perugia '800

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Enrico Dal Pozzo di Mombello, foto b.n. (Università degli Studi di Perugia)

2/2008

1886, l’università conosce due crisi. Nel 1872 si discute se ridurre il corso degli studi alla sola facoltà di Giurisprudenza. Nel 1882 viene soppressa quella di Scienze matematiche, fisiche e naturali ed è disattivato l’insegnamento di Archeologia. Uno stato precario dunque testimoniato dal ristagno delle iscrizioni: 70 registrate in media all’anno nel decennio 1864-’74, a fronte delle 69 del 1874-’84. […] Strutturata nelle facoltà di Giurisprudenza e Medicina (quest’ultima incompleta) e nelle Scuole di ostetricia, farmacia e veterinaria, l’Università registra un aumento delle iscrizioni che passano da 153, valore medio annuo del periodo 1884-94, a 334 del decennio 1894-1904”3. Pertanto, il momento in cui la Provincia intervenne fu particolarmente delicato e coincise con la seduta in cui si espose la relazione presentata dalla commissione Palmucci4, tenutasi il 19 agosto 1874. Al termine della seduta non si presero decisioni eclatanti, ma la portata della discussione sorretta dalla notevole relazione commissariale rappresentarono un segnale forte per il futuro della nostra Università ed anche una chiara misura del peso che la Provincia, allora giovane ente morale, dimostrò di avere nella tutela del bene pubblico: la Provincia non si sarebbe sottratta alle proprie responsabilità, a patto che ciascuno si assumesse la propria. Alla discussione prendono parte molti consiglieri. Il Manassei ritiene che “la questione universitaria, presentata al Consiglio, ha fatto come la palla di neve che diventa in breve spazio una valanga”, in quanto sebbene si fosse partiti dalla richiesta di un sussidio di circa 2000 lire, si era attualmente giunti a trattare la cifra di 26000 lire, richiesta difficilmente compatibile con la circolare ministeriale (emanata dall’allora Ministro dell’Interno Cantelli) che raccomanda regimi di spesa assolutamente oculati, mentre “secondo la proposta della commissione, trattasi quasi di convertire l’università di Perugia in un istituto provinciale”: non sarebbe dunque una questione di emozioni e di simpatie ma, secondo il suo punto di vista, di “fredda aritmetica”. A monte di questa discussione sta però un fatto che il Manassei non tralascia di osservare, vale a dire la nonobbligatorietà di un intervento da parte della Provincia nel campo dell’alta istruzione, intervento che al contrario spetta al governo che a sua volta “vi provvede anche largamente. Abbiamo infatti in Italia 21 università, delle quali 17 governative e 4 libere. […] Per le università lo Stato spende annualmente, per materiale e personale, lire 5,164,851 e la nostra provincia concorre in questa spesa per lire 103,000 in ragione di popolazione. […] Il relatore Palmucci nota una sola utilità pratica rispetto ai medici, di cui difetterebbero i nostri comuni minori, se non fosse in Perugia lo studio della medicina. Su questo però si può osservare che i giovani i quali riescono bene non si stabiliscono nei piccoli paesi ma cercano di farsi una posizione nei grandi centri. Nei piccoli paesi non rimangono in generale che delle oscure mediocrità. Dice il relatore della commissione che gli studenti a Perugia vivono assai bene e spendono poco. Ma lo studente, questo operaio dell’avvenire, può vivere economicamente anche in una grande città; ciò dipende dal suo volere; egli può abitare anche in una soffitta senza soffrirne […]. Dunque l’utilità delle piccole università non è quale vuol dirsi. Fra i proprietari dell’Umbria se ne contano 73,729 che hanno un estimo inferiore di 1,000 scudi e coloro che hanno un estimo maggiore sono 4,759. I primi, cioè, i 73,729 proprietari che hanno meno a 1,000 scudi di estimo non mandano i loro figli a compiere gli studi all’università perchè non ne hanno i mezzi. È dunque giusto gravarli di spese per mantenere un istituto che giova soltanto ai 4,759 che hanno rendite maggiori?”. Evidentemente può cogliersi nelle 55

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