DA QUALCHE PARTE C'È UN BRICIOLO DI FELICITÀ, Svenja Leiber

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DA QUALCHE PARTE C’È UN BRICIOLO DI FELICITÀ Traduzione di Elisa Leonzio

Keller editore



Per K.D.



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e donne fanno la raccolta delle prugne. Una nuova estate, sole come olio su tela, la biancheria stesa a scolorire. Le donne colgono i frutti dagli alberi e li ammonticchiano. Parlano di Ruven, il figlio più piccolo del carraio Preuk. Dalla mattina il ragazzo è fermo in un punto, tra il campo e il sentiero, e non si muove. «Cosa fare con uno così» dicono, «lo sa solo Dio». In un giorno di agosto del  Ruven Preuk se ne sta poco fuori dal paese e ascolta. Conta il ritmo che battono su di lui la luce e i pioppi, chiaro, scuro, chiaro. Meditano i campi tutt’intorno, tedeschi, protestanti e muti per la calura. La pausa nell’avena matura – e nel mezzo di questo silenzio ecco un lala e lalai che non gli appartengono, dapprima lontano, poi sempre più vicino. Ruven piega la testa di lato e chiude gli occhi. Poi comincia a muovere le dita, la mano destra segue il ritmo, il gioco di luce e ombra, la sinistra il canto, lala, lalai. Ora solleva persino le braccia, dirige un’orchestra. Le donne si voltano, si asciugano il sudore dal viso. Restandosene in giro a gesticolare non si ottiene nulla, pensano, il cestino rimane vuoto. In quel momento due caravan di legno trainati da animali ormai stanchi risalgono la strada. Il primo è condotto da un uomo, appoggiato a cassetta e quasi addormentato. Il secondo è guidato da una donna in gonna e giacca rossa. Ed è lei che canta. Dietro a loro marcia, un, due, un, due, una banda di

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teppistelli del paese, che si era appostata fin dal mattino. La comanda Fritz Dordel, con la sua faccia da Lontra e i pantaloni troppo corti. Sfila rumorosa davanti a Ruven, come una parata, la via si fa buia per tutte quelle figure; di contro i canti di derisione della donna, ira e trionfo, lei digrigna i denti e agita la frusta di lato e verso Fritz, che è già per metà sul suo carro. Ancora uno sbarbatello, già traffica con l’orlo della gonna. Lei lo colpisce col piede nudo e lui ruzzola di schiena nel campo. Furibondo si tira su e segue i carri in paese. Ruven li vede. Eccoli finalmente. Sperava che venissero. Fritz come sempre lo voleva con sé nell’appostamento, ma lui questa volta ha detto di no. È un giorno speciale quello, ce n’è uno solo così all’anno, e vuole goderselo, ma al guado, lì di fianco tra i cespugli, arriva suo padre, che è meglio non lo trovi in compagnia della Lontra. Ruven fa un salto dietro al tronco del pioppo più vicino. Il vecchio Preuk così non lo vede e incita il suo baio attraverso la sabbia morbida. Le redini sfregano via la bava dal manto del cavallo. Il carico ondeggia perché il carro deve risalire la scarpata. Nils Preuk scende e spinge da dietro, una volta in cima risale e non si accorge che anche il figlio è saltato su. Si volta solo perché lo scalpiccio non è più così forte e pensa che il carro abbia perso il carico, ma lì c’è suo figlio, con la testa bionda come un cavolfiore, che dice: «Sono arrivati» e già è a cassetta accanto a Nils. «Chi?» «I suonatori con Sofie». «L’anno scorso erano arrivati prima» dice Nils, che poi tace per un pezzo. «Questa Sofie, sempre da una fattoria all’altra. Ha fatto girare la testa a tutti con il suo canto. Persino a Röver. E quegli occhi! Un doppio veleno» dice e guarda assorto davanti a sé.

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Il contadino Röver, distratto dai canti di Sofie, ha infilato la mano nella manovella del pozzo. Hanno portato quattro dita dal parroco, ma neanche lui sapeva cosa fare, e allora le ha riposte e poi dimenticate. Il pomeriggio durante l’incontro preparatorio per un battesimo è quasi svenuto quando la sua mano sinistra, dentro la tasca cucita nell’abito, ha stretto quelle quattro dita fredde, e gli ci è voluto qualche attimo per capire cosa stava toccando, mentre con sguardo rivolto al cielo e voce tremante descriveva l’aldilà luterano alla madre del neonato. Dopodiché ha sepolto le dita nella tomba di famiglia dei Röver. «Dalla donna non si allontana mai» ha canticchiato piano, perché il liquore che gli hanno dato per farlo riprendere marciava ancora vigoroso nelle sue vene. La casa del carraio si trova dopo il paese. Non è impressionante, ma si sarebbe potuto ereditare molto meno di un edificio in mattoni con un terreno e un pozzo attorno a cui gira dalla mattina alla sera Selvaggio, il caprone. Per le sue grandi palle, Selvaggio si crede il più grosso di tutti. Butta a terra chiunque o qualunque cosa sia dritta: una breve rincorsa, un paio di salti, ed è fatta. Allora se ne sta fermo in silenzio a fissare la sua vittima con aria stupida. «Occorrerà castrarlo» sibila Nils tra i denti quando lo acchiappa, ma poi lo lascia sempre andare. Riporta nel recinto il caprone con le sue corna girate due volte e non lo castra mai, come se tra loro ci fosse un accordo segreto. Ora stacca il cavallo e svuota il carro. Nel capanno c’è puzza di catrame. Nils si gratta la barba. «Su, va’ pure» dice a Ruven, che gli si è messo davanti con occhi supplichevoli. «Ma non dimenticarti di consegnare i piccioni alla Klunkenhöker». La Klunkenhöker è la donna più ricca della zona e ha sempre

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fame di piccioni. Tutti nel villaggio vorrebbero venderglieli, ma lei per qualche motivo preferisce quelli del piccolo Preuk. Perché è un bel ragazzo, mormora la gente. Ruven corre alla piazza del villaggio. Ha subito dimenticato la Klunkenhöker o almeno ha deciso di occuparsene più tardi, perché non vede altro che i due carri e ricorda come profumava uno dei due l’anno prima. Profumo dolce, profumo di donna, pensa Ruven, anche se non ne capisce ancora nulla di quelle cose. Ha varcato la soglia un’unica volta, perché Sophie lo ha attirato dentro. E poi se n’è stata lì seduta, ha riso, gli ha regalato una pagnotta con la marmellata e lasciato intravedere il polpaccio, mentre fuori dalla finestra si assiepavano i ragazzi del paese, Fritz Dordel sopra a tutti. Ma Ruven non smetteva di chiedersi: che ci faccio io con il polpaccio, ed è diventato rosso quasi come la giacca di Sofie, che vista da vicino appariva tutta logora. I carri sono fermi all’ombra, un po’ di sbieco, e Joseph, il vecchio musicista, ha cacciato via la Lontra e dato da mangiare ai pony e ora se ne sta appoggiato alla quercia, anche se lì sembra fuori posto, fuma e guarda la piazza. Ha capelli grigi legati in una treccia e occhi scintillanti che tiene socchiusi. Molti credono che venga dal Mar Nero, forse persino dall’Italia, comunque da molto lontano. Accanto a lui sta il contadino Jacobs, che qui rappresenta la comunità e controlla ogni cosa scrupolosamente. «Se non vi decidete presto a lastricare la strada, è la volta buona che me ne vado in America» dice Joseph e sputa tabacco. «Va’ pure, se vuoi» dice Jacobs riponendo i soldi per il fieno, «noi ce la caviamo benissimo anche senza di te». Ma mentre lo dice sogghigna bonario, e anche Joseph sogghigna e mo-

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stra un dente d’oro con cui sembra voler accecare Jacobs. Ma quello sta già osservando i pony con disapprovazione e brontola che hanno bisogno di qualcosa di ragionevole, d’avena per esempio. Jacobs sta già pregustando un buon affare, qualcosa come l’oro attorno al dente di Joseph, ma questi scuote la testa e rifiuta: «Va bene così com’è, e se non va, ci penserà Satana a tirare i carri, voi limitatevi a lastricare e a me basterà una capra per il traino» e con gli indici imita due corna. Poi all’improvviso, recupera il suo sguardo dolce. Ha visto il ragazzo, che se ne sta poco distante, e gli fa segno di avvicinarsi. Ruven sorride discreto. Viene ad accarezzare i pony e con delicatezza toglie loro la polvere dal manto. «Vuoi dare un’occhiata?» domanda Joseph, «tranquillo, avvicinati!» un piccolo inchino e subito Ruven torna ad arrossire, perché pensa che vedrà di nuovo il polpaccio di Sofie. Ma Joseph non è quel genere di persona, non è così che si è guadagnato il suo dente d’oro. Ha reso le persone miti e malleabili con la sua perizia, finché quelle di loro volontà l’hanno ricoperto d’oro, o almeno così racconta lui. Fa vorticare nell’aria una chiave appesa alla cintura e invita Ruven a seguirlo. Nella carrozza è tutto in penombra. «Chiudi gli occhi» dice Joseph. Prende un cilindro dalla mensola. In realtà non è un cilindro, ma lui lo chiama così quando Sofie deve spazzolarlo. «Che cos’hai lì?» domanda Ruven strizzando le ciglia, o almeno sforzandosi di farlo. «Qualcosa di bello» sussurra Joseph, e poi: «Apri gli occhi!» Ruven non riesce a capire subito di cosa si tratta, nonostante l’oggetto splenda di riflessi rosso dorati, e Joseph lo estrae dalla custodia con un piccolo scarto del braccio: «Un violino!» Lo appoggia contro il collo e si mette a strimpellare. Poi porge

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lo strumento a Ruven: «Dai, suona qualcosa!» Ma Ruven non è capace, due passi indietro e due in avanti, davvero volentieri, pensa, e prende il violino, l’archetto nella destra e gratta le corde per un attimo. «Suoni come caga la vacca» commenta il contadino Jacobs, che se ne sta appoggiato alla finestra. Ruven si volta di scatto e lo guarda. «Sparisci!» lo minaccia Joseph con il cilindro, e poi si rivolge di nuovo a Ruven: «Suona!» E questa volta esce qualcosa di simile a un grido, sempre meglio che merda di vacca, e infine la melodia si tranquillizza e diviene quasi graziosa. «Lo dicevo, io». Joseph lo guarda con tenerezza. «So vedere le cose da lontano». Poi sussurra: «Vedo anche questi suoni!» Stringe Ruven a sé. «Compagno dell’inferno, mi chiedo, che cosa mi fai. Lo vedo blu e verde e giallo, quando suono! Mi sale fuori dal violino, qui, come vapore! E penso, tu hai la febbre, Joseph, nessuno ti crederebbe! Stai vaneggiando!» Sovrappensiero si accarezza la barba e la treccia e osserva Ruven. «Io ti credo eccome» dice Ruven sottovoce e con mano tremante ripone il violino nella custodia che adesso Joseph gli tiene davanti al naso. «Bene» dice, «e ora bye bye, torna domani, oggi sono troppo stanco. Ho tutta una serata davanti a me». Apre la porta del carro. «Sparisci! E di’ a tuo padre che mi serve una ruota nuova. L’ultima non è durata molto». Ruven se ne va mogio mogio. Passa dietro alle fattorie lungo i campi coltivati e vuole attraversare la siepe, i suoi colombi sono già lì che svolazzano dal tetto come se fiutassero il pericolo. «Voi non vi porto dalla Klunkenhöker, state tranquilli» mormora Ruven. «I colombi del barone sono molto più adatti per lei, che si crede meglio degli altri». Entra nella stalla per

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prendere la sua fionda. «Può aspettare a lungo, se vuole voi». E la Klunkenhöker in effetti non fa altro. Nessuno sa da dove le arrivi tutto quel denaro. Forse ha uno spiritello di famiglia o qualche altro spirito nella cesta, dice la gente, perché ha sempre denaro, compra e si fa portare la roba a casa, ed è per questo che mamma Preuk ogni due settimane manda il figlio da lei con cinque piccioni. Il denaro che guadagnano finisce nella cassapanca, e la madre spera sempre che al tallero sia appiccicato qualcosa di invisibile, perché a quel punto le basterebbe chiudere il coperchio e non lasciar più uscire lo spiritello del denaro. Ruven ha già fatto un bel pezzo di strada, veloce com’è. Mentre cammina canta da e di, perché non ce la fa a togliersi quei suoni dalla testa. Deve riuscire a catturare i piccioni del barone prima che vadano a dormire. Siedono a centinaia sui frontoni delle case dei braccianti nel podere e riposano dal loro eterno girare in tondo, e Ruven ci deve passare accanto per andare dalla Klunkenhöker. Basta buttarne giù cinque, è quasi facile come cogliere frutti da un albero, e poi può consegnarli in fretta e senza tante parole. Se invece ci sono troppi uomini in giro, che si meraviglierebbero a vederlo che la fa da padrone con quei piccioni, allora piega verso il bosco e ne cattura di selvatici dai tigli. «La prossima volta portamene di più» dice la Klunkenhöker del tutto ignara, quando Ruven le porge i piccioni selvatici, «quelli grassi e con le zampe blu sono i migliori». Poi si sofferma come sempre a osservarlo dalla testa ai piedi, dapprima i capelli biondo paglia, poi il viso, dove spiccano due occhi quasi trasparenti e una macchia nera sopra la bocca. Allora la Klunkenhöker inspira ed espira dal naso emettendo un fischio, e il suo sguardo scivola sul petto magro del ragazzo,

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i suoi pantaloni corti, le gambe dritte come bastoni e giù fino ai piedi nudi. A quel punto si fa il segno della croce, la Klunkenhöker è cattolica, e spedisce Ruven a casa. Gli uccelli morti oziano a testa in giù acanto alla sua gonna. A casa Ruven si rannicchia sotto la finestra e cerca di capire com’è l’umore dentro. Spesso non è buono. Mamma Preuk e Gesche, la sua pupilla, non sono quasi mai d’accordo. Gesche ha diciassette anni, sa quel che vuole e, soprattutto, quel che non vuole. «Che strilli a fare?! Sembri una tenaglia in cerca di marito» dice la madre. «Metti la pentola in tavola e vieni qui!» Si toglie il grembiule, porge al marito il mestolo e lancia uno sguardo rassicurante a John, il figlio maggiore, perché sa bene quanto lui tiene a Gesche. Ma quello non fa che mugugnare, resta lì impalato e non si siede. Nils Preuk posa il mestolo e si alza in piedi in modo talmente lento e minaccioso che mamma Preuk ha molto tempo per pensare. «Ragazza!» dice Nils. E allora Gesche si siede e piega la schiena, ma continua a piagnucolare, perché le sarebbe tanto piaciuto andare in paese a sentire la musica insieme a Werner, il bracciante, e perché lui adesso forse pensa che lei preferisce andarci con un altro. La schiena di Gesche è scossa dai singhiozzi. Anche la treccia si agita, pesante come una corda e così lunga che Gesche ci si può sedere sopra. «Non devi curarti di quello che penserà Werner» dice mamma Preuk e poi: «Amen». E anche Nils si rimette seduto, silenzioso, e svuota il piatto una volta e poi una seconda. «Quel Werner non pensa proprio niente» dice, e aggiunge: «ma dov’è finito il ragazzo?»

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E sebbene stia ancora singhiozzando, Gesche ricomincia a parlare: «Sta dai musicisti, dovete fare attenzione, altrimenti un giorno o l’altro vi abbandona». «Lui no» dice Nils. Si rialza, va alla porta e rimane ad aspettare inquieto la comparsa di Ruven. Mamma Preuk scuote la testa: «Ma devi proprio saltar su dal tavolo ogni santa volta? Già mi tocca mangiare velocissima e non riesco neanche a finire. E tu, Gesche, metti qualcosa in caldo per il ragazzo e porta del cibo a Werner nella sua stanza». «A Werner non porto un bel nulla» dice Gesche e si mette a sparecchiare. Greta Preuk già alza la mano, ma non la colpisce, perché vede che il suo John ne è rattristato, e perché in fondo anche lei vuole bene a Gesche, che dall’oggi al domani si è trovata a vivere con la famiglia del carraio. Suo padre, che lavorava alla fornace, è morto all’improvviso. «È stato lo sguardo» ha detto la gente, sempre più veloce ad aprire la bocca che a pensare, «quel certo sguardo» – e poi silenzio, così che la frase, sospesa, acquisti maggior significato. Era risaputo che aveva cominciato una relazione con la Gazza. Lei veniva chiamata così non solo per i capelli neri e le due ciocche bianche sulla fronte. «È una ladra» mormora la gente, «e con suo padre faceva… insomma…» e poi mima l’atto con la mano. La Gazza viveva con il padre all’inizio del bosco. Non erano della zona e sparirono subito dopo la morte del mattonaio. Lei venne sospettata fin dall’inizio. La gente sprofondava la mano nel fango come il panettiere nella farina. E avrebbe quasi funzionato, aiutando ciascuno a dimenticare i peccati compiuti nella propria vita e il paese intero a sentirsi pio e purificato dopo la partenza della Gazza. Tutto sarebbe finito

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bene, se non fosse che la moglie del mattonaio aveva perso la ragione e si era convinta che il marito fosse andato sempre a letto con la Gazza prima che con lei. Nel dolore si strappava tutti i capelli dalla testa, in corrispondenza del punto in cui la Gazza aveva le strisce bianche. «Lascia stare i capelli» aveva detto mamma Preuk, «che cosa ne possono loro?!» fissando la moglie del mattonaio con sguardo severo, sebbene non volesse affatto essere così dura. Ma la poveretta non ha smesso di tirarsi i capelli, non voleva più vivere, si è arrampicata sulla quercia del paese, sempre più in alto, ancora un po’ più su, e alla fine ha cercato di volare. Era rimasta Gesche, ed era andata a vivere da mamma Preuk. E questa è stata una cosa buona, ma anche dura. Perché mamma Preuk è entrambe le cose. «Dipende dal tempo» dice lei parlando di sé. «L’estate è buona, ma l’inverno è come è». Lascia ricadere la mano perché proprio in quel momento dalla porta entra Ruven, che posa sul tavolo i soldi della Klunkenhöker. «Il ragazzo è speciale» ha sussurrato una notte Greta Preuk a Nils. «Deve avere la possibilità di studiare come si deve, l’ha detto il bastone». Greta Preuk ha avuto in eredità un bastone saggio, che non si brucia e non si spezza, e ci sono momenti in cui lei deve intraprendere con lui certi strani viaggi invisibili e scoprire cose che altrimenti resterebbero celate. Ma Nils ha risposto solo: «Farà la scuola professionale e poi imparerà con John l’arte del carraio. Quel che dice il tuo bastone a me non interessa». Poi si è voltato dalla parte del muro. Ma la cosa deve averlo interessato almeno un po’, perché il mattino seguente ha abbracciato Ruven da dietro, facendolo dondolare quasi con dolcezza, e Greta Preuk ha visto tutto e ha dato un colpetto al recipiente del barometro, e poi è andata in giardino a respirare a pieni polmoni.

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