crederete, incredibilmente, ai miei montatori: si proprio così.

Forse rendendomi conto che in quella nuova veste avrei avuto molto meno occasioni e tempo di ascoltare i racconti delle loro prodezze e avventure, che anche se a volte un po’ romanzate mi avevano tanto affascinato e insegnato, i loro nomi, volti e racconti mi tornarono in mente come mi sta succedendo anche ora dopo oltre trent’anni; e vi chiedo scusa, ma questa volta li voglio mettere al sicuro.

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Azzo: che con i suoi capelli e baffi bianchi e il suo modo di fare elegante ed educato mi era sembrato più un nobiluomo inglese che un meccanico bolognese.

Vitali, (detto vidoz): un ottimo tecnico ma anche un ottimo pescatore che mi aveva , è vero, fatto passare tante notti senza andare a dormire per essere i primi ad arrivare nei suoi “posti buoni”. Ma che giornate!

Negrini: che all’indomani di una difficile trasferta conclusa con successo agitava le mani davanti ai suoi interlocutori dicendo “queste sono manine d’oro”! E che un giorno mi aveva raccontato fiero di aver detto “in francese” ad un cliente a suo avviso incontentabile: “Se la mascin non marce pà, mandela a cà.” ( se la macchina non funziona, mandatela indietro).

Cuppini: che nonostante il suo poco raccomandabile aspetto era una persona estremamente buona e disponibile e con un “colpo di martello” sistemava alla perfezione anche la lama più storta.

Bozzoli, ( detto “fildfrein” in quanto minuto e magro da sembrare un”filo di ferro”): ipocondriaco, ma con il coraggio di andarsene tranquillamente una volta all’anno per una ventina di giorni in un ex forte portoghese nel bel mezzo della foresta nigeriana a istallare o riparare macchine per Lever Apapa. Coraggioso perché la prima volta che vi era era stato aveva imparato da un meccanico al quale aveva fatto i complimenti per la cura che ponevano al prato intorno al forte tenendolo perfettamente rasato e illuminato di notte, che non lo facevano per bellezza ma per potere vedere in tempo i serpenti che tentavano continuamente di scalare le mura!

Giuseppe Re: minuto e un po’ timido, ma esperto su quasi tutti i modelli di macchine e anche lui pronto ad affrontare le situazioni più difficili nei luoghi più disagiati e sempre molto formale e rispettoso nei miei confronti. Solo una volta si era preso della confidenza: facendo ridere la centralinista che lo aveva letto per prima, aveva chiuso un telex dalla Nigeria, salutandomi con un familiare “baci Re”. Doveva essere davvero in difficoltà e sentirsi molto solo; ma nel testo del telex non lo aveva fatto trasparire per niente! Era così Re! Sapeva cavarsela sempre e non voleva disturbare!

Paolo Soverini, da Castel Maggiore, come diceva lui: che per bilanciare le prese in giro di cui era fatto oggetto per la sua mole estraeva dal portafoglio una foto che ritraeva un bel bambino di un paio d’anni e diceva che quello era lui quando aveva vinto il concorso per il “più bel bambino del paese”.

Arturo Bonora: che al ritorno da una lunghissima trasferta alla Plasmon di Latina dove aveva impiantato e fatto funzionare alla perfezione ben tre linee per biscotti, aveva portato con sè a casa due camion di pezzi che aveva tolto dalle macchine perché “non servivano”: ed era vero!

Bongiovanni e Rossi Riccardo, entrambi specialisti su tante macchine diverse ma in particolare sulle “trafile” per lievito. Un prodotto davvero bizzarro, il lievito; che improvvisamente si poteva mettere a “fiorire” all’uscita della “bocca” della trafila, ma che loro riuscivano ad

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“addomesticare” accarezzandolo, lasciando a bocca aperta i disperati conduttori dei clienti.

Benfenati, Vincenzi, Montanari, Fantazzini: i più anziani ed esperti, seri, professionali, di poche parole, mai in difficoltà anche davanti ai problemi più difficili e giustamente dedicati all’addestramento delle giovani leve.

Lazzari e Soverini junior, fratello giovane di Paolo: i più promettenti fra le giovani leve, ormai palesemente destinati a succedere ai vecchi senza certo sfigurare nei loro confronti.

E poi naturalmente anche tutti gli altri di cui vi ho gia parlato: Armando Muzzarelli, l’irriverente montanaro del Frignano; Drusiani, Tarabella e Cantelli, senza i quali le mie 712-723 e molte altre macchine non sarebbero mai diventate perfette; il saputello “svizzero” Corazza, che dopo la trasferta in israele in mia compagnia era tornato all’ACMA meno saputello, meno svizzero, ma molto più simpatico a tutti e forse anche a se stesso; gli “eterni nemici” De Nunzio e Bolognesi, entrambi convinti di essere i migliori sulle imbustinatrici; Gilberto Ferrarini, il mio socio nella ATA, che tanto mi era stato vicino in Algeria quando mi era sembrato di stare per morire; e infine Franco Priori e Beppe Armenti, che mi “avevano preso in carico” quando la meccanica era per me solo una parola senza senso, e mi avevano accompagnato fino che non ne ero diventato, scusate l’immodestia, un esperto.

Tutti quei ricordi e quei volti mi provocarono un po’ di nostalgia per quanto stavo per lasciare, ma niente di più; e il mattino, annunciato da un laconico comunicato appeso in bacheca, mi ritrovai responsabile di oltre il 60% delle forniture che l’ACMA faceva a quei tempi. Ma non solo.

In quei giorni di confusione, anche i pochi clienti che avevano intenzione di chiederci offerte aspettavano di vedere consolidata la situazione per farlo e questo riduceva al minimo il mio impegno nelle mie nuove funzioni di supervisore, e quindi l’ingegner Grossi, accortosene, mi fece diventare la sua “ombra”. Cominciò infatti a consultarmi su questioni anche estranee al mio incarico e a volermi accanto nelle visite che prese a fare ai nostri partner industriali, commerciali, e ai grandi clienti. Mi chiese anche di accompagnarlo alcune volte in GD, che mi fece visitare lui stesso o accompagnato dai suoi due pilastri tecnici di quel tempo: Tomba e Gamberini, con i quali entrai in una simpatica confidenza.

Fra le responsabilità che mi erano state attribuite, come ricorderete, c’era quella sulle grane in periodo di garanzia, e naturalmente mi diedi da fare per cercare di risolvere nel modo migliore e al più presto quelle già scoppiate, ma soprattutto mi concentrai sui collaudi interni per evitare che ne scoppiassero altre. E divenni un collaudatore forse un po’ troppo severo. Capivo che con i miei stop alle spedizioni potevo creare seri problemi al flusso di fatturato dell’azienda, ma non riuscivo ad essere superficiale: ne avevo dovuto subire fin troppa di superficialità, e non era facile! Nessuno della nuova direzione criticava il mio operato, anzi: Grossi mi spalleggiava apertamente e mi spronava ad essere il più critico e severo possibile; ma era una parte che non mi piaceva fare per niente! Non era per niente appagante infierire sui miei colleghi 140

dell’ufficio tecnico e del montaggio. Anche se negli ultimi anni avevo litigato con loro tante volte per ottenere un minimo di collaborazione, era più che sufficiente l’opera di tagliatore di teste del dottor Gariglio a metterli in difficoltà; e cominciai a trovarmi a disagio.

Comunque, in quel non facile stato d’animo venne la metà del mese di aprile e l’ACMA si apprestò alla sua prima fiera Interpack sotto la nuova gestione: senza il signor Borghi perché seriamente ammalato. Ma non era ammalato solo lui purtroppo: lo era, e molto più seriamente, anche Romano Fioravanti; da tempo responsabile fiere e pubblicità. Aveva l’ufficio accanto al mio Romano; eravamo amici da sempre, era una persona unica sia professionalmente che umanamente e si stava dando da fare come al solito in modo totale per organizzare la fiera. Tutte le mattine veniva a salutarmi e andavamo insieme a prendere il primo caffé e a fare due chiacchere, prima di buttarci nella mischia. Ma una mattina mi aveva lasciato di sasso quando era entrato in ufficio. Aveva un’impressionante gola gonfia e rossa mentre mi chiedeva con voce roca se avevo voglia di un caffè; e gli avevo urlato: “Ma cosa hai fatto?”

Non riuscivo a crederci! La sera prima non aveva assolutamente niente!

Ma lui mi aveva risposto sorridendo: “Niente, niente, mi sono svegliato così; sarà un’infezione, se non mi passa andrò dal medico”. Ma Romano aveva continuato a lavorare senza andarci invece dal medico; con la gola sempre più rossa e la voce sempre più roca, fino a che non aveva finito di organizzare tutto; poi si era deciso. Il medico evava emesso un verdetto terribile, Romano aveva dovuto subire un devastante intervento chirurgico, e Grossi mi chiese il favore di sostituirlo a Dusseldorf per seguire l’approntamento dello stand.

-------------------- o -------------------Fu una fiera strana: non pensavo, con la morte nel cuore, che a Romano nel suo letto d’ospedale. Borghi, ancora ammalato, non era venuto; e io, Benazzi, Ferrari, venditori ed agenti eravamo impegnati tutti più che a cercare di vendere macchine a spiegare ai vecchi clienti la grande novità e a presentare loro l’ingegner Grossi. Lo stand venne anche invaso da uomini GD curiosi di vedere cosa avevano comprato e da molti concorrenti ansiosi di capire cosa stesse succedendo. Per me, a parte l’angoscia per Romano che non mi abbandonò un solo istante, fu allo stesso tempo un grande successo ma anche un vero e proprio dramma. Un successo per la considerazione nei miei confronti che Grossi volle evidenziare a tutti tenendomi al suo fianco in ogni incontro importante e per il generale apprazzamento che tutti i clienti e gli agenti gli espressero per avermi posto in quella nuova posizione. Un dramma perche tutte le illusioni che mi ero faticosamente costruito sul futuro con GD, svanirono improvvisamente.

Alle speranzose domande che quasi tutti nel congratularsi mi facevano sui piani di rilancio dell’azienda mi accorsi di non sapere cosa rispondere! E non perché la GD non avesse ancora formulato un piano d’azione; sapevo benissimo che in quel momento aveva ben altri problemi da risolvere; ma perché più pensavo a cosa avrei fatto io se 141

qualcuno mi avesse detto che potevo fare tutto quello che volevo per salvare l’ACMA, non avrei saputo cosa fare. E la nostra crisi mi apparve per la prima volta in tutta la sua reale dimensione. Avevamo lasciato andare troppo avanti gli altri in tutti i tipi di confezioni che il mercato chiedeva; l’unica possibilità di rilancio vero era inventarsi una “nuova confezione” vincente e le macchine per ottenerla, tipo Tetra Pak per intenderci: una cosa facile da dire ma difficilissima da realizzare anche con il danaro e la eccellente tecnologia della GD. Quella conclusione mi sgomentò, e anche se cercai di non far trasparire i miei pensieri, evidentemente non fui abbastanza bravo. Al ritorno dalla fiera, infatti, ricevetti ben tre proposte per cambiar bandiera, che mi accorsi sorpreso di ascoltare con molto meno “sufficienza” che in passato.

Due le scartai però subito, anche se venivano da aziende prestigiose in fase di crescita tumultuosa; non mi interessava ormai più fare “solo” il direttore tecnico, un ruolo che oltrettutto mi avrebbe praticamente fatto smettere di viaggiare, attività alla quale non volevo assolutamente rinunciare. All’altra pensai in verità per un paio di settimane; anche quella veniva da un’azienda prestigiosa e non mi avrebbe certo limitato nel viaggiare: mi volevano infatti come direttore commerciale, ma l’azienda era ad almeno tre ore di macchina da Bologna e sarei stato costretto ad un pendolarismo settimanale che avrebbe sconvolto le mie ormai consolidate abitudini di vita. E così dimisi pensiero sperando che la GD tirasse fuori, o che venisse a me al più presto, quell’idea rivoluzionaria senza la quale, ero sicuro, saremmo stati condannati ad una lunga e deprimente marginalità. Ma saltò fuori una quarta proposta. Il mio vecchio amico Gino Benedetti, consocio della BFB, la ricordate? Mi chiese di fare il direttore commerciale della MAB, un’azienda della quale era socio non operativo con Roberto Buffoni e Dino Cavarra, due alti dirigenti commerciali dell’IMA, condotta da un quarto socio, Franco Barilli, e ritornai a pensare di migrare.

Certo la MAB era tutto fuori che un punto d’approdo prestigioso; per quel poco che ne sapevo era una micro- azienda che pur nata nell’ormai lontano 1981 con ottimi presupposti per avere successo, non era riuscita ad ottenerlo. Ma ai miei occhi quello non era affatto un difetto, anzi: era il genere di sfida che cercavo. Inoltre, anche se era una società autonoma, gravitava nell’orbita della BFB, dove grazie alle amicizie che mi ero fatto fin dai tempi di Cussons nel ‘76 e che avevo mantenuto vive nel corso di tanti altri collaudi, ero, come si dice, di casa. Due ragioni valide per farmi accettare la proposta di Gino, condita inoltre da un’offerta economica del tutto spropositata in rapporto alla mansione e alla dimensione dell’azienda. C’era un solo problema, e non da poco: Franco Barilli, l’uomo che avrei dovuto “aiutare”, non sembrava per niente entusiasta di avermi al suo fianco; e io non avevo certo né voglia né tanto meno bisogno di andare “in chiesa a dispetto dei santi”.

Ma evidentemente Gino mi voleva a tutti i costi e nel corso di un ennesimo incontro per convincermi, calò la carta vincente dicendomi che se non fossi riuscito ad andare d’accordo con l’ombroso Barilli e a far bene il mio lavoro, ne aveva già pronto uno in BFB che era certo mi avrebbe soddisfatto. Una garanzia gradita, anche se non richiesta, che 142

unita come dicevo all’offerta economica eccessiva mi fece pensare che Benedetti mi volesse con lui comunque, chissà con quale disegno in testa, e quindi, incuriosito, decisi di andarlo a scoprire. Gli dissi di sì, e il giorno dopo, il 23 di giugno del 1987, al termine di una riunione di routine con Gariglio e Grossi, consegnai a quest’ultimo il foglio senza busta con il quale rassegnavo le dimissioni.

Grossi lo prese con noncuranza forse pensando a qualche nota informativa sull’argomento del quale avevamo appena discusso, gli diede una scorsa, cambiò faccià lanciandomi uno sguardo interrogativo, e lo passò muto a Gariglio che come lo ebbe letto esclamò: “Ma è impazzito, Tabaroni!” E io, stranamente calmissimo, gli risposi che non ero impazzito ma semplicemente mi sentivo inadeguato ad aiutarli nella difficile impresa nella quale si erano imbarcati; e soprattutto che ero stanco, molto stanco. Per alcuni secondi nessuno dei due parlò; erano sbigottiti. Poi riprese la parola Gariglio che mi disse che pur se capiva che potevo essere preoccupato dello sfoltimento in atto fra i miei colleghi - in undici ci avevano già lasciato - io ero uno dei pochi della vecchia gestione sui quali contavano, come del resto Grossi mi aveva ampiamente dimostrato. Io però non volevo dir loro la vera ragione per la quale me ne andavo: avevano già abbastanza grane da risolvere anche senza dover pensare alle mie fosche previsioni. Mi limitai quindi a rispondergli che avevo apprezzato le dimostrazioni di fiducia di Grossi e non avevo nessuna paura di fare la fine dei miei colleghi, ma ribadii quanto avevo già detto.

A quel punto Grossi mi chiese cosa pensassi di fare, e quando gli dissi della MAB, della quale con tutta evidenza nessuno dei due aveva mai sentito parlare, mi guardarono stralunati dicendomi all’unisono che non potevo pensare seriamente di lasciare uno dei più grandi e solidi gruppi del mondo per un microbo quale doveva certamente essere quell’azienda. A loro avviso, riprese la parola Gariglio, quella mia folle decisione era certo dettata dallo stress che avevo subito negli ultimi anni, esploso probabilmente a causa della malattia di Fioravanti, del quale sapevano ero molto amico. Una reazione comprensibilissima, continuò, che però pensava meritasse un ripensamento. Potevo allentare il mio impegno in azienda da subito, e anche anticipare e allungare il periodo di ferie: avrebbe tenuta la mia lettera nel cassetto certo che a settembre sarei ritornato “in forma e rinsavito”. Era una aperta dimostrazione di stima e disponibilità che fece vacillare la mia determinazione, ma solo per un attimo. Quelle parole, pur molto gradite, non cambiavano infatti in nessun modo il quadro delle ragioni che mi avevano spinto a dimettermi. Mi alzai, quindi, e con un tono che a mio avviso non poteva lasciare dubbi, dissi solo: “No, non cambierò idea, tenete pure la lettera nel cassetto se volete, ma il mio periodo di preavviso scade il 15 di settembre”. Sorrisero entrambi nel salutarmi e ribadirono:“Ne riparliamo a settembre!”

Al rientro in ufficio informai Alessandra e Sandra; che rimasero di stucco. Alessandra, che da quando aveva perso improvvisamente il papà pochi mesi prima, mi considerava come il suo sostituto; mi pregò per tutto il resto della giornata di ripensarci. Ma pur senza rivelarle le 143

ragioni del mio gesto, per non spaventarla, continuai a ripeterle che non sarei tornato indietro. La notizia in poche ore si sparse in tutta l’azienda e anche fuori e naturalmente ci furono le reazioni più diverse.

All’interno quasi tutte di incredulita; non erano sfuggite a nessuno le attestazioni di fiducia che la nuova proprietà mi aveva conferito, e sembrava impossibile che io le buttassi alle ortiche. Quelli che mi stimavano poi, la maggioranza credo, non mi nascosero, oltre al dispiacere di vedermi andar via, anche una grande preoccupazione per le possibili implicazioni negative sull’azienda e sul loro futuro: preoccupazioni che cercai comunque in ogni modo di minimizzare. I pochi invidiosi infine, che mi consideravano da sempre solo un presuntuoso arrogante fortunato, non fecero che spargere in giro la loro invidia dicendo che quel mio gesto era un’ennesima prova di quello che avevano sempre pensato di me; parole che ignorai come avevo sempre fatto. All’esterno gli agenti non mi fecero anche loro mancare attestati di stima, alcuni veramente commoventi, e in generale espressero dispiacere e preoccupazione per la mia uscita, mentre al contrario, riscontrai una inaspettata solidarietà da parte di molti clienti/amici; preoccupati forse di perdere il loro riferimento di fiducia all’ACMA, ma speranzosi di rivedermi presto con proposte interessanti, anche se sotto un’altra bandiera.

Per tutto luglio, mentre la stampa faceva clamore sulla situazione dell’ACMA e sugli inevitabili esuberi, continuai a fare il mio lavoro, prendendomi però, come consigliatomi, diverse mattinate di ferie arretrate per andare a pescare e per conoscere, con l’aiuto di Benedetti e dei suoi soci, la MAB e i suoi problemi. Imparai così che l’azienda era nata partendo dal presupposto che i suoi soci non avrebbero avuto nessuna difficoltà a vendere le sue macchine: Buffoni e Cavarra le avrebbero veicolate senza problemi verso i clienti dell’IMA, e la BFB le avrebbe promosse insieme alle sue fardellatrici. Solo che i tre soci avevano fatto i conti senza l’oste, o meglio, senza gli osti; rappresentati da Barilli e Zucchini. Barilli aveva infatti disegnato tre macchine (un’ astucciatrice, un’incartonatrice e un palettizzatore) che piacevano molto poco ai clienti dell’IMA; al 90% operanti nei settori del thè, cosmetico e farmaceutico; Mentre Zucchini, avendo fatto un accordo che obbligava l’ACMA a vendere in esclusiva le sue macchine nel settore saponi, aveva di fatto impedito alla BFB, che vendeva in esclusiva in quel settore tramite l’ACMA, di promuovere su quel mercato le macchine della MAB. Insomma un inghippo dal quale si poteva uscire solo o ridisegnando le macchine per accontentare i clienti dell’IMA e disdicendo l’accordo con l’ACMA nel settore saponi, oppure, come avevano scelto i tre soci, a dispetto di Barilli, prendendo un direttore commerciale come me che, di casa più o meno in tutti i settori merceologici che usavano macchine per imballare, potesse comunque riuscire a venderne sviluppando fatturato e utili per consentire la realizzazione di macchine più adatte ai gusti dei clienti IMA senza dover tirar fuori di tasca altri soldi. Un “gioco” molto interessante, avevo pensato.

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Ebbi anche diverse occasioni, in quei giorni, di affiancare Grossi in compagnia di qualche cliente importante: ma non ci fu da entrambe le parti nessun accenno alle mie dimissioni. Ad agosto, come facevo da alcuni anni, me ne andai al mare a Grado e per tutto il mese mi riposai, nuotai, andai a cercare, dopo la pioggia, reperti romani nei campi arati di Aquileia, e dimenticai completamente sia l’ACMA che la MAB. Al rientro, ripresi il mio lavoro con impegno, incontrai alcune volte Grossi e Gariglio con i quali però non scambiai che saluti, e, sicuro che si fossero ormai convinti, il mattino del quindici chiesi di poter parlare all’ingegner Grossi per salutarlo. Ma avevo capito male! Con lui c’era anche Gariglio, che, appena fui entrato, senza darmi il tempo di parlare, mi disse spingendo verso di me la mia lettera: “Allora Tabaroni, si è riposato? bene! si riprenda la sua letterina e ritorni al suo lavoro!”

Anche se li avevo pensati convinti, mi ero aspettato qualche ultimo tentativo di trattenermi, che tutto sommato mi avrebbe fatto anche piacere, ma quella arroganza mi diede fastidio. Li guardai negli occhi e con sicurezza dissi che sì, mi ero riposato, ma che non avevo cambiato idea ed ero andato solo a salutarli. Aggiunsi che li ringraziavo per la fiducia e la considerazione che mi dimostravano ancora una volta, che sarei stato a loro disposizione per aiutarli a chiarire ogni eventuale questione sospesa di mia competenza e che gli auguravo tutta la fortuna possibile. Restarono in silenzio, li avevo spiazzati, ma non si arresero.

Mi chiesero di aspettarli un momento, uscirono, e dopo una diecina di minuti rientrarono facendomi un’offerta davvero incredibile, ma che ottenne l’effetto opposto a quello che si erano aspettati. La spietatezza che ne era alla base mi fece pensare che sarebbe stata usata anche nei miei confronti quando avrebbero deciso di non avere più bisogno di me, e mi tolse ogni residua remora. Mi limitai quindi a ringraziarli di quella loro ulteriore dimostrazione di fiducia ma chiesi di dare istruzioni all’ufficio personale per espletare le pratiche burocratiche necessarie. Li salutai e uscii.

Cominciai a fare il giro dell’azienda per salutare ad uno ad uno colleghi, amici e collaboratori dai quali ricevetti, devo dire con molto piacere, pacche sulle spalle, frasi di incoraggiamento, abbracci, promesse di mantenersi in contatto e persino qualche lacrima evidentemente sincera. Verso il tardo pomeriggio cominciai a cedere: avevo un terribile groppo in gola, facevo fatica a parlare e il mio cuore batteva ad un ritmo sempre più rapido e irregolare; stavo davvero male.

Mi feci comunque forza, mi recai all’ufficio personale a ritirare tutto quanto dovutomi e quasi di corsa tornai nel mio ufficio a prendere le poche cose che vi avevo lasciate, dove trovai una bella sorpresa: evidentemente più convinti di Grossi e Gariglio che me ne sarei davvero andato, i miei amici più intimi avevano posato sulla mia scrivania una magnifica canna da pesca in carbonio accompagnata da un biglietto strappalacrime e da un disegno, ironico e pungente ( pagina 277 ) nel quale Fioravanti, pur se in ospedale e con ben altri pensieri in testa, aveva rappresentato un Tabaroni felice e sordo all’appello di Grossi di restare al suo fianco, che saltava giù dalla scassata diligenza dell’ACMA trainata da dipendenti/somari fustigati da Gariglio. Presi il tutto, 145

abbracciai Alessandra ammutolita e piangente, corsi fuori senza fermarmi a parlare con nessuno, salii in macchina e finalmente potei lasciarmi andare ad un pianto dirotto.

Non so quanto durò quel pianto, sicuramente diversi minuti, poi mentre nella mente mi passavano confusamente una miriade di momenti di quei venticinque anni, cinque mesi e tredici giorni passati con la “grande mamma”, piano piano il battito del cuore tornò quasi normale, misi in moto, in pochi minuti fui a casa, lasciai l’auto in garage e come facevo sempre mi avviai verso il centro a piedi. Era una giornata di sole tiepido, la prima di quel settembre fino al giorno prima molto piovoso, e nel procedere lentamente su via Indipendenza verso piazza Maggiore passo dopo passo smisi di pensare al passato e cominciai a pensare al futuro.

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Alla MAB, BFB e Penta, con un’occhiata in PRB e IMA Come mi ero aspettato, il mio ingresso in MAB, il giorno dopo, non fu un grande evento: ero passato prima in BFB, dove oltre a Benedetti mi aspettavano anche Buffoni e Cavarra, e con loro, verso le nove, arrivai al piccolo capannone, nella squallida zona artigianale fra Funo e San Giorgio di Piano, dove trovammo ad aspettarci un Barilli che non riusciva molto bene a dissimulare di non essere molto felice per il mio arrivo. Cosa del resto comprensibile. Facemmo insieme un rapido giro dell’azienda, dove contai una diecina fra operai e impiegati, ai quali Benedetti mi presentò, forse con eccessiva enfasi, come una specie di salvatore, poi ci sedemmo a far quattro chiachiere informali, alle quali Barilli partecipò a monosillabi. Probabilmente, nei suoi panni sarei stato adombrato anch’io, e forse più che adombrato; presentandomi come aveva fatto Gino, lui non ci aveva certo fatto una gran figura con i suoi. Comunque, convinto che non appena mi avesse conosciuto meglio e soprattutto che quando gli avrei portato a casa dei risultati, quel suo modo di fare sarebbe cambiato, non ci feci caso più di tanto. E in effetti, come Benedetti e soci se ne furono andati, Barilli mi sembrò già più disponibile: mi mostrò il mio modestissimo ufficio, mi presentò la “nostra“ segretaria, e mi riaccompagnò in giro per l’azienda, con più calma, a conoscere meglio tutti.

Fu un giro ancora una volta comunque rapido, l’azienda era piccolissima, ma che mi permise di farmi un’idea generale sulle forze sulle quali avrei potuto contare. Di Barilli e delle sue capacità come progettista qualcosa sapevo già; Renzo Balletti, il capo del montaggio, mi fece una buona impressione, mentre Luca Palumbo, l’addetto alle vendite, confesso che mi sembrò un po’ troppo demotivato per sedurre clienti; ma quello ci avrei pensato io. Gli altri, un disegnatore, tre montatori, un paio di amministrativi e un magazziniere, mi diedero l’impressione di essere brave persone, ma piuttosto giù di corda. Ma io ero lì anche per tirali su di morale, pensai, e ce l’avrei fatta. Con o senza la collaborazione di Barilli. Ma scoprii quasi subito che non sarebbe stato facile.

Innanzi tutto Benedetti e soci, che certamente lo sapevano bene, non mi avevano detto che la PRB di Ozzano Emilia, il concorrente più forte della MAB, non gli faceva concorrenza solo nei settori del thè, cosmetico e farmaceutico, ma, spinta con grande efficacia dallo Studiopack, che curava le vendite anche per Marchesini, anche in tutti gli altri settori, e con successo. E poi scoprii la ragione per la quale la PRB vinceva.

Mentre delle macchine di Barilli si salvava in pratica solo l’incartonatrice MB 80 - l’astucciatrice e il palettizzatore erano invece troppo datati e davvero difficili da vendere - quelle che avevano realizzato i due soci progettisti della PRB, Patarozzi e Biagini, erano, oltre che più moderne e affidabili, anche molto più “belle”. E quella bellezza, mi dissero all’L’Oréal Francia, che visitai con agenti IMA, era stato un motivo non secondario per sceglierle. Una cosa che non avrei mai creduto se non avessi visto con i miei occhi, in un paio di reparti di 147

produzione, una marea di macchine PRB che, dipinte con i colori di rossetti e lacca per unghie e contornate da piante fiorite, ( sì avete proprio capito bene!) più che dispositivi tecnologici, sembravano vere e proprie opere d’arte.

Nonostante quel quadro non proprio roseo, non persi comunque la fiducia di riuscire in quello che mi era stato chiesto. L’MB 80 aveva buone caratteristiche tecniche e, anche se bruttina, si poteva vendere a un gra numero di clienti che sapevo badavano più al sodo che all’estetica. Certo sarebbe stato meglio poterla offrire come faceva la PRB, fra un’astucciatrie e un palettizzatore di qualità simili, formando una linea, ma da quel lato sapevo già come la pensavano Benedetti e soci, quindi mi diedi da fare con quello che avevo. E cominciai cercando di portare a termine alcune delle trattative in corso, apparentemente arenate; fra le quali, quella che si trascinava senza esito da oltre un anno con la Champion Belgio, il grande produttore di candele per motori a scoppio.

Mi informai, pensai di avere individuato i motivi della titubanza del cliente, e con un paio di viaggetti in compagnia del simpatico agente dell’IMA, Beaupin, portai a casa l’ordine per due MB 80. Nel contempo chiesi aiuto al mio amico Ted Hammond, che riuscì a convincere addirittura Robert R. Rutkowski, a quei tempi conosciuto da tutti i costruttori di macchine per l’imballaggio come l’inavvicinabile R.R.R; supervisore tecnico della Procter & Gamble, a livello mondiale, per gli acquisti di macchine per l’imballaggio, a venirmi a trovare in MAB. E infine, con grande sollievo di Sandra Capri, Patrizia Coppari e Lorena Bertanti, le simpatiche addette alle vendite dell’IMA che avevano dovuto sempre trovare difficili mediazioni fra i clienti in visita per collaudi o per definire aspetti tecnici delle forniture, e Barilli, feci riprendere fiducia nella MAB da parte di alcuni loro clienti e in particolare dalla Hoechst, che arrivò ad esprimere su una lettera ufficiale la sua soddisfazione per la mia professionalità.

Naturalmente quei “rapidi successi”, fecero un certo scalpore; di sicuro in MAB, ma anche in BFB e soprattutto in IMA, dove accompagnai a sorpresa in visita Rutkowski, e mi sarei aspettato non dico un plauso, ma un cenno di riconoscenza da parte di Barilli. E invece no. Ad ogni buon risultato era diventato sempre più astioso nei miei confronti, e quando mister Rutkowski gli scrisse personalmente che la “MAB era certamente fortunata ad avere un direttore commerciale come me e che la MB 80 sarebbe stata in evidenza nei futuri investimenti in quel tipo di macchine”, il suo astio divenne così forte da diventarmi insopportabile.

E decisi che era venuto il momento di mandarlo a quel paese. Ma non corsi subito da Benedetti, come forse penserete, per fargli scoprire le sue carte. Per alcuni giorni infatti, pensai anche di “tornare a casa”; da dove in effetti non mi ero allontanato poi tanto.

Era stata una strana storia quella. Nonostante non ci fossimo lasciati certo in buona armonia, solo quindici giorni che me ne ero andato, Grossi mi aveva chiesto di andare a chiarirgli alcuni numeri. Era stato molto gentile, e non mi ero trovato in imbarazzo come avevo pensato.

Quindi c’ero tornato volentieri una seconda volta, poi una terza, e poi 148

un’altra ancora; alimentando ogni volta sempre più in ACMA le voci su un mio ormai prossimo ritorno e riprendendo con lui sempre più confidenza. Una confidenza che, proprio un paio di giorni prima dell’arrivo in MAB della lettera di Rutkowski - si dice a volte delle coincidenze - mi aveva spinto a confessargli cosa avevo pensato quando mi avevano fatto la loro “ultima offerta”, e lui, dopo avermi detto che avevo proprio pensato male, aveva aggiunto che l’offerta era ancora valida…

Ci pensai per qualche giorno, come dicevo, a quell’offerta, ma poi mi dissi che le ragioni che mi avevano fatto venire via c’erano ancora tutte, e dopo averne presa in considerazione e scartata anche un’altra, ancora meno attraente, il 18 di gennaio dell’88, mi decisi. Buttai giù due righe di dimissioni e andai da Gino per dirgli che sarei tornato in MAB solo per consegnare a Barilli la lettera e che se lui era sempre dell’idea di offrirmi un incarico in BFB, era venuto il momento di farlo; altrimenti amici come prima. E lui, con aria soddisfatta, mi disse che lo era e che ne avremmo parlato quella sera a cena alla Grigliata di Casadio. Ci salutammo, andai in MAB e consegnai la lettera di dimissioni ad un Barilli che vidi per la prima volta raggiante, e la sera, davanti a Bonettini e Frabetti, dopo un’ottima cena condita da tanti nostalgici ricordi delle vicende vissute, alle grappe, Gino mi svelò quello che sospettavo da quando si era messo con troppa insistenza a farmi domande su difetti e limiti delle avvolgitrici per saponette dell’ACMA e dei suoi concorrenti, e su come rimediare ai primi e superare i secondi.

Voleva, mi disse, che progettassi per la BFB “l’avvolgitrice per saponette più veloce, semplice e versatile che il mercato avesse mai sognato”. Poi si fermò lì; ci disse di essere stanco, che era meglio che ce ne andassimo a casa fintanto che eravamo in grado di guidare, e ci diede appuntamento per l’indomani in tarda mattinata a casa sua dove saremmo scesi nei dettagli. Forse eravamo ancora abbastanza lucidi per guidare, ma non certo per fare pensieri impegnativi; almeno io. Non pensai quindi alle parole di Gino nel tornare a casa, e mi addormentai come un sasso appena toccai il letto, e solo il mattino dopo, quando alle cinque mi svegliai con un feroce mal di testa, pensai che Benedetti fosse impazzito. Già, perché, non poteva non sapere che i liquidi erodevano giorno dopo giorno quote sempre più grandi di mercato alle saponette, e che quindi anche di una macchina imbattibile se ne sarebbero vendute sempre di meno.

Mi avviai quindi verso Funo pieno di dubbi su quell’iniziativa, e ammetto che ripensai sia all’offerta di Grossi che a quell’altra, ma a Castel Maggiore, cambiai idea. Oltre che saperlo, che quel mercato era in discesa, Gino era tutto fuori che stupido, e forse voleva intraprendere quel progetto proprio perché era conscio di quella tendenza e voleva mettere le mani avanti. Se infatti il consumo di saponette fosse continuato a scendere, sarebbe scesa anche la domanda di sue fardellatrici, e solo promuovendo in coppia macchine studiate per lavorare insieme, si sarebbe potuto coprire il residuo mercato delle saponette, che comunque non sarebbe morto mai del tutto. Non pensai

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invece affatto, lo confesso, a quello che poteva significare per me quella faccenda; l’avrei fatto quando avrei avuto un quadro più completo.

In “taverna” da Gino, oltre a lui, Frabetti e Bonettini, trovai anche il mio vecchio collega e amico della Wrapmatic, Tassi, da tempo capo dell’ufficio tecnico in BFB, e Grassilli, che mi fecero festa. Parlammo un po’ del più e del meno, poi Gino, dopo avermi confessato che mi aveva adescato con la MAB sapendo che se mi avesse chiesto di fare la macchina per saponette quasi certamente non gli avrei dato ascolto, mi disse che aveva sperato che avessi resistito un po’ di più con il “difficile” Barilli, certo che avrei fatto un “gran bene” all’azienda, e mi spiegò le ragioni che li avevano portati alla decisione di realizzare quel progetto.

Che erano esattamente quelle che mi ero immaginato lungo la strada; più una, alla quale, sinceramente, non avevo pensato.

L’idea, disse, era nata un paio d’anni prima dalla constatazione condivisa da tutti e tre i soci che a quel punto della sua storia la BFB doveva decidere cosa voleva fare da grande, visto che grande lo stava diventando molto rapidamente. In un primo momento avevano pensato di legarsi di più all’IMA, che, anche se li avrebbe costretti a rinunciare in parte alla loro indipendenza, avrebbe garantito una crescita certa, e forse anche un acquirente già pronto nel caso avessero un giorno deciso di vendere l’azienda. Ma poi, pensando che in caso di dissapori o addirittura di divorzio dall’IMA avrebbero potuto trovarsi “in braghe di tela”, avevano deciso di prepararsi una scialuppa di salvataggio. E quale miglior scialuppa di quella. Anche se erano perfettamente consci del declino delle saponette, ci sarebbe sempre rimasto un mercato residuo di tutto rispetto, che loro avrebbero potuto coprire certamente da una posizione di leader se insieme alle loro rinomate fardellatrici avessero proposto un’avvolgitrice con prestazioni e prezzo competitivi. E poi, se avessero deciso di ritirarsi, la BFB sarebbe stata ancora più appetibile di quanto già era.

Il legarsi più strettamente all’IMA non aveva di fatto comportato nessuna scelta particolare: avevano solo dato priorità agli ordini che questa procurava ed erano stati più disponibili e flessibili nell’accettare le richieste di gruppi e applicazioni speciali richieste dai suoi clienti.

Diversa e più problematica del previsto si era rivelata invece la realizzazione dell’avvolgitrice. Con un po’ di ingenuità e per fare il più in fretta possibile avevano comprato i disegni dell’avvolgitrice “a stella frontale” della Verpak; quella di Bosi, ricordate, che anche se avevano in parte modificata e migliorata, non aveva riscosso un gran successo; anzi era stata snobbata. Quel piccolo fallimento li aveva portati ad accantonare l’idea, che però era tornata attuale quando la crisi dell’ACMA aveva fatto intravvedere la possibilità di “pescare” in essa professionalità idonee allo sviluppo di un progetto ex novo. E avevano “pescato” me; che ero comunque da tempo oggetto delle loro attenzioni per rafforzare la BFB in generale, ma che dai discorsi che gli avevo fatto fino a quel momento sulle macchine per saponette, sembravo proprio essere l’uomo giusto. Finiti gli antefatti e iniziati gli antipasti, Benedetti, fra una tartina e una pizzetta, mi descrisse come “mi vedeva” in azienda.

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Innanzitutto per tenere il più a lungo possibile il segreto sul progetto, non avrei operato in BFB, ma nei locali di un suo ufficio privato nel centro di Funo, dove per lui sarebbe stato comodo “starmi a fianco” e avrei potuto avvalermi dei servizi della sua segretaria. In secondo luogo non avrei utilizzato progettisti e disegnatori della BFB, ma persone nuove, che avrei potuto scegliere a mia discrezione sul mercato. Per tener segreta infine la costruzione e la messa a punto del prototipo, non ci sarebbero stati problemi: ci avrebbe pensato Frabetti. Quel lavoro, però, della presumibile durata di un anno e mezzo o due, proseguì, non avrebbe certo impegnato tutto il mio tempo. In fondo avrei dovuto fare solo qualche schizzetto, seguire il progettista esecutivo, andare a pranzo con potenziali acquirenti in visita alla BFB o in IMA per altre ragioni per sondare discretamente le loro esigenze, e fare qualche gita turistica in America per andare a fare quattro chiacchere informali con i comuni amici “saponai”. E un uomo con le mie caratteristiche, capacità, esperienze e conoscenze, mi blandì, non poteva essere lasciato a oziare.

Avrei quindi partecipato alla vita dell’azienda, avrei frequentato e presenziato a tutte le fiere, avrei affiancato lui e Grassilli - che annuì sorridendo - nei contatti con l’IMA e con i principali clienti, e avrei partecipato a tutte le riunioni di direzione settimanali fornendo l’apporto della mia esperienza nelle prestigiose e variegate vesti di “marketing manager” e con lo stesso principesco stipendio che mi aveva concesso in MAB. A quel punto passammo dalle parole ai fatti dedicandoci con impegno all’ottimo pranzo che sua moglie Claudia ci aveva preparato, e al caffè scoprii che Gino, dando evidentemente per scontato che avrei accettato la sua proposta, aveva già pronto per me un’altro “lavoretto di tutto riposo”. Mentre lui si sarebbe occupato di organizzare la logistica e la strumentazione degli uffici di Funo, mi disse, gli avrei fatto un piacere se avessi dedicato un po’ di tempo alla Penta. Si trattava, continuò, di un’altra piccola società partecipata nata da poco, nell’87, che non stava dando i risultati sperati, dove però, si affrettò a rassicurarmi, avrei trovato un’accoglienza diversa da quella riservatami da Barilli. Si alzò, disse a tutti che era stanco della nottata precedente e a me di pensarci bene prima di dirgli di no, e ci invitò cortesemente ad andarcene. Mi avrebbe aspettato il giorno dopo per espletare le pratiche di assunzione.

Erano le tre del pomeriggio, e nonostante facesse un freddo cane, era una bellissima giornata ancora molto luminosa. Decisi quindi di non andare subito in centro ma di andare a pensare al mio futuro in un luogo fatato del mio ormai lontanissimo passato nel quale non ero più stato da almeno quarant’anni. Presi la trasversale di pianura, al Passo dei Gatti svoltai verso la Torre Verde, superato il Trebbo di Reno, alle Borre salii sull’argine del fiume dove andavo a scorrazzare da bambino mentre mia madre raccoglieva fiori di camomilla, e guardando il sole tramontare lentamente dietro i pioppi dell’altra sponda, pensai nell’ordine che con l’ACMA non avevo preso nessun impegno di non concorrenza; che non sarei certamente stato il primo dei suoi “figli” a fargliela; che forse sentendosi attaccata avrebbe finalmente reagito o 151

competendo sul piano tecnologico - la GD non era seconda a nessuno da quel lato - oppure comprando il progetto di Benedetti o, meglio ancora, tutta la BFB; e infine che l’offerta di Gino sarebbe stata per me forse l’ultima occasione per poter dimostrare che qualcosa, sul campo, avevo imparato. E su quell’ultimo pensiero mi accorsi che era buio pesto, scesi in fretta dall’argine riuscendo a non impantanarmi, e quando passai a Pescarola davanti alla casa dove avevo abitato da bambino, avevo già deciso che a Benedetti avrei detto di sì.

Quando lo dissi a Luciana, mi sembrò contenta, prendemmo un aperitivo da Zanarini, mangiammo per strada una pizza di Altero e appena giunti a casa ce ne andammo subito a dormire. Il mattino dopo, quando passai a casa di Gino a dirglielo, lui mi comunicò, sorridendo sornione, che aveva già dato istruzioni all’ufficio personale di espletare le pratiche, e che gli dovevo solo dire di che colore desideravo la “Croma” aziendale per farla ordinare. Nell’andare insieme in BFB, mi disse anche che secondo i suoi consulenti il mio progetto aveva buone possibilità di essere finanziato a fondo perduto da una legge di sostegno alla ricerca e sviluppo. In BFB feci con lui un giro completo degli uffici e dell’officina salutato con calore dai tanti che conoscevo, che sapevano già che sarei stato dei loro, ma non a fare cosa, pranzammo in un ristorante in centro a Bentivoglio, e subito dopo andammo nel capannone nel quale avevo conosciuto tanti anni prima la BFB, dove aveva sede la Penta.

Ci accolsero con entusiasmo Biagi, Forni e Rizzo, che avevo conosciuto dipendenti della BFB, e che imparai erano soci di Benedetti in quell’impresa. Facemmo quattro chiacchere generiche, poi Gino se ne andò dicendo a Forni di raccontarmi tutto dell’azienda e dei suoi problemi, e io in mezz’ora scoprii che, certo in buona fede e forse addirittura per aiutarli, Gino aveva messo i suoi tre ex in un bel pasticcio. La Penta era nata per fare concorrenza alla CASSOLI e alla Wrapmatic nell’avvolgimento dei tovagliolini di carta e dei fazzolettini da tasca. L’idea era stata di riuscire ad avvolgere i primi facendo piccole modifiche a una fardellatrice BFB, e i secondi facendo altrettanto con la sfortunata avvolgitrice “a stella frontale” di Bosi. E di affidare il tutto alle capacità di vendita di un certo Gianfranco Giatti; un’esperto del settore. La cosa però non si era dimostrata così semplice; o meglio: le due macchine facevano, e anche decentemente, il loro lavoro, ma Giatti, nonostante conoscesse tutti i potenziali clienti italiani, non era riuscito a convincerne nemmeno uno ad abbandonare il certo per l’incerto, anche se meno caro, e il futuro dell’azienda era in bilico.

Anche se non conoscevo quasi per niente quel particolare mercato, la prima cosa che pensai come Forni ebbe finito di parlare, fu che che in Penta erano stati molto ingenui e presuntuosi, ma non dissi nulla.

Promisi di fare del mio meglio per aiutarli, e me ne andai dicendo che sarei ritornato l’indomani. Il giorno dopo ritornai, conobbi Giatti, che mi sembrò piuttosto diffidente e contrariato, e feci con lui e Forni una panoramica del mercato e dei potenziali clienti, al termine della quale capii che l’unica cosa che potevo fare per la Penta, era di avvalermi delle mie conoscenze. Fra queste c’era infatti anche l’ingegner Baroffio, un 152

alto dirigente tecnico della Mira Lanza di Genova, allora produttrice di punta di tovagliolini e fazzoletti di carta, che sicuramente, se glielo avessi chiesto, una vista in Penta non me l’avrebbe negata, se non per altro per curiosità. Il giorno dopo esposi la mia idea a Benedetti e Giatti - che non riusciva a credere che io potessi aver accesso un personaggio di quel calibro -, e avuto il loro entusiastico assenso, chiamai Baroffio che, contento di sentirmi, mi disse che sarebbe venuto a trovarmi in Penta la settima dopo.

Quando glielo dissi, Biagi, Forni e Rizzo, mi avrebbero abbracciato e baciato, ma si limitarono a darsi da fare giorno e notte per mettere perfettamente a punto una macchina per tovagliolini e farmi fare, mi assicurarono, una bella figura con il mio amico. E ce la fecero. Baroffio venne con due collaboratori esperti del mestiere, e quando se ne andò mi annunciò soddisfatto, davanti a Biagi, Forni, Rizzo e Giatti, increduli, che non era stato lui a farmi un favore venendo a trovarmi, ma io ad invitarlo! E una diecina di giorni più tardi la Mira Lanza ci chiese l’offerta per due macchine. Non feci altro per la Penta, se non essere presente ad un paio di altre visite di tecnici di manutenzione della Mira Lanza, comunque, un mese dopo la visita di Baroffio arrivò l’ordine per le due macchine, Biagi, Forni e Rizzo ripresero a dormire la notte, e anche Gino tirò un bel sospiro di sollievo.

Mentre facevo queste cose poco impegnative per la Penta e Benedetti si occupava di organizzare gli uffici di Funo, ero andato naturalmente avanti anche con il mio progetto, anzi molto più avanti di quanto mi ero proposto. Dopo aver discusso e ridiscusso in lunghi confronti con Benedetti, Tassi, Grassilli i concetti fondamentali sui quali realizzare la macchina, avevo riempito diecine di fogli con schizzi dettagliati della gran parte dei “movimenti” e dei punti più complessi, e avevo anche trovato in ACMA chi li avrebbe tradotti in progetti e disegni esecutivi.

Non era però stato un”furto”; avevo solo saputo che Stefano Bovina stava cercando un altro posto ed ero riuscito ad assicurarmelo. Un doppio colpo di fortuna; perché Stefano, che non aveva mai lavorato su macchine per saponette e quindi non aveva pericolosi preconcetti, era a mio avviso il progettista ideale per quel lavoro, e perché aveva convinto a seguirlo anche Silvia Agresti, una delle prime laureate bolognesi in ingegneria meccanica, davvero molto brava e innamorata del suo lavoro.

I primi di aprile Benedetti finì gli uffici, Silvia e Stefano furono assunti ufficialmente, e cominciammo in gran segreto a lavorare. Un segreto che però rimase tale davvero per poco. Forse parlammo a voce un po’ troppo alta in mensa alla BFB, o più probabilmente, qualcuno, non io, si vantò di quanto stavamo per fare, non lo so; so solo che una mattina pensai di passare da Grossi per sondare se aveva qualche sospetto, e scoprii che certamente lo aveva. Mentre stavo per passare oltre il cancello salutando con un gesto familiare il portinaio, come avevo sempre fatto, questi uscì, mi fermò, e imbarazzatissimo mi disse che l’ingegnere gli aveva comunicato che non ero più “persona gradita” in ACMA.

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Doveva succedere prima o poi, l’avevo sempre saputo, certi segreti, in certi ambienti, non possono durare a lungo, ma devo dire che fui più contento che fosse successo prima che poi. Per non generare sospetti, mi ero infatti dovuto limitare molto nell’acquisizione di informazioni e dati che ritenevo indispensabili per fare un buon lavoro. Da quel momento, quindi, dopo aver fatto partire con i miei schizzi Stefano e Silvia, mi dedicai senza più remore ai contatti; subito con la Binacchi e la Mazzoni (i due leader mondiali nella produzione di stampatrici di saponette), per focalizzare le possibili opzioni di abbinamento diretto fra le loro e la nostra macchina, e immediatamente dopo, con qualche viaggetto un po’ qua e un po’ là, con i miei amici/clienti, per avere i loro consigli e sapere se stavo andando nella giusta direzione.

Ne feci diversi di quei viaggetti, nel giro di un paio di mesi, e trovai sempre amici accoglienti e lieti di potermi essere d’aiuto; oltreché interessati. Di tutti, quello che però ricordo con più piacere, fu quello negli Stati Uniti verso la metà di giugno. Innanzitutto perché lo feci in compagnia di Marco Grassilli e scoprii quale fosse stato e fosse ancora in gran parte il segreto del successo della BFB; poi perché ritrovai inaspettatamente un vecchio amico perduto molti anni prima; e infine perché riuscii anche, pur se di corsa, a fare un poco il turista.

Per scoprire il segreto del successo della BFB, non dovetti fare grandi sforzi; mi bastò infatti viaggiare in compagnia di Marco. Perché era lui, Marco, quel segreto. Standogli a fianco per tanto tempo non scoprii solo che era ancor più simpatico di quanto già sapevo, ma che, senza voler toglire nulla ai meriti di Benedetti, Frabetti e Bonettini, era lui l’uomoazienda. Bravo, competente, affidabile, benvoluto e stimato; mi confessarono tutti i suoi e miei clienti senza che lui se ne avvedesse. E fortunatamente, più per loro che per lui, aveva dei “padroni” che se ne rendevano conto. Dimostrando ancora una volta quella lungimiranza che tutte le aziende dovrebbero avere, al nostro ritorno Marco divenne “dirigente industriale” e gli fu concessa una retribuzione identica alla mia. Un passo che si rivelò fondamentale per il futuro dell’azienda e dei suoi soci.

Il vecchio amico perduto, Gabriele Filippi - “la tenebra” ai tempi del Pavaglione - lo ritrovai con grande sorpresa insediato nelle vesti di P.R di alto livello per l’IMA in un bell’ufficio a Bevery Hills. Non mi sarei mai immaginato di rivederlo, né tanto meno in quella prestigiosa posizione.

Da ragazzo non aveva certo brillato per voglia di lavorare, come del resto gran parte dei ragazzi della nostra compagnia, e quando era sparito all’improvviso da Bologna al seguito di una bella studentessa americana, in molti avevamo pensato che l’avremmo presto visto tornare ”rovinato”. E invece no. L’aveva sposata, mi disse felice anche lui di rivedermi, e viveva con lei e con uno o due figli, non ricordo bene, nell’assolata California. Fu davvero un gran bella giornata, quella, che mi fece tornare indietro agli anni spensierati di una vita prima, ma che oggi, nel ricordarla mi da purtroppo solo una gran tristezza. Gabriele era infatti tornato anni fa a Bologna, e pur se non come ai tempi del Pavaglione, avevamo ripreso a frequentarci, ma poco tempo fa è sparito di nuovo, e questa volta so che non ritornerà.

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Comunque, bando alla tristezza. Lasciata la soleggiata California, andammo a far visite nell’area di Chicago prima e poi in quelle di Washington e New York, dove, come dicevo, riuscii a visitare alcuni musei per i quali non avevo mai trovato il tempo. Un tempo che però decisi di prendermi subito dopo. Al ritorno convinsi senza fatica Luciana, mio fratello Dante e sua moglie Gabriella, a venire con me in America; Dante organizzò il viaggio in modo impeccabile, e quei venticinque giorni d’agosto del 1988, mi sono rimasti in mente come una delle più belle vacanze della mia vita. Certo, se sul volo Continental da New Orleans a Washington, a pasti in distribuzione, non fossimo incappati in una improvvisa tempesta in quota che ci fece ballare per diversi minuti e imbrattare un po’ tutti di bevande varie e sughi, sarebbe stato meglio, ma, come si dice, non si può avere tutto. Ce la cavammo comunque con un atterraggio a Norfolk, in Virginia, per accertare che l’aereo non avesse subito danni e per ripulirci un po’.

Finite le ferie, ripresi a stare al fianco per un’oretta o due al giorno a Stefano e Silvia, a partecipare alla vita della BFB, e, di rifesso a quella dell’IMA, e nel contempo a redigere con l’ingegner Trombetti, un consulente, la domanda di brevetto. La cosa più impegnativa che feci però, ma anche più interessante, fu la definizione, con l’ingegner Colombo, della Colombo & Filippetti, del profilo dei quattro canali contigui e adiacenti della “camma frontale” del diametro di oltre un metro che costituiva il cuore del progetto. Un lavoro delicatissimo che richiese diversi incontri. Tutte queste incombenze, mi portarono fino al giorno della partenza per la fiera di Chicago, dove la BFB esponeva all’interno dello stand dell’IMA, una fiera di per sé senza storia, della quale però mi ricordo abbastanza bene per due episodi piuttosto importanti che acccaddero uno durante il suo corso, e l’altro subito al ritorno.

In fiera infatti, fummo raggiunti dalla notizia che l’ingegner Renato Taino, la guida strategica dell’IMA, era in pericolo di vita: una notizia che fece dispiacere a tutti, anche a me, pur se non lo conoscevo, e che mise in particolare agitazione i manager di più alto livello e anche Benedetti, per le ripercussioni che avrebbe potuto avere una sua prolungata assenza e soprattutto un abbandono definitivo. Al ritorno invece, fu l’ingegner Gamberini, allora gran capo della Wrapmatic, a mettere in agitazione Benedetti, i suoi tre soci in Penta, e un poco anche me, devo dire. Un’agitazione che però durò solo pochi giorni.

Forse spinto da un’eccesso di prudenza, l’ingegnere fece a Benedetti un’offerta del tutto spropositata per la Penta, che naturalmente mise in difficoltà i quattro soci. Venne infatti loro il dubbio di valere molto di più di quanto pensavano, e proseguire quindi l’attività. Ma dopo un paio di giorni di dicussioni prevalse la ragione. Nonostante infatti la referenza di rango delle due macchine consegnate alla Mira Lanza avesse procurato diverse richieste d’offerte da parte di altri “cartai” incuriositi, di ordini non se ne erano visti e non se ne intravvedevano a breve. Così, grazie un pochino anche a me, la BFB fece un ottimo affare e recuperò per se stessa le preziose professionalità di Biagi, Forni e Rizzo, che, anche se un po’ delusi, racimolarono anche loro un bel 155

gruzzolo. L’unico a rimetterci fu il povero Giatti, che per la Penta aveva tradito la Wrapmatic e per quest’ultima aveva in precedenza tradito Cassoli. Si trovò infatti di punto in bianco senza lavoro.

Dopo quella vicenda, per un po’ di tempo non accaddero altre cose degne di nota. A parte infatti gli incontri con Trombetti per preparare la richiesta di brevetto e la documentazione per supportare la richiesta di finanziamento a fondo perduto, che sembrava davvero a portata di mano, ricordo solo lo stupore che provavo stando alle spalle di Stefano e Silvia mentre lavoravano sulle loro postazioni CAD. Per aderire a mie richieste o esprimere loro idee, cambiavano in pochi istanti il disegno che avevamo davanti, facevano in pochi secondi calcoli mostruosi, simulavano il movimento di un elemento evidenziandone possibili vibrazioni indesiderate e sostituivano come se niente fosse un componente commerciale con un’altro mentre il sistema adeguava le dimensioni e le caratteristiche dei pezzi che gli stavano attorno. Come era cambiato il mio ex lavoro in soli dieci anni, pensavo: altro che rivoluzione!

Verso la metà di marzo dell’89 il lavoro di progettazione pura fu completato e mentre Stefano e Silvia si dedicavano entrambi a finire i pochi disegni dei particolari rimasti, Frabetti procedeva con tutte le operazioni di sua competenza e responsabilità. Anch’io ero “agli sgoccioli”: avevo finito con Trombetti sia la domanda di brevetto che la documentazione per la richiesta di finanziamento, che ormai impegnava solo la segretaria per la registrazione delle ore impiegate e la loro valorizzazione; e anche se partecipavo attivamente alla vita dell’azienda e ai rapporti con l’IMA, un poco mi annoiavo. Fortunatamente, però, prima che la noia diventasse un problema, mi venne incredibilmente in soccorso la PRB. Sì avete capito bene, proprio lei: la croce della MAB e il più serio concorrente domestico della BFB, grazie alla quale ebbi qualcosa di interessante da fare per un altro paio di mesi.

Non ho mai saputo come quella stranissima fornitura congiunta fra concorrenti fosse nata. Seppi solo che la società di engineering spagnola Fagor aveva ottenuto dalla 3M una commessa per un impianto completo per la produzione ed il confezionamento delle sue famose spugne sintetiche abrasive multiuso, e aveva scelto la PRB per la gran parte dell’impianto e per il “fine linea”, e l’avvolgitrice “a stella frontale” che la BFB aveva acquistata da Bosi per avvolgere le singole spugne. Si trattava di un impianto complesso che avrebbe dovuto essere assemblato, provato e accettato in PRB e che aveva messo i ”due nemici” in una situazione imbarazzante. I montatori e i progettisti di una parte e dell’altra sarebbero quasi certamente dovuti stare “troppo insieme” e si sarebbero potuti verificare spionaggi indesiderati, così Biagini e Benedetti avevano concordato che in PRB sarebbe entrato un solo uomo della BFB a seguire i lavori, a difenderne gli interessi, a decidere su eventuali modifiche e a mediare su possibili controversie: io.

Mi misi quindi a fare quasi ogni giorno la spola fra Funo, Bentivoglio e Osteria Grande, e mentre lo facevo, in IMA successe una vera rivoluzione. A sostituire l’ingegner Taino, purtroppo deceduto, arrivò 156

inaspettatamente un uomo che, con la sua carica di presidente, si era mantenuto fino a quel momento distante dalla operatività dell’azienda di famiglia: il geometra Marco Vacchi. Un fatto importantissimo. Se in quella posizione fossero andati o Romagnoli, direttore tecnico e socio fondatore, oppure l’ingegner Bussolari, direttore generale, molto probabilmente gli altri uomini chiave sarebbero rimasti ai loro posti e non sarebbe cambiato niente a livello di organizzazione e di strategie.

Ma Marco Vacchi, impresse fin da subito un corso completamente diverso all’azienda e in BFB cominciò ad esserci una certa agitazione in attesa di capire se, come, quando e in che misura le azioni intraprese da Marco Vacchi avrebbero influenzato i rapporti fra le due aziende.

Dal canto mio non ero per niente preoccupato: come al solito pensavo che sarei caduto in piedi qualunque cosa fosse successa.

Venne così la metà di maggio: il progetto Fagor - 3M, anche se le spugne per la loro elasticità erano risultate veramente difficili da trattare, andò a buon fine nei tempi stabiliti, ed io tornai a Funo e Bentivoglio portando con me oltre alla soddisfazione di aver fatto bene un lavoro interessante, anche l’amicizia di Agostino Biagini e della sua assistente Cinzia Manfredini. E a Funo e Bentivoglio mi accorsi che c’era qualcosa di nuovo nell’aria. Da brandelli di discorsi che captavo fra Benedetti, Frabetti e Grassilli ebbi la sensazione che l’IMA avesse chiesto una maggiore integrazione alla BFB, se non qualcosa di più, e che la cosa li interessasse. Un interesse che avrei avuto anch’io al loro posto, e che, non ci crederete, sperai con tutto il cuore che si tramutasse in qualcosa di concreto. All’IMA il mercato delle saponette non poteva interessare, e quindi quasi certamente la mia macchina o sarebbe stata convertita per avvolgere altri prodotti, oppure sarebbe stata “dimenticata”, o meglio ancora, venduta all’ACMA. Già, ma allora io cosa avrei fatto? Cominciai a domandarmi.

Per prima cosa pensai che se BFB e IMA avessero venduto la mia macchina all’ACMA, o anche alla GD o alla Carle & Montanari, nessuno di loro avrebbe certo avuto bisogno di me per venderla; il secondo pensiero fu che anche la BFB e l’IMA, se avvessero deciso di sfruttare la mia tecnologia in settori diversi da quello delle saponette, non avrebbero avuto un gran bisogno della mia opera; e il terzo che, se presa da un qualche senso di colpa nei miei confronti la BFB avesse voluto offrirmi un incarico, questo sarebbe quasi certamente risultato un doppione della figura professionale di Marco Grassilli, con il quale, pur usando tutto il tatto possibile, avrei potuto entrare in conflitto; cosa che non volevo assolutamente. Esaminai anche un più che probabile interesse diretto dell’IMA nei miei confronti, ma conclusi che l’incarico che avrebbero potuto offrirmi non avrebbe potuto che essere strettamente commerciale, e quindi tutto sommato abbastanza noioso.

E io non avevo voglia di annoiarmi. Mi dissi quindi, senza particolare ansia, che era tempo di levare le tende e cominciai a pensare a dove andare a piantarle; ma un paio di eventi mi aiutarono a decidere più in fretta di quanto avessi voluto.

Il 27 di maggio arrivò dall’ACMA la notizia che Fioravanti si era arreso alla malattia che lo torturava ormai da più di due anni. Era una 157

notizia che mi aspettavo da un momento all’altro - ero rimasto sempre al corrente del suo travaglio e nel corso dei suoi frequenti ricoveri in ospedale ero andato a trovarlo alcune volte - ma che mi colpì in un modo che al suo funerale ero in uno stato d’animo a dir poco alterato.

Uno stato d’animo che, senza che potessi farci niente, si deteriorò ancora di più quando mi accorsi che fra l’incredibile folla di gente dell’ACMA, pensionati compresi, che era convenuta al Trebbo di Reno a salutare quell’amico di tutti, non c’era nemmeno un rappresentante della GD. Così, da nemico del mondo e di tutti, due giorni dopo, un normale contrasto di opinioni con Benedetti fece salire i toni delle nostre voci molto più del necessario, ed io, di fronte ad un Frabetti attonito, urlai a Gino che me ne andavo mentre lui, sulla porta che sbatteva alle mie spalle, di rimando mi dava del matto. Una lite stupida per ragioni stupide, della quale ero già pentito mentre uscivo dal parcheggio, senza una meta precisa, ma che mentre mi immettevo sulla traversale di pianura mi suggerì un futuro prossimo del tutto diverso da quello che mi ero immaginato fino ad un’ora prima. Avevo una scusa per lasciare la BFB senza dovermi inventare chissà cosa, e l’occasione per decidermi finalmente a realizzare un sogno che avevo da tempo.

Cullato da quell’idea entusiasmante superai lo svincolo di Funo che di solito imboccavo per dirigermi a casa, e quando me ne accorsi decisi di tornare sull’argine del Reno alle Borre per affinare il mio sogno all’ombra dei pioppi. E ci stetti più di un’ora sull’argine, ma quando ne discesi non mi diressi come avevo pensato nel salirvi all’agenzia viaggi che organizzava i miei per cominciare a programmare come andare in auto dall’Alaska alla Terra del Fuoco, ma in un bar a prendre un caffè e a dire al telefono all’ingegner Rinaldi della Macofar che avevo ripensato alla sua proposta e che se era ancora valida si poteva parlarne. E alla sua entusiasta disponibilità di parlarne anche subito, montai in macchina e mi diressi verso Rastignano.

Erano più di due anni che Rinaldi mi tampinava: aveva cominciato all’indomani della fiera di Dusseldorf dell’87 telefonandomi diverse volte per convincermi a lasciare l’ACMA per la sua Macofar, poi, quando aveva saputo di aver perso la gara con Benedetti, per qualche tempo mi aveva lasciato in pace. Era però tornato alla carica i primi di gennaio, quando era evidentemente venuto a sapere chissà come delle difficoltà che avevo con Barilli in MAB. Mi aveva chiesto di incontrarlo, e io, più per cortesia che per interesse, avevo accettato il suo invito a pranzo al Bitone: si era dimostrato un ospite impeccabile, con una conversazione molto piacevole, e solo al termine del pranzo mi aveva offerto di diventare il suo direttore commerciale. Mi ero ovviamente aspettato qualcosa del genere, e vista la sua affabilità, la dimostrazione di fiducia al buio che mi accreditava, e la situazione effettivamente delicata che si era creata con Barilli, per un paio di giorni avevo avuto la tentazione di approfondire l’argomento. Poi la curiosità di andare a vedere le carte di Benedetti, come sapete, aveva prevalso.

Nonostante però quella scelta, l’insistenza di Rinaldi mi aveva incuriosito sulla Macofar, della quale non sapevo altro che produceva 158

macchine per il settore farmaceutico a Rastignano e che secondo i miei amici in IMA navigava da tempo in cattive acque. Avevo quindi indagato più a fondo e le mie indagini mi avevano rivelato un quadro davvero difficile da capire. La Macofar era infatti controllata dal miglior controllante che un’azienda che produceva macchine per quel settore avrebbe potuto augurarsi. Si trattava infatti della Bracco Farmaceutici di Milano, una delle più importanti aziende italiane del settore e fra le più innovative del mondo. Una controllante, quindi, che avrebbe dovuto garantire alla sua controllata sinergie e conoscenze tali da renderla una stella di prima grandezza fra i produttori di macchinari del genere. E invece, pur con queste potenzialità e con un glorioso passato, la Macofar soffriva da tempo di una profonda crisi dalla quale non riusciva ad uscire.

Era tecnologicamente immobile da anni e le sue macchine, che usavano concetti in gran parte superati e avevano capacità produttive molto limitate, trovavano ormai collocazione quasi solo presso quei clienti di piccole dimensioni che si potevano o dovevano accontentare.

L’industria farmaceutica, come tante altre del resto, stava da anni concentrando le produzioni in siti sempre più grandi e specializzati, e richiedeva macchinari sempre più automatizzati e con prestazioni sempre più alte in termini di produttività. I clienti della Macofar, quindi, diminuivano sempre di più e i suoi elementi migliori, in particolare progettisti e montatori, demotivati e preoccupati per il loro futuro, migravano verso quei lidi che offrivano prospettive migliori privandola delle energie vitali per potersi riprendere.

Così, quando Rinaldi, nemmeno tre mesi più tardi, si era rifatto vivo implacabile, avevo avuto un motivo in più rifiutare per la terza volta l’offerta che mi aveva fatto. Non avevo nessuna voglia di andare solo a vendere e tanto meno a vendere macchine che ben pochi sembravano volere acquistare. Ovviamente questo non glielo avevo detto, gli avevo solo ribadito che stavo bene dove ero e per dimostragli un po’ di riconoscenza per l’interesse e la stima che mi dimostrava, visto che era a corto di “figure professionali” di ogni genere, gli avevo suggerito di assumere Rueff e Grafe, che, segati dalla falce di Gariglio, in difficoltà mi avevano chiesto aiuto. Poi non avevo più saputo niente né di loro, né di Rinaldi, né della Macofar fino a una settimana prima della lite con Benedetti.

Quel giorno - forse Rinaldi era un veggente - si era infatti rifatto vivo per tentarmi per la quarta volta; e con una proposta un poco diversa e più attraente delle precedenti: quella di direttore del “marketing strategico”. Ma nonostante quell’incarico fosse quello che pensavo “il mio” - secondo me quella figura era quella che indicava all’azienda quali macchine fare, come farle e come e a chi venderle -, anche se in quei giorni avevo già deciso di uscire dall’ambito BFB /IMA e stavo pensando a cosa fare dopo, lo stato disastrato della sua azienda mi aveva portato ancora una volta a dirgli di no. La sua proposta però, non l’avevo dimenticata, e quando sull’argine del Reno mi ero reso conto che il viaggio che volevo fare sarebbe stato davvero bello solo se avessi potuto farlo e condividerlo con mia moglie, mio fratello e sua moglie, 159

che non avrebbero però certo lasciato il loro lavoro e i loro impegni per seguirmi, e ripensato di trovarmi un lavoro: ecco che la Macofar mi era apparsa un po’ meno disastrata.

Anche se senza dubbio era un’azienda in difficoltà, avevo pensato, qualche cosa di buono lo aveva ancora: era l’unica in Italia a produrre una macchina per riempire con liquidi fiale monodosi in plastica soffiata; una confezione nuova realizzata dalla Lameplast di Rovereto sulla Secchia sul cui futuro era lecito scommettere. La sua divisione Cem di Siena, poi, era l’unico produttore italiano di linee per il riempimento e la chiusura di fiale in vetro, che, anche se datate tecnologicamente e con prestazioni inferiori a quelle prodotte all’estero, erano un serbatoio di conoscenza che se aggiornato poteva ancora dare soddisfazioni.

Lavorandoci in qualità di responsabile del marketing strategico, avrei potuto diventare uno dei pochi esperti italiani di questi due settori, e chissà: forse tanto esperto da riuscire con le mie capacità tecniche, la mia fantasia, la mia esperienza e le mie conoscenze, a fare uscire l’azienda dal torpore che l’avvolgeva.

Per quanto ne sapevo, gli altri costruttori italiani sembravano non prestare attenzione a quei due tipi di confezioni, forse perché già fin troppo impegnati a seguire la crescita dei settori ai quali si erano dedicati. Quindi, se fossi riuscito a combinare qualcosa di davvero buono in fretta, avrei avuto tempo per consolidarlo e forse riuscire a infastidire anche gli stranieri. Il lavoro che Rinaldi mi offriva poteva essere una bella sfida! A questa considerazione già di per sé motivante, si era aggiunta la sensazione che pur di avermi con lui Rinaldi mi avrebbe dato carta bianca; la certezza che Grafe e Rueff non avrebbero certo fatto resistenza alla ventata di innovazione che avrei portato in azienda; e la solita autostima che mi aveva fatto pensare che se la Macofar non mi fosse piaciuta, o non fossi riuscito a fare quello che pensavo, avrei dovuto solo scegliere un’altra sistemazione.

Nel modesto atrio della Macofar mi accolse una bella centralinista che senza nemmeno chiedermi chi fossi, si premurò di dirmi che l’ingegnere sarebbe sceso subito; e mentre facevo qualche passo avanti e indietro, dalle scale scesero Rinaldi, Rueff, Grafe e un mio coetaneo brizzolato, con due sottili baffetti neri, che dopo saluti e abbracci da parte degli altri tre, si presentò come Massimo Tamburini, direttore commerciale. Dopo di che, guardato l’orologio, Rinaldi parlò per qualche secondo con Rueff e Grafe, poi si rivolse a me dicendomi che poiché mancava un po’ più di mezz’ora alla fine dell’attività in officina, voleva approfittarne per farmela vedere in attività, prima di parlare.

Massimo tornò di sopra e noi quattro facemmo il giro dei diversi reparti, sostando in particolare al montaggio, che non mi parve troppo pieno né di macchine né di addetti, e in ufficio tecnico, nel quale mi parve prevalessero i tavoli tradizionali rispetto alle stazioni CAD. Finito il giro Rueff e Grafe ci lasciarono e io salii con Rinaldi nel suo ufficio, dove lui si giocò le sue carte.

Certo immaginando che prima di dargli la mia disponibilità mi fossi informato sulla situazione della sua azienda, esordì dicendo che “finalmente” la Bracco aveva deciso di dare una svolta all’azienda 160

sostenendola con le sinergie che poteva offrirle e con la sua potenza finanziaria. Poi mi disse che Rueff e Grafe, dei quali peraltro era contento, e Tamburini, pur facendo del loro meglio non gli sembravano sufficienti a sostenere quella svolta; e che io, per quello che sapeva, ero l’uomo che gli serviva. Per spingermi a decidere, e quasi certamente senza pensarlo davvero, mi fece anche balenare la possibilità di prendere il suo posto quando una volta risanata e rilanciata, egli avrebbe certamente lasciato l’azienda. Infine concluse facendomi una offerta economica pari al doppio di quanto percepivo in BFB e che io, già convinto dalle motivazioni professionali, naturalmente accettai.

Raggiante, fece battere subito alla sua segretaria una lettera d’impegno, aggiungendo all’incarico di direttore del marketing strategico, quello, marginale ma utile, di direttore vendite Italia, ne firmammo due copie entrambi, e con l’accordo di iniziare possibilmente dal primo di luglio ci salutammo. Alle sette e mezza andai a prendere l’ignara Luciana e solo mentre le raccontavo quello che avevo combinato, mi resi conto appieno di aver dato in meno di cinque ore una nuova svolta alla mia vita.

Ma quello che avevo combinato a Luciana non piacque per niente: non le avevo detto dei dubbi che mi erano venuti di recente sul mio futuro professionale in ambito BFB, dove lei pensava mi trovassi benissimo, e quindi non riusciva a capire come una banale lite, per di più con un caro amico, avesse potuto provocare in poche ore un terremoto del genere. Facemmo tutta la strada a piedi fino a casa senza più toccare l’argomento e cenammo inusualmente muti; poi, le presi le mani e guardandola negli occhi le raccontai tutto, e lei che non aveva mai interferito con le mie scelte professionali, anche quella volta si limitò a dirmi che se l’offerta di Rinaldi andava bene per me, andava bene anche per lei; ma da come lo disse e dal suo sguardo capii che non lo pensava.

Il mattino dopo, il primo di giugno, con una telefonata concordai con Frabetti di vederci al bar a fianco della BFB e gli consegnai la lettera di dimissioni. Lui la prese, mi guardò, poi la lesse; ma non fece commenti né mi chiese di ripensarci e far pace con Gino; facendomi pensare che con la mia decisione toglievo anche a loro una scottante castagna dal fuoco. Quando gli chiesi di terminare il 30 giugno anziché come da contratto il 31 di agosto, non fece obiezioni e mi disse che se preferivo potevo anche non tornare più in BFB e godermi il mese di ferie arretrate al quale avevo diritto. Mi rassicurò che avrebbe dato disposizioni all’ufficio personale di prepararmi la documentazione d’uscita e che tutte le mie competenze mi sarebbero tempestivamente state accreditate, e, senza che glielo chiedessi ma facendomi un gran favore, mi disse che avrei potuto usare l’auto che avevo in dotazione fino a quando non ne avessi avuta una nuova a disposizione. Sotto lo sguardo stupito del titolare del bar ci abbracciammo più volte, e augurandoci ogni bene ci salutammo.

Passai quindici giorni dedicandomi alla pesca, a lunghe passeggiate e a leggere la documentazione sulla produzione della Macofar che Rinaldi mi aveva consegnato il giorno dell’accordo. Poi ritirai i documenti 161

dall’ufficio personale della BFB, che essendo a Funo mi evitò incontri imbarazzanti con ex colleghi, e li portai alla Macofar; dove con Rinaldi definii gli ultimi dettagli del contratto e dei benefits: un’ auto come quella di cui disponevo in BFB, ma munita di telefono e il mio primo telefono portatile individuale; dalle dimensioni e peso di una radio portatile militare. Poi me ne tornai a pescare fino alla fine del mese.

Ora dovrei passare ai ricordi della Macofar, ma prima di farlo non posso non ricordare il giorno più bello di tutti quelli trascorsi in BFB. Quando dopo pochi mesi da che me ne ero andato la mia macchina fu finita dimostrando di saper incartare perfettamente oltre seicento saponette al minuto (una velocità doppia della più veloce concorrente), Frabetti mi invitò inaspettatamente a vederla andare e mi regalò una giornata indimenticabile: non ebbi infatti solo modo di assistere, con un certo orgoglio devo dire, al risultato del mio lavoro, ma mi ritrovai fra gli amici che avevo lasciato. Nessuno mi fece domande o accennò alla mia fuga, e Gino arrivò addirittura a scusarsi lui con me, e dimostrando una grande signorilità, a ringraziarmi per aver fatto compiere ai tecnici BFB, con il mio progetto, un grande salto di conoscenza tecnologica. Mi ringraziò anche per averlo liberato, con il mio intervento disturbatore su Barilli, della MAB, dalla quale era riuscito ad uscire con un insperato ritorno sull’investimento, e infine mi consegnò la fotocopia di una lettera, con la quale, Carlo Bianchi, che aveva rappresentato la 3M nelle fasi di collaudo della linea spugne, gli esprimeva i suoi ringraziamenti per il lavoro svolto; che pregava di estendere a me per il ruolo che vi avevo avuto.

Ci lasciammo di nuovo amici quella sera, e io me ne tornai soddisfatto a casa con il video-tape del “giochino” che avevo realizzato e con le centinaia di flaconi di shampoo e di saponette con le quali Frabetti aveva voluto riempire fino all’inverosimile la mia auto. Sono passati più di ventisei anni da quel giorno, gli shampoo sono finiti da un po’ e le saponette anche loro, ma solo da qualche mese; però l’amicizia con gli uomini della BFB è ancora forte come allora. Un’altra bella avventura quindi, quella in BFB, umana e professionale, con l’unico rammarico di non aver potuto vedere il mio prototipo confrontarsi con il mercato e la produzione. Con la scelta a mio avviso giustissima dell’azienda di legarsi sempre più strettamente all’IMA fino a diventarne parte, il prototipo, che comunque fu completamente finanziato a fondo perduto, non venne né venduto né utilizzato per settori diversi dalle saponette. E finì, complici sicuramente anche i “liquidi”, in un angolo dimenticato di un magazzino. Un vero peccato !

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Alla Macofar

Il mio “soggiorno” alla Macofar cominciò quindi come concordato il primo di luglio, e, devo dire, sotto ottimi auspici. Trovai ad accogliermi un Rinaldi visibilmente soddisfatto, l’ufficio dove mi fece istallare, contiguo al suo, era grande e ben arredato, e i miei collaboratori che mi presentò: Germana, che mi avrebbe assistito per il marketing, Vasco Mazzotti, venditore per l’italia, e Simona, la segretaria che avrei diviso con quest’ultimo, mi accolsero con quello che mi sembrò un sincero piacere. Dopo avermi lasciato con loro a conoscerci per un paio d’ore, Rinaldi tornò a prendermi e con Tamburini, Rueff e Grafe andammo al Bitone a gustare un sontuoso pranzo farcito da molti brindisi. Poi, ci affidammo saggiamente alla guida di chi in mensa di brindisi non ne aveva fatti, e partimmo come previsto per Siena, dove aveva sede la Divisione Cem. Rinaldi aveva insistito molto affinchè fossi dei loro dal primo di luglio proprio perché potessi partecipare alla “convention” che l’azienda aveva organizzato in un prestigioso hotel di quella città per presentare un nuovo “tunnel di sterilizzazione”; un’opportunità che in un colpo solo, oltre a farmi conoscere l’ultima realizzazione dell’azienda, mi avrebbe fatto incontrare tutte le sue forze di vendita nel mondo. E le cose andarono ancor meglio di quanto avessi sperato.

Imparai infatti tutto sui tunnel in generale e sul nostro in particolare, molto sulle vecchie gloriose macchine per riempire e chiudere fiale realizzate dalla Cem, e oltre a conoscere tutte le forze di vendita, che mi sembrarono composte da elementi in generale in gamba, incontrai fra i clienti invitati molte vecchie conoscenze che, stupite di rincontrarmi in quella mia nuova veste, si dissero ben liete di ricevermi quando chiesi loro di andarli a trovare per avere il loro “sentire” sulla Macofar. Infine, assistetti da un terrazzo affacciato sulla famosa piazza preso in affitto da Rinaldi per chissà quale cifra, al mio primo e unico Palio: uno spettacolo comunque interessante.

Al ritorno, soddisfatto, mi diedi subito da fare per “far rendere”gli incontri che avevo avuto, e chiesi a tutti gli agenti di inviarmi quanto prima un rapporto dettagliato su quello che pensavano loro e i loro clienti delle nostre macchine e quali idee avevano per poter avere più successo sui rispettivi mercati. Ad un certo Terribile, agente per il centro e sud Italia, che nonostante il nome era l’uomo dall’aspetto e dai modi più miti e educati che avessi mai visto, chiesi anche di organizzare per settembre un viaggetto nel Lazio per andare subito a trovare quei miei clienti che mi avevano assicurato il loro appoggio e che lui conosceva quanto me. Poi, in attesa delle ferie, partecipai a qualche riunione per esaminare i risultati dalla “convention”, assistetti da spettatore ignorante a qualche collaudo di accettazione, e soprattutto feci lunghe discussioni sul “prodotto” con Rueff, Grafe e Tamburini; e notai che quest’ultimo restava quasi sempre muto.

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Non ricordo dove andammo in ferie quell’anno io e Luciana, ma ricordo che nelle tre settimane che l’azienda rimase chiusa esaminai i rapporti degli agenti, la documentazione tecnica di ogni macchina e quella disponibile sulle macchine della concorrenza, e i dati relativi all’andamento delle vendite degli ultimi tre anni. Un andamento sinistramente simile a quello dell’ACMA degli ultimi anni, che mi fece tremare i polsi. Non c’era più molto tempo nemmeno per la Macofar per cambiare rotta, e chiesi quindi a Terribile di organizzare quanto prima le visite presso i clienti laziali per completare il quadro e elaborare un piano di sviluppo tecnologico da presentare a Rinaldi. In attesa, cercai di conoscere meglio le persone dei vari reparti per avere un’idea su chi poter contare per sviluppare il mio lavoro; e la prima cosa che scoprii fu la ragione per la quale Tamburini restava muto alle riunioni.

Da persona intelligente, non parlava perché non aveva niente da dire.

Era solo da pochi mesi alla Macofar, mi confessò candidamente, e prima si era occupato del settore commerciale di una azienda che produceva e vendeva macchine per il trattamento di frutta e verdure e non sapeva assolutamente nulla né del mercato farmaceutico né di macchine per l’imballaggio. Quindi, mi assicurò che mi avrebbe appoggiato per ogni iniziativa che avessi proposto. Scoprii inoltre che l’ufficio tecnico e il montaggio, i reparti dei quali mi interessai di più, erano decisamente scarsi come numero di addetti e che purtroppo la gran parte di loro, evidentemente frustrati dal tran tran cui l’azienda li relegava da anni, era demotivata e sembrava non desiderare altro che andarsene. I venditori invece, come avevo notato nel corso della “convention”, erano tutti competenti e motivati. Sia Mazzotti che Habib “l’egiziano” sapevano farci con i clienti, e non erano certo da meno le mie Germana e Simona, l’assistente di Rinaldi, Maria Sanso, e soprattutto Sandra e Rita. In sostanza Tamburini e Grafe potevano contare su una struttura che già faceva miracoli, ma che non appena avesse avuto le “cose giuste da vendere” avrebbe potuto fare molto ma molto di più e meglio.

Terribile fu bravissimo: all’inizio della seconda settimana di settembre lo raggiusi a Roma e trascorsi con lui in giro per il basso Lazio una settimana bella e brutta ad un tempo. Fu bella perchè scoprii un Terribile davvero bravo, competente, benvoluto e stimato da tutti i clienti; e trascorsi del tempo con vecchi amici. Brutta perché i commenti, le osservazioni e i suggerimenti che ebbi dai responsabili tecnici di Sigma-Tau, Lepetit, Bristol-Mayers, ecc. sui limiti della produzione della Macofar rispetto alla concorrenza mi confermarono che tutta la gamma, forse tunnel a parte, andava praticamente rifatta se si voleva tornare a competere con qualche possibilità di successo con i grandi del settore. Mi aspettava un lavoro gigantesco; ma, attingendo alla mia incrollabile autostima, pensai che se fossi riuscito a far migrare nel farmaceutico alcune delle malizie usuali dell’alimentare e del chimico che cononoscevo molto bene, ce l’avrei fatta. Un bel proposito, che purtroppo per la Macofar rimase tale.

Verso i primi di ottobre pensai di aver già messo insieme idee sufficienti per cambiare sostanzialmente se non proprio rifare le macchine che si rivolgevano ai mercati più promettenti, e chiesi a 164

Rinaldi, Tamburini, Ruff e Grafe un incontro collegiale per illustrarle.

Parlai per circa due ore confortato da sorrisi e accenni di approvazione da parte dei miei ascoltatori, ma quando ebbi finito mi dovetti prendere una vera e propria doccia fredda: Rinaldi prese la parola e dopo aver espresso il suo apprezzamento per le idee che avevo esposto proseguì dicendo che per il momento le mie proposte dovevano purtroppo aspettare perché le priorità dell’azienda erano cambiate. Questo non significava, concluse, che io avevo lavorato per niente, anzi: dovevo proseguire nelle mie analisi e cercare soluzioni innovative per i modelli cui non mi ero ancora dedicato, ma per il momento avrei dovuto anch’io dedicarmi a vendere quello che c’era.

Ero imbufalito e d’acchito mi venne di mandare Rinaldi a quel paese.

Ma non lo feci: dal tono della sua voce e dallo sguardo che mi aveva lanciato mi era sembrato di capire che fosse dispiaciuto di più a lui dirle, quelle parole, che a me sentirle. Uscii quindi dalla riunione, lo dico con sincerità, solo dispiaciuto per la Macofar e per il suo futuro, e pensai di andare a meditare una volta ancora sul mio futuro davanti a un bel tramonto sull’ormai abituale argine del Reno. Ma le Borre erano lontane da Rastignano, e vi sarei arrivato con il buio. Decisi quindi di salire a Monte Calvo, in uno spiazzo dal quale si guardava lontano verso ovest, dove avevo preso l’abitudine di andare qualche volta al mattino a leggere il giornale in attesa di iniziare a lavorare. E davanti a quel comunque bel tramonto decisi di non aver nessuna voglia di arrabattarmi chissà per quanto tempo a cercare di vendere macchine nelle quali non credevo, e che era di nuovo tempo di cambiare aria.

A Luciana non dissi niente quella sera per non preoccuparla di nuovo dopo così poco tempo; e l’indomani non feci trasparire nulla né a Rueff né a Grafe quando vennero nel mio ufficio per congratularsi per il mio piano, né a Rinaldi e Tamburini. Avevo deciso di non agire d’impeto come avevo fatto con Benedetti, ma di pensare con calma chi beneficiare con i miei “preziosi servizi” prima di dimettermi. Non ci misi però molto nemmeno quella volta a decidere. Dalla collina di Monte Calvo che mi aveva suggerito di cambiare aria, scese una ventata di stuzzicante aria nuova portata a valle dall’ingegner Gianpaolo Belloli, al quale, avevo saputo da Tamburini, avevo rubato quel posto che mi accingevo a lasciare di corsa.

Vi ricorderete di Gianpaolo Belloli, quello che mi aveva proposto di diventare suo socio con Battisti della Lepetit. Non ci eravamo più frequentati da quell’episodio, tranne qualche fugace incontro sulle fiere o in So.Te.Co, dove si era occupato per qualche tempo delle vendite in Italia delle macchine IMA; poi l’avevo di nuovo perso di vista quando l’aveva lasciata. Ma quando si dice il caso! Giampaolo abitava a Monte Calvo e scendeva a volte dalla Croara, ma più spesso da Rastignano, e quando scendeva da questa seconda via si fermava a prendere il primo caffè nello stesso bar nel quale mi fermavo a volte anch’io. Non lo sapevo e non c’eravamo mai incrociati, ma una mattina di ottobre tentammo di rubarci il parcheggio e riconosciutici e trovata una sistemazione per le auto, ci sedemmo per prenderlo insieme, quel caffe.

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Parlammo un po’ del settore in generale, facemmo qualche malignità su comuni conoscenti, poi finimmo naturalmente per parlare di noi.

Non ricordo quello che gli raccontai né quello che mi raccontò di lui, sicuramente banalità, ma ricordo bene che quando mi disse, scherzando ma non troppo, che gli avevo fregato il posto in Macofar, io gli risposi che invece gli avevo fatto un favore; perché quell’azienda non era una passeggiata. E che alle mie parole il suo atteggiamento cambiò di colpo.

Con un’aria professionale del tutto estranea al modo di fare che lo caratterizzava, mi disse che lui e Buffoni, sponsorizzati e finanziati da un grosso gruppo di Modena, stavano lavorando per dar vita ad un nuovo “gruppo di packaging”; e che io ero proprio l’uomo giusto per aiutarli. Il progetto era di aggregare nelle forme più opportune aziende potenzialmente sinergiche assumendone la guida strategica e le vendite; e un’esperienza tecnica e commerciale vasta come la mia era proprio quello che cercavano.

Per qualche secondo lo guardai muto pensando nell’ordine che il progetto esposto con quelle poche parole, pur fumoso, sembrava interessante; che la presenza di Buffoni della cui ponderatezza mi fidavo assai più che dell’entusiasmo di Belloli dava alla cosa una certa garanzia; infine che il fantomatico gruppo finanziario di Modena meritava quanto meno di essere conosciuto. Gli dissi quindi che l’idea mi piaceva ma che volevo saperne di più dai finanziatori. E così, il sabato dopo, in una decorosa palazzina sulla via Vignolese dove aveva sede il famoso studio di commercialisti Tagliazucchi & Caselli, incontrai con Gianpaolo gli uomini d’azione del gruppo TBE (The Big Eleven o, se preferite, I Grandi Undici). Una ragione sociale che, anche se la modestia non era certo la mia migliore virtu, mi apparve davvero un po’ troppo immodesta.

Ad accogliermi, c’erano Carlo Felice Caselli, la mente finanziaria del gruppo e consocio dello studio; l’ingegner Claudio Bulgarelli, titolare della LB riduttori di Calderara; e il signor Gulmini, direttore generale della Govoni di Casumaro. In poche parole, alternandosi, mi spiegarono sinteticamente la strategia che aveva portato alla formazione del gruppo, la situazione del momento, gli obbiettivi a breve e lungo termine e l’eventuale mia parte per conseguirli. Il gruppo, mi dissero, contava già tredici aziende, molto diversificate, e l’obbiettivo era di aggregarne un numero sufficiente per arrivare nel giro di un paio d’anni ad un fatturato di trecento miliardi di lire, sbarcare in borsa, e di là, con i capitali freschi che i successi ottenuti avrebbero attratto, proseguire in altre aggregazioni e acquisizioni. Una particolare attenzione volevano dare al processo di prodotti alimentari e chimici e al loro packaging in modo da formare un sottogruppo specializzato che consentisse di presentare al mercato mondiale soluzioni complete d’avanguardia. Un obbiettivo, concluse Bulgarelli che mi osservava con particolare attenzione, che a loro avviso sembrava fatto a posta perché io potessi esprimere al meglio quello che sapevano della mia esperienza, professionalità e capacità.

Il discorso mi impressionò: sembrava che avessero formulato il loro piano non per soddisfare le loro ambizioni, ma le mie. Chiesi quindi altri 166

dettagli e seppi che un nucleo molto modesto del gruppo di packaging stava già prendendo forma; con la Sacpack di Spilamberto, già acquisita, e con il probabile ingresso a breve della LM, sempre del modenese. Della Sacpack sapevo solo che era una piccola azienda che produceva insaccatrici e insacchettatrici, due tipi di macchine che conoscevo solo “di vista”, mentre della LM conoscevo invece tutto, compreso il suo fondatore Bibbiani e il suo recente socio di maggioranza, l’ingegner Franzoni. Anch’essa comunque un’azienda non certo di primo piano. Imparai anche i nomi e le attività dei grandi undici, in verità, come dicevo, già tredici, e scoprii con sorpresa e molto piacere che fra essi c’era addirittura un parente acquisito di mia moglie.

Infine, mi fu illustrato quale sarebbe stato il mio ruolo pratico e quello di Belloli e Buffoni nel gioco.

L’intenzione era di formare due società di sevizi. Una, che si sarebbe chiamata Ingenews - un geniale e accattivante nome certamente frutto della fantasia di Belloli - si sarebbe occupata della ricerca di aziende di packaging da aggregare o acquisire, di dar loro un indirizzo strategico sul prodotto sinergico con le altre, e di promuoverne le vendite. L’altra, della quale non era ancora stato scelto il nome, avrebbe fatto lo stesso con aziende di processo partendo dalla realtà di tutto rispetto della Govoni e con gli occhi già puntati sulla Simbianca di Cento e su altre realtà affini. Paolo sarebbe stato l’amministratore dell’Ingenews e io il direttore operativo, mentre Buffoni avrebbe guidato l’altra società. Le due società avrebbero operato fianco a fianco sia logisticamente che nella definizione dei prodotti e nella gestione delle vendite e avrebbero utilizzato per quanto possibile gli stessi agenti e il personale di sede, in funzione degli impegni cui far fronte, con indubbi vantaggi nei contatti con l’esterno e di costi.

Poiché il conseguimento di quell’obbiettivo strategico avrebbe certo richiesto un certo tempo, per sostenersi entrambe le società avrebbero dovuto ovviamente anche agire come semplici agenzie di vendita. La platea di piccoli e medi costruttori di macchine sia di processo che di packaging che si sarebbero “leccati i baffi” ad avere venditori del nostro calibro a disposizione era certamente vasta; così come lo era la platea di potenziali clienti che conoscevamo e ci conoscevano, e non sarebbe certamente stato un problema ottenere vendite e provvigioni.

Mi parve un progetto molto interessante che, anche se pieno di incognite e certamente molto impegnativo, sembrava proprio essere il “mio lavoro”. Pur se già convinto, chiesi però qualche giorno di tempo per riflettere e decidere. Non mi interssava tanto saperne di più sulla Sacpack, ma volevo avere il conforto sulla serietà di quel progetto da Francesco Massari, quel parente acquisito di mia moglie che era uno degli ideatori dei “grandi undici”. Nutrivo una grande stima e fiducia per Francesco, non perché ne fossi quasi parente, ma perché ne conoscevo le qualità umane e imprenditoriali e perché la stessa fiducia in lui l’aveva anche il mio caro amico Gian Alberto Minelli, consocio con lui nella Amotek. Inoltre, se avessi detto a Luciana che il suo quasi zio “Franco”, che anche lei stimava moltissimo, mi voleva con lui, l’avrei

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resa tranquilla per quella mia nuova e improvvisa scelta. Salutai tutti, li ringraziai della accoglienza e uscii senza Belloli, che rimase con loro.

Mentre mi avviavo verso Bazzano, dove da anni abitavano i miei genitori, per passare a salutarli, la mia convinzione si rafforzò e quando parcheggiai per salire da loro avevo già deciso. Anche se per qualche tempo avrei dovuto quasi “solo vendere”, se fossimo riusciti a formare un vero gruppo di aziende, io sarei stato determinante nel creare il prodotto e nel farlo costruire secondo quei criteri che ritenevo indispensabili per avere successo.

Il colloquio che ebbi il giorno dopo con Massari mi fornì le garanzie che volevo; Luciana, come avevo immaginato fu entusiasta che andassi a lavorare con lui; le condizioni che Caselli e Bulgarelli mi offrirono ottime - mi soddisfecero e ci accordammo per il mio impegno da subito.

E così il 30 di ottobre presentai a Rinaldi, che non mi sembrò sorpreso, una stringata lettera di dimissioni scritta a mano, nella quale, oltre a chiedere scusa per quella mia decisione improvvisa, chiedevo anche di essere lasciato libero il giorno dopo. E lui, dopo avergli solo dato un’occhiata, allargò le braccia in un gesto inequivocabile, mi disse che gli dispiaceva perdermi ma che mi capiva, mi chiese scusa e mi assicurò che l’indomani mattina avrei potuto andarmene con tutte le mie competenze saldate e con i documenti di lavoro. Poi ci stringemmo la mano e ci augurammo, credo sinceramente anche da parte sua, buona fortuna.

Uscito dal suo ufficio andai a salutare prima Tamburini, che rimase abbastanza stupito ma che augurò anche lui buona fortuna, poi Rueff e Grafe che non riuscirono che a balbettare parole che non capii e infine gli altri commerciali, che evidentemente dispiaciti si limitarono però a guardarmi radunare le poche cose personali che avevo in ufficio senza fare commenti. Solo Simona, che credo come aveva fatto Alessandra all’ACMA, avesse preso a considerarmi un secondo papà, mentre uscivo volle abbracciarmi e nel farlo scoppiò a piangere. Uscii che era ora di pranzo e mi fermai da Primo al Cavallino Bianco, e mentre sorbivo lentamente il caffè pensai che tutto sommato anche quei quattro mesi in Macofar non erano stati tempo perduto: avevo imparato moltissime cose del settore farmaceutico che non conoscevo, avevo rincontrato tanti vecchi amici e me ne ero fatti di nuovi.

Non ho più rivisto o saputo niente di Rinaldi e Taburini da quel giorno, anche se non ho mai mancato, fino a che ho visitato fiere, di andare a salutare Mazzotti, Rueff, Grafe e le ragazze: prima sullo stand della Macofar e poi del gruppo Romaco quando la Macofar ne divenne parte. E a proposito del gruppo Romaco, ebbi anche l’opprtunità di diventarne direttore generale, e per ben due volte. La prima furono i Fenwick Smith, padre e figlio, a chiedermelo, subito dopo aver acquisito la Macofar dalla Bracco, ma io rifiutai dicendo che stavo troppo bene dove ero. La seconda molti anni dopo, ma di quella vi dirò a tempo debito.

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Con il TBE group all’ Ingenews e alla Sacpack

Paolo ed io partimmo di gran carriera e pieni di entusiasmo quel primo di novembre del 1989; c’erano davvero un sacco di cose da fare, molte delle quali, per me, del tutto nuove: creare la società dal punto di vista burocratico e legale, trovarle sede, organizzarla operativamente e finanziariamente, ecc. ecc. In attesa di trovare una sede adatta, ci organizzammo in un ufficio che l’ingegner Giberti, uno dei grandi undici, ci mise a disposizione nella sua Razzo, un’azienda che produceva smacchiatori a Sant’Agata Bolognese, di fronte alla Lamborghini, e mentre Paolo e Buffoni cercavano la sede e si occupavano di banche, fidi e di altre pratiche burocratiche con il gruppo TBE, io cercai di organizzare l’ufficio e mi dedicai alle pratiche per la mia assunzione, a quelle per entrare in possesso dell’argentea Alfa 164 che avevo scelto, e a conoscere la Sacpack e le sue macchine.

A dir la verità, mentre mi avviavo per la prima volta verso Spilamberto, i miei pensieri erano da tutt’altra parte. Avevo trascorso quasi tutta la serata e parte della notte incollato alla TV a guardare emozionato alcune diecine di migliaia di uomini che, a Berlino, avevano deciso di far compiere alla storia della specie umana un’altra delle sue “continue svolte epocali” abbattendo a colpi di piccone un muro ( chissà quanti ne costruiranno e ne abbatteranno ancora prima di capire che i muri servono solo a buttare soldi e tempo ), e quella mattina avevo ancora davanti agli occhi quel muro colorato in Germania che si sbiciolava e le facce entusiaste dei picconatori. Davanti al modesto capannone, comunque, ero già concentrato sul lavoro.

Fui accolto con grande affabilità da Luciano Tabaroni, fondatore e capo azienda; un uomo dai modi e dall’aspetto di brava persona, del quale, per una serie di circostanze abbastanza singolari, diventai subito amico e lo sono ancora. Si dice del caso: Luciano non portava infatti solo il mio stesso cognome, ma era nato e abitava a Bazzano, dove anch’io sono nato, dove abitavano i miei genitori, tanti parenti, e dove avevo trascorso da bambino quasi tutte le estati da zii e nonni. Spendemmo quindi una buona oretta a parlare di amici e conoscenti comuni, poi cominciammo a parlare della Sacpack.

Da quello che capii, ma non sono affatto certo di ricordare bene in quanto più che del suo passato ero interessato al suo presente e futuro, l’azienda, prima di entrare a far parte del gruppo TBE, aveva montato, come tante altre, macchine per conto di aziende più grandi, e solo sotto la spinta della Govoni aveva studiato e realizzato una macchina per riempire e chiudere grandi sacchi per il trasporto è lo stoccaggio e un’insacchettatrice per porzioni di vendita al dettaglio. La Govoni si era infatti assicurata un contratto per un impianto chiavi in mano per produrre sfarinati in Algeria e per coprire la parte packaging di quella fornitura; anziché comprare le macchine da chi già le produceva, aveva pensato di stimolare l’imprenditorialità di Luciano che non si era lasciato sfuggire l’occasione.

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Comunque fosse cominciata la cosa, dalle sconsolate parole di Luciano mi parve di capire che portata a termine quella fornitura l’azienda non era più stata spinta con il vigore necessario né sul mercato né dal punto di vista tecnologico, e si era mantenuta in vita senza lode e senza infamia con l’attività precedente e qualche vendita procurata da segnalatori vari coordinati da un consulente. Al momento, oltre a Luciano, vi lavoravano come dipendenti fissi un certo Beniamino Ballardini, disegnatore progettista di pochissime parole; Nadia, una ragazzina carina e simpatica che svolgeva mansioni di centralinista segreteria commerciale e produttiva; e Gloria Baraldi, responsabile amministrativa, amica di famiglia di Caselli e Bulgarelli e più che palese occhio della TBE sull’azienda. Conobbi anche il consulente commerciale, quel mattino in visita, che fu una sorpresa per me, ma soprattutto per lui.

Si trattava infatti di Gianfranco Giatti, quello, se ricordate, al quale non avevo certo fatto un favore determinando la vendita della Penta alla Wrapmatic, che, saputo da Luciano cosa facevo lì, non mascherò il suo disappunto. E non aveva torto il povero Giatti: il primo pensiero che mi era venuto in mente nel vederlo era stato che diavolo mai potesse fare per la Sacpack visto che per quanto ne sapevo aveva sempre e solo lavorato nel mondo del “converting” della carta! Comunque, lasciai Giatti con Luciano, e andai verso Bazzano per salutare i miei. Non ero certo esaltato per quanto avevo visto e saputo, ma nemmeno troppo demoralizzato: dell’insaccatrice e del suo mercato non sapevo niente, ma quella insacchettatrice a “giostra orizzontale”era una sorella arcaica delle “mie” imbustinatrici 712 e 730, e avevo già visto che un “po’ di bene” potevo certo farglielo.

Fra le incombenze organizzative, qualche visita a possibili sedi definitive e qualche altra puntata in Sacpack passarono dicembre, le feste, e quasi tutto gennaio, alla fine del quale Paolo mi comunicò che non potevamo più restare alla Razzo, e che ci sarmmo trasferiti, in attesa della sede definitiva, verso Bologna, a Tavernelle, dove aveva trovato un modesto capannoncino nel quale, oltre agli uffici, c’era lo spazio per esporre eventualmente macchine di nostri rappresentati da far vedere a potenziali clienti. E così, dopo che fontanieri, elettricisti e pittori ebbero reso il posto fruibile e presentabile, assumemmo una ragazzina del luogo, della quale ricordo vagamente l’aspetto minuto ma non il nome, per presidiare la nuova sede e rispondere al telefono, e ci impegnammo a cercare e poi sistemare mobili, seggiole e scrivanie.

Una vita, lo confesso, che cominciava a stancarmi; in quattro mesi non avevamo fatto altro che cercare e sistemare uffici. Ma Giberti, una sera che ero tornato in Razzo a prendere delle cose nostre che erano ancora là, mi fermò, mi invitò nel suo ufficio, e qualcosa di finalmente interessante me lo fece fare. C’erano anche Bulgarelli e Caselli con lui, mi fece sedere, mi fece qualche domanda generica su come stavano andando le cose, poi si girò verso l’armadietto alle spalle della scrivania, vi prese qualcosa dall’interno e appoggiandolo di fronte a me con l’aria di stare mostrandomi l’oggetto del desiderio mi chiese: “Cosa gliene pare ,Tabaroni?” Io rigirai fra le mani quella “bottiglia di cartoncino e 170

plastica” osservandola da tutti i lati per forse un minuto mentre pensavo che c’era voluta davvero molta fantasia ma anche tanta incompetenza tecnologica per idearla; poi sollevai lo sguardo verso i miei interlocutori e con forse un tono troppo ironico gli risposi: “Davvero interessante, ma impossibile da realizzare industrialmente in modo conveniente”. E il sorriso che avevano avuto fino a quel momento tutti e tre sulle labbra svanì.

Erano visibilmente rimasti di stucco. E dopo essersi lanciati sguardi per qualche secondo, Bulgarelli mi disse: “Devo contraddirla Tabaroni; questo contenitore non è stato fatto a mano come forse lei ha pensato, ma da un prototipo funzionante”. Sorpreso a mia volta - non avevo ragioni per dubitare delle sue parole - gli chiesi qualche dettaglio sulla macchina, ma lui candidamente ammise di averla vista andare solo qualche minuto in compagnia degli altri della TBE e di non aver fatto caso a come questa realizzasse quei contenitori. Comunque, da quel poco che cercò di spiegarmi capii che si trattava di un congegno operante a bassissima velocità, che chiesi di poter vedere anch’io per poter rivedere il mio giudizio. Ma Caselli, evidentemente quello dei tre che era rimasto più scosso dalle mie parole, dopo avermi detto che era difficile poterlo fare in quella fase, mi chiese di spiegare la ragione del mio lapidario giudizio.

Avevo davanti tre uomini che mi erano sembrati concreti, ma certamente non degli esperti di macchine per il packaging, e per cercare di farmi capire il più chiaramente possibile la presi “alla larga”: prima descrissi tutto quanto sapevo sui metodi di saldatura per materiali plastici termosaldabili e sulle relative garanzie di tenuta che potevano offrire; poi mi addentrai sulle garanzie minime che i produttori di liquidi in generale e di quelli alimentari in particolare pretendevano dagli imballaggi che li dovevano contenere; ed infine spiegai perché quel contenitore parallelepipedo in cartoncino politenato sormontato da un cono in plastica con tappo ad esso saldato su una serie di “plissettature” ottenute chissà come, non avrebbe mai consentito di fornire quelle garanzie. Era certamente un obbiettivo primario della Tetra Pak quello di fare contenitori apribili senza l’uso di forbici e richiudibili magari a tenuta stagna, ma se c’era un modo di farlo, conclusi, non era certamente quello. Nessuno aveva aperto bocca durante il mio discorso, ma come smisi di parlare Bulgarelli esclamò: “Dunque, allora, secondo lei questo contenitore non vale nulla?” e io risposi: “Non posso dire questo, dico solo che non si potrà mai garantire la tenuta e la ripetitività delle saldature sia sul fondo piatto che in particolare dal lato del colletto del tappo in plastica”. E mi fermai.

Adesso erano stravolti e la cosa cominciò a preoccuparmi. Un po’ di sconcerto lo potevo capire: forse avevano pensato di poter mettere le mani su una gallina dalle uova d’oro e le mie parole davano un duro colpo ai loro sogni di gloria, ma l’angoscia e il nervosismo che non riuscivano a dissimulare mi fece presumere di aver detto qualcosa di terribile. Ed era proprio così. Si guardarono di nuovo l’un l’altro e fu Caselli questa volta a rivolgermi la parola: “Vede Tabaroni, si sarà certamente accorto che le sue parole ci hanno impressionato, e le spiego il 171

perché. La TBE è ad un passo, previsto entro due o tre giorni, dall’acquisire la proprietà dei brevetti di questo contenitore, dei disegni della macchina per realizzarlo e del prototipo che già abbiamo potuto vedere in funzione. E’ un’acquisizione che vale alcuni miliardi, uno dei quali è già stato versato al venditore in qualità di caparra non rimborsabile per nessuna ragione. Capirà quindi che le sue parole assumono un peso molto rilevante per il nostro gruppo. Il venditore proseguì - è un certo Magnoni di Modena, del quale avrà forse sentito parlare; un esperto di packaging, titolare di una azienda che produce per conto terzi monodosi in cartoncino politenato termosaldabile contenenti i liquidi più diversi avvalendosi di macchine americane funzionanti con una tecnologia molto sofisticata. E’ un uomo quindi esperto e che ci è sembrato degno di fiducia: rimane comunque della sua opinione?”

Conoscevo solo di nome Magnoni, ma sapevo benissimo cosa faceva con le macchine Brovit nella sua Italpack; un’uomo certamente esperto e abile delle cui capacità non potevo certo dubitare. Ma quelle “plissettature” per saldare il cartoncino al collo in plastica di quel contenitore proprio non riuscivo a digerirle, e quindi, pensando che per il gruppo TBE fosse meglio perdere un miliardo subito che molti, molti di più dopo, risposi a Caselli che rimanevo convinto della mia opinione.

Ci lasciammo così quella notte, e quando dopo pochi giorni Bulgarelli mi disse che non avevano proceduto nell’accordo con Magnoni, aggiungendo di augurarsi che non avessi fatto loro perdere l’affare del secolo, fui contento e convinto di aver fatto una cosa buona.

Non altrettanto contento fu invece Belloli, che, facendomi pensare che l’idea di quel contenitore fosse stata sua e che fosse stato lui a convincere prima Magnoni a realizzarlo e poi i vertici della TBE a buttarsi nell’avventura del packaging e dell’Ingenews, dopo avemi tenuto il “muso” per qualche giorno, cominciò a tampinarmi perché trovassi una soluzione diversa da quella di Magnoni per realizzare comunque una confezione simile. E io, giusto perché la smettesse, ma senza credervi per niente, ipotizzai di utilizzare al posto di cartoncino politenato, “astucci con camicia”. Si poteva forse, mi lasciai andare a spiegargli fantasticando, pre-deformare a forma di cono la camicia termoretraibile scaldandola e saldarla ad un tappo con collare conico come quello ideato da Magnoni. Il dosaggio del prodotto sarebbe stato fatto dal fondo, e la saldatura di fondo della camicia non sarebbe stata un problema. Ebbene, non ci crederete e ancora non ci credo nemmeno io, quell’idea folle non entusiasmò solo Belloli, ma addirittura anche i miei amici in Lever, con i quali Paolo mi convinse a parlarne. Furono tanto entusiasti che ci diedero cinquanta milioni di lire per testarla con un banco di prova che realizzammo in Sacpack, e che funzionò.

Riuscimmo infatti a produrre alcuni “Bottucci” - così aveva voluto chiamare Paolo quei contenitori che in effetti non erano né bottiglie né astucci - ma la precarietà del sistema era davvero troppo alta e sia la Lever che Belloli convennero, con mio grande sollievo, di stendevi sopra un velo pietoso.

Con la storia del “Bottuccio”, un esperimento comunque interessante dal punto di vista tecnico, sono corso un po’ avanti nel tempo, ma per 172

tornare a quei primi mesi dell’Ingenews, ricordo che avevamo appena finito di sistemare la sede provvisoria a Tavernelle, spendendo un bel po’ di soldi, che Belloli e Buffoni trovarono finalmente la sede che aveva le caratteristiche che desideravano. Un posto che conoscevo benissimo e che mi riportò con i ricordi al mio spensierato passato remoto, anche se mi fece provare un po’ di tristezza. C’ero stato spesso infatti, da bambino, a giocare sulla piazzetta di San Giuseppe, mentre aspettavo i miei in visita agli zii Valero e Dolores che vi abitavano, e ero già stato anche, incredibilmente, nel grande appartamento di via Galliera, affacciato appunto sulla piazzetta, che Belloli e Buffoni avevano preso in affitto. Vi aveva infatti abitato con gli zii il mio amico Alessandro Zambonini, e fu pensando a quanto presto Alessandro se ne era andato che mi prese la tristezza. Ma la scacciai pensando alla bella vita che aveva fatto e quanto ci aveva fatto morire d’invidia tutti sfrecciando su via Indipendenza, appena dicciottenne, al volante della sua “Miura” color arancio: la prima Lamborghini venduta in città.

Nostalgie a parte, ci trasferimmo nei nuovi uffici con Buffoni e il suo staff senza particolari problemi e Paolo assunse per darci una mano a fare quel poco che facevamo, sia un venditore che aveva già in passato collaborato con lui (Francesco Fortunato) e ben due segretarie. E’ strano, ma mentre ricordo nei dettagli gli ambienti di quella sede, forse perché legati al ricordo di Alessandro, non ricordo per niente né volti né nomi dei collaboratori di Buffoni, né il nome della società da lui gestita, né addirittura quelli delle nostre segretarie. O meglio: ricordo un solo collaboratore di Buffoni, l’ingegner Vicini, perché l’ho rincontrato molte volte in seguito, e solo il nome della segretaria di Belloli: Marina.

Prima che cominciate a chiedervelo, vi voglio dire che in tutto quel tempo non avevamo proprio solo fatto traslochi e creato posti di lavoro non strettamente necessari. Paolo aveva infatti cominciato a sondare discretamente alcuni dei piccoli e medi costruttori che ci sembravano adatti a recepire l’idea di “gruppo” e io mi ero dedicato alla Sacpack.

Avevo esaminato in dettaglio le due macchine, le avevo comparate alla concorrenza, e dopo aver deciso che dell‘insaccatrice fosse meglio dimenticarsene, avevo cominciato con Ballardini a cercare di migliorare l’insacchettatrice, e con Giatti a cercare di vendere le due macchine, una per tipo, che giacevano quasi finite al montaggio.

Appena comunque finito di traslocare in via Galliera andammo in compagnia di Buffoni alla fiera di Dusseldorf certi di trovare orecchie attente alle nostre proposte, ma ne ritornammo delusi con solo qualche fumosa dichiarazione di interesse dettata palesemente più dalla cortesia che da interessi reali. Non ci perdemmo comunque d’animo, consci che iniziative come quelle che andavamo proponendo non fossero facilmente digeribili ma richiedessero i loro tempi; e anche se l’abbandono dell’idea da parte di Franzoni e della sua LM non contribuì certo a mantenerci ottimisti, continuammo a perseguitare tutti i nostri interlocutori con caparbietà. Ma arrivarono le ferie senza che ne avessimo convinto nemmeno uno, e partii quindi con Luciana per andare a vedere Berlino non proprio eufurico come mi ero immaginato; ma siccome era una vita che sognavo quel viaggio a due passi da casa 173

che non avevo mai potuto fare per motivi che sarebbe lungo spiegare, partii comunque abbastanza entusiasta.

Per vedere il più possibile di quel mondo in pochi giorni, decidemmo di arrivarvi in auto attraversando da sud mezza ex Germania dell’Est, e l’impatto fu sconcertante. Lo stato disastrato dell’autostrada, dei distributori di carburante e delle misere casupole che si intravedevano fra i campi davano l’idea di un paese fermo ai primi anni del dopoguerra dove nessuno si fosse preso la briga di migliorare alcunché. L’ingresso in città poi, da quello che era stato un confine, ci lasciò sgomenti: le vetrate delle cabine occupate una volta dalla polizia di frontiera, una diecina, tutte rotte, con vetri ancora sparsi a terra dappertutto; le bandiere e le insegne strappate, bruciacchiate e imbrattate, che penzolavano malinconiche, e soprattutto, un silenzio irreale e nessuno in giro. Era la tarda mattinata quando vi arrivammo, un’orario nel quale tutte le autostrade del resto d’Europa erano certamente intasate all’inverosimile di auto, ma là, alle porte di Berlino dall’ex “zona est” c’eravamo solo noi e la nostra auto ad attraversare il vecchio confine in quel momento; incredibile! E le ragioni di stupore non era ancora finite.

Quando, dopo aver visitato i punti più significativi della zona ovest (moderni, ben tenuti e pieni di gente allegra) passammo dall’altro lato del muro - ancora in corso di demolizione - lo scenario fu ancora più impressionante: il colpo d’occhio denunciava un’incuria e uno stato d’abbandono peggiori di quelli che avevo visto in Algeria ad Orano. Tubi di scarico dei liquami che in gran parte rotti scaricavano in strada; tubi da stufa che sporgevano da vetri rotti di finestre rattoppati alla meglio; quasi tutti i muri, anche di edifici monumentali o recenti, scrostati e mai riparati, per non parlare poi dello stato di strade e marciapiedi e della tristezza che emanavano le polverose vetrine dei pochissimi negozi dove erano esposte pochissime merci per nulla invitanti. Insomma un vero disastro che ci mise tristezza e malinconia, che però fu mitigata dall’emozione che provai nell’attraversare senza alcun timore il mitico Ceck Point Charlie, il luogo, nei film, di tanti scambi di spie, e dall’entusiasmo che vedemmo nelle tante persone che ancora continuavano a dare spicconate al muro. Ne raccolsi alcuni frammenti colorati, ma purtroppo li ho perduti.

Chiusa quella parentesi turistica, ritornai al lavoro, ma i mesi che seguirono non furono certo migliori di quelli che l’avevano preceduta. I nostri interlocutori continuavano tutti indistintamente a fare orecchie da mercante alle nostre proposte, che ci sembravano tanto convenienti e logiche; una cosa così frustrante che entrambi cominciammo a chiederci se non fossimo per caso dei poveri mitomani fuori dalla realtà a farle: o se non le sapessimo fare nel modo giusto. La cosa poi che ci lasciava più perplessi era che erano quelli che a nostro avviso avevano più bisogno di aggregarsi; non solo per crescere, ma anche solo per sopravvivere, ad essere più sordi. I meno sordi ricordo, si dimostrarono Lucia Romagnoli della Tecnomeccanica, Emilio Baldanza della Cariba, e Stupazzoni della Multipack, ma anche loro non andarono oltre un cortese interesse che non condusse a niente.

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Non servirono a niente neppure la visita che facemmo insieme alla Ipak - Ima di Milano, né quella che feci da solo alla fiera di Chicago, né quella che Paolo fece a quella di Tokyo; alle quali parlammo del nostro progetto praticamente a tutti quei costruttori che non eravamo riusciti o a visitare direttamente o a contattare a Dusseldorf. Gli insuccessi, poi, sul versante meno strategico del rilancio della Sacpack, non ci aiutavano certo a star su di morale. Come accennavo prima, su quel versante io mi ero dedicato fin da subito sia a migliorare tecnicamente l’insacchettatrice, sia a tentare di vendere le due macchine al montaggio, ma se sulla macchina qualche miglioria l’avevo certamente suggerita a Ballardini, sul fronte vendite era un fiasco totale; e per una ragione molto semplice. Io so vendere solo qualcosa in cui credo, e nelle povere macchine della Sacpack, anche se da me modificate, non credevo molto! Di quei tentativi però, mi è rimasto comunque un bel ricordo.

Ero andato con Giatti ai Mulini Rieper, una delle poche, se non proprio l’unica azienda italiana che aveva dato fiducia alla Sacpack comprandogli, per suo tramite, un’insacchettatrice, per vedere se ne avesse bisogno di una seconda; e in quel paesino fra Bressanone e Brunico di cui non ricordo il nome, tagliato a metà dalla statale della Val Pusteria, conobbi l’ingegner Rieper: un industriale purtroppo troppo raro allora come ora. Uno di quei personaggi che lasciano un’impronta diversa dagli altri quando passano nel nostro mondo di lacrime. Dopo avermi spiegato quasi con tono di scusa di non aver bisogno di una seconda macchina in quanto vendite e conseguenti esigenze di produzione diminuivano anno dopo anno, quel giovane d’altri tempi mi confidò, commuovendomi, che erano anni che l’ormai storica azienda fondata da suo nonno non rendeva più, ma la teneva aperta, facendo di tutto per farla almeno pareggiare, così da continuare a dare un reddito a quella quasi la metà delle famiglie del paese che avevano fatto in passato la fortuna della sua famiglia, e che non avevano molte altre alternative di impiego.

Sempre a proposito del rilancio della Sacpack, devo anche accennare che dopo essersene disinteressato per diverso tempo; la deludente parentesi del “Bottuccio” aveva evidentemente frenato la sua creatività, Paolo pensò di nuovo, purtroppo, di fare qualcosa.

Verso la fine di ottobre, durante una delle periodiche riunioni fra i dirigenti delle diverse aziende del gruppo, parlando a ruota libera, uno di questi gli disse che stava cercando un sistema monoblocco compatto di incartonamento e palettizzazione, ma che non riusciva a trovarlo; e lui, che anche se non me ne aveva mai parlato, doveva avere da tempo in testa un’idea per realizzare una macchina del genere, colse la palla al balzo. Si attaccò a quel poveretto come una sanguisuga e, aiutato dai buoni uffici di Caselli e Bulgarelli, ottenne un ordine aperto; ingaggiò un progettista indipendente con il quale aveva già collaborato, un certo Saguatti, con lo studio al Villaggio Barca; e si impegnò ventre a terra nella realizzazione del suo sogno.

Anche Bulgarelli si impegnò nel progetto, sia per le prospettive che un successo poteva dare alla Sacpack, ma anche per non deludere il suo 175

socio e farlo aspettare troppo. Prestò quindi gratuitamente a Paolo sia l’ingegner Cagnolati - se vi ricordate era il direttore della Panigal ai tempi della nastratrice della CoMaG -, che agiva come consulente di produzione del gruppo TBE, e un suo uomo della LB, un tale Scandellari, addetto alle lavorazioni esterne, e anche senza il mio apporto, verso la metà di marzo del ‘91 Luciano cominciò il montaggio; che risultò semplice, rapido e senza sorprese. E la macchina finita piacque a tutti, anche a me, che avevo avuto più di un dubbio sulle capacità di Saguatti e sul sistema costruttivo rivoluzionario che aveva adottato nel progetto.

Era davvero un “bell’oggetto”; compatto, moderno, e potenzialmente piuttosto pericoloso per le linee PRB che avevano invaso gli stabilimenti L’Oréal e non solo. Ma purtroppo, troppo “ballerino”.

Come lo si metteva in funzione vibrava paurosamente, scricchiolava come un vecchio mobile in legno massiccio al cambio delle temperature e dava la sinistra impressione di voler collassare su se stesso. Cosa era successo? Niente di drammatico: solo un tentativo mal riuscito di usare una nuova tecnologia costruttiva basata su profilati in alluminio per realizzare le strutture portanti e non solo: senza aver nessuna esperienza in merito. Tutto lì, ma se si voleva proseguire in quell’idea, a quei tempi onestamente rivoluzionaria, la struttura doveva essere ridisegnata e rifatta.

Per i resto, di tutto quel frenetico correre di qua e di là, ricordo solo che alla fiera di Milano rubarono sia la mia 164 che quella di Buffoni, e che la fiera di Chicago si svolse con un clima “californiano” mai visto da quelle parti in novembre; cosa che mi consentì di togliermi la curiosità che avevo da sempre di andare a piedi da Michigan Avenue fino alla fiera per vedere se quella parte di città fosse davvero così pericolsa come si diceva. Ricordo anche, in verità, che grazie a Belloli che lo conosceva fin da quando la sua famiglia si occupava di camomilla, ebbi l’opportunità di conoscere Federico Bonomelli; un ragazzo davvero disponibile e simpatico che pur potendo godersi la vita con i soldi presi dai Seragnoli si stava impegnando dalle parti di Como, in un’impresa molto innovativa in tutt’altro settore, dimostrando uno spirito imprenditoriale non comune. E a proposito di Federico, non posso fare a meno di raccontarvi “un numero”nel quale si esibì Belloli al termine di una vista che gli facemmo.

Lo avevamo lasciato che era già buio e per prendere una scorciatoia ci eravamo persi. Dopo aver girato a vuoto per un bel po’ senza vedere indicazioni stradali, senza trovare un’anima in giro o un locale cui chiedere indicazioni, con molta fame e pericolosamente a corto di benzina - il rimanere a secco era come l’essere sempre in ritardo o il prendere scorciatoie sbagliate una caratteristica genetica di Paolo finalmente, ad un incrocio, trovammo sia un distributore di carburante, sia rassicuranti cartelli stradali indicatori, e perfino un ristorante aperto. Rasserenati quindi e ormai certi di non dover passare la notte sull’auto rimasta in panne, facemmo benzina ed entrammo nel ristorante per mangiare qualcosa.

Era un locale “pretenzioso” e forse per quello desolatamente vuoto.

Cenammo con piatti immangiabili palesemente scaldati in fretta e furia 176

ma serviti di tutto punto da un opprimente e servizievole caposala, e quando questi ci portò il conto - una cifra esorbitante - Paolo lo pagò senza battere ciglio. Nell’avviarci verso l’uscita però, gli rivolse un sorriso accattivante e gli chiese: “Scusi, quando siete chiusi per turno?”

“Il mercoledì”, rispose affabile il maitre, e Paolo di rimando lo raggelò dicendogli: “Molto bene! Faremo in modo di venire da queste parti solo di mercoledì, vero Roberto; non vogliamo mica rischiare di dover di nuovo mangiare così bene, non credi?” E uscimmo.

Con quella ininterrotta sequenza di insuccessi, mitigata solo dal fatto che Paolo aveva venduto alcune macchinette di piccoli e sconosciuti costruttori e aveva incassato provvigioni sufficienti a coprire i nostri costi e i piccoli investimenti fatti in arredi, venne la fine di giugno del ’91, e come mi aspettavo da quando avevo stroncato il contenitore di Magnoni, la TBE si stancò; ma non del tutto e soprattutto non di me.

Bulgarelli mi convocò in LB e senza prenderla troppo alla larga come era nel suo stile che tanto apprezzavo, guardandomi dritto negli occhi mi disse: “Caro Tabaroni, per ragioni che lei certamente può capire, la TBE ha cambiato idea sul packaging; ci siamo resi conto che il progetto strategico che ci aveva spinto a sponsorizzare l’ Ingenews è di difficile se non impossibile realizzazione e che la semplice attività come agenzia di vendita per società estranee al gruppo non ci interessa. Un paio di giorni fa ho informato l’ingegner Belloli di non poter più considerare l’ Ingenws una società del gruppo e lui mi ha espresso l’intenzione di proseguirne comunque l’attività da solo. Da quello che ho capito - proseguì - credo che lui conti di averla ancora al suo fianco, ma noi invece, e in particolare io, vorremmo che rimanesse con noi per sviluppare un’opportunità che si è materializzata proprio in questi giorni: una sfida che a mio avviso sembra tagliata su misura per lei”. E interrotto da una segretaria che lo richiamò dalla porta fuori dall’ufficio, uscì lasciandomi a meditare sulle sue parole.

Come dicevo, avere la conferma che la TBE non aveva più interesse nell’Ingenews non era stata una sorpresa, e così quando Claudio mi si risedette di fronte, gli chiesi solo di spiegarmi di quale sfida parlasse. E lui, dopo essersi sistemato più comodamente, visibilmente più rilassato, ripartì. “Pochi giorni fa, è entrata a far parte del gruppo una piccola societa di San Prospero sulla Secchia, chiamata Unifill: una società piccolissima, che produce per conto terzi monodosi con macchine che si è disegnate e costruite da sola e che è entrata nel gruppo proprio con lo scopo di crescere e svilupparsi. La Lamp, che lei molto probabilmente conosce e che ce l’ha conferita, non lo ha fatto perché l’azienda va male, ma solo perché non vuole distogliere personale e tempo dal suo interesse principale che sta crescendo esponenzialmente, e conoscendo bene il nostro gruppo e i nostri obbiettivi, ha quindi pensato di prendere due piccioni con una fava. Si è tolta il problema dello sviluppo dell’Unifill senza dover rinunciare del tutto, come socia del gruppo, agli eventuali successi che l’azienda conseguirà. Non le dico altro per ora, anche perché non so molto di più: le chiedo solo di andarla a vedere. La nostra idea sarebbe di incorporare la Sacpack nell’Unifill e di metterne lei a capo in qualità di direttore generale. Ho già avvertito di una sua possibile visita 177

per domattina, ed è atteso da un certo Flavio Traldi, che si occupa della parte tecnico-produttiva, e dal direttore commerciale della Lamp e ormai ex consocio dell’Unifill, un certo Pinotti, che saranno a sua completa disposizione per tutto quello che vorrà loro chiedere”.

Che potevo dirgli? Anche se diventare il direttore della malandata Sacpack e di un’aziendina che produceva monodosi della quale non avevo mai nemmeno sentito parlare non era certo la mia massima aspirazione, gli dissi che ci sarei andato; e lui, facendomi uno dei suoi sorrisi più accattivanti, si alzò, e porgendomi un foglietto mi disse: “Questo è l’indirizzo e il numero di telefono di Traldi; ci vediamo dopo domani quì alle nove. E faccia a modo!!!”

Uscendo dalla LB ero tranquillo quella sera: come al solito mi aiutava l’autostima che mi faceva pensare che l’unico mio problema fosse quello di scegliere il mio datore di lavoro. Non dissi quindi niente a Luciana della novità: la notte dormii come un ghiro e il mattino dopo dalla tangenziale di Modena presi il “Canaletto”- così chiamano la Strada Statale 12 dell’Abetone e del Brennero i modenesi - verso San Prospero sulla Secchia. E devo dire che pur se pensavo che avrei deluso sia le aspettative di Belloli che quelle di Bulgarelli, cercandomi una terza via nel bolognese, ero comunque curioso di dare un’occhiata a quell’Unifill.

Visitare un contoterzista era sempre stato, ed è tutt’ora penso, istruttivo: per limitare gli investimenti in macchinari e occupare poco spazio, i contoterzisti facevano e credo continuino a fare veri e propri miracoli con le macchine per renderle le più flessibili possibili e adatte a trattare i prodotti più disparati; quindi, anche se pensavo che l’Unifill non fosse altro che l’ennesimo produttore di bustine, delle macchine per fare le quali credevo di sapere tutto o quasi, poteva esserci comunque qualcosa da imparare.

Per strada chiamai Traldi per preannunciare l’ora del mio arrivo e per chiedere come trovare l’azienda, ma lui, forse un po’ emozionato, non mi diede tutte le istruzioni necessarie. Svoltai infatti, come mi aveva detto, a sinistra al primo semaforo di San Prospero, passai davanti alla Lamp, trovai in fondo via Viazza, ma non trovai il numero 12. Fra il 10 e il 14 c’era in effetti un modesto capannoncino con dipinti sulla parete due enormi grappoli di uva nera, ma non c’era nessuna insegna che indicasse cosa vi si facesse all’interno e la porticina, chiusa, che presumibilmente ne era l’accesso, non era munita di campanello ne di numero civico. Andai cento metri avanti e indietro per la strada per controllare se dal lato dei numeri dispari ci fosse per caso un 12 abusivo, ma non avendolo trovato, mi convinsi che doveva essere proprio quella “cantina” l’Unifill, e nel fare il giro del fabbricato in cerca di un’altra via d’accesso, scoprii sul retro di avere indovinato. Le macchine che si vedevano dal grande portone aperto non erano sicuramente “imbottigliatrici” e il profumo che si sentiva non era di Lambrusco ma di deodorante.

A colpo d’occhio contai sei macchine, sei o sette operatrici, un uomo che si aggirava fra una macchina e l’altra fermandosi a controllare ciò che avveniva e qualcosa che mi sorprese più degli estemporanei grappoli d’uva sulla facciata: avevo visto davvero molte macchine per 178

l’imballaggio fino a quel giorno, credetemi, in particolare per produrre bustine, ma nessuna che assomigliasse a quelle che avevo davanti!

Perplesso e molto incuriosito mi avvicinai alla più vicina e vidi che in effetti quello che ne usciva non erano bustine, ma piccoli blister termoformati. Una bella sorpresa. Un paio d’anni prima, l’ultimo giorno in Macofar, mentre cercavo di togliere tutte le mie cose dalla scrivania, avevo scoperto in fondo ad un cassetto alcuni di quei blister, lasciativi da chissà chi, e mi erano parsi molto competitivi nei confronti delle monodosi prodotte dalla Lameplast, per riempire le quali avevo tentato di vendere qualche macchina GL 25. Erano certamente ottenibili con “film multistrato”e quindi in grado di garantire “effetti barriera” più efficaci;ma il giorno dopo, preso dall’Ingenews me ne ero dimeticato.

E così li faceva l’Unifill quegli interessanti e quasi sconosciuti “cosini”, pensai, mentre la curiosità diventava interesse e mi avvicinavo di più per vedere come facesse a farli. Ad un paio di metri dalla macchina, però, dovetti fermarmi di fronte al controllore che con cortesia mi chiese chi fossi e cosa potesse fare per me. Mi presentai e gli dissi da parte di chi venivo, e quando dal suo sguardo perplesso capii che non era al corrente della mia visita, gli chiesi di Traldi o Pinotti. Si presentò a sua volta come Adriano De Grandis, capo reparto, e sempre con molta cortesia mi chiese di seguirlo verso una porticina sulla quale capeggiava la scritta ufficio tecnico; l’aprì senza bussare scostandosi per farmi strada, e dopo avermi presentato senza tante cerimonie all’unico occupante, Flavio Traldi, si girò e se andò chiudendo la porta con delicatezza.

Oltre a Flavio, nel minuscolo locale notai solo un vecchio tavolo da disegno, una scrivania, un paio di seggiole e un’atmosfera quanto meno diffidente. Flavio, infatti, non sembrava entusiasta di vederemi, un atteggiamento comprensibile al quale non feci caso, ma comunque si disse a mia completa disposizione. Gli chiesi quindi di tornare subito nel reparto di confezionamento in quanto la cosa che più mi interessava era vedere e conoscere le macchine e i prodotti che confezionavano, e di avvertire Pinotti che subito dopo sarei andato da lui in Lamp.

Nel reparto scoprii che operavano due diversi tipi di macchine, le FP 18, le più vecchie, e le più recenti TR-86, che Traldi mi disse di aver realizzato basandosi sulla tecnologia di termoformatura “bivalve” nata per produrre le supposte. Erano macchine che non mi sembrarono niente di speciale dal punto di vista tecnologico: sapevo molto poco della termoformatura, una tecnologia peraltro molto diversificata che avevo avuto modo di osservare quasi solo sulle fiere e in poche occasioni, di sfuggita, in reparti di produzione. Non avevo nemmeno mai visto una macchina per produrre supposte, ma sia le FP-18 che le TR-86, anche se sembravano far bene il loro lavoro, mi sembrarono lentissime e meccanicamente molto semplici per non dire arcaiche.

Funzionalmente poi, non erano certo rivoluzionarie: non erano infatti che un connubio fra una “multifile verticale” ed un banale sistema di trasporto orizzontale a pettine. Quelle constatazioni non mi delusero però, anzi, mi fecero subito pensare che potevo fare un sacco di cose per rendere quelle macchine più moderne, efficenti e veloci.

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Inoltre quei blister multiformi e variopinti mi fecero immaginare diecine di possibili applicazioni nei settori merceologici più diversi e cominciai a pensare che seguire Bulgarelli in quell’iniziativa avrebbe potuto rivelarsi tutt’altro che noioso e squalificante.

Chiesi quindi a Flavio, ed ottenni, notizie più dettagliate sul sistema di termoformatura, di tranciatura, e in particolare sui cambi di formato, che mi sembravano molto più complessi e costosi di quelli delle imbustinatrici. Infine, dopo aver saputo che oltre a lui e a De Grandis l’azienda contava su solo due altri dipendenti fissi, Piero Dodi, esperto montatore e manutentore, e suo fratello che lo aiutava imparando, e che le donne che avevo visto addette alle macchine venivano reperite secondo le esigenze produttive presso una cooperativa di servizi, per non stressarlo più di quanto avevo già fatto gli dissi che non mi serviva altro; lo ringraziai, lo salutai e gli chiesi di avvertire Pinotti che stavo andando da lui.

Da Pinotti, un mio coetaneo un po’ sulle sue che trovai ad attendermi in una saletta piuttosto disadorna, imparai tutto sull’Unifill, compreso che l’azienda era nata per sua iniziativa. Era stato lui, mi disse ad avere l’idea di mettere a frutto l’esperienza fatta dalla Lamp nel produrre e vendere nastri di alveoli vuoti per supposte, per realizzare macchine monoblocco che, oltre a formare gli alveoli potessero riempirli e chiuderli. Un’iniziativa applaudita dai proprietari della Lamp, che però, purtroppo, vi avevano dedicato poco tempo e risorse. E così, quando la FP-18 era stata finalmente pronta, ci si era accorti che la Sarong, fondata da Freddi, Pantaloni e Arletti, era già meritatamente padrona del mercato delle supposte.

La cosa non aveva impensierito più di tanto i proprietari della Lamp, per i quali l’Unifill era stata solo uno sfizio, e che avevano subito dimesso pensiero, ma era stata una grossa delusione per lui, che però invece, non si era arreso. Con l’intento di non buttare via l’esperienza fatta, aveva suggerito ai suoi soci di proporre ai clienti farmaceutici della Lamp un’alternativa innovativa per confezionare in monodosi prodotti liquidi o semidensi. I soci erano stati d’accordo, e per rendere il sistema più farmaceutico era stata disegnata la TR-86, ma anche quell’idea non aveva sfondato. Non ancora convinto, non gli era rimasto che tentare di promuovere quel tipo di confezione in settori meno esigenti di quello farmaceutico, e finalmente ce l’aveva fatta. Aveva creato una redditizia attività di confezionamento per conto terzi di prodotti per la cura degli animali, delle piante, per l’auto e di deodoranti: sia per l’auto che per la casa, riuscendo a destare l’interesse nientemeno che della Johnson Wax; che era diventata la migliore cliente.

Avevano anche venduto ventidue macchine, alcune anche ad aziende farmaceutiche che le avevano destinate a prodotti bevibili poco esigenti; tre di queste in Cina, ma soprattutto ad altri confezionatori per conto terzi in paesi lontani dai quali difficilmente avrebbero potuto far loro concorrenza in Italia. L’ultima macchina era stata acquistata un paio d’anni prima dal gruppo francese Bongrain, che l’aveva destinata a produrre con il marchio Petite Louise, formaggini fusi in monodose per 180

bambini, in concorrenza con il famosissimo “rosso” Baby Bell. Una applicazione interessantissima, sulla quale però gravava un impegno di esclusiva mondiale in quel settore, ancora valida.

Conclusa la parte storica, gli chiesi della concorrenza, e anche se scoprii che c’era un concorrente diretto, il resto che imparai confortò quello che avevo già immaginato. A suo avviso le monodosi della Lameplast, monotone come forma ma sopratutto formabili solo con monomateriali, avevano un limitato target di mercato che ruotava attorno ai prodotti oftalmici e a quelli destinati ad essere vaporizzati misti ad acqua per inalazioni; settori dai quali la Lameplast non sembrava al momento voler uscire. Le bustine, realizzabili con diversi tipi di film barriera multistrato che potevano consentire ottime protezioni al contenuto, la facevano effettivamente da padrone nel settore grazie al loro basso costo, ma erano anch’esse monotone e difficili da aprire e da svutare. E le Brovit di Magnoni, che in teoria sembravano le più pericolose, non avevano invece avuto una diffusione e un successo superiore alle monodosi dell’Unifill.

L’unico vero concorrente era a San Prospero e si chiamava Valmatic: una micro-azienda creata da un loro ex dipendente o forse ex collaboratore esterno, non ricordo, un certo Draghetti, che si era associato con un ex imprenditore edile di nome Levratti. Ma la Valmatic, concluse Pinotti, forse con eccessiva supponenza, pur producendo anch’essa monodosi e macchine del tutto simili a quelle dell’Unifill: non era né poteva diventare un concorrente pericoloso. I due soci proprietari non avevano grandi ambizioni, ed inoltre, per il momento si erano rivolti verso settori merceologici diversi da quelli che interessavano all’Unifill per la vendita delle monodosi; le macchine, poi, piu piccole come dimensioni e molto meno performanti della TR-86, non costituivano certo un’alternativa per la potenziale clientela.

Insomma, la concorrenza c’era, ma non c’era.

Esauriti i due argomenti che più mi interessava approfondire, gli domandai come riuscissero, visti i loro costosi cambi di formato, ad essere competitivi con le altre monodosi, come funzionasse dal punto di vista amministrativo e commerciale la società e se lui personalmente fosse stato d’accordo nel venderla. E le risposte che mi diede furono soddisfacenti, l’ultima in particolare.

Per non gravare troppo sui prezzi delle monodosi, tenevano a magazzino una serie di stampi e trancianti per produrre un certo numero di sagome standard. Offrivano quindi gratuitamente queste in prima battuta, facendo pagare solo i tempi di montaggio e la riaffilatura dei trancianti. Se il cliente desiderava sagome di blister realizzate su suo disegno, l’uso di film particolari o dosare prodotti per i quali i sistemi di dosaggio disponibili non erano idonei, doveva sobbarcarsi tutti i costi necessari addizionati di congrui ricarichi. Ma fino a quel momento, sia per la prudenza di Traldi, ma soprattutto per la strategia di non andare a cercarsi grane, le richieste di quel genere erano state fortemente scoraggiate. Praticamente era stata accettata solo quella della Johnson Wax, che aveva assicurato ordini cospiqui e duraturi nel tempo e forniva un’ottima referenza da spendere sul mercato. Per 181

quanto riguardava l’amministrazione e le vendite, l’Unifill veniva fatta funzionare da personale Lamp, lui compreso ovviamente, mentre sul conferimento al gruppo TBE, lui era stato contrarissimo a farlo in quanto aveva sempre pensato e continuava a pensare che per lanciare davvero l’Unifill bastava avere la voglia di farlo e dedicarvi entusiasmo e mezzi.

E su quell’ultima frase la porta della saletta si apri lasciando entrare quattro uomini sorridenti, tre più vecchi di me e uno più giovane che, stringendomi la mano uno dopo l’altro, si presentarono come Setti, Vincenzi, Mai e Enrico Vincenzi: i soci proprietari della Lamp. Non avevo mai sentito parlare né dei Vincenzi né di Setti, mentre l’ingegner Mai era una figura molto nota anche nel mondo del packaging bolognese. Il dottor Vincenzi, un bel signore d’aspetto e di modi era con tutta evidenza il leader dell’azienda, mentre il dottor Enrico, suo figlio, appariva in fase di addestramento per sostituirlo. Di Setti non ricordo nulla in quanto dopo essersi presentato mi salutò e se ne andò. Dopo un buon caffè, facemmo quattro chiacchere sul mercato delle macchine per l’imballaggio e sulle prospettive che pensavo potesse avere l’Unifill, poi un rapido giro dell’azienda dal quale comunque riuscii a capire le ragioni della fama di cui la Lamp godeva e del successo che aveva. Era più che evidente che i soci avevano dedicato la loro attenzione e gli investimenti solo alle strutture tecnologiche e produttive, ai laboratori e all’ottimizzazione della produzione: a tutto quello, in sostanza, che portava alla qualità del prodotto e al suo apprezzamento da parte del mercato. Tutto il resto, compresi i loro uffici, lo avevano strutturato al minimo indispensabile funzionale; forse anche un po’ troppo al minimo.

Ritornati nella saletta, tutti e quattro si dissero ansiosi di vedermi presto a San Prospero, e mi congedarono.

Uscii che era quasi l’una, ma mi era completamente passata la fame, e mentre guidavo lentamente per il tortuoso “Canaletto” cominciai a pensare che l’Unifill, pur così piccola e del tutto destrutturata, poteva davvero essere una bella sfida, come l’aveva chiamata Bulgarelli. Aveva davvero, come del resto mi aveva detto con evidente amarezza Pinotti, grandi potenzialità: bastava solo individuarle e perseguirle con determinazione. E mi accorsi di aver voglia di farlo. Certo c’era tutto ma proprio tutto da fare: una “roba”impegnativa, ma avrei anche potuto plasmare a mio piacimento la tecnologia ideata da Traldi rendendola idonea a un sacco di prodotti ai quali né lui né Pinotti sembravano aver pensato e “fare il mercato”. Non mi sembrava un’impresa tanto difficile.

Per quanto riguardava la Sacpack poi, avrei provato ancora a far qualcosa per lei, ma avevo la sensazione che se ce l’avessi fatta con l’Unifill, a Bulgarelli non sarebbe interessato gran chè il suo destino.

A Nonantola avevo già deciso e quindi pensai che dovevo subito informare Paolo: lo chiamai, mi disse che era in Sacpack e mi diressi là.

Lo trovai con il morale a terra, povero Paolo: il monoblocco sembrava proprio non volesse saperne di cominciare a comportarsi bene, e pensai di rimandare il discorso. Stetti con lui, Cagnolati, Saguatti e Tabaroni un paio d’ore a parlare di ipotetiche modifiche, ma poi decisi che era meglio togliersi il dente e gli chiesi di accompagnarmi in un bar 182

li vicino a prendere un caffè. Non la presi tanto alla larga: gli dissi che Bulgarelli mi aveva informato delle intenzioni della TBE nei confronti dell’Ingenews e che ne ero molto dispiaciuto. Poi della proposta che mi aveva fatto e che ero propenso ad accettare. E devo dire che reagì con grande signorilità. Senza mostrare né stizza né acredine mi disse solo che dovevo fare quello che credevo meglio; che certo gli sarebbe piaciuto se fossi rimasto al suo fianco, ma che non poteva né voleva tenermi con lui contro voglia. L’Ingenews, con noi due, concluse con un tono amaro nella voce, poteva diventare la più grande e prospera agenzia di vendita di macchine per l’imballaggio d’Italia. E forse, chissà, aveva anche ragione.

Il mattino del giorno dopo, come d’accordo, mi presentai in LB da Bulgarelli e gli dissi subito che accettavo la sfida; poi, dopo che mi ebbe stretto calorosamente a lungo la mano, gli raccontai quello che avevo saputo dell’azienda, della concorrenza e tutto il resto; e alla fine gli spiegai cosa mi aveva convinto. Quei blister mi avevano incuriosito e messo in moto la fantasia, gli dissi, e se conoscevo bene i miei clienti avrebbero fatto lo stesso effetto anche su molti di loro. La sfida poteva essere vinta! E ci mettemmo a lavorare.

Dopo aver fatto un esame più dettagliato di quanto avevo potuto osservare e ascoltare, decidemmo che le priorità assolute erano la verifica dei termini di esclusiva con la Bongrain, la struttura produttiva e il personale; lavoracci entrambi gli ultimi due, dai quali Bulgarelli mi sollevò subito in toto. Mi disse infatti che, pur se avrei avuto formalmente la carica di direttore generale, avrei dovuto pensare solo e soltanto a sviluppare il prodotto e il mercato. A fare l’azienda, a produrre e ad amministrala ci avrebbe pensato lui in qualità di amministratore delegato con persone di sua fiducia. Avrebbe pensato lui anche a concordare con Belloli i termini del mio disimpegno dall’Ingenews e a tutte quelle incombenze burocratiche che sapeva mi infastidivano e basta. Poi ci salutammo con l’impegno di rivederci già l’indomani alla LB per esaminare l’accordo con Bongrain che si sarebbe fatto mandare da Pinotti, e per scendere negli altri necessari dettagli.

Mentre mi avviavo verso casa sentivo dentro di me una carica che non avevo più sentito da quando avevo iniziato il progetto per l’avvolgitrice della BFB. Più ci pensavo e più l’Unifill mi sembrava davvero una bella avventura da vivere; senza contare che siccome avrei dovuto e potuto riprendere a viaggiare di nuovo di frequente all’estero, avrei potuto ridedicarmi al mio “diversivo”, che nei due anni spesi in Macofar e all’Ingenews avevo quasi abbandonato e che mi era davvero mancato. La sera raccontai con entusiasmo a Luciana della giornata e di quanto avevo deciso e la vidi rasserenata e soddisfatta. Si fidava evidentemente molto di più più della TBE e del serio e solido Massari che dell’esuberante Belloli. Il mattino dopo, in LB, Bulgarelli mi disse di aver già concordato con Belloli che avrei smesso di lavorare per l’Ingenews il 30 di novembre, sia per ragioni fiscali che per cercare di portare a termine alcune trattative di vendita che avevo condotto personalmente. Per il mio compenso mi chiese di lasciarlo per il momento uguale a quello che avevo, cosa che accettai senza problemi in 183

quanto ero più che soddisfatto da quel lato, ma mi promise premi adeguati sui risultati che sarei “certamente” riuscito ad ottenere. Poi, aprimmo la busta che ci era pervenuta nel frattempo da Pinotti e scoprimmo che se la Bongrain non si fosse fatta viva con un ordine ufficiale di una seconda macchina entro la fine di agosto del ‘92, l’accordo di esclusiva sarebbe decaduto. E io comiciai a pregare che non lo facesse.

Dopo pranzo andammo di corsa a San Prospero ad incontrare Cagnolati e Scandellari, con i quali, planimetrie e cataloghi vari alla mano, già procurati da Cagnolati, in un paio d’ore decidemmo come realizzare gli uffici amministrativi, commerciali e tutto il resto, per rendere l’Unifill indipendente e autosufficiente; un lavoro di cui si sarebbe occupato in piena autonomia Cagnolati. Poi in un’altra oretta stabilimmo che Cagnolati, pur continuando ad agire in qualità di consulente per la TBE, senza quindi gravare per il momento sul bilancio dell’Unifill, avrebbe avuto l’incarico di direttore della produzione, mentre Scandellari sarebbe stato assunto dall’Unifill con l’incarico di organizzare la produzione sia delle monodosi che delle macchine.

Andava davvero in fretta, Bulgarelli, e la cosa mi piaceva sempre di più!

E non era finita. Dopo cena, infatti, quando tutti un po’ stanchi ma soddisfatti ci salutammo, nel ringraziarmi, mi chiese di raggiungerlo l’indomani in LB all’ora di pranzo perché aveva una sorpresa da farmi.

Chissà di cosa si trattava, pensavo mentre andavo verso l’LB il giorno dopo, non mi veniva niente in mente. Ma quando, in anticipo, entrai nella saletta attigua al suo ufficio e scoprii nella ragazza che vi era seduta un viso che non mi era nuovo, cominciai ad avere qualche sospetto. La salutai quindi dicendole che mi sembrava di averla già vista ma di non ricordare dove; ma lei fu categorica nel dirmi che non si ricordava affatto di me. Eppure io l’avevo già vista, e improvvisamente ricordai dove e capii che la sorpresa era lei. L’avevo incontrata di sfuggita l’anno prima a Dusseldorf in compagnia di Rita e Sandra della Macofar e mentre stavo per dirglielo, per evitare che pensasse che “ci stavo provando”, Bulgarelli si affacciò alla saletta e ci invitò ad entrare da lui entrambi.

Fatte le presentazioni, si chiamava Rossella Calzati, imparammo che era laureata in lingue straniere, che aveva poco più di trent’anni, e che aveva lavorato per alcuni anni presso un’agenzia indipendente che vendeva all’estero macchine per il packaging di alcuni piccoli costruttori emiliani; ottenendo, a suo dire, un particolare successo nel settore delle insaccatrici. Quello della Sacpack. Quella referenza non mi colpì più di tanto: tutto teso verso il futuro dell’Unifill, della Sacpack e delle sue macchine mi ero già dimenticato; ma la competenza e la dimestichezza con la meccanica che Rossella mi dimostrò rispondendo ad alcune mie domande abbastanza biricchine, mi fecero pensare che non ci avrebbe messo molto a conquistare qualsiasi potenziale cliente avesse voluto, compresi i miei. Così, dopo averla congedata e saputo da Bulgarelli che gli era stata raccomandata da Buffoni al quale si era presentata per avere un posto da export manager che però lui non poteva offrirle, decisi che quel posto lo avrebbe avuto in Unifill.

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Bulgarelli fu d’accordo, e soddisfatto mi disse che si sarebbe occupato lui l’indomani di convocarla per informarla, definire inquadramento, mansioni e condizioni economiche.

Non pensai più a Rossella, che Bulgarelli mi disse sarebbe stata con noi dal primo di settembre, e forse per placare i sensi di colpa che avevo nei confronti di Paolo, mi dedicai solo a cercare di vendere per l’Ingenews, ma arrivai alle ferie che non avevo combinato niente. Andai in montagna a cercare funghi per tre settimane, e al ritorno, per consumare le ferie maturate con l’Ingenews bighellonai a Bazzano in campagna dai miei. Poi, il primo di settembre arrivò Rossella, la lasciai per una settimana a Spilamberto con Luciano a conoscere l’azienda e le sue due macchine, e finito “il corso”, a San Prospero cominciammo a inquadrare il nostro futuro lavoro.

Per prima cosa esaminammo con Pinotti l’elenco dei clienti, degli ordini, delle offerte in corso, e quello che scoprimmo fu abbastanza confortante. A parte che dopo la vendita della TR-86 a Bongrain, non era più stata richiesta un’offerta per una macchina, l’attività di produzione e vendita di monodosi andava molto bene. I clienti erano numerosi, diversificati e stabili come numero e come frequenza di richieste d’offerta, così come erano stabili e regolari gli ordini che coprivano mediamente la capacità produttiva di circa quattro mesi su un turno. Inoltre, cosa non di poco conto, non erano in corso controversie con clienti. Meno confortante fu invece quello che scoprimmo sulle procedure commerciali, sul materiale promozionale, e in particolare sulle iniziative promozionali; in sostanza le fiere.

I listini semplicemente non esistevano: le monodosi venivano offerte con stringate lettere alle quali veniva allegato un disegno della monodose stessa, e le macchine erano anch’esse state sempre offerte con descrizioni a dir poco essenziali della macchina e di tutti gli accessori disponibili, accompagnate da un depliat a dir poco miserino di una sola pagina, con sul fronte una sfuocata e per niente invitante foto della TR-86 e sul retro pochissime informazioni tecniche in quattro lingue. Fu una scoperta, come dicevo, poco confortante, ma certamente rimediabile con un paio di settimane di lavoro interno e l’assistenza di un buon grafico.

Anche quello che scoprimmo sulle fiere, come dicevo, non fu affatto confortante, anzi, ma riuscimmo comunque ad individuarne un aspetto potenzialmente positivo. L’ultima partecipazione dell’Unifill ad una fiera risaliva a diversi anni prima ed era consistita in una vetrinetta piena di campioni di monodosi posta in un angolo di uno stand della Lamp, quindi quello che intendavamo vendere era una novità quasi assoluta e quindi certamente interessante: solo che bisognava avere l’opportunità di presentarla. E sembrava proprio che nessuno dopo quell’unica fuggevole apparizione ci avesse più pensato. Non era stato prenotato nessuno stand né all’ormai imminente Ipak - Ima a Milano, ne a Chicago e nemmeno a Dusseldorf. Un bel guaio. Ma non mi persi d’animo per quel dettaglio. Anche se avrei dovuto certamente viaggiare molto di più di quanto mi ero immaginato per far conoscere l’Unifill e i

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suoi blister, a viaggiare ero abituato e non mi dispiaceva per niente. E poi potevo contare su Rossella.

Mentre facevamo tutte queste cose, io continuavo ancora, senza successo, a cercare di vendere le macchine per l’Ingenews, mentre Rossella, per conto suo, si dava da fare per tentare di sedurre i suoi ex clienti con l’insaccatrice della Sacpack, ma anche lei senza concludere gran chè. Così, non si dispiacque più di tanto quando le dissi di lasciar perdere e di dedicarsi a conoscere al meglio le monodosi; perché il nostro primo obbiettivo sarebbe stato quello di vendere quelle e solo quelle. Ansioso come ero di verificare se la curiosità che pensavo i nostri blister avrebbero suscitato nei miei amici/clienti fosse una realtà o solo una mia speranza, avevo suggerito a Bulgarelli la strategia che pensavo migliore per raggiungere quell’obiettivo nel minor tempo possibile e con i migliori risultati, e lui si era detto pienamente d’accordo.

Il mio piano si basava fondamentalmente sull’assunto che la vendita di una sconosciuta TR-86, anche ai miei amici/clienti, non sarebbe stata un gioco, e sicuramente ci avrebbe impegnati per un bel po’ di tempo in viaggi, colloqui e trattative. Tutto normale, ma offrire la possibilità di testare i loro clienti/consumatori con una “confezione novità” senza dover affrontare investimenti onerosi sarebbe stato certamente molto più facile, rapido e produttivo. Se ci fossimo riusciti, avremmo preso infatti i due famosi piccioni con una fava. Innanzitutto avremmo aumentato il flusso di cassa che ci avrebbe permesso di far fronte senza l’aiuto della TBE agli investimenti che avevamo gia messo in atto nello stabilimento di San Prospero, e in secondo luogo, facendo esperienze variegate avremmo raccolto indicazioni preziose su come migliorare o modificare la tecnologia della TR-86 per renderla la più efficiente e flessibile possibile e venderla quindi poi senza rischi. Certo, se qualcuno avesse voluto una macchina, non gli avremmo detto di no, ma non le avremmo “spinte”.

Con quel piano in testa, dunque, a fine novembre passai a salutare Belloli, Buffoni, gli altri colleghi di via Galliera e a prendere le mie cose, e il giorno dopo, con in tasca il biglietto da visita da direttore generale dell’Unifill, in attesa che Cagnolati finisse i lavori a San Prospero, le portai negli uffici della Sacpack, dove però, non mi fermai solo quel giorno. Avevo infatti pensato di dedicare tutto il tempo che mancava ad arrivare alle feste ad imparare tutto, ma davvero tutto sulle monodosi e sulla TR-86, ma soprattutto volevo che lo facesse Rossella. Conoscevo fin troppo bene gli amici/clienti delle grandi multinazionali che avevo deciso di contattare per primi per “introdurla”: era gente molto preparata, che non gradiva ascoltare favole né sentirsi dire “devo consultare il mio ufficio tecnico”, e quindi, per non rischiare di “bruciarla”, era fondamentale che lei si dimostrasse fin da subito competente. Dal giorno dopo, quindi, pur con il disagio di non disporre di un minimo di comodità logistiche, ci stabilimmo all’Unifill.

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All ‘ Unifill

Se in Sacpack non si erano forse nemmeno accorti della mio avvento e la sparizione di Rossella era stata appena notata, in Unifill la nostra presenza non passò certo inosservata. Per un’intera settimana ci piazzammo infatti a tempo pieno nel reparto di confezionamento dove facemmo quasi impazzire Traldi, De Grandis e Dodi, che, sono convinto arrivarono ad odiarci, ma quano ci decidemmo a lasciarli in pace, entrambi sapevamo davvero tutto sulla TR-86: cosa poteva fare e non fare, sulle difficoltà superate e su quelle risultate insuperabili, e anche molto altro. Fra questo “molto altro”, in verità, ci fu qualcosa che mi deluse e preoccupò non poco, ma di cui, per non”scaricarla” non parlai a Rossella. Oltre infatti ad avere la conferma delle impressioni che avevo avuto nel corso della mia prima visita a San Prospero, e cioè che la TR86 era una macchina molto lenta e banale nell’architettura funzionale e nella meccanica, scoprii che gli “stampi di formatura e i trancianti di separazione”, i suoi elementi fondamentali, non erano nemmeno tecnologia dell’Unifill ma dei suoi sub-fornitori, e che la macchina non era coperta da brevetti difendibili e di conseguenza era copiabile e certamente migliorabile da chiunque avesse avuto la voglia di farlo.

La settimana dopo la impiegammo quasi del tutto a documentarci sui film plastici usati in generale per la termoformatura e in particolare su quelli usati fino a quel momento sulla TR-86. I primi, scoprimmo, erano moltissimi e, grazie agli accoppiamenti possibili di film con le più diverse caratteristiche, adatti a contenere e preservare adeguatamente ogni tipo di prodotto; i secondi, invece, erano sostanzialmente soltanto due. A parte un accoppiato speciale di alluminio e carta traspirante usato per la Johnson Wax, per tutte le altre monodosi prodotte fino a quel giorno era stato impiegato solo un banale PVC - PE; con variazioni solo di spessore. Una gamma davvero limitatissima, pensai, ma alla richiesta che feci a Pinotti e Traldi di conoscere la ragione di tale limitatezza, la risposta fu che i loro clienti non avevano mai chiesto di utilizzare materiali più sofisticati.

Poteva certamente essere vero, anzi, sicuramente lo era, ma a me quella ragione non bastava. Uno dei più importanti argomenti di vendita che avevo pensato di usare, era la possibilità di usare per formare i blister, la gamma più vasta possibile di film, e quindi dovevo sapere con certezza cosa potevo fare o no, e cosa dovevo eventualmente modificare sulla macchina per non avere problemi sotto quell’aspetto.

Decisi quindi, senza dir niente a Traldi e Pinotti, di andare a far visita al sub - fornitore che costruiva gli stampi di formatura e i trancianti di separazione - gli unici dispositivi che avevano a che fare con il tipo di film impiegato - per sapere se avessero sperimentato altri tipi di film e con quali problemi e risultati. E alla CNC di Carpi, un certo Cantarelli, contitolare dell’azienda con un socio di cui non ricordo il nome, mi tranquillizzo dicendomi che con i loro gruppi si potevano deformare

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quasi tutti i film plastici termodeformabili in commercio, e tranciarli senza problemi con la sagoma desiderata.

Naturalmente ogni nuovo film e ogni nuova sagoma di blister doveva avere la loro approvazione, ma in generale occorreva solo non esagerare, nelle deformazioni, con cunei e spigoli troppo pronunciati che potevano creare punti di eccessiva sottigliezza e conseguente debolezza, e nella tranciatura trovare il giusto angolo di taglio dei coltelli. L’angolo giusto era determinante non solo in funzione del materiale da tranciare, ma anche per la durata di un filo di taglio efficiente. Secondo la loro esperienza, comunque, anche nei casi più critici, si poteva contare su una durata efficiente di alcuni mesi. Mi bastava, li ringraziai e me ne andai soddisfatto. L’eventuale rapida usura dei coltelli non era certo un problema per il genere di clienti a cui avevo intenzione di rivolgermi: se non avessero voluto tener ferme le macchine in attesa della riaffilatura, ne avrebbero semplicemente acquistati due set.

La settimana precedente il Natale sapevamo o credevamo di sapere ormai tutto quello che c’era da sapere sulla tecnologia Unifill: non ci restava che formulare un ventaglio di prezzi budget da proporre ai clienti per la “nostra merce”, cosa che facemmo in un giorno con Bulgarelli, Cagnolati, Pinotti e Scandellari; poi, come facevo ogni anno, chiamai tutti i miei amici/clienti per far loro gli auguri, e dalla reazione che ebbero quasi tutti quando dissi loro di avere qualcosa di nuovo e interessante da far loro vedere, pensai di averla già vinta la mia tombola natalizia. Quasi tutti mi dissero, infatti, di volermi vedere il prima possibile.

Al rientro, dopo l’Epifania, li ricontattai e riuscii a fare un programma di visite, un po’ caotico forse, ma entusiasmante, e anche se non avevo completamente dimenticato i dubbi e i timori che mi erano venuti in mente quando mi ero reso conto della povertà tecnologica della TR-86 e della sua indifendibilità dal punto di vista brevettuale, li scacciai pensando che se anche fossero arrivati concorrenti, cosa più che probabile se avessimo avuto successo, li avremmo combattuti e sconfitti. Non mi sentivo affatto arrugginito tecnicamente né obsoleto come idee. Partimmo quindi in quel gennaio del 1992 con le borse piene di tutti i tipi di blister che eravamo riusciti a scovare in azienda e tanta voglia di sfondare. E ce la facemmo. Tutti, ma proprio tutti i miei amici/clienti rimasero colpiti dai nostri blister, e con ben quattro di loro iniziammo addirittura fino dal primo incontro a parlare di più che probabili forniture.

Fu un successo che non ci eravamo di certo aspettati di ottenere così rapidamente e senza alcuno sforzo: un altro dei tanti colpi di fortuna della mia vita. Se ricordate, a quei tempi andava di moda, in particolare nella cosmesi ma non solo, la promozione dei più svariati prodotti liquidi e cremosi tramite campioni monodose gratuiti inseriti sotto forma di bustine nelle riviste dedicate alle donne. Né Rossella né tantomeno io avevavamo mai letto riviste per donne, non sapevamo assolutamente nulla di quel genere di promozione e non potevamo certo immaginare che grandi case della cosmesi fossero alla ricerca di 188

alternative alle bustine per dare più fascino a quelle loro promozioni. I nostri sconosciuti blister bivalva che potevano assumere la sagoma dei contenitori per la vendita e apribili più facilmente senza rischiare di inbrattarsi, anche se molto più costosi delle bustine, colpirono la fantasia degli uomini di marketing e decretarono l’inizio del successo dell’Unifill. Aggirandoci per l’Ipak - Ima a Milano e mostrando a destra e a manca i nostri sconosciuti blister ricevemmo infatti un incredibile numero di richieste di visite di approfondimento, e l’ultima sera poi, avemmo una sorpresa a dir poco entusiasmante.

Come potete facilmente immaginare se avete letto fino ad ora, fra quei primi quattro potenziali clienti c’era la Lever di Casalpusterlengo, dove ero praticamente a casa mia e dove avevo avuto l’accoglienza più entusiasta e più interessata. Al primo incontro ne erano quindi seguiti rapidamente altri per entrare nei dettagli più squisitamente tecnici di possibili forniture; e nel corso di una di queste visite, mentre eravamo impegnati nella definizione di alcuni dettagli con gli ingegneri Rebagliati e Sgorbani e con un paio di loro collaboratori, Duilio mi aveva sussurrato in un orecchio: “Certo, Roberto, che se i tuoi blister potessero stare in piedi da soli i campi di applicazione potrebbero essere molti di più delle campionature; e in tutti i settori”. Una frase buttata lì, alla quale non mi era venuto da fare nessun commento al momento, preso come ero dagli argomenti molto più concreti che dovevamo definire. Mentre però Rossella si dava da fare con i nostri ospiti per definire dettagli di sua competenza, ci avevo ripensato e ne avevo realizzato meglio il significato.

Avevo avuto un’esperienza diretta di quale apertura di mercato avesse consentito la realizzazione per l’ACMA, da me portata a termine fra l’altro, della sua prima macchina per buste flessibili Stand - Up: mi ero quindi messo a pensare a dove si potesse realizzare nella TR-86 un dispositivo che potesse consentire la formatura di blister con caratteristiche simili. E mentre pensavo, avevo schizzato su un blocco per appunti di Unilever abbandonato sul tavolo, un blister bivalva con due deformazioni sul fondo che, sporgendo dalla saldatura, formavano due punti d’appoggio. Mentre stavo prendendo gusto a quell’idea, ero però stato di nuovo coinvolto nella riunione per definire prezzi e tempi di consegna e avevo lasciato il disegno dov’era. La trattativa era andata avanti per un bel po’, e quando, soddisfatti della sua conclusione positiva, avevamo ringraziato i nostri amici e ce ne eravamo andati, io avevo completamente dimenticato sia la frase di Duilio che il mio schizzo. Uno schizzo che tornò di moda, sorprendendomi appunto, alla fine della fiera.

Ci stavamo avviando stanchi, anche se contenti per gli interessanti contatti avuti, verso l’uscita per tornarcene finalmente a casa, quando dagli altoparlanti mi venne chiesto di raggiungere un punto di assistenza ai visitatori. Angosciato per possibili brutte notizie - i miei genitori erano entrambi anziani - lo raggiungemmo di corsa e scoprimmo che fortunatamente non si trattava di una brutta notizia, ma di una buona: l’addetta ci disse infatti sorridente di chiamare allo stabilimento Lever di Casalpusterlengo un certo Duilio Sgorbani. Dopo 189

aver scoperto che il mio cellulare era rimasto in macchina - ho sempre avuto e ho ancora un rapporto conflittuale con il telefono - e che quello di Rossella era scarico, lo chiamammo subito e lui ci chiese se potevamo passare da lui quella sera stessa per parlare di un nuovo progetto.

Potevamo dirgli di no? No di certo, Casalpusterlengo era sulla strada di casa e stare fuori un’ora in più non sarebbe stato un gran sacrificio.

-------------------- o -------------------Arrivammo alla Lever che era già buio pesto - avevamo impiegato più di un’ora e mezza dalla fiera all’autostrada - ma anche se stanchissimi eravamo curiosi ed eccitati. Dopo i saluti di rito e qualche domanda su come fosse andata la fiera, Duilio, senza tanti preamboli tirò fuori lo schizzo che avevo lasciato sul tavolo della sala riunioni un paio di mesi prima e mettendomelo davanti mi disse: “Roberto, se questo si fa e se si puo fare su blister più grandi di quelli che ci avete fatto vedere fino ad oggi, hai già venduto una macchina”. E io, del tutto incosciente, gli risposi:“Certo che si fa!”. E sotto lo sguardo interessatissimo di Duilio e quello sbigottito di Rossella, dopo aver osservato per forse un minuto il mio scarabocchio, presi dalla scrivania un blocco di fogli bianchi e mi misi a schizzare.

In pochi minuti rappresentai due stampi di formatura visti di profilo, con l’estrema parte inferiore separata dal resto e spiegai tutto di un fiato: “Basta fare i due stampi con la parte inferiore sagomata per creare due borse che servano da appoggio al blister, e per fare in modo che questo, una volta formato, possa uscire dagli stampi, questa parte dovrà essere separata dallo stampo principale e dovrà essere mobile verso il basso. Per quanto riguarda poi le dimensioni - proseguii - basterà solo fare una TR-86 un poco più grande!” E dallo sguardo che mi lanciò Duilio capii di averlo convinto. Raggiante mi disse infatti: “Vai a casa, Roberto, per oggi credo che ti sia già guadagnato lo stipendio; da domani con Fortini butteremo giù tutte le specifiche di base del progetto e poi ci rivedremo per procedere. Nel frattempo comincia a pensare a come produrre blister Stand - Up che possano conternere 500 ml di detergente!

Quell’ultima frase, lo confesso, mi fece un po’ paura, e pensai di essere stato troppo facilone con quel mio “certo che si fa”. I blister prodotti fino a quel momento potevano contenere al massimo, ma proprio al massimo, 100 ml, e per farne 500 con una produttività decente, la TR-86 non doveva diventare solo un po’ più grande ma sicuramente un bel po’ più grande. Ma non feci commenti: ci avrei pensato dopo a come fare. Ci alzammo, lo salutammo e ci avviammo verso casa. La stanchezza però ci era passata ed era stata sostituita da una fame da lupi, e anche se era già tardissimo ci fermammo al all’Autogrill Pavesi per cenare.

Dopo cena, Rossella, che fino a quel momento non aveva fatto commenti ma che si vedeva benissimo che aveva una voglia matta di farne, mi chiese: “Ma sei sicuro davvero che si possa fare un blister da 500 ml !?” Ed io, ormai tornato progettista e sempre più sicuro di poter realizzare in pratica quanto avevo schizzato, la tranquillizzai dicendo 190

che era da un pò di tempo che pensavo di allargare la TR-86 per fargli fare blister più grandi e ampliare la gamma di prodotti da offrire anche in settori merceologici diversi da quelli che avevamo esplorato fino ad allora: e un’eventuale ordine della Lever sarebbe stata una manna che ci avrebbe finanziato l’intero progetto.

Il giorno dopo ci fu un’altra bella novità: importante anche lei anche se non quanto quella della Lever. Mentre eravamo in fiera era stato infatti completato il trasloco, iniziato da tempo per le macchine e il magazzino, con il trasferimento di tutto il materiale degli uffici; ed era stata chiusa definitivamente la sede della Sacpack. Spianammo quindi la rinnovata sede dell’Unifill a San Prospero, dove, oltre naturalmente a Gloria, avevano deciso per fortuna di seguirci Luciano, e Sala Ones, un montatore che credo abitasse proprio da quelle parti, che avevamo assunto con il dupplice scopo di aiutare Luciano nel trasloco e in seguito in officina. Avevano invece scelto altre strade sia Ballardini, per motivi suoi, che Giatti, che forse resosi conto di essere ormai solo un peso non aveva insistito per rinnovare il suo contratto di consulenza.

Anche Nadia, una ragazza davvero brava che avrei desiderato invece ci seguisse, dissuasa dalla distanza che avrebbe tolto troppo tempo ai suoi gravosi impegni familiari, aveva rinuciato a seguirci; in compenso, ad aiutare Gloria nelle certamente più gravose necessità amministrative, Bulgarelli aveva disposto la presenza in azienda per qualche ora al giorno di un suo consulente di fiducia: il ragionier Benuzzi.

Insomma l’Unifill era diventata, pur se piccola, un’azienda con una sua struttura funzionale autonoma, e grazie al lavoro di Cagnolati aveva anche cambiato faccia. I giganteschi grappoli d’uva dipinti sul muro erano spariti e al loro posto faceva bella mostra di sé la scritta Unifill realizzata con grandi lettere blu retro illuminate; a fianco della porticina d’ingresso, rimasta in verità la stessa, era apparso il numero civico; e nella palazzina inserita nel capannone, al tempo della mia prima visita occupata da cianfrusaglie varie e vecchi documenti, erano nati uffici e spazi riservati ai visitatori più che sufficienti e ben arredati.

La prima cosa che facemmo, visto che avevamo perso Nadia e che Gloria, anche con l’aiuto di Benuzzi, non poteva occuparsi sia della parte amministrativa che di quella commerciale, fu cercare con urgenza due addette all’ufficio commerciale. Forse ne sarebbe bastata una in quel momento, ma Bulgarelli ci spronò a trovarne due, addestrarle entrambe in modo omogeneo, ma destinarne una a seguire il confezionamento per conto terzi e l’altra la vendita delle macchine. E anche in questa scelta fummo rapidi e davvero fortunati: Debora e Chiara, entrambe dei dintorni di San Prospero e quindi motivatissime a poter lavorare a due passi da casa, giovanissime e senza alcuna specifica esperienza pratica, si dimostrarono fin da subito piene di entusiasmo, di voglia di imparare e fare, e molto utili anche in pratica. Con il loro aiuto riuscimmo infatti in poco più di un mese a produrre listini commerciali e tutto il materiale necessario a promuovere adeguatamente sia la vendita dei blister che quella delle macchine. E mentre facevamo tutto ciò, arrivò anche il mio solito colpo di fortuna!

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Forse ricorderete che non ero stato molto felice di scoprire che nessuno avesse pensato di prenotare stand né alla fiera di Milano né a quelle di Chicago e Dusseldorf. Di Milano vi ho gia detto che vi eravamo andati come visitatori, a Chicago avevamo già rinunciato e deciso di fare come a Milano, mentre per Dusseldorf 93; ancora lontana nel tempo ma con le iscrizioni ormai chiuse, ci eravamo messi in lista d’attesa sperando in qualche rinuncia. Ebbene, cosa rarissima per non dire impossibile, ci venne assegnato uno stand. Non era enorme, anzi, era cosi piccolo che non ci avrebbe consentito di esporre la TR-86 come avremmo desiderato fare, ma era meglio di niente; sufficiente per contenere qualche vetrinetta per esporre i nostri variopinti blister, un paio di tavoli e qualche sedia per fare accomodare i visitatori. Aveva però un pregio quel piccolo angolo isolato, pensai subito, era di fianco all’ingresso dell’unica toilette dell’immenso padiglione e prima o poi, nell’arco della giornata, sarebbe pur venuto il momento di fare pipì per i visitatori; e sarebbero stati obbligati a passarci davanti.

Mentre mi occupavo di queste cose e pensavo al progetto Lever, Rossella continuava a viaggiare in lungo e in largo vendendo montagne di blister. Per un fenomeno di imitazione abbastanza scontato, quei nostri “cosini” che stavano conquistando le grandi multinazionali, diventavano giorno dopo giorno sempre più di moda, inducendo una sempre più vasta schiera di produttori di liquidi creme e sughi a seguire la stessa strada. Il fatto poi che lei fosse davvero molto brava a proporli e che potesse contare su uno come me che pensava che tutto si poteva fare se lo si voleva e lo si ritineva conveniente, faceva il resto. Senza dover fare il “direttore” riuscivo con la credibilità che mi ero guadagnato dimostrando esperienza tecnica a trovare gli argomenti giusti per stimolare sia il prudentissimo Flavio che i nostri, più ricettivi, fornitori di stampi e di trancianti, a trovare soluzioni che permettevano a Rossella di aderire a tutte o quasi le richieste che i clienti le facevano in merito a prodotti da dosare e all’utilizzo di film speciali.

Riguardo al progetto Lever, per essere pronto quando Duilio e Fortini mi avessero contattato, avevo cominciato a prepararmi in segreto per riuscire a fare concretamente quello che avevo forse promesso un po’ avventatamente. Con Rossella avevamo infatti stabilito di non dire niente a nessuno della prospettiva che Sgorbani ci aveva fatto balenare quella sera a Casalpusterlengo, e quindi la sera o il mattino presto, quando ero solo in azienda, studiavo i disegni e la macchina TR-86. E più studiavo e più mi convincevo di non aver fatto per niente un azzardo con quella promessa: la cosa era fattibile e addirittura semplice da realizzare, e anche il formato da 500 ml non era un problema enorme; bastava davvero fare solo la macchina un poco più grande.

Tornai quindi sempre più entusiasta e convinto a fare “il progettista” e, come ai tempi della macchina veloce per incartare saponette alla BFB, cominciai a riempire fogli su fogli di schizzi sempre più dettagliati di quelle parti della TR-86 che avrei dovuto far modificare. Ero cosi preso da quel lavoro, che fui colto di sorpresa dalla notizia di poter finalmente partire per il Vietnam: un viaggio che avevo tanto sperato di fare, e

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preso dai preparativi mi dimenticai quasi del tutto di Duilio, della Lever, dell’Unifill e e dei blister; che dovessero stare in piedi o meno!

-------------------- o -------------------Il progetto di quel viaggio era nato quasi un anno prima durante una delle periodiche riunioni fra manager del gruppo TBE a Casumaro. Non ricordo tramite quale canale, al gruppo era stata offerta l’opportunità di inviare un suo rappresentante laggiù per sondare il mercato di quel paese, solo da poco riapertosi al mondo dopo gli anni di boicottaggio seguiti al ritiro degli americani. Era una missione ad ampio spettro, non finalizzata particolarmente al packaging e nemmeno ad un particolare settore merceologico che la TBE aveva naturalmente colto al volo.

Aveva fornito a un ente di Roma i nominativi e i profili professionali di alcuni dei manager del gruppo, fra i quali, non so per quale ragione, ma un sospetto ce l’ho, ero stato scelto io.

Il progetto era però caduto nel dimenticatoio per un bel po’ di tempo ed era insperatamente tornato d’attualità ai primi dell’anno: ero stato contattato da un certo Miserendino, un funzionario romano dell’ICE ( Istituto per il Commercio Estero) forse, ma non ne sono sicuro, ed era iniziata una lunga e inusuale serie di pratiche burocratiche da espletare per poter partire; pratiche che erano terminate appunto in quei giorni.

Sarei stato laggiù dieci giorni, cinque nell’area di Saigon e cinque in quella di Hanoi, e per tutto il periodo avrei avuto come guida un addetto del loro Istituto di Ricerca per le Relazioni Economiche con l’Estero di nome Nguyen Thanh Tam, il quale era stato incaricato di programmare in dettaglio tutti i momenti della mia permanenza e di essere a mia completa disposizione.

Partii dunque, verso la fine di maggio, eccitatissimo per quella che consideravo una vera e propria scoperta di un mondo misterioso, e dopo una sosta di alcune ore a Bangkok, con un aereo della Hàhg Khòhg Viètnam - l’unica linea aerea autorizzata a quei tempi ad entrare ed uscire dal paese - sul quale ero l’unico passeggero dai tratti non asiatici, arrivai senza problemi a Thanh- Phò Hò Chì Mình ( ex Saigon ). E subito ebbi un’inaspettata quanto gradita sorpresa. Non dovetti infatti affrontare nessuno dei problemi che mi ero immaginato per entrare nel paese. Nguyen Thanh Tam sapeva come trattare i suoi ospiti.

Mentre l’aereo ancora rollava per portarsi all’area di parcheggio, una delle due hostess mi si avvicinò e mi chiese con gran cortesia di consegnarle il passaporto e i documenti che corredavano il visto d’ingresso; poi si sedette nel sedile vicino al mio dicendomi che, come saremmo stati pronti per lo sbarco, avrei dovuto seguirla. Come la sua collega ebbe aperto il portellone ella si alzò e mentre gli altri passeggeri aspettavano seduti e disciplinati l’avviso di slacciare le cinture, mi disse di seguirla, mi scortò lungo il corridoio, giù fino ai piedi della scaletta, e mi affidò, consegnandogli i miei documenti, ad un signore minuto vestito con modesti abiti borghesi il quale mi disse in un ottimo inglese: “Welcome in Vietnam mister Tabaroni”, e mi porse un biglitto da visita bilingue dal quale capii di essere di fronte al mio angelo custode: 193

Nguyen Thanh Tam. Nguyen mi disse anche lui di seguirlo, entrammo nella palazzina dell’aeroporto e, senza fermarci ai varchi di controllo presidiati da uomini in divisa pochi minuti dopo ci trovammo in strada.

Più facile che arrivare a Bologna da Roma!

Tenendomi per l’avambraccio, Nguyen mi fece attraversare la strada invasa da una miriade di ciclomotori rombanti e mi guidò verso una macchina nera - non tanto grande e vecchiotta, forse cinese - al volante della quale stava un altro minuto signore dall’età indefinibile. Mi apri lo sportello posteriore, mi invitò a sedermi, poi riattraversò la strada, sparì di nuovo all’interno dell’aeroporto, e ne riemerse una ventina di minuti dopo con il mio bagaglio, che sistemò nel bagagliaio. Salì a fianco dell’autista, ci avviammo, e dopo aver percorso per alcune diecine di minuti quelle strade a dir poco caotiche, quando ci fermammo, ebbi una seconda gradita sorpresa.

Per prepararmi a quel viaggio avevo letto una specie di vademecum per stranieri che mi aveva inviato Miserendino - a quel tempo non esistevano guide turistiche per il Vietnam né potenziali turisti italiani che ne necessitassero - e fra le varie informazioni che vi avevo trovato ce n’era una che mi aveva stuzzicato particolarmente, relativa ad un hotel, dove avevo sperato di poter soggiornare: non tanto perché fosse considerato il migliore dell’ex Vietnam del Sud, ma perché sarebbe stato eccitante dormire nello stesso albergo dove sembrava avesse avuto sede il comando del generale William Westmoreland ai tempi della guerra. Si trattava del Rex Hotel, nel centro della città, e proprio davanti al suo ingresso ci eravamo fermati Non ho particolari ricordi dei quattro giorni che seguirono, forse perché non mi procurarono, come invece mi ero immaginato, emozioni particolari. Certo furono giorni interessanti, come lo sono per me tutti quelli nei quali posso fare nuove esperienze, ma, appunto solo interessanti: niente di più. Forse a causa del fatto che Nguyen non conosceva la città - mi aveva subito detto con un certo orgoglio nella voce di essere nato e di abitare ad Hanoi - o forse perché non c’erano cose interessanti a suo giudizio da vedere, o forse perché avemmo poco tempo libero da dedicare al turismo, la città di Saigon si rivelò una delusione.

Ricordo infatti solo l’imponente Palazzo della Riunificazione, un’ex chiesa cattolica di fronte alla quale sostammo alcuni minuti, alcuni monumenti dedicati a personaggi sconosciuti e qualche bell’edificio di evidente origine coloniale, come quello del Rex Hotel, visti di passaggio dall’auto, e la miriade variopinta di prodotti alimentari sconosciuti; in particolare frutta, verdure e pesci essiccati, esposti in un paio di mercatini rionali. Ci fu una cosa sola che davvero mi impressionò: la stupefacente bellezza dei ragazzi e delle ragazze con tutta evidenza figli di americani, in particolare neri e pelle rossa, e di vietnamite. Per il resto ho l’immagine sbiadita e confusa di un infinito insieme di case modeste, senza alcun fascino, non manutenute e occupate prevalentemente, in particolare nelle zone centrali, da una miriade di negozietti sovrastati da un ingorgo di insegne luminose di evidente

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ispirazione americana, proponenti ogni genere di merci; con una forte presenza di “cineserie” di ogni genere.

Le strade, poi, erano letteralmente occupate da un numero impressionante di ciclomotori che si intersecavano incredibilmente senza toccarsi agli incroci, che facevano un rumore assordante, e che rendevano la vita difficile ai pochi camion - evidenti lasciti della ritirata americana - e alle pochissime auto. La cucina infine, la da noi tanto decantata cucina vietnamita, a Saigon non esisteva praticamente più.

Come mi confessò mestamente Nguyen, era infatti diventata un “bastardo” mix che nulla aveva a che vedere con quella di un tempo: Insomma, gli americani, la guerra e i lunghi anni di boicottaggio avevano lasciato un’impronta piuttosto pesante da quelle parti, un’impronta che si rivelò ancor più pesante per l’apparato industriale.

Gli edicifi, gli impianti e i macchinari della diecina di aziende operanti in settori diversi, che visitai, si rivelarono tutti più o meno ai limiti della sopravvivenza: mi sembrava impossibile che riuscissero a produrre in quelle condizioni; eppure lo facevano! C’era però un aspetto positivo di quella disastrata situazione: le opportunità per le nostre aziende esportatrici! Sarebbe bastato saperle cogliere.

Il mattino presto del primo di giugno lasciai quindi senza rimpianti il Rex Hotel - non ho mai saputo dove avesse dormito, fatto colazione e cenato Nguyen - e prendemmo la strada per l’aeroporto. Salutai e ringraziai l’autista di turno, con il quale, come peraltro con gli altri due che l’avevano affiancato, non avevo mai scambiato una parola, e ci imbarcammo sull’ aereo per Hanoi dove arrivammo dopo poco più di un’ora di volo. Durante il volo, Nguyen, che forse aveva percepito la mia delusione turistica di Saigon, mi disse che Hanoi era una città ben diversa, molto più bella, e che siccome gli impegni che mi aspettavano mi avrebbero lasciato molto tempo libero, avrebbe cercato di farmene vedere almeno alcuni degli aspetti più interessanti. Anche ad Hanoi uscimmo dall’aeroporto senza che nessuno ci fermasse, e trovammo una piccola auto nera con autista ad aspettarci, sulla quale ci avviammo verso il centro della città, e lungo il viaggio mi accorsi che Nguyen aveva detto la verità.

Innanzi tutto non c’era traffico per le strade - fra l’altro assai meglio tenute e pulite di quelle di Saigon, così come i marciapiedi ai lati - né soprattutto rumore. Lungo tutto il lungo tragitto per l’hotel vedemmo in prevalenza silenziose biciclette, e nemmeno tante, pochi ciclomotori che mi spiegò Nguyen costavano dai due ai tre mesi di stipendio di un normale lavoratore -, pochi camion di fabbricazione cinese, e quasi nessuna auto. Ma non fu tanto l’assenza di traffico, di rumore e lo stato delle strade a colpirmi, quanto le strade stesse, o meglio, il tracciato davvero singolare di alcune di esse.

In più punti, senza nessuna evidente necessità urbanistica, ricreativa o estetica, compivano strani percorsi semi circolari attorno a laghetti perfettamente rotondi. Chiesi ovviamente a Nguyen a cosa servissero quei laghetti, visto che ce ne erano davvero tanti, ed egli me lo spiegò.

Quei laghetti non erano altro che le buche causate dalle bombe dei B52 americani che si erano riempite d’acqua; alcune avevano un 195

diametro di oltre cento metri ed erano profonde venti: ed erano state lasciate appositamente affinché le giovani generazioni e quelle future potessero rendersi conto dello scempio compiuto dagli imperialisti nei confronti del loro paese. Sempre a futura memoria, mi fece notare che ai lati di molte strade erano stati lasciati i grossi tubi in cemento conficcati verticalmente nel terreno che, questo lo sapevo, erano stati, ai tempi dei bombardamenti, rifugi individuali.

Mentre ci avvicinavamo al centro della città, costeggiando un tratto del Fiume Rosso, notai anche altri due emblematici ricordi della guerra: due ponti, entrambi di ferro, che colpiti nel centro si erano piegati verso l’acqua dove i due tronconi sparivano. Ma quei due ponti, mi spiegò Nguyen con aria triste, non erano stati lasciati in quello stato a futura memoria, ma solo perché non c’erano soldi per ripararli o costruirne di nuovi. Era un vero dramma per la città che risultava praticamente divisa in due dal fiume: dei molti ponti che un tempo collegavano le due sponde, tutti colpiti dalle bombe americane, era stato possibile ripristinarne uno solo in modo da consentire un attraversamento sicuro a camion e auto anche in periodi di piena; e solo alcuni si erano potuti riparare alla meno peggio con l’inserimento di passerelle in legno per consentire l’attraversamento a pedoni, ciclisti e ciclomotoristi.

Proseguendo, i segni lasciati dalla guerra diminuirono fino a sparire del tutto, e la mia attenzione si rivolse agli edifici che scorrevano ai lati della strada; e mi accorsi che pur denotando una scarsa o inesistente manutenzione, erano molto più armonici, più decorosi, e in generale più belli di quelli di Saigon. Hanoi era proprio una bella città. Un’ultima cosa che mi colpì fu la grande differenza con Saigon, dell’aspetto di negozi e negozietti. Ce ne erano anche lì di ogni genere, ma molti di meno e senza una sola insegna luminosa a pubblicizzarli. Almeno da quel lato, pensai, gli americani non avevano potuto lasciare alcun segno.

Ad un certo punto, costeggiando su un lato una grande piazza nel centro della quale si ergeva una grande struttura, fui attirato dalla lunga e ordinata fila di persone che vi convergevano, e quando chiesi a Nguyen, pensando alla piazza Rossa di Mosca, se quella struttura fosse il mausoleo di Hò Chì Mình, lui mi disse di sì. Eccitato gli chiesi quindi se avrei potuto visitarlo, ma mi accorsi di averlo messo in difficoltà.

Stette zitto per almeno un minuto, pensando, poi mi rispose che per quanto ne sapeva non era concesso agli stranieri visitare la tomba del Padre Hò, ma avrebbe visto cosa poteva fare. Passata la piazza ci trovammo in una zona di grandi viali alberati ai lati dei quali si affacciavano belle costruzioni in stile coloniale, molte delle quali evidentemente appena restaurate con cura, e ci fermammo davanti a una di queste: il Pullman Hotel Metropole. Un’altra piacevolissima sorpresa.

Dalle note di Miserendino anche quell’hotel sembrava essere un posto storico, anche se per un motivo ben diverso di quello che aveva reso tale il Rex. Era stato infatti definito nel periodo coloniale il più famoso hotel a est di Suez o anche la Grand Dame degli hotel asiatici.

Insomma non potevo certo desiderare una sistemazione migliore per il mio soggiorno ad Hanoi. E guardandomi attorno mentre con Nguyen mi 196

avviavo verso il banco della reception, mi resi conto che si trattava di una fama meritata. Era davvero splendido. Espletate le formalità Nguyen mi disse di riposarmi, sistemarmi e pranzare; lui sarebbe andato a casa sua - mancava ormai da sei giorni - e mi sarebbe venuto a riprendere per poi andare a fare la prima visita prevista. Salii nel mio appartamento, anch’esso molto bello, sistemai le mie cose, feci un doccia, e decisi di far venire l’ora di andare a pranzo con una bella camminata; avevo camminato davvero poco in quei giorni e sentivo che le mie povere gambe avevano la necessità urgente di farlo.

Uscii quindi dopo circa venti minuti, ed ebbi la sorpresa, o meglio non ebbi la sorpresa di individuare fra le poche auto parcheggiate ai lati del viale quella con la quale eravamo arrivati, con il solo autista a bordo: evidentemente Nguyen non aveva voluto o potuto lasciarmi incustodito. Anche se a Saigon non mi ero accorto di essere oggetto di tanta premura, non era affatto detto che non lo fossi stato. La cosa non era comunque un problema, e non ci pensai più. Feci una lunga passeggiata nei dintorni senza far caso a cosa facesse l’autista, rientrai, mi rifeci la doccia, mi cambiai e scesi a pranzo.

Oltre a quello dove venni fatto accomodare c’erano solo un paio di altri tavoli occupati nella sontuosa sala, quasi certamente da cinesi, visti i loro abiti neri, camicie bianche e cravatte rosse; e mangiai con appetito piatti del tutto sconosciuti che però mi piacquero. E non mi piacquero solo i piatti! Fui servito infatti da cameriere di una bellezza, un portamento, una eleganza ed una cortesia paragonabili solo a quelle che avevo trovato al ristorante del King David di Gerusalemme. Una favola, pensai mentre finivo di pranzare; il soggiorno ad Hanoi prometteva di essere davvero molto diverso e molto più interessante e stimolante di quello a Saigon, e mentre facevo questi pensieri una di quelle divine creature che mi avevano coperto di attenzioni mi annunciò che Nguyen mi aspettava fuori.

Apro una breve parentesi a proposito del comportamento di Nguyen e degli autisti in rapporto agli hotel dove soggiornai, in quanto mi sembra interessante. A parte starmi a fianco alla reception all’arrivo e alla partenza per aiutarmi a disbrigare le pratiche, né lui né gli autisti accettarono mai i miei ripetuti inviti a farmi compagnia per un drink o per colazione, pranzo o cena; o anche semplicemente per aspettarmi seduti anziché fuori. Un comportamento abbastanza strano, che dalle nostre parti sarebbe da molti giudicato stupido, ma che mi sono convinto era dettato da un profondo senso di lealtà nei confronti della loro disastrata nazione e di rispetto per i loro compatrioti. Il prezzo di una notte al Pullman corrispondeva più o meno ad un anno di stipendio di Nguyen, e proporzionalmente anche una semplice bibita aveva un costo proibitivo per un vietnamita. Un’offesa quindi approfittarne.

Tornando alla cronaca, mentre l’autista si dirigeva dove sapeva di dover andare, Nguyen, illustrandomi il programma che mi aspettava, mi confermò che aveva intenzione di farmi riprendere, turisticamente parlando, della delusione che avevo avuto a Saigon. Quel pomeriggio avremmo visitato una fabbrica che produceva capi d’abbigliamento, e la sera, se lo avessi desiderato, mi avrebbe accompagnato a cena in un 197

ristorante per vietnamiti - rarissimi ad Hanoi in quei giorni - dove avrei potuto assaporare la cucina più tradizionale e avere un’idea più reale della vita di quel paese. L’indomani avremmo visitato la più grande azienda produttrice di farmaci del paese, pranzato con i suoi dirigenti e discusso di potenziali affari, poi, la sera sarei stato ospite a cena, in hotel, del console o dell’ambasciatore italiano; Nguyen non era sicuro della carica esatta che costui ricoprisse. Il terzo giorno ci saremmo dedicati solo al turismo; e che turismo! Nguyen era riuscito ad ottenere l’autorizzazione a farmi vedere Hò Chì Mình e la casa nella quale il loro eroe nazionale aveva abitato; inoltre avremmo visitato il museo della guerra, dove, mi disse, mi avrebbe fatto una sorpresa. Il quarto giorno, al contrario, avremmo invece solo lavorato, visitando una seconda fabbrica di capi d’abbigliamento e un’altra di prodotti farmaceutici. Il quinto avremmo prima visitato una fabbrica di piastrelle per parquet, poi fatto un giro ad ampio raggio dei luoghi secondo lui più interessanti della citta, e infine il 6 giugno, dopo un incontro con alcuni funzionari di un ente importatore ed esportatore di tecnologia relativa al packaging, sarei ripartito per Saigon e dopo avervi solo fatto scalo, sarei volato a Bangkok e quindi in Italia.

Un programma che mi sembrò davvero splendido; declinai però l’invito per quella sera. Nel propormelo non mi era sembrato entusiasta di farlo, e quindi gli dissi di essere stanco e di preferire di cenare in albergo e andare a dormire: avrei avuto certamente modo di provare la cucina vietnamita nei giorni seguenti.

Non credo sia il caso di dilungarmi sulla visita di lavoro che feci quel pomeriggio né, in verità, nemmeno su quelle dei giorni seguenti: tutte molto deprimenti. Le aziende che visitai, infatti, erano in uno stato ancor più fatiscente di quelle di Saigon. Quelle che mi impressionarono di più furono quelle farmaceutiche, anche perché qualcosa ne capivo, e quello che capii fu che operavano in condizioni igieniche “da paura” e che le medicine che ne uscivano dovevano fare più male che bene. Le due fabbriche d’abbigliamento si rivelarono solo enormi capannoni pieni di donne intente a cucire su vecchie macchine a pedale, mentre sorprendentemente meccanizzata trovai la fabbrica di piastrelle per parquet, dove, mi venne detto con orgoglio, le piastrelle che venivano prodotte avevano tolleranze dimensionali così strette da accontentare le esigenze dei mercati più esigenti. Anche ad Hanoi, forse più che a Saigon, c’erano grandi opportunità per le nostre industrie esportatrici; inoltre, visti i prezzi di piastrelle per parquet e abiti da lavoro che mi furono comunicati- cinque dollari al metro cubo per le prime ( circa cento metri quadrati! ) e venti centesimi di dollaro l’uno per i secondi c’erano anche grandi opportunità per i nostri importatori. Chiudo l’argomento con la riunione con i funzionari del packaging; un incontro più che altro formale dove non si fece altro che parlare di cose generali, o come si dice da noi, di niente, e passo alle esperienze da turista che furono di tutt’altro tenore.

Avevo rinunciato, come vi ho accennato, alla compagnia di Nguyen: cenai quindi in hotel, e fui colpito non da quello che gustai, comunque squisito, ma dallo strano interesse che mi dimostravano, pur se con 198

grande discrezione, cameriere e inservienti. Era strano perché erano le stesse persone che mi avevano già visto a pranzo e non ero più una “novità”. Non ci pensai comunque più di tanto, ma la ragione la scoprii con grande sorpresa la sera seguente quando finite le mie visite di lavoro tornai in hotel curioso di incontrare il più alto rappresentante del nostro paese laggiù; un evento che, devo ammetterlo, mi lusingava non poco. Avevo preso parte altre volte a cene con funzionari governativi italiani, e di altre nazioni, di alto livello: addetti commerciali, funzionari dell’ICE, o altro, ma sempre nell’ambito di iniziative nelle quali non ero che uno dei commensali. Quella sera invece, da quello che avevo capito sarei stato l’unico ospite dell’ambasciatore; tutta un’altra cosa. Inoltre ero affamato; in previsione della cena che mi ero immaginato sontuosa avevo appena toccato il pasto che mi era stato offerto alla mensa della fabbrica di medicinali.

Scrissi qualche appunto sulla giornata, mi rilassai per mezzoretta nella vasca da bagno, mi vestii adeguatamente e cinque minuti prima delle diciannove e trenta mi affacciai alla sala da pranzo e rimasi di stucco. Al centro della sala era stato allestito una specie di soppalco sul quale, all’ombra di una bandiera italiana e una vietnamita, faceva bella mostra di sé un discreto campionario delle delicatezze alimentari italiane: un prosciutto di Langhirano e diversi tipi di salami; una mezza forma di Parmigiano Reggiano e alcuni altri formaggi; diverse ciotole in vetro contenenti pasta; una diecina di bottiglie di vino e grappe, e “dulcis in fundo”, un bel po’ di dolci dall’aspetto familiare. Il tutto era stato allestito attorno ad un contenitore di cubetti di ghiaccio dai quali emergeva un violino a grandezza naturale fatto anch’esso di ghiaccio.

Uno spettacolo che mi misi a guardare incredulo, distratto però quasi subito da una delle “dee” che mi avevano servito la sera precedente che mi invitò a seguirla verso un tavolo d’angolo al quale era seduto un bel giovane, vestito elegantemente.

Questi si alzò, mi venne incontro, mi porse la mano e con un gran sorriso e un inconfondibile accento toscano mi salutò, e si presentò: era il mio anfitrione; ma incredibilmente non ne ricordo né l’incarico esatto che aveva - comunque ambasciatore o console - né il nome. Forse ero talmente affascinato e confuso da quella insolita e di certo inaspettata accoglienza per far caso a quei dettagli; comunque, anche se non ricordo né il suo nome né il suo titolo, ricordo perfettamente l’ affabilità, i riguardi e la confidenza che mi riservò quella sera: da vero signore; nonostante due gaffe davvero mondiali che feci invece io. Se volessi dare un titolo a quella cena - che fu favolosa per i cibi e piacevolissima, come dicevo, per la compagnia del mio interlocutore - dovrei chiamarla, parafrasando il titolo di una famosa commedia, la “cena delle gaffe“: state a sentire cosa combinai.

L’ostentazione dei prodotti italiani, le bandiere, e le note di musica italiana prodotte in sottofondo da tre altre splendide ragazze con violini e pianoforte mi avevano impressionato, e in attesa di essere serviti, chiesi al mio ospite se quell’accoglienza fosse normale per un modesto concittadino quale ero io. E alla mia domanda lui, guardandomi 199

sorpreso, rispose : “A parte il fatto che lei è il primo concittadino che mi capita di ricevere da quando sono qui e ho creduto di dover festeggiare l’evento, mi è sembrato anche giusto, vista la coincidenza del giorno speciale che è oggi per noi italiani, di festeggiarlo in modo adeguato; non le pare?” E lì la feci davvero grossa e gli chiesi: “Perché, che giorno è oggi?” E alla sua risposta avrei voluto sprofondare sotto il pavimento: mi disse infatti guardandomi interdetto: “Bèh, il 2 giugno, la festa della nostra repubblica! nò?” La mia faccia dovette esprimere la mia assoluta ignoranza in materia, ed egli signorilmente cambiò discorso.

Cenammo splendidamente all’italiana, discorremmo del più e del meno di lui, del suo lavoro appena iniziato e della mia missione e quando venne l’ora delle grappe feci la seconda gaffe, forse ancora più imperdonabile della prima per un italiano. Il carrello delle grappe ci venne portato al tavolo da un signore che si muoveva con i modi di un capo e che il mio ospite mi presentò infatti come il direttore dell’hotel.

Quando però gli disse il mio nome, i modi di costui, fino a quel momento imperturbabili e in un certo senso distaccati, cambiarono di colpo: mi fece un gran sorriso e disse: “Yes, Roberto, yes ! Robby, robby bagghio!”

A quelle parole per me senza senso io guardai l’ambasciatore e gli chiesi: “Ma cosa ha detto?” E lui di rimando; ancor più stupito di me: “L’ha chiamato Roberto Baggio”. Ed io di rimando a mia volta : “Perché chi è Roberto Baggio?” A quel punto l’ambasciatore fece una faccia ancor più sorpresa di quella di prima e con tono incredulo mi chiese: “Ma come Tabaroni, davvero non sa chi è Baggio?” Non lo sapevo, glielo dissi , e il suo commento fu che non ero certamente il solo italiano a non ricordare che il 2 giugno era il giorno della festa della nostra repubblica, ma che sicuramente ero l’unico maschio del mondo raggiunto dai mezzi di comunicazione a non sapere chi fosse il calciatore Roberto Baggio. Ci augurammo buona notte penso entrambi soddisfatti della serata, e quindi accettai con piacere anche l’invito ad assistere in sua compagnia la sera dopo ad uno spettacolo di musica e danza vietnamita all’Opera House.

Non so come definire il giorno dopo: interessante lo fu certamente, insolito di sicuro, e anche emozionante, anzi, molto emozionante: uno di quei giorni che non si dimenticano. Nguyen venne a prendermi presto, verso le nove, e dopo una ventina di minuti d’auto sbarcammo davanti ad un cancello che immetteva in quello che sembrava un grande parco pubblico. Era il parco all’interno del quale si trovava la casa di Hò Chì Mình. Nguyen mi disse che era proibito fare foto e soprattutto parlare ad alta voce: per i vietnamiti quello era un luogo sacro, meta di un pellegrinaggio costante, e proprio per quella ragione l’aveva scelto come prima visita della giornata per farmelo gustare finché c’era in giro poca gente. Era un bel parco, pieno di alberi di ogni specie, fiori di ogni forma e colore, laghetti pieni di enormi pesci rossi e con al centro una serie di piccole strutture in legno, unite l’una all’altra da tettoie, che nell’insieme formavano appunto la casa. Una casa strana, almeno per i nostri canoni, fatta prevalentemente di ambienti senza pareti, a parte camere da letto e bagni. Molto spartana, anche se evidentemente di un certo tono, e tenuta lucida e pulita costantemente da alcuni addetti 200

dedicati a fare solo quel lavoro. Nel giro di un’oretta completammo la visita e mentre uscivamo dal parco mi accorsi che incrociavamo sempre più gente che vi entrava. Nguyen aveva fatto bene a farmi fare quella visita per prima, con la confusione mi avrebbe certo fatto un effetto diverso.

Tornammo quindi verso il quartiere dove si trovava l’hotel, e ci fermammo ai bordi della grande piazza dove si ergeva il mausoleo del Padre Hò, vicino a due soldati disarmati in divisa bianca che, mi accorsi con stupore, stavano aspettando proprio noi. Come scendemmo dall’auto, infatti, ci vennero incontro, uno dei due scambiò poche parole con Nguyen e questi mi disse di andare con loro. E fui protagonista di una scena che ancora oggi faccio fatica a credere di aver davvero vissuto.

I due soldati, inequivocabilmente della marina, nelle loro divise candide, mi presero in mezzo e mi scortarono fino ai piedi del mausoleo verso il quale convergeva già una lunga fila di visitatori: uno dei due fece arrestare il flusso fino a che quelli che erano entrati non furono usciti tutti, e l’altro mi scortò sulla scalinata fino all’angusto ingresso ove mi indicò di entrare raccomandandomi in perfetto inglese di non fermarmi fino all’uscita. Entrai, c’era un buio pesto e faceva un freddo glaciale: ero su una balconata che dava su un ambiente di forse cento, centocinquanta metri quadrati, di forma appunto quadrata, posto quattro o cinque metri più in basso, al centro del quale troneggiava, illuminata da una fioca luce bianca, una teca di cristallo all’interno della quale dormiva Hò Chì Mình.

Scorsi, appena visibile al buio, ai miei piedi, una freccia che indicava il senso di marcia da prendere, e, percorso da brividi di freddo e di emozione, mi avviai, come mi aveva suggerito il soldato, con sollecitudine. Non avevo mai visto un corpo imbalsamato, e Hò Chì Mình era davvero impressionante. Identico alle immagini giunte di lui, vivo, in occidente, con la sua barbetta curatissima, sembrava davvero dormire sereno. Mentre lo guardavo laggiù, affascinato, giunsi al primo angolo e quasi mi venne un colpo: andai quasi a sbattere contro un soldato che se ne stava immobile, al buio e al gelo, con la sua leggerissima divisa bianca della marina, facendogli il saluto militare.

Ripresomi dalla sorpresa continuai nel percorso e scoprii che c’era un marinaio ad ognuno dei quattro angoli, a rendere omaggio a Hò. Una situazione davvero incredibile con quel gelo: avevo impiegato poche decine di secondi a fare il percorso ed ero già surgelato. Uscii con sollievo da una porticina piccola come quella dalla quale ero entrato e ritrovai il caldo sole di Hanoi e il marinaio che mi aveva scortato all’ingresso.

Mentre ridiscendevamo la scalinata, notai che il flusso dei visitatori era ripreso. Giunti ai piedi ritrovammo il secondo marinaio e di nuovo in mezzo a loro riattraversai la piazza fino all’auto e a Nguyen.

Ringraziai i due marinai e li salutai, e ringraziai anche Nguyen, che compiaciuto si schernì dicendomi che non era stato poi così difficile farmi fare quell’esperienza. E il sospetto che già avevo che non fosse

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una semplice guida, si rafforzò e mi venne clamorosamente confermato nel pomeriggio.

Seduti in auto, non gli feci comunque nessun accenno su quei miei pensieri, non era il caso, ma gli chiesi se sapesse quale procedura seguissero quei militari per non morire congelati. Imparai così che la temperatura all’interno era tenuta costantemente a circa tre, quattro gradi sotto lo zero, la durata di ogni turno di guardia era di quindici minuti, e che finito il turno i militari si riprendevano per circa un’ora o al sole, o vicino ad una stufa in un locale di servizio nel cortile retrostante il mausoleo. Una procedura molto costosa, concluse, in particolare per creare e mantenere il freddo, ma anche per il dispiego di uomini; ma tutti i vietnamiti, pur poverissimi, erano più che lieti di pagarla. A mezzogiorno, in compagnia anche dell’autista, pranzammo finalmente in un ristorante per vietnamiti; di una modestia di arredo che faccio fatica a descrivere tanto era essenziale, ma pulitissimo e soprattutto ottimo per il menù che vi gustammo. Poi entrammo in un grande parco all’aperto, con un palazzotto anonimo al suo centro, che scoprii essere il museo della guerra.

Visitammo prima il palazzotto all’interno del quale potei vedere innumerevoli foto dei devastanti effetti della guerra sul popolo vietnamita - immagini atroci, ma non nuove per me -, foto dei successi invece ottenuti clamorosamente sia nei confronti dei colonialisti francesi che degli imperialisti americani, e una sequela infinita di vetrinette contenenti centinaia di armi leggere diverse catturate ai nemici. Niente di eccezionale e inaspettato, per la verità, così come non particolarmente inaspettata fu la sequenza di veicoli militari e carri armati francesi, integri o parzialmente distrutti, che trovai fuori. Ma quando entrammo nella sezione all’aperto americana, qualcosa che non mi ero aspettato lo trovai: avevano trasportato là dentro, non so come, addirittura i resti di un paio di enormi B-52! C’erano inoltre i resti di un paio di Phantom, di alcuni altri aerei non identificabili a causa del loro stato, di diecine di elicotteri, e diecine di carri armati e cannoni, integri o semi distrutti: un insieme davvero impressionante. Poi, entrammo nella sezione vietnamita.

Lì c’erano solo armi pesanti russe, perfettamente integre e lucide, e fra queste un paio di MIG-15, e tre MIG-21. Di MIG-15 avevo visto solo quel rottame all’aeroporto di Taiz , in Yemen, di cui vi ho gia parlato, e che non avevo certo perso tempo ad esaminare, pur interessato, avendo in testa, se ricordate, ben altri pensieri. Di MIG-21 non ne avevo mai visti, e quindi, anche se conoscevo benissimo le caratteristiche di entrambi quei velivoli per una antica passione, con Nguyen alle spalle, silenzioso, me li guardai affascinato girando loro attorno per diverso tempo. E fu lì che arrivò la sorpresa che Nguyen mi aveva promesso; e che sorpresa! Stavo guardando una diecina di piccole stelle rosse dipinte sul muso di uno dei MIG-21 chiedendomi se come avevo visto in alcuni film rappresentassero i nemici abbattuti quando Nguyen mi stravolse dicendomi, senza porvi per niente l’accento sopra, che quell’aereo era stato per due anni il suo strumento di lavoro e che sei di quelle stelline rosse che guardavo con tanto interesse rappresentavano 202

il numero di velivoli americani - aerei o elicotteri - che lui aveva abbattuto. Ecco perchè avevo avuto quel trattamento così inaspettato al mausoleo del Padre Hò; la mia guida, realizzai, era un eroe di guerra!

Quella giornata speciale si concluse con una serata altrettanto speciale; anche se devo dire per me molto meno interessante. Non ho mai avuto né ho tuttora una cultura orientata allo spettacolo, a quello musicale e teatrale in particolare, e ovviamente non potei apprezzare dovutamente quello al quale assistetti con l’ambasciatore, tuttavia rimasi ugualmente affascinato dai costumi e dalle movenze degli attori/cantanti e dalle musiche; molto diverse da quelle che mi era capitato di ascoltare fino a quel giorno. Ringraziai quindi con gratitudine l’ambasciatore quando al termine lo salutai per non vederlo più. Nei due giorni seguenti non ci furono come previsto né distrazioni turistiche particolari, né quindi sorprese - del resto mi erano bastate quelle dei giorni precedenti -, ma un’ultima sorpresa, Nguyen me la fece il giorno della partenza.

Mentre stavamo andando verso l’aeroporto, notai che parlava pochissimo e con un tono di voce diverso dal solito: molto triste. Certo eravamo stati insieme dieci giorni, pensai, ed era sorta fra noi una certa empatia, ma non potevamo essere diventati così amici da soffrire per il distacco: almeno così “sentivo” io. Evidentemente non era lo stesso per lui. Dopo che ebbi salutato l’autista, quando Nguyen mi portò senza sottostare ad alcuna formalità fin sotto la scaletta dell’aereo ed ebbe consegnato i miei documenti alla hostess, anziché darmi la mano mi abbracciò con una stretta che mi imbarazzò riuscendo a dirmi solo con una voce rotta dall’emozione:”Good bye, Roberto”.

Un addio davvero strano, ripensai mentre volavo verso Saigon, ma poi, preso dalle incombenze del cambio di aereo, che dovetti sbrigare da solo, anche se senza incontrare problemi, me ne dimenticai. Ma me ne ricordai, eccome, circa nove mesi più tardi, leggendo una sua lettera manoscritta in inglese che inizia con questa frase: “Caro Roberto, come stai? E’ passato quasi un anno da quando sei partito e io ti ho ricordato spesso e ho guardato le foto fatte insieme a te. Non è necessario che ti dica che tu mi piaci molto e che sento molto la tua mancanza. Spero che un giorno potremo rivederci ancora in Vietnam o in Italia ( ma penso che sia solo un mio sogno )”. E non vado oltre con la traduzione perché non mi sembra il caso. Vi dico solo che Debora, che apriva e leggeva tutta la mia corrispondenza, rimase scioccata, e io molto turbato e commosso.

Tornando al ritorno da quel viaggio, se ricordate, avevo detto che in partenza mi ero quasi dimenticato del progetto Lever, e sinceramente non ci avevo pensato fino a che non ero stato sulla via del ritorno, ma non ero ancora uscito dalla Malpensa che tornai immediatamente “in pista”. Debora mi chiamò per dirmi che Duilio mi aveva appena cercato, e io, anche se piuttosto stanco per il lungo viaggio, anziché andare direttamente a casa, deviai per Casalpusterlengo per ricevere subito dalle sue mani le specifiche del prodotto che intendevano realizzare.

Volevano fare, con una sagoma la più vicina possibile a quella del flacone da 500ml di detergente per stoviglie Svelto Progress, una 203

“ricarica” di pari volume. Per colpire i consumatori nella fase di lancio, i flaconi/blister avrebbero dovuto essere realizzati con un brillante ma costoso e poco ecologico film di PET-nylon-PE, ma, consolidato il mercato, la macchina avrebbe dovuto essere adattata per utilizzare un meno appariscente ma molto meno costoso e più facile da riciclare film di polipropilene.

In pochi giorni esaminai il documento e non trovai, come avevo del resto immaginato, problemi tecnici difficili da risolvere: l’unico, in verità, era quello di far lavorare la macchina con il polipropilene; un materiale ancora ai primi passi, a quei tempi, nella termoformatura, ma non potevo certo fermarmi davanti a quella ipotetica difficoltà, e sicuro di farcela, informai Bulgarelli per avere l’OK a procedere. Gli spiegai tutto; non nascondendogli quello che pensavo fosse il punto debole di quel progetto: quel flacone/blister, gli dissi apertamente, siccome poteva riprodurre fedelmente la sagoma dei flaconi tradizionali con tappo e facilitare la scelta dei consumatori, poteva certo entrare nel mercato delle ricariche con successo; ma non era affatto detto che riuscisse a scalzare le comunque molto meno care buste. Inoltre anche per le ricariche i tempi potevano diventare duri con l’avvento dei detergenti concentrati che a parità di dosi contenute richiedevano un terzo della plastica rispetto ai detergenti diluiti. Quindi era meglio non aspettarsi vendite miracolose per quel settore merceologico, ma c’erano altri aspetti in quella fornitura comunque molto positivi.

Il primo era che se conoscevo bene la Lever, quando aveva un’idea in testa non badava certo a spese ed ero certo che se avessimo detto di sì non avrebbe fatto una piega a riconoscerci tutti i costi che avremmo dovuto sostenere per disegnare, realizzare e mettere a punto la necessaria nuova macchia. Il secondo era che come avevo detto alla dubbiosa Rossella la sera fatidica nella quale avevo detto di sì a Duilio, ci saremmo ritrovati una macchina in grado di ampliare la nostra gamma d’offerta. Il terzo che avremmo fatto esperienza, specie nel trattare polipropilene, facendola di fatto pagare al cliente. Il quarto infine, ma forse il più importante, che quel flacone/blister sarebbe stato, oltre alle già gradite monodosi, un’altra novità dell’Unifill lanciata sul mercato da una delle più grandi multinazionali del pianeta, e non sarebbe passata inosservata al variegato mondo dei produttori di liquidi: un altro tassello importante, conclusi, per vincere la nostra sfida. E Bulgarelli, che in silenzio non aveva perso una parola, mi porse la mano e stringendo la mia mi disse solo: ”Vada avanti senza indugio Tabaroni, e mi raccomando faccia bene a modo ehhh!”

Non reagì invece allo stesso modo il prudente Traldi, quando il giorno dopo gli ebbi spiegato il tutto: si limitò infatti a dire che quel progetto era una vera follia e che sperava che la Lever ci ripensasse! Io naturalmente non mi lasciai smontare, e comunicai ufficialmente a Duilio la nostra disponibilità a procedere, gli feci alcune prime osservazioni di merito, gli indicai i limiti che pensavo di incontrare, e prima di andarmene in ferie riuscii a definire con lui e i suoi un progetto di massima, i passi da intraprendere per portarlo a termine fondamentali le sperimentazioni sulla forma del flacone/blister da 204

effettuare su una TR-86 - e un sovrastimato prezzo budget della macchina e delle sperimentazioni. Poi, soddisfatto, me ne andai a cercare funghi nei boschi di Anterselva di sopra, vicino a Brunico.

Ne trovai un sacco di bei porcini in quell’agosto, come non mi accadeva da anni, ma appena ritornavo dalle mie faticose escursioni passavo tutto il resto del tempo a fare e rifare schizzi: volevo essere pronto a dare a Traldi le linee guida del progetto non appena l’ordine fosse arrivato. Ero davvero soddisfatto, il lavoro per conto terzi stava andando a gonfie vele e le prospettive concrete erano tali che potevamo essere ormai certi che gli utili che avremmo avuto da quella attività ci avrebbero permesso di fare quel passo rischioso senza correre rischi, anche se avessi fallito. E poi, pensavo, non ci eravamo ancora dedicati alla vendita delle TR-86 ! La cosa che mi dava però più soddisfazione era la fiducia che Bulgarelli aveva in me e l’entusiasmo e la lungimiranza che dimostrava. Era così convinto sul futuro dell’azienda che prima delle ferie aveva dato disposizioni a Cagnolati di mettere in costruzione quattro TR-86, per aggiungerne due nel reparto di confezionamento per evitare frequenti e onerosi cambi di formato e turni doppi, e per averne due da destinare o allo stesso lavoro oppure alla vendita. Così si deve fare! non aspettare le “vacche magre” per tentare di fare qualcosa di nuovo! Mi chiedo spesso quante siano le aziende che per ingordigia o troppa prudenza determinino la loro morte prematura.

Al rientro, come previsto, Debora ci fece trovare i nuovi depliant della TR-86 e alcune diecine di copie dei listini che avevamo elaborato insieme. Non avevamo bisogno di altro per partire con la vendita delle macchine, se non fare finalmente quello che aspettavo di poter fare da mesi. La fine d’agosto trascorse senza novità dalla Bongrain e noi, con il beneplacito degli avvocati della TBE, gli spedimmo una stringatissima lettera di disdetta. La Bongrain nel giro di pochi giorni ne accusò ricevuta senza fare obiezioni, e con quell’agognata liberatoria fra le mani partimmo con il primo indispensabile passo per quell’attività; procurarci agenti.

Per prima cosa confermai l’interesse all’unico vero agente che l’Unifill aveva avuto sotto la gestione Lamp: Luigi Cavallari Mùrat. Luigi, a suo dire discendente del napoleonico Re di Napoli, faceva l’agente per diverse aziende operanti nel settore farmaceutico, fra queste la Lamp, e di conseguenza si era interessato, anche se da quello che mi era parso di capire senza fare troppi sforzi, anche dell’Unifill. Per motivarlo ad essere più incisivo gli illustrai con la dovuta enfasi cosa stava succedendo in azienda e le prospettive più che rosee che già si intravedevano; ed egli mi promise di impegnarsi in modo più costruttivo. Poi, mi rivolsi alle mie conoscenze del passato e convinsi a collaborare senza particolari sforzi il mio vecchio e fedele amico fin dai tempi dell’ACMA, Cristian Salomon, e Cristina Valente, con la quale avevo instaurato un ottimo rapporto nel pur breve periodo passato in Macofar, per la quale lavorava. Ricordo con particolare piacere il viaggio che feci a San Paulo in Brasile per andarla a trovare nella sua modesta casa di Interlagos, a ridosso del circuito di formula 1: in primo 205

luogo perché mi dimostrò un entusiasmo insperato e decise lo stesso giorno di correre per noi, e poi perché ebbi il tempo di rivedere dopo diversi anni mia cugina Paola e tutta la sua famiglia, laggiù da oltre quarant’anni. Dulcis in fundo, riuscimmo ad aggregare con un viaggio lampo a Pechino, per rappresentarci in Cina, un certo Tony Lee; un cinesino filiforme, educato, colto e attento, che parlava un ottimo inglese e che aveva una gran voglia di fare un lavoro più interessante di quello di vendere monotone, anche se ottime, “pompe sommerse” prodotte da un’azienda tedesca.

Un viaggio lampo come dicevo, ma dal quale tornai non solo avendo scovato quello che si sarebbe dimostrato un ottimo agente, ma anche con la netta sensazione che la Cina sarebbe stata forse con il tempo un’ottima opprtunità per alcuni nostri esportatori, ma molto prima un bel problema per molte delle nostre industrie e non solo delle nostre.

-------------------- o -------------------Come per quasi tutti gli occidentali, anche per me la Cina del 1992 era un paese praticamente sconosciuto, e devo dire che in quei due giorni scarsi che vi trascorsi quella prima volta fu anche molto deludente. Già l’aeroporto mi stupì: era quasi del tutto privo di strutture e servizi, arredato con vecchi banchi di legno scheggiati unti e bisunti, dietro ai quali stavano addetti malvestiti, trasandati, che sembravano capire e parlare solo il cinese e palesemente non orientati al servizio. I voli, poi, venivano annunciati solo tramite altoparlanti in cinese e in un inglese approssimativo, e tutte le indicazioni, comprese purtroppo quelle per uscire, erano scritte solo in cinese. Più che nella capitale di un paese con quasi un miliardo di abitanti, mi sembrò di essere arrivato in una cittadina di provincia, e anche quel poco che potei vedere nel tragitto in taxi da e per l’aeroporto e nelle tre o quattro ore che trascorsi da turista nei dintorni del China Hotel, a ridosso della piazza Tienanmen, dove allogiai, fu una grande delusione.

Sulle strade, sulle quali si affacciavano lunghe file di enormi, tristi e maltenuti casermoni, circolavano pochissime auto, pochi camion - tutti dipinti di celeste - colmi all’inverosimile sia di merci che di persone, pochi ciclomotori, e una marea di bici. I negozi e i supermercati, poi, a parte le farmacie sorprendentemente numerose, erano pochissimi, e quei due ai quali potei dare una fuggevole occhiata all’interno erano desolatamente poveri di merci. I cinesi infine avevano quasi tutti un’aria triste e dimessa nelle loro povere uniformi unisex grigio verde; ed erano palesemente “al verde”. Insomma, se non avessi fatto quattro passi con Tony per sgranchirmi le gambe in previsione del lungo volo di ritorno, sarei tornato a casa pensando che il tempo nel quale la Cina risvegliandosi avrebbe fatto “tremare il mondo”, come sembrava avesse predetto Napoleone, era lontano secoli, se mai fosse arrivato, e invece in quei quattro passi cambiai idea.

Chiaccherando del più e del meno, ci avviammo per un largo marciapiedi alberato fra barbieri di strada e cuochi improvvisati che offrivano la loro opera e cibo caldo ai passanti, e fatti pochi metri, 206

notando un gruppo di ragazzini chiassosi che sembravano giocare entusiasti attorno ad una panchina di pietra, incuriosito mi avvicinai, seguito da Tony, per cercare di capire a quale gioco giocassero. Uno di loro, a turno, scriveva qualcosa su un foglio di carta che gli altri leggevano e copiavano su blocchetti di fogli di carta che ognuno teneva in mano. Poi si mettevano freneticamente a scarabocchiare altri simboli facendo a gara a consegnare prima degli altri il loro foglietto a quello dal quale avevano copiato; questi li ordinava annotando sul bordo di ognuno un simbolo dopo aver guardato l’orologio. Passavano alcuni minuti, e dalla calca usciva un coro di urla e un braccio, sollevato da un altro, che proclamava con tutta evidenza un vincitore. Era un’evidente gara a risolvere parole incrociate, enigmi, o qualche altro indovinello del genere, pensai, ma quando ne chiesi conferma a Tony, lui, con un inequivocabile atteggiamento di orgogliosa soddisfazione, mi lasciò di stucco dicendomi che quei ragazzi si stavano sfidando a sviluppare equazioni algebriche! Sì, avete proprio capito bene!

Ripresomi dallo stupore gli chiesi se quel gioco fosse una delle tante consuetudini della Cina sconosciute a noi occidentali, e la sua risposta mi sconcertò: non sapeva di quel gioco, mi disse infatti; i ragazzi cinesi facevano, per quanto ne sapeva lui, gli stessi giochi di strada di tutti gli altri ragazzi del mondo, ma era stato molto contento di assistervi perché quei ragazzi erano la prova evidente che i nuovi orientamenti generali di vita che il partito stava cercando di introdurre, in particolare fra i giovani, stavano avendo l’effetto sperato.

I nuovi dirigenti, proseguì con enfasi, si erano resi conto che il torpore creativo che la monocultura ideologica e l’esasperato egualitarismo di tanti anni aveva ingenerato nella popolazione erano il freno maggiore allo sviluppo del paese, e quindi, oltre ad aver reso obbligatorio lo studio dell’inglese fin dai primi anni di scuola per rendere ai ragazzi accessibile e comprensibile il mondo, avevano reintrodotto l’insegnamento del Confucianesimo: una dottrina che insegnava ad essere “più bravi di quello che gli altri si aspettano da te”.

In sostanza, concluse, non avevano fatto altro che ridare valore a competizione e merito, motori atavici della creatività e del progresso degli individui, per farne, con il senso del dovere, la responsabilità individuale, e punizioni severe per chi cercava di vivere alle spalle degli altri, il motore del progresso dell’intera società; e sembrava proprio che ci stessero riuscendo.

Non commentai quelle parole e continuai a camminare pensando con tristezza che gli esempi e gli indirizzi comportamentali che avevamo ricevuto per decenni dalle nostre guide politiche erano state di segno diametralmente opposto e che era ora, per noi occidentali e per noi italiani in particolare, di cambiare marcia. Con quelle azioni e quelle idee in testa la Cina si sarebbe risvegliata molto più in fretta di quanto pensavamo dal suo torpore; anzi, si era già svegliata e anche se si stava ancora stropicciando gli occhi smarrita guardando un mondo del quale sapeva ancora molto poco, presto, molto presto li avrebbe spalancati del tutto: e allora poveri noi!

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Riflettendo oggi sull’impressione che ebbi in quel primo viaggio e su cio che vidi in seguito nei diversi altri che feci in quel paese nei dieci anni successivi, provo molta amarezza. Parlai infatti di quella prima emblematica esperienza e dei miracolsi sviluppi che osservavo viaggio dopo viaggio con diverse persone che, con il loro potere e la loro influenza, avrebbero potuto tentare di limitare i danni di quella incontenibile marea gialla, ma purtroppo nessuno mi prese mai sul serio. Fui considerato dai più solo un menagramo, e quando alcuni andarono finalmente a vederla montare con i loro occhi, quella marea, per molti settori vitali della nostra povera economia era già tardi. Il problematico “secolo cinese” era già cominciato. E purtroppo credo che molto presto presto i problemi non ci verranno solo dalla Cina.

Altri potenti attori reclameranno entro pochi anni la loro fetta della produzione e dei commerci mondiali e se non ci svegliamo in fretta, dovremo soffrire a lungo. Forse se i “nostri capi” ci descrivessero con chiarezza i termini reali della situazione, ci rimboccheremmo tutti le maniche e riusciremmo ad uscirne con le ossa non troppo rotte, ma temo che non lo faranno: per ignoranza, per farci stare e stare a loro volta tranquilli, per non perdere consensi e soprattutto per non essere obbligati a darci esempi virtuosi di comportamento, ai quali molti, troppi, sembrano essere refrattari. Mi dispiace di fare ancora il menagramo, ma è più forte di me.

Per rasserenarmi un poco e non rischiare di deprimere troppo voi, prima di tornare alle cronache degli eventi in Unifill, voglio anche dirvi che non mi mangiai solo il fegato in tutti quei viaggi in Cina, feci anche il turista e, credo, in condizioni oggi irripetibili. A parte la marea di uomini d’affari tedeschi che comunque più che al turismo si dedicavano e con molto successo, appunto agli affari, non c’erano, specie nei primi quattro o cinque anni, turisti stranieri in giro, e quindi potei visitare e rivisitare in un contesto di quiete oggi inimmaginabile la splendida parte vecchia di Shanghai, alcuni tratti della grande muraglia, la città proibita, le tombe dei Ming, l’impressionante Budda di Ling Shan, la romantica Wuxi, e un sacco di altre cose, molte delle quali oggi addirittura scomparse, con un solo rimpianto; non aver visto l’esercito di terracotta del primo imperatore Qin a Xi’an.

Tornando dunque in Unifill, fra un viaggio e l’altro, a fine settembre o forse i primi giorni di ottobre, non ricordo, la Lever Italia ci formalizzò per l’astronomica cifra che ci eravamo quasi vergognati di chiederle, l’ordine per la nuova macchina che avevamo chiamato TR/GF ( dove GF stava per grandi flaconi ), con la clusola salvifica e tranquillizzante che i costi per la trasformazione per l’utilizzo del polipropilene sarebbero stati fatturati a consuntivo. Un “evento” salutato da tutta l’azienda e naturalmente da me in particolare con gran soddisfazione; che inoltre mi regalò anche l’insperata opportunità di visitare un luogo di cui avevo tanto sentito parlare, ma che avevo solo potuto osservare dall’esterno.

Allo scopo di illustrare il progetto flacone/blister ad alcuni alti dirigenti della casa madre, fui infatti invitato a Londra, alla Unilever House. Da quello che si diceva in giro, quel favoloso palazzetto sulla riva del Tamigi con vista sul parlamento e sul ponte dei Frati Neri - quello 208

sotto il quale era stato suicidato Calvi - sembrava essere stata una delle residenze di Enrico VIII e si diceva conservasse ancora gli interni e gli arredi scelti dal sovrano. Uffici quindi incomparabili, per non dire regali, e devo dire che si dimostrarono davvero tali. Un’ altra bellissima e premiante esperienza, quindi, che si concluse in una elegante saletta dove pranzai in compagnia dei miei ascoltatori a base di ottimo pesce e vini pregiati.

Tornato da Londra non mi restò che far disegnare e realizzare la macchina nel migliore dei modi. I test per sviluppare la forma del flacone/blister fatti con stampi di prova empirici sulla TR-86 avevano dato esiti soddisfacenti e le poche incognite che ancora rimanevano non mi spaventavano affatto; ero solo un po’ preoccupato per le date che mi ero impegnato a rispettare: consegna della macchina entro il giugno seguente; messa in produzione entro il settembre successivo e trasformazione per farla lavorare con il polipropilene non più tardi del marzo del 1994. Erano onestamente azzardi, in particolare l’ultimo passo, ma contavo sull’amicizia e comprensione che quel cliente mi avrebbe di certo riservato nel caso mi fossi trovato in difficoltà. Del resto, come si dice, “chi non risica non rosica”; e fu proprio anche citando questo proverbio che riuscii a fare digerire la cosa a Traldi.

Quando gli dissi del tempo di consegna e del polipropilene diventò rosso come un peperone e gridando che non ce l’avremmo mai fatta minacciò di andarsene su due piedi! Riuscii però a calmarlo, citando come dicevo il proverbio, ma soprattutto illustrandogli la marea di schizzi fatti in montagna che, guardandomi con “altri occhi”, approvò.

Per traquillizzarlo del tutto gli dissi anche che non sarebbe stato solo davanti a quel compito, in verità immane: dalla settimana successiva avrebbe avuto come aiutanti i due giovani disegnatori che lui stesso mi aveva segnalato per eventuali future esigenze, e ad aiutarlo nella progettazione ci sarebbe stata una mia vecchia conoscenza dei tempi della BFB, Valerio Bonfiglioli, da tempo libero professionista, che avevo già contattato in previsione di quella necessità. E mentre facevo tutto ciò e anche altro, arrivò il momento di partire con Rossella per andare a parlare dei nostri blister ai visitatori della fiera di Chicago.

Sapevamo che senza uno stand sarebbe stato un lavoro faticoso, ma eravamo confortati dal successo avuto nelle stesse condizioni a Milano, ed eravamo fiduciosi di bissarlo. Avevo informato tutti i miei vecchi clienti che sarei stato in giro per la fiera per tutto il periodo e tutti si erano detti disponibili ad incontrarmi. I telefoni cellulari ci avrebbero messo d’accordo su dove e quando. Il viaggio però non cominciò sotto i migliori auspici. Dopo aver rifiutato di dormire nelle due camere prenotate dall’agenzia in un moltel di infima categoria ed aver ricercato inutilmente un’alternativa fino a notte fonda, ci dovemmo accontentare dello scomodo e lontano Hilton dell’aereoporto O’Hare. Ma la mia buona stella, dopo averci comunque fatto riposare, ci ricompensò del disagio subito il mattino dopo, quando, senza averlo fatto di proposito, transitammo nei pressi dello stand dell’ACMA e venimmo salutati e invitati ad entrare da Carlo Grossi.

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Forse non avendo mai visto arrivare sul mercato il risultato dell’ipotetico lavoro che l’aveva indotto a bollarmi come “persona non gradita” in ACMA, si era pentito del suo gesto, e anch’io ricordavo ormai senza troppo livore lo sgarbo fatto a Fioravanti, fatto stà che “ci trattammo” da vecchi amici ridandoci del tu, come se non fosse successo niente. Scambiammo qualche chiacchiera generica sull’ACMA e sull’Unifill, e quando seppe che non avevamo un punto d’appoggio per gli incontri che speravamo di avere, ci invitò ad avvalerci del suo stand quando e come avessimo voluto. Un invito che naturalmente cogliemmo al volo. Non so se Carlo si pentì di quel suo gesto, ma se lo fece non lo notammo; di certo non ci pentimmo noi di aver accettata la sua ospitalità, perché quello che accadde da quel momento in poi, ancora oggi mi sembra incredibile. Colonizzammo infatti lo stand, le salette per ricevere i clienti e il buffet per tutto il tempo che durò la fiera: una situazione imbarazzantissima, ma anche comica.

Vennero tutti quelli che avevamo contattato, ma ne incontrammo moltissimi che del tutto ignari del mio nuovo lavoro, vedendomi sullo stand e pensando che il figliol prodigo fosse tornato a casa, si rivolgevano a me ignorando le diecine di venditori e agenti dell’ACMA e perfino Grossi. Scoperta poi la ragione della mia presenza dedicavano quasi tutto il loro tempo e il loro interesse anziché alle macchine esposte ai nostri blister. Un paio di loro, come seppero quello che stavamo facendo con i loro colleghi delle filiali italiane ed europee, ci chiesero addirittura di prolungare il nostro soggiorno in America offrendosi di organizzare immediatamente riunioni con i loro staff di marketing. Per gli impegni che avevamo a casa dovemmo rifiutare quelle offerte, e loro, comprendendoci, arrivarono a dirci che avrebbero sollecitato i loro colleghi a venirci ad incontrare in fiera nei giorni successivi. Che amici!!

Ritornammo quindi in Italia entusiasti, con all’attivo diversi contatti più che promettenti con potenziali clienti e agenti e una serie di appuntamenti gia fissati per i mesi successivi, e sull’onda di quell’entusiasmo arrivai alla riunione che tenemmo una settimana prima del giorno di Natale, per esaminare i risultati dell’anno che stava finendo e pianificare a grandi linee gli obbiettivi per il 1993. Una riunione che decretò che la sfida propostami da Bulgarelli l’avevo ormai vinta.

Il quadro della situazione era infatti il seguente: il reparto confezionamento per conto terzi lavorava su tre turni giornalieri con ben dieci macchine generando un fatturato e soprattutto utili da capogiro; avevamo l’ordine Lever; avevamo quattro ottimi agenti per spingere le macchine nei mercati che ci sembravano più promettenti; i contatti presi a Chicago promettevano non bene ma benissimo; la fiera di Dusseldorf era ormai alle porte e se solo avessimo suscitato la metà dell’interesse che avevamo suscitato a Chicago sarebbe stato un delirio; ed infine dovevamo ancora partire nel settore dei formaggini, un settore dal quale ci aspettavamo faville. Era una situazione che nessuno di noi aveva certo anche solo immaginato all’inizio dell’anno; che da tempo veniva portata ad esempio ad ogni riunione dei dirigenti della 210

TBE facendo ovviamente gongolare di soddisfazione sia me che Bulgarelli, che pensò di farmi tre regali natalizi graditissimi: il primo nel corso di quella stessa riunione.

Guardandomi sorridente perché sapeva di farmi, appunto, un gran regalo, mi annunciò che da quel giorno potevo smettere di provare a vendere le tre macchine Sacpack ancora a magazzino (sapeva che già da tempo del resto non ci pensavo nemmeno) e chiese a Cagnolati di rottamare l’insaccatrice e di consegnare al cliente, con il quale aveva gia preso lui accordi, l’ancora traballante monoblocco di Belloli. L’ insacchettatrice, peraltro già modificata secondo i miei suggerimenti e funzionante, sarebbe stata tenuta ancora a magazzino in attesa di una eventuale vendita casuale. Per non lasciare a piedi la Govoni dal lato insaccatrici, Bulgarelli chiese a Rossella di trovare un produttore affidabile al quale indirizzare Gulmini, e indirettamente mi fece un secondo regalo. Rossella infatti mi portò già il giorno dopo a vedere una piccola azienda ad Anzola Emilia della quale non conoscevo l’esistenza, la MTB, che scoprii essere stata fondata da Turrini, uno dei tanti ottimi montatori amici che avevano lasciato l’ACMA. Non avevo più saputo niente di lui e fui felicissimo di vedere che con l’aiuto della sua famiglia aveva avuto il successo che meritava. Le sue macchine, mi assicurò Rossella, erano un vero gioiello, e competevano senza sfigurare con quelle dei più qualificati produttori del settore a livello mondiale.

Segnalata quindi la MTB a Gulmini non pensai più alla Sacpack.

Il terzo regalo, ancor più gradito degli altri due, me lo fece la vigilia di Natale nel corso della festa per gli auguri: prima mi informò maliziosamente di aver saputo che il contenitore di Magnoni e il prototipo della macchina avevano destata l’attenzione di Massimo Marchesini, poi mi consegnò imbarazzato un biglietto di auguri che, quando lo lessi, pochi minuti dopo, mi commosse. Gli auguri, scritti a mano, erano seguiti dalla frase “il miglior capo è quello che trova collaboratori migliori di se stesso“. Diceva certamente il vero con quella affermazione che condividevo e che avevo cercato sempre di mettere in pratica nella scelta dei miei collaboratori quando ne avevo avuto l’opportunità, ma mentiva spudoratamente paragonandomi a lui. Non mi aveva mai nemmeno sfiorato il pensiero di essere migliore di lui, lo consideravo e lo considero ancora uno dei migliori imprenditori che ho conosciuto, ma quella frase che mi confermava che mi ero guadagnata la sua stima fu molto più gradita di un rolex d’oro o di un aumento di stipendio. Lo ringraziai quindi, come dicevo, commosso, e stringendogli la mano gli dissi anche che poteva star certo di aver fatto la scelta giusta rinunciando al contenitore di Magnoni: nemmeno un genio come Marchesini ce l’avrebbe fatta a saldare bene quel contenitore; ed ero assolutamente convinto di quanto dicevo.

Passai dunque in uno stato d’animo euforico quelle feste, e nello stesso stato d’animo cominciò a scorrere anche il 1993. Ma se tutto andava bene per me e per l’Unifill, le cose stavano andando a rotoli invece per la TBE. Non ve ne avevo parlato fino ad ora, perché, tutto sommato, i problemi del gruppo non avevano influenzato l’andamento della “mia” Unifill, ma erano mesi che le cose non andavano per il verso 211

giusto. Nelle riunioni bisettimanali a Casumaro si parlava, come negli ultimi tempi dell’ACMA, più di colpe che di meriti, inoltre, Gulmini, Giberti e Bulgarelli, pur continuando ad ostentare ottimismo, erano palesemente tesi come corde di violino. Anche su questo argomento ci sarebbe da scrivere un libro: mi piacerebbe infatti parlare dei fatti e soprattutto degli errori che a mio modesto avviso avevano portato il gruppo a quella situazione, fatti ed errori che credo di aver individuato nettamente. Il parlarne potrebbe aiutare qualcuno a non cadere nelle stesse trappole purtroppo molto comuni sul cammino delle aziende, ma dovrei anche esprimere giudizi e valutazioni su cose che non ho vissuto direttamente e correrei il rischio di dire stuppidagini. Mi limito quindi a segnalare che la TBE, nei primi giorni dell’anno, entrò in una pericolosa crisi finanziaria e che fra le tante decisioni che prese per tentare di uscirne ci fu quella di vendere i gioielli di famiglia; fra i quali brillava l’Unifill.

Come dicevo, non fu una sorpresa totale, né per me né per gli altri manager del mio livello delle altre aziende del gruppo, ma quando Bulgarelli, verso la fine di gennaio, mi comunicò ufficialmente la notizia, mi venne una grande tristezza. Dal tono della sua voce e dal fatto che parlandomi non mi avesse guardato come di consueto negli occhi era evidente che come socio fondatore e uno dei membri più attivi del consiglio operativo viveva certamente quel disastro come un fallimento personale e che se ne vergognava. Non mi parve quindi il caso di fare alcun commento e mi limitatai a prendere atto delle sue parole senza dire niente. Ci salutammo e nel tornare a casa mi misi a pensare al nuovo scenario e a come pormi in esso.

La prima cosa che mi venne in mente fu che quasi certamente non avrei più avuto Bulgarelli come capo. Claudio, al contrario di me, era un imprenditore nato, che aveva almeno altre due attività industriali esterne al gruppo cui dedicarsi in quella veste, e la sua mancanza avrebbe potuto essere un problema; mi ero abituato a prendere in totale autonomia le decisioni relative allo sviluppo tecnologico e commerciale e con una nuova proprietà quasi sicuramente le cose sarebbero cambiate. La seconda, come al solito, fu che chiunque avesse comprato l’azienda, visto i risultati che avevo conseguito, sarebbe stato pazzo a privarsi di me e a non lascirmi continuare a fare il mio lavoro a modo mio. La terza infine, che la soddisfazione di aver vinto la sfida lanciatami da Bulgarelli in fin dei conti l’avevo già avuta, e potevo tranquillamente andarmene da qualche altra parte senza rimpianti.

Quei pensieri e quelle conclusioni non mi fecero quindi perdere il sonno, anzi, dormii come un ghiro quella notte, e il mattino dopo me ne ero già dimenticato. Avevo ben altro a cui pensare: dai programmi di visite cui attendere e di viaggi da fare, mi aspettavano i due mesi più intensi e impegnativi di tutta la mia vita di lavoro. E furono davvero intensi! Ma anche di enorme soddisfazione e pieni di sorprese.

Fra febbraio e marzo, mentre Traldi, Bonfiglioli e i due disegnatori finivano con largo anticipo sul programma e con lo stupore di tutti noi e della Lever, studi e particolari della TR/GF, vennero a San Prospero più stranieri che in tutto il resto della sua storia precedente. Un flusso che 212

fece felici ristoranti e alberghi dei dintorni e naturalmente anche me e Rossella, che l’avevamo provocato, ma che ci sfiancò. I visitatori erano in gran parte emissari di nuovi clienti quali L’Oréal, Lever, Colgate, Jhonson e Jhonson, Procter & Gamble, Henkel, Benkiser e altri dello stesso calibro, ma anche di vecchi. L’ingegner Valori e il signor Piacentini della Jhonson-Wax, per esempio, stimolati dalla nostra disponibilità “al nuovo” presero a visitarci una settimana si e l’altra pure. Districandoci poi a fatica fra una visita e l’altra sia io che Rossella eravamo sempre in viaggio, croce e delizia della agenzia che ci supportava: croce perché nessun viaggio andava secondo il programma, delizia perché non aveva mai organizzato tanti viaggi a prezzo pieno in businnes class. Di quei viaggi, tutti davvero lampo credetemi, mi ricordo solo quello che feci a metà febbraio in America per visitare i quartieri generali di Colgate Palmolive e Johnson-Wax; indimenticabile per diversi motivi.

Alla Colgate, grazie ai buoni uffici del mio vecchio amico Vincent Conticelli, il marketing strategico mi aveva magnanimamente concessa l’attenzione di tre suoi funzionari per un’ora; dalle nove alle dieci del mattino. Ebbene vi giuro che alle cinque di sera ero ancora là a parlare; senza essere andato a pranzo. Ai primi tre funzionari se ne erano aggiunti via via che il tempo passava almeno altri otto che mi avevano subissato di domande; e non dico altro. Anche alla Johnson-Wax di Racine, a nord di Chicago, suscitai certamente l’interesse dei miei interlocutori, ma fui molto più entusiasta di quello che vidi; una meraviglia, credo unica in campo industriale. Tutti gli edifici e gli arredi interni erano stati disegnati da Frank lloyd Wright: stupefacente! Già queste due esperienze sarebbero state sufficienti a farmi ricordare quel viaggio, ma a renderlo indimenticabile fu quello che accadde il giorno dopo il ritorno.

Mentre infatti nel silenzio del primo mattino dell’azienda ancora deserta stavo riordinando i miei appunti di viaggio, in ufficio entrò a sorpresa il Murat, notoriamente tutt’altro che mattiniero, che, con aria da cospiratore mi propose di comprare l’Unifill in società con lui, Enrico Vincenzi e Bulgarelli; una proposta che in altri tempi non avrei nemmeno finito di ascoltare, ma che quel mattino mi soggiogò. L’ Unifill, pensai infatti convinto, sarebbe stata certamente un ottimo affare dove investire la metà dei risparmi che con Luciana avevamo messo da parte.

Avrei potuto moltiplicare facilmente e rapidamente quei miei risparmi per cinque o per dieci, sia con i profitti, lavorandovi, sia rivendendola. E gli dissi quindi di sì; ponendo solo due condizioni oltre ai limiti del mio investimento: che alla cordata partecipassero oltre a lui sia Vincenzi che Bulgarelli, dei quali mi fidavo ormai ciecamente, e che avrei potuto continuare in piena autonomia a determinare gli orientamenti tecnicocommerciali dell’azienda.

Nel dirsi certo che le mie condizioni sarebbero state tutte soddisfatte, il Murat mi salutò abbracciandomi e se ne uscì. E io, mentre l’azienda cominciava ad animarsi, mi ritrovai a pensare ad un dettaglio insignificante come quello di come dire a Luciana, tanto contenta della sicurezza che le davano i nostri risparmi, che mi ero impegnato a 213

“rischiarne” una metà. Ma non dovetti arrovellarmi per molto tempo. Il Murat aveva fatto i conti senza l’oste. Un paio di giorni dopo infatti - non avevo ancora accennato niente a Luciana - Luigi mi informò sconsolato che la ciffra richiesta dalla TBE era troppo alta sia per lui che per Vincenzi e Bulgarelli, il quale peraltro era quello che l’aveva fissata e che non poteva certo abbassarla partecipando all’acquisto. E non ci crederete, rimasi talmente male che azzardai un folle rilancio offrendomi di investire nell’impresa tutti i miei risparmi ( 700 milioni di lire), per convincerli, ma non ebbi successo e il progetto cadde.

In azienda intanto, dove nessuno sembrava ancora sospettare che l’Unifill era in vendita, si continuava a veleggiare con il vento in poppa: gli ordini per il reparto confezionamento continuavano ad aumentare; Rossella aveva ottenuto l’ordine per due TR-86; e il montaggio della TR/GF per Lever procedeva nei tempi stabiliti senza intoppi importanti.

Verso i primi di marzo, ormai dimenticata qualsiasi idea di diventare imprenditore, mi trovai a ripensare alle implicazioni dell’ormai quasi certo arrivo di un nuovo proprietario, e mi venne in mente che sarebbe stato meglio, sia per l’Unifill che egoisticamente per me, poter dire la mia sul candidato. Ne stilai quindi un elenco ideale da proporre a Bulgarelli, che includeva per ogni candidato le ragioni per le quali pensavo fosse interessante per noi, e quelle che ci potevano rendere interessanti ai suoi occhi, ma la reazione che ebbe quando glielo consegnai mi lasciò davvero perplesso. Fu gentile come sempre, mi ascoltò, mi fece qualche domanda, ma alla fine mise i miei fogli nella “valigia TBE” dicendomi senza un particolare entusiasmo che ne avrebbe parlato con Giberti, Caselli e Gulmini e mi avrebbe saputo dire.

Era evidente che la mia lista non lo interessava per niente, e pochi giorni dopo ne scoprii la ragione: la vendita era già praticamente conclusa e mancava un solo tassello perché lo fosse definitivamente. Un tassello che mi fecero pensare di essere proprio io.

Da qualche tempo ero in contattato con un certo Aguzzoli, consocio a suo dire, di una piccola azienda di Reggio Emilia specializzata in impianti di processo per prodotti alimentari chiamata CMAI, che si era proposto per trovare qualche formula di collaborazione con noi per promuovere reciprocamente i nostri prodotti nel settore formaggi. Era venuto già alcune volte a trovarmi, l’ultima verso la fine di marzo, pochi giorni dopo la delusione provata dalla reazione di Bulgarelli alla mia lista, ma non era venuto solo: con lui c’era un tale Vivaldo Bartoli che si era presentato come suo cognato e presidente dell’azienda. Dopo una canonica quanto rapida visita ai reparti di produzione, Vivaldo se ne era stato muto ad ascoltarci discutere dell’accordo, dimostrando peraltro uno scarso interesse a quanto ci dicevamo, ma osservando curioso la vetrinetta nella quale avevamo esposto uno dei prototipi realizzati sulla TR-86 per definirne la forma del flacone/blister per Lever, e rimasi quindi abbastanza sorpreso sentendolo al telefono il mattino di un paio di giorni dopo invitarmi a pranzo per quel giorno stesso al Borso d’Este di Modena: voleva fare quattro chiacchere, mi disse, e io incuriosito accettai; proponendo però la più pratica da raggiungere, anche se molto meno raffinata, Bruciata.

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A mezzogiorno e trenta ci sedemmo l’uno di fronte all’altro e dopo qualche convenevole, qualche accenno all’andamento della trattativa con Aguzzoli, poche parole sulla situazione aziendale dell’Unifill - che mi parve conoscesse piuttosto bene - e sul flacone/blister che mi disse di aver notato, guardandomi dritto negli occhi mi disse senza interrompersi: “ Non so se ne sia al corrente Tabaroni, ma il gruppo TBE sta cercando di vendermi la sua Unifill: l’azienda mi piace molto e non le nascondo che mi piacerebbe vederne alla guida i miei due figli Alberto e Andrea, ma i due ragazzi, pur avendo già qualche esperienza in attività industriali, non sono ancora in grado di farlo da soli. Ho già ottenuto da Bulgarelli, Cagnolati e Benuzzi la disponibilità a farci da consulenti per un periodo di tempo indefinito, ma Bulgarelli mi dice che il loro impegno non servirebbe a niente senza di lei. Le chiedo quindi di darmi la sua disponibilità a rimanere al nostro fianco, altrimenti mio malgrado rinuncerò all’idea. Per sua tranquillità le assicuro che potrà continuare a lavorare con la stessa autonomia decisionale alla quale è abituato fino a quando non deciderà che i miei ragazzi ne sapranno abbastanza per fare da soli, e sono pronto a firmarle anche adesso un impegno di rapporto alle sue condizioni”. Dopo di che mi chiese scusa e se ne era andò a “lavarsi le mani” lasciandomi, me lo disse, a meditare sulle sue parole.

Ma avrebbe potuto benissimo non andarci a lavarsi le mani, Vivaldo: anche se non credetti nemmeno per un attimo che senza di me avrebbe rinunciato all’Unifill, che lo avesse detto mi aveva fatto indubbiamente molto piacere, ma anche tutto il resto del suo discorso mi era piaciuto. I Bartoli sembravano essere i migliori nuovi padroni che avessi potuto desiderare; certamente erano meno presuntuosi anche del più modesto fra quelli che avevo messo in lista per Bulgarelli, e quindi più disposti a lasciarmi fare davvero il lavoro a modo mio. E se non fosse stato così, sarebbe stato peggio per loro! Così, quando ritornò al tavolo, dissi a Vivaldo che sarei stato anch’io della partita e che non avevo bisogno di nessun tipo di garanzia o impegno. Ci alzammo e ci stringemmo la mano dicendoci arrivederi a presto, e solo due giorni dopo me lo ritrovai in azienda in compagnia di Bulgarelli che me lo presentò come nuovo proprietario.

-------------------- o -------------------L’ingresso dei Bartoli in Unifill avvenne davvero in “punta di piedi”: in azienda infatti, tutto continuò a girare come prima e fino a che non partii per la fiera di Dusseldorf, circa quindi un mese dopo l’annuncio dell’avvenuta cessione, vidi Vivaldo solo due o tre volte. Venne con suo figlio Andrea, con un’amica tedesca, una certa Almut, e solo una volta anche con Aguzzoli; si fermò per non più di un’ora ogni volta e si comportò, come i suoi accompagnatori, con la discrezione di un visitatore curioso ed educato, senza fare domande o disturbare il nostro lavoro. Volle solo sapere quanto sarebbe iniziata e durata la fiera e l’ubicazione dello stand per poter venire a trovarci. E a proposito della fiera, devo dire che ne ho un ricordo indelebile.

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Come vi ho accennato, contavo molto su quell’evento, e devo dire che tutto andò molto al di là di ogni mio più azzardata aspettativa. Rossella ed io arrivammo a Dusseldorf a tarda sera, con entrambe le auto cariche di depliant e centinaia di blister di ogni foggia e colore, e per la prima volta da quando vi andavo, a causa del ritardo nel prenotare, trovai ad accogliermi anziché una comoda camera in un buon hotel, una stretta e bassa cabina su uno dei barconi - hotel ancorati sulle rive del Reno di fronte ad uno degli ingressi del quartiere fieristico. Ma a parte questo non piccolo disagio - la cabina era grande poco più di un loculo e bassa da sbattere la testa sul soffitto - tutto il resto fu quasi un sogno. Non posso affermarlo con certezza, ma se non fummo “la curiosità” della fiera, ci andammo molto vicino. Le nostre quattro misere vetrinette piene di blister e le grandi foto della TR-86 appese all’unica parete disponibile attrassero l’attenzione di una tale moltitudine di visitatori che per tutto il periodo non riuscimmo nemmeno a fare un salto in un bar a gustarci almeno un panino caldo e un caffe, saltando in pratica il pranzo. Per fortuna eravamo di fianco alle toilette, dove a turno e velocissimamente riuscivamo almeno ad andare a rinfrescarci; cosa che non eravamo gli unici a fare. Come avevo facilmente previsto e tanto sperato, la necessità di rinfrescarsi portava una miriade di visitatori a passare davanti alle nostre vetrinette e molti, anzi moltissimi si fermavano a guardarle con curiosità.

Si generò una continua baraonda che non stupì solo me e Rossella, ma soprattutto Bulgarelli, che venne a trovarci per aiutarci negli ultimi due giorni. Povero Claudio: osservava stralunato quel continuo avvicendarsi di persone e dall’espressione che faceva di tanto in tanto si capiva che era molto pentito di averla venduta l’Unifill, anziché comprarla! Il pensiero opposto lo fecero invece certamente Vivaldo e Almut, che vennero l’ultimo giorno. Forse avevano intenzione di fermarsi più a lungo sullo stand, non lo so, sta di fatto che sia io che Rossella fummo costretti quasi ad ignorarli e si fermarono solo poco più di un paio d’ore durante le quali se ne restarono in disparte, con Bulgarelli, a guardare increduli lo stand pieno di visitatori e la fila nel corridoio di quelli che aspettavano di entrare per avere la nostra attenzione. Solo quando Vivaldo ci fece capire con un cenno della mano che stavano per andarsene lasciammo entrambi i clienti con i quali stavo parlando e li raggiungemmo per scusarci e salutarli; alla loro domanda se fosse sempre stato così, rispondemmo all’unisono che sì, lo spettacolo al quale stavano assistendo era andato in scena fin dal primo giorno. Quando ci strinsero la mano per congedarsi avevano entrambi un’ aria che non lasciava dubbi su quello che pensavano.

E noi, quella sera, dopo aver selezionato la montagna di rapporti di visita e messi da parte quelli relativi ad agenti in cerca di opportunità, altri costruttori di macchine curiosi e altri curiosi dei generi più svariati, ne contammo ben 557 relativi a potenziali clienti, e fummo più soddisfatti di loro. Fra quei potenziali clienti, c’erano infatti, come avevamo tanto sperato, i produttori di formaggini concorrenti del Petite Louise. Potevamo quindi tornare a San Prospero certi oltre che di aver introdotto definitivamente nell’ambiente del packaging la sconosciuta 216

piccola Unifill quale nuova protagonista, con la quasi certezza di più che probabili vendite di macchine in quel settore che ritenevamo strategico.

Quella notte, cullato dalle acque del Reno, pensai ancora una volta che la dea bendata mi doveva davvero volere un gran bene. Formaggiai a parte, che fiera o non fiera avremmo comunque contattato quanto prima e certo interessato, se fossimo capitati lontani dalle toilette quasi certamente i visitatori sarebbero stati molto meno della metà di quelli che avevamo avuto. Certo gli agenti erano stati bravi, il tam - tam che i nostri clienti amici delle multinazionali avevano diffuso in giro nelle diverse sussidiarie del mondo aveva fatto la sua parte e forse anche noi eravamo stati particolarmente bravi a suscitare curiosità nelle persone che avevamo incontrato alle fiere di Milano e Chicago, ma la gran parte dei visitatori che avevamo avuto non aveva mai sentito parlare né dell’Unifill né dei suoi blister: venivano dalle parti più disparate del mondo, da aziende sconosciute che producevano prodotti altrettanto sconosciuti, e solo la loro curiosità quasi obbligata ce li aveva fatti incontrare.

Tronfio ed entusiasta me ne tornai dunque a casa e mentre la TR/GF per Lever produceva i suoi primi flaconi/blister senza evidenziare problemi, fecendo tirare un gran sospiro di sollievo a tutti e a me in particolare, cominciarono ad arrivare i più che graditi effetti del lavoro fatto in fiera: certo l’avevamo fatta apposta per ottenerli quegli effetti, ma davvero “troppa grazia”! Ci piombarono addosso talmente tante richieste di venire a visitarci e altrettante di andare noi a fare visite in ogni angolo del mondo che, vi giuro, il nostro problema divenne quello di riuscire ad agire in modo da non scontentare nessuno per non perdere nemmeno un’opportunità. E non erano solo potenziali clienti a voler vederci ad ogni costo: sembrava che tutte le agenzie di vendita volessero l’esclusiva dell’Unifill. Comunque, bene o male facemmo del nostro meglio per accontentare un po’ tutti e i frutti non tardarono ad arrivare.

Come avevamo pensato agli inizi, la possibilità di far sondare ai potenziali clienti i loro mercati senza rischiare grossi investimenti in macchine fece esplodere il lavoro di confezionamento per conto terzi, che oltre a rivelarsi una vera miniera d’oro di profitti e di esperienza tecnica, divenne il veicolo che avevamo sperato per la vendita delle macchine. Cominciammo a vendere una TR-86 dietro l’altra e, ciliegina sulla torta, i concorrenti del Petite Louise decisero di fargli, appunto, concorrenza: una cosa già di per sè favolosa per noi che non aspettavamo altro, ma che indusse inoltre la Bongrain a risvegliarsi dal suo benedetto torpore chiedendoci nuove forme per le sue monodosi e ponendo le basi per ordini di altre macchine.

Per darvi solo un’idea della smania che sembrava aver preso tutti o quasi quelli che producevano monodosi di liquidi o creme di avere una nostra TR-86, vi dico solo che un turco che venne a trovarci senza preavviso per comprarne una, saputo che l’ultima disponibile per essere consegnata in tre mesi l’avevamo promessa verbalmente il giorno prima ad un altro, per rubargli l’opzione arrivò ad offrirci quaranta milioni di lire più del prezzo di listino e quando gli dicemmo 217

di no ci offrì la stessa cifra se gli avessimo consegnato quanto prima una delle macchine che utilizzavamo per il confezionamento per conto terzi; anche se usata! Tre uomini di marketing della Danone poi, stanchi di aspettare di poterci incontrare, si addattarono a farlo a tarda sera in una saletta dell’aeroporto CDG di Parigi mentre ero in transito per andare non ricordo dove!

Per non farci poi mancare nulla, i primi di luglio consegnammo in perfetto orario ad una stupita Lever la TR/GF perfettamente funzionante che produceva splendidi flaconi/blister; Traldi, soddisfatto e appagato dal risultato del suo lavoro, cominciò a lavorare con i tecnici della Montedison e con i nostri sub-fornitori alla definizione delle caratteristiche ottimali che il film di polipropilene avrebbe dovuto avere per essere “macchinabile” e alle modifiche da fare a stampi e trancianti; e, non ci crederete, grazie quasi certamente alle diverse abilità del nostro Sala Ones, vendemmo anche l’insacchettatrice Sacpack che giaceva dimenticata da tutti, coperta di polvere e nascosta da una miriade di cartoni e altre cianfrusaglie, in fondo al magazzino.

Fu una vicenda davvero curiosa quella vendita: se ricordate avevamo assunto Ones per aiutare Luciano Tabaroni poco prima del trasloco da Spilamberto a San Prospero e ne eravamo stati molto soddisfatti. Si era infatti rivelato un’ottimo tecnico polivalente e agli inizi di febbraio lo avevamo inviato per un intervento di assistenza tecnica in Polonia, presso un cliente che aveva acquistato anni prima un’insacchettatrice Sacpack. Un intervento dal quale Ones era tornato a dir poco entusiasta e che era stato certamente un successo, visto che ci era stato completamente saldato solo dopo pochi giorni; ma non ci eravamo certo aspettati potesse generare l’ordine di una nuova macchina, onestamente ormai obsoleta tecnicamente. Solo quando qualche mese più tardi andai in Polonia invitato ad assistere al collaudo scoprii l’arcano: Ones non era stato abile solo a riparare la vecchia macchina, ma evidentemente a fare anche altro; dagli atteggiamenti era fin troppo evidente che era l’amante della bionda e formosa direttrice dello stabilimento.

Divagazione sulle prestazioni di Ones a parte, quell’agosto andammo in ferie sorpresi tutti da inaspettati e generosi aumenti di stipendio, e io, credo, vi andai più soddisfatto di tutti. Vivaldo aveva continuato a non mettere il becco in nessun modo nel mio lavoro lasciandomi completamente libero di fare quello che ritenevo giusto chiedendomi solo, quando si era fatto vedere - sempre molto di rado e per poco tempo - come andassero le cose, quali fossero i clienti attesi in visita e i programmi di viaggio miei e di Rossella. Con gli altri membri della famiglia Bartoli e con Aguzzoli poi, praticamente non avevo avuto contatti; anche se sapevo da Bulgarelli, Cagnolati e Benuzzi che Aguzzoli e Andrea Bartoli si erano fatti vedere di tanto in tanto e che si erano comportati nei loro confronti con la stessa discrezione di Vivaldo nei miei.

Al rientro dalle ferie però ci fu la svolta: Vivaldo mi annunciò che Andrea e Alberto avrebbero cominciato a lavorare con noi a tempo pieno e mi chiese di predisporre il loro posto di lavoro. Andrea prese 218

così posto nell’ufficio tecnico a fianco di Traldi assumendo, per fare il primo passo verso la direzione tecnica, la responsabilità del coordinamento del progetto polipropilene per Lever; Alberto, rientrato in Italia dopo uno “stage” alla Tetra-Pak di Chicago e ad un periodo di vacanza in California, si insediò di fianco a Rossella in quello commerciale per imparare a diventarne il direttore; e il mio mestiere divenne quello di affiancarli, o meglio di essere affiancato, per trasmettere loro il mio “illuminato sapere”. Con i ragazzi in azienda anche Vivaldo cominciò a farsi vedere più spesso e per più tempo, mentre sparì completamente Aguzzoli e non si parlò più dell’accordo con la CMAI. Veniva quasi sempre in compagnia di Almut, Vivaldo, e con loro cominciarono a farci visita anche altre persone che mi venivano presentate o come semplici amici curiosi o come collaboratori in altre sue attività. Conobbi così Mariette Aubry; che mi disse di aver ideata per la Bongrain la confezione del Petite Louise e di aver trovato nell’Unifill la tecnologia per realizzarla, indicandoci poi a Vivaldo; Renè Hararì e suo figlio Marc, un vecchio ed elegantissimo parigino in affari con Vivaldo il primo e il suo eccentrico figlio boemien nullafacente il secondo; l’ingegner Piero Arnaldi, ex dirigente dell’Italimpianti di Genova, e la sua assistente Anita Cambiaso, sfegatata tifosa della Sampdoria; il dottor Fiori, noto commercialista di Reggio Emilia che curava gli interessi di Vivaldo in generale; e Antonio Grizzi, il meccanico di fiducia tuttofare che ogni azienda vorrebbe avere al suo servizio.

Dalle domande che alcuni di loro mi facevano era più che evidente che si preparavano, o per lo meno aspiravano, ad affiancare Vivaldo anche in quella nuova iniziativa, ma io, come al solito pieno di autostima, non pensavo nemmeno lontanamente che avrei potuto essere messo da parte nel mio ruolo. Mi sembravano tutte brave persone, ma troppo distanti da me nel mondo dell’imballaggio per potermi anche solo fare ombra. Diverso era invece il ruolo che alcuni di loro avrebbero potuto assumere in produzione e amministrazione, settori nei quali davano l’idea di essere abbastanza preparati.

In quella nuova situazione, come dicevo per niente spiacevole, cominciarono a dipanarsi dunque gli ultimi mesi di quel favoloso 1993, che si rivelarono anch’essi densi di avvenimenti molto importanti. Il più importante, come vedrete in seguito, fu certamente che la Lever mise sul mercato la “nostra” ricarica per lo Svelto Progress. Il prodotto ebbe infatti un immediato successo, che suggerì a noi e Lever di farlo partecipare al concorso per l’ambito “Oscar dell’imballaggio”, attribuito annualmente dall’Istituto Italiano dell’Imballaggio alle confezioni più originali e innovative messe sul mercato. Altri eventi importanti furono la scoperta di avere in Cina un concorrente tanto sfacciato da proporre su depliant distribuiti alle fiere asiatiche una macchina identica di aspetto e forme alla nostra TR-86 definendola addirittura “ Jim-Bao model Unifill TR-86”, e così pirata da venderla nel suo paese ad un sesto del prezzo al quale proponevamo la nostra; l’ingresso nell’UCIMA, l’Unione Costruttori Italiani Macchine Automatiche; l’intuizione che ebbe Rossella di inserire nei blister uno “stecchino” prima di dosare il 219

prodotto, cosa che ci fece pensare ad applicazioni potenzialmente interessanti alle quali non avevamo mai pensato; e infine l’esperienza e la cultura che grazie alla Lever e alla Montedison, ci facemmo per determinare le caratteristiche ottimali del polipropilene da utilizzare sulla TR/GF: un’esperienza impagabile quest’ultima, che ci fece imparare un sacco di cose sui materiali disponibili e su quelli in fase di sviluppo, ma soprattutto perché ci mise in contatto con quelli che idealmente sarebbero stati il futuro.

Nel corso di quelle ricerche, nelle quali mi impegnai direttamente al fianco di Andrea, contattai la divisione Mater B della Montedison, detentrice di brevetti e conoscenze tecniche di prim’ordine su materiali biodegradabili a base di amido di mais, caduta in disgrazia dopo la morte di Gardini che l’aveva con lungimiranza creata; contattai anche una piccola azienda di Altopascio, in provincia di Lucca, la Idroplast, che produceva sacchi per rifiuti ospedalieri idrosolubili in PVOH. Si trattava di due realtà entrambe in difficoltà, che scoprii in vendita per cifre davvero più che ragionevoli e che suggerii convinto a Vivaldo. Ma dopo una prima fase di grande entusiasmo e alcuni incontri promettenti, Vivaldo si raffreddò, e entrambe le iniziative vennero purtroppo lasciate perdere.

Per me personalmente l’evento più significativo e premiante di quel periodo fu naturalmente la conclusione positiva del progetto Lever, ma devo ammettere che anche l’ingresso in UCIMA, mi fece molto piacere. Il dottor De Martis, che ne era presidente, nonostante la mia uscita dall’ACMA non gli fosse certo piaciuta, nel citare il mio nome come rappresentante ufficiale dell’Unifill all’interno dell’associazione nella lettera di presentazione che inviò a tutti gli altri associati, vi aggiunse a fianco ”personaggio di spicco del packaging bolognese”; un altro bel colpo per la mia vanità. Non mi fece, al contrario, affatto piacere scoprire, andando a Parigi per fare incontrare Mariette Aubry e Cristian Salomon per vedere come potessero collaborare, cosa “fortemente caldeggiata” da Vivaldo, che non avrebbero mai potuto farlo.

Naturalmente, anche in quello scorcio di fine ’93 feci qualche viaggio e viaggetto, ma tutti lampo e senza storie che valga la pena ricordare, mentre invece il ’94 iniziò addirittura con un viaggio attorno al mondo: andai infatti in compagnia di Vivaldo e Almut prima in California, poi in Cina.

In California andammo per sondare il mio vecchio amico Sal Titone sul mercato dei gelati, la prima applicazione che ci era venuta in mente per lo “stecchino” ideato da Rossella. Sal, da qualche anno produceva e vendeva gelati a base di frutta dalle parti di La Habra, vicino a Los Angeles, e si era detto non solo felice di vedermi ma anche disponibile a darci tutte le informazioni e i consigli che gli avremmo richiesto. Provai anch’io, come non mi nascose certo lui, un gran piacere a rivederlo dopo tanti anni, e anche se purtroppo ridimensionò notevolmente il nostro entusiasmo sulle possibilità di mercato della nostra confezione per i gelati, i tre giorni che trascorremmo con lui in una calda atmofera familiare che Vivaldo ed Almut non si erano certo aspettati, ma che gradirono molto, furono comunque belli. E non era calda solo 220

l’atmosfera di cui ci circondò Sal: a Los Angeles faceva infatti un caldo pazzesco; tanto che a pranzo sul mare a Malibù, il dodici di gennaio, nonostante tirasse un po’ di vento, dovemmo toglierci i pullover e restare in maglietta a maniche corte. Per inciso, non so se quel caldo anomalo ne fosse stato o meno un segnale, ma tre giorni dopo la nostra partenza la città fu devastata dal grande terremoto. La solita fortuna ?

In Cina, le cose andarono invece molto diversamente. Grazie a Tony, eravamo riusciti a ottenere un incontro con la Jim-Bao: lo scopo era solo quello di conoscere il “copione” per prenderne le misure ed eventualmente predisporre contromisure per renderlo il meno invadente possibile, ma la cosa si complicò. Nonostante l’aspetto della fabbrica - una ex azienda statale nata per l’industria meccanica pesante e riconvertita fortunosamente e malamente per fare macchine per il packaging - e le caratteristiche a dir poco arcaiche della loro TR-86 mi avessero fatto subito escludere che Jim - Bao potesse essere o diventare a breve un concorrente serio, Vivaldo si innamorò della prospettiva fattagli balenare dalla direttrice della fabbrica di creare una “Unifill Cina”. Pur con il mio parere contrario e forti riserve da parte di Tony, demmo così inizio a una trattativa per formare una joint - venture, una trattativa che per inciso durò un anno e sulla quale tornerò più avanti per dirvi come andò a finire.

Entrambe quelle visite non furono dunque un gran che dal punto di vista risultati per l’azienda, ma se non altro lo stare tante ore insieme a Vivaldo, specie in volo, ci permise di conoscerci meglio e di tracciare l’immediato futuro dell’azienda: parlammo, non disturbati, a lungo dell’Unifill, delle sue prospettive, e soprattutto del ruolo dei suoi figli. E io gli suggerii che era tempo di accelerare la loro crescita. In quel favorevolissimo momento aziendale, anche qualche errore non ci avrebbe potuto mettere nei guai, gli dissi per convincerlo, e lui mi diede retta. Dal primo di febbraio Andrea divenne ufficialmente il direttore tecnico e Alberto il direttore commerciale, con la supervisione generale del reparto di confezionamento per conto terzi. E io, con il nuovo incarico di “direttore della divisione macchine e strategie generali”, divenni in pratica un tuttofare di alto livello: un incarico di grande prestigio, di poco impegno, e di molte soddisfazioni.

Quel cambio indolore di organigramma coincise con altri due che avvennero più o meno nello stesso periodo, entrambi anch’essi senza effetti sulla vita aziendale: Vivaldo assunse le cariche di presidente e amministratore sostituendo di fatto Bulgarelli; che peraltro ci aveva preannunciato il suo disimpegno per la successiva fine di luglio, e Scandellari se ne andò, forzato da un mobbing esercitato da Vivaldo nei suoi confronti che oggi sarebbe forse da tribunale, sostituito da Bulgarelli con un certo Moreno Monti di sua conoscenza. Un’assunzione, quella di Moreno, che per inciso si è dimostrata letteralmente salvifica per l’Unifill. Dopo una lunga serie di difficoltà prevedibili e di tragedie imprevedibili, ormai sul punto di fallire, l’azienda è stata rilevata da qualche anno, e salvata, da lui e dal commerciale Alberto Ninni, e sembra che se la stia finalmente cavando abbastanza bene.

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Finiti i cambi di organigramma e con le vendite sempre con il vento in poppa, venne la metà di marzo e con essa la conferma ufficiale che ci eramo aggiudicati l’Oscar dell’imballaggio. Fu un giorno molto bello ed emozionante quel 28 di marzo a Milano, quando con al fianco un orgoglioso Andrea, io e l’ingegner Fortini ricevemmo dalle mani del dottor Corbella l’attestato ( pagina 279 ), e per l’Unifill fu l’inizio di una specie di apoteosi mediatica che durò per alcune settimane. Bellissime foto del flacone/blister e articoli che ne descrivevano le caratteristiche apparvero su tutte le riviste di packaging del mondo e anche su diversi quotidiani nazionali, fra i quali il Sole 24 ore, regalandoci una fama e una visibilità fra tutti o quasi gli “addetti ai lavori” e non solo, che nessun altro evento o mezzo avrebbe mai potuto darci. Una visibilità che, aiutata dall’uscita sul mercato i primi di aprile dei primi perfetti flaconi/blister in polipropilene indusse la Nestlè, la Procter & Gamble e la svizzera Migros a rompere gli indugi.

La prima a farlo fu la Nestlè, che a metà aprile ci invitò a Vevey per parlarci di acqua minerale: una vera sorpresa, in quanto nessuno di noi sapeva che la Nestlè fosse un leader mondiale in quel mercato. I nostri flaconi/blister non richiudibili, ci dissero, forse potevano risolvere un grave problema che incontravano in India e in generale in tutti i paesi nei quali le reti di distribuzione di acqua potabile erano carenti, se non inesistenti, e che erano, loro malgrado, enormi consumatori di bottigliette. Quello della contraffazione: le bottigliette vuote venivano raccolte, lavate, riempite con acqua quasi mai buona, rietichettate con il suo marchio contraffatto e chiuse con tappi facilmente reperibili in tutto identici agli originali. Era un’azione che provocava guai spesso seri ai consumatori e il marchio ne era fortemente danneggiato. Non c’erano problemi da parte nostra a risolvere quel problema, ma dopo una seconda visita a Vevey e un paio di loro visite a San Prospero per approfondire nei dettagli il progetto, la Nestlè decise di rinunciarvi per una ragione molto logica e condivisibile, ma anche altrettanto preoccupante per il futuro del nostro contenitore nel settore dei “bevibili per strada”: anche se in verità a quel settore non avevamo neppure pensato.

Pur riconoscendo che la nostra tecnologia compatta e necessitante del solo approvvigionamento di bobine di film ed etichette era ideale per produrre in luoghi privi di vie di comunicazione decenti, e anche poco costosa, aveva però il non piccolo svantaggio della scarsa produttività oraria, e soprattutto i nostri flaconi/blister potevano ferire le labbra dei consumatori. In corrispondenza del collo i bordi delle saldature erano un po’ taglienti e nei paesi tropicali, anche le infezioni da micro ferite erano un problema serio, più serio delle coliti! Di quelle visite alla sede centrale della Nestlè ricordo comunque con piacere gli splendidi giardini che la circondavano degradanti fino alla sponda del lago popolato da cigni bianchi e neri, le due o tre gigantesche sequoie che vi troneggiavano e la mensa per dirigenti, elegantissima, dove Gerard Prè, nostro squisito principale interlocutore, ci fece assaggiare vini d’annata e formaggi rari.

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Più o meno contemporaneamente al discorso con la Nestlè, la P & G ci informò che il suo interesse era invece, come per la Lever, sulle ricariche. La mia impressione però - conoscevo bene la P & G e alcuni degli interlocutori in quella occasione - era che non avesse in realtà un obbiettivo preciso, ma che volesse solo saperne di più e non restare fuori dal gioco nel caso in cui quel tipo di contenitore si fosse davvero affermato sul mercato. Dopo un paio di incontri, uno a Cincinnati e uno in Unifill, verso la fine di maggio la P & G ci ordinò comunque duecento milioni di lire di stampi di formatura per testare quattro differenti sagome di contenitori per volumi variabili da 250 a 500 ml.

Mentre parlavamo con Nestlè e P & G, Lever aveva finito le scorte del brillante PET-nylon-PE, e sugli scaffali dei supermercati i clienti cominciarono a trovare solo gli opachi flaconi/blister in polipropilene, che, anche se accompagnati da un battage pubblicitario che ne incensava le doti verdi, non incontravano lo stesso gradimento dei precedenti. E da best-seller, come era stata accolta all’esordio, la nostra ricarica divenne solo una alternativa alle buste. Un fatto che ovviamente deluse sia noi che la Lever e che dispiacque anche a me, che pure non avevo creduto del tutto fino dall’inizio a quel flacone/blister. Ma se quella ricarica opaca aveva smorzato l’interesse degli “esteti” consumatori italiani dei prodotti Lever, fece un effetto opposto sugli “ecologici” dirigenti della catena distributiva Migros, che fino a quel momento si erano limitati a richieste di informazioni, anche se sempre più dettagliate, sulla nostra tecnologia.

Verso metà maggio ci chiesero improvvisamente di poter venire a San Prospero: noi accettammo, e avemmo una sorpresa che ci fece riprendere a sperare che il nostro flacone/blister non fosse poi da buttar via. Gli uomini Migros si presentarono infatti dicendoci apertamente che “volevano” mettere sul mercato un “flacone primario” fatto in polipropilene con la nostra tecnologia. Ne avevano già definito caratteristiche dimensionali e di forma - avevano con loro il disegno - e ci posero un solo quesito: trovare un sistema “ecologicamente minimale” che permettesse al consumatore, nel caso ribaltasse il flacone, di raddrizzarlo prima che il contenuto fuoriuscisse. E lì mi esibii davvero bene: mentre discutevamo ponendo in campo le ipotesi più diverse, come faccio sempre mi misi a fare schizzi sul blocco che avevo davanti e ad un certo punto mi convinsi di aver fatto centro.

Rifeci in un unico foglio gli schizzi definendoli meglio, uscii dalla sala riunioni, ne feci alcune copie, rientrai, le distribuii a tutti, e spiegandoli a voce in dettaglio lasciai tutti a bocca aperta.

Le idee che mi erano venute erano in effetti banali, ma devo dire senza falsa modestia, davvero geniali: avevo pensato di fare al foro di uscita, con gli stampi della saldatura finale, una doppia strozzatura che generava nella parte alta del collo due piccolissime fessure ellittiche separate da una camera che manteneva le dimensioni originali. In caso di ribaltamento, il liquido avrebbe impiegato alcuni secondi ad uscire dalla fessura più bassa e riempire la camera intermedia prima di uscire dalla fessura più alta; dando quindi ai consumatori il tempo per radrizzarlo senza danni. Ma non solo! Schiacciando il contenitore quel 223

forellino sarebbe diventato un erogatore a spruzzo a costo zero, ed infine, applicandogli al collo a mò di cravatta un collarino munito di un microscopico tappino a forma di ellisse avrebbe potuto essere chiuso, anche se non a tenuta stagna. Come dicevo gli uomini della Migros rimasero a bocca aperta, ma fecero rimanere a bocca aperta anche noi: ci preannunciarono infatti l’ordine per ben due macchine se quanto avevo loro mostrato si fosse rivelato realizzabile. Li salutammo con l’impegno di produrre in un paio di settimane uno stampo dimostrativo su una TR-86 e con nel cuore la rinnovata speranza in un possibile onorevole, anche se non esaltante, avvenire per la nostra TR/GF. Lo stampo di prova dimostrò la realizzabilità delle mie intuizioni, e i primi di giugno la Migros ci ordinò come promesso due macchine identiche.

Quell’ordine fu ovviamente un fatto importantissimo, ma quel mese di giugno era destinato a passare nella storia dell’Unifill per un evento ancora più speciale, per non dire cruciale: una settimana circa dopo aver avuto l’ordine Migros, Vivaldo arrivò con un’aria più pimpante del solito, mi si sedette di fronte, e come se niente fosse mi informò che la sera dopo eravamo invitati a cena a Oslo dall’alta dirigenza del gruppo norvegese Elopak per discutere di un eventuale accordo di collaborazione. L’incontro, concluse alzandosi, gli era stato procurato da un suo amico che dirigeva a Milano la filiale italiana, un certo Carlo Pedrazzi, ed era importantissimo che io vi prendessi parte. Poi se ne uscì.

Rimasto solo, frastornato, e un po’ indispettito per non essere stato consultato su quell’iniziativa, chiamai Debora per le prenotazioni e i biglietti aerei, ma lei mi disse di aver appena avute istruzioni da Almut, e quindi, tranquillo da quel lato, mi misi a pensare alla faccenda, che mi apparve subito “buona”. Era da un po’ di tempo che anch’io pensavo che un’alleanza con qualcuno di “grosso e strutturato” fosse ormai necessaria per l’Unifill, e anche se sapevo molto poco della Elopak, sapevo che si trattava della seconda azienda al mondo produttrice di macchine e imballaggi in cartoncino poliaccopiato per latte e succhi di frutta, e che di certo per esserlo doveva avere una struttura organizzativa, produttiva e soprattutto commerciale di tutto rispetto, che avrebbe potuto certamente aiutarci. Inoltre Bulgarelli stava per andarsene; senza di lui i contrasti fra Cagnolati, Benuzzi, Monti e gli “amici” di Vivaldo sempre più invadenti nei loro confronti avrebbero potuto esplodere lasciandoci senza i primi e con i secondi non ancora capaci di sostituirli efficacemente; e l’aiuto di una grande struttura commerciale avrebbe certo aiutato Rossella e Alberto nel loro lavoro.

Così, in una di quelle sere di metà giugno nelle quali da quelle parti il sole non se ne va mai a dormire, mi trovai con Vivaldo e Almut a cena in un ristorantino fuori Oslo, ospiti del signor Andresen: proprietario e presidente del gruppo Tiedemanns, a quel tempo il più vecchio, potente e diversificato gruppo industriale e finanziario del paese. Con lui c’erano alcuni alti dirigenti del gruppo, fra i quali il presidente della Elopak, Storm e Carlo Pedrazzi, che mi aiutò facendo da interprete, e fu davvero una bella serata, allegra e distesa; nonostante fossimo tutti o quasi perfetti sconosciuti e con notevoli problemi di comunicazione. E 224

devo dire che fu “la mia serata”: non lo feci di proposito e non me ne voglio fare un vanto particolare, ma stimolato dall’uno e dall’altro parlai tutta la sera con entusiasmo dell’Unifill e delle a mio avviso ottime prospettive; senza nascondere gli insuccessi di mercato avuti dalla Lever con le ricariche e le ragioni che avevano indotto la Nestlè a rinunciare alla nostra tecnologia per l’acqua, ma preannuciando il successo ormai quasi certo con Migros. Poi, all’una di notte ma con il sole ancora all’orizzonte, andammo a dormire.

Quella notte, nonostante il sole, grazie alle abbondanti libagioni mi addormentai di colpo soddisfatto, ma il giorno dopo, durante il volo di ritorno che feci da solo, ripensando con più lucidità ai discorsi peraltro poco chiari di alcuni dei dirigenti della Elopak, la soddisfazione che avevo provato la sera prima pensando di aver fatto una buona opera di convincimento svanì. Più pensavo a quello che avevo sentito e più mi convincevo che quello non era affatto il nostro alleato ideale. Certo poteva darci tutto quello che ci serviva sotto il profilo dell’affidabilita verso i clienti, della gestione industriale e amministrativa, e del supporto finanziario; ma niente sotto il profilo dell’innovazione tecnologica e ben poco, per lo meno per un bel po’ di tempo, sotto il profilo commerciale.

Da quanto avevo capito, la sua struttura commerciale, pur ben organizzata e presente in ogni parte del mondo era basata su uomini orientati esclusivamente a vendere imballaggi; su questi facevano profitti, e la vendita delle macchine, che erano fra l’altro costruite su licenza o comprate da costruttori diversi, era solo un “veicolo” per fidelizzare i clienti all’acquisto degli imballaggi; e anche se non dava profitti, nessuno se ne dispiaceva. Tutta un’altra filosofia di vendita rispetto quindi alla nostra, nella quale il segreto non era nemmeno vendere la tecnologia ma ogni volta inventarsi o stimolare il cliente ad inventare egli stesso una nuova confezione per un vecchio prodotto, oppure un nuovo prodotto confezionabile con la nostra tecnologia. Il nostro era un lavoro di grande fantasia che non mi sembrava potesse essere prerogativa di venditori che si erano adattati a vendere imballaggi battagliando solo su prezzi, tempi di consegna e sconti sulle quantità, senza quasi occuparsi della tecnologia e delle caratteristiche delle macchine e pronti quasi a regalarle. E quei miei semplici ragionamenti non potevo averli fatti solo io.

La Elopak non poteva essere così ingenua da non sapere che il suo apparato commerciale era ben poco adatto a promuovere le nostre monodosi e macchine, e non poteva nemmeno pensare seriamente che i nostri flaconi/blister avrebbero potuto infastidire i loro “cartoni” da indurla ad un accordo cautelativo. Mentre atterravo a Linate mi ero del tutto convinto che i norvegegesi vedevano nell’Unifill solo un buon investimento redditizio che non avrebbe dato problemi e al quale dedicare solo marginalmente un po’ di impegno commerciale per svilupparlo: convinzione fra l’altro sostenuta dall’impressione che avevo avuto, captando frasi dei commensali forse troppo convinti del mio “scarso inglese”, che non fosse stato Vivaldo a cercare quel contatto, ma il contrario. Ma forse era un’impressione sbagliata.

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Comunque, la cosa grave era che se il mio ragionamento era giusto quello non era certo “lo spirito” che ci serviva in un alleato. Quei dubbi e quelle domande mi girarono per la testa per qualche giorno, ed arrivai ad augurarmi di non essere stato troppo ”bravo” quella sera ad Oslo: invece, purtroppo, o lo ero stato o la mia impressione su chi avesse preso l’iniziativa era giusta e qualunque cosa avessi detto le cose sarebbero andate comunque come andarono.

Verso la fine di giugno Vivaldo mi annunciò raggiante che la Elopak gli aveva ufficialmente richiesto di iniziare a discutere per formare una joint - venture, e che lui aveva risposto positivamente. Non gli dissi nulla delle considerazioni che avevo fatto sulla validità di quella società come partner, né tanto meno gli accennai dei dubbi che mi erano venuti su chi avesse in verità promosso quell’iniziativa: primo perché le mie considerazioni potevano essere benissimo del tutto sbagliate e secondo perché se le cose erano andate come pensavo, lui non me lo avrebbe certo detto. Mi limitai quindi a congratularmi e a confermargli che poteva contare su di me per assisterlo nell’operazione. E doveva essere un’operazione alla quale teneva davvero molto visto come cambiò atteggiamento e fece cambiare quello dei suoi amici, nei confronti di Cagnolati e Benuzzi. Fin dal giorno dopo, forse rendendosi conto che un eventule fuga repentina di quei due avrebbe potuto pregiudicare l’andamento aziendale mettendo dubbi alla Elopak sulla convenienza dell’operazione, smise di “taraghignare” con loro come faceva da tempo un giorno sì e l’altro pure, e i suoi amici consulenti smisero di dare consigli non richiesti.

Oltre a quell’evento fondamentale per il suo futuro, da li alla chiusura per le ferie d’agosto all’Unifill successero altre cose importanti. Verso il dieci di luglio raggiungemmo l’accordo per l’acquisizione della CNC, un’operazione da me fortemente caldeggiata, che ci diede il controllo di stampi e trancianti, e verso il quindici Cagnolati iniziò a spostare in un capannone a Sozzigalli - un paesino a dieci chilometri da San Prospero l’assemblaggio delle macchine, dando così spazio a San Prospero al sempre più invadente confezionamento per conto terzi. Verso il venti, inoltre, la Lever, influenzata dalla scelta di Migros, ci fece la sorpresa di chiederci aiuto per trasformare il flacone/blister da ricarica a flacone primario. Ma non con un “quasi tappo” come quello che mi ero inventato per gli svizzeri, peraltro da noi brevettato e quindi disponibile per qualsiasi nostro cliente, ma con uno “serio” che sarebbe stato realizzato da un loro fornitore di fiducia.

Un’idea sinceramente assurda dal punto di vista tecnologico, difficilissima da realizzare, e che nel migliore dei casi avrebbe comunque reso il flacone ottenuto molto piu difficile da utilizzare da parte degli improbabili consumatori e sicuramente molto più costoso dei flaconi con tappo tradizionale. Ma i ricchi centri di ricerca delle multinazionali spesso fanno cose folli che qualche volta però si trasformano in innovazioni planetarie; e anche se quell’idea non aveva certo i presupposti per diventare una di quelle, non potemmo che aderire alla richiesta e qualche giorno prima della chiusura per le ferie andai a Dueville, un paesino dalle parti di Vicenza, a prendere contatto 226

con la Taplast. Poi il mese finì e con lui la permanenza di Bulgarelli in Unifill.

Lo salutammo, e credo davvero tutti, i Bartoli compresi, con tristezza, emozione e gratitudine: quell’uomo ci lasciava una società che in soli due anni aveva portato “dalle stalle alle stelle” e tutti eravamo consci che con ben pochi altri capi avremmo potuto fare quello che avevamo fatto. A me, personalmente, quando mi strinse la mano per ringraziarmi pubblicamente a sua volta dandomi meriti che non avevo, venne un groppo alla gola che mi impedì di parlare e forse mi si innumidirono, come a lui, anche gli occhi. Forse pensava come me che la sfida comunque l’avevamo vinta; eccome!

Dopo le ferie, in attesa di iniziare a parlare con la Elopak, tornai un paio di volte alla Taplast per discutere alcune possibili soluzioni di tappi, e purtroppo “chiusi”, come del resto mi ero aspettato, il discorso flaconi/blister con la P & G. Nonostante i contenitori che riuscimmo a produrre con gli stampi che ci avevano commissionato fossero risultati davvero molto belli e performanti, nella riunione che facemmo subito dopo le prove la P & G ci disse che per il momento le cose finivano li. Un epilogo spiacevole, certo, per l’Unifill, che a me aveva comunque permesso di rivedere il mio vecchio amico Ted Hammond, per l’ultima volta, e di ammirarare la nuova splendida sede del centro tecnico di Cincinnati. Edifici armoniosi tutti di vetro, circondati da prati verdi perfettamente rasati attraversati da percorsi pedonali in granito grezzo e da laghetti di acqua trasparente pieni di pesci variopinti. Come a Vevey certo un bel posto dove lavorare!

Digerita abbastanza bene e rapidamente quella delusione, verso il dieci di settembre volai con Vivaldo a Zurigo dove, con due norvegesi, in un hotel nei pressi dell’aeroporto, concordammo un primo calendario di incontri. Poi, visto che il primo di questi sarebbe avvenuto dopo una quindicina di giorni sempre lì, decisi di dedicarmi alla Taplast e al tappo serio per la Lever: un esercizio che sapevo senza speranza, ma che si rivelò un’esperienza interessante e formativa. Alla Taplast trovai infatti persone giovani, simpatiche e molto preparate, e stare in loro compagnia fu oltre che piacevole molto istruttivo. Tappo per Lever a parte, per il quale non trovammo soluzioni decenti, in pochi giorni imparai quasi tutto quello che mi interessava sapere sui tappi in generale, sulle pompette e sugli erogatori a spruzzo. Fu quindi un periodo disteso e rilassante, disturbato solo da una scoperta del nostro ufficio brevetti che mi sorprese e preoccupò un poco, e da una inaspettata boutade di Vivaldo.

La scoperta dell’ufficio brevetti, avvenuta nell’ambito delle ricerche per l’estensione all’estero del brevetto del flacone/blister, fu in effetti una sorpresa totale: secondo quelle ricerche, il nostro contenitore che si era meritato l’Oscar per la sua novità, una novità non lo era per niente.

L’aveva già realizzato, molti anni prima, una piccola azienda svizzera; l’aveva brevettato, aveva costruito una macchina semi automatica per ottenerlo, riempirlo e chiuderlo, e ne aveva vendute alcune in paesi del nord africa a piccoli produttori di olii alimentari; poi aveva smesso di fare le macchine e lasciato decadere i brevetti dedicandosi ad altro. Una 227

notizia buona per il nostro brevetto che quindi era valido, ma anche preoccupante visto lo scarso interesse che quel contenitore doveva avere suscitato. La boutade di Vivaldo fu invece un vero fulmine a ciel sereno: proprio in coda alla riunione convocata per esaminare le implicazioni della scoperta dell’ufficio brevetti, come se niente fosse ci comunicò candidamente che voleva fosse aperta al più presto una sede a Parigi per produrre blister per conto terzi; che voleva iniziassimo subito gli studi per realizzare una macchina in grado di fare bottiglie/blister in grado di contenere due litri di acqua; e che era di “vitale importanza” partecipare, alla fine di novembre, ad una fiera in Brasile di cui nessuno di noi aveva mai sentito parlare.

Pur se increduli per quella sequela di iniziative di cui non ci aveva mai fatto cenno prima, sia io che Alberto e Rossella accogliemmo con entusiasmo l’idea dell’“Unifill Francia”: era da tempo infatti che L’Oréal, divenuto uno dei nostri più importanti clienti e con la quale stavamo fra l’altro discutendo seriamente per produrre sapone solido e ricariche per quello liquido, ci sollecitava ad aprire una succursale di produzione per conto terzi vicino a lei, ma il mio entusiasmo crollò quando andando nei dettagli Vivaldo ci annunciò che a condurre quella “succursale strategica” sarebbero stati Mariette Aubry e Marc Harari.

Mariette infatti poteva essere brava a ideare imballaggi, ma non mi aveva fatto una grande impressione come “conduttrice di aziende”; quanto a Marc, poi, sapevo solo che era un gran filosofo e un ancor più un grande “filone”! Comunque, siccome mi era parso di leggere nelle parole di Vivaldo che con quell’incarico intendesse pagare un qualche debito a Mariette e al padre di Marc, mi astenni dal fare qualsiasi obbiezione pensando che ci avrei pensato io a far rigar dritto quei due, e che in ogni caso un gran danno non lo avrebbero potuto fare.

Di obiezioni invece, non ne feci solo io, ma tutti, e in particolare Andrea, al progetto TR/GF-2000 ( Vivaldo aveva gia anche scelto il nome della nuova macchina) specie dopo aver saputo nel proseguo della discussione che non appena avessimo avuto pronti i disegni - da fare il più rapidamente possibile - avremmo dovuto metterne in costruzione ben cinque! Una roba assurda comunque, ma soprattutto dopo le delusioni provate fino a quel momento con la TR/GF. Per cercare quindi di dissuaderlo facemmo fronte comune; io e Andrea in particolare, puntammo sui fattori tecnici che sconsigliavano quel progetto. Gli spiegammo nei dettagli che anche se fossimo stati capaci di farle, bottiglie del genere - si trattava in verità solo di fare una TR/GF un po’ più grande - queste non sarebbero mai potute stare in piedi a causa della inevitabile debolezza che il loro fondo avrebbe avuto. Ma Vivaldo fu irremovibile: ci “ordinò” di procedere, e per dare poi più peso e giustificare quella iniziativa disse che molto probabilmente lui sarebbe stato il primo ad acquistare due di quelle macchine in quanto intendeva lanciarsi nella produzione di acque minerali introducendo quella nuova confezione.

All’ordine di partecipare alla “fiera internazionale di Sao Josè do Rio Preto”, reagimmo invece con una corale risata che lasciò Vivaldo a bocca aperta. Avevamo infatti tutti e tre pensato ad una burla escogitata 228

per tirarci su di morale dopo le reazioni non certo entusiaste che gli avevamo manifestato per la TR/GF-2000, visto che di quella fiera nessuno di noi sapeva l’esistenza. Ma Vivaldo non aveva scherzato.

Dopo averci lasciato ridere per un po’, ci guardò con aria seria, ci “invitò” a fare quanto quanto necessario per essere presenti laggiù con una TR - 86, e chiuse la riunione affidando a me, presumibilmente molto impegnato con la Elopak, il compito di creare con l’aiuto di Arnaldi e Fiori l’Unifill Francia, di avviarla e di diventarne amministratore delegato; ad Andrea affidò quello di realizzare la TR/GF- 2000, e ad Alberto e Rossella quello di fare quanto necessario per partecipare a quella sconosciuta fiera in Brasile.

Verso la fine di settembre cominciai quindi un andirivieni bisettimanale con Zurigo e Parigi per discutere in un posto con i dirigenti Elopak e nell’altro per “imbastire” l’Unifill Francia. Cercando di alternare una settimana in un posto e l’altra nell’altro. A volte viaggiavo solo, altre in compagnia o di Vivaldo o di Fiori o di Arnaldi, altre in compagnia di due di loro o di tutti e tre. Qualche volta dovevo fermarmi una notte o due fuori, ma spesso facevo andata e ritorno nello stesso giorno. Un lavoro impegnativo, certo, ma che su Parigi si rivelò molto più piacevole di quanto avessi immaginato. Lavoro a parte, mi ero immaginato di passare piacevoli momenti e serate in compagnia di Cristian in quella città che adoravo, ma non avrei mai immaginato di farlo anche con un vecchio amico dei tempi del Pavaglione e di Zanarini che avevo perso nel tempo: Daniele Borgomanero.

Daniele in quel periodo si occupava di un’iniziativa in Francia della “Perla”, azienda nella quale la sua famiglia era socia con l’altro imprenditore bolognese Masotti, e praticamente viveva a Parigi dal lunedi al venerdi. Ci trovammo casualmente in aereo, e sapute le ragioni dell’uno e dell’altro per stare a Parigi decidemmo di tenerci in contatto per fare coincidere la nostra permanenza lassù e tornare idealmente indietro trentanni; anche se in un altro scenario e con qualche capello bianco in più. Uno scenario però non certo peggiore di quello di allora: Daniele a Parigi, scoprii, era “sistemato” infatti pittosto bene. Viveva in un appartamento di cinque stanze in place Vendòme, di fronte al Ritz, andava in giro su una Rolls Royce verde con il tetto in vinile nero targata BO 777777, e prendeva l’aperitivo al famoso Caffè des Artistes in avenue Montaigne, di fronte al Plaza Athenee, a due passi dalla torre Eiffel. Un ambiente, credetemi, per niente spiacevole da frequentare.

Come accennavo, Elopak e Unifill Francia mi impegnavano uno o al massimo due giorni la settimana, e avevo quindi tempo di fare un sacco di altre cose, alcune anche molto interessanti, se non proprio produttive. Con Vivaldo visitai “due fonti” di acqua minerale; una nei pressi del bacino di Suviana che risultò essere di portata troppo scarsa, e l’altra invece nel parmense; di portata adeguata, ma i cui proprietari ci dissero fin da subito, per fortuna, che non avevano nessuna intenzione di vendere né tantomeno di sperimentare nuovi tipi di bottiglie. Sempre nell’ambito del progetto “acqua minerale” andammo a cena un paio di volte con potenziali altri soci, fra i quali il simpaticissimo e gioviale Giovanni Tanzi, fratello e braccio destro tecnico del più tristemente 229

noto Callisto della Parmalat. Poi l’interesse di Vivaldo per l’acqua, si spense, ma purtroppo non quello per per il progetto TR/GF- 2000. Feci anche un’altra cosa per lui in quel periodo, “molto segreta”. I primi di ottobre feci fare prove di termoformatura per la Tetra Pak con un film da lei realizzato composto per il 70% da gesso e solo per il rimanente 30 da plastica. Furono prove che, devo dire, diedero un risultato incredibile. Senza cambiare sulla TR/GF predisposta per polipropilene destinata a Migros, nessun parametro di temperatura o pressione, facemmo splendidi contenitori “in gesso”. Gli uomini Tetra li presero tutti, raccolsero dal pavimento ogni più piccolo frammento del loro materiale, caricarono ogni cosa sul furgone con il quale erano venuti e sparirono. E non ne seppi più niente.

Sempre in ottobre, verso il dieci del mese, credo, d’accordo con la Lever e la Taplast, abbandonammo il progetto “tappo serio” per manifesta impossibilità di fare qualcosa di decente ad un costo accettabile. Una fine che avevo previsto, che comunque era stata un’esperienza interessante e che mi regalò l’amicizia e credo la stima, del resto contraccambiata, della famiglia Santagiuliana, ed in particolare di Paolo, il figlio del fondatore a quei tempi ancora in apprendistato.

Un’amicizia e una stima che mi ha consentito di seguirlo negli anni e vederlo crescere con la sua azienda che oggi guida con capacità e successo. E chiuso anche l’argomento “tappo serio”, verso la metà di ottobre partii per un lungo viaggio che mi portò prima in India poi in Cina.

-------------------- o -------------------Alla fiera di Dusseldorf avevamo ricevuto molti visitatori indiani, alcuni anche abbastanza interessanti, ma eravamo presi dalla frenesia di portare a casa risultati concreti il più velocemente possibile, e li avevamo sinceramente un po’ “snobbati”, se non proprio ignorati e un po’ dimenticati dopo. Tre di loro però, Barat Patel, presidente della Multipack di Mumbai, Ambrish Bhargava, presidente della Rollatainers di Faridabad, e Piruz Khambatta, presidente della Rasna di Ahmedabad, non si erano scoraggiati e visto che nonstante molti solleciti non ci decidevamo ad andarli a trovare, erano venuti loro da noi. I primi due si erano proposti come agenti e anche come potenziali partner in eventuali iniziative produttive, Mentre Piruz, un giovane piuttosto singolare ma a capo di una delle più grosse conglomerate del paese, era venuto perché aveva visto nel nostro flacone/blister, come la Nestlè, una possibile soluzione al problema di contraffazione che affliggeva anche le bottigliette dei suoi succhi di frutta. I due potenziali agenti/partner ci erano sembrati motivati e in gamba e l’interesse di Pirutz sembrava essere una nuova oppotunità per la nostra TR/GF, anche se il problema dei possibili tagli alle labbra non ci lasciava molte speranze, e quindi avevo deciso che valeva la pena di andare a vedere sul posto se c’era la possibilità di concretizzare qualcosa.

A dir la verità, ero anche molto curioso di andare finalmente a vederla con un po’ di calma, l’India - nelle due toccate e fughe fatte ai 230

tempi dell’ACMA avevo visto in pratica solo uffici e aeroporti - una curiosità che scoprii avevano anche Vivaldo e Almut, che non vi erano mai stati, ma che avevano paura di farlo da soli. Così dopo aver trovato il modo di unire il dilettevole all’utile concordando con i nostri legali di Hong-Kong e con la direttrice della Jim-Bao di vederci a Pechino, con l’intento, da parte nostra, di chiudere quella trattativa che ci aveva fatto solo perdere tempo e danaro, partimmo, portando inoltre con noi, come osservatore della Elopak, Carlo Pedrazzi.

Non c’è gran che da dire, sotto l’aspetto lavoro, di quel viaggio in India. Scoprimmo infatti che Ambrish e Barat avevano obbiettivi distanti dalle nostre aspettative, e Pirutz, che non potemmo fare a meno di informare delle remore della Nestlè verso il nostro contenitore, decise di rinunciare anche lui all’idea. Furono comunque tutti interlocutori interessanti, fra l’altro, a sorpresa, a capo di aziende gigantesche, e soprattutto ospiti squisiti, in particolare Barat Patel, che nei due giorni che passammo con lui a Mumbai, esagerò. Ci ospitò infatti a casa sua per un paio di volte per il thè, ci fece visitare alcuni luoghi di Mumbai inaccessibili a normali turisti, aiutò Vivaldo nell’acquisto di un bellissimo rubino e ci invitò con la sua splendida moglie Bina, all’unica cena con cibi occidentali all’hotel Oberoi ( con il Taj Mahal divenuto di recente famoso per i sanguinosi attentati subiti ). Ho un altro ricordo di lavoro di quei giorni, del tutto personale. Il disagio che provai vedendo Almut interloquire con i nostri educatissimi ospiti con il suo approccio arrogante e ignorante che poteva causare solo guai, e la piacevole sorpresa, invece di scoprire che Vivaldo era un “animale commerciale” quasi perfetto. Pur “parlando” solo un po’ di francese e poche parole di inglese, interveniva facendosi comunque capire bene, e quando poi, con i modi e l’espressione di un consumato prestigiatore, estraeva dalla scatola da scarpe che portava con se in una “sportina“ di plastica da supermercato, i suoi variopinti e multiformi blister, come se si trattasse di un coniglio da un cilindro, quasi strappava un applauso.

Sotto l’aspetto turistico, ho invece molto più da raccontare. La nostra prima tappa fu Mumbai e fra i ricordi di quel posto non posso non citare che l’alloggiare di fronte alla “Porta dell’India”, nel mitico Taj Mahal Hotel, allora considerato il più lussuoso di quella parte del mondo, fu un’esperienza notevole. Aveva scelto Vivaldo quell’hotel - se avessi viaggiato solo non mi sarebbe nemmeno venuto in mente - perché, ci aveva detto, voleva ripercorrere un soggiorno fattovi da suo padre molto tempo prima; e devo dirvi che la fama di cui godeva era davvero meritata. Da tempo ero abituato ad ottimi hotel, ma in uno lussuoso come quello non c’ero mai entrato. Devo però dire che i ricordi che ho del lusso sfrenato del Taj Mahal sono “niente” rispetto a quelli dei suoi immediati dintorni.

La prima sera, dopo cena, con Vivaldo e Pedrazzi uscimmo a piedi per dare un’occhiata alla zona, ma rientrammo nauseati di corsa dopo solo poche diecine di minuti. Dopo aver ammirato l’imponente Porta dell’India, pensammo di fare un giro anche attorno all’hotel, e quello che vedemmo “ci uccise”. Al buio, sui marciapiedi che circondavano da un lato e sul retro il grande edificio, viveva e “moriva”, lo giuro, una 231

maleodorante, ignuda e disperata moltitudine di esseri umani indistinti, ognuno dei quali, con il danaro che ognuno di noi tre spendeva per una sola notte a dormire, avrebbe potuto certamente vivere tutta la vita dignitosamente! Rimanemmo tutti tre scioccati, ma Vivaldo più di tutti.

Per tutto il resto del soggiorno in India non volle più girare a piedi per non dover assistere, almeno cosi da vicino, disse, a spettacoli del genere. Che non furono rari! Per chiudere comunque con il Taj Mahal, non posso non ricordare il viaggio in auto che feci con Pedrazzi da New Delhi ad Agra per andare a vedere lo splendido mausoleo fatto erigere dall’imperatore Shah Jahan, attorno al 1640, in memoria della moglie preferita Arjumand Banu, dal quale l’hotel aveva preso il nome. Uno dei viaggi in auto certamente più pericolsi della mia vita.

Eravamo appena arrivati a New Delhi, più per turismo che per altro, e leggendo le pubblicità turistiche che avevo trovato in camera, scoprii che il famoso tempio di Agra e l’altrettanto famoso Forte Rosso erano a sole due ore e mezza di treno e pensai che sarebbe stato un peccato non cogliere l’opportunita di andarli a vedere. Vivaldo e Almut, però, forse già un po’ stanchi, decisero che affrontare tre ore sui treni indiani non era il massimo dei loro desideri, e che l’alternativa in auto che proposi, che oltrettutto ci avrebbe consentito di vedere un poco d’India “fuori porta”, era esclusa a priori. Dissero quindi che avrebbero comprato un bel libro illustrato sui due monuenti e mi avrebbero aspettato in hotel leggendolo. Carlo, invece, intrepido e amante dell’ignoto, decise di farmi compagnia. Facemmo prenotare un auto con autista e il giorno dopo, al mattino presto, partimmo per un viaggio che definire da incubo è voler minimizzare.

Nelle quattro e più ore che durò quello di andata rischiammo la morte non meno di una diecina di volte, e non scherzo: l’autista era palesemente alle prime armi, l’autostrada a dir poco malandata, la segnaletica inesistente, e il traffico sembrava non far caso che quella strada era a due corsie; una per ogni senso di marcia. Non incrociammo meno di cinque veicoli vari che venivano nel senso opposto al nostro ma sulla nostra corsia, e ci attraversarono la strada improvvisamente diversi animali di grossa taglia e alcuni uomini; ostacoli che evitammo solo grazie a chissà quale benevola divinità indù. Comunque arrivammo ad Agra e scoprimmo che quell’imperatore doveva aver amato davvero molto la sua favorita. Il Taj Mahal è davvero impressionante visto dal vero, cosi come impressionante e il contesto di prati curatissimi che lo circondano popolati da una moltitudine di simpatiche scimmie. Ma fuori è, o almeno era il giorno che andammo noi, davvero un altro pianeta che non vi sto a descrivere per delicatezza. Anche il Forte Rosso fu davvero impressionante ed interessante, ma poi venne l’ora di tornare a Delhi, e cominciammo a preoccuparci: cosa sarebbe successo ritornando al buio?

Innanzitutto per non rischiare di fare morire d’infarto Carlo, che era rimasto palesemente scioccato all’andata, mi offrii di star io a fianco dell’autista e lui si accomodò felice e riconoscente nel sedile posteriore: nonstante ciò credo però che per lui, quel viaggio fu l’esperienza più terribile della sua vita. Quasi tutti i veicoli viaggiavano a fari spenti; 232

anche quelli che venivano contromano! Ci imbattemmo in grossi animali investiti e lasciati morti o feriti al buio in mezzo alla strada; evitammo per puro miracolo non so quanti animali e uomini che sbucavano all’improvviso dal buio pesto e quasi tamponammo un grosso camion fermo a luci spente sulla corsia di marcia senza aver messo alcun segnale. E quando ci fermammo per rilassarci un po’ e bere e mangiare qualcosa nell’unico posto illuminato a circa metà strada, le uniche cose che vi trovammo furono un’aranciata vecchia certo di diversi mesi, un pacchetto di caramelle gommose, e un pacchetto di biscotti secchi. Quando arrivammo a Delhi, a notte fonda, dopo più di sei ore di viaggio, Carlo era stravolto; pallido come un cadavere e muto come un pesce. Anch’io avevo avuto una bella fifa, ma se avete letto tutto fino ad ora vi ricorderete che mi ero gia “fatto le ossa” in Yemen. Il giorno dopo ci limitammo a descrivere a Vivaldo e Almut le magnificenze e le schifezze viste ad Agra e qualche particolare di quel viaggio avventuroso, e Vivaldo si limitò a commentare che aveva dunque fatto bene a non venire.

Di Delhi ricordo anche, pur se fumosamente lo ammetto, i diversi monumenti che visitammo e le caratteristiche principali, ma soprattutto due episodi che accaddero l’utimo giorno che ci fermammo laggiù e che ebbero come protagonista l’autista che ci aveva scorrazzato in lungo e in largo per la città: un uomo di mezza età, cordiale, disponibile, che parlava un ottimo inglese e che insistette talmente per farci vedere casa sua che alla fine dovemmo accettare. Quattro ore prima della partenza, quindi, con i bagagli in macchina, dopo un lunghissimo tragitto in una sterminata periferia di casette di legno e fango coperte da lamiere ondulate e addossate l’una all’altra forse per sostenersi, ci fermammo in uno spiazzo incolto dove una moltitudine di ragazzini giocava e dopo aver vagato guardinghi seguendo a piedi l’autista per un incredibile dedalo di viuzze sterrate dal quale senza di lui non saremmo certamente riusciti ad uscire, scoprimmo quanto si possa essere felici anche senza avere niente.

Aveva infatti un’aria felice e perfino, mi parve, orgogliosa il nostro autista, mentre scostando una di quelle tende formate da catenelle e tubini in plastica multicolori da noi in voga nei negozi negli anni cinquanta, ci invitava ad entrare in “casa sua”; e la sua soddisfazione trasparì anche dal tono di voce che mantenne facendondocela “visitare a colpo d’occhio”: già, proprio a colpo d’occhio. La casa non era infatti più grande di una ventina di metri quadrati ( penso cinque per quattro) ed era formata da una prima stanza nella quale ci trovammo dopo aver attraversato la soglia protetta solo dalla tendina, dove erano sistemati sul lato sinistro due lettini a castello e su quello destro un tavolinetto con due sedie, e una seconda, divisa dalla prima da un parziale tramezzo in legno compensato, e separata con lo stesso materiale e sempre parzialmente in due ambientini destinati l’uno alla cucina e l’altro ai servizi igienici. Dopo il colpo d’occhio, io e Vivaldo ci sedemmo sulle due seggiole, Pedrazzi sul lettino di sotto, anche se doveva stare curvo per non sbattere la nuca contro quello di sopra, e mentre sorseggiavamo a fior di labbra una coca - cola calda, imparammo dal 233

nostro autista, raggiante, che l’avere quella “casa” era stato un vero colpo di fortuna. Ne aveva infatti ereditato da suo padre il diritto di viverci in affitto fintanto che lo avrebbe “pagato”. E a quelle parole entusiaste, Vivaldo, forse pensando al suo castello matildico di Quattro Castella, dove vivevano soli lui e sua moglie, la cui sola sala da bigliardo, ancora originale del 1200, misurava trecento metri quadrati, sbiancò visibilmente.

Il secondo episodio lo vivemmo un’ora dopo all’aeroporto. Finito di scaricare i bagagli dall’auto, salutammo con sincero affetto e gratitudine il nostro autista, e io, sollecitato da Vivaldo, gli allungai cinque biglietti da venti dollari americani per ringraziarlo ulteriormente dei servizi che ci aveva reso e che gli avevamo già pagato a casa sua. Una mossa davvero imprudente. Dopo averli presi, quasi svenendo dall’emozione, se li mise furtivamente in tasca e senza voltarci le spalle arretrò fino al suo taxi continuando a salutarci inchinandosi; ma ce lo ritrovammo davanti pochi minuti più tardi, mentre eravamo già in fila alla porta d’imbarco, che ci indicava sbracciandosi ai due uomini in divisa che lo affiancavano. Sul momento pensammo di aver dimenticato qualcosa, ma subito dopo capimmo di cosa, quasi certamente, si trattava: di un ricatto bello e buono. I due militari avevano certamente notato il mio gesto, e avevano pensato di partecipare a quella fortuna. Avevano fermato l’autista e trovatigli in tasca i cento dollari, una cifra che nessun indiano di quella casta poteva possedere, l’avevano accusato di averceli rubati.

Anche se noi confermammo che si era trattato di un regalo, dagli sguardi che ci lanciava il poveretto e da quelli che i due gli riservavano a loro volta capimmo che quei cento dollari non se li sarebbe goduti solo lui. Sono più che certo che quando fummo partiti, e con noi ogni possibile testimone a suo favore, il poveretto, impaurito da una possibile accusa di furto non confutabile, fu costretto a dividere i cento dollari con i due militari, se non addirittura, ma spero di no, a lasciarli tutti a loro.

Dopo dunque aver assistito a quello spettacolo sconcertante senza poter fare nulla, ci imbarcammo e verso sera sbarcammo ad HongKong, dove Pedrazzi, a cena in un ristorante con una vista mozzafiato sulla corona di grattaceli illuminati che si specchiavano nelle acque della baia, per mangiare finalmente qualcosa di non speziato all’indiana, si produsse in una scenetta davvero simpatica. Dopo averci fatto accomodare, il cameriere si rivolse premuroso a Carlo - quello di noi che aveva l’aspetto più autorevole - e gli propose filetti di petto d’oca.

Lui lo guardò per qualche istante mentre certamente traduceva mentalmente in italiano la proposta, poi si illuminò e allargando le braccia con le mani a palme opposte per indicare un oggetto di grandi dimensioni, gli disse in italiano: si, si, va bene; mi porti un’oca, un’oca intera per favore. E davanti all’attonito cameriere che non aveva ovviamente capito niente, io e Vivaldo scoppiammo in una sonora risata. Povero Carlo, in India non aveva passato solo la paura più grande della sua vita nel viaggio ad Agra, ma per non correre il rischio di risvegliare la sua ulcera aveva praticamente mangiato solo prime colazioni e doveva aver accumulato una fame da lupo. Il mattino dopo 234

incontrammo i legali che ci avevano assistiti durante la trattativa con Jim-Bao e mentre Pedrazzi e Almut se ne tornavano in Italia, io e Vivaldo partimmo con loro per Pechino.

Non vi annoio con il racconto dei diversi passaggi noiosi e sfiancanti della trattativa fino a quel momento, anche se comunque un’esperienza preziosa; sintetizzo solo che grazie allo studio legale di Hong-Kong, avevamo scoperto che la piccola, brutta e arcigna direttrice aveva tramato per farci cadere in una “trappola” e che senza volerle rivelare di averla scoperta avevamo deciso di giostrare quell’incontro in modo da poterci ritirare senza danni, e che ci riuscimmo. Siccome però la trattativa aveva richiesto diversi viaggi laggiù per essere portata avanti, dei ricordi me ne ha comunque lasciati. Come quello, ad esempio, che fui tanto stupido di riprendere a fumare dopo essere stato senza farlo ininterrottamente dal febbraio del 1981; ma anche quello dei pericolosi viaggi in auto su strade gelate dall’aereoporto alla fabbrica nel corso dei quali assistemmo a diversi incidenti con morti lasciati scoperti sulla strada o, come in due casi, coperti solo da pallet per evitare che qualcuno ci ripassasse sopra; quello dei servizi igienici, sia della fabbrica che di un paio di ristoranti esterni dove avemmo la sventura di essere ospiti, aperti e comuni con piena visibilità fra fruitori; quello di un atterraggio a Pechino nel quale sfiorammo con le ruote del carrello un camion che attraversava diagonalmente la pista mentre stavamo per toccare e dal quale uscimmo vivi solo con una ripresa da brivido quasi in verticale. E a proposito di Pechino, quello di un episodio simpatico e di un altro molto istruttivo.

Avevamo preso alloggio come altre volte al China World Hotel, della catena Shangri-Là: era un’ottimo hotel, comodo sia per l’aereoporto che per il centro citta, e la sera vagando per i diversi ristoranti interni ci eravamo seduti in uno italiano, anzi abruzzese. Il gestore si era subito dimostrato pieno di attenzioni, trascurando con tutta evidenza gli altri clienti, e finito di cenare si era seduto con noi a far chiacchere davanti ad una bottiglia di grappa speciale. La bottiglia si era svuotata, e Vivaldo e io, abbracciati al nostro ospite, ci eravamo trovati a cantare a squarciagola canzoni italiane anni sessanta sotto gli occhi incuriositi ma indulgenti dei pochi avventori rimasti.

L’episodio vissuto in piazza Tiananmen era stata di tutt’altro genere: avendo mezza giornata senza impegni ci eravamo fatti portare appunto in quella piazza con l’intento di visitare una delle tante parti mai viste della città proibita. Avevamo appena pagato al taxista i novanta yuan che ci aveva richiesto e stavamo dirigendoci verso l’enorme porta, quando due militari disarmati ci si erano avvicinati repentinamente: uno si era diretto rapido verso il taxi intimando evidentemente all’autista di non andarsene, l’altro ci si era avvicinato e ci aveva chiesto con estrema cortesia e in perfetto inglese quanto avevamo pagato la corsa. Alla nostra risposta ci aveva chiesto da dove eravamo partiti, e alla nostra ulteriore risposta, l’atmosfera era cambiata. Dopo averci detto che il prezzo giusto della corsa era di nove yuan; avevano intimato all’autista di rendercene ottantuno e dopo averci salutato con deferenza erano saliti sul taxi; uno alla guida e l’altro dietro con 235

l’autista. Chissà se la nostra polizia potesse fare qualcosa del genere anche a Fiumicino e in tante altre parti in Italia; forse ci sarebbero più turisti soddisfatti. O no?!

Naturalmente avevamo anche incontrato diverse persone nel corso dei tanti incontri che avevamo avuto, ma ne ricordo due in particolare: l’avvocato che assisteva la direttrice e un funzionario del partito responsabile delle relazioni con i partner stranieri al quale ci eravamo rivolti per denunciare lo scorretto comportamento di Jim-Bao. Entrambi davvero indimenticabili, anche se per ragioni molto diverse.

L’avvocato lo ricordo infatti per come si era presentato al primo incontro: calzoni di fustagno color verde militare corti sopra le caviglie, calzini bianchi che sporgevano a malapena da scarpe nere di plastica con una spessa suola arancione, camicia bianca, cravatta di cuoio nero, un giubbone di pesante e rigida pelle nera che mi ricordò quello usato dai nostri motociclisti nel primo dopoguerra, e con in testa un cilindro nero e lucente da prestigiatore! Il funzionario, che invece era vestito da fare invidia ai più raffinati managers occidentali, lo ricordo perché parlava un perfetto inglese, si comportava con la sicurezza e i modi di un uomo avvezzo a viaggiare per il mondo, e per come aveva espresso, appunto, quella sicurezza.

Oltre a dibattere dell’argomento specifico Jim-Bao, ci eravamo allargati ad altri argomenti, e parlando delle macchine per il packaging, forse per tranquillizzarmi, ma ottenendo il risultato opposto, mi aveva detto che per il momento le priorità del governo erano dighe, centrali energetiche, ferrovie, autostrade, case d’abitazione e industrie orientate all’esportazione, e che solo dopo, forse, si sarebbero dedicati anche a produrre “macchinette” di quel tipo. Discutendo invece in generale degli obbiettivi strategici della Cina, mi aveva informato con un candore disarmante che la priorità era far cassa di valuta straniera; che per farlo doveva esportare la maggior quantità possibile di prodotti che con il controlllo sui salari potevano essere proposti a prezzi imbattibili; e che fatta cassa avrebbero incrementato i salari e i consumi interni e si sarebbero dedicati a produrre prodotti d’avanguardia ad alto valore aggiunto! Per mandarmi infine a casa disperato aveva risposto con un’emblematica unica ma significativa parola a quella che aveva voluto essere da parte mia solo una ironica battuta. Alle sue spalle c’era un’enorme carta geografica dell’Asia dove la Cina era colorata in verde chiaro, così come Macao, Hong-Kong e Taiwan, che per noi erano ancora “nazioni indipendenti”. Non potevo non notarlo, e indicando la carta avevo detto in tono ironico: “mi sembra che vi siate messi un po’ avanti con i lavori; non pensate alle conseguenze ?” e lui di rimando, sorridendo sferzante:” quali?” E dopo quel “quali” ci eravamo salutati.

Al ritorno dalla Cina, mi aspettavano purtroppo giorni difficili. Il tre di novembre, mentre ero a Parigi, mia moglie mi chiamò per dirmi che le condizioni di mia madre, ricoverata all’ospedale di Bazzano da una diecina di giorni, ma apparentemente non grave, si erano aggravate, e che don Attilio - il nosto amico prete operaio - le aveva impartito l’estrema unzione. Disperato cercai ogni possibile volo per tornare a casa al più presto, ma l’unico che trovai mi fece arrivare all’ospedale 236

verso le dieci e trenta della notte. L’ospedale era quasi deserto e non vedendo né Luciana né mio padre, che seppi più tardi erano andati qualche momento a casa a rinfrescarsi e mangiare qualcosa dopo una giornata passata tutta lì, pensai al peggio. Entrai nella stanza buia col fiato sospeso e mi accorsi che invece era ancora li ”col viso scoperto”, la testa girata verso la finestra e gli occhi chiusi. Non si sentiva né vedeva alcun segno che respirasse, le toccai una mano, freddissima, e lei si girò verso di me, mi sorrise, fece un lungo respiro e se ne andò.

Non so se mia madre mi avesse aspettato, forse no, ma mi è sempre piaciuto crederlo. So però che rimasi alcuni minuti a guardarla prima di chiamare qualcuno, e che in quei minuti mi resi conto di essere stato, specie negli ultimi tempi, un figlio davvero ingrato nei confronti di quella donna fantastica che aveva dedicato tutta se stessa alla famiglia; ma soprattutto a me e mio fratello. Non ci aveva infatti solo messo al mondo; aveva fatto anche di tutto e di più affinché il mondo si rivelasse un bel posto dove vivere; e ci era riuscita. E anche se in ritardo le urlai in silenzio cento volte grazie.

Non andai in ufficio per un paio di giorni dopo quel triste momento, ma il sette dovetti andare a Zurigo per una riunione che era stata rimandata per aspettare me e Vivaldo in viaggio in India e Cina. E lavorare mi fece bene. Dopo Zurigo feci una puntata a Parigi per finire il discorso interrotto dalla telefonata di Luciana, poi cominciai a prepararmi per andare in Brasile a presenziare alla famosa “fiera internazionale di Sao Josè do Rio Preto”; alla quale Cristina, Rossella e Alberto erano riusciti a partecipare.

Avevo naturalmente seguito la vicenda, e dopo aver saputo da Cristina che quella fiera non era altro che una fiera locale di nessuna rilevanza per il nostro mestiere, mi ero schierato apertamente con Alberto e Rossella nel chiedere a Vivaldo di rinunciare almeno ad esporvi la TR-86, che per i tempi stretti avrebbe potuto arrivarvi solo per via aerea costandoci la bazzecola di cinquantamila dollari, e per fortuna lo avevamo convinto ad esporre solo blister. Cristina, da sola, era riuscita ad organizzare lo stand, situato in un ex deposito di caffè in lamiera ondulata in compagnia di una cinquantina di altri espositori; erano tutti artigiani o produttori di beni di consumo locali, e quindi quando arrivammo laggiù dopo meno di un’ora di volo da Sao Paulo, io e Rossella sapevamo bene cosa aspettarci, ma Vivaldo no; e ci rimase davvero male.

A parte l’inequivocabile aspetto da fiera di paese, che lo abbattè visibilmente, sotto quel capannone non si respirava dal caldo. Fece comunque, e anche noi facemmo, buon viso a cattivo gioco, e in attesa dell’inaugurazione, il giorno dopo, e dell’arrivo di Pedrazzi per assistervi, andammo in giro per quella cittadina e scoprimmo con sorpresa che nonostante si trovasse isolata a oltre quattrocento chilometri da Sao Paulo, offriva, caldo a parte che comunque ci dissero si registrava per poco più di un mese all’anno, tutto quanto necessario per fare una “bella vita”. Bei palazzi, bei negozi, piena di ristoranti, punti di ritrovo e giardini; il tutto estremamente curato e pulito.

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Della fiera, anzi di quella burla, perché altro non fu, mi limito a ricordare che eravamo gli unici espositori provenienti dal di fuori di quello stato; che l’inaugurazione, iniziata come previsto alle sei del pomeriggio, venne subito rimandata alla mezzanotte per lo svenimento per caldo di alcuni astanti al discorso del sindaco; che dopo l’inaugurazione e una interminabile visita agli stand con le autorità, alle tre del mattino fummo invitati come fosse la cosa più normale del mondo a casa di non so chi a gustare la polpa “tipo caco” di un enorme frutto, grande come un grande cocomero americano, che sapeva deliziosamente di vaniglia; e che per far si che qualcuno si fermasse almeno a chiederci cosa fossero i nostri blister fui costretto ad assoldare due avvenenti e quasi nude hostess. Le quali però, in tre giorni, riuscirono a fermare solo un sedicente produttore di farmaci dall’aspetto un po’ malandato e un giovane e aitante coltivatore di arance.

Per non lasciare nulla di intentato, andai con Vivaldo a vedere la fabbrica di farmaci; che si trovava ad una trentina di chilometri dalla città, e scoprimmo che quel signore aveva bisogno non solo di macchine Unifill, ma anche di un sacco di altra roba. Pensate che sterilizzava i suoi prodotti in un forno a legna dove il controllo di tempi e temperatura non poteva che essere empirico. Scoprimmo anche che non aveva o non voleva spendere danaro per modernizzarsi. Ci propose infatti uno scambio: centomila ettari di bosco con varie “fazende” per un valore di un milione di dollari, in cambio di macchinari dello stesso valore.

Declinammo con cortesia l’offerta e facemmo per congedarci, ma mentre Vivaldo andava a rinfrescarsi quel signore fece con me un ultimo tentativo: se avessi trovato un compratore per le sue terre, mi disse furtivo, diecimila di quegli ettari sarebbero stati miei. Insomma anche quella visita, come la fiera, fu una totale delusione. Ma non fu invece una delusione il viaggio di ritorno a Sao Paulo, che feci in auto con il coltivatore di arance: Gennaro Lo Schiavo.

L’ultimo giorno di fiera, poco prima della chiusura, Gennaro passò a trovarci a sorpresa proponendoci di tornare tutti con lui in auto a Sao Paolo, dove doveva far visita a suo padre. Era un’opportunità per vedere un po’ di Brasile inconsueto e il suo aranceto, ci disse, che era di strada. Aveva un’enorme auto sulla quale potevamo stare tutti comodi.

Vivaldo e Pedrazzi declinarono l’invito, forse memori dell’India, Cristina e Rossella fecero altrettanto per la paura di mancare appuntamenti già fissati a Sao Paulo, mentre io, che volevo solo passare a salutare i miei cugini Paola e Luis, e mia zia, e avevo tutto il tempo per farlo, spinto dalla mia inesauribile curiosità accettai con entusiasmo. E, come accennavo, non me ne pentii. Il mattino dopo partimmo per tempo, e poco dopo essere usciti dall’area urbana, cominciammo a passare fra gli aranci in maturazione di Gennaro. Era uno spettacolo bellissimo che durò, vi giuro, oltre un’ora alla velocità di circa sessanta chilometri l’ora. Vedemmo anche un sacco di altra bella e inconsueta vegetazione spontanea durante le cinque o sei ore che durò il viaggio, ma quello che più mi affascinò fu la storia che Gennaro mi raccontò di suo padre.

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Era partito, mi disse con orgoglio, quaranta anni prima da un paesino della montagna calabra con davvero solo la classica valigia legata con lo spago tanto cara ai cineasti, nella quale aveva stipato un vestito ”buono“ per presentarsi decorosamente a cercare lavoro e un pò di biancheria di ricambio. In tasca aveva poche lire, ma in testa la determinazione a farcela con le sue mani d’oro da pasticcere. Aveva trovato subito lavoro in una pasticceria di italiani emigrati prima di lui; un paio d’anni più tardi l’aveva rilevata; poi ne aveva comprata una nuova, poi un’altra, poi aveva preso moglie e poi era nato lui, Gennaro. E da quel momento, forse più per dare un futuro alla famiglia che per sua ambizione, non si era più fermato. Era a quel tempo uno dei più facoltosi uomini dello stato di Sao Paulo: proprietario di oltre quaranta pasticcerie; di una fabbrica di formaggi che da sola produceva più tonnellate di Parmigiano Reggiano di tutti i produttori italiani; di una compagnia di autotrasporti refrigerati con oltre cento veicoli; e di un sacco di altre attività minori, e immobili. E così, quando Gennaro mi lasciò davanti al Caesar Park Hotel dicendomi che l’indomani me lo avrebbe fatto conoscere, non avrebbe potuto farmi più felice; ero certo che avrei conosciuto un altro uomo speciale. Non cenai nemmeno quella sera; chiamai Paola, e dopo esserci accordati per vederci la sera dopo, me ne andai a letto.

L’indomani alle dieci precise, puntuale come uno svizzero, Gennaro era davanti all’albergo seduto su un taxi - guidare a quell’ora per il centro di Sao Paulo era una follia, mi disse - che ci portò ai piedi di uno dei mille grattacieli della città. Salimmo con un ascensore ultra rapido che non faceva soste intermedie fino all’attico ed entrammo nei circa mille metri quadrati di casa di suo padre, che ci accolse letteralmente a braccia aperte. Parlammo a ruota libera per circa tre ore dell’Italia e soprattutto della povera Calabria, del Brasile, di lui e delle sue varie attività, di mio zio Romualdo, emigrato anche lui ai tempi suoi e delle sue attività, di me e del mio lavoro. A proposito di Calabria, mentre suo padre si era assentato un attimo, Gennaro mi disse che aveva acquistato il vecchio rudere di un castello del suo paese, l’aveva fatto restaurare e regalato al comune per farne un centro sociale. Alle due, salimmo su un taxi e andammo a pranzo al Grattacielo Italia o forse all’Edificio Italia, punto di riferimento di tutti gli ex italiani di successo e non; mangiammo e bevemmo “calabrese”, fui presentato ad un sacco di gente gentile, e quando tornammo a casa sua a bere un “caffè speciale” e una grappa, il padre di Gennaro mi fece anche un regalo che gradii molto.

Mentre sorseggiavamo la grappa, mi venne da apprezzare una bellissima pietra dura tagliata che faceva da ferma carte su un tavolinetto - da sempre mi piacciono minerali e fossili - e lui mi disse immediatamente: “ Le piace, Roberto ? La prenda, è sua, le porterà fortuna “. E su quella frase ci stringemmo le mani, ci salutammo con grande empatia e con la promessa da parte mia che ogni volta che mi fosse capitato di essere da quelle parti sarei andato a trovarli. Ho ancora quella bella pietra; la tengo su un mobile della camera da letto, non so se mi abbia portato fortuna, fra la tanta che ho avuto farei fatica a distinguere quella eventualmente dovuta a lei, ma comunque 239

sicuramente non mi ha portato sfortuna. La sera andai a cena con i miei cugini e alcuni loro amici, anche loro figli di emigranti italiani, che mi subissarono di domande sul nostro paese, e il giorno dopo tornai a casa.

Era ormai quasi la fine di novembre, e ricordo che prima della fine del mese tornai a Parigi all’Unifill Francia, che bene o male era già “partita” e che feci un’eperienza che non avrei mai pensato di fare, alla mia età.

Presi infatti con me, per fargliela vedere Andrea e Alberto, ma i due ragazzi stettero solo pochi minuti in azienda, poi mi costrinsero a portarli a Disneyland, dove, felici come bambini, vollero dormire nel castello-hotel interno al parco. Ricordo anche che Gloria il trenta ci lasciò. Non fu una sorpresa; lo sapevamo da tempo, ma mi dispiacque.

Mi ero abituato alla sua presenza, ai suoi atteggiamenti falsamente anticonformisti che volevano nascondere la sua grande fragilità, alla sua verve da eterna ragazzina e ai suoi capelli color carota. Dal primo di dicembre mi dedicai con Vivaldo solo all’affare Elopak, dal quale ci distraemmo solo per tre giorni per fare, in compagnia di Almut, un rapido salto negli Stati Uniti a visitare la Graham Packaging.

A combinare quel viaggio era stato Moreno Minghetti, titolare della Techne di San Lazzaro di Savena, a Bologna; un’azienda ancor giovane ma molto dinamica che produceva macchine per fare bottiglie di plastica. Minghetti si era presentato a nome di Don Graham, fondatore e titolare del gigante americano produttore di macchine per fare bottiglie in plastica, e di bottiglie, il quale desiderava scambiare due chiacchere con Vivaldo. “Perché nò !”, Aveva detto Vivaldo e quindi avevamo combinato un incontro a York, in Pennsylvania, dove era il cuore della società. Fu un viaggio davvero lampo: arrivammo di tardo pomeriggio; visitammo quasi di corsa con Moreno e Don Graham prima un reparto di produzione dove un numero imprecisato delle enormi macchine “a ruota” disegnate da Don, producevano milioni di bottiglie di plastica al giorno, e subito dopo in un enorme capannone dove arrivavano di continuo camion pieni di bottiglie usate che venivano selezionate e riciclate. Poi, mentre iniziava a nevicare, ce ne andammo in albergo dove Moreno, Don e sua moglie ci raggiunsero un paio d’ore più tardi per cenare e fare “due chiacchiere”. Due chiacchere davvero sorprendenti.

Dopo averci raccontato durante l’ottimo pasto la storia della sua impresa - come me era partito trentacinque anni prima come semplice disegnatore meccanico - al caffè e grappe ci disse senza tanti giri di parole che pur se non credeva per niente nel nostro flacone/blister e meno che mai che esso avrebbe potuto fare concorrenza seria alle sue bottiglie, anche se il nostro contenitore gli avesse sottratto un decimo del fatturato sarebbe stato comunque un bel danno. E lui era un uomo prudente e preferiva cautelarsi. La sua azienda, ci spiegò, fatturava novecento milioni di dollari e se Vivaldo voleva era pronto a comprare tutta l’Unifill per l’uno per cento di quella ciffra. Nove milioni di dollari.

Ma Vivaldo non voleva; glielo disse; lo ringraziammo; ci salutammo con cordialità e stanchi ce ne andammo a dormire di corsa. Il giorno dopo nevicava ancora e Vivaldo e Almut, impauriti, se ne andarono in treno, mentre io, che avevo un appuntamento a New York al quale non volevo 240

mancare, presi il piccolo aereo taxi che avevamo prenotato per tutti e tre e seduto a fianco del pilota me ne andai volando a vista fra i fiocchi di neve. Una bellissima esperienza, al ritorno dalla quale, a Zurigo, raggiungemmo un accordo di massima con la Elopak.

L’ accordo prevedeva la formazione di una nuova società della quale Elopak e Unifill sarebbero state socie. Le discussioni per definire termini, obblighi e aspetti finanziari sarebbero iniziate subito nei primi giorni del nuovo anno, nel frattempo pero, Vivaldo avrebbe dovuto sospendere ogni iniziativa strategica in corso o quanto meno informarne la Elopak. Ricordo che quando uscimmo dalla riunione finale, dopo brindisi, auguri e saluti vari, non mi trovai a pensare, come sarebbe stato naturale, alle implicazioni per il futuro mio e dell’azienda di quell’accordo, ma solo a sperare che quella clausola accessoria potesse indurre a un ripensamento sull’opportunità di realizzare la TR/GF- 2000 e di mantenere a gestire l’Unifill Francia Mariette e Marc; che mi stavano facendo impazzire con la loro totale inadeguatezza.

Comunque l’anno finì con un Vivaldo visibilmente soddisfatto per il risultato raggiunto con la Elopak. Per ringraziarmi, mi preannunciò che da gennaio avrei ricevuto un sostanzioso aumento di stipendio, una cosa che mi fece naturalmente piacere, ma che non riuscì a farmi scrollare di dosso la solita depressione che mi assaliva quasi sempre dopo un successo: uno stato d’animo che non riuscii a nascondere nemmeno la sera degli auguri e che dovette indurre Andrea e sua moglie Bianca Elena - dei quali ero diventato abbastanza intimo e soprattutto amico - a far qualcosa per tirarmi su di morale. Nella busta che accompagnava la cesta natalizia che mi consegnarono non c’era il solito biglietto di auguri decorato con scritto il solito “buone feste”, ma un anonimo cartoncino giallo, reperito evidentemente chissà dove all’ultimo momento, sul quale avevano scritto a matita: “a un papà che non è un papà; ad un capo che lo è e non lo è; a un amico che è un amico.

Ringraziandoti veramente di tutto con affetto e tanta semplicità, buon Natale e felice anno nuovo”. E la depressione sparì d’incanto mentre mi si inumidivano gli occhi.

Il 1995 iniziò quindi con me, Vivaldo, Fiori e Arnaldi dediti quasi esclusivamente alla definizione dell’accordo con la Elopak, mentre in azienda tutto continuava a filare liscio come l’olio, pur se in una palpabile atmosfera di attesa degli eventi. Io mi distrassi da quel compito solo per ricevere qualche cliente importante e per due o tre puntate di un giorno a Parigi per tentare di far marciare nel verso giusto l’Unifill Francia, alla quale nessuno pensò di cambiare “le teste”; come del resto nessuno pensò di fermare la follia delle TR/GF- 2000, e verso la metà di aprile l’accordo fu raggiunto.

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Ricordandola oggi, quella trattativa è stata una delle esperienze più interessanti della mia vita di lavoro: frequentare e trattare con i nordici fu molto infatti istruttivo. Erano certo molto diversi da noi del sud, sotto molti punti di vista, ma mi ci trovavo bene e ricordo con piacere Kare Vatne, uno dei vice presidenti della Elopak con il quale ebbi molto a che fare, la sua fin troppo esuberante e nonostante gli anni ancora avvenente assistente Cristine Oraghen, e soprattutto, anche se con gran tristezza, il loro capo, presidente della società, Ajulf ( spero di averlo scritto bene) Storm. Già, con molta tristezza: perché quel gigante esuberante che nell’estate del ’94, sapemmo, non da lui, aveva attraversato solitario sugli sci la Groenlandia; nonostante la ancor giovane età, la più che evidente prestanza fisica e le disponibilità finanziarie per curarsi al meglio dovette abbandonare la trattativa portato via dalla vita in poche settimane da un nemico invincibile.

Anche la trattativa in se stessa fu interessante e istruttiva: dovetti infatti trattare argomenti dei quali non mi ero mai interessato, e imparare quindi molte cose nuove, fra le quali, che in trattative del genere gli avvocati vanno coinvolti solo sugli aspetti strettamente legali.

L’averli costantemente presenti e il lasciarli, purtroppo da entrambi, rimettere in discussione aspetti già concordati sui quali erano palesemente ignoranti, la misero più volte a rischio, la prolungarono inutilmente e ne fecero lievitare i costi a dismisura. Dell’accordo in sè, una “roba” naturalmente molto articolata, ricordo che sostanzialmente prevedeva entro il mese il passaggio del 40% dell’Unifill alla Elopak ad un prezzo, da me strenuamente difeso, che Vivaldo non si era nemmeno sognato; che sarebbe stata costituita in Svizzera la Unifill International AG; e che il sottoscritto ne sarebbe stato il braccio operativo in qualita di assistente del C.E.O ( Chief Exsecutive Officer ) che ne sarebbe stato messo a capo. Una discreta soddisfazione; che ne dite ?

Per l’Unifill, l’accordo ebbe qualche effetto visibile solo dal punto di vista della produzione. L’attività di progettazione e costruzione delle macchine venne separata da quella della di produzione monodosi per conto terzi; Cagnolati ci lasciò sostituito da un discreto sostituto inviatoci della sede americana della Elopak, un certo Sal Di Grande, e a capo della divisione confezionamento per conto terzi io feci arrivare l’ingegner Luigi Malagoli, se ricordate il braccio destro di Cagnolati in Panigal ai tempi della vicenda ACMA/CoMaG, che sottrassi ai nuovi padroni tedeschi. Nel commerciale e ai progetti nessuno si accorse di nulla.

A me, che ormai mi occupavo unicamente delle più che piacevoli trasferte parigine per supportare l’Unifill Francia, venne affidato il compito di trattare, insieme ad alcuni uomini della Elopak, l’acquisizione di una disastrata azienda che produceva film plastici in Normandia, la Norester, e di interessarmi di una carta termosaldabile e termodeformabile inventata da un tale Giorgio Trani, che sembrava poter diventare una interessante alternativa ecologica per formare monodosi, agli inquinanti film plastici. Erano due iniziative sulle quali avevo espresso i miei dubbi, ma che si rivelarono interessanti e perfino piacevoli. Diventai infatti amico di Giorgio, un’amicizia durata anni, e 242

nel corso delle diverse visite in Normandia ebbi l’occasione di visitare con comodo le spiagge dello sbarco del 6 giugno del ’44, e Mont Saint Michel.

Quando non ero impegnato negli incarichi di cui vi ho appena parlato, abbastanza spesso, non stavo naturalmente a rigirarmi le dita, non ne sono capace, ricevevo uomini Elopak in visita “d’istruzione”, facevo loro compagnia in giro per l’Europa per parlare ai loro clienti dell’Unifill, e aiutavo Arnaldi, che con la fedele Anita era stato incaricato di mettere fisicamente in piedi a Kreuzlingen, una splendida cittadina affacciata sul lago di Costanza al confine con la Germania, la sede dell’Unifill International AG. Un’incombenza anche quest’ultima per niente impegnativa, anzi molto piacevole, che fra l’altro mi fece fare amicizia con Cristine Oraghen e Kare Vatne. In quasi tutti quei viaggi portavo con me Andrea e Alberto, e nel corso di uno di questi facemmo un’esperienza davvero singolare. Per abitudine, per andare a Kreuzlingen facevo il San Bernardino, poi giù a Chur fino a Rorschach, da dove costeggiando il lago arrivavo a destinazione in circa quattro ore e mezza. Era un percorso che sfiorava il Liechtenstein, dove un giorno Vivaldo pensò di inviarci a Vaduz a visitare un produttore di cibi per cani e gatti, che secondo un suo amico tedesco, o svizzero/tedesco, poteva diventare nostro cliente.

Fummo ricevuti dal figlio del proprietario, ”pupillo” dell’amico di Vivaldo, visitammo la maleodorante fabbrica dove capii che le nostre monodosi non servivano proprio, e salimmo nel suo ufficio dove trovammo ad attenderci una a dir poco appariscente bella ragazza che il giovane ci presentò come sua assistente. Un’assistente senz’altro bravissima, tanto da assisterlo, senza il minimo imbarazzo per la nostra presenza, standogli seduta sulle ginocchia facendogli moine da camera da letto. E non avevamo ancora visto niente! Fu dopo mezzora di chiacchere inconcludenti, sempre condite con scene erotiche, che il pupillo ci fece vedere davvero di cosa era capace. Prima ci invitò ad assitere ad una sfilata di belle ragazze in costume succinto che partecipavano ad un concorso interno di miss, che gli serviva, ci disse con aria da furbetto, per scegliersi le assistenti, poi, sempre in compagnia dell’amante, che forse vedendo nel concorso di quel giorno la possibile fine del suo dorato status gli stava addosso in maniera sinceramente indecente, a pranzo in una saletta dove era stato imbandito un bellissimo buffet, con fra l’altro un’ampia scelta vegetariana per Andrea. E li il pupillo esagerò.

Finito il pranzo, ottimo, il nostro giovane ed esuberate ospite, prese a magnificare la qualità dei suoi prodotti, e per dar maggior forza alle parole, si alzò, prese da uno scaffale una scattoletta di cibo per gatti, la aprì e ce la porse invitandoci ad odorarla. Una mossa certamente poco indovinata per commensali a stomaco pieno, ma facemmo buon viso a cattivo gioco e a turno odorammo per un istante quella delizia dicendoci impressionati. E a quel punto avvenne il disastro. Il giovane affondò un dito nella scatolettta e mentre Andrea e Alberto, scimmiottando una pubblicità del tempo lo guardavano stravolti dicendo all’unisono “non lo fa, non lo fa, non lo fa”, lui invece lo fece. Si 243

ficcò con aria deliziata il dito coperto di quella roba in bocca e Andrea corse disperato verso la toilette che fortunatamente avevamo individuato andandoci a lavare le mani.

Anche di un viaggio con Vivaldo ho un ricordo simpatico, quello che ci portò prima alla Norester, poi a Colonia, in Germania. Dopo aver fatto quanto dovevamo alla Norester, ci avviammo verso la Germania.

Dormimmo da qualche parte in Olanda e abbigliati adeguatamente per incontrare i vertici della Metro (un gigante della grande distribuzione tedesca), siccome eravamo in grande anticipo, decidemmo di fare un po’ di turismo automobilistico in Belgio, dove ci fermammo per sgranchirci le gambe nel grande parco pubblico che avvolgeva il circuito dove si svolgevano i gran premi di formula uno, dalle parti di Spà.

Parcheggiammo, ci avviammo silenziosi per un vialetto, ma fatti pochi passi Vivaldo ruppe il silenzio con un urlo quasi disumano lanciandosi, incurante dell’abbigliamento non proprio adatto, fra le felci bagnate, uscendone brandendo un magnifico porcino. Fu l’inizio di una vera orgia. Corremmo come due forsennati alla macchina, prendemmo un grande telo, e, tornati fra le felci raccogliemmo in pochi minuti più porcini di quanti ceramente entrambi ne avevamo mai trovati in una sola volta: li avvolgemmo alla meglio per non farli cadere, e, dopo aver spostato le valigie sui sedili posteriori li stipammo nel portabagagli.

Andammo alla Metro dove non combinammo nulla, dormimmo a Colonia, e il giorno dopo ritornammo a casa dimenticandoci entrambi del “tesoro” che avevamo nel portabagagli. Nemmeno il giorno dopo ce ne ricordammo, ma l’indomani ancora me ne ricordai io, altro che se me ne ricordai. Quasi non ci si avvicinava alla mia 164, tanto era il fetore che emanava.

Fra un viaggetto e un altro in Europa, trovai anche il tempo di farne qualcuno più impegnativo e più lontano, e di uno in particolare ho un ricordo indimenticabile. Dopo essere stato da solo in India a fare chiacchere accademiche a Vadodara, non ricordo con chi, e a Mumbai con Barat Patel, un venerdì pomeriggio arrivai a Manila, nelle Filippine, per incontrare Vivaldo e Almut. Avevamo in programma di fare un po’ di turismo in città per il fine settimana, di incontre il lunedì un certo Enrique Yap ( vicepresidente esecutivo della Euro-Med Laboratorie ) e di proseguire poi per Tokio, dove avremmo dovuto incontrare Kare Vatne e alcuni venditori della Elopak di quell’area. Una roba normale, ma che invece si rivelò molto speciale.

Quando arrivai al Manila Hotel, con Vivaldo e Almut c’era anche Enrique Yap, un signore di mezza età vestito in modo più che modesto per l’ambiente, che con loro aveva gia programmato di farci trascorrere il weekend, suoi ospiti, su un’isoletta della barriera corallina a due ore di aereo di distanza. Era un’esperienza che non avevo mai fatto e che accettai entusiasta; spinto anche dalle parole di Enrique che mi rassicurò che per visitare Manila, dove secondo lui non c’era poi tanto da vedere, avrei certamente avuto tempo il lunedì mattina prima di vederci per lavoro, oppure un’altra volta. E così, un paio d’ore più tardi eravamo in volo su di un piccolo aereo sul quale eravamo gli unici tre passeggeri, diretti ad Amanpulo.

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Oggi, grazie ai voli “low cost”, posti simili, ma non uguali - andatelo a vedere su Internet - sono alla portatata di molti, ma a quei tempi non lo erano. E quindi quell’isoletta lunga forse tre chilometri e larga cinquecento metri, coperta di palme, circondata da una spiaggia bianchissima e da un mare blù cobalto, mi sembrò quasi un sogno.

Come scendemmo dal velivolo ci accolse con modi incredibilmente ossequiosi quello che si presentò come il general manager dell’isola; un suo aiutante scaricò i pochi bagagli che ci eravamo portati e li sistemò su due piccole auto elettriche; una bella ragazza, chiamandoci sorprendentemente ognuno per nome, ci invito a posare singolarmente per una foto; e dopo poche istruzioni per guidare le auto ci avviammo verso il centro dell’isola dove trovammo raggruppati in un’unica palazzina nascosta dalle palme, tutti i servizi per gli ospiti: reception, ristorante, infermeria, e un negozio pieno un po’ di tutto dove, ci disse il direttore, potevamo prendere tutto quello che eventualmente non avevamo pensato di prendere con noi. Poi, ci scortò alle due “villas” che ci erano state assegnate.

Disfatti i bagagli e data una rapida occhiata alla camera che mi sembrò di un lusso sfrenato, mi feci una doccia in una stanza da bagno di una ventina di metri quadrati completamente rivestita di marmo rosa, e dopo essere passato a prendere Vivaldo e Almut, andai con loro a cena al ristorante. Mangiammo con gusto un ottimo pesce alla griglia annaffiato con pinot grigio friulano; poi dal direttore che si era auto nominato nostro tutore non perdendoci di vista un momento, imparammo tutto su Amampulo. Sull’isolotto, che era stata una base di rifornimento per gli aerei americani nel corso della seconda guerra mondiale, c’erano in tutto quaranta villas; tutte a non più di cento metri dall’acqua e distanziate l’una dall’altra in modo da essere invisibili ai vicini. Ognuna poteva ospitare due adulti e massimo due bambini, e non si facevano eccezioni. In quel momento tutte le villas erano occupate, ma con noi il totale degli ospiti era di soli sessantadue individui; accuditi da sessanta persone di servizio poliglotte, fornite ognuna di una foto di ogni ospite con sul retro indicato il nome e il paese di provenienza. Non gli chiedemmo per delicatezza quanto costasse una villas, visto che eravamo ospiti, ma più tardi, parlando con una coppia di canadesi, scoprimmo che ogni villas, indipendentemente dal numero di occupanti, costava mille dollari americani al giorno, che la cena che avevano appena consumato, molto simile alla nostra, era costata centocinquanta dollari a testa, e che un bikini che la signora aveva comprato il giorno prima era stato pagato duecento dollari. Insomma era un paradiso Amanpulo; ma non certo per tutti!

Non c’è molto altro da dire: nel giorno e mezzo che seguì facemmo vita di spiaggia; scoprimmo che ogni tre ore un inserviente veniva a sostituire il materasso di cotone candido delle brandine di legno massiccio; che non facevi in tempo a sollevare un braccio che un inserviente si materializzava al tuo cospetto per chiederti cosa desiderassi; e che gli squali, del pericolo dei quali parlavano avvisi appesi dappertutto, c’erano davvero, ma stavano, dalle pinne che ogni tanto apparivano sull’acqua, solo al di là della barriera corallina che 245

circondava completamente l’isola. Vivaldo e Almut comunque, furono prudentissimi e non si avventurarono più lontano di una ventina di metri dalla sabbia. Io invece, cavaliere intrepido, mi avventurai più volte sulla barriera e sconfinai anche di qualche metro. Non potevo certo perdere l’occasione di guardare quell’incredibile multicolore spettacolo che andava in scena là sotto e che avevo sempre visto incantato solo alla TV; squali o non squali. Pranzammo e cenammo sempre a base di ottimo pesce e la domenica verso le quattro del pomeriggio ci imbarcammo sullo stesso piccolo aereo con il quale eravamo arrivati, e tornammo al Manila Hotel. La sera cenammo in albergo, che, imparammo, era stato la sede del comando del generale Mac Arthur durante la seconda guerra mondiale, e dopo cena ci trovammo a commentare il soggiorno ad Amanpulo concludendo che il nostro ospite doveva essersi svenato per ospitarci. Ma ci sbagliavamo di grosso e lo imparammo il giorno dopo nel suo ufficio, all’ultimo piano di un grattacielo di vetro e acciaio al numero 1000 della prestigiosa United Nations Avenue, nel cuore moderno della città.

Prima Enrique ci chiese premurosamente se ci eravamo trovati bene ad Amanpulo, come stavamo al Manila Hotel, se avevamo dato un’occhiata alla citta quella mattina e come andassero gli affari dell’Unifill; poi, davanti ad un leggero e squisito buffet, ci parlò per una buona mezz’ora delle sue attività e capimmo il perché delle attenzioni eccessive che ci aveva riservato il general manager di Amanpulo, e di quelle cui eravamo oggetto al Manila Hotel. Enrique Yap non era quel piccolo imprenditore farmaceutico che avevamo pensato che fosse, confortati peraltro in quel giudizio dal suo aspetto e dai suoi modi modesti, ma una vera e propria potenza industriale e finanziaria che dava lavoro, solo nelle Filippine, ad oltre diecimila persone. La EuroMed, infatti, pur essendo un’ attività industriale di tutto rispetto nella produzione di farmaci, non era che una piccola parte delle sue attività, che spaziavano dall’edilizia alla cantieristica, dai trasporti marittimi internazionali all’immobiliare, arrivando fino alle banche. Scoprimmo che il Manila Hotel, nel quale ci disse saremmo stati suoi ospiti, era il suo, cosi come lo era l’edificio dove ci trovavamo e tanti altri nelle Filippine e altrove fino ad Hong-Kong. Anche la banca di Manila lo annoverava fra i suoi maggiori azionisti, e, sparse per il mondo, anche in Italia, aveva un sacco di altre attività. Aveva solo un problema concluse, doveva lavorare ventiquattro ore al giorno per tentare di gestire il suo impero in quanto non riusciva a trovare managers con la cultura e l’esperienza internazionale necessarie per dargli una mano. L’unico aiuto di cui si fidava, lo riceveva dal suo unico giovane nipote poco più che diciottenne, di nome Johnny, che stava faticosamente addestrando a subentrargli.

Dopo averci lasciati di stucco raccontandoci tutto ciò, volle sapere tutto dell’Unifill, delle applicazioni realizzate fino a quel momento, dei progetti in corso, delle prospettive ecc. e io lo saturai di informazioni soffermandomi ovviamente in particolare sulle soluzioni che potevamo offrire per la sua azienda. Venne così l’ora di cena, ed Enrique volle sorprenderci ancora una volta: saremmo andati, ci annunciò, in un 246

posto dove nessun occidentale era mai stato. Scendemmo in garage, salimmo con lui sui sedili posteriori di un gippone nero blindato, e preceduti e seguiti da due gipponi identici, ci addentrammo per le stradine del vecchio centro storico della citta e ci fermammo davanti ad un paio di vetrine scarsamente illuminate. Dal gippone davanti e da quello dietro uscirono due uomini palesemente armati, entrarono nel locale e ne uscirono dopo pochi secondi facendo un cenno al nostro autista. Questi scese, apri i nostri sportelli e ci invito ad uscire.

Preceduti dai due uomini che avevano ispezionato il locale prima, entrammo a nostra volta in quello che sembrava più una mensa per diseredati che un ristorante per miliardari e ci sedemmo ad un tavolo d’angolo che ci indicarono. Loro sedettero accanto alla porta.

Non mi ricordo né cosa mangiammo né che sapore avesse, ma quasi certamente si trattò di pesce. Ricordo invece, e molto bene, la proposta favolosa di impiego che Enrique mi fece con poche parole mentre Vivaldo e Almut si assentavano per lavarsi le mani. Ci riaccompagnò con la stessa processione di gipponi all’hotel, lo ringraziammo, e dopo esserci promessi di rivederci quanto prima ci salutammo; e io andai a dormire con davanti agli occhi la scena da film appena vissuta e nelle orecchie le seducenti parole di Enrique. L’indomani ci imbarcammo per Tokio.

Di Tokio faccio in fretta a parlare. Trovammo Vatne e i suoi al Capitol Hotel Tokiu come previsto; e mentre Vivaldo e Almut facevano spese nelle lussuosissime boutique dell’hotel, io tenni il previsto corso sui prodotti Unifill agli attentissimi giapponesi. Ci fermammo solo il giorno dell’arrivo e quello seguente, non ci muovemmo praticamente dall’hotel e quindi non ho ricordi della città, ma ricordo però le due cene. La prima che feci solo con Vatne in un locale, a due passi dall’albergo, dove a suo avviso si mangiava il miglior sushi del mondo al prezzo più basso; perche fu di uno squallore che non sto a descrivervi. La seconda, al contrario, in uno dei tre lussuosissimi ristoranti di quell’hotel a cinque stelle, per la faccia che fece Vatne quando, dopo aver chiesto di caricare il conto totale sulla sua camera, firmò la ricevuta. Sgranò gli occhi, divenne prima pallido poi subito rosso ferrari, ma firmò. Avrebbe dovuto saperlo che le bistecche di “kobe” potevano essere carissime; specie in un hotel come quello.

Ritornato da quel viaggio ripresi ad occuparmi di qualche cliente importante e di qualche uomo Elopak in visita, dell’Unifill Francia, e ad aiutare Arnaldi e Anita a Kreuzlingen a scegliere gli arredi degli uffici e dei due appartamenti che avevamo preso in affitto per ospitare i pendolari che vi avrebbero lavorato. E a proposito di quei viaggi a Kreuzlingen, devo aprire una volta ancora una parentesi “extralavoro” per dimostravi una volta di più, come se ce ne fosse ancora bisogno, che ero e sono baciato dalla fortuna.

Gli uffici e gli appartamenti erano ad un centinaio di metri dal confine con la Germania, e spesso andavamo a piedi a Costanza, a pranzo o a cena, o semplicemente a fare un giretto nel bellissimo centro storico della città affacciata sul lago. Io poi, nei momenti nei quali non avevo niente da fare o non potevo fare niente, andavo al casinò di Costanza; a 247

venti minuti a piedi dall’ufficio. Non ero un giocatore, non lo sono mai stato né lo sarò mai perché non sono avido, ma quasi tutte le volte che ero capitato vicino ad un casinò e avevo avuto un po di tempo, vi ero entrato; e quasi sempre avevo vinto. Bene, la stessa cosa capitava immancabilmente anche a Costanza. Era incredibile! Giocavo solo alla rulette, solo su un numero, e vincevo. Credo di aver vinto nei tre o quattro mesi che frequentai quel posto non meno di centomila marchi; si proprio così: una piccola fortuna! Una fortuna che avrebbe potuto essere davvero tale se non fossi stato fondamentalmente un ”povero”.

State a sentire; e vi giuro che è vero.

Cambiavo ogni volta mille marchi in fiche da cento, e giocavo ogni volta cento marchi su un numero. Un pomeriggio, dopo aver vinto e perso per una mezzora, vinsi giocando il venti, e come facevo sempre lasciai cento marchi di mancia, ne presi tremilacinquecento dal tavolo e ne lasciai cento sempre sul venti. Tornò ad uscire, e io rifeci la stessa manovra di prima. Ebbene, fra un grido di eccitazione degli astanti, uno sguardo esterefatto del croupier e un mio moto di stizza: il venti uscì per la terza volta. Certo vinsi circa diecimila marchi con quei tre venti consecutivi, ma provate a calcolare quanti ne avrei vinti se non fossi stato appunto un “povero” e avessi lasciata, come faceva James Bond, sempre la vincita sul numero. Io lo fatto e sono quasi svenuto!

4.532.400 marchi, cento più, cento meno: una discreta sommetta; che ne dite? Ah quasi dimenticavo: non vinsi solo soldi al casinò di Costanza: in quei giorni mi dedicai a qualcosa di importantissimo per questo racconto; direi fondamentale. Con l’insistente aiuto della paziente Anita mi decisi a provare ad usare il PC, cosa nella quale non mi ero mai voluto cimentare trovando più comodo lasciarlo fare a assistenti e segretarie. Senza quell’occasione, non l’avrei di certo mai più fatto e non sarei qui a scrivere. Con uno sforzo improbo invece buttai giù, in una quarantina di sudatissimi fogli pieni di errori, alcune delle mie esperienze lavorative. Ma lascio adesso i ricordi delle vicende di Kreuzlingen, per ricordare qualcosa di quei giorni, ben più importante, almeno per me.

Fra un viaggio e l’altro era arrivato settembre, e sulla stampa e per TV cominciarono a circolare voci insistenti di un imminente riassetto del sistema pensionistico, voci che fra l’altro parlavano di drastiche modifiche ai requisiti per poter ottenere la pensione di anzianità. In sostanza, per ottenerla non sarebbe stato più sufficiente l’anzianità contributiva di 35 anni, ma sarebbe stato necessario averne anche compiuti anagraficamente 57. Era una misura onestamente logica e condivisibile: già da tempo si capiva che il sistema in vigore sarebbe presto collassato, ma a me, che proprio in quei giorni stavo maturando quell’anzianità, quella più che probabile eventualità sembrò un vero e proprio sopruso, e l’andare in pensione, eventualità che non mi era mai passata per la testa visto quanto mi divertivo a lavorare, diventò improvvisamente il mio unico obbiettivo. Continuavo a lavorare con il solito impegno e entusiasmo, ma seguivo con ansia le notizie sui giornali e per TV sull’argomento; e quando mi convinsi che lo stato

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avrebbe approvato quella legge fregandomi cinque anni di potenziale libertà decisi di anticiparlo e fregare io lui.

Il venticinque di settembre buttai giu a mano poche righe dove indicando le ragioni egoistiche che mi spingevano a farlo, rassegnavo le dimissioni e, anticipandogliene a voce il contenuto, la consegnai a Vivaldo. Suggerivo, per non rischiare scherzi del governo, di cessare il rapporto a tutti gli effetti al massimo entro il trentuno di dicembre; e concludevo, per lasciare aperta la possibilità ad un rapporto di consulenza che ero certo mi avrebbero offerto e che avrei intrapreso volentieri, che se l’Unifill avesse ravvisato l’opprtunità di avvalersi dei miei consigli sarei stato a disposizione. Come mi immaginavo Vivaldo le accettò con un sorriso dicendomi che facevo non bene ma benissimo a non farmi fregare dallo stato, e tranquillizzato da quella frase finale e da quanto gli assicurai a voce mi disse che avremmo parlato a tempo debito di come sistemare il “dopo”. Ma quel “dopo” era destinato ad essere molto diverso da come entrambi ce lo eravamo immaginato.

Non credo di avervene mai accennato, ma da anni, ogni tanto mi faceva capolino nella mente il pensiero che prima o poi avrei dovuto pagare un conto salato per la fortuna sfacciata che la vita insisteva nel riservarmi; era solo una sensazione senza nessun fondamento che durava poche ore e alla quale non avevo mai dato peso. Ma in quei giorni quel pensiero arrivò e non se ne voleva più andare. Furono giorni difficili, credetemi, nei quali mi immaginai che mi stessero per capitare fra capo e collo le disgrazie più terribili, e mi venne un’irrefrenabile desiderio di fare al più presto tutte quelle cose cui fino a pochi giorni prima avevo certo pensato, ma solo per un futuro di la da venire. E siccome mi conoscevo e sapevo che se avessi preso qualsiasi tipo di impegno, anche apparentemente blando, non sarei stato capace di fare le cose a metà, per non rischiare di dover rinunciare a quel mio nuovo obbiettivo, decisi che non avrei più preso impegni o responsabilità.

Per non dover subire per troppo tempo pressioni che avrebbero potuto farmi recedere da quel proposito, pur se capivo di agire scorrettamente nei suoi confronti, decisi di parlare di quel mio cambio di rotta a Vivaldo solo all’ultimo momento, e per far si che l’azienda non subisse alcun disagio dalla mia improvvisa assenza mi dedicai senza farmi troppo notare a chiudere quei sospesi di mia stretta competenza che mi avrebbero obbligato a tornare in azienda con troppa, tentatrice continuità. Decisi anche di redigere con l’aiuto di Debora un “Sales Manual” (un manuale per venditori) da lasciare in eredità agli ancora sprovveduti uomini di vendita della Elopak.

Venne così il dieci di novembre, e partii per il sud America. Dovevo accompagnare Pedrazzi da tre clienti venezuelani della Elopak che curava stranamente lui. Un viaggio lampo, molto probabilmente noioso e con poche prospettive e che invece grazie proprio a Pedrazzi, ma anche a Vivaldo, si rivelò, come quello nelle Filippine, un’altra bellissima vacanza. In albergo a Caracas infatti non trovai Carlo, ma un suo messaggio che mi chiedeva di chiamarlo in Italia. Non era potuto partire, mi disse afflitto, e sarebbe arrivato solo dopo quattro giorni; ma aveva già avvertito i clienti e mi suggeriva, come aveva suggerito a lui 249

Vivaldo, di fare il turista. E io lo feci il turista, eccome se lo feci, ma non certo in Venezuela. Il Perù era a due passi, e fin da bambino avevo fantasticato sulle gigantesche figure della piana di Nazca, sulle inspiegabili mura ciclopiche di Cuzco e sulla misteriosa città andina di Machu Picchu: era uno degli itinerari che avevo pianificato di fare nella mia ipotetica attraversata in auto del continente americano, e nemmeno mezz’ora dopo aver parlato con Carlo ero nell’agenzia viaggi dell’albergo a prenotare un tour in Perù. E il mattino dopo ero a Lima.

Potrei scrivere mille pagine per descrivervi quell’esperienza fantastica, ma non voglio infierire con argomenti che potrebbero essere in effetti interessanti solo per me: vi dico solo che vidi e feci, anche se di corsa, tutto quello che avevo sempre sognato di vedere e fare e anche qualcosa che non avevo neppure sognato. Passai infatti un paio d’ore con la per me mitica Maria Reiche - ricercatrice tedesca là dal ’46, convinta sostenitrice degli extraterrestri - che mi affascinò con i suoi racconti e mi mostrò delle foto di alcune pitture rupestri ritrovate in caverne sepolte da migliaia di anni che raffiguravano i mitici semidei Viracochas (ossia visitatori!!!). Indubbiamente uomini magri, altissimi, di pelle diafana, con capelli bianchi, abiti sontuosi e altissimi calzari, molto diversi dai bassetti e scuri uomini delle Ande! A Machu Picchu poi mi capitò anche una piacevole “coincidenza ipossibile ”. Nel posto di ristoro in cima alla montagna dove sbarcano dai pulman le centinaia di vistatori che arrivano con il trenino da Cuzco, c’erano una diecina di lunghi tavoloni seduti ai quali i turisti potevano riffocillarsi. E tutti costantemente presi d’assalto. Trovato che ebbi a fatica un posto a sedere, alzai lo sguardo sul mio dirimpettaio, il quale sbarrò gli occhi esclamando: “ Ma nooo! il bolognese?” Ebbene sì, ero proprio Rainiero d’Este, un albergatore, nonostante il nome e l’aspetto nobili, figlio di pescatori, presso il quale avevo soggiornato in vacanza a Grado per alcuni anni di seguito dal ’75, e che non avevo più rivisto! L’unico neo di quella splendida vacanza, ma al quale non feci caso tanto ero affascinato, fu il modo di guidare a dir poco garibaldino del pilota con il quale sorvolai per quasi un’ora, su un piccolo monomotore molto datato, la piana di Nazca. Rodolfo Arias - orgogliosamente ex pilota da caccia- era bravissimo a fare virate strette; ma era anche ubriaco fradicio, scoprii mio malgrado.

Tornato a Caracas, con Carlo in due giorni facemmo quello che dovevamo fare, e al ritorno ordinai con una certa soddisfazione una bella Volvo T5 con un portabagagli idoneo a contenere le cose per la pesca e i cesti per i funghi. Ricevetti un altro paio di clienti e qualche altro venditore della Elopak; feci un paio di visite lampo alla Unifill Francia, e il quattro di dicembre, in tempo utile in base alle istruzioni che mi erano state impartite dall’IMPDAI, presentai la domanda di pensione. E il giorno dopo informai Vivaldo che avevo cambiato idea. Ci rimase male, Vivaldo, ma quando gliene spiegai la ragione allargò le braccia e non fece nessuna forzatura. Mi chiese solo di non dire niente a nessun altro e mi strinse mestamente e a lungo la mano dicendomi con quella stretta e con lo sguardo, ne sono certo, un silenzioso grazie.

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Gli altri giorni se ne andarono senza storia e nel tardo pomeriggio del trenta nel corso del tradizionale scambio di auguri salutai e ringraziai Vivaldo, Andrea, Alberto, Rossella, Vatne, Cristine, Pedrazzi e tutti i gli altri. Come avevo immaginato non c’era però un’atmosfera d’addio nella sala riunioni piena zeppa di gente: era più che evidente che tutti, tranne Vivaldo che in effetti non si faceva troppo coinvolgere in discorsi di commiato troppo impegnativi, si aspettavano di rivedermi a breve riprendere il mio solito lavoro nelle vesti di consulente; e sentendomi un traditore mi eclissai alla chetichella. Ma quella sensazione mi passò quasi subito. Mentre guidavo lentamente sul “Canaletto”, mi convinsi che non stavo proprio tradendo nessuno; il lavoro che dovevo fare per l’Unifill, l’avevo certo fatto e anche bene, e quindi potevo godermi a cuor leggero la gran bella sensazione che mi dava il pensiero di tirare i remi in barca con il vento in poppa. Il vecchio Henry David Thoreau l’aveva proprio detta giusta quando aveva asserito che il successo più grande nella vita era fare di essa ciò che più si desidera.

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In Pensione

Già, in pensione dunque, e forse vi chiederete, avendo letto dei miei propositi di disimpegno, cosa mai vi possa ancora raccontare a proposito di “scartuzz”. E invece qualcosa ce l’ho; perché la mia solita fortuna non solo non mi ha abbandonato presentandomi il conto salato che mi ero immaginato e avevo tanto temuto, ma mi ha fatto vivere da pensionato in un modo che migliore non avrei potuto desiderare.

All’inizio le cose andarono come mi ero immaginato. Era inverno, e in attesa della buona stagione per poter tornare a pescare e poi andare a funghi, il tempo prese a scorrere fra qualche buon libro, qualche passeggiata sotto i portici, frequenti puntate nei musei cittadini nei quali non ero più entrato dal tempo delle scuole medie, qualche vista a Benedetti per dire qualche malignità sull’uno e sull’altro dei nostri ex concorrenti o colleghi ancora “sul pezzo”, e visite molto più frequenti a Biagini e Cinzia in PRB, dei quali, fin dalla fornitura congiunta BFB/PRB alla Fagor ero diventato con Luciana amico intimo e compagno di frequenti serate conviviali. Verso la fine di gennaio, venne a trovarmi Gabriell Taltavull, ma non per far chiacchiere però, ma per convincermi ad andare a Barcellona a lavorare al suo fianco. E una proposta simile mi arrivò anche nello stesso tempo dal mio amico indiano Barat Patel.

Proposte lusinghiere che mi fecero indubbiamente piacere, ma che rifiutai; lasciandomi “tastare” solo per qualche consiglio e per fare, come con Biagini, qualche chiaccherata senza impegno.

Verso la fine di febbraio fu invece Vivaldo a chiedendomi di aiutarlo a derimere alcune questioni con la Elopak; e lo accompagnai volentieri tre o quattro volte a Kreuzlingen in viaggetti che si rivelarono piacevoli e molto remunerativi. No, no, non pensate che mi feci pagare, avevo deciso di non chiedere e di non accettare più compensi per non avere impegni e responsabilità e non accettai nemmeno quelli che Vivaldo insistette per offrirmi, ma evidentemente quando uno è fortunato è fortunato. Con qualche puntata al casinò di Costanza raggranellai una somma pari ad un paio d’anni di pensione e riuscii anche a risparmiare una discreta sommetta che avevo già data come spesa. Spigandogliene la ragione vera che Vivaldo si era ben guardato dal rivelargli, feci infatti la pace con Vatne, che non aveva preso bene la mia fuga improvvisa, e che mi invitò alla ormai imminente fiera di Dusseldorf, alla quale avevo già deciso di andare per conto mio, per presentare alla quarantina di venditori cui era destinato, il “Sales Manual” che Debora, sulla falsariga che le avevo indicato, stava per completare.

Anche la rimpatriata a Dusseldorf fu molto piacevole: capii infatti di mancare a molti, in Unifill, ma non cedetti né alla vanità, né alle nostalgie, né alle reiterate offerte di Vivaldo e Vatne per riavermi con loro sotto qualsiasi forma avessi voluto. Presentai nella riunione pre fiera il manuale ricevendo un unanime apprezzamento, e dopo aver trascorso sullo stand un intera giornata con i miei ex colleghi e collaboratori e appreso con una punta di vanità che Enrique Yap - vi 253

ricordate, quello di Manila - aveva preannunciato l’ordine per ben cinque macchine dei nostri tre differenti modelli, consumai gli altri giorni aggirandomi per gli stand a curiosare e a salutare amici e conoscenti. Belle giornate, durante le quali sfottei, bonariamente, un po’ dei miei amici manager affannati nel cercare di conseguire i loro budget, incontrai con sorpresa e piacere sullo stand dell’OCME di Parma, Carlo Grossi, che ne era diventato amministratore delegato, e ricevetti alcune altre proposte di lavoro. Resistetti comunque anche a quelle e l’ultimo giorno, poco prima di ripartire, andai a salutare allo stand dell’UCIMA il mio amico dottor Corbella.

Avevo conosciuto Corbella nel ’93, quando l’Unifill era entrata UCIMA e lui ne era il direttore, ma solo dopo che mi aveva conferito l’Oscar avevamo preso confidenza, e ad ogni assemblea dell’associazione e in tutte le altre occasioni canoniche che ci facevano incontrare, non mancavamo di scambiare quattro chiacchere. Dall’ultima assemblea alla quale avevo partecipato, però, non ci eravamo più visti e ci eravamo solo scambiati gli auguri di Natale per telefono e quindi avevamo un sacco di malignità sulle quali esercitarci, ma alla fine, inevitabilmente finimmo col parlare della mia andata in pensione: una scelta anche per lui come per tanti altri dell’ambiente, mi disse, incomprensibile, vista la mia età e le prospettive che avevo davanti. Naturalmente anche con lui, come del resto avevo fatto e facevo con tutti, sostenni che avevo semplicemente scelto di essere libero; ma mi lasciai sfuggire che a volte la libertà mi annoiava un poco. E lui, dandomi a sorpresa del “tu” mi disse: “ Ma perché non vieni alle nostre assemblee per rompere la noia ?

Se lo desideri sarò ben felice di invitarti, e ti assicuro che non farai piacere solo a me!” E io, pensando che avesse scherzato, gli risposi: “Magariii!”, poi lo salutai e mi avviai all’uscita.

Ritornato dalla fiera la stagione per la pesca si fece buona, e mi ci dedicai con passione scoprendo con soddisfazione di essere ancora bravino a praticarla; poi, dopo un paio di puntate con Enrico Vincenzi nella tiepida Montecarlo a trovare il Murat, a fine maggio venne finalmente un’insperata buttata di porcini ad occupare un bel po’ del mio tempo e del mio interesse. E fra un porcino e un altro, si rifece vivo Corbella. Confesso che mi ero quasi dimenticato dell’offerta che mi aveva fatto a Dusseldorf, e quando mi chiamò per invitarmi come “ospite osservatore” a un’imminente assemblea dei soci UCIMA, quasi non gli credetti. Ma era vero.

Ripensandoci oggi, a quell’invito, che allora mi fece solo molto piacere, devo dire che molto probabilmente mi salvò anche da molti possibili guai. Nella mia ansia di libertà non avevo infatti considerato che per natura io non sono capace di stare senza far niente, e che pur se avessi fatto tutto quello che mi ero proposto e mi fossi dedicato al “diversivo” molto più che in precedenza, mi sarebbe rimasto comunque un sacco di tempo vuoto da riempiere e che avrei corso il serio rischio di annoiarmi e di cadere in depressione. E invece, grazie agli inviti di Corbella alle assemblee e ai tanti eventi collaterali, ho avuto davvero ben poche occasioni di annoiarmi: pur riuscendo a fare tutto quanto mi ero proposto e anche molto di più, per ben quindici anni ho continuato 254

a vivere nel mondo dei “scartuzz” quando l’ho voluto, e ho smesso solo per un problema ad una corda vocale che mi ha reso un po’ faticoso parlare e mi ha in un certo senso quasi obbligato a farlo: un tramonto comunque, che migliore non avrei potuto sognare.

Non posso certo fare la cronaca di tutti quei quindici anni, ma le esperienze più significative, quelle le voglio ricordare; a cominciare dall’indimenticabile giornata trascorsa nelle vesti di relatore e moderatore al convegno “The Heart of Packaging” (il cuore del packaging ), organizzato a Bologna nel settembre del 2002.

Fu davvero una gran giornata: innanzitutto perché la Elau, la grande azienda tedesca di componentistica industriale che l’aveva organizzato, aveva scelto la splendida cornice del Palazzo Re Enzo per svolgerlo, e in secondo luogo perché per me, non lo nego, fu davvero gratificante. I miei interventi furono infatti applauditi con calore e al termine dei lavori, giudicati in generale molto interessanti, la Elau mi ringraziò sia pubblicamente davanti a tutti i rappresentanti più autorevoli del mio mondo, che con una bella lettera personale. Inoltre, nei giorni seguenti vidi citata la mia professionalità ed esperienza su diverse testate specializzate e anche su alcuni quotidiani nazionali ( pagine 281 - 283 ).

Sul nostro ”Resto del Carlino”, poi, Marco Tavasani, uno dei primi amici della Bolognina, divenuto giornalista e purtroppo scomparso un paio d’anni fa, arrivò a definirmi, con palese ma comunque gradita esagerazione, addirittura “uno dei guru mondiali del packaging”.

Altre belle esperienze di quel genere, ma non certo paragonabili a quella, furono certamente l’intervento che feci nell’ottobre del ‘99 al centro congressi di Milanofiori di Assago nel simposio denominato “progetto e realizzazione del packaging”, e la relazione che presentai nel giugno del 2002 al “the future of the packaging” ( il futuro del packaging ), organizzato da Pira a Barcellona. Fui anche sempre invitato a tutte le edizioni dell’ Ipak - Ima a Milano, e ad una di queste ricevetti, come vi avevo accennato, la seconda offerta di diventare direttore generale del gruppo Romaco. Me la fece il presidente della Robbins & Myers inc., la società che aveva comprato il gruppo dai Fenwick Smith, ma io la rifiutai ancora una volta; suggerendogli di non cercare un direttore, ma di vendere il gruppo il più in fretta possibile.

Poi ci furono i viaggi e soprattutto le persone. Già tanti viaggi e tantissime persone. Non vi annoierò però con i viaggi, come ho forse fatto troppo spesso nel corso del racconto; mi limito a dirvi che ne feci diversi, in particolare per promuovere il “Prodotto Italia”per conto dell’ICE, ma non solo, e a raccontarvi in poche parole dei due che feci in Cina e di quello in Uzbekistan, per me fra i più interessanti.

Dal primo in Cina, nel ’97, dove non ricordo cosa ero andato a fare, ritornai infatti in compagnia della splendida cometa Hale Bopp con la sua “coda”; uno spettacolo, contro il cielo nero, credetemi, da togliere il fiato. Nell’altro a Shenyang e a Qingdao nel 2002, non successe in effetti niente di particolare, ma lo ricordo nitidamente perché ebbi la conferma di aver visto giusto, dieci anni prima, nel prevedere il rapidissimo sviluppo di quel paese. Quelle due città delle quali non avevo mai sentito parlare avevano una sette e l’altra nove milioni di 255

abitanti, aeroporti modernissimi, edifici imponenti, capannoni industriali a perdita d’occhio, larghe autostrade a più corsie piene di auto nuove e alberghi da fare invidia a Los Angeles. E solo dieci anni prima, mi assicurarono, non erano che due poveri agglomerati di casupole abitati da poco più di cinquantamila persone. Del viaggio in Uzbekistan, infine, che feci nel ’99, ricordo la splendida Samarcanda, la parte vecchia di Taskent, con l’imponente monumento a Tamerlano; ma anche le bellissime ragazze di sangue misto uzbeco, russo e mongolo, le interminabili ispezioni personali e al taxi ad ogni rientro in hotel e soprattutto il trattamento singolare riservato da quelle parti ai passeggeri di prima classe.

Come a tutti gli altri membri della missione, l’ICE mi aveva offerto un biglietto di businnes, ma io, per consumare la montagna di “miglia premio” accumulate con la Lufthansa che sembravano non voler finire mai, avevo fatto come in altre occasioni, l’up-grading in prima. All’arrivo tutto era stato normale, ma alla partenza, esaminato il biglietto, ricevetti un trattamento davvero speciale e molto gradito. Una bella ragazza mi appese alla giacca un talloncino di plastica rossa, prese la mia valigia, il rotolo di tela dipinto che avevo acquistato da un pittore di strada, e senza farmi sottostare ad alcun controllo mi scortò fino alla mia comoda poltrona sull’aereo.

E adesso dai viaggi devo passare alle persone; un mestiere abbastanza difficile, almeno per un neofita come me, ma siccome sono stati i rapporti con le persone a dare il senso vero a quei bellissimi anni, non posso esimermi dal ricordare almeno quelle con le quali ebbi quelli più premianti, e anche deludenti, purtroppo, e siccome oggi non ho voglia di parlare di delusioni, comincerò col parlarvi del “geometra” Marco Vacchi e dell’ingegner Casiraghi, che di delusioni non me ne hanno mai date. Anzi.

Dell’esistenza del geometra Vacchi avevo saputo solo quando, alla morte dell’ingegner Taino, aveva preso le redini dell’IMA. L’avevo poi visto e incontrato di sfuggita alle fiere negli anni successivi, senza però mai parlargli direttamente, fino a quando, nel ’98, era diventato presidente dell’UCIMA dopo Vaccari. E con lui nacque davvero uno strano rapporto, molto diverso da quello che avevo con tanti altri imprenditori o dirigenti di altre aziende. Questi infatti tendevano in generale a parlarmi di problemi specifici delle loro aziende e a chiedermi pareri e consigli per come risolverli, ma Marco, no. Dell’IMA, che in effetti di problemi non ne aveva proprio e comunque aveva in se gente capace di risolverli alla grande, non mi parlava quasi mai, mentre gli interessava molto parlare di aziende che vedeva come possibili partener o anche “prede”. Discorsi quindi molto interessanti e variegati che spaziavano dai prodotti di queste aziende, ai mercati e agli uomini che le guidavano.

Un gran bell’esercizio che abbiamo continuato a fare per molti anni e che mi ha permesso di seguirlo mentre imprimeva la sua inconfondibile impronta nell’UCIMA, restandone per acclamazione alla guida per tre mandati consecutivi, e nell’IMA; costruendo prima sulle indubbie solide fondamenta lasciategli da Taino un gigante mondiale e lasciandone con 256

rara lungimiranza la guida, al momento opportuno, a suo figlio Alberto.

Anni che quindi mi hanno permesso di conoscerlo abbastanza per definirlo un uomo speciale: capace di correggere chi per ignoranza o per blandirlo lo chiama dottore o ingegnere, dicendogli garbatamente di essere solo un povero geometra pratico solo di ghiaia; anche se quando lo dice dalla sua voce traspare un più che giustificato orgoglio, ma anche un vero leader nel senso più completo della parola: ascoltato e ammirato da quasi tutti coloro che lo incontrano e direi addirittura amato da molti dei suoi collaboratori, e anche un’interlocutore simpatico ed eclettico, dal quale si può imparare non solo a come condurre aziende, ma anche a vivere bene.

Del nostro rapporto ricordo in particolare quando mi chiese di dargli del tu; un invito inaspettato che mi lusingò, ma anche le tante scorribande in giro per le fiere, nel corso di una delle quali mi fece un complimento che mi fece davvero gongolare. Eravamo in giro fra gli stand a curiosare e far chiacchere con l’uno e con l’altro, quando da quello della BL, Riccardo Taino, che era seduto in compagnia di Buffoni, Cavarra, Filippi e Gino Benedetti, ci invitò ad entrare e a sederci con loro. Naturalmente accettammo, e per una buona mezz’ora facemmo chiacchiere e pettegolezzi vari sugli altri, ma poi arrivammo a parlare di noi e dei nostri meriti e demeriti, e quando Benedetti, come aveva fatto in altre occasioni, ma credo senza pensarlo veramente, disse che in fin dei conti io sapevo fare solo delle chiacchiere, a seguito di una generale e sonora risata di approvazione alle sue parole, Marco aggiunse: “Sì! può darsi; però le sa fare molto bene!”

Il rapporto con l’ingegner Casiraghi iniziò quando questi sostituì il dottor De Martis alla guida del gruppo GD, e di conseguenza ne divenne rappresentante in seno all’UCIMA; e per la verità per un bel po’ di tempo si limitò a cortesi ma formali saluti in occasione degli incontri canonici. Poi, in occasione di uno di questi, al suo solito distaccato ”buon giorno Tabaroni”, l’ingegnere fece seguire“non avrebbe mica voglia di fare due chiacchere?”; aggiungendo, quasi a scusarsi per l’impertinenza che aveva saputo del mio lungo trascorso in ACMA e desiderava parlarne per avere un quadro della sua storia. E io fui felicissimo di dirgli di sì.

Quella prima volta parlammo per quasi due ore e fu una cosa molto piacevole, così non feci molto il prezioso quando me lo chiese ancora fino a far diventare i nostri incontri, un po’ come quelli con Marco Vacchi, una consuetudine, durata anni. Una consuetudine che mi mi fece incontrare quel controverso personaggio di Giorgio Seragnoli, dal cui ufficio ricordo assistetti in diretta, credendo si trattasse di un film, al crollo delle torri gemelle di New York; mi offrì il previlegio di incontrare alcune volte sua cugina Isabella Seragnoli, una signora davvero con la S maiuscola; e mi regalò la grande emozione di rimettere piede, dopo quasi sedici anni, nella mia mai dimenticata ACMA. Grazie a Casiraghi infatti, conobbi Stefano Cavallari, che a quel tempo ne era direttore generale, che subito al primo incontro mi invitò a fargli visita.

Fu davvero una gran bella giornata quella, molto emozionante, come dicevo. Non fui infatti solo accolto con sorpresa da Sandra, la mia prima 257

segretaria divenuta nel frattempo segretaria di Stefano, che mi abbracciò, mi sembrò, con uno slancio sincero, ma anche tutti gli altri miei ex colleghi rimasti, pochi purtroppo, mi riservarono un’accoglienza davvero calorosa che mi fece molto piacere. E quindi non mi tirai certo indietro quando Stefano mi invitò ad andarlo a trovare più spesso.

Un’abitudine che perdurò per mesi e che oltre a farmi trascorrere tante belle giornate con vecchi e cari amici e smettere, grazie a Sandra, una seconda volta di fumare - me lo aveva già fatto fare una ventina d’anni prima ma avevo ripreso - mi fece rincontrare a sorpresa il contenitore di Magnoni.

Se ricordate avevo “demolito” quell’irrealizzabile oggetto agli occhi degli uomini della TBE nel ’90, e lo avevo fatto di nuovo circa tre anni prima, in un’occasione di cui vi parlerò fra poco, e mi sembrò impossibile che fosse ancora in circolazione. Certo, quello che mi fece vedere Stefano era un po’ diverso dai due che avevo cassato, e la splendida macchina dall’inconfondibile meccanica GD destinata a produrlo che mi mostrò con orgoglio, sembrava in grado di fare “qualsiasi cosa”, feci quindi prudentemente finta che fosse per me una novità assoluta. Gli feci qualche domanda generica, e dopo aver avuto la conferma che si trattava proprio di una rielaborazione del contenitore di Magnoni, decisi di seguire i lavori curioso di vedere se mi ero clamorosamente sbagliato per ben due volte con i miei lapidari giudizi e soprattutto se la GD sarebbe sarebbe riuscita dove Massimo Marchesini aveva fallito. Dopo pochi mesi però, capii dallo sconforto dei miei ex montatori, che anche quel gioiello tecnologico - lo dico con sincerità non avrebbe mai potuto farcela, e raccontai tutta la storia a Casiraghi, poi non ne ho più saputo nulla, ma visto che sono passati tanti anni e che di contenitori simili non se ne sono mai visti sugli scaffali dei supermercati, non credo che sia andata a finire tanto bene. Ho un’ultimo ricordo dell’ingegner Casiraghi che mi preme citare: gli inaspettati ringraziamenti per i miei consigli che mi fece a sorpresa per telefono nella tarda serata del suo ultimo giorno in GD. E adesso, per chiudere definitivamente il discorso “Magnoni”, vi racconto, e volentieri, del secondo incontro con il suo contenitore, perché per farlo devo parlarvi di un’altra bella e inaspettata parentesi di quegli anni: il ritorno con i Bartoli.

Dopo la fiera di Dusseldorf del ’96, non avevo più visto o sentito nessuno di loro, ma avevo saputo che avevano ceduto completamente l’Unifill alla Elopak facendo un grossissimo affare, e che avevano smesso di occuparsi di macchine per l’imballaggio volgendo i loro interessi verso i succhi di frutta acquisendo la Aba Food di Badia Polesine. Rimasi quindi molto sorpreso quando verso la fine del 2000 una centralinista della Sarong mi passò Vivaldo e molto incuriosito quando lui mi annunciò di esserne il nuovo proprietario e mi chiese se potevo andare a trovarlo a Reggiolo per fare quattro chiacchere: un invito che accettai con piacere.

Ci furono abbracci commossi, qualche accenno nostalgico al passato; poi Vivaldo, dopo avermi ringraziato per il grosso affare fatto con la Elopak, del quale mi attribuì il merito, mi raccontò che qualche tempo 258

prima si era scocciato dei succhi di frutta, che piacevano ad Almut ma non a lui e ai suoi figli, e avendo saputo che la Sarong era in vendita, aveva deciso di tornare a far macchine per l’imballaggio e l’aveva comprata.

Sul momento pensai che fosse stato troppo impulsivo; da quello che sapevo il mercato delle supposte, nel quale peraltro la Sarong primeggiava a livello mondiale, non era un mercato in espansione, e non gli nascosi la mia perplessita per quella scelta, ma lui sorridendo sornione aggiunse :” Vede Roberto, lo so anch’io che le supposte non hanno, forse, un grande futuro, ma la Sarong le fa usando, come certo lei ben ricorda, una tecnologia di termoformatura fra le migliori del mondo che noi intendiamo usare per fare altre cose; ad esempio, ma non solo, non appena scadrà l’accordo di non concorrenza con la Elopak, fra meno di un anno, monodosi come quelle che facevamo in Unifill”. E concluse: “Non avrebbe mica voglia di venirci a dare una mano?”

Ci pensai un poco, vedevo dietro l’angolo un forte pericolo per la libertà che mi ero imposto e alla quale mi ero abituato, ma a Vivaldo e ai ragazzi non potevo negare un favore. Dopo aver ottenuto di essere impegnato un solo giorno la settimana, non tassativo, e di poter smettere quando mi sarebbe parso, gli dissi di sì, e dalla settimana dopo “tornai a lavorare”. Si, proprio così. Per non far correre rischi fiscali e previdenziali alla Sarong, derogando ai principi che mi ero imposto da Vivaldo accettai infatti anche un contratto con relativo compenso.

Un lavoro blando e soprattutto piacevole, quello che cominciai a fare in compagnia oltre che dei Bartoli, di alcuni vecchi e cari amici che l’avevano seguito dall’Unifill in quella nuova avventura: consigli, suggerimenti e opinioni sugli argomenti più diversi, per i quali, non mi sembrava di meritare nessun compenso, poi verso la fine del primo mese d’impegno, in un colpo solo un modo per “guadagnarmi lo stipendio” lo trovai. Anche Vivaldo, come avevano fatto undici anni prima gli uomini della TBE, mi chiese cosa ne pensavo del contenitore di Magnoni che gli era stato offerto da sfruttare. Non fu un’impresa facile convincerlo a non farlo: quel contenitore era evidentemente affascinante, e anche se gli spiegai tutto quello che avevo spiegato a Bulgarelli, Caselli e Giberti, Vivaldo si convinse a desistere dall’idea solo quando gli dissi che anche quel genio tecnologico di Massimo Marchesini, come avevo pronosticato a Bulgarelli, si era dovuto arrendere di fronte alle difficoltà di realizzarlo in modo accettabile.

Quella fu di gran lunga la cosa più importante che feci per i Bartoli, gli feci certamente risparmiare una montagna di soldi e di problemi, ma anche il dissuaderli dal pensare che fare concorrenza all’Unifill potesse essere il filone giusto attorno al quale sviluppare la Sarong, non fu, ne sono convinto, un consiglio strategico di poco conto. L’analisi che feci delle ragioni delle difficoltà che la Unifill stava incontrando li convinsero che non erano affatto dovute, come loro pensavano, solo alla scarsa capacità e fantasia dei norvegesi e alla vendita della divisione del confezionamento per conto terzi. Certo i norvegesi non erano né fantasiosi né flessibili e la vendita della divisione del confezionamento, così come quella della CNC, non erano state scelte intelligenti, ma a 259

causare il crollo dell’Unifill era stato solo il mercato. Dopo l’iniziale curiosità che noi eravamo riusciti a sfruttare con tanto successo, i clienti si erano accorti che i costi della plastica in bobina per molte delle applicazioni che avevano scelto erano troppo alti rispetto alle confezioni tradizionali e i consumatori che i nostri simpatici blister erano troppo cari e non così utili e facili da usare. Tutto li.

Durò circa un anno il mio impegno in Sarong, senza che accadessero altre cose che valgano la pena di essere ricordate, per lo meno dal punto di vista del lavoro, mentre invece dal punto di vista personale un paio di bei ricordi ce li ho. Come dicevo andavo una volta la settimana in Sarong, e di solito mi fermavo l’intera giornata. Ma non ero impegnato per tutto il tempo, quindi, approfittando dei PC dell’azienda ripresi la quarantina di sudati fogli pieni di errori che avevo scritto su alcune delle mie esperienze di lavoro a Kreuzlingen e li trasformai in una ventina di articoli che Luca de Nardo - un altro dei vecchi amici che lo sono ancora - pubblicò sulla prestigiosa rivista di imballaggio che dirigeva. Un lavoro che confesso mi “intrigò” parecchio e che fra l’altro mi è servito da base per questo racconto. L’altro ricordo è di tutt’altro genere. Andai infatti per un’intera settimana con Alberto a pescare nel posto più bello nel quale ogni pescatore di acqua dolce vorrebbe andare. All’Alexander lake lodge, cento miglia a nord ovest di Anchorage in Alaska: un posto incredibile, con incredibili salmoni reali e lucci in quantità industriali. Una vacanza che definire da sogno - a parte un richioso “doppio tocco” in curva su un fiume con l’idrovolante che ogni giorno ci portava a pescare - è davvero voler minimizzare, e che meriterebbe certo qualche riga in più.

Per inciso, poi, quella vacanza ne indusse un’altra l’anno successivo, anche se non lavoravo più per la Sarong, a Huatulco questa volta, sulla costa pacifica del Messico; un’altra favola di marlyn, pesci vela, tonni e dorado, con vista su balene e delfini, che per di più non mi costò un centesimo, anzi mi fece guadagnare un bel po’ di soldi. Nelle quattro ore d’attesa che facemmo al rientro all’aeroporto di Amsterdam scoprii infatti un casinò, giocai forse un’ora con il mio solito metodo, e vinsi una sportina di plastica di fiorini che al cambio risultarono molti più soldi di quanto avevo speso per quella pur ricca vacanza.

Anche nel 2003 avrei dovuto andare con Alberto a pescare sul lago Baikal, in Mongoglia, ma proprio quell’anno, al ritorno da un lungo viaggio aereo non mi ricordo dove, accusai un problema abbastanza serio ad una gamba - risolto peraltro in meno di un mese - che indusse i medici a impormi di non fare altri viaggi lunghi per un po’ di tempo.

Un’imposizione che mi diede la scusa per prendere una decisione piuttosto drastica. Era da un po’ che nonostante i 1361 voli che avevo collezionato, o forse proprio a causa di essi, ero sempre più teso nei decolli e negli atterraggi e ascoltavo con troppa attenzione i normali scricchiolii in volo, inoltre da qualche mese avevo finito con il “diversivo” e i luoghi che mi interessava ancora vistare li potevo raggiungere in auto, in treno o in nave. Quindi, dopo un’ultimo viaggetto a Barcellona per il quale mi ero già impegnato, smisi di volare. Dopo la rinuncia forzata alla pesca in Mongoglia persi di nuovo i contatti con i 260

Bartoli, ma li ripresi circa sette anni fa quando venni a sapere della grave malattia che aveva colpito Vivaldo, e da allora ogni tanto Alberto mi chiama per qualche consiglio e io chiamo lui per sapere di Vivaldo.

Sono andato anche a trovarli qualche volta in Sarong e loro sono venuti una volta a casa mia, ma i nostri rapporti si fanno sempre più rari.

Sono agli sgoccioli con i rapporti personali belli e premianti, infatti non mi resta che citare quello con Barat Patel, forse il più premiante.

Dopo essersi convinto che non sarei mai andato in India ad aiutarlo, Barat non mi fece il muso, ma da filosofo indiano quale è, aggirò l’ostacolo: cominciò infatti a chiamarmi spesso al telefono e a venire a Bologna, deviando i suoi itinerari per andare da qualche altra parte del mondo, per chiedermi qualche opinione, consigli, o anche solo per fare quattro chiacchere. Un rapporto divenuto di volta in volta sempre più di amicizia che di lavoro, che lo portò a chiedermi “il favore” di essere suo ospite, solo per il piacere di visitarle in mia compagnia, alle fiere di Dusseldorf del 2002 e del 2005. Mi invitò anche all’edizione del 2008, ma quell’anno fui ospite, con Luca de Nardo, di Paolo Santagiuliana e della sua Taplast. Ci vedemmo però comunque con Barat, e andammo in giro insieme a far commenti, e per non correre rischi che la cosa si ripetesse, prima di salutarci mi chiese di non accettare altri inviti se non il suo a quella del 2011. Quell’anno però, fu l’anno del problema alla corda vocale cui ho accennato sopra, che mi obbligò a rinuciare a Dusseldorf e a tante altre cose, e quando lo informai trovando una scusa, Barat mi diede una delle dimostrazioni di amicizia più forti e gradite che ho mai ricevuto.

Intuito dal tono e dalla tonalità della mia voce che c’era qualcosa di più serio della scusa che mi ero inventato, insistette fino e che non gli confessai la verità, e saputala, invitò senza pensarci un secondo me e Luciana ad andare a risolvere il mio problema a sue spese in una famosissima e costosissima clinica per ricchissimi del Kerala. Rifiutai naturalmente, dicendogli orgogliosamente che a Bologna potevo avere tutta l’assistenza che mi serviva, ma quella sua sensibilità e disponibilità mi commosse. Sono ancora in contatto con lui, anche se più raramente, e so che ha venduto tutto ai giapponesi, che è andato in pensione, e che passa la vita con Bina a New York e Chicago, dove vivono sua figlia e suo figlio Nakul con le loro famiglie. L’ultima volta che ci siamo sentiti, il Natale scorso, mi ha anche promesso che una volta o l’altra passerà a trovarmi a Bologna. Chissà, magari! Mi farebbe un gran piacere rivederlo.

E adesso sono alle dolernti note. Ci ho pensato molto prima di decidermi a scriverne, per non riaprire vecchie ferite, ma poi mi sono detto che anche i brutti ricordi possono essere interessanti e insegnare qualcosa, e quindi eccomi qui a parlarvi per primo, anche se mi angoscia farlo, del più brutto in assoluto. Quello dei sei lunghi e strazianti mesi spesi a far compagnia, quasi ogni giorno, fino all’ultimo, a Piero Soavi.

Vi ricordate di Piero? quello che a pagina 30 vi ho descritto come uno dei primi e più intimi amici che mi ero fatto nei primi giorni all’ACMA e con il quale avevo lavorato quando ero diventato direttore vendite; ebbene, non ci eravamo mai dimenticati l’uno dell’altro anche 261

se ci eravamo incontrati solo a qualche convegno o visitando qualche fiera, e credo fossimo stati contenti entrambi - io di certo lo fui - di ritrovarci a fine ’97 vicini di casa a Bazzano, quando io mi ero trasferito nella vecchia casa dei miei genitori, e di ricominciare a frequentarci.

Purtroppo però le nostre spensierate frequentazioni furono davvero di breve durata. A fine ’98 anche Piero mi raggiuse in pensione: pieno di programmi ed entusiasmo si comprò la villetta in Sardegna e la barchetta che desiderava da sempre, ma non riuscì a “spianare” né l’una né l’altra. Dopo una struggente agonia a metà del ’99 “finalmente” se ne andò.

Un’altra esperienza poco piacevole, pur se di tutt’altro calibro, mi venne dall’amicizia con Agostino Biagini e Cinzia. No, non fraintendete, la loro amicizia e compagnia è stata ed è tutt’ora una di quelle a cui tengo di più, tanto che mi dispiace che negli ultimi tempi ci vediamo sempre più di rado, fu molto brutto assistere dalla prima fila alla “morte” della sua PRB, senza poter far niente per evitarla: una storia esemplare ed istruttiva che voglio ricordare in dettaglio.

Fino quasi alla fine del ’94 la PRB aveva continuato a prosperare costantemente, poi Patarozzi e Rizzo avevano venduto le loro quote a una compagine azionaria variegata capeggiata da un certo ingegner Caffarelli, e da quel momento tutto era cambiato. In peggio. Marchesini, infatti, il cliente più importante della PRB, aveva deciso di farsi da solo le macchine di fine linea, e naturalmente Studiopack e tutti gli agenti della Marchesini che promuovevano le vendite delle macchine PRB in Italia e nel resto del mondo l’avevano abbandonata. Indubbiamente la PRB era stata quanto meno ingenua, per non dire altro, a legarsi tanto strettamente in pratica ad un solo committente e per di più alle sue organizzazioni di vendita senza pretendere adeguate garanzie in caso di divorzio, ma posso testimoniare che grazie a Biagini e alla GD, l’azienda se la sarebbe certamente potuta cavare abbastanza bene. Biagini riuscì infatti con un vero miracolo a reinventarsi una rete di agenti e ad adattare l’intera gamma delle sue macchine a settori merceologici diversi dal farmaceutico e cosmetico. La GD non lo tradì continuando a comprargli le macchine per incartonare le “stecche” di sigarette, ma Caffarelli, indubbiamente un uomo brillante, colto e spesso anche simpatico, non capì che il suo interesse era di lasciar fare a Biagini il suo mestiere. Se si fosse occupato solo di amministrare l’azienda e al limite di organizzarne la parte produttiva, le cose sarebbero certo andate molto diversamente e meglio. E invece no! Voleva mettere il becco dappertutto, anche se incompetente: chiedeva consigli a Biagini, a me e penso ad altri e agiva senza minimamente tenerne conto.

E questo non sarebbe stato ancora un disastro se per sola smania di protagonismo non avesse intrapreso un’improbabile iniziativa industriale nell’area di Napoli e non si fosse impegnato nell’onerosa costruzione di un nuovo stabilimento: un bellissimo stabilimento che appena inaugurato in pompa magna gli crollò adosso rovinando finanziariamente lui, la sua famiglia e il povero Biagini; e gettò nello sconforto i loro incolpevoli collaboratori. Ricordo ancora con tristezza ma soprattutto con rabbia i quaranta minuti di telefonata che Caffarelli 262

mi fece disperato un paio di settimane prima che il dramma si concludesse chiedendomi per l’ennesima volta consigli e un aiuto ormai impossibili. Che peccato! Per fortuna ebbi anche un’occasione di ridere in tutta quella triste vicenda, per un episodio simpatico che vi voglio raccontare. Ero stato ospite della PRB alla fiera di Dusseldorf del ’99, e avevo dormito in camera con Biagini nel favoloso hotel Steigenberger, in un grande letto che ci aveva accolto entrambi senza problemi. Ed ero stato molto bene. Ma Agostino no. E pensate che amico era; me lo disse solo mentre stavamo facendo le valige per tornare a casa che per il mio sonoro russare non era quasi riuscito a chiudere occhio.

Come credo sappiate, c’è un modo di dire che dice appunto “non c’è due senza tre” e a dimostrazione che spesso è vero, voglio raccontarvi anche un terzo episodio infelice che mi capitò in quegli anni: la fine della lunga amicizia, che avevo pensato eterna, con Gabriell Taltavull.

Se ricordate ero diventato amico di Gabriell nel lontano 1982, ai tempi dell’ACMA, e anche dopo che me ne ero andato, pur vedendoci quasi solo sulle fiere, avevamo continuato a sentirci spesso per scambiarci opinioni e consigli sui rispettivi problemi. L’avevo così visto lasciare la Lapeyra e fare diventare la Volpak il gigante spagnolo del packaging; a discapito purtroppo dell’ACMA. L’avevo consigliato, inascoltato, di non avventurarsi nella Serpak; nella quale aveva tentato di coinvolgermi senza riuscirvi. E l’avevo visto fondare e fare diventare in un lampo un gigante nel settore buste la Bossar a discapito della Volpak e ovviamente anche dell’ACMA. Poi, come ho accennato all’inizio di questo capitolo, quando ero andato in pensione mi aveva subito proposto di andare a lavorare con lui a Barcellona. E non si era certo scoraggiato dopo il mio primo rifiuto, anzi: cominciò letteralmente a non lasciarmi più vivere; anche se non nego che la sua assiduità mi faceva molto piacere. Tornò all’attacco più volte per avermi con sè, senza farcela, poi si convinse accontentandosi di chiedermi un giorno sì e l’altro pure, consigli; che però non seguiva. E non li seguì nemmno quando la sua Bossar, dopo essere salita così rapidamente in alto, cominciò a scendere altrettanto velocemente; nonostante me ne chiedesse ogni giorno al telefono o addirittura facendo rapidissime puntate a Bologna per parlarmi di persona.

Era un comportamento che, nonostante l’affetto che nutrivo nei suoi confronti, cominciò a infastidirmi. Ciò nonostante, quando mi chiese di fargli incontrare un imprenditore che a suo avviso poteva avere interesse nella Bossar, lo accontentai, defilandomi però subito per non far pensare a nessuna delle due parti che io avessi qualche interesse economico a che la cosa andasse in porto. E persi la sua amicizia, o meglio: quando dopo qualche incontro si capì che la cosa non sarebbe andata a buon fine, non lo vidi né lo sentii più. Non ho mai capito la ragione di quella fuga, che ho preferito attribuire o alla vergogna che Gabriell può aver provato nei miei confronti per aver sempre fatto il contrario di quanto gli consigliavo, o al mio rifiuto di impegnarmi direttamente in quella trattativa. Non ho mai voluto pensare né lo penso oggi che per vent’anni abbia potuto fingere, così bene, di essermi amico. Comunque non mi sono più interessato nemmeno io di lui e 263

devo dire che anche se ho ancora l’amaro in bocca, spero sia riuscito a cavarsela. Fino a quella fine infelice infatti, il rapporto con lui era stato bellissimo, premiante, e pieno di tanti momenti davvero rari, specie per un pensionato; come quello che vissi in una delle mie ultime visite a Barcellona prima della tempesta.

Al montaggio, quel giorno stavano collaudando in presenza del cliente una macchina che confezionava minestre disidratate, una bellissima macchina che rapì talmente la mia attenzione da farmi sbattere di schiena contro qualcuno. E sapete chi era quel qualcuno? Mario Rigato, quel Rigato della STAR che non avevo più rivisto dai tempi del “Cuoco Mio”. Che bella sorpresa per entrambi! Ci abbracciammo commossi di fronte agli stupiti presenti, poi andammo in una saletta a prenderci un “caffè solo” a parlare di noi e di quanto ci era capitato in tutto quel tempo; e imparai con piacere che aveva fatto carriera: da anni era il direttore di produzione della divisione locale della STAR. Naturalmente parlammo anche di buste e di macchine per farle, e quando gli chiesi la ragione della scelta Bossar, mi diede una risposta che mi fece crescere di una diecina di centimetri, ma anche meditare: “Un ottimo compromesso fra qualità e prezzo “, mi disse, “ Il migliore sul mercato per fare il suo lavoro; non certo una Rolls come la tua 712, ma si può viaggiare in auto anche senza una Rolls, vero?”

E adesso ho davvero finito, e devo dire che sono molto soddisfatto.

Non tanto di come ho scritto, quasi certamente non “benissimo”, ma di averlo fatto; perché per quasi cinque anni è stato davvero un gran bel passatempo e perché mi ha fatto ricordare tante cose e persone che avevo completamente dimenticato. Certo non sono stati tutti ricordi piacevoli, come avete letto, ma nella vita succedono cose belle e brutte.

Non so se oltre ai parenti e amici intimi che si sono sempre chiesti come fosse il mio mestiere, altri leggeranno mai questo mio racconto, ci terrei molto però che lo facessero i tanti che mi hanno fatto compagnia nella mia vita fra i “scartuzz”, perché sono certo che riconoscendosi negli eventi anche loro ricorderebbero fatti e persone che hanno dimenticato solo a causa del tempo.

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Finito di scrivere in Savigno di Valsamoggia, Bologna, il 22 di maggio del 2016