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1876-1880



Corrispondenze dall’800

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Sommario CORRISPONDENZE DALL’800 L’OPINIONE Ernesto Galli Della Loggia

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Luigi Tittarelli Mario Tosti

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Maurizio Terzetti

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Franco Bozzi

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Andrea Proietti

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Francesco Imbimbo

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Simone Slaviero Daniela Mori Laura Zazzerini

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Matteo Rossi

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Laura Zazzerini Gabriele De Veris

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Perché focalizzare l’attenzione sull’Ottocento?

DIBATTITO SULL’UMBRIA La casa del nonno Il decennio 1870 - 1880

CORRISPONDENZE

Luigi Armoni, Orvieto, 1880 ca., lastra al collodio (Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, Roma)

Rubrica trimestrale “Corrispondenze dall’800” in collaborazione con l’ISUC allegato alla rivista piano.forte Direttore responsabile Alberto Giovagnoni Direttore Editoriale Marinella Ambrogi A cura Direzione Generale Provincia di Perugia Ideazione e progettazione Maurizio Terzetti Divulgazione e comunicazione internet Ferdinando Luciani

IL QUADRO DELL’ANNO Alessandra Migliorati

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Comitato Scientifico Roberto Abbondanza Luigi Tittarelli Mario Tosti Collaboraratori Franco Bozzi Gabriele De Veris Francesco Felici Ernesto Galli Della Loggia Francesco Imbimbo Alessandra Migliorati Daniela Mori Andrea Proietti Matteo Rossi Simone Slaviero Laura Zazzerini Progetto grafico Marusca Bellini Simone Caligiana

La Provincia e il suo Ufficio Tecnico tra il 1876 e 1880. “Il tempo si sciupa in varie gite” Per una storia dell’associazionismo operaio in Umbria. L’età delle riforme. Dalle leghe di resistenza alla legislazione sociale sul lavoro. L’Umbria di Benedetto Maramotti 1868-1896. Dall’avvento della Sinistra al pensionamento 1876-1889. Le sedi delle Sottoprefetture circondariali della Provincia dell’Umbria L’Università di Perugia rischia di chiudere (seconda parte) La classificazione delle strade provinciali Il Consiglio Provinciale nell’ultimo lustro degli anni Settanta ”Monumentomania”. La statuaria commemorativa in Umbria negli anni ’70 dell’Ottocento Echi di cronaca locale: 1876-1880 Tre anni di letteratura. «La favilla»: 1877 - 1879

Veduta esterna della Basilica di San Pietro. L’unica opera nota di Marino Angelini

INTERVISTA AGLI AUTORI Francesco Felici

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A colloquio con Erminia Irace

Per la concessione delle riproduzioni fotografiche si ringraziano: Accademia di Belle Arti “P. Vannucci” di Perugia, Archivio di Stato di Perugia, Biblioteca Comunale Augusta di Perugia, Biblioteca del Senato di Roma, Comune di Città di Castello, Comune di Gubbio, Comune di Foligno, Comune di Perugia, Comune di Terni, Istituto centrale per il catalogo e la documentazione di Roma, Enrico Mezzasoma, Alberto Moriconi, Paul Scheuermeier, Università degli Studi di Perugia, www.ilmenante.it Abbreviazioni utilizzate: ACS = Archivio Centrale dello Stato ASMS = Archivio della Società Generale del Mutuo Soccorso di Perugia ASPg = Archivio di Stato di Perugia ASPP = Archivio Storico della Provincia di Perugia BAP = Biblioteca Comunale Augusta di Perugia b. = busta fasc. = fascicolo SAUR = Saur allgemeines kunstlerlexikon Bio-bibliographischer Index A-Z, Saur, München - Leipzig


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Perché focalizzare l’attenzione sull’Ottocento? ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

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iguriamoci se uno che di mestiere si occupa di storia può trovare F qualcosa da ridire all’idea che in qualunque campo sia sempre necessario risalire al passato, che la spiegazione di ogni fatto, la sua causa, possa essere conosciuta solo esaminando le premesse, gli antecedenti, dunque solo guardando all’indietro. E allora che cosa mai può esserci da ridire se un’amministrazione umbra decide meritoriamente di dare vita ad una pubblicazione di “materiali e ricerche per la storia della provincia di Perugia” intitolata Corrispondenze dall’Ottocento? In linea teorica nulla. Il fatto è, però, che mi riesce difficile credere che un’amministrazione faccia, sia pure in campo culturale, scelte solo “teoriche”. In questo caso, insomma, anche le scelte culturali rivestono un carattere politico-concreto che merita qualche osservazione. Osservazioni che possono essere introdotte da una semplice domanda: “storia della provincia di Perugia”, va bene, ma dal momento che tale storia conta a tutt’oggi, se non sbaglio i calcoli, la bellezza di 148 anni, perché mai occuparsi solo dei primi 40 anni (tanti ne corrono infatti dal 1860 al 1900) concentrandosi cioè esclusivamente sull’Ottocento? Perché limitare a questa frazione di tempo la ricostruzione delle vicende del passato? Tanto più che non furono certo quei 40 anni quelli più importanti, quelli in cui si svolsero i fenomeni massimamente decisivi per la storia della provincia. E allora perché occuparsi specificamente di quel periodo, da noi il più lontano? Mi vengono in mente solo due risposte possibili, entrambe, diciamo così piuttosto problematiche in quanto gettano alcune ombre, sia pure tra loro assai diverse, sulle intenzioni di chi ha dato vita a questa rivista. Ma tant’è: sono proprio le osservazioni critiche quelle che chiedono di essere espresse con più sincerità. Perché dunque occuparsi solo dell’Ottocento? La mia prima risposta è: perché così non ci si occupa del Novecento. Mi spiego. Come tutti sappiamo, in Italia la storia riveste, non da oggi, una straordinaria importanza. La causa sta nella straordinaria importanza che nel nostro Paese ha avuto e continua ad avere la politica. Lo stesso Stato nazionale italiano, nato da una rivoluzione politica, dalla consapevole rottura voluta da una minoranza ideologicamente costituita, nei suoi 150 anni di vita si è sempre fortemente identificato con gli assetti politici formatisi di volta in volta con un marcato carattere ideologico e insediatisi a lungo al potere, fino al punto da far parlare ogni volta di un “regime” (il regime liberale, il regime fascista, il regime democristiano, ecc.). 4


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Nella storia italiana l’alternanza di governi effettivamente diversi è un fatto recentissimo. Ora, in un sistema così peculiarmente caratterizzato dalla centralità e dalla pervasività sociale della politica, dalla sua tendenza a farsi ogni volta regime, la storia diviene per ogni attore uno strumento assai importante di legittimazione propria e di delegittimazione dell’avversario. Se io “dimostro”, per esempio, che nel “biennio rosso” (1919-20) l’Italia ha corso davvero il pericolo di cadere in mano ai “rossi”, allora è evidente che, di fatto, lo squadrismo fascista sarà in qualche modo giustificato e il suo regime ne uscirà rafforzato; così come, per fare un altro esempio, se io “dimostro” che solo le sinistre e in particolare il Partito comunista si sono battuti contro il fascismo, mentre i cattolici e la Chiesa se l’intendevano sostanzialmente con Mussolini, è altrettanto evidente che in questo modo delegittimo politicamente la Democrazia cristiana e il suo governo. In Italia l’uso politico della storia (cui non è estranea, naturalmente, la militanza politica di molti storici) è stato praticato e ampio come forse in nessun altro Paese democratico. Un uso politico, come si capisce, focalizzato soprattutto sul Novecento, cioè sul periodo chiave per la definizione del profilo ideale delle maggiori forze protagoniste della storia del periodo repubblicano. Quest’uso politico della storia novecentesca l’Umbria lo conosce bene. Il semisecolare governo delle sinistre, rafforzato peraltro da quello altrettanto lungo di molti comuni, ha compreso immediatamente quale vantaggio esso era in grado di ricavare dal potersi presentare come il legittimo erede dell’intera vicenda della Regione, come la conclusione in certo senso perfettamente coerente della sua storia. E si è mosso di conseguenza alimentando un gran numero di iniziative (convegni, borse di studio, ecc.) a cominciare dall’Istituto per la Storia dell’Umbria contemporanea. Ne è venuto fuori, nei tre decenni passati, un ritratto a tinta unica della storia della Regione. Dove campeggiavano come snodi decisivi le lotte del pur circoscritto (in pratica alla sola Terni) proletariato industriale, le biografie e le vicissitudini di un pugno di militanti antifascisti (che non furono certo più di un pugno gli umbri esplicitamente contrari al regime), gli scarsissimi episodi significativi di una Resistenza necessariamente durata solo pochi mesi, infine la costruzione politico-sindacale dell’insediamento sociale dei partiti di sinistra. In subordine, ma solo in subordine, anche le vicende di qualche esperienza cristiana, come quella di Capitini, o del cattolicesimo politico. Insomma un ritratto della storia umbra dal quale sono stati completamente espunti fatti rilevantissimi quali l’adesione massiccia al fascismo che la Regione aveva fatto registrare (segnalandosi sicuramente come una delle zone più “nere” del Paese), con relativa incomprensibile (o viceversa fin troppo comprensibile) conversione a sinistra dopo il ’44, ovvero le profonde e complesse trasformazioni sociali in senso modernizzatore avvenute durante il ventennio. Si dà il caso però che dopo circa tre decenni di piena egemonia questa specie di “storia sacra” colorata in rosa, all’insegna della quale assessorati di ogni tipo si sono dati per tanto tempo a organizzare decine di convegni, di manifestazioni, di celebrazioni, di rievocazioni, di dibattiti; sulla quale si sono formati centinaia di insegnanti; le cui vicende hanno riempito migliaia e migliaia di pagine (quasi tutte finanziate e poi stampate con denaro pubblico), questa “storia sacra”, dicevo, ha cominciato a mostrare tutti limiti, le contraddizioni, talvolta le vere e proprie bugie, di cui era intessuta. Ma piuttosto che cominciare a scrivere un’“altra” storia, piuttosto che avviare la ricostruzione di un passa5

L’OPINIONE

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to diverso, meno favorevole alla legittimazione del potere esistente, meglio lasciar perdere il Novecento - qualcuno forse si è detto - meglio muoversi su un terreno meno controverso, più tranquillo, tutto sommato più rassicurante: il terreno dell’Ottocento, appunto. È questo il sospetto che a me viene, dunque. Che Corrispondenze dall’Ottocento sia espressione, sia detto senza offesa per nessuno, del desiderio di parlare d’altro, di allontanarsi da terreni storiograficamente minati. Desiderio non dico consapevole, ma inconsapevole mi pare certo. Parlare d’altro anche a costo di parlare di cose certamente meno significative, meno importanti, di quelle di cui si sarebbe potuto parlare facendo una scelta diversa. Cose meno significative ma in compenso più accattivanti. Infatti, parlare dell’Ottocento nel modo necessariamente informativo-rievocativo come questo giornale non può non fare, significa alla fine parlare con accento inevitabilmente nostalgico del bel tempo che fu. Di com’era allora un viaggio in ferrovia, e poi dei salotti e delle logge massoniche in città, delle caserme, delle lotte dal sapore gozzaniano tra clericali e anticlericali. Significa insomma richiamare in vita l’universo dei “bei ricordi” per antonomasia (anche quando in realtà sono bruttissimi), insieme alla rassicurante sensazione del progresso che da allora ad oggi si è compiuto. Significa cioè alimentare e sollecitare sì la conoscenza del passato, ma una conoscenza che preferendo muoversi tra l’erudizione e il divertissement ben difficilmente accresce la consapevolezza dei problemi dell’oggi, della loro profondità storica, appunto, né tanto meno aiuta a rafforzare alcun sentimento etico-politico legato a tale consapevolezza. Perché non provare allora a introdurre qualche cambiamento?

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La casa del nonno LUIGI TITTARELLI

l mio nonno materno, Francesco, nato nel 1875, era “stradino” del Comune. Le vie e strade e vicoli affidati alla sua manutenzione comprendevano il rione (“borgo”) di Porta S. Angelo, o più popolarmente “Porsantangelo”, e “le Casoperaie”, cioè l’attuale Via Z. Faina, dove furono costruiti alcuni tra i primi edifici di “edilizia popolare”, in considerazione dell’esistenza – nel rione – della SAFFA (fabbrica di fiammiferi) e di altre attività – cambiate nel tempo – come il “Bacologico”, la “Filanda”, le “Maioliche”, ecc.; edifici oggi divenuti in gran parte residenze studentesche; altri rimasti di privata proprietà. Era conosciuto nel Borgo col soprannome di Ciancaribella (gamba che non voleva fare il proprio dovere), a causa di una zoppia dovuta all’osteomielite; oppure come Carabisiana, per via di una sua indulgenza per il sollievo da cercare ai rigori degli inverni di allora, come pure al torrido solleone e ai polveroni delle strade “macadamisées” cui accudiva. Sua moglie, la nonna Adele, quasi coetanea, era operaia alla SAFFA. Li ricordo molto bene perché quando il nonno morì, per primo, avevo quasi dieci anni. La nonna lo seguì due anni dopo. Erano l’uno e l’altra di bassa statura, fragili. Il nonno più allegro e disposto a farmi compagnia. La nonna in ombra, sempre vestita di scuro da quando, nel ’19, persero una figlia, Palma, bambina di nove anni uccisa dalla spagnola. Addirittura distrutta dalla lunghissima e dolorosa malattia dell’altra figlia – la mia mamma – durante gli anni della seconda guerra, tanto da precederla nella tomba.

E. Mezzasoma, Esterno dell’abitazione, 2008

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DIBATTITO SULL’UMBRIA

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E. Mezzasoma, Il portone, 2008

E. Mezzasoma, Portavasi a forma di conchiglia. Particolare della finestra, 2008

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Prima che venissero nel 1941 ad abitare con noi (papà, mamma e me) nella casa dove ancora vivo, erano stati in due abitazioni vicinissime tra loro, ambedue ancora esistenti, nella parte alta del Borgo, uguali ad allora esteriormente e forse poco cambiate nella disposizione interna. La prima è sulla destra salendo, separata dal monastero di S. Caterina dalla Via della Spada, vicolo lungo dieci metri dove dà una finestra coi vetri opachi e chiusa da un’inferriata, e nessuna porta. La casa ha marcapiano e cornici alle finestre in granito grigio; ai lati delle finestre i davanzali sono ornati da portavasi scolpiti in forma di conchiglia. Il portone d’ingresso è incorniciato sobriamente come le finestre. La facciata è dunque di purissime ed eleganti linee rinascimentali. Nel Borgo non manca qualche altro notevole edificio, medievale o più tardivo, ma la massima parte delle abitazioni erano – e sono ancora – semplicissime, modeste e ripetevano la struttura verticale della casa edificata sul lotto gotico. La casa era di proprietà comunale e comprendeva due abitazioni, entrambe al primo e unico piano. Passando oggi, si direbbe che vi è un secondo piano, con finestre più piccole, anch’esso abitato. Ma io credo che allora vi fossero soltanto le soffitte, dove forse non sono mai salito. Al pian terreno c’erano i fondi per rimettere la legna, il carbone, alcuni utensili casalinghi (sega, cavalletto, accetta, etc), qualche suppellettile e rottami diversi. Al piano superiore si saliva con due brevi rampe di scale: una decina di gradini in pietra piuttosto larghi, d’ampia pedata e con l’alzata attenuata da una leggera inclinazione a salire: scala “importante”, come la facciata, per un edificio altrimenti povero; come se avesse avuto una precedente destinazione “particolare”, forse attinente alla religione. Le due abitazioni erano uguali e composte da due stanze ciascuna: camera e cucina, come tutte quelle degli operai di allora (ultimi decenni dell’Ottocento e primi del Novecento, fino quasi alla seconda guerra mondiale), in Porta S. Angelo o in qualsiasi altro borgo cittadino. Il gabinetto (“la latrina”, “il cesso”) era uno solo, esterno, in fondo al corridoio sul quale si aprivano le porte di accesso alle abitazioni: uno stanzino con piccola finestra sulla parete di fondo, che dava su un ortino; sotto la finestra, per tutta la lunghezza della parete, un banchetto in muratura (come uno scalino alto un po’ più di mezzo metro e largo altrettanto) il cui piano era costituito da una tavola spessa che aveva al centro due buchi tondi, larghi un palmo e distanti circa un metro l’uno dall’altro, chiusi da tappi ugualmente di legno robusto, con maniglia centrale di ferro. Ai lati, sulla tavola erano appoggiati due o tre “broccoli” – cioè brocche di rame con manico d’ottone – contenenti l’acqua per “scaricare” non nella pubblica fognatura, ma in un pozzetto nell’orto. Non c’era acqua corrente, cioè “l’acqua in casa” come si diceva allora, portata con i tubi dall’acquedotto esterno fino ai rubinetti della cucina e della latrina. La maggior parte delle case del Borgo ne erano sprovviste, comprese quelle di proprietà comunale. Per ogni uso occorreva andare a prenderla coi broccoli “alla canella”, cioè alle fontanelle pubbliche, tre o quattro lungo il Borgo. Solo i più ricchi avevano potuto permettersi fino allora quella “comodità”, che andava ad aggiungersi alla “luce”, cioè l’energia elettrica arrivata, nella maggior parte delle abitazioni, all’alba del XX secolo. “La luce”, perché allora l’energia elettrica serviva ancora soltanto per l’illuminazione. Il tempo degli elettrodomestici era ancora di là da venire. Il pavimento dell’ingresso, quello del corridoio esterno del primo piano e del gabinetto, come quelli delle due abitazioni erano di mattoni; oggi diciamo “in cotto”. Ma i mattoni di allora non erano perfettamente lisci 8


Paul Scheuermeier, Il focolare con a destra la cucina a carbone, 1924 - 1930

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e levigati come il cotto attuale; bensì con superfici non compatte, rugose, assorbenti, e con spigoli irregolari. Non solo; una volta posti in opera per fare i pavimenti, la caduta di oggetti pesanti o anche il semplice uso, insieme al loro “licenziamento” (cioè sconnessione dal contesto a causa del movimento su travature di legno troppo elastiche e dell’insufficiente o scadente calce con la quale erano stati murati), li frantumava; e i pezzetti venivano via col camminare degli abitanti. Occorreva sempre rattoppare con la calce, perché altrimenti i “licenziamenti” si allargavano. I solai non calpestabili erano in travi e travicelli di legno e “pianelle” (simili ai mattoni, ma più lunghe e larghe e sottili). I muri interni, intonacati, erano “imbiancati”, cioè dipinti con una tecnica che prevedeva la preliminare applicazione della “colletta” e successivamente la stenditura della tinta. La tinta era prevalentemente acquosa e aderiva stabilmente e durevolmente alle pareti solo se la colletta era stata data sopra l’intonaco in quantità corretta: se poca, la tinta soprastante “non teneva”, cioè qualunque strofinio la asportava; se troppa, determinava in breve tempo il suo distacco dal muro – insieme alla soprastante tinta (anche al sottostante intonaco) - e la caduta in croste (le “coppole”). Il soffitto era dipinto in colore diverso dalle pareti, ma la sommità di queste ultime aveva una fascia della stessa tinta del soffitto, separata dal resto con motivi decorativi di varia altezza, in colori più vivi di quelli di fondo. In basso le pareti avevano uno “zoccolo a olio”; cioè una fascia alta 10 o 20 centimetri di una pittura che, essiccata, restava lucida e poteva essere ripetutamente lavata. Nelle cucine e nei cessi gli zoccoli, potendo, si dipingevano di altezza maggiore. Nell’abitazione dei nonni si entrava direttamente in cucina. C’era il focolare e il “versatore”, cioè sciacquaio. Il focolare era un parallelepipedo in muratura alto un’ottantina di centimetri, largo un po’ più di un 9

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Paul Scheuermeier, Sciacquaio di una cucina con le conche di rame, 1924 - 1930

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metro e profondo poco meno. Era sovrastato dalla “cappa”, una copertura in muratura a forma di tronco di piramide con base di superficie uguale a quella del focolare, facce inclinate, tranne quella di fondo coincidente con la parete, e alla sommità il buco della canna del camino. Sul piano del focolare, in posizione centrale e col margine posteriore a contatto con la parete, era murata una lastra di ghisa di notevole spessore sulla quale si accedeva il fuoco di legna: serviva per riscaldare la stanza e per far bollire il “caldaro” che pendeva sopra il fuoco, attaccato a una catena fissata ad una mensola in ferro murata sulla parete di fondo, sotto la cappa. Ai lati della lastra due “fornelli” per parte. Erano buchi quadrati approntati sul piano del focolare dentro i quali si collocavano i veri e propri fornelli, cioè oggetti in ferro a forma di tronco di piramide con base quadrata di una ventina di centimetri di lato – la maggiore – e la minore di circa dieci, inseriti nella muratura con la base maggiore volta verso l’alto. Sul fondo, la base minore era costituita da una piccola griglia. Sulla base maggiore, a livello del piano del focolare, si metteva una serie di cerchi concentrici di ghisa, con tappo centrale, che permettevano di porre sui fornelli pentole di diverse dimensioni. Sulla facciata del focolare c’erano due buche quadrate laterali in corrispondenza dei soprastanti fornelli. Servivano per dare loro aria, accendere da sotto con un po’ di carta il carbone posto nei fornelli e ravvivarlo con la ventola (“sventola”). Erano chiusi da sportellini di lamiera, per bellezza e per “mantenere” la brace o – al contrario – agevolare lo spegnimento del carbone, secondo le necessità. Sempre sulla facciata del focolare, in posizione centrale, due ampie buche sovrapposte, anch’esse chiuse da sportelli di lamiera: servivano, quella sotto per mettere piccole riserve di legna, carbone, carbonella, quella sopra per riporre gli attrezzi necessari ai fornelli: paletta, molle, scopetta, ventola, padelle, etc. Il versatore era un’ampia vasca rettangolare profonda un palmo e col foro di scarico sul fondo leggermente inclinato per agevolare il deflusso dell’acqua verso l’ortino. Quello dei nonni mi pare che fosse di cemento (era grigio scuro), ma ce n’erano in pietra o marmo scavati a mano da uno “scarpellino”. Su uno dei lati la vasca finiva con un ripiano al livello del suo bordo, abbastanza spazioso per appoggiare le stoviglie appena lavate, o le verdure da lavare, ecc. Ma soprattutto, per appoggiare i “broccoli” coi quali bisognava scendere alle fontanelle in strada per rifornirsi di acqua. Sopra lo sciacquaio c’era – appesa al muro - la “piattara”, una gabbietta di legno col fondo in listelli vicini gli uni agli altri quel tanto che bastava per reggere i piatti messi a scolare “per cortello”. Resta da dire dei mobili e delle suppellettili della cucina, ma parlando d’acqua, o meglio della sua scarsità in casa, e del grave disagio pel suo approvvigionamento, vorrei sottolineare quanto grande differenza c’era rispetto alla straordinaria comodità odierna, originatasi fin dai primi decenni del Novecento ed “esplosa” nel secondo dopoguerra, di lavandini e lavapiatti nelle cucine, lavandino, water, bidet, doccia, vasca da bagno, lavabiancheria, nelle abitazioni anche modeste. E perché risulti il confronto più chiaro e netto, accenno al sistema di riscaldamento esistente nella casa dei nonni. Come ho detto, si accendeva il fuoco di legna sul focolare: d’estate solo per far bollire l’acqua nel caldaro, d’inverno anche per scaldarsi un po’. Con parsimonia si metteva legna affinché non si spegnesse durante la giornata, ma si ravvivava solo alle ore dei pasti e alla sera, quando ci si tratteneva in cucina a sfaccendare e chiacchierare. Durante i tempi più freddi dell’inverno si faceva il “focone”, come dire un braciere basso di ferro o rame, dove si metteva un po’ di brace presa dal camino e si aggiungeva poi carbonella. Le donne erano attente a tenere viva la brace, 10


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anche se coperta da un leggero strato di cenere perché bruciasse lentamente. Un’oretta prima di andare a dormire il focone veniva portato in camera da letto, per stiepidirla. Di notte però si riportava in cucina e si spegneva, perché c’era il pericolo grave che da una combustione stentata derivasse ossido di carbonio, velenosissimo. Attingendo al focolare o al carbone acceso dei fornelli, si metteva infine brace negli “scaldini”, una specie di pentolini con ampio manico, in terracotta o lamiera. Le donne che dovevano star ferme a lungo per cucire, rammendare, preparare i cibi, “scegliere l’erba”, sbucciare le patate, faccende impegnative – allora – anche in termini di tempo, se li mettevano tra le gambe, sotto le ampie gonne; magari ci poggiavano sopra i piedi (non direttamente sui bordi dello scaldino, ma su una cassettina in legno e latta bucherellata grande tanto da ricoprire tutto lo scaldino, tranne il manico che sporgeva da una fenditura del piano superiore della cassetta); se si appisolavano, spesso erano risvegliate dalla puzza di gomma emanata dai fondi surriscaldati delle ciabatte. È facile capire quanta difficoltà avessero nonno, nonna e la mia mamma da ragazza a farsi il bagno, specialmente d’inverno. Si poteva farlo solo in cucina, riscaldandola quanto possibile col fuoco del focolare e l’aiuto del focone. Si faceva in un catino di lamiera zincata, o smaltata, di forma ovale, ampio e profondo almeno quanto bastasse per immergervi un bambino seduto o per consentire ad un adulto di stare in piedi, ma con la possibilità di attingervi acqua e lavarsi per tutto il corpo senza allagare immediatamente la cucina. Occorreva approvigionare, con numerosi viaggi coi broccoli alla fontanella pubblica, l’acqua necessaria alla prima lavatura e al risciacquo. Occorreva scaldare nel caldaio e in qualche pentola accessoria una parte almeno di quell’acqua. E poi, solitamente la sera dopo cena, cacciando in camera tutti i familiari non ammissibili allo spettacolo, spogliarsi, lavarsi, risciacquarsi, asciugarsi e rivestirsi con la massima rapidità. Solo il bagno dei bambini era un momento di allegria familiare. Ma d’inverno c’era un serio rischio di prendersi un raffreddore, se non di peggio. Meglio andava nella cucina delle poche abitazioni popolari cittadine che avevano non il focolare ma un camino come quello delle case dei contadini, cioè ampio e basso, molto basso, tanto da potersi sedere accanto al fuoco, su piccoli sgabelli posti ai due lati. Così era quello dell’abitazione del mio nonno paterno, Luigi, conosciuto come Breccolino (sassolino) dalle centinaia di operai della Valigeria (poi SAVIP) nella storica sede di Via Tornetta, oltreché nel “suo” borgo, “Porsusanna”. Della Valigeria era portiere, e perciò beneficiario di abitazione, luce, acqua e legna. Nella sua grande cucina, quando si faceva il bagno si ravvivava il fuoco e il catino si metteva a terra davanti all’ampia bocca del camino, e sulla spalliera di una sedia, accanto, si mettevano asciugamani e biancheria pulita a intiepidire. Tutto il resto, velocemente, come dagli altri nonni. D’inverno, a parte la cucina più o meno tiepida, c’era freddo in casa del nonno Checco, in camera, alla latrina. Nella camera, a sera, si portava il focone, se c’era e per breve tempo; non bastava a scaldare bene la stanza, e meno ancora le lenzuola e le coperte, gelate e umide. Si provvedeva a “scaldare il letto” con “prete”, “pretina” e scaldaletto. Il “prete”, una specie di gabbia cubica con gli spigoli di una quarantina di centimetri racchiusa al centro di una sorta di slitta oscillante lunga circa un metro, si metteva tra le lenzuola per tenere sollevato il lenzuolo “di sopra”, le coperte e l’eventuale “coltrone”: un’imbottita con fiocchi di lana, in uso da noi così come il piumino altrove. Poi al suo interno si poggiava la “pretina”, cioè un tegame di terracotta pieno di brace coperta da un po’ di cenere. Non troppa brace, per evitare che le lenzuola “s’avampassero”, 11

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Paul Scheuermeier, Madia e credenza con davanti brocca e brocchetta di rame per prendere l'acqua, 1924 - 1930

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cioè diventassero brune per una leggera bruciatura. Più sbrigativo lo “scaldaletto”: un tegame di rame con il coperchio bucherellato e un lungo manico; ci si metteva brace e poi lo si muoveva su e giù, qua e là tra le lenzuola, con una certa lentezza, cercando di riscaldarle uniformemente da cima a fondo. Ma guai a spingere un piede al di là dell’area percorsa dallo “scaldaletto”. Torniamo alla cucina, e ai suoi mobili. C’era un tavolo di legno con quattro gambe tornite, cioè ricavate da un lungo cilindro che il tornitore trasformava in una specie di bottiglia lievemente panciuta e rovesciata, e qualche sedia. Sul piano del tavolo una tovaglia di “incerata”. Simile alla plastica odierna, era lavabile e proteggeva il piano, dove non solo si mangiava, ma si preparava il mangiare, si stirava il bucato, le bambine facevano i compiti, etc. Nel cassetto del tavolo stavano le posate. Sotto era infilata la “spianatora”, che si sfilava fuori e, messa sopra il tavolo, serviva per “fare la pasta”, con farina, acqua, sale, uova (non sempre): “taiatelli”, “taiulini”, “quadrucci”, ricavati dalla “sfoia” stesa col “rasagnolo”. Le sedie erano “teverine”, con zampe robuste, “piozzoli” grossi un dito, spalliera con due fasce incurvate col vapore, in legno molto chiaro. Il piano era di paglia gialliccia intrecciata: la “scarza”. C’erano poi la credenza, la “battilarda” e la “matt’ra”. La credenza era a due piani: sotto con sportelli di legno, sopra con ante di vetro. Sotto si tenevano pentole, tegami, piatti etc.; sopra i bicchieri, le tazze e tazzine, bottiglie e caraffe; e poi zucchero, orzo, caffè, ecc. La “battilarda” era come un comodino da camera da letto, un piccolo parallelepipedo di legno. Il piano superiore era costituito da un “ceppo”, cioè una tavola spessa almeno dieci centimetri di legno molto duro, sulla quale si “batteva” il lardo per il soffritto; con la “manaretta” : una sorta di corta ascia, molto pesante e di solito poco tagliente. Il “battuto” serviva sia per il sugo della “pastasciutta”, che per il brodo della minestra. 12


Pitale in rame

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Le donne, ancora in maggioranza casalinghe, le mogli in primo luogo, allora cucinavano. Anche la pasta solitamente era “fatta in casa”: quella “compra”, venduta sempre sfusa, era troppo costosa per gli operai. La mattina, durante le buone stagioni, passando per le strade dei borghi si sentiva il rumore del battuto e l’odore del soffritto (le cipolle!) e del brodo sul fuoco. Il ceppo era protetto da un coperchio di legno ribaltabile. Sotto il ceppo c’era un armadietto dove si teneva l’olio, il sale etc. Infine la “matt’ra” (madia), una specie di cassapanca molto alta, quasi un metro. Il piano superiore, chiuso da un grande coperchio ribaltabile, era come una vasca dentro la quale si impastava il pane. Il piano inferiore chiuso da due sportelli fermati con la “naticchia” serviva per riporre “staccia” (setaccio), “staccino”, una qualche riserva di farina, ecc. Mi pare che la nonna Adele non facesse più il pane in casa, come la maggior parte delle donne che erano andate per prime a lavorare nelle fabbriche: “le fabbricarole”, come erano chiamate, con un’inflessione di sospetto sulle conseguenze che potevano derivare, moralmente parlando, dalla maggior “libertà” cui dava adito il lavoro di fabbrica rispetto al “semplice” ruolo di casalinga, dal quale, peraltro, le fabbricarole non erano affatto sollevate. Passiamo nella camera da letto dei nonni, seconda e ultima stanza della loro casa. C’era il letto con la testata in tubo di ferro verniciato di nero e un disco di lamiera incorniciato nel mezzo con dipinta una natura morta floreale (o un pavone con la coda aperta?). La forma della testata era con volute di tubo tondeggianti e inarcata al centro, a contenere il disco decorativo. Le zampe del letto poggiavano di solito sul pavimento di mattoni. Mi è capitato di vedere, non dai nonni, le zampe infilate in barattoli di conserva dimezzati e riempiti di nafta. Era per non far risalire dal pavimento le cimici sui letti, subito dopo averli disinfestati (con nafta e pennello), e cambiate le lenzuola. Ma i materassi? Non so. Le cimici, come i pidocchi, erano “di casa”, in ogni casa, in ogni letto, su ogni testa (specialmente di bambino). Mi pare di aver detto abbastanza perché si capisca quanto difficile era ottenere condizioni igieniche a malapena sufficienti. Ai lati del letto c’erano i comodini: armadietti col piano di marmo, un cassettino, uno sportello sottostante a chiudere due ripiani, Nel cassettino le cose personali più private, sia degli uomini che delle donne: il portafogli, la corona del rosario, etc. Dentro lo sportello, su un ripiano le ciabatte, sull’altro il “pitale”, o “vaso da notte”, o “urinale”. Di notte, d’inverno non si andava al cesso; cesso in comune, fuori di casa, freddissimo, a rischio di incontri sconvenienti: la pisciatina si faceva in camera, nel pitale. Oltre al letto e i comodini c’era – in camera – il “canterano”, o “comò”, e la “credenza” (altrove il “credenzone”, o, più raramente, il “visavì”). Il canterano era un mobile con quattro ampi cassetti per la biancheria e il piano quasi sempre di marmo, coordinato con quelli dei comodini. Sul piano, contro il muro, una specchiera, che poteva essere più o meno grande e variamente incorniciata. Sul piano del comò stavano oggetti da toletta, portafotografie, un vaso di fiori, etc. La credenza era un armadio con un ampio cassetto in basso e, sopra, uno sportello molto grande a chiudere un vano dove, con le “crocette” appese a un robusto tubo di ferro, si tenevano abiti sia maschili che femminili: giacche e pantaloni uguali (la “muta”), giacche e pantaloni scompagnati, vestiti, gonne, soprabiti, cappotti. Il credenzone era ovviamente una grande credenza, talvolta conteneva anche le coperte pesanti da usare per l’inverno, o il coltrone. In basso poteva avere due grandi cassetti, anziché uno solo. Il nonno Breccolino aveva in camera un credenzone; chiuso a chiave per13

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ché ci teneva anche il suo fucile da caccia, ad avancarica. Il “visavì’” (visà-vis) l’avrà mia madre nella sua camera da sposa: un armadio con specchi allo sportello che riflettevano lo specchio posto copra il comò, e viceversa, nella finzione di una lunga galleria dove ognuno si vedeva ripetuto all’infinito. In camera del nonno Checco c’era anche il “baule” col quale la sposa aveva portato con sé il “corredo” al momento del matrimonio: grande corredo “ ’l dod’ce de’ gnicosa”; molto più modesto “’l sei de’ gnicosa”: sei lenzuola “di sotto”, robuste di canapa o cotone, sei “per sopra” più morbide, in cotone, o misto-lino (con cotone), o puro lino. E poi federe, asciugamani e – in notevole quantità – un “articolo” di biancheria femminile che, ormai da qualche decennio, il progresso tecnico ha cancellato totalmente: i “pannolini”. Stavo per dimenticare il “lavamano”: un elegante trespolo in tondino di ferro piuttosto sottile con le tre zampe ricurve “a stringere” snellamente verso il basso attorno a un cerchio di piccolo diametro, e a raccogliersi – dopo essersi morbidamente allargate come i fianchi di una ragazza – attorno a un cerchio più ampio, verso l’alto, ornato con un leggero mancorrente. Sul cerchio inferiore poggiava il “broccolino”, sul superiore la “bacina” in lamiera smaltata bianca a decori blu, per lavare mani e viso al mattino, appena alzati. Le donne, di solito, ché gli uomini, come il nonno, per non “impicciare” si servivano del versatore in cucina. Dai due bordi superiori del lavamano si alzava un ferro verticale a sorreggere uno specchio ovale, con la sua cornice, oscillante perché vi si potesse riflettere il viso di grandi e piccini. Ripiegati sul bordo ornamentale stavano gli asciugamani di tutti i familiari. Non dimentico “’l secchio”: un grande recipiente smaltato bianco, con due coperchi: il primo con un buco in mezzo, il secondo a chiudere tutto, più o meno ermeticamente: insomma un water portatile da usare in caso di necessità estrema (malattia, freddissimo inverno, etc.). Dalla casa finora raccontata i miei nonni materni passarono – in affitto - ad un’altra dirimpetto. Può darsi che il Comune l’avesse ripresa al suo stradino andato in pensione. La nuova casa era al secondo piano, con quattro rampe di scale strette e con gradini molto alti. Aveva una stanza in più, “la saletta”, che faceva anche da ingresso. Aveva il gabinetto privato, con “tazza” e lavandino di porcellana. C’era l’acqua in casa, finalmente, e quindi la cassetta per lo scarico a ripulire la “tazza del cesso” e il rubinetto (”la canella”, di ottone) sopra il lavandino, così come sopra lo sciacquaio di cucina. I mobili della cucina e della camera erano gli stessi di prima. Nella saletta c’era un tavolo simile a quello di cucina, ma con un centrino ricamato al posto dell’incerata; sei sedie scure con zampe, pioli e spalliera piuttosto esili, cilindrici, e il piano di compensato con impresso in rilievo un motivo ornamentale, ad imitazione del ricamo d’un cuscino. C’era poi la “vetrina”: un armadio alto con due ante a vetri e tre o quattro ripiani coperti da tovagliette col bordo leggermente penzolante sul davanti, ricamato. I vetri erano decorati con figure ottenute con la tecnica della smerigliatura, che ricavava decorazioni opache sul vetro trasparente: lussureggianti tralci di vite con larghe foglie e grappoli d’uva. Serviva a contenere il servizio di piatti “buono”, e quello dei bicchieri “a calice”, insieme a tazze e tazzine da latte, thé, caffè; ricordo certe tazzine da caffè cilindriche con decorazioni giapponesi (alberini contorti, laghetti, massi levigati, la geisha col kimono e i piedini da “musmè” e l’ombrellino), incredibilmente trasparenti. Anche il servizio buono di posate, nella sua monumentale scatola – rastrelliera. Penso che fossero in parte doni che la mia mamma aveva voluto fare ai nonni come segni di una certa agiatezza raggiunta. 14


Macchina da cucire Singer

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C’era infine “la macchina da cucire”, Singer a pedale: grande e per me proibitissima attrattiva. Mi pare che nella stanza da letto dei nonni ci fosse, ancora là nella casa nuova, il letto della mamma, “a una piazza”, con le spalliere di “bandone”, cioè di lamiera di ferro scatolata sopra un leggero telaio e dipinta in toni vari di marrone ad imitazione delle venature di un qualche legno, più o meno pregiato e inverosimile. A bussarle con le nocche, risuonavano come un tamburo, meglio dell’ovale dipinto che ornava la testata del letto di ferro dei nonni, che a colpirlo rispondeva invece come un coperchio sbattuto contro un altro, o percosso da un mestolo. Il lavamano c’era ancora, nonostante il gabinetto interno. In questa nuova casa c’era infine una soffitta; vi si entrava dalla saletta, per una porticina verniciata nello stesso colore della parete, per mascherarla; era bassa e col soffitto spiovente “a morire”. A rigore, dovrebbe essere stata la soffitta di un appartamento sottostante, chi sa come venuta in dotazione a quello sopra. Era buia; ne uscivo fuori sempre impolverato e venivo sgridato; c’era una gabbietta di legno e filo di ferro – da uccellino minuscolo - con ragnatele attorno; c’era il “secchio”, ormai in disuso, come i “broccoli”; il baule della nonna di legno nero, mezzo vuoto; altre cose più piccole e confuse, cacciate giù in fondo dove non si arrivava nemmeno in ginocchio e per tirarle fuori all’occorrenza si ricorreva al manico della scopa. Finisce qui il racconto di una piccola parte dei miei ricordi di oggi, certo non identici a quelli di qualche anno indietro, quando avrei potuto verificarli, o meglio confrontarli con le memorie di papà e della zia Augusta. Due, anzi tre trasfigurazioni a confronto, di eventi, persone e oggetti che nella loro unicità e concretezza avevano lasciato segni diversi dentro ciascuno di noi; con quelli dolorosi destinati a durare più e più laceranti dei pochi gioiosi. Per questo sarebbe stato bene che fossero rimasti solo miei. Ne ho scritto, tuttavia, per lasciare almeno un racconto di come era la casa di un operaio perugino nei tre o quattro decenni attorno al 1900, e per qualcuno ancora più tardi. Meglio sarebbe se delle abitazioni e dei luoghi e modi di lavorare e vivere di allora si avesse una testimonianza concreta: un “museo della civiltà urbana”, dove portare i ragazzi delle scuole a vedere e toccare “la vita” dei loro nonni e bisnonni. Capirebbero meglio l’importanza delle novità infinite sopraggiunte nel secolo scorso e, forse, potrebbero domandarsi chi ha contribuito a realizzarle, e come, e perché; e in qual misura ogni uomo e donna di quel secolo vi ha concorso e in quale ne ha tratto vantaggio. Magari potrebbero chiedersi anche – un esempio tra tanti possibili – com’è che ancor oggi ci siano, contemporaneamente, Dubai, e – poco lontano – il Darfur; e perché, e per chi.

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Il decennio 1870 - 1880 MARIO TOSTI

l 20 settembre 1870 i bersaglieri italiani, con una breccia aperta nelle mura romane all’altezza di Porta Pia, conquistarono militarmente Roma, la capitale del Regno d’Italia. L’abbattimento del potere temporale del papato non esaurì peraltro la questione romana: il tentativo di Cavour di risolvere il problema in base a una linea separatista, sintetizzata dalla formula “libera Chiesa in libero Stato”, si era scontrato con l’intransigenza di Pio IX, che nel 1864 con un documento intitolato il Sillabo allegato all’ enciclica Quanta cura - condannò i “principali errori” del mondo moderno: liberalismo, razionalismo, socialismo. La Destra rimase fedele all’impostazione cavouriana e tentò più volte una conciliazione attraverso trattative con le gerarchie ecclesiastiche. Ma le esigenze del bilancio la spinsero ad alienare nel

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Porta Pia, foto seppia, (Collezione privata)

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Pio IX, cartolina, (Collezione privata)

Agostino Depretis, foto b.n., (Collezione privata)

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1867 l’asse ecclesiastico, approfondendo così quel solco fra Stato e Chiesa che la conquista militare di Roma rese poi incolmabile. Nel 1871, con una legge detta “delle Guarentigie”, l’Italia riconobbe il papa come sovrano su un residuo lembo di territorio romano denominato Città del Vaticano, gli assegnò una dotazione finanziaria annua, garantì al clero ampie libertà e lo sollevò dal controllo delle autorità civili. Tale legge non fu però riconosciuta da Pio IX, che si rifiutò di riconoscere lo Stato italiano e nel 1874 un decreto della Santa Sede - il cosiddetto non expedit (“non conviene” ) vietò ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche e amministrative. Il nuovo Stato italiano nasceva così con l’opposizione manifesta del potere che ben più a lungo di ogni altro aveva regnato sulla penisola, quello religioso e culturale della Chiesa cattolica, e ciò accentuò la ristrettezza della classe dirigente liberale e il suo isolamento nel paese. Dopo il 1870, venute meno le differenze che avevano caratterizzato le posizioni della Destra e della Sinistra sui problemi del completamento dell’Unità, il contrasto fra i due schieramenti divenne meno netto. Soprattutto la Destra subì un processo di frantumazione in gruppi locali contrapposti, con una conseguente difficoltà a disciplinare e compattare i comportamenti di voto dei parlamentari. Le elezioni del 1874 videro un sensibile rafforzamento della Sinistra, soprattutto grazie ai consensi che arrivarono dalla borghesia meridionale, ma la questione che avrebbe provocato, di lì a poco, la caduta della Destra fu quella ferroviaria. Nel 1876 i parlamentari toscani si opposero al progetto del governo, presieduto da Minghetti, di riscattare le strade ferrate dai privati e assegnarne la gestione allo Stato. Si aprì allora una crisi di governo che dischiuse la strada a un nuovo esecutivo guidato dal leader della Sinistra Agostino Depretis (1813-87). L’affermazione della Sinistra fu chiara e anche nei collegi umbri i candidati ministeriali conquistarono la maggioranza dei seggi. Segno dei tempi fu l’affermazione nel primo collegio di Perugia di Ariodante Fabretti, che, dopo le innumerevoli sconfitte del passato, superò al ballottaggio il moderato Reginaldo Ansidei, sindaco della città. Nonostante fosse mutato il colore della maggioranza alla Camera, gli umbri, come giustamente ha rilevato Fiorella Barroccini, «continuavano a votare governativo come avevano sempre fatto». A partire dal 1877 il prefetto, Benedetto Maramotti, si impegnò a garantire, in tutta la Provincia, ma in particolare a Perugia, il passaggio da amministrazioni moderate a governi di tono decisamente più democratico, massonico e anticlericale. A Perugia si concretizzò così la prima giunta guidata da Ulisse Rocchi, anche se con una maggioranza consiliare e con gli assessori nuovamente moderati: Ansidei, Evelino Waddigton, Tiberio Berardi e Cesare Fani. Si delineava così, nel capoluogo, quella collaborazione tra i partiti liberali, con la perdita della identità politica, sfociata nel trasformismo dominante degli anni Ottanta. Il cambio di governo del 1876 è stato definito, con molta enfasi, una “rivoluzione parlamentare”. In realtà, gli anni successivi misero in evidenza - piuttosto che una rottura istituzionale - un processo di allargamento delle basi sociali del nuovo Stato. L’avvento al potere della Sinistra fu dovuto in realtà a fattori ben più complessi della questione ferroviaria, che si comprendono riferendosi ai contenuti del discorso programmatico tenuto nel 1875 da Depretis nel suo collegio di Stradella (un picco17

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lo comune tra Pavia e Piacenza): estensione del suffragio, elettività dei sindaci, allentamento e redistribuzione del carico tributario, obbligatorietà dell’istruzione elementare. Oltre a porsi l’obiettivo di alleviare le crescenti tensioni sociali, la Sinistra era cioè portatrice di istanze di mutamento, il cui carattere composito era peraltro dovuto al fatto che le sue componenti settentrionali erano in larga misura espressione di interessi finanziari e commerciali, mentre le sue basi di consenso elettorale erano massicciamente dislocate nel Mezzogiorno. Depretis resse il paese dal 1876 al 1887 con le sole parentesi di due governi di Benedetto Cairoli nel 1878 e nel 1879-81. Il suo potere poggiò su una prassi politica che già allora venne definita “trasformismo”, consistente nello stemperarsi delle distinzioni ideali e programmatiche e nella cooptazione di disparati gruppi di interesse locali, che si tradusse nell’inglobamento all’interno della maggioranza governativa di gran parte delle forze moderate e conservatrici. Il tracollo della Destra alle elezioni del 1876 indicò, in effetti, che nella classe dirigente italiana tra governo e opposizione non esistevano differenze profonde, tali da ostacolare il passaggio di elettori e parlamentari dall’uno all’altro dei due schieramenti. Le conseguenze del trasformismo, destinate a pesare a lungo sulla vita politica italiana, furono quelle di una crescente identificazione dei ceti dirigenti con i ruoli e le funzioni della macchina amministrativa dello Stato, anziché con partiti politici contraddistinti da programmi diversi e potenzialmente alternativi. Anche se ridimensionate rispetto alle premesse, le riforme della Sinistra furono comunque di rilievo non trascurabile. La legge Coppino, del 1877, rese facoltativo l’insegnamento religioso nelle scuole elementari e introdusse l’obbligo di frequenza, dando una prima risposta al grave problema dell’analfabetismo. In Umbria, nonostante che l’andamento della scolarizzazione fosse ritenuto soddisfacente dagli ambienti ministeriali, si manifestarono opinioni diverse e il giornale repubblicano «La Provincia» riteneva, ad esempio, ben lontani dalle aspettative i risultati del programma di ampliamento dell’istruzione e di apertura di nuove scuole nelle zone rurali della Provincia. La scarsezza degli insegnanti preparati, la mancanza di un programma unico di insegnamento, l’irregolare distribuzione delle scuole, i locali poco adatti e privi dei necessari arredi erano, secondo le critiche del giornale perugino, alla base del fallimento; si sottolineava come non ci fosse stata una vera direzione ed una costante vigilanza dell’andamento dell’insegnamento primario. Secondo le cifre riportate dal medesimo giornale a Perugia, su una popolazione di 49.503 abitanti, 20.083 persone erano impossibilitate ad usufruire delle scuole esistenti. Inoltre 14 borgate, per un totale di 6.000 abitanti, erano prive degli insegnanti. A Foligno, su 21.686 abitanti, 6.159 non frequentavano. Lontano dalla scuola rimanevano, a Città di Castello, 8.811 abitanti su un totale di 24.088; a Temi erano 1.092 su 15.031; a Spoleto 3.040 su 20.748; a Rieti 2.765 su 15.9678. Questi dati erano visibilmente parziali perché non prendevano in esame gli obbligati ma solo la popolazione assoluta dei comuni. Il giornale insisteva sulla necessità di pretendere insegnanti patentati e soprattutto di non considerare la scuola rurale inferiore a quella della

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città. In Umbria lo scossone politico del ’76 produsse un improvviso risveglio del dibattito tra i partiti; l’attività del prefetto, Benedetto Maramotti, negli anni successivi al ’76, fu caratterizzata da una convergenza verso la nuova linea «ministeriale», secondo una scelta condivisa, in modo più o meno inatteso, dalla maggioranza dei moderati umbri. L’azione di Maramotti, in un primo momento, favorì l’allargamento dell’influenza a livello politico e amministrativo dei progressisti, a danno della Destra: furono gli anni in cui il prefetto collaborò con Luigi Pianciani, Presidente del consiglio provinciale dell’Umbria e molto influente nella regione.

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Luigi Pianciani, foto b.n., (Collezione privata)

Bibliografia di riferimento: T. Detti, G. Gozzini, Storia contemporanea. 1. L’Ottocento, Bruno Mondadori Editori, Milano 2000, in particolare pp. 280-281; F. Bartoccini, La lotta politica in Umbria dopo l’Unità, in Prospettive di storia umbra nell’età del Risorgimento. Atti dell’VIII Convegno di studi umbri, Gubbio-Perugia, 31 maggio-4 giugno 1970, Università degli Studi, Perugia 1973, pp. 181-269; A. Proietti, Benedetto Maramotti. Prefetto e politico liberale (1823-1896), Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1999; A. Mencarelli, Mente e cuore. Scuola elementare e istruzione popolare in Umbria tra Ottocento e Novecento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1993.

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La Provincia e il suo Ufficio Tecnico tra 1876 e 1880

“Il tempo si sciupa in varie gite” MAURIZIO TERZETTI

Un incidente el 1876 i rapporti fra la Provincia di Perugia, il suo Consiglio e la Deputazione da un lato, e l’Ufficio Tecnico dall’altro sono improntati a una grande instabilità. Se prendiamo la relazione che il consigliere Monti fa a proposito della correzione del ponte sul Tevere a Ponte Felcino, emerge una tonalità “aggraziata” di quel rapporto, per cui mentre si riconosce che il progetto dell’Ufficio va modificato, nondimeno si dà atto del lavoro svolto con grande competenza dall’istanza tecnica dell’amministrazione: “Esso Ufficio concepì bene il rimedio al Ponte Felcino”. Ma le cose non sono sempre improntate allo stesso tipo di rapporto, perché il giorno dopo, quando a riferire in Consiglio è la Commissione per il preventivo del bilancio 1877, ci si trova di fronte a quest’altra considerazione: “ci limitiamo a far voti affinché i nostri ingegneri, abbandonando ogni idea di lusso nei lavori provinciali, si attengano a ciò che i regolamenti prescrivono”. Poiché molto spesso, se non sempre, i lavori si riferiscono a interventi sul sistema viario, la commissione ritiene di riportare la questione anche nel contesto “politico-amministrativo” e non solo “tecnico-progettuale” che genererebbe più spese del dovuto: la mancata classificazione delle strade provinciali, che evidentemente mette ancora a carico della Provincia molte vie di comunicazione non di sua pertinenza. Il cosiddetto “incidente” che finisce per contrapporre l’amministrazione e l’Ufficio Tecnico avviene un momento dopo questo intervento, quando si entra nel dettaglio del bilancio preventivo. Arrivati alla “categoria sesta”: “Ponti e strade provinciali”, prende la parola il consigliere Danzetta, il quale “domanda se il fondo stanziato dall’articolo 1: Manutenzione delle strade e dei ponti provinciali non si possa ridurre a minor somma. Egli accenna alla strada Perugia-Cortona, che trovasi in condizioni assai buone, meno un piccolo restauro da farsi in un punto corroso dalle acque del Lago Trasimeno. A parer suo, la quantità di ghiaia che si adopera per questa strada eccede alquanto il bisogno”. Si chiedono su ciò chiarimenti all’ingegnere-capo. Il consigliere Bertanzi “udendo che questi dichiara di non assumere nessuna responsabilità rispetto alla manutenzione delle strade perché regolata dagl’ingegneri di riparto, prega la Deputazione di studiare la riforma dell’Ufficio tecnico, dell’operato del quale è necessario che qualcuno sia responsabile davanti all’amministrazione”.

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L’ingegnere-ispettore e i sei riparti Il 3 luglio del 1877 la Deputazione si presenta all’appuntamento con la sua bozza di riforma dello statuto dell’Ufficio tecnico. Per guadagnare tempo si è iscritto l’argomento alla sessione straordinaria. Ne dà lettura il deputato Leoni C.: “Anzitutto, è stato sostituito all’Ufficio centrale un Ufficio d’ispettorato: conservando a questo quasi tutte le attribuzioni affidate all’Ufficio centrale, si è però stabilito che non per il suo mezzo ma direttamente la Deputazione corrisponda con gli Uffici di riparto. Gli affari sono tanto cresciuti che, se si volesse proseguire nell’attuale sistema, sarebbe necessario aumentare il personale. D’altra parte, l’ingegnere ispettore, meno trattenuto dalle occupazioni dell’Ufficio, potrà più frequentemente visitare le strade e i lavoro di manutenzione e di nuova costruzione, e così il servizio procederà più spedito e regolare e con criteri conformi alle viste del Consiglio e della Deputazione. A sei è stato portato il numero degli Uffici di riparto, l’uno indipendente dall’altro. Con ciò, l’opera degli ingegneri è resa più facile e proficua, la sorveglianza maggiore e più efficace, la responsabilità meglio assicurata; diminuiscono le spese per le indennità di trasferta e di soggiorno fuori di residenza. Gli Uffici di riparto dipendono direttamente dalla Deputazione, la quale li sorveglia e controlla, giovandosi per la parte tecnica dell’Ufficio d’ispettorato. La differenze di classe e di stipendio stabilita per gli ingegneri di riparto servirà di stimolo agli inferiori, i quali, se si meriteranno la fiducia dell’amministrazione, potranno avanzare nella limitata carriera che offre la Provincia. La sorveglianza dei lavori di manutenzione, invece di essere fatta da un personale speciale residente su diverse località, sarà esercitata interamente a loro cura e sotto la loro responsabilità dagli ingegneri di riparto, sia direttamente sia per mezzo degli assistenti addetti ai rispettivi Uffici e anche, in casi straordinari, per mezzo degli aiutanti, incaricandoli volta per volta della visita delle strade. La maggiore spesa, quantunque poco sensibile, che potrà derivare da questo sistema, sarà compensata dal profitto che si ritrarrà dall’opera degli assistenti nei lavori d’ufficio. Viene poi determinata la responsabilità di tutti gli impiegati per i servizi loro rispettivamente affidati, per modo che ciascuno abbia a rispondere dell’adempimento o della trascuranza dei propri doveri. Come l’ingegnere capo dell’attuale Ufficio centrale prenderà il nome di ingegnere ispettore, così viene proposto che gli ingegneri aggiunti agli Uffici di riparto siano proposti ingegneri di riparto di seconda classe quantunque essi abbiano la nomina da un decreto della Deputazione giusta le disposizioni dello statuto vigente”. Il progetto piace, ma non soddisfa. Da più parti si richiede una sospensione, la nomina di una commissione, maggiore riflessione. Monti ritiene che “maggiori studi siano sempre utili, non già per diffidenza ma perché così si conciliano meglio i voti dei consiglieri che rimangono più tranquilli nella loro coscienza. La quistione dell’Ufficio tecnico è di somma importanza perché implica i massimi interessi dell’amministrazione. La sua gravità è dimostrata 21

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Dopo una lunga discussione, l’incidente si chiude con l’impegno della Deputazione a presentarsi in Consiglio al più presto con un progetto di riforma dell’Ufficio Tecnico.


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dal fatto che in pochi anni questa è la terza volta che si discute del suo ordinamento”. Il Consiglio, perciò, ottiene la sua commissione. La compongono i consiglieri Boschi, Coletti, Bertanzi, Monti e Mancini.

Eccessi di decentramento, mancanza di subordinazione Primo settembre 1877. Arriva in Consiglio il risultato dei lavori della commissione per l’Ufficio tecnico. Il relatore è il consigliere Mancini. La relazione si rifà alle “innovazioni” proposte dalla Deputazione, che erano due: l’abolizione dell’ingegnere capo e l’istituzione di tre nuovi riparti (Terni, Foligno e Orvieto) che elevava a sei il numero dei riparti, ognuno dei quali, nelle intenzioni della Deputazione, avrebbe dovuto avere maggior copia di attribuzioni e maggiore responsabilità. Sul primo punto, molte ragioni hanno convalidato la sostituzione della figura dell’ingegnere capo con quella dell’ingegnere ispettore: il primo, infatti, assommava in sé “una soverchia quantità di attribuzioni e responsabilità” per cui avrebbe anche potuto, e potrebbe, “eludere la responsabilità perché troppo ampia ed indeterminata”. Consensi, invece, per l’Ufficio di ispettorato, che “sarà il consulente della Deputazione in tutte le materie tecniche, controllerà l’opera degli altri uffici tecnici della Provincia, eseguirà i collaudi con economia dell’amministrazione e con criteri uniformi”. Certo, l’ideale sarebbe far coesistere i due Uffici, ma ciò sarebbe davvero troppo “per l’importanza della amministrazione di una Provincia benché vastissima come l’Umbria”. Lo scoglio più grande della riforma è rappresentato dall’elevazione a sei del numero degli Uffici di riparto. “È nell’ordine di natura che l’accrescimento di tutte le cose si effettui sempre a detrimento del loro numero”: con questa massima la Commissione, sebbene non all’unanimità, si oppone al progetto della Deputazione. E, alla fine, la spunta su questa, rintuzzandosi in Consiglio anche qualsiasi motivazione fatta in nome del “decentramento”. Di nuovo Mancini: “Ma del frazionamento del servizio tecnico alcuno ha fatto una quistione di decentramento. In quanto a me credo che le cose migliori possano divenir pessime coll’esagerarle ed anche il decentramento, sommamente utile e pratico entro certi limiti, può divenire dannoso e di impossibile attuazione fuori di quelli. Chi di voi non vede o signori che quando anche si voglia fare una quistione di decentramento il progetto della Deputazione in luogo di assecondarne il vero significato vi si oppone?” Però, anche se non potranno essere sei riparti, la Commissione concede, sperimentalmente, che “quando l’esigenza dei lavori lo richieda, la Deputazione potrà stabilire nel luogo che creda opportuno una sezione temporanea assegnandovi l’ingegnere aggiunto e porzione del personale di un ufficio di riparto. Questa sezione rimane dipendente dall’ufficio da cui è distaccata”. Finisce, dunque, che si vota positivamente per l’ingegnere ispettore e per il mantenimento dei tre riparti esistenti di Perugia, Spoleto e Rieti (1 e 2 settembre 1877). La spaccatura, però, è ancora più profonda di quella segnata dalle divergenze fra Deputazione e Consiglio: rimane aperto e contraddittorio, infatti, il giudizio stesso sull’operato dell’Ufficio Tecnico, che, per alcuni “non procede né regolarmente né speditamente” a causa della “mancanza di subordinazione”, mentre per altri “non tutto è andato alla malora, i lavori procedono, il personale tecnico provinciale fa il suo dovere”. 22


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La Commissione d’inchiesta Valutazioni tanto contraddittorie sono destinate a riaprire il problema dell’Ufficio Tecnico. Ciò avviene puntualmente durante la quinta adunanza della sessione ordinaria del 1878, il 29 agosto 1878, quando si discute la Relazione della Deputazione sulla gestione 1877-1878. Il consigliere Ansidei nota che lavori appaltati per Lire 200.000 hanno importato, secondo i dati dei relativi collaudi, una spesa di Lire 400.000. Il suo imperativo non conosce mezze misure: bisogna eliminare tutto ciò che è lusso, risparmiare sulle opere stradali per provvedere all’incremento economico e morale della Provincia. Ma quali sono i lussi? “Bisogna cessare di fare i rettilinei, dal tenere la massicciata della larghezza di quattro metri con una profondità di 25-30 cm, mentre basta la larghezza di metri 3,50 e la profondità da 12 a 15 cm. Tutto ciò è causa dello sbilancio provinciale. Egli [Ansidei, n.d.r.] sa da vari appaltatori che potrebbe spendersi molto meno. Occorre quindi che gli ingegneri provinciali mutino affatto indirizzo. Non è necessario, oggi soprattutto che esistono le ferrovie, mantenere costante l’altimetria delle strade e si debbono risparmiare i tagli e i riempimenti”. Un ultimo affondo, molto tecnico: “La bravura degli ingegneri consiste nel seguire l’andamento del terreno ed a ciò essi dovrebbero porre tutto il loro studio”. Da cosa nasce, insomma, un aumento così abnorme della spesa? Sarà Bertanzi, che aveva già lanciato la parola d’ordine della riforma dell’Ufficio Tecnico, a chiedere niente meno che la nomina di una Commissione d’inchiesta. Alcuni consiglieri si schermiscono, tergiversano, cercano di aggirare l’ostacolo. Ma la parola d’ordine pesante è stata pronunciata e non ci potrà più tirare indietro. Mancini, oggi, è deputato: “Se fossero vere tutte le censure fatte” dice “l’Ufficio tecnico sarebbe certamente colpevole. Esso non può rimanere sotto tali accuse e perciò anche a nome della Deputazione appoggia la nomina di una commissione d’inchiesta anche per far cessare le voci che corrono nel pubblico a carico dell’ufficio tecnico provinciale”. Egli ha preventivamente dalla sua l’argomento che “molte strade furono deliberate nei primi anni dell’esistenza del Consiglio quasi per acclamazione senza progetti stradali e senza badare alla spesa e ciò giustificherà in gran parte i lamentati inconvenienti”. Ad Ansidei dispiace che le sue considerazioni siano state prese come accuse. Quindi non si associa alla proposta di inchiesta e propone un odg di fiducia verso la Deputazione, che la impegni senza farla passare per le forche caudine di una Commissione d’inchiesta.. Ma ormai, osserva il consigliere Coletti, che è un tecnico, dopo questa discussione, non si può fare a meno dell’inchiesta, per lunga che possa essere e fonte di “inconvenienti morali”. Così la nuova Commissione è nominata espressamente per valutare la responsabilità che può avere l’ufficio tecnico provinciale nelle differenze notate fra i preventivi dei lavori e i consuntivi. Ne fanno parte i consiglieri Segni, Bertanzi, Danzetta, Rocchi e Pindaro Mancini. Partita finale L’inchiesta sulle maggiori spese doveva interessarsi anche dei molti problemi legati ai costi del personale impiegato nell’Ufficio Tecnico in maniera straordinaria, ai molti braccianti impiegati nei lavori stradali per sopperire alla scarsezza dei raccolti che si verificava in quegli anni. Non potè farlo. 23

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In pratica, infatti, fra mille difficoltà e vari accidenti, ridotta a due soli componenti, non riuscì a presentarsi al Consiglio che l’11 settembre 1880, due anni dopo il mandato. Largamente incompleta dopo essere stata rimaneggiata nel 1879, fornì il risultato di un’indagine riferita a sole quattro strade: Sellanese, Arronese, Amerina e Finocchietana. Per il relatore Lattanzi la causa principale dell’aumento lamentato va fatta risalire agli spostamenti dell’asse stradale durante la costruzione o, per meglio dire, alla modificazione del tracciato, specie se si tratta di percorsi in luoghi montani e scoscesi: “Gli spostamenti si eseguiscono per due ragioni: o perché risulti che le quote calcolate nel progetto non corrispondano a quelle del terreno sul quale si opera o perché si voglia modificare un tracciato correggendolo ove sembrasse difettoso, abbandonando l’andamento che per economia si era progettato”. Varianti su varianti, dunque, non sottoposte all’approvazione degli amministratori. Di esse, alcune si impongono perché i metri cubi di terra da scavare e rimuovere aumentano dietro pressioni locali lasciate nel vago sia da chi relaziona sia da chi aveva voluto l’inchiesta, altre nascono da studi geologici frettolosi, altre, infine, risulterebbero imposte dal superiore Ministero dei Lavori Pubblici. Un quadro appesantito dall’abitudine di “costruire superbi manufatti senza punto aver riguardo all’economia della spesa” come nel caso del Ponte di Guardea. Il dibattito che segue è molto accademico, parecchie conclusioni di Lattanzi erano già presenti a chi ne aveva chiesto l’istituzione. Così il Consiglio non può fare altro che rinviare ogni deliberazione in materia all’epoca in cui la Commissione avrà completato il suo lavoro. Dari, Meniconi e Pompili entrano al posto dei dimissionari. La “partita” sembra giunta, se non alla fine, a un punto morto, in cui prevale la stanchezza dei contendenti. E si giuoca, ormai, in condizioni di una certa parità. Gli ingegneri di riparto sono tenuti a emettere rapporti annuali e questi, acclusi agli Atti del Consiglio, finiscono per essere una testimonianza della loro esistenza amministrativa che, spesso, si contrappone alla valutazione politica di Deputazione e Consiglio. Ciò vale, soprattutto, per il rapporto dell’ingegnere ispettore, Guglielmo Bandini. Nel 1879 egli denuncia, fra l’altro, la sorveglianza assai trascurata e lavori di manutenzione affidati all’arbitrio dell’assistente locale. Né piccolo è, per lui, lo spreco che si fa della breccia, perché approvvigionata “secondo l’intendimento dell’appaltatore”. E poi “gli ingegneri di riparto non possono, per l’estensione dei riparti stessi, sorvegliare i lavori di nuova costruzione e di manutenzione, attendere alle visite necessarie per prescrivere la breccia, redigere stati finali, attendere alla contabilità di ufficio”. Ci vorrebbero, a suo giudizio, i sei riparti che la Deputazione non era riuscita a far passare. In quel caso, il tempo che ora “si sciupa in varie gite” sarebbe messo a maggiore profitto.

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Per una storia dell’associazionismo operaio in Umbria.

L’età delle riforme. Dalle leghe di resistenza alla legislazione sociale sul lavoro. FRANCO BOZZI

otto la spinta delle rivendicazioni operaie, e per i mutati equilibri politici (il 1876 è l’anno della "rivoluzione parlamentare", come pomposamente fu chiamato il cambio di governo dalla Destra alla Sinistra storica) lo Stato liberale veniva intanto affrontando tutto un complesso di problematiche civili e sociali. Nel 1877 il Ministro per la Pubblica Istruzione Coppino varò una legge sull’istruzione obbligatoria che, pur fra limitazioni e timidezze, ebbe il merito di indicare "i doveri delle amministrazioni comunali e sanzioni precise contro i genitori che mantenessero nell’ignoranza i loro figliuoli" e segnò un passo verso la laicità dell’insegnamento, sostituendo al catechismo cattolico "le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino"1 . In periodo crispino si pose mano ad una riforma strutturale delle Congregazioni di Carità e delle Opere Pie, che partiva dal convincimento "che quella dell’assistenza fosse una funzione pubblica, che lo Stato aveva il diritto e il dovere di gestire assumendosi direttamente o attraverso gli enti territoriali locali ampie facoltà di ingerenza"2 negli istituti di beneficienza riordinati, accorpati e sottratti al controllo del clero. Ma è soprattutto sul problema del riconoscimento giuridico delle società che si accendeva il dibattito tra fautori e avversari dell’intervento statale nel campo dell’economia e del lavoro. Il problema era antico, forse quanto il mutuo soccorso medesimo, certamente da quando le società si erano riunite a congresso. Nello schieramento dei partiti storici che avevano condotto al Risorgimento nazionale, la posizione conservatrice-moderata era tradizionalmente favorevole al riconoscimento e alla regolamentazione legislativa di un fenomeno nato per tanti aspetti in forma spontanea e per iniziativa di singoli, non però all’ingerenza sulla vita interna delle associazioni; quella liberale-progressista era invece nettamente contraria a qualsiasi tipo di controllo governativo o poliziesco. Per l’assoluta indipendenza delle società dal potere politico si dichiaravano inoltre i repubblicani, eredi del messaggio di Mazzini, e le nuove formazioni che si riconoscevano nel verbo internazionalista, che in Italia aveva assunto caratteri bakuniniani piuttosto che marxisti: i socialisti e gli anarchici. Sarà opportuno ricordare, a questo punto, come l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, più nota sotto il nome di Prima Internazionale, era stata preceduta, nel ’62, dalla riunione dei rappresentanti di società mutualistiche inglesi e francesi avvenuta nella taverna massonica di Londra; ed era stata fondata nel ’64 nel famoso meeting di St. Martin’s Hall "per costituire un centro di

Michele Coppino, foto b.n., (Collezione privata)

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collegamento e di cooperazione tra le società operaie esistenti nei diversi paesi, che aspirino al medesimo scopo, e cioè: il mutuo soccorso, il progresso e l’affrancamento completo della classe operaia"3 . Gli studi compiuti, anche su pressione di uno scenario futuribile tale da incutere i più acuti timori alle borghesie europee (il 1871 fu l’anno della Comune di Parigi) sulle legislazioni straniere in materia – l’inglese, la francese, la tedesca – non avevano prodotto risultati: nessun progetto, durante il periodo della Destra storica, era approdato alla discussione parlamentare. D’altronde l’economista Tullio Martello scopriva quali fossero gli umori dell’oligarchia capitalistico-agraria al potere: l’Internazionale era un pericolo verso cui la società, per la propria auto-conservazione, aveva il diritto di reagire con la forza; le Trade Unions, che le avevano preparato il terreno utilizzando il mutuo soccorso e lo sciopero, andavano considerate associazioni terroristiche e criminali; le coalizioni operaie tendenti a influenzare l’andamento del mercato dovevano essere proibite4. Un primo disegno di legge fu presentato invece sotto il governo Depetris, nel giugno 1877, dal Ministro dell’Agricoltura Maiorana Caltabiano. Nell’ottica della Sinistra parlamentare la libera e spontanea diffusione del mutuo soccorso non era incompatibile con qualche forma di intervento statale che fosse ispirato da motivi etici ed economici. Ma i concetti di autorizzazione, tutela e controllo che spuntavano dal progetto erano tali da mettere in allarme tutti gli oppositori. Cosicché il Congresso nazionale delle società, convocato a Bologna nell’ottobre successivo, ne bocciò l’impalcatura e la filosofia. La Società perugina vi fu rappresentata dall’operaio Luigi Rosi e dal marchese Gioacchino Napoleone Pepoli. Costui, alto esponente della nobiltà felsinea, imparentato coi Bonaparte e coi Murat, già Commissario straordinario per la provincia dell’Umbria nei mesi cruciali del plebiscito per l’annessione, amava assumere atteggiamenti sinistrorsi (si ricordano suoi articoli e discorsi favorevoli al mutuo soccorso e alla cooperazione, contrari alla tassa sul macinato, aperti alle istanze di progresso sociale delle classi subalterne), suscitando sarcasmi e motteggi da parte di quella oligarchia di nascita e di censo cui egli stesso apparteneva. Lo stile di vita esagerato che gli era consueto si manifestò pure nei festeggiamenti tributatigli in occasione della sua venuta a Perugia per rendere conto del mandato ricevuto5. La legge proposta, spiegava il Pepoli con il suo eloquio enfatico, non era una legge di amore ma di sospetto. La pessima accoglienza indusse il ministero a ritirare il progetto. Un iter egualmente travagliato, ma dal più fortunato esito, ebbe il progetto Berti-Depretis. Se ne cominciò a discutere nel 1883, e sebbene avesse impronta meno occhiuta e invasiva del precedente riscosse la pronta opposizione dello schieramento democratico extra-parlamentare.

Onofrio Bramante, L’epopea degli artieri (www.ilmenante.it)

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Stemma di una Società Operaia di Mutuo Soccorso

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Negli stessi anni, in Germania, il cancelliere Bismarck aveva messo a punto il suo sistema paternalistico-autoritario di legislazione sociale, volto a soddisfare i bisogni primari della classe operaia e per ciò stesso a sottrarre terreno all’avanzata dell’Internazionale; ma non era il socialismo di Stato prussiano che ispirava gli uomini della Sinistra, sibbene il modello inglese ispirato dal tradeunionismo e dal cooperativismo, che lasciava largo spazio alla libertà di associarsi e limitava l’intervento pubblico al riconoscimento giuridico della sua utilità e alla tutela dei diritti del lavoratore. Sul problema del riconoscimento il giornale della borghesia perugina così si esprimeva: "Un tal provvedimento entra senza dubbio fra le leggi sociali, e potrebbe tornare di gran vantaggio alle classi operaie, se fosse lasciato libero da una soverchia ingerenza dello Stato, la quale mentre non varrebbe a soddisfare l’esigenza delle masse sofferenti, potrebbe stabilire precedenti e responsabilità grandissime per il governo". E sulla opportunità della ventilata tutela il giornale si mostrava scettico: "perché le classi operaie non vivono di solo pane e perché temono che sotto il pretesto di accordare loro una garanzia, si nasconda lo scopo di dominare le società ed entrare a dirigere il loro andamento amministrativo"6 . Fra discussioni, battute d’arresto e rifacimenti il progetto approdò finalmente alla Camera. Esprimendo il suo voto negativo, Andrea Costa "difese il punto di vista di quanti accettavano il riconoscimento giuridico com’era stato proposto al congresso delle società di m.s. del 1877, cioè per semplice iscrizione al comune"7 , ed equiparò le associazioni agli individui, che solo per il fatto di essere nati diventano titolari di diritti individuali. Comunque il progetto passò e la nuova legge entrò in vigore il 15 aprile 1886. Si apriva così una complessa partita, in cui diversi attori intervenivano giocando su tavoli diversi. La classe politica di derivazione risorgimentale, entrando col Crispi e i suoi successori nella spirale dell’involuzione autoritaria, cercava di irreggimentare in un quadro normativo unico l’associazionismo operaio, agendo sul doppio binario di repressione e riforme. Ed infatti nell’83 fu fondata la Cassa Nazionale di assicurazione contro gli infortuni, a carattere volontario, ma divenuta obbligatoria di lì a qualche anno (la sede compartimentale per la Toscana e l’Umbria era presso il Monte dei Paschi di Siena); nell’86 venne varata la legge che impediva il lavoro dei fanciulli minori di nove anni; nel ’98 si istituì un fondo di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia, al quale le SOMS potevano attingere integrando i sussidi riconosciuti ai soci. Parallelamente però la vigilanza sulle società si faceva più stretta, e si incrudivano le misure poliziesche contro le neonate formazioni, che nell’età della Seconda Internazionale assunsero carattere prevalentemente socialdemocratico ed evoluzionista: i circoli umanitari, le leghe di resistenza, il Partito Operaio Italiano, lo stesso Partito Socialista. La repressione toccò il suo culmine fra il ’94 e il ’98, in corrispondenza coi Fasci siciliani e coi moti milanesi detti della fame, la cui eco fu avvertita profondissima anche nella nostra arretrata e sonnolenta regione8 . Il movimento mutualistico e cooperativo reagì escogitando nuove e più incisive forme di aggregazione e di lotta. Si pensava, da parte dell’opposizione radicale e repubblicana, che gli strumenti tradizionali, ormai ben collaudati, fossero ancora in grado di svolgere una funzione utile per l’emancipazione del proletariato: cosicché furono fondate nell’86 la Federazione Nazionale Cooperative (che più tardi assunse il nome di Lega delle Cooperative), e nel 1901 la Federazione Italiana Società di Mutuo Soccorso. Anzi lo stesso Costa si faceva promotore di iniziative 27

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parlamentari volte a favorire le cooperative di lavoro, considerate uno dei mezzi più efficaci per migliorare le condizioni di operai e artigiani. Un forte impulso ebbe anche la cooperazione applicata al credito, mediante la creazione di banche popolari cooperative, tanto che nell’85 se ne potevano contare dodici nella Provincia dell’Umbria (in ordine di istituzione: Città della Pieve, Terni, Rieti, Todi, Deruta, Tuoro, Bastia, Poggio Mirteto, Gubbio, Gualdo Tadino, Umbertide, Perugia). Nel discorso inaugurale rivolto all’Assemblea degli azionisti perugini il deputato Guido Pompili sottolineò la differenza fra i normali istituti di credito, miranti esclusivamente al profitto, e questo tipo di banche che invece rappresentavano la democrazia economica, imperniata sui tre principi del risparmio, della previdenza e della cooperazione. Le banche popolari si ponevano come "un’associazione, dove gli operai, e i contadini, i piccoli industrianti, tutti coloro a cui sono sbarrate le porte degli altri istituti, accumunano le loro forze e i loro risparmi per fabbricarsi da sé una istituzione di credito locale e autonomo che provvede ai loro bisogni, e fa a loro uniti ottenere quel credito che ai singoli era negato"; andavano a completare l’edificio delle varie istituzioni cooperative e di previdenza quali "le società di mutuo soccorso, di produzione e di consumo"; e sembravano particolarmente adatte al credito agrario, dando impulso a quel settore primario che andava considerato come l’origine di tutte le arti e il fondamento della civiltà9 . In questo clima di melassa interclassista la Società Operaia perugina si apprestò a celebrare il venticinquesimo anno della propria esistenza. Il conte Zeffirino Faina, uno dei principali esponenti della consorteria moderata, mise a disposizione la sua villa ai Murelli per un banchetto augurale, durante il quale – come informano le cronache – pronunciarono acconce parole di circostanza il Presidente della Società Alessandro Raspi e le autorità cittadine. Poi i convenuti tornarono in città al suono dell’inno garibaldino, lasciando al cronista la convinzione che la bella festa popolare avesse "maggiormente consolidato il patto fraterno che deve mai sempre tenere unita la grande famiglia operaia"10 . Anche padroni e operai dell’Officina Baduel, Bizzarri e C. si ritrovarono a banchetto a Colle del Cardinale, e brindarono insieme alla pace sociale e alla reciproca concordia. Il prof. Leopoldo Tiberi, socio benemerito dell’organismo mutualistico, inneggiò applauditissimo "all’unione del capitale e del lavoro, dalla cui guerra deriva la miseria e dalla cui armonia nasce la prosperità delle nazioni", e propose il titolare della ditta "come modello a coloro che hanno capitali da disporre e che invece li tengono inoperosi con danno loro e delle classi operaie"11 . Ma nel frattempo si andava manifestando – noncurante di tale zuccherosa visione – un epifenomeno destinato a modificare profondamente le prospettive di lotta del movimento operaio. Se l’unione delle forze era stata foriera di così incoraggianti risultati nel mutuo soccorso, nella cooperazione, nelle banche popolari, perché non usare il medesimo strumento (l’associazione) per opporsi ad un sistema di remunerazione del lavoro e di distribuzione della ricchezza che, lungi dall’essere naturale e immodificabile come pretendevano gli economisti borghesi, si rivelava iniquo, sperequato, fondato sul privilegio degli espropriatori e sullo sfruttamento degli espropriati? Da questa domanda – traduzione in termini elementari dei concetti marxiani di pluslavoro/plusvalore, e annuncio del lento ma inarrestabile formarsi di una coscienza di classe – che indubbiamente sarà stata suggerita e stimolata nelle fabbriche e nelle campagne dai propagandisti socialisti (gli intellettuali "spostati", i "fuo28


Manifesto dell’Associazione generale operai

Don Luigi Rughi, foto b.n. (Comune di Gubbio)

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riusciti della borghesia" di cui ha parlato il Michels12) nasce il fenomeno della resistenza, con il tumultuoso diffondersi delle agitazioni, il ribollente pullulare delle leghe, la proclamazione dei primi scioperi. Come è stato osservato dagli storici del movimento operaio, fin dal suo sorgere – nel ’92 – il PSI considerò superata l’esperienza del mutuo soccorso, e vide nelle leghe un più potente strumento per la tutela dei diritti dei lavoratori e per la loro politicizzazione/sindacalizzazione, completata dall’adesione al Partito e dalla partecipazione ad organismi territoriali collaterali, quali le Camere del Lavoro13 . Altro fattore di dinamismo – in un mondo del lavoro strozzato dai dogmi liberisti e investito da crisi e stagnazioni ricorrenti – fu il crescente, progressivo impegno dei cattolici, facilitato dall’allentarsi del non expedit e dal proporsi della moderna dottrina sociale della Chiesa. La pubblicazione delle encicliche Quod Apostolici muneris del ’78, e Rerum novarum del ’91, provocò forti ripercussioni nella regione, anche in considerazione del ruolo che vi aveva giocato, da Vescovo di Perugia, il regnante Papa Leone XIII14 . I cattolici scendevano dunque in campo per favorire le società artigiane ed operaie, le cooperative, le banche ad ispirazione religiosa; e, corrispondentemente a quanto avveniva nel movimento socialista, le leghe bianche e i sindacati contadini furono l’anello di congiunzione con il futuro Partito Popolare. In questa presenza, dei sacerdoti più ancora che dei laici, Luigi Bellini individuava il fatto nuovo del movimento contadino regionale agli inizi del nuovo secolo15 . In apparenza l’età giolittiana fece registrare (nella Provincia come nel Paese) la fioritura rigogliosa del mutuo soccorso. "Il numero complessivo delle Società Operaie – scriveva infatti Fernando Mancini, Presidente della Camera di Commercio ed Arti che aveva sede a Foligno – costituite nell’Umbria a tutto il 1908 è di 194"16 . Anche la cooperazione ricevette un forte impulso, sebbene inferiore alla media nazionale (nello stesso periodo erano censite in Umbria 61 cooperative: 38 di consumo, 15 di produzione, 6 agricole, 2 edilizie) attraverso i tre filoni del mutualismo moderato, di quello socialista e di quello cattolico. A Perugia si stabilirono intese fra la Cooperativa di lavoro fra muratori, rifondata sulla antica emanazione della Società Operaia, e l’Ente per la costruzione delle case popolari, anch’esso evoluzione del Comitato voluto dal Vecchi poco prima della sua morte per aiutare gli operai rimasti disoccupati17 . A Terni l’incremento della cooperazione, sotto la spinta della massa operaia organizzata dai socialisti, ma anche per iniziativa del personale tecnico e impiegatizio presente nella corona di industrie, imprese e amministrazioni ruotanti attorno al nucleo della Fabbrica d’armi e delle Acciaierie, si ebbe nei più svariati settori e con modalità talora inedite nel contesto regionale (come mostra il caso delle cooperative di costruzioni edilizie) contribuendo non poco allo sviluppo, anche urbanistico, di quella città18 . I cattolici affiancarono le cooperative – specie di consumo – alle leghe in lotta per il rinnovo dei patti colonici, alle casse rurali, ai primi gruppi democratico-cristiani e ai circoli di tendenza modernista; ma per un don Giovagnoli che a Città di Castello raccoglieva nel 1905 gli studenti nella Nova Juventus, e per un don Rughi che nel 1908 organizzava a Gubbio uno sciopero con cinquemila contadini, c’era a Foligno un mons. Faloci Pulignani che conduceva una sua personale crociata (durata quarant’anni, dall’opposizione alla Sinistra laicoliberale fino all’adesione al fascismo) contro i massoni da un lato, i socialisti dall’altro, e respingeva come una particella del disegno di "scristianizzazione generale" persino la proposta di creare una Cassa di soc29

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Gruppo di soci della Società di Mutuo Soccorso, foto b.n. (Collezione privata)

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corso per gli infortuni sul lavoro19 . Però, a completare il quadro, può aggiungersi l’atteggiamento di benevola attenzione assunto nei confronti delle rivendicazioni operaie – dopo la svolta liberale ZanardelliGiolitti – dai governi succedutisi alla guida del Paese. Nel quindicennio che dalla "svolta" conduce alla Grande Guerra registriamo: l’istituzione del Consiglio superiore del lavoro; una dozzina di provvedimenti aventi lo scopo di agevolare il mutuo soccorso e la cooperazione; un primo stanziamento pubblico pro-disoccupati; un decreto-legge per la regolamentazione del lavoro femminile e minorile; la Cassa di maternità a favore delle operaie; ed altro ancora. Insomma una legislazione sociale cui si affidava il compito di inglobare nel quadro dei diritti e delle libertà statutarie quelle plebi che se ne sentivano escluse, trasformandole in un popolo di cittadini coscienti ed estendendo per un tal tramite la base di consenso e di legittimazione dello Stato borghese. Che tutto ciò rappresentasse un avvicinamento alle posizioni del socialismo riformista si evidenzia non soltanto dalla lettura del cosiddetto "programma minimo", ma anche dai titoli di quei volumetti di propaganda popolare che si accompagnavano a «Critica Sociale», la rivista milanese che diffondeva in tutta Italia il pensiero della coppia TuratiKuliscioff. I titoli proposti nel periodo considerato (Sul lavoro delle donne e dei minori, Riforme tributarie e sociali, A difesa delle madri operaie, ecc.) interpretavano infatti l’orientamento positivo e gradualista del Partito, ed esprimevano l’esigenza che si abbandonasse l’impostazione ideologica e dogmatica di indottrinamento delle masse per una più incisiva apprensione dello specifico e del quotidiano20 . Un’istanza che purtroppo non avrebbe avuto seguito, per una serie di circostanze ed illusioni politiche – il mito soreliano dello sciopero generale, la ricorrente sirena della rivoluzione – la cui analisi esula evidentemente dall’argomento di cui qui si ragiona. Invece ciò a cui non ci si può sottrarre è una constatazione che ha in qualche modo del paradossale. Proprio nel momento in cui mutualismo e cooperazione, in virtù della oggettiva convergenza fra imprenditoria capitalistica e proletariato industriale, toccavano il loro apogeo, e sembravano prefigurare un blocco sociale corporativamente garantito e reciprocamente integrato, si erano messi in moto gli elementi del loro crepuscolo o trasformazione. Le società di mutuo soccorso erano già state soppiantate, nella concezione classista, dalle leghe di resistenza, la cooperazione aveva assunto carattere di proselitismo per l’iscrizione e la militanza nei partiti popolari. Il punto è che il socialismo italiano, a differenza di quello inglese che aveva strutturato il Labour Party sull’esperienza delle Trade Unions, non volle mai eclissarsi per dare vita ad un Partito del Lavoro apolitico, comprendente anche anarchici, repubblicani, e magari cattolici. Il rifiuto più netto fu espresso dal riformista Turati: "Il Partito del Lavoro siamo noi, e nessun altro ci può sostituire, se noi non diserteremo e non traligneremo. Il Partito del Lavoro è il proletariato socialista e non sarà mai un partito di preti o di borghesi in maschera proletaria, inteso ad asservire l’umanità lavoratrice a gretti interessi bottegai"21 . Esaurita la spinta propulsiva del mutuo soccorso, che pure tanto aveva contribuito alla sua crescita, si era aperta una nuova pagina – caratterizzata dall’acquisizione di una più matura coscienza di classe – nella storia del movimento operaio.

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1

D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Laterza, Bari 1965, p. 166, p. 185.

2

F. Della Peruta, Le Opere Pie dall’Unità alla legge Crispi, in Problemi istituzionali e riforme nell’età crispina. Atti del LV Congresso di Storia del Risorgimento Italiano (Sorrento, 6-9 dicembre 1990), Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1992, p. 242.

3

K. Marx, Statuti provvisori dell’Associazione Internazionale degli Operai (1864), in G. M. Bravo, La Prima Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma 1978, vol. I, p. 133.

4

T. Martello, Storia dell’Internazionale dalla sua origine al Congresso dell’Aja, Fratelli Salmin Padova – Giuseppe Marghieri, Napoli 1873, passim. L’A. giustificava così il divieto di coalizione: "Un’operaio [sic] che vuole agire contro la legge dell’offerta e della domanda non può farlo perché gli manca la forza e i mezzi di lottare, di violentare cioè la natura stessa delle cose. Colla coalizione ci riesce" (ivi, p. 25). L’obiettivo di tanta scienza economica e sociale era dunque questo: tenere l’operaio in condizione di perenne subalternità, farne un moderno schiavo senza neppure uno Spartaco che potesse tentarne il riscatto.

5

Cfr. ASMS Pg, “Congressi Esposizioni”, 1887, b. 69.

6

Sul riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso, «La Provincia dell’Umbria», 3-4 aprile 1886. Il Berti, Ministro dell’Agricoltura, aveva presentato il progetto di concerto con il Depretis, Ministro dell’Interno oltreché Presidente del Consiglio.

7

D. Marucco, op. cit., p. 118.

8

Il Partito dei Lavoratori Italiani, che più tardi assunse il nome di Partito Socialista Italiano, nacque a Genova nel 1892, e subito si diffuse in Umbria tramite un ceto intellettuale di estrazione borghese (medici, avvocati, insegnanti), per formazione e vocazione riformista, quali potessero essere le etichette correntizie di ciascuno dei suoi componenti. Sulla presenza del Partito nel territorio, sui protagonisti della fase nascente, sulle repressioni di fine secolo vedi la mia Storia del Partito Socialista in Umbria, Era Nuova, Ellera Umbra 1996, pp. 64 e segg.

9

Il testo del discorso viene riportato integralmente nel Supplemento a «L’Unione liberale» del 29-30 ottobre 1885. Per ciò che riguarda l’ultimo problema sollevato, nel corso di quello stesso anni il quotidiano perugino aveva condotto un’inchiesta, in molte puntate, intitolata L’agricoltura e i coltivatori dell’Umbria, nel corso della quale si affrontava anche la questione del credito. In passato una funzione meritoria era stata assolta dai Monti frumentari, ma anch’essi con le riforme crispine erano stati trasformati in istituti di beneficenza e come tali incorporati nelle Congregazioni di Carità. Non era andato in porto il progetto, più volte ventilato, di costituire con i capitali dei Monti un fondo per un istituto di credito agrario. D’altra parte si faceva fatica a reperire capitali da investire nell’agricoltura, giacché i lavori dei campi richiedevano nei prestiti modicità di interessi e lunghezza di scadenze, mentre i capitali venivano attratti laddove più pronto era il realizzo e più lauto il guadagno. Cfr. ivi, 20 aprile 1885.

10

«La Provincia dell’Umbria», 1-2 ottobre 1885.

11

Ivi, 23-24 novembre 1885.

12

Cfr. R. Michels, Storia critica del movimento socialista italiano fino al 1911, Il Poligono editore, Roma 1979, pp. 187 e segg.

13

Su tale passaggio organizzativo, che rappresenta al contempo una acquisizione della nuova cultura socialista, e la penetrazione dello spirito solidaristico prefigurante la città futura, ha osservato opportunamente il Vallauri: “Il fatto di essere espressione di un mestiere a livello provinciale e di avere poi un collegamento a livello nazionale farà delle leghe strumenti importanti di emancipazione. […] La nascita delle Borse del lavoro (poi Camere del lavoro) risponde all’esigenza di passare da una fase categoriale ad una fase territoriale dell’organizzazione, in quanto il compito di resistenza delle leghe non esaurisce la problematica operaia”: C. Valluri, La nascita del P.S.I. e la crisi di fine secolo (18921900), in Storia del socialismo italiano, diretta da G. Sabbatucci, Il Poligono editore, Roma 1980, vol. I, p. 278.

14

Sull’argomento vedi i saggi di L. Proietti Pedetta, Permanenze e trasformazioni delle Confraternite laicali dopo l’Unità. Il caso di Perugia, e di M. Tosti, Tra carità e piccolo credito agrario. I Monti frumentari in Umbria nell’800, ambedue compresi nel volume Studi sull’episcopato Pecci a Perugia (1846-1878), a cura di E. Cavalcanti, Edizioni Scientifiche Italiane, Università degli Studi di Perugia 1986.

15

“È una presenza ancora timida e incerta, ma che andrà sempre più rafforzandosi e che troverà la sua espressione in un manifesto lanciato ai lavoratori dei campi, nel 1909, dai parroci delle parrocchie lungo il Tevere fra Umbertide e Bosco (località ad una decina di chilometri da Perugia), nonché nell’azione svolta da don Luigi Rughi a Gubbio (che sarà sempre l’epicentro del movimento contadino cattolico in Umbria) e nelle colonne della «Vita umbra» [giornale cattolico perugino] ove, tra il 1908 e il 1909, è possibile coglie-

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Note


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re una continua campagna stimolatrice per l’organizzazione delle masse rurali”: cfr. L. Bellini, Note per la storia del movimento contadino umbro (1900-1921), in Scritti scelti. Aspetti e problemi economici dell’Umbria nei secoli XIX e XX, a cura di L. Tittarelli, Editoriale Umbra, Istituto per la Storia dell’Umbria contemporanea, 1987, p. 91. In aggiunta, sulla situazione emblematica dell’Eugubino, e sugli influssi che in sede locale ebbe la Democrazia Cristiana di Romolo Murri, si può ricorrere al testo di M. V. Ambrogi - G. Belardi, Cattolici e socialisti a Gubbio fra ’800 e ’900. Appunti di economia e politica, Tipolitografia Petruzzi Corrado & C, Città di Castello 1985. 16

F. Mancini, L’Umbria economica e industriale. Studio statistico, Foligno 1910, p. 102. Segue l’elenco delle società registrate.

17

La Società Cooperativa di lavoro fra muratori si costituì il 13 febbraio 1903. L’Ente Autonomo Annibale Vecchi per la costruzione e il miglioramento delle case popolari fu fondato il 30 aprile 1908, e ricevette il riconoscimento come corpo morale assieme all’approvazione dello statuto con decreto reale del 24 settembre successivo. Fra i due organismi si stabilì un rapporto di collaborazione che portò all’edificazione delle prime case popolari nel Comune di Perugia. I documenti, da me consultati e parzialmente riprodotti in appendice alla citata biografia del Vecchi (pp. 124-126) si trovavano in una grossa cartella nell’Archivio storico dell’ex IACP (ora ATER) di Perugia.

18

Spiega in proposito Gianni Bovini, in un saggio minuzioso e ampiamente documentato cui si rimanda per la visione complessiva di riferimento: "L’esperienza delle cooperative edilizie è esemplare per comprendere la natura ed i limiti del modello di industrializzazione che a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento si afferma nel ternano". Essa è riconducibile a tre tipologie: l’iniziativa imprenditoriale, che almeno all’inizio si accompagna alla costruzione di case popolari, quella gestita direttamente dagli operai (che finisce per dar vita ad interi quartieri spontanei), quella infine promossa da impiegati, professionisti e dipendenti di società industriali e di enti pubblici. "Mentre le cooperative di muratori si possono considerare come un anello di passaggio dall’attività primaria a quella secondaria, quelle di costruzione hanno come scopo di procurare ai soci abitazioni sane ed economiche, di agevolarne l’acquisto o la costruzione con pagamenti rateali o ipotecari": G. Bovini, La cooperazione di produzione e lavoro a Terni (1883-1922), in Studi sulla cooperazione, cit., pp.86 e 87.

19

Vedine la veemente condanna nell’opuscolo Barbanera in giro, Tip. Artigianelli di S. Carlo, Foligno 1891, particolarmente La beneficenza laica, cioè atea, pp. 121-123: “Io la denuncio questa Cassa per gli infortuni sul lavoro come un nuovo attentato alla Fede dei nostri Avi, a quella dei nostri amici, a quella dei nostri figli”.

20

Il concetto è stato bene espresso da G. B. Furiozzi, La Biblioteca di propaganda della “Critica Sociale”, nella raccolta di saggi Dal Risorgimento all’Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pp. 97 e segg.

21

Invero la formula laburista fu proposta, ma il tentativo non ebbe successo, giacché il PSI preferì prendere a modello la socialdemocrazia tedesca. È ancora il Furiozzi ad illustrare l’esperimento e i motivi del suo scacco nel bel volume Il Partito del Lavoro. Un progetto laburista nell’Italia giolittiana, Edizioni Era Nuova, Ellera Umbra 1997. La frase di Turati, pronunciata al Congresso PSI di Milano del 1910, è riportata ivi alle pp. 91-92.

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L’Umbria di Benedetto Maramotti 1868-1896

Dall’avvento della sinistra al pensionamento 1876 - 1889 ANDREA PROIETTI

Pio IX, foto b.n. (Collezione privata)

moderata umbra, che, ancora nelle elezioni del ’74, aveva ottenuto un larghissimo consenso. In breve tempo, però, il timore iniziale lasciò spazio ad una cauta attesa. Essi speravano di ottenere dalla nuova maggioranza le garanzie e le certezze che, in passato, avevano avuto dai ministeri della Destra storica. In effetti, come risulta dalle pagine del «Corriere dell’Umbria», dopo lo smarrimento iniziale, fu apprezzato il tono di Depretis, “ispirato a una moderazione e a una prudenza che fino ad ora non era facile trovare nei discorsi della Sinistra”1. Le divisioni e i contrasti tra i due partiti liberali, però, rimasero ancora evidenti, soprattutto in occasione delle elezioni del ’76. Il ministro dell’Interno Nicotera, non appena insediatosi a palazzo Braschi, operò un vasto movimento di prefetti2. Maramotti non venne toccato. Il prefetto, in linea con la scelta operata dal suo amico Ubaldino Peruzzi3 e deciso a restare in Umbria, si schierò con il nuovo corso politico. Questo atteggiamento causò a Maramotti, almeno nei primi anni di governo della Sinistra e finché in Umbria non emersero i primi segni di un precoce trasformismo, un raffreddamento dei rapporti con i capi moderati. L’attività del prefetto negli anni successivi al ’76 fu caratterizzata da una convergenza verso la nuova linea “ministeriale”, secondo una scelta compiuta, in modo più o meno repentino, dalla maggioranza dei moderati umbri. L’azione di Maramotti, in un primo momento, favorì l’allargamento dell’influenza a livello politico e amministrativo dei progressisti, a danno della Destra. In questi anni il prefetto ebbe rapporti continui con Luigi Pianciani, presidente del consiglio provinciale dell’Umbria e molto influente nella regione. Rimaneva intatto l’atteggiamento diffidente verso i cattolici, che, tra enormi difficoltà, si andavano lentamente organizzando; il 1° gennaio del ’76, infatti, era nato il settimanale cattolico «Il Paese», diretto da don Geremia Brunelli e ispirato direttamente dal vescovo Pecci. Maramotti nel corso dello stesso anno vietò a Perugia ben “cinque processioni per celebrare il giubileo di Pio IX”4. L’affermazione della Sinistra fu chiara. Nonostante fosse mutato il colore della maggioranza alla Camera gli umbri continuavano a votare governativo. Segno dei tempi fu l’affermazione nel I collegio di Perugia di Fabretti, che, dopo le innumerevoli sconfitte del passato, superò al 33

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lo scossone politico del ’76 produsse un improvviso risveIUnanglioUmbria del dibattito tra i partiti. reazione mista di incomprensione e timore colpì la consorteria


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Alceo Massarucci, foto b.n. (Biblioteca del Senato, Roma)

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ballottaggio il moderato Ansidei, sindaco della città. A Terni venne riconfermato l’inossidabile Massarucci, a Rieti Solidati Tiburzi e a Poggio Mirteto Amadei; furono inoltre eletti, sempre per la Sinistra, Giuseppe Fratellini a Spoleto, Domenico Primerano, segretario generale del ministero della Guerra, a Città di Castello e Serafino Frenfanelli Cybo a Todi. Nel conto della sconfitta della Destra figura anche l’elezione a Orvieto del dissidente toscano Celestino Bianchi, direttore della Nazione, che nella decisiva seduta parlamentare del 18 marzo aveva votato a favore della Sinistra. Alla destra resto davvero poco: Giacomo De Martino, direttore generale delle ferrovie Romane, a Foligno e Zeffirino Faina nel II collegio di Perugia. Il prefetto aveva lavorato per il successo dell’area governativa e, a partire dal 1877, si impegnò Perugia per il passaggio da una amministrazione moderata a una d’intonazione democratica, massonica e anticlericale. Si concretizzò così la prima giunta guidata da Ulisse Rocchi, anche se con una maggioranza consiliare e con gli assessori ancora moderati. Venne a crearsi una situazione non poco confusa, poiché entrarono in giunta gli ex sindaci, tutti moderati, Ansidei, Evelino Waddigton, Tiberio Berardi e Cesare Fani. Si delineava così quella collaborazione tra i partiti liberali che sfocerà nel trasformismo imperante degli anni Ottanta. Nell’estate del 1878, tuttavia, era ancora aspra la polemica dei moderati perugini nei confronti del prefetto, loro antico sostenitore. Egli, nel febbraio del 1880, aveva invano sperato di ottenere la nomina a senatore e se ne lagnava con Pianciani. Si recò alle urne la metà esatta dei 9.135 elettori umbri, con un ulteriore lieve calo, fra i più bassi del paese. I candidati della Sinistra subirono, dopo il successo del ’76, una chiara bocciatura. Nel I collegio di Perugia Fabretti fu sconfitto al ballottaggio dal moderato Tiberio Berardi, prefetto della Destra dispensato dal servizio nell’agosto del ’76. Faina, che Il decennio ’80 - ’90 si apriva nel quadro di una situazione politica relativamente immobile. Arretratezza economica, analfabetismo e clientelismo dominavano la provincia. A partire dai primi anni Ottanta, però, le diversità tra le strutture economiche e politiche dell’area settentrionale e quelle dell’area meridionale della regione si accentuarono. A Terni la repentina industrializzazione, con la costruzione e l’attivazione, 1884, delle acciaierie avrebbe avuto riflessi sconvolgenti in ogni aspetto della vita cittadina. Sul piano politico si registrava in Umbria, in linea col resto del paese, ma con una peculiare predisposizione a Perugia, la convergenza programmatica tra la vecchia Destra e la Sinistra costituzionale. Il trionfo del ministerialismo, coincise con la crescita di una opposizione democratica, repubblicana e socialista. Nei suoi “rapporti” a Roma, il prefetto non mancava di seguirne l’evoluzione. I socialisti erano “in numero

Il grande laminatoio delle Acciaierie di Terni, cartolina (Collezione Alberto Moriconi)

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esiguo e senza capi” che potessero dirigerli5; malgrado ciò le forze ultra democratiche non rimanevano del tutto immobili. Maramotti l’anno successivo avrebbe informato il ministero dell’Interno che i “repubblicani teoretici e accademici” venivano sempre più superati dai cosiddetti “repubblicani socialisti” di tendenze collettiviste6. Questi ultimi “sembra che avessero stabilito il loro quartier generale a Foligno, capeggiati da Domenico Benedetti Roncalli, benché anche a Terni avessero un gran numero di proseliti e pure un certo numero a Perugia”; la loro presenza era invece scarsa a Orvieto e Spoleto e aveva “poco seguito nel circondario di Rieti, dove una sola distinzione politica si fa tuttora tra la cittadinanza, quella fra bianchi e neri, ossia tra liberali e clericali”7. Da segnalare, inoltre, la presenza degli anarchici internazionalisti, soprattutto fra gli operai ternani. Tra queste forze, radicali, repubblicane, socialiste, anarchiche, la collaborazione era scarsa e l’isolamento accresceva la debolezza di ciascuna. I cattolici umbri, ancora nel 1884, continuavano a vivere nel loro consueto astensionismo politico, senza che prendesse piede nella regione alcuna seria organizzazione intransigente. Del resto in questi anni, 1880 - 1886, la stessa Opera dei Congressi, su indicazione del papa, aveva in generale diminuito la sua combattività e il suo attivismo a livello politico. In Umbria, come notava Maramotti, sembrava delinearsi un fenomeno significativo. Il partito reazionario si “assottigliava” sempre più, trasformandosi “parzialmente in conservatore”. Ciò avveniva, secondo il prefetto, sia per l’evidente improbabilità di una restaurazione, sia per “il bisogno che sentono i nemici delle intemperanze radicali”, nel nuovo ordine, di appoggiare e dar forza al governo contro “la fiumana demagogica”8. Maramotti nel 1885 tentò di ottenere il trasferimento a Firenze e in maggio ne scriveva all’amico Peruzzi9: “Si dice e si disdice, io non lo credo, ma, se fosse mai vero che il Gadda [prefetto di Firenze] entrasse in un movimento di prefetti, la pregherei di ricordarsi di me. Mi creda quale sarò sempre suo dev.mo e aff.mo”10. Tutto ciò trova riscontro nel giudizio su Maramotti stilato nel 1887 al ministero dell’Interno, dove si legge: “Manca di quella esteriorità splendida, che è necessaria a un capo di provincia. Del resto è abilissimo amministratore ed è pure abile in politica e nella polizia. La sua provincia è tutta nelle sue mani. È molto onesto e sa essere energico e prudente a tempo opportuno. Ora desidera Firenze, ma non è quella una sede per lui”11.

Agostino De Pretis, da una pagina de «L’illustrazione italiana» del 7-8-1887

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Francesco Crispi, seppia (Collezione privata)

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Un desiderio che rimase insoddisfatto. Maramotti non avrebbe mai lasciato Perugia. Il desiderio di andare a Firenze va letto anche alla luce della delusione e dell’insoddisfazione per i mancati riconoscimenti che assaliva in quegli anni il prefetto. Maramotti, che rivendicava con orgoglio il proprio passato di uomo politico, i trascorsi al fianco di Farini in Emilia e l’elezione in Parlamento nel ’60, non si sentiva un semplice funzionario e non perdeva occasione per sottolinearlo, non tollerava le disparità di trattamento tra i prefetti. Anche se dal ministero si ribadiva, con una missiva inviata il 20 dicembre 1884 a Maramotti, che egli godeva di “tutta la considerazione” che gli era “dovuta”12. Nel descrivere al ministero dell’Interno la condizione della provincia durante il primo semestre 1885, Maramotti individuava una certa tendenza “alle forme conciliative e temperate”. Registrava, inoltre, la debole presenza dei socialisti che avevano a Terni “il loro centro principale”, ma erano ben tenuti d’occhio dalla “vigilanza governativa”13. Sui cattolici non vi erano novità. Le vicende politiche nazionali, soprattutto finanziarie, e internazionali, in primis il colonialismo, avevano messo seriamente alla prova la stabilità degli ultimi governi Depretis. Nel corso dei primi mesi dell’86, a causa di una forte opposizione guidata dai pentarchici e dal gruppo dei dissidenti di Destra – Rudinì e Sonnino – contrari alla politica finanziaria del ministro Agostino Magliani il sesto governo Depretis entrò in crisi. Per superare tale impasse, Depretis, in accordo col re, decise di ricorrere allo scioglimento della XV legislatura. Le elezioni si svolsero il 23 maggio ’86, Depretis uscì indebolito ma conservò una maggioranza parlamentare. L’affluenza al voto fu del 58,2%, in calo rispetto al 60,7% dell’82, con le solite differenze fra Nord, Centro e Sud del paese. La campagna elettorale in Umbria fu ancora incentrata sullo scontro tra le forze ministeriali, progressisti e moderati raccolti in liste concordate, e l’opposizione di sinistra, costituita questa volta dalla solita estrema e dai liberali democratici vicini alla Pentarchia. Il prefetto, impegnato per la riuscita dei candidati ministeriali14, aveva più volte sottolineato negli ultimi mesi la debolezza dell’opposizione di sinistra. Il 4 aprile ’87, quando si era formato l’ottavo gabinetto Depretis, Crispi aveva raggiunto un ruolo di preminenza, ottenendo il dicastero dell’Interno e “l’investitura” a probabile successore di Depretis. Nel nuovo Governo, segno di un ritorno a posizioni più vicine alla Sinistra, era entrato pure Giuseppe Zanardelli, ministro di Grazia, Giustizia e Culti. Sulle incidenze in Umbria del nuovo corso politico italiano, Ulisse Rocchi, in una lettera del giugno ’87 a Pianciani, registrava con ironia che: “Sembra incredibile, eppure tutti i moderati, compreso il buon Maramotti, non parlano più del Depretis, non si occupano degli altri ministri, ma sono tutti entusiasti per il Crispi”15. Per quanto riguarda l’azione dei partiti nella provincia, Maramotti, sempre nel primo semestre ’87, notava che il partito repubblicano guadagnava terreno grazie ad una nuova tattica “che consiste nella lenta e progressiva organizzazione del partito stesso e nel convergere a quest’unico fine tutte le forze del mutuo soccorso. I repubblicani, in altri termini, si aiutano tra loro come prima non si aiutavano e insieme accettano una regola ed una direzione, che tendono costantemente a crescere per qualità e quantità”16. I socialisti, diffusi nella maggior parte “fra gli operai forestieri addetti agli stabilimenti industriali di Terni”, non dettero vita ad azioni atte a “disturbare l’ordine pubblico”17. 36


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Il partito “veramente” clericale, quello che crede in un ritorno del papa, scriveva il prefetto, “si assottiglia” ogni giorno di più. Gli altri, invece, ritenendo impossibile un ritorno al passato, “vengono a mano a mano ingrassando le file del partito del partito liberale conservatore”. Il prefetto, però, avvertiva che proprio costoro si dovevano temere più degli altri, perché “più scaltri e politicanti”18. Nell’agosto dello stesso anno, dopo la morte di Depretis, avvenuta il 29 luglio, Crispi assunse la guida del governo. Nell’incipit della relazione per il secondo semestre 1887 Maramotti elogiava il nuovo indirizzo politico del Ministero. In Umbria il maggiore focolaio di significative novità politiche e sociali restava Terni, dove erano “tanti gli operai”19. Qui, nelle elezioni amministrative parziali dell’88 e in quelle generali dell’89, avrebbero prevalso le forze democratiche e repubblicane. Proprio nella “Manchester italiana” nell’88, affinché si affermassero le forze liberali, si dovette sacrificare “qualche utilissimo elemento di corretta amministrazione”20 e l’anno seguente il governo, per mezzo del prefetto Bernardino Bianchi, successore di Maramotti, avrebbe addirittura sciolto il consiglio comunale. Questi sforzi risulteranno però vani perché nel ’90 i partiti democratici, scacciati in precedenza colla forza, avrebbero definitivamente riconquistato il comune. I cattolici intransigenti, nell’ambito di una rinnovata ostilità tra le due sponde del Tevere, avevano tentato di diffondere anche in Umbria la protesta contro lo stato italiano. Nei rapporti periodici al ministero dell’Interno il prefetto, forse spaventato da un possibile trasferimento in una sede non gradita, esprimeva, rispetto al passato, una maggiore partecipazione emotiva allo sviluppo degli eventi. Nell’ultimo anno, tuttavia, per Maramotti le cose non erano andate molto bene. In una nota del segretario generale del ministero dell’Interno del maggio ’87, il mese successivo l’insediamento dell’ultimo gabinetto Depretis, si legge che “Maramotti risiede da 20 anni a Perugia e non ha ancora girato per la provincia”21. In un’altra annotazione, sempre del maggio ’87, a proposito di questa accusa a Maramotti, si puntualizzava che in realtà “qualche ispezione egli l’ha fatta […] Certo non si muove troppo, ma quasi tutti i prefetti fanno altrettanto [...]. Ad ogni modo [è un] un argomento da trattare oralmente col prefetto”22. Crispi, infatti, chiamò a Roma il prefetto per conferire con lui23. Il colloquio non produsse, almeno in quel momento, nessun cambiamento. Anche le speranze nutrite dopo la formazione del primo governo Crispi 37

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Acciaierie di Terni, 1910, cartolina (Collezione Alberto Moriconi)


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si erano smorzate presto e per il prefetto si era aperto un periodo carico di problemi, non soltanto sul fronte lavorativo. Nel gennaio dell’88, infatti, sua moglie Emira e sua figlia Emma si erano gravemente ammalate di febbre tifoidea: erano entrambe rimaste in pericolo di vita fino all’aprile successivo. Maramotti, comunque, durante questo triste periodo non abbandonò mai la direzione dell’ufficio. Desiderava restare al proprio posto per affrontare le nuove problematiche politiche e amministrative, ma la sua più che ventennale esperienza alla guida della prefettura perugina era giunta al termine. Il 16 agosto 1889 il ministero dell’Interno comunicava al prefetto che, in base al r. d. del 13 precedente e a decorrere dal 1° settembre successivo, era stato “collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età”24. «L’Unione Liberale» di Perugia, “senza discutere il decreto del Re”, rendeva omaggio all’opera “intelligente, coscienziosa, costantemente rivolta al pubblico bene” del prefetto, che, “più volte invitato dal Governo a reggere più importanti province”, preferì, “per l’affetto vivissimo che ebbe sempre alle cose nostre, di rimanere fra noi”. Il quotidiano ne sottolineava: la lotta alla renitenza, che ha “restituito alla nostre campagne la sicurezza delle persone e degli averi”; il progresso della “viabilità” e della “pubblica istruzione”, ottenuto grazie alla sua “superiore abilità [...] come pubblico amministratore”; le “riforme civili”25. Non tutti, logicamente, erano così dispiaciuti per il pensionamento di Maramotti. «L’Unione Liberale» di Terni scrisse lapidaria che “ne era proprio tempo”26. Le critiche più dure arrivarono dalle pagine della «Provincia dell’Umbria» il 29 agosto nell’articolo titolato Benedetto Maramotti, in cui trovava irritante che i moderati locali rimpiangessero Maramotti: “Ora ci è facile dimostrare che l’Unione [L’U. Liberale di Perugia] ha tanto a prendersela col Governo per un atto giustissimo, consigliato da molte e buonissime ragioni, atto, che avrebbe dovuto compiersi assai prima, se il sistema dei favoritismi, su cui disgraziatamente si fonda e si collega la burocrazia col parlamentarismo, non avessero trattenuto o revocato più volte meditate disposizioni”27. L’aver tenuto un prefetto per oltre un ventennio a governare un territorio, continua il foglio dell’opposizione democratica perugina, era stato un fatto “così biasimevole, così senza precedenti, così apertamente irregolare” da non meritare ulteriori discussioni. Infatti, “un prefetto, il quale si è creato in una provincia un cumulo di rilevantissimi interessi personali, straordinariamente accresciuti dai recenti vincoli di famiglia, non può trovarsi convenientemente, né serbare facilmente quella imparzialità e quell’autorità amministrativa, che non solo dovrebbe essere realmente, ma dovrebbe presumersi in un così alto magistrato”28. Maramotti, pochi giorni dopo il pensionamento, fu colpito dalla morte di sua figlia Emma, avvenuta il 9 settembre ’89, in seguito a “febbre puerperale”.

L’ultimo impegno: presidente della deputazione provinciale dell’Umbria I moderati umbri e perugini in particolare, non avevano perduto la stima nei confronti del loro “cittadino onorario”. Forse proprio per ripagarlo dal pensionamento deciso da Crispi, il Comitato elettorale dell’Associazione liberale monarchica, presieduto da Zeffirino Faina e da Raffaele Omicini, lo scelse come proprio candidato per il consiglio provinciale nelle consultazioni amministrative del 10 novembre successivo29. Il risultato del 10 novembre fu chiaro: vinsero i “soliti” moderati gover38


Zeffirino Faina, olio su tela, (collezione privata)

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nativi, capeggiati da Zeffirino Faina, che si affermò per le provinciali nel mandamento meridionale di Perugia30. Nel mandamento settentrionale, 2.157 i votanti, furono eletti Guglielmo Calderini, radicale, appoggiato anche dalla sinistra costituzionale, con 1.130 voti, Maramotti con 908 voti e Bertanzi con 773 voti31. Maramotti conservava così un importante ruolo politico nella Destra umbra. Il 2 dicembre la maggioranza moderata del Consiglio, con 26 voti su 45 presenti e votanti, elesse Maramotti alla guida della Deputazione32. Con questa scelta, la destra perugina, pur allineata sulla politica crispina, contraddisse il presidente del Consiglio, artefice del collocamento a riposo del prefetto, confermando la grande influenza e del grande potere conquistato dal prefetto in Umbria. L’elezione di Maramotti a capo dell’esecutivo provinciale era stato possibile proprio grazie a una delle tante novità previste dalle importanti riforme crispine, applicate per la prima volta in questa occasione33. L’ex prefetto era così tornato a guidare i deputati provinciali. Consapevole dell’importanza del suo nuovo incarico, Maramotti, di fronte al Consiglio, espresse il suo pensiero sul ruolo della deputazione provinciale, puntualizzando che, “nell’organismo della provincia, la Deputazione non può avere programma: questo è tracciato dal Consiglio colle sue deliberazioni, ed egli veglierà acché esse siano eseguite secondo lo spirito loro. […] Presiederò la Deputazione con mente liberale, equanime, imparziale”34. Maramotti confermerà la sua capacità di attrarre intorno a sé il consenso, come vedremo ancora crescente, della maggioranza dello schieramento liberale umbro, operando, come sempre aveva fatto, in direzione di una decisa difesa “della libertà degli enti locali contro le proposte presentate al parlamento, che tendevano a soffocare quella larva di autonomia concessa dall’ultima legge comunale e provinciale”35. In Umbria, sul finire degli anni Ottanta e con forza negli anni Novanta, si dispiegheranno quelle novità politiche già rilevate da Maramotti quand’era prefetto. Ci riferiamo soprattutto alla lotta elettorale in campo amministrativo, dove si assisterà ad una diffusa vittoria delle coalizioni democratico - progressiste: dopo Terni, toccherà a Foligno, a Orvieto e a Perugia. Nelle elezioni politiche, al contrario, non si sarebbe registrato nulla di particolarmente innovativo. L’attività di Maramotti presidente della Deputazione, di minore importanza rispetto a quella di prefetto, fu incentrata soprattutto sui problemi di bilancio, sulla costruzione di strade e di ferrovie, oltre, naturalmente, alle altre materie di competenza provinciale. Era sua ferma convinzione che la politica spettasse esclusivamente al Consiglio e la Deputazione dovesse attuare i programmi. Il 3 settembre ’91 l’ex prefetto era stato riconfermato alla guida della Deputazione con 31 voti su 39 espressi. Maramotti perciò, rispetto all’89, aveva incrementato la sua maggioranza. Le opposizioni, democratica e radicale, stavolta si erano astenute, rinunciando a votare un proprio candidato, al contrario di quanto aveva fatto con Rocchi nell’89. Questa situazione si sarebbe ripetuta anche negli anni successivi36; infatti, nel ’92 Maramotti sarà eletto con 28 voti su 32 votanti e nel ’95 con 33 voti su un totale di 37. La politica umbra, i cui equilibri erano ben rispecchiati all’interno del consiglio provinciale, era ancora caratterizzata dalla prevalenza del gruppo liberale moderato filogovernativo, guidato a Perugia dall’Associazione liberale monarchica presieduta da Faina e ispirata dall’azione degli emergenti Fani e Pompilj37. 39

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L’ex prefetto – serio e devoto amministratore provinciale, tanto che raramente fu assente alle sedute del Consiglio – in quei primi anni Novanta nutriva un’aspirazione più grande. Convinto del servizio fornito alla patria e avendone i requisiti previsti dalla legge, desiderava, ancor più che in passato, entrare nella Camera vitalizia, ma, pur segnalato al numero 50 di una lista di 83 candidati, non rientrò nel gruppo dei 60 senatori effettivamente nominati da Giolitti. Con la mancata nomina a senatore, Maramotti vide svanire definitivamente la possibilità di sedere in una delle due Camere. Il giornale moderato emiliano «L’Italia Centrale» nell’aprile del ’96, commemorandolo, avrebbe lamentato che: “Per una delle dimenticanze possibili ed anche non rare, che avvengono eziandio nei governi liberi, Benedetto Maramotti, deputato alla costituente e prefetto per tanti anni, non era stato nominato senatore del Regno”38. In compenso i moderati perugini avevano continuato a credere in lui e a premiarlo con attestati di pubblica stima. Così nel ’96, avrebbe ricordato il sindaco Rocchi: “La fiducia nel commendator Maramotti non tramontava però col tramontare degli anni, tanto che nelle ultime generali elezioni amministrative fu nominato anche consigliere di questo comune. Se vi è lamento da fare, si è che per troppo breve tempo ha potuto ricoprire questo posto, al quale, possiamo dire, nessuno al pari di lui poteva portare tanta competenza e saggezza di giudizio. Nel breve tempo che vi è rimasto ha confermato sempre la sua indipendenza, ha seguito sempre il sentimento del dovere, ed il suo voto non è mai mancato a tutte quelle proposte che miravano al consolidamento delle finanze comunali ed a procurare alla città un migliore avvenire. È scomparso quando di lui si sentiva grande bisogno”39. Maramotti, partito da Perugia il 29 febbraio ’96, mentre viaggiava in treno verso Roma venne colpito da un grave malessere. Ne seguì una lunga malattia – affrontata nella capitale in una stanza dell’albergo Anglo-Americano in via Frattina – dalla quale non riuscì a guarire. Morì a Roma il 16 aprile ’96 all’età di settantadue anni40. Questo lutto colpì fortemente l’opinione pubblica umbra, che vedeva uscire definitivamente di scena colui che per quasi ventotto anni, prima da prefetto e poi da presidente della Deputazione, aveva gestito le sorti della provincia. Maramotti, cittadino onorario di Perugia, prefetto, presidente dell’Educatorio Regio di Sant’Anna, presidente della Giunta di vigilanza della libera Università di Perugia, consigliere provinciale, presidente della deputazione provinciale, consigliere comunale, fu per quasi tre decenni un punto di riferimento dell’amministrazione e della politica umbra. Ulisse Rocchi, nel giorno della pubblica cerimonia funebre, lo commemorava con un lungo discorso, nel quale, tra l’altro, sottolineava: “In politica addimostrò sempre convinzioni schiettamente liberali. Si è trovato in momenti difficili, eppure, secondando sempre l’indirizzo politico dei vari Ministeri che si sono succeduti durante la sua lunga carriera di funzionario governativo, seppe atteggiarsi nelle diverse sue posizioni in modo da mantenersi la stima della grande maggioranza della popolazione, senza perdere neppure la familiarità e l’amicizia di quelli dai quali per esigenze politiche si era dovuto staccare. Non era una mente mediocre, perciò comprendeva come talora la sua posizione si trovava molto a disagio, ma il sentimento del dovere e della giustizia, che mai venne meno in lui, valse a fargli superare anche certi momenti difficilissimi e vincere ostacoli molteplici e gravi”41. 40


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Le parole di Rocchi, che non risentono del tono enfatico tipico delle commemorazioni, sono essenziali e aderenti alla realtà. È curioso che il nome di Maramotti, anche dopo la sua scomparsa, si legasse ancora a polemiche tra clericali e anticlericali. Uno dei punti caratterizzanti della personalità politica del prefetto fu l’anticlericalismo, tutto politico, che nell’arco della sua carriera, dalla Garfagnana a Perugia, in luoghi e momenti storici diversi, si mantenne sempre vivo. Un anticlericalismo che in Umbria era diffuso in tutti gli schieramenti sia di destra sia di sinistra ed era tenuto vivo dalla propaganda di una influente massoneria. Sta di fatto che nella regione l’intransigentismo cattolico non riuscì, per tutto l’Ottocento, ad organizzarsi e diffondersi. Per i cattolici le difficoltà persistevano, nonostante la costituzione nel ’96 di alcuni circoli di gioventù cattolica nei centri più importanti della regione e anche di circoli e comitati parrocchiali in quasi tutte le diocesi e in particolare a Perugia e Foligno, ciò mentre, nel contesto nazionale, il movimento cattolico andava crescendo e l’Opera dei Congressi si rafforzava. Di conseguenza la polemica tra il governo italiano e quello pontificio, già cresciuta con Crispi nel corso del ’95 – alimentata ulteriormente dall’istituzione della festività del XX settembre e dall’inaugurazione del monumento a Garibaldi sul Gianicolo –, avrebbe raggiunto vette ancor più elevate con il terzo gabinetto Rudinì, che, nel settembre e ottobre del ’97, avrebbe inviato le allarmate circolari ai prefetti affinché vigilassero sul risveglio del partito clericale. Nel contesto dello scontro fra istituzioni liberali e cattolici intransigenti va inserita la disputa nata in occasione dei funerali di Maramotti, che coinvolse anche il prefetto di Perugia Bernardo Carlo Ferrari. «L’Unione Liberale» di Perugia del 16 maggio ’96, a un mese esatto dalla scomparsa di Maramotti, leggiamo che, in occasione delle onoranze alla sua memoria, svolte quella stessa mattina nel capoluogo umbro presso la chiesa del Gesù: “Sopra la porta della chiesa doveva essere posta una epigrafe dettata dal conte Vincenzo Ansidei; ma l’intolleranza pretina all’ultimo momento non l’ha permesso, perché in essa si contenevano frasi che mal suonavano all’orecchio dei reverendi padri”42. La vicenda umana e politica di Maramotti, forse, non poteva concludersi in altro modo. Perugia e l’intera Umbria lo avevano salutato con i massimi onori. Persino «La Provincia dell’Umbria», che tanto l’aveva criticato, pubblicando in quattro striminzite righe la notizia dei funerali di Maramotti, riconosceva: “Ben poche volte ci era occorso di vedere riunita tanta moltitudine di popolo”43.

Note 1

«Corriere dell’Umbria», 30 marzo 1876.

2

Solo il 19 aprile 1876 Nicotera nominò 9 prefetti e altri 11 nel 1877; in tal modo, grazie anche ai molti spostamenti, venne mutato il panorama prefettizio.

3

Il rapporto fra Maramotti e i coniugi Peruzzi era confidenziale. Scriveva il prefetto il 26 marzo 1877 a Emilia Peruzzi: “Avrei voluto poterle rispondere che la signora Tommasa Boschi era nominata direttrice dei conservatori riuniti di Perugia e provarle col fatto quanto io apprezzi una sua amica direttrice, ed ambisca di concorrere in qualche modo al bene che Ella si propone sempre di fare [...]. A lei signora ed all’Egregio signor Ubaldino Peruzzi esprimo tutta la mia riconoscenza per essersi ricordati di me, e nella prima occasione che avrò di recarmi a Firenze mi sentirò onorato di potere personalmente offrire ad entrambi l’attestato della mia sincera devozione”, Biblioteca Nazionale di Firenze, Emilia Peruzzi, cass. 123, ins. 13, Perugia, 26 marzo 1877.

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4

Questo episodio indispettì non poco il vescovo Pecci, che attaccò i “liberali” con una lettera circolare, alla quale poi il «Corriere dell’Umbria» replicò pubblicamente.

5

ACS, Rapporti dei prefetti, b. 16, fasc. 46, s.fasc. 2, 26 febbraio 1884, II semestre 1883.

6

Ivi, s.fasc. 3, 28 maggio 1885, II semestre 1884.

7

Ibid.

8

Ibid.

9

Non abbiamo elementi per dire se su questa decisione abbia in qualche modo influito la morte del suocero, il senatore Luigi Chiesi, avvenuta a Roma il 18 febbraio 1884, dopo una lunga malattia.

10

BNF, Ubaldino Peruzzi, cass. 34, ins. n. 12, 5 maggio 1885 (c. int. “Gabinetto del Prefetto dell’Umbria”, s. n. p.).

11

ACS, scheda “Maramotti”.

12

Ivi.

13

ACS, Rapporti dei prefetti, b. 16, fasc. 46, s.fasc. 4, 17 ottobre 1885, I semestre 1885.

14

In questo senso, è significativa l’accusa fatta da un corrispondente della Tribuna al Comitato liberale monarchico di aver presentato una lista che “è quella stessa che il prefetto Maramotti aveva prima indicata a nome del governo”; questo fatto è riportato, per essere nettamente smentito, sulle pagine de «L’Unione Liberale» di Perugia, Siamo sempre gli stessi, ivi, 8 - 9 maggio 1886.

15

Continuava ancora Rocchi: “Non voglio aggiungere altro, solo ti dico che i nostri vecchi amici si accontenterebbero anche del tipo moderato più puro, pur che scomparisca una volta questo mascherare del Maramotti, che ora si atteggia tenero anche coi clericali meno intransigenti. Ti raccomando una dimanda del delegato Bizzarri, che fu traslocato a S. Damiano mentre era a Gubbio a tempo delle elezioni politiche, perché non fu abbastanza ubbidiente agli ordini del Maramotti [...]. Se puoi occuparti del trasloco del Maramotti e darmi qualche risposta delle altre richieste, te ne sarò gratissimo”, ASR, Archivio Pianciani, b. 41, fasc. “Ulisse Rocchi”, Perugia, 11 giugno 1887.

16

ACS, Rapporti dei prefetti, b. 16, fasc. 46, s.fasc. 6, 22 settembre 1887, I semestre 1887.

17

Ibid.

18

bid.

19

ACS, Rapporti dei prefetti, b. 16, fasc. 46, s.fasc. 6, 15 maggio 1888, II semestre 1887.

20

Ivi, s.fasc. 7, 16 agosto 1888, I semestre 1888.

21

ACS, Fasc. pers., appunto non firmato (ma Giovanni Della Rocca), 20 maggio 1887.

22

Ivi, copia non firmata, maggio 1887.

23

Ivi, dispaccio telegrafico di Crispi a Maramotti, copia, 28 giugno 1887.

24

Ivi., il capo della prima divisione del ministero dell’Interno, Eugenio Cicognani, a Maramotti, minuta.

25

Il Comm. Benedetto Maramotti, in «L’Unione Liberale» di Perugia, 26 - 27 agosto 1889.

26

Il prefetto Maramotti a riposo in «L’Unione Liberale» di Terni, 24 - 25 agosto 1889.

27

Benedetto Maramotti, in «La Provincia dell’Umbria», 29 agosto 1889.

28

Ibid.; in questo passo probabilmente si faceva riferimento al matrimonio celebrato il 28 novembre 1888 tra la figlia di Maramotti Emma e Ciro Mavarelli, un possidente di Umbertide, cfr. ACS, Fasc. pers., Maramotti comunicava al ministero dell’Interno la variazione dello stato di famiglia, Perugia, 4 dicembre 1888 (c. int. “Gabinetto del Prefetto dell’Umbria, n. p. 13”).

29

Le elezioni amministrative, in «L’Unione Liberale» di Perugia, 2 - 3 novembre 1889.

30

Nelle elezioni per il consiglio comunale di Perugia, 40 consiglieri in totale, la lista moderata, comprendente 32 candidati (la garanzia delle minoranza prevedeva che ogni elettore potesse indicare un numero di candidati inferiore al numero dei consiglieri da eleggere), fece il pieno dei voti, Elezioni amministrative, in «L’Unione Liberale» di Perugia, 12 - 13 novembre 1889.

31

Nel mandamento meridionale i votanti erano 2.044, ACPP, sess. ord. 1889, I ad., 2 dicembre, pp. 116. Gli elettori iscritti alle liste elettorali nella regione erano 58.105 (9,4% della popolazione residente), 27.563 per censo (47,4%) e 30.542 per titoli (52,6%); l’affluenza alle urne, per quanto riguarda le consultazioni provinciali, era stata del 54,3%, più bassa rispetto al 57,2% della media nazionale.

32

Il candidato dell’opposizione democratica Rocchi, con 13 voti, si piazzò dietro Maramotti, e 6 furono i voti dispersi, ACPP, sess. ord. 1889, I ad., 2 dicembre, pp. 115 - 116 e Consiglio Provinciale, in «La Provincia dell’Umbria», 5 dicembre 1889.

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33

In precedenza l’organo esecutivo della provincia era presieduto dal prefetto.

34

ACPP, sess. ord. 1889, I ad., 2 dicembre, Discorso di Maramotti, p. 113.

35

Discorso del deputato provinciale Bucci, in Benedetto Maramotti. Raccolta, Unione Tipografica Cooperativa, Perugia 1896, p. 63.

36

Quando la maggioranza liberale moderata che sosteneva Maramotti sarà così forte che l’opposizione di sinistra nelle elezioni per il presidente della Deputazione finirà per astenersi del tutto.

37

L’Associazione liberale a partire dal 1895 sarà presieduta da Fani. A proposito dei moderati umbri, che si dimostravano in genere filo governativi, si deve ricordare che Fani e Pompilj nel marzo 1896 avrebbero votato contro il governo di Rudinì, cfr. Il voto di sabato, in «La Provincia dell’Umbria», 15 marzo 1896.

38

Dal giornale «L’Italia Centrale» del 19 aprile 1896, in Raccolta Maramotti, p. 21.

39

Parole pronunciate dal cav. dott. Ulisse Rocchi sindaco di Perugia, in Raccolta Maramotti., pp. 42 - 43.

40

Per ricostruire in dettaglio le fasi della malattia e della morte di Maramotti v. La morte (annunzio nei giornali), ivi, pp. 5 - 22 e Commemorazioni, ivi, pp. 53 - 80.

41

Parole pronunciate dal cav. dott. Ulisse Rocchi cit., pp. 40 - 41.

42

Dal giornale «L’Unione Liberale» del 16 maggio 1896, in Raccolta Maramotti, p. 89.

43

Cronaca, in «La Provincia dell’Umbria», 23 aprile 1896.

Questo articolo è una sintesi e una semplificazione della lunga parte dedicata all’Umbria nel mio volume A. Proietti, Benedetto Maramotti. Prefetto e politico liberale (1823-1896), Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Roma 1999, al quale si rimanda per ogni approfondimento dei contenuti, delle fonti e della bibliografia.

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Le sedi delle Sottoprefetture circondariali della Provincia dell’Umbria FRANCESCO IMBIMBO

L’architettura è una specie di oratoria della potenza per mezzo delle forme Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli e Sottoprefetture previste nell’ordinamento italiano, vigente fino al 1927, che riconosceva i circondari, furono un’eredità del Regno sardo. In base al Regio Decreto 23 ottobre 1859, n. 3702 – emesso dal ministro dell’Interno Urbano Rattazzi – in ogni circondario sorgeva una sottoprefettura, derivata dal modello francese della sous-préfecture (il termine nella lingua italiana è attestato a partire dal 1802). La legge Rattazzi si applicava anche alla parte lombarda del Regno del Lombardo-Veneto, annessa da poco al Regno di Sardegna. Ogni provincia era guidata da un governatore, poi rinominato prefetto. Costituita la Provincia dell’Umbria con decreto n. 240, 15 dicembre 1860 serie n. 197 del Regio Commissario generale straordinario per le Provincie dell’Umbria, marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, di cui: “Art. 2. La Provincia dell’Umbria si divide in sei Circondarii, e cioè di Perugia, Spoleto, Rieti, Fuligno, Terni e Orvieto” e “Art. 4. I sei Circondarii predetti avranno a Capoluoghi le Città stesse di Perugia, Spoleto, Rieti, Fuligno, Terni e Orvieto, nelle quali risiederà l’intendente del Circondario”1. Nel Regno d’Italia, il prefetto, alto funzionario di derivazione francese, simile ai prefetti di dipartimento napoleonici, nasce ufficialmente con il Regio Decreto 9 ottobre 1861, n. 250, allorché i governatori assunsero il nome di prefetti, gli intendenti di circondario quello di sottoprefetti e i consiglieri di governo quello di consiglieri di prefettura. Il sottoprefetto era dotato di autonomia e competenze limitate essendo subordinato al prefetto. Le sottoprefetture saranno poi soppresse con l’art. 3 del R.D.L. 2 gennaio 1927, n. 1, contenente norme sul riordinamento delle circoscrizioni provinciali, e le relative funzioni furono attribuite alle prefetture, conseguentemente, furono soppressi i circondari e i mandamenti come ripartizioni territoriali. Grazie all’azione dello Stato, in conseguenza della riorganizzazione geografico-amministrativa del Regno d’Italia, a partire dal 1865, andava assumendo una rilevante importanza l’immagine (adeguata alle nuove esigenze patriottiche) dei diversi palazzi provinciali, quali sedi decentrate dell’autorità. Tali palazzi accoglievano infatti gli uffici, le sale di adunanze e di ricevimenti, nonché gli alloggi del prefetto o del sottoprefetto, quali emanazioni dirette del governo centrale (il prefetto rappresenta il potere esecutivo). Il prestigio politico dell’istituzione si manifestava anche nella cura posta alla funzionalità e al decoro dei palazzi monumentali, i cui programmi decorativi degli ambienti di rappresentanza, con temi ispirati ai valori

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civili e alle storie locali di ciascuna provincia, nel solco della riscoperta delle rispettive tradizioni, rivelano un unico disegno globale volto alla glorificazione della monarchia sabauda, che rappresenta il filo conduttore nonostante l’apparente dispersione dei temi. Sottolineando, non solo per mezzo di allegorie, l’interesse dominante che è quello di proporre i simboli dello Stato illuminato nelle sue espressioni periferiche, evocati come manifestazioni del nuovo assetto politico. Non è improbabile pertanto che i programmi iconografici (in uno stile che può essere discusso o contestato, ma che comunque rappresenta un’epoca), stabiliti in sede locale, dovessero ricevere una approvazione dal governo di Roma, quale cospicuo esempio di arte e comunicazione. La programmazione tematica per la decorazione dei palazzi provinciali, in particolare di quelli sorti ex novo, come pure l’impostazione delle problematiche connesse al riuso dei vecchi edifici, soprattutto per le sedi delle sottoprefetture, costituirono la testimonianza materiale della storia e della cultura del luogo, e rappresentarono una sorta di valorizzazione dei beni culturali. Lo Stato liberale volle dare ai cittadini un’immagine solenne delle nuove istituzioni; per questo prefetture e sottoprefetture furono sistemate in importanti palazzi storici – nell’ex Stato pontificio per lo più già sedi delle delegazioni apostoliche – palazzi che accompagnano comunque la storia delle città. Le sedi delle prefetture e sottoprefetture e l’alloggio di servizio dei sottoprefetti nei capoluoghi di circondario furono arredati signorilmente. Era questo uno dei compiti della Provincia (art. 203, n. 14 e 15 della legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865 n. 2248 proposta dal ministro dell’Interno Giovanni Lanza)2. La storia di una città si apprezza anche osservando i suoi palazzi, cellule del suo tessuto urbano, essendo l’edilizia magnatizia rappresentativa al massimo livello dell’immagine ufficiale cittadina. Il palazzo, nell’immaginario collettivo, assume forti valenze rappresentative, coerentemente con il carattere della sua funzione. Palazzi come proiezione del potere centrale, istituzioni del potere politico ed economico. I palazzi sedi della prefettura e delle sottoprefetture qualificheranno la Provincia venutasi a formare a seguito dell’Unità nazionale. Immagine della Provincia umbra che vantava segni secolari di identità: quei segni ricorrenti istintivamente nella mente di ogni cittadino quali memorie storiche. Elementi emblematici dell’assetto urbanistico sopravvenuto a quello antico, ma soprattutto a quello medioevale. Episodi architettonici: edifici trasformati nel corso del tempo, rivisitati nel doppio aspetto privato e pubblico. Concrezioni di storia che rimandano a epoche e stili diversi. Proprietà di famiglie nobili (sontuose dimore aristocratiche, ma anche luogo di mecenatismo) o della borghesia, costituiscono una viva testimonianza della storia e della vita civile, nonostante le audaci trasformazioni d’uso, poiché vi si sono svolte alcune pagine di importanti eventi storici. Attraverso questi edifici, di notevole interesse per la storia dell’Umbria, è possibile, ricostruire la storia delle città – di cui accrescevano il decoro – e della Provincia, nella sua immagine istituzionale, sociale e artistica. Ripercorriamo la storia delle nostre città illustrando gli edifici che furono sede delle sottoprefetture, da secoli portano con essi la storia di personaggi e di famiglie legati alla terra umbra. Premettiamo che a Orvieto e Foligno le sedi della sottoprefetture non furono mai di proprietà dell’Ente. Orvieto costituì un cantone della Repubblica romana (1798-1799), sede di Governo generale nella prima restaurazione, annessa all’impero 45

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Planimetria del piano primo di Palazzo Bracci Testasecca, Orvieto (ASPg, ASPP, Contratti, Palazzo Provinciale manutenzione, b. 3104, fasc. 2)

francese come sede di capoluogo di cantone della sottoprefettura di Todi nel Dipartimento del Trasimeno. Restaurazione: con il motuproprio del 6 luglio 1816 fu compresa nella delegazione di Viterbo come sede di governo distrettuale. L’editto del 5 luglio 1831 del segretario di Stato cardinale Bernetti sanzionava la creazione della Delegazione di Orvieto, che veniva in tal modo separata da Viterbo. Con l’editto del cardinale Antonelli del 22 novembre 1850 diveniva provincia del circondario di Roma. Con l’Unità farà parte della Provincia dell’Umbria. L’amministrazione provinciale prese in affitto i locali prima dai marchesi Gualterio nel palazzo di piazza S. Giuseppe o “piazza del Moro”, (perchè occupa l’angolo opposto alla Torre del Moro) ora denominata piazza Gualterio. 65. Orvieto. Affitto dei locali per l’alloggio e gli uffici del Sottoprefetto. Contratto 14 agosto1863, Locatore Gio: Battista Gualterio3. Affitto di porzione di Palazzo Gualterio in piazza S. Giuseppe, per anni sei già principiati a decorrere dal febbraio 1862 e rinnovato fino al 1873. L’antica famiglia Gualterio ristrutturò il palazzo secondo un progetto iniziale del Sangallo poi modificato da Simone Mosca e da altri. Fu decorato con stucchi e affreschi, e impreziosito dal portale di Ippolito Scalza, qui trasferito dal palazzo Buzi anch’esso di proprietà dei Gualterio. Il senatore Filippo Antonio Gualterio (1819-1874) Regio Intendente Generale e primo prefetto dell’Umbria, fu l’ultimo della famiglia ad abitarvi. Il palazzo passò infine al Banco di Roma e gli ogget46


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Planimetria del piano secondo di Palazzo Bracci Testasecca, Orvieto (ASPg, ASPP, Contratti, Palazzo Provinciale manutenzione, b. 3104, fasc. 2)

ti d’arte sono oggi conservati nel museo civico e nelle sale del palazzo Comunale. Poi con contratto 333. Orvieto. Affitto del fabbricato ad uso alloggio e degli uffici del Sottoprefetto 2 ottobre 18734 (contraente Pandolfi C.te Fabio5), nel palazzo dei conti Pandolfi di via del Duomo, dalla facciata attribuita al Valadier e con le sale affrescate presumibilmente da Annibale Angelini e Mariano Piervittori6. Dopo essere stato sede della sottoprefettura fino al 1914 (con contratto rinnovato nel 1895, contraente Pandolfi C.te Emilio) il palazzo fu poi acquistato dall’ingegner Netti pioniere nel campo dell’energia elettrica, che aveva realizzato l’impianto elettrico cittadino nel 1896. Quindi la sottoprefettura ebbe sede nell’ordine: nel palazzo Serafini dal 1914 al 1923, in quello Caterini dal 1923 al 1924 e, infine dal 1924 al 1930 nel palazzo dei conti Bracci Testasecca 7, edificato su progetto di Virginio Vespignani in Piazza del Popolo e completato nel 1875. L’impostazione stilistica delle fronti è di un garbato eclettismo, con richiami ad elementi cinquecenteschi nelle finestre e con un ricordo barocco nella convessità della facciata. Foligno nella Repubblica romana fu cantone del Dipartimento del Clitunno con capitale Spoleto, durante l’impero francese (1809-1814) circondario sede di sottoprefettura nel Dipartimento del Trasimeno con capoluogo Spoleto, con la Restaurazione compresa nella Delegazione apostolica di Perugia come governo distrettuale. Con l’Unità la sotto47


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Palazzo Ancaiani, fronte, Spoleto, foto b.n. (Collezione privata)

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prefettura di Foligno ebbe sede inizialmente nello storico palazzo Trinci, come documentato da una richiesta in data 19 novembre 1862 del sottoprefetto che chiede il parere favorevole al Consiglio comunale per la chiusura dell’arco di ingresso degli uffici doganali, al fine di attivare il progetto di sistemazione del palazzo per uffici di sottoprefettura8. Quindi dal 1866 al 1895 nel palazzo dei conti Frenfanelli in piazza S. Salvatore, l’attuale piazza Garibaldi chiusa dal fronte di Palazzo Frenfanelli-Cibo-Sorbi (sec. XVIII-XIX): 72. Foligno. Affitto del locale per l’alloggio del Sottoprefetto. Contratto 3 settembre 1886 Proprietario C.te G. Battista Frenfanelli 9. Dal 1866 a palazzo Marchetti-Lezi, in via Benedetto Cairoli, invece furono ubicati i soli locali degli uffici di sottoprefettura: 73. Foligno. Affitto del locale per gli uffici della Sottoprefettura Contratto 17 settembre 1886. Il proprietario Matteo Lezi Marchetti10. In seguito dal 1893 al 1909 vi sarà riunito anche l’alloggio del sottoprefetto. Già residenza del governatore pontificio dopo il terremoto del 1832, l’edificio di impianto secentesco, ma ridefinito intorno al 1785, è caratterizzato dall’altana chiusa a padiglione e dal ciclo di affreschi di Marcello Leopardi e Liborio Coccetti. Nella sala d’Apollo, la decorazione parietale del Leopardi con le Quattro parti del mondo simboleggiate da altrettante figure femminili, tra le quali si nota l’America che impugna la fiaccola della libertà, in riferimento alla indipendenza degli Stati Uniti11, proclamata proprio in quegli anni (1776). Spoleto, capoluogo del Dipartimento del Clitunno in epoca repubblicana, poi durante l’impero francese capoluogo del Dipartimento del Trasimeno che comprendeva i circondari delle quattro sottoprefetture di Spoleto, Perugia, Foligno e Todi. A capo del dipartimento vi era un prefetto che pose la propria residenza a palazzo Ancaiani. L’edificio eretto dalla nobile famiglia spoletina nella seconda metà del Seicento, fu resi48


Palazzo Fonzoli poi Gruber, fronte, Terni. L’ex palazzo della Sottoprefettura in piazza Solferino, dal 1927 al 1936 sede della Prefettura e della Provincia, foto b.n. (Collezione privata)

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denza pubblica a partire dal 1809 (impero francese). Già residenza del governatore, del Prefetto del Trasimeno, con la Restaurazione fu venduto alla Camera apostolica nel 1820 e fu sede della Delegazione apostolica, ospitò quindi la sottoprefettura dall’Unità fino al 1927. Dapprima in affitto: 81. Perugia e Spoleto. Affitto del locale per la prefettura e sottoprefettura, Contratto 21 marzo 1867. Il proprietario Demanio dello Stato12, in piazza Vittorio Emanuele II, 3. Nella serie Inventari: Fabbricato provinciale con giardino annesso posto nel Comune di Spoleto (Città) destinato ad alloggio ed uffici della Sotto-Prefettura ed in parte ad officio tecnico provinciale. Città di Spoleto, Piazza Vittorio Emanuele, Piani 4, Vani 102. Dal Demanio nazionale acquisto fatto a trattativa privata mediante atto del 4 aprile 1877 e volturato a nome dell’Amministrazione Provinciale dell’Umbria il 12 Novembre 1878 e trascritto il 27 dello stesso mese e anno per il prezzo di £. 32.513,25 (Vedi contratto n. 711 in data 27 aprile 1880 come si legge nel Registro dei Contratti). Il prezzo pagato di £. 32.513 comprende un’annessa casa d’affitto la quale essendo stata ora venduta al Comune di Spoleto per £. 2.500 si è questa somma stralciata dal prezzo complessivo13. Infine, con contratto n. 2948, 24 settembre 193614, si ebbe la cessione del palazzo dalla Provincia di Perugia al Comune di Spoleto. Terni, dopo la proclamazione della repubblica romana nel febbraio 1798, entrò a far parte del dipartimento del Clitunno con capoluogo Spoleto, e durante l’Impero francese fece parte del dipartimento del Trasimeno sempre con capoluogo Spoleto. Col motuproprio di Pio VII del 6 luglio 1816, la provincia dell’Umbria fu divisa in due delegazioni di seconda classe, Perugia e Spoleto. Nella delegazione apostolica di Spoleto, Terni fu capoluogo di governo distrettuale. Dall’Unità d’Italia al 1927, fu quindi capoluogo di circondario nella rinata Provincia dell’Umbria. La prima sede della sottoprefettura fu in affitto dai fratelli Fonzoli nel palazzo di piazza Solferino: 63. Terni, Affitto dei locali per 49

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Planimetria del piano primo di Palazzo Fonzoli poi Gruber, Terni, (ASPg, ASPP, Inventari, scatola n. 2, fasc. n. 3 “Terni”.)

l’alloggio e gli uffici del Sottoprefetto Contratto 10 ottobre 1865. Locatori Pietro e Luigi Fonzoli15 del fu Giuseppe. Scadendo col 22 novembre 1874 tale contratto, la Provincia individuò la nuova sede nell’intero piano nobile del palazzo ex Massarucci (ovvero il rinascimentale palazzo Spada pervenuto alla nobile famiglia Massarucci nel sec. XIX). Affitto della durata di un novennio a decorrere dal 1º gennaio 1875 per annue Lire tremilatrecento (£. 3.300). 412. Terni, Affitto d’una parte dell’ex palazzo Massarucci destinata all’alloggio del Sotto Prefetto e relativi uffici. 17 maggio 187516. Locatrice dell’ex Palazzo Massarucci posto sul Corso Vittorio Emanuele al civico n. 74 era la Signora Carmina Panfani di Felice, moglie di Gioacchino Palombi, rappresentata dal Signor conte Alceo Massarucci, che loca ed affitta la parte sovraccennata del palazzo dalla medesima acquistata per sentenza di delibera del Tribunale Civile di Spoleto in data del 14 Novembre 1874. Infine, nuovamente in piazza Solferino nel palazzo divenuto di proprietà del Gruber. Il Palazzo Provinciale posto nel Comune di Terni destinato agli Uffici della Sottoprefettura, Esattoria consorziale, Posta, Telegrafo, Telefono, Ufficio Tecnico Provinciale, Alloggio del Sottoprefetto e due quartieri affittati. Città Piazza Solferino Piani 4 Vani 99. Con atto Rotondi del 20 decembre 1886 registrato a Perugia il 4 gennaio 1887 N. 987, dalla ditta Gruber17 fu acquistato lo stabile come sopra. La voltura fu eseguita il 14 gennaio e la trascrizione il 12 gennaio 1887 (vedi registro contratti n. 96318). Prezzo pagato lire 67.000. Il prezzo dell’orto è compreso nelle lire 67.000 pagate al Gruber nel 1° acquisto. Con contratto 16 febbraio 1889, trascrizione del 21 febbraio e voltura del 12 marzo dello stesso anno fu fatto l’acquisto di diverse parti di un vano terreno spettanti alle famiglie Cardelli Cantucci. Piano Primo: N. 32 ambienti formano l’assieme di questo piano, occupati dagli uffici della Sotto Prefettura, da quelli della Agenzia delle Imposte dirette e dall’ufficio telegrafico. Piano secondo: Componesi il 2° piano di N. 33 ambienti, divisi in tre quartieri, l’uno ad uso abitazione del Sottoprefetto, l’altro da affittarsi ed il terzo destinato all’Ufficio tecnico Provinciale19. Il cosiddetto “palazzo di Piazza Solferino”, fu sede della sottoprefettura, poi dal 1927 al 1936 ospitò la Prefettura e la Provincia di Terni, in attesa della costruzione del nuovo grandioso palazzo progettato da Cesare Bazzani. Diverrà quindi la sede del Provveditorato agli Studi. Colpito, infine, dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale (agosto e settembre 1943), fu poi demolito. Rieti, durante la repubblica romana già compresa nel dipartimento del Clitunno, fu sede di sottoprefettura durante l’impero francese, con 50


Palazzo Leoni, fronte, Rieti, foto b.n. (Collezione privata)

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una giurisdizione che giungeva fino al Tevere. Con la Restaurazione divenne capoluogo di delegazione di terza classe con motuproprio del 6 luglio 1816. Compresa nella Provincia dell’Umbria con decreto 15 dicembre 1860, n. 197 del marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, Rieti fu capoluogo di circondario retto da una sottoprefettura, fino al 1923, quando il circondario di Rieti fu annesso alla Provincia di Roma, per poi diventare provincia autonoma nel 1927, con l’aggregazione del circondario di Cittaducale. La prima sede della sottoprefettura fu palazzo Piccadori Blasetti del XVI sec., in via di S. Domenico, 27 confinante con il fiume Velino: 66. Rieti affitto dei locali per l’alloggio e gli uffici del Sottoprefetto. Contratto 15 giugno 1863. Locatore Carlo Piccadori Blasetti20, della durata anni tre retroattivi dal 1º gennaio 1861 fino al 31 dicembre 1863. E ancora, contratto 692. Rieti Sottoprefettura Proroga per l’affitto del palazzo ad uso della S.º Prefettura, valevole per un anno. Rieti 20 luglio 1879 21. Contraente Marri Bartolomeo amministratore dei signori Piccadori. Si riportano di seguito i contratti relativi al palazzo dei marchesi Leoni di via Garibaldi n. 106, già Via degli Abruzzi (si noti che la famiglia Leoni possedeva altri edifici nella stessa via): 709. Rieti Atti relativi al contratto a trattativa privata per l’adattamento del nuovo fabbricato della Sotto Prefettura. Appaltatore Vincenzo Fontana. Rieti 17 ottobre 1880 22 (palazzo Leoni). 728. Rieti Atti relativi all’affitto del palazzo Leoni per la S.º Prefettura. Contratto 22 maggio 1880. Fitto £. 2.700 23. 810. Rieti Sotto Prefettura Contratto per l’acquisto del palazzo Leoni 24. Contraente Carlo Leoni 8 gennaio 1883. Il palazzo dei marchesi Leoni di Via degli Abruzzi, anticamente denominata Via di Regno (perché costituiva la diramazione est del tratto urbano della Salaria, che oltrepassato il confine pontificio entrava nel territorio aquilano, i.e. nel Regno di Napoli) ospitò la sottoprefettura. 51

CORRISPONDENZE

Corrispondenze dall’800


CORRISPONDENZE

Corrispondenze dall’800

Planimetria del piano primo di Palazzo Leoni, Rieti, (ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1763, fasc. n. 709)

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Con Istromento di vendita di due case. Vendita beni eredità del fu Tommaso Viscardi, lì 6 giugno 1859 = per gli Atti di Giovanni Rossetti Notaro Pubblico Rietino, il marchese Carlo Leoni acquistava due immobili in contrada Porta d’Arci. Nel 1877, come si evince dai registri catastali, il palazzo aveva inglobato i due edifici: il frantoio e l’abitazione della famiglia Viscardi, ed era stato assegnato alla caserma dei carabinieri25. Fabbricato di proprietà dell’Amministrazione Provinciale dell’Umbria posto nel Comune di Rieti destinato ad uso di Uffici Sotto Prefettura ed alloggio Sotto Prefetto, in Via Garibaldi numero civico 60. Piani 4 Vani 46. Con istromento dell’8 Aprile 1883, rogato da Notaio Bernardinetti registrato a Rieti il 17 aprile dello stesso, al N. 294. L’Amministrazione Provinciale dell’Umbria acquistava il fabbricato suddetto dal Signor Carlo Marchese Leoni fu Pietro. La voltura venne eseguita il 20 giugno e la trascrizione il 9 Aprile 1883. (Vedi registro contratti N. 810) Prezzo pagato Lire 50.000. (Mod. A 1904, 1912)26. La coabitazione con i carabinieri continuerà per un lungo periodo. Nel 1898 l’edificio fu gravemente danneggiato dal terremoto, i restauri furono ultimati nel 1903. Nel 1928, a seguito del riparto patrimoniale con la Provincia di Perugia, passò alla Provincia di Rieti, nata l’anno precedente, che lo assegnò alla R. Questura.

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1

Atti ufficiali pubblicati dal marchese G. N. Pepoli, Stamperia Reale, Firenze 1861, p. 938.

2

Giorgio Solmi, La Provincia nell’ordinamento amministrativo vigente, CEDAM, Casa Ed. Dott. A. Milani, Padova 1961 (3ª ediz. ), p. 389.

3

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1730, fasc. n. 65.

4

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1742, fasc. n. 333.

5

ASPg, ASPP, Contratti, Registro dei contratti stipulati nell’interesse della Provincia dall’anno 1862 all’anno 1907 (n. 363).

6

Alberto Satolli (a cura di), Orvieto nuova guida illustrata, Edimond, Città di Castello 1999, p. 89.

7

ASPg, ASPP, Contratti, Registro dei contratti soggetti a prosecuzione e registrazione periodica (n. 91).

8

Giordana Benazzi, Francesco Federico Mancini (a cura di), Il Palazzo Trinci di Foligno, Quattroemme, Perugia 2001, p. 110.

9

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1730, fasc. n. 72.

10

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1730, fasc. n. 73.

11

Fabio Bettoni, Bruno Marinelli, Foligno Itinerari dentro e fuori le mura, Associazione Orfini Numeister, Foligno 2001, pp. 116 -117.

12

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1730, fasc. n. 81.

13

ASPg, ASPP, Inventari di beni mobili ed immobili, scatola n. 2, fasc. n. 2 “Spoleto”.

14

ASPg, ASPP, Contratti, Registro dei contratti stipulati nell’interesse della Provincia dall’anno 1907 all’anno 1955 (n. 200).

15

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1729, fasc. n. 63.

16

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1746, fasc. n. 412.

17

Il Cotonificio Fonzoli (poi lanificio) fondato dai fratelli Pietro e Luigi Fonzoli nel 1846. Nel 1868 subentrò come nuovo socio l’industriale tessile tedesco Federico Gruber, già presente a Genova e in Piemonte, che rilevò l’intera società nel 1869.

18

ASPg, ASPP, Contratti, Registro dei contratti stipulati nell’interesse della Provincia dall’anno 1862 all’anno 1907 (n. 363).

19

ASPg, ASPP, Inventari di beni mobili ed immobili, scatola n. 2, fasc. n. 3 “Terni”.

20

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1730, fasc. n. 66.

21

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1762, fasc. n. 692.

22

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1763, fasc. n. 709.

23

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1764, fasc. n. 728.

24

ASPg, ASPP, Contratti, scatola n. 1766, fasc. n. 810.

25

Roberto Marinelli, Note e proposte per l’istituzione dei servizi culturali dell’Amministrazione provinciale di Rieti, Provincia di Rieti, Rieti 1998, pp. 3 - 4.

26

ASPg, ASPP, Inventari di beni mobili ed immobili, scatola n. 2, fasc. n. 4 “Rieti”.

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CORRISPONDENZE

Note


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L’Università di Perugia rischia di chiudere (parte seconda) SIMONE SLAVIERO

Il problema del riordinamento: la Commissione Palmucci el 1873, anche il Prefetto Benedetto Maramotti era intervenuto sulla questione, nel solenne Discorso al Consiglio provinciale, ricordando che: “So bene che alcuni vagheggiano di spegnere le università minori e raccogliere tutto nelle principali. Ma là dove la civiltà è più viva, siffatti propositi non ebbero mai il suffragio pubblico: e la dotta Germania che ha udito agitare per quasi trent’anni cotale questione, vi ha testé risposto aggiungendo ancor una alle molte Università che già possedeva. L’influenza di un Atene [sic] sui paesi circostanti la testimoniano i secoli: e quella cultura pubblica, quella gentilezza di costume tanto propria di questa Provincia si deve forse in gran parte all’istituto della cui vita avrete fra poco a giudicare”. Nonostante le parole di stimolo pronunciate dal Prefetto, la situazione universitaria era rimasta in stallo, ma se la soluzione tardava a venire, i problemi incalzavano, come sintetizza brillantemente Uguccione Ranieri di Sorbello che riferendosi al 1872 scrive: “Più gravi sembrarono in quella primavera i problemi dell’Università dove le 100000 lire che riceveva da vari enti non bastavano più. Prima di discutere un eventuale aumento di contributo si propone, in Provincia, di restringere l’Università alla sola facoltà di Legge. Grida di fuoco da parte del rettore Pennacchi! Intere pagine vengono affidate sul giornale da vari contendenti e interloquenti. Il professor Dal Pozzo, che propugna il ridimensionamento, scrive che è stato costretto a chiedere il porto d’armi perché minacciato… Insomma parole grosse, ma l’Università rimarrà indenne anche se la proposta di un ridimensionamento tornerà ad affacciarsi nei decenni futuri”1. Effettivamente la Provincia dell’Umbria si ritrovò per le mani una vera e propria patata bollente e le pagine del «Corriere dell’Umbria» resero di pubblico dominio il duello verbale tra il Rettore e il prof. Dal Pozzo, sintomo di una situazione davvero delicata e ricca di implicazioni. Infatti, oltre alle consueta amministrazione ordinaria – istruzione pubblica e convitti, strade, ricoveri di mendicità, ecc. – in quell’epoca la Provincia dovette misurarsi con i problemi di amministrazione dello Studio perugino, un tempo gloria e vanto della municipalità ma le cui condizioni generali erano pessime, tanto che, alcuni autori ne hanno definito “irrilevante” l’incidenza sul tessuto economico-sociale della città: “Fra il decreto Pepoli (15 dicembre 1860), che la dichiarava «libera»2 e la affida al Comune sul piano amministrativo, e la sua costituzione in ente autonomo nel

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N

Giovanni Pennacchi, foto b.n. del ritratto (Università degli Studi di Perugia)

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Enrico Dal Pozzo di Mombello, foto b.n. (Università degli Studi di Perugia)

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1886, l’università conosce due crisi. Nel 1872 si discute se ridurre il corso degli studi alla sola facoltà di Giurisprudenza. Nel 1882 viene soppressa quella di Scienze matematiche, fisiche e naturali ed è disattivato l’insegnamento di Archeologia. Uno stato precario dunque testimoniato dal ristagno delle iscrizioni: 70 registrate in media all’anno nel decennio 1864-’74, a fronte delle 69 del 1874-’84. […] Strutturata nelle facoltà di Giurisprudenza e Medicina (quest’ultima incompleta) e nelle Scuole di ostetricia, farmacia e veterinaria, l’Università registra un aumento delle iscrizioni che passano da 153, valore medio annuo del periodo 1884-94, a 334 del decennio 1894-1904”3. Pertanto, il momento in cui la Provincia intervenne fu particolarmente delicato e coincise con la seduta in cui si espose la relazione presentata dalla commissione Palmucci4, tenutasi il 19 agosto 1874. Al termine della seduta non si presero decisioni eclatanti, ma la portata della discussione sorretta dalla notevole relazione commissariale rappresentarono un segnale forte per il futuro della nostra Università ed anche una chiara misura del peso che la Provincia, allora giovane ente morale, dimostrò di avere nella tutela del bene pubblico: la Provincia non si sarebbe sottratta alle proprie responsabilità, a patto che ciascuno si assumesse la propria. Alla discussione prendono parte molti consiglieri. Il Manassei ritiene che “la questione universitaria, presentata al Consiglio, ha fatto come la palla di neve che diventa in breve spazio una valanga”, in quanto sebbene si fosse partiti dalla richiesta di un sussidio di circa 2000 lire, si era attualmente giunti a trattare la cifra di 26000 lire, richiesta difficilmente compatibile con la circolare ministeriale (emanata dall’allora Ministro dell’Interno Cantelli) che raccomanda regimi di spesa assolutamente oculati, mentre “secondo la proposta della commissione, trattasi quasi di convertire l’università di Perugia in un istituto provinciale”: non sarebbe dunque una questione di emozioni e di simpatie ma, secondo il suo punto di vista, di “fredda aritmetica”. A monte di questa discussione sta però un fatto che il Manassei non tralascia di osservare, vale a dire la nonobbligatorietà di un intervento da parte della Provincia nel campo dell’alta istruzione, intervento che al contrario spetta al governo che a sua volta “vi provvede anche largamente. Abbiamo infatti in Italia 21 università, delle quali 17 governative e 4 libere. […] Per le università lo Stato spende annualmente, per materiale e personale, lire 5,164,851 e la nostra provincia concorre in questa spesa per lire 103,000 in ragione di popolazione. […] Il relatore Palmucci nota una sola utilità pratica rispetto ai medici, di cui difetterebbero i nostri comuni minori, se non fosse in Perugia lo studio della medicina. Su questo però si può osservare che i giovani i quali riescono bene non si stabiliscono nei piccoli paesi ma cercano di farsi una posizione nei grandi centri. Nei piccoli paesi non rimangono in generale che delle oscure mediocrità. Dice il relatore della commissione che gli studenti a Perugia vivono assai bene e spendono poco. Ma lo studente, questo operaio dell’avvenire, può vivere economicamente anche in una grande città; ciò dipende dal suo volere; egli può abitare anche in una soffitta senza soffrirne […]. Dunque l’utilità delle piccole università non è quale vuol dirsi. Fra i proprietari dell’Umbria se ne contano 73,729 che hanno un estimo inferiore di 1,000 scudi e coloro che hanno un estimo maggiore sono 4,759. I primi, cioè, i 73,729 proprietari che hanno meno a 1,000 scudi di estimo non mandano i loro figli a compiere gli studi all’università perchè non ne hanno i mezzi. È dunque giusto gravarli di spese per mantenere un istituto che giova soltanto ai 4,759 che hanno rendite maggiori?”. Evidentemente può cogliersi nelle 55

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parole del Manassei una contraddizione rispetto a quanto dichiarato anni prima, quando riteneva che l’Ateneo fosse d’interesse provinciale. Dal canto suo, il presidente Ansidei riassume l’impegno della Provincia a sostegno dello Studio perugino e, “Volgendo lo sguardo attorno, egli scorge che la metà dei consiglieri ha studiato in Perugia, e ne trae argomento per dimostrare la utilità dell’università rispetto all’intera provincia, e, come i consiglieri provinciali, egli osserva che anche i nostri rappresentanti in parlamento hanno compiuto i loro studi in questa città. […] Egli riconosce doversi lodare la Deputazione per il modo con cui amministra la provincia, eliminando sempre ogni spesa superflua, ma, non bisogna dimenticare che si deve provvedere a ciascuna parte della medesima secondo le sue particolari condizioni. E così, mentre per il circondario di Rieti si dové anzitutto provvedere alle strade, per Foligno e Terni all’istruzione professionale, ove unica risorsa sono gli studi, si deve provvedere al decoro ed al rifiorimento dell’università. E non è soverchio il far riflettere che non trattasi d’imporre alla provincia un peso troppo gravoso, perciocché, sebbene la Deputazione tenda costantemente e con ragione alla economia, nondimeno lo stesso deputato Faina, di cui egli deplora l’assenza, diceva anche ieri che 70,000 lire in più od in meno non turbano l’economia del bilancio provinciale”. Palmucci5, finalmente, dice: “Parlando per esperienza propria, egli fa riflettere che nelle grandi università, chi studia, per esempio, medicina, non viene notato dai professori, se non quando addimostri un ingegno eccezionale: quindi sono pochi coloro che vengono ammessi in qualche sala particolare di clinica e nella camera anatomica; gli altri non possono che a proprie spese procurarsi questi mezzi indispensabili di studio. All’incontro nelle università secondarie, tutti gli studenti indistintamente si trovano a contatto dei professori, e possono esercitarsi gratuitamente nella camera anatomica e nella sala di clinica; quindi nell’università di Bologna, ove ha egli fatto i suoi studi di complemento, si notava che negli esami di laura [sic], si distinguevano gli studenti provenienti dalle università di Perugia e Camerino a preferenza di quelli che sempre erano stati nello stesso ateneo bolognese, ed un illustre professore osservava che gli studenti di Perugia e Camerino, anche d’ingegno mediocre, superavano quelli di Bologna, quantunque d’ingegno superiore. Ma se cessasse l’università di Perugia, sarebbero i giovani privati dei mezzi di istruirsi; quindi costretti a recarsi altrove, l’aggravio delle famiglie sarebbe assai maggiore di quello che assumerebbe ora la provincia adottando la proposta della commissione. Né debbonsi dimenticare i vantaggi che presentano ai giovani studiosi e alle loro famiglie le piccole città, ove la vita è a miglior mercato e dove i giovani sono esposti a minori pericoli e possono essere più facilmente sorvegliati. Dippiù, soffrirebbero pure i pubblici servizi, ed i comuni dovrebbero sostenere maggiori spese, quando mancasse la università locale, perchè sarebbe scarso il numero dei medici, dei farmacisti, delle levatrici e dei veterinari. Attualmente più della metà dei medici, esercenti nell’Umbria, hanno studiato in quest’ateneo, e sono capaci e sufficientemente colti. Il consigliere Manassei ha detto che il vero decentramento non può ottenersi se non decentrando le rendite. Quest’osservazione è giusta, ma non opportuna. L’università di Perugia è un antico istituto dotato di un patrimonio proprio: al certo, se la provincia non comincia a provvedere, sostituendosi al governo, il decentramento non potrà mai avverarsi. Egli fa riflettere inoltre che l’ordine del giorno Ceci provvede solo in parte, mentre le proposte della commissione provveggono completamente allo scopo per il quale fu nominata […]. Il 56


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Conclusione Le decisioni della Provincia, come già anticipato, forse non furono allora e neppure in seguito decisive per il futuro dell’Ateneo. Tuttavia sarebbe difficile e fuori luogo addossare all’Ente responsabilità negative che certo non potevano appartenergli: anzi, seppure modesto, il suo contributo fu senz’altro positivo. Del resto, nonostante tutte le difficoltà il numero degli studenti iscritti all’Ateneo perugino sarebbe cresciuto, come illustrava il rettore Torello Ticci nel discorso d’inaugurazione dell’anno accademico del 1890. Un terzo di questi proveniva da fuori ‘regione’, il che ne accresceva il “credito”, ma una parte degli studenti umbri non frequentava a Perugia allettati dalla ‘vicinanza’ della capitale del regno con la nostra provincia: la concorrenza della università romana – che rappresentava una novità – non era vissuta come uno stimolo ma solo come un sicuro danno per lo Studio perugino, un cruccio costante che veniva appena alleviato da considerazioni di questo tenore che inducono a interpretare l’attrattiva dell’Ateneo romano come passeggera: “le grandi città capitali il più delle volte non sono acconcie agli studi giovanili, vuoi per le agitazioni della politica, vuoi per le altre seduzioni che divagano le intelligenze, vuoi per la carezza del vivere”. Tutto da indagare invece il ruolo che la massoneria locale ebbe nel determinare le sorti dello Studio. Essa infatti, compenetrava tutte le maggiori istituzioni al punto che, scrive Renato Covino, “La stessa gestione dell’Università è in mano alle logge: per quasi tutto il cinquantennio postunitario i rettori dell’Ateneo sono affiliati alla Massoneria”6.

Note 1

U. Ranieri di Sorbello, Perugia della bell’epoca, Volumnia, Perugia 2005, p. 207.

2

Lo Statuto della Università libera di Perugia (stampato nel 1863) recitava all’Art. 1: L’Università di Perugia è dichiarata libera, ed è posta sotto l’immediata dipendenza del Municipio di Perugia e sotto la sorveglianza del Governo.

3

Economia società e territorio, in A. Grohmann (a cura di), Perugia, Laterza, Roma - Bari 1990, p. 136.

4

Guidata dal Palmucci, la commissione era composta dai consiglieri Luigi Valentini, Giuseppe Bianconi, Giacomo Bracci, Francesco Maria Degli Azzi Vitelleschi.

5

Luigi Palmucci, presidente della commissione del Consiglio provinciale fu tra l’altro Regio Provveditore agli Studi dell’Istituto Orientale. Il 30 novembre 1860, fu nominato nella stessa carica per le province di Perugia e Orvieto, prima di essere confermato tale nella Provincia dell’Umbria. Egli era sposato con Giuseppa Becherucci, vedova di Giuseppe Pompili, con la quale visse a Portici. Acclamato accademico d’onore il 16 giugno 1864 dall’Accademia delle belle arti di Perugia. Il 10 ottobre 1901 è fatto Grand’Uffiziale dell’Ordine della Corona d’Italia.

6

R. Covino, L’egemonia moderata e le consorterie, in Le regioni dall’Unità a oggi, vol. L’Umbria, R. Covino e G. Gallo (a cura di), Einaudi, Torino 1989, p. 678.

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CORRISPONDENZE

consigliere Segni ha detto che non crede utile l’ingerenza della provincia negli affari universitari, perché potrebbe dar luogo a gravi inconvenienti e lederebbe l’autonomia di quell’istituto. Voglia egli riflettere però che il municipio accetterebbe volentieri questa ingerenza perché lo sottrarrebbe dall’influenza di rispetti umani, inevitabili nelle piccole città”. La Commissione Palmucci chiese al Consiglio un impegno annuo di 26.500 lire a favore dello Studio, ma il Consiglio respinse sostanzialmente la proposta riducendolo notevolmente.


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La classificazione delle strade provinciali DANIELA MORI

Decreto dell’11 agosto 1870, n. 5827, dichiarava “provinciaIlencolliRegio alcune strade scorrenti nella Provincia dell’Umbria” e conteneva l’edelle strade che poteva essere modificato con integrazioni, esclu-

CORRISPONDENZE

1

Corografia di strade dell’Umbria settentrionale, 1884 (ASPg, ASPP, Miscellanea di disegni e piante)

sioni e rettificazioni di percorsi, mediante un procedimento stabilito dalla legge sui lavori pubblici del 20 marzo 18652. Il Consiglio provinciale dell’Umbria, già dal 1870 e successivamente negli anni 1872 e 1873, aveva approvato alcune deliberazioni che avevano costretto l’amministrazione provinciale ad avviare la procedura per la revisione che in particolare riguardava: la cancellazione della strada della Mita, l’aggiunta delle strade Magione-Chiusi, Umbro-Cortonese e Casciana per Monteleone, da Cascia al Villaggio di Ruscio sotto Monteleone e la variazione del tracciato della strada Amerina. Nella riunione del Consiglio provinciale del maggio 1878, il deputato Ettore Graziani Monaldi presentando una Relazione,3 informava che la richiesta per la modifica della lista era stata trasmessa al Ministero dei lavori pubblici fin dal 2 luglio 1874 e che il Ministero, prima di dar corso alla domanda, aveva inviato tre “note” con le quali, per tutelare finanziariamente l’amministrazione provinciale e per accelerare la costruzione delle strade, consigliava di sospendere la domanda per la correzione dell’elenco e di trovare un accordo con i comuni interessati che dovevano costruire le strade di loro competenza, strade che una volta ultimate, avrebbero avuto le condizioni per diventare provinciali.

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CORRISPONDENZE

Strada Amerina, Andamento generale di detta nuova strada provinciale di serie pel tratto da Guardea al Ponte sul Tevere, 1885 (ASPg, ASPP Miscellanea di disegni e piante)

Il Ministero dei lavori pubblici, sollecitava in questo modo, l’applicazione della Legge 30 agosto 1868 “concernente la costruzione e sistemazione delle strade comunali” con la quale, sotto la sorveglianza della Provincia, seguendo un iter stabilito, ogni comune dopo aver dichiarato una strada comunale obbligatoria, per costruirla o sistemarla, poteva costituire un fondo speciale e accedere a sussidi statali4. Il deputato Ettore Graziani Monaldi concludeva quindi la Relazione, affermando che i suggerimenti del Ministero dovevano essere accolti e proponeva al Consiglio provinciale di approvare una deliberazione che sospendeva la richiesta di modifica dell’elenco, relativamente alle strade in questione, fino alla loro costruzione da parte dei comuni interessati. Nella sessione straordinaria del dicembre dello stesso anno, un’altra Relazione5 della Deputazione provinciale sulla viabilità, presentata al Consiglio dal deputato Ottavio Coletti, riferiva che: “…avendo il Ministero dei lavori pubblici colla sua circolare del 22 luglio u.s., richiesto alle amministrazioni provinciali talune indicazioni, concernenti la viabilità, allo scopo di avvisare al modo di favorirne ed affrettarne il 59


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CORRISPONDENZE

ASPg, ASPP, Progetto Strada di Tancia, 1884 (copertina)

completamento, la Deputazione provinciale si trovò costretta di procedere a nuovi studi su questa parte importante dell’azienda provinciale per vedere se fosse necessario di modificare le proposte come sopra formulate, ed in ogni caso per coordinarle alle idee manifestate dal Ministero; il quale volendo soddisfare ad un voto delle Camera dei deputati, avrebbe divisato di estendere anche ad altre provincie le disposizioni contenute nelle leggi 27 giugno 1869, e 29 agosto 1875, colle quali appunto si provvide alla costruzione di strade provinciali in alcune provincie del regno, che più difettano di viabilità.”6 Con la circolare ministeriale del 22 luglio 1878, si chiedeva alla Provincia quali fossero le strade necessarie perché si potesse ritenere completa la rete delle strade provinciali, quale fosse l’ordine d’importanza e di precedenza da assegnarsi ad esse e quali fossero gli accordi intervenuti con le provincie confinanti per le strade d’interesse interprovinciale. Nella Relazione sulla viabilità del dicembre 1878, la Deputazione rispondeva compiutamente alle domande del Ministero, consapevole di dover cogliere l’importante occasione della legge in progetto e che dopo pochi anni si concretizzerà con la “Legge che autorizza la spesa di lire 225.126.704, per la costruzione di nuove opere straordinarie stradali ed idrauliche nel quindicennio 1881-1895”, del 23 luglio 1881, n. 333, 60


ASPg, ASPP, Progetto Strada di Tancia, Pianta generale della località per la Strada di Tancia, Tratto V°, Dall’edicola di Monte S. Giovanni al fosso Brulatte, 1884 (interno)

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con la quale si disponeva per la realizzazione delle opere, dichiarate di pubblica utilità, in essa comprese. Nell’“Elenco III annesso alla Tabella B., Elenco delle spese stradali provinciali da eseguirsi negli anni 18811895”, unito alla legge, si trovavano, insieme ad altre che interessavano la Provincia dell’Umbria, anche la strada Casciana per Monteleone; tronco dalla Forca di Ocosce per il villaggio di Ruscio a Leonessa e la strada Amerina da Guardea al Ponte sul Tevere. In conclusione e per riprendere il discorso sulle strade di cui si è parlato in principio, oggetto di revisione dell’elenco stradale, abbiamo appreso che nel 1883 un regio decreto aggiungeva all’elenco delle strade provinciali dell’Umbria quattro nuove strade e il tratto ultimato, grazie anche alla nuova legge, della strada Casciana per Monteleone. Nel 1884, un altro regio decreto modificava ancora l’elenco, includendovi le strade Umbro-Cortonese e Magione-Chiusi mentre per la costruzione definitiva della strada Amerina si dovrà attendere ancora molti anni.

Note 1

Per sottolineare l’importanza di questo elenco di nomi e descrizioni delle strade provinciali che potrebbe essere definito il primo “piano della viabilità” della Provincia dell’Umbria, si è deciso di pubblicarlo in questo numero della rivista (v. pp. 60 - 63).

2

A tal proposito si veda anche: D. Mori, La classificazione delle strade provinciali, in «Corrispondenze dall’Ottocento» n. 1, (2007), pp. 30 - 31.

3

La relazione intitolata “Classificazione delle strade provinciali, proposte circa il modo di costruzione di alcune strade presentate dalla Deputazione provinciale al Consiglio nella sessione straordinaria del maggio 1878”, pubblicata anche separatamente, si trova tra gli allegati degli Atti del Consiglio provinciale dell’Umbria nel 1878, Perugia 1878.

4

Richieste di sussidi per la costruzione delle strade erano rivolte con frequenza dai Comuni all’amministrazione provinciale che fu costretta a disciplinare la materia con un “Regolamento per l’assegnazione e il pagamento dei sussidi provinciali alle strade comunali obbligatorie” approvato dal Consiglio provinciale nella stessa adunanza del maggio 1878. A tal proposito si veda anche: G.B. Furiozzi, La provincia dell’Umbria dal 1871 al 1880, Provincia di Perugia, Perugia 1987, p. 44.

5

Relazione della Deputazione provinciale sulla viabilità presentata nella sessione straordinaria del dicembre 1878, pubblicata anche a parte, si trova tra gli allegati degli Atti del Consiglio provinciale dell’Umbria nel 1878, Perugia 1878.

6

Con la “Legge relativa alla costruzione di strade nazionali e provinciali nelle provincie meridionali continentali” del 27 giugno 1869 si stabiliva di costruire o terminare le strade nazionali e provinciali in essa elencate. Le strade provinciali diventavano obbligatorie ed erano suddivise in tre serie, secondo il modo in cui era ripartita la spesa tra lo Stato e le Provincia, tale suddivisione si ritrova anche nella “Legge che autorizza la spesa di lire 47.420.000 per la costruzione di strade nelle provincie che più ne difettano” del 30 maggio 1875.

61

CORRISPONDENZE

Corrispondenze dall’800


Corrispondenze dall’800

2/2008

ELENCO DELLE STRADE PROVINCIALI della Provincia dell’Umbria1

CORRISPONDENZE

NUMERO D’ORDINE

DENOMINAZIONE DELLE STRADE

DEL PUNTO OVE A CAPO

DEI LUOGHI PRINCIPALI PER CUI PASSA

DEL LUOGO OVE HA TERMINE

1

Strada Perugia-Cortona

Dalla porta Santa Croce di Perugia

Olmo, Magione e Passignano

Ponte sul fosso Buttinale, confine con la provincia di Arezzo

2

Strada Perugia-Foligno

Dalla porta di San Pietro di Perugia

Ponte S. Giovanni, Ospedalicchio, Bastia, S. M. Angeli

Porta Romana di Foligno

3

Strada Assisana

Ponte sul torrente Tescio nella strada Perugia-Foligno

Assisi e Casali delle Viole

Osteria del Passaggio nella Strada Perugia -Foligno

4

Strada Tuderte

Osteria della Pallotta sulla strada Perugia-Foligno, alla distanza di metri 567 dalla città di Perugia

Borgo di Deruta, Casalina, Todi, casale Berti, Castel Todino, Quadrelli, S. Gemini

Nella strada Flaminia, sotto la città di Narni

5

Strada Marscianese

Presso la Parrocchia di Monte Corneo sulla strada Tuderte

Villa S. Valentino di Cerqueto, Marsciano, S. Maria Liberatrice presso S. Venanzo ed Osteria dell’Ospedaletto, Caseggiato della Capretta

Cerquacola sulla strada Todi-Orvieto

6

Strada Todi -Orvieto

Porta Romana della città di Todi

Castello di Ponte Cuti, Osteria della Cerasa, Castello di Prodo, Osteria di Prato

In prossimità del Ponte sul fiume Paglia, nella strada Cassia-Orvietana

7

Strada Foligno-Todi

Dalla chiesa della Madonna della Fiamminga, sulla strada PerugiaFoligno, in vicinanza di Foligno

Caseggiato della Fiamminga, Bevagna, Osteria del Bastardo, in vicinanza del castello delle Torri e presso del mura del castello di Colvalenza

Casa Berti sulla strada Tuderte

8

Strada Massatana

Porta Nuova di Massa

Chiesa di S. Maria in Pantano

Strada Tuderte, deviazione delle Settevalli

9

Strada Cassia -Orvietana

Bivio di Monteleone sulla Pievaiola, in vicinanza di Città della Pieve

Sotto Monteleone, Borgo di Ficulle ed Orvieto

Confine con la Provincia di Viterbo

10

Strada Castrense

Castagno del Capitano sulla Cassia-Orvietana

11

Strada Eugubina

Porta Santa Margherita della città di Perugia

Villaggio del ponte Felcino, Osteria del Bosco, Villaggio della Colombella, Villa del Piccione, Osteria delle Casaccie, Caseggiato dello Scritto, Città di Gubbio

Al caseggiato della terra di Scheggia, nell’incontro della strada nazionale del Furlo

12

Strada dei Loggi

Presso l’Osteria del Bosco nella strada Eugubina

Caseggiato di Ponte S. Giovanni sulla strada Perugia-Foligno fino al Palazzone

Chiesa della Madonna del Piano sulla strada Tuderte

13

Strada di Valfabbrica

Villaggio del ponte Valleceppi sulla strada dei Loggi

Villa del Pianello, Valfabbrica e Casa Castalda

Cavalcavia presso la stazione di Gualdo Tadino, nella ferrovia Roma-Ancona

Confine con la Provincia di Viterbo, in prossimità del casale Pecorone

62


Corrispondenze dall’800

DENOMINAZIONE DELLE STRADE

DEL PUNTO OVE A CAPO

DEI LUOGHI PRINCIPALI PER CUI PASSA

DEL LUOGO OVE HA TERMINE

14

Strada della Branca

Colonnetta itineraria presso Gualdo Tadino, sulla strada nazionale del Furlo

Osteria della Branca

Porta S. Agostino della città di Gubbio

15

Strada Fossatana

Deviazione di Valentano sulla strada della Branca

Osteria del Mulinello e Borgo di Fossato, con deviazione per la stazione di Fossato di Vico sulla ferrovia Roma-Ancona

Sommità dell’Appennino al confine con la Provincia di Ancona

16

Strada Tifernate

Osteria del Bosco nella strada Eugubina

Casali delle Pulci, Osteria della Resina, Villa di Pierantonio, Umbertide, Casali di S. Lucia, Città di Castello

S. Giustino sulla strada Urbaniense

17

Strada Gubbio-Umbertide

Piazza della chiesa collegiale nella città di Umbertide, sulla Tifernate

Case di Campo Reggiano

Porta di Santa Lucia nella città di Gubbio

18

Strada della Mita

Ponte sul torrente Nicone nella strada Tifernate

19

Strada Citernese-Aretina

Porta del Prato di Città di Castello

Caseggiato di Lerchi

Confine con la Provincia di Arezzo, in vicinanza di Citerna

Strada Urbanienense

Ponte sul fosso Riascolo, in confine con la Provincia di Arezzo

S. Giustino, Case di Monte Giove ed Osteria di Valpiana

Bocca Trabaria sulla sommità dell’Appennino, confine con la Provincia di Urbino e Pesaro

21

Strada Pievaiola

Sulla strada Perugia-Cortona, al passaggio a livello presso la stazione ferroviaria di Perugia

Osteria di S. Sisto, Caseggiato delle Capanne, Osteria Nuova, Villaggio delle Tavernelle, Osteria del Piegaro, Città della Pieve

Confine con la Provincia di Siena in vicinanza della stazione di Chiusi

22

Strada di Strozzacappone

Osteria dell’Ellera sulla strada Perugia-Cortona

Presso la stazione dell’Ellera sulla ferrovia Aretina

Osteria di Strozzacappone nella strada Pievaiola

23

Strada Piegarese

Dall’Osteria del Piegaro sulla Pievaiola

Sotto il Piegaro

Presso Monteleone di Orvieto sulla Cassia - Orvietana

24

Strada Castiglionese

Bivio di Panicale sulla strada Pievaiola

Case di Migliaiola, Villa delle Macchie e sotto Castiglion del Lago

Case di Bencino, al confine con la Provincia di Arezzo

25

Strada Pozzuolese

Strada Castiglionese, presso Castiglion del Lago

Villa di Pozzuolo

Confine con la Provincia di Siena, presso le cosiddette Fornacelle

26

Strada Flaminia

Dalla Porta Romana di Foligno

Trevi, Spoleto, Terni, Narni e Otricoli

Ponte Felice sul Tevere, confine con la Comarca di Roma

27

Strada Nursina

Presso Spoleto, a metri 150 distante da esso, sulla strada Flaminia

Villaggio di Grotti, Piedipaterno, Borgo Cerreto, Triponzo, Serravalle, Norcia

Al confine tra la Provincia Umbra e quella di Ascoli

28

Strada Vissana

Nella Nursina, presso Triponzo

Presso l’Abbazia denominata di S. Lazzaro

A Pontenuovo sul Nera, distante da Visso metri 4958, 80

29

Strada Abruzzese

Alla Nursina, presso la chiesa di Santa Scolastica

Savelli e Civita di Cascia

All’inforcatura di Terrarossa, confine con la Provincia di Aquila

20

Ponte sul fosso della Mita, in confine con la Provincia di Arezzo

63

CORRISPONDENZE

NUMERO D’ORDINE

2/2008


Corrispondenze dall’800

CORRISPONDENZE

NUMERO D’ORDINE

DENOMINAZIONE DELLE STRADE

DEL PUNTO OVE A CAPO

2/2008

DEI LUOGHI PRINCIPALI PER CUI PASSA

DEL LUOGO OVE HA TERMINE

30

Strada Casciana

A Serravalle sulla Nursina

S. Anatolia

Cascia

31

Strada Spoleto-Todi

A metri 100 distante da Spoleto sulla strada Flaminia

Pontebari, Bruna, Mercatello

Presso l’Osteria del Bastardo sulla strada Foligno-Todi

32

Strada Sellanese

Osteria di Casenuove sulla strada nazionale di Colfiorito

Casenuove, Rasiglia, Villamagina, Sellano

Al borgo di Cerreto nella strada Nursina

33

Strada Terni-Rieti

Memoria di Pio VI sulla strada nazionale dell’Umbria, n. 30

Casino Vincenti presso il ponte di Terria

Madonna dei Frustati presso Rieti

34

Strada Arronese

All’arma di papa Urbano, dopo Strettura, sulla strada Flaminia

Montefranco, Arrone

Presso l’Osteria di Ponte Catenaccio, sulla strada nazionale dell’Umbria

35

Strada Ternana per Cantalupo

Alla strada Flaminia presso Terni

Osteria di Configni, Osteria di Vacone, e Cantalupo in Sabina

Passo di Corese sulla strada Quinzia

36

Strada Sangeminese

Terni

Campitelli

Tuderte presso S. Gemini

37

Strada Valnerina

Città di Terni, porta Spoletina

Arrone, Ferentillo, Scheggino, Castel S. Felice

A Pedipaterno, sulla strada Nursina

38

Strada Narni-Amelia

Dalla Tuderte, sotto Narni, presso il Ponte sul Nera

Casale Erroli denominato Cammartane

Amelia

39

Strada Amerina

Amelia

Lugnano, Gurdea, Tenaglie

Ad una nuova stazione sulla riva sinistra del Tevere, presso il ponte di ferro della Ferrovia od a quella di Castiglione

40

Strada Quinzia

Porta Romana di Rieti

San Giovanni Reatino, presso Torricella, presso l’Osteria Nuova e l’Osteria di Nerola nella Comarca di Roma

Ponte al Passo Corese, confine con la Comarca di Roma

41

Strada di Tancia

Porta Romana di Rieti

Collebaccaro, Poggio Fidoni,Cerchiara, Osteria di Tancia

Poggio Mirteto

42

Strada di Fontecerro

Presso il ponte sul torrente Canera nella strada di Tancia

Presso Contigliano per Fontecerro, sotto Cottanello

Alla Ternana per Cantalupo, presso l’Osteria di Vacone, dicontro alla consorziale di Magaliansabina

43

Strada del Turano

Dal passo di Belmonte sulla Quinzia

Convento di Roccasinibalda, Posticciola, presso Monte di Tora, Castel di Tora, Paganico, Ascrea

Sul fosso di confine fra la Provincia Umbra e quella di Aquila nei piani di Collalto

44

Strada Orviniense

Dalla via Quinzia presso ponte Romeano

Poggio Moiano sotto Pozzaglia e presso Orvinio

Confine con la Comarca di Roma

45

Strada di Poggio Mirteto

Dalla Quinzia presso Osteria Nuova

Monte Santa Maria, Castelnuovo di Farfa, Granari, Torlonia, e Montopoli

Un ramo a Poggio Mirteto e l’altro alla Colonnetta della Memoria sulla Ternana per Cantalupo

64


Corrispondenze dall’800

NUMERO D’ORDINE

DENOMINAZIONE DELLE STRADE

DEL PUNTO OVE A CAPO

2/2008

DEI LUOGHI PRINCIPALI PER CUI PASSA

DEL LUOGO OVE HA TERMINE

Strada per Finocchietto

Da Poggio Mirteto

Sotto Poggio Catino, Catino presso Roccantica, alle Forche di Aspra, sotto Montasola e Cottanello

Sulla Ternana per Cantalupo, al ponte sul torrente Finocchietto

47

Strada di Montorso

Dalla Ternana per Catalupo, al punto detto i Piani di Montorso

Chiesa della Madonna della Misericordia

Presso Poggio Mirteto al trivio detto di Santa Teresa

48

Strada Sabina

Da due punti sulla Ternana per Catalupo, uno denominato Laja Galantina e l’altro detto i Colli di Torri

Il primo tratto sotto Gavignano alla Madonna del Nocchieto, presso Stimigliano, Madonna del Piano

Il primo tratto sulla Flaminia a Pontefelice, il secondo raggiunge il primo presso Laja Vescovio

49

Strada consorziale di Magliansabina

Magliansabina

Madonna della Neve, Montebuono, Tarano e Rocchetta

Sulla via Ternana per Cantalupo, presso l’Osteria del Vacone

50

Strada consorziale di Fara

Da Fara

Cappella Boccardi

Al ponte di Granica sulla strada di Poggio Mirteto

CORRISPONDENZE

46

Nota 1

Nell’elenco che pubblichiamo, trascritto dal regio decreto 11 agosto 1870, n. 5827, sono descritte cinquanta strade provinciali per un totale di chilometri 1512. Nel 1878, dopo il passaggio da provinciale a nazionale della strada Urbaniense, la n. 20 e da nazionale a provinciale del tratto della Flaminia, che andava dalla chiesa di S. Paolo a Foligno fino all’Osteria del Gatto, si era arrivati a chilometri 1530. L’elenco resterà lo stesso per tutti gli anni Settanta dell’Ottocento e solo con il regio decreto 17 maggio 1883 saranno aggiunte quattro nuove strade: “1.° Strada dalla provinciale Pergola Fabriano presso Sassoferrato a Scheggia sulla nazionale n. 29 da Fano al confine romano; 2.° Strada dalla nazionale di Rieti per Labro e Morro al confine provinciale verso Leonessa; 3.° Strada da Città di Castello per Apecchia e Piobbico alla nazionale di Fossombrone; 4.° Strada Orte-Amelia e ponte sul Tevere ecc.”

65


Corrispondenze dall’800

2/2008

Il Consiglio Provinciale nell’ultimo lustro degli anni Settanta LAURA ZAZZERINI

Consiglio Provinciale nel secondo lustro degli anni Settanta Ile ldell’Ottocento si rinnova con tornate elettorali a cadenza annuale con quali si provvede alla sostituzione di un quinto degli eletti. La

CORRISPONDENZE

Presidenza del Consiglio passa dalle mani del perugino Reginaldo Ansidei, che occupa la carica nel biennio 1876-’78, a quelle dello spoletino Luigi Pianciani che, eletto Presidente nel 1879, ad un mese dall’elezione alla carica di consigliere, verrà riconfermato nell’incarico a vita. Capo della Provincia in qualità di Prefetto rimane ancora Benedetto Maramotti.

Giuseppe Connestabile della Staffa, foto b.n. (Collezione privata)

Giuseppe Conestabile della Staffa (Perugia 1850-Eboli 1934) Primogenito del conte Scipione, sostenuto all’inizio della sua carriera politica dai clericali, passa nelle elezioni amministrative del 1892 alle liste liberal-monarchiche. Consigliere comunale e provinciale, viene eletto Presidente della Deputazione provinciale nel 1906. Nel 1903 sta per essere eletto sindaco della città di Perugia dopo Ulisse Rocchi, ma la sua nomina presta il fianco a troppe critiche a causa della sua forte passione per il gioco che lo ha portato a sperperare tutto il patrimonio di famiglia perdendo in una sola notte la tenuta e la villa di Valvitiano e così tra i perugini c’è chi dice in quell’occasione: “Se facem sindaco Peppino ce gioca anche la font de Piazz, ce gioca!”. Al suo posto viene eletto Luciano Valentini. Giuseppe Conestabile ricopre anche gli incarichi di Presidente della Banca Popolare Cooperativa e dell’Accademia dei Filedoni. Nel 1912 è membro della Commissione unica nominata dal Comune e dalla Provincia per studiare la riforma universitaria: nella sua relazione propone l’abolizione della Facoltà di Medicina e delle annesse Scuole di Veterinaria e il potenziamento della Facoltà di Giurisprudenza. Le controrelazioni avranno la meglio e la situazione dell’Università di Perugia resterà immutata fino alla regificazione del 19251. “Iscrittosi al Partito Fascista fin dalla prima ora, servì il Regime come Podestà e Commissario in centri importanti della Provincia romana, ove ha lasciato di sé il più caro ricordo”. Nelle ultime ore della sua vita “ricevuti i conforti religiosi, volle indossare la camicia nera ed essere avvolto nel tricolore”2.

66


Luigi Pianciani, cartolina commemorativa (Collezione privata)

2/2008

Luigi Pianciani (Roma 1810-Spoleto 1890) Nasce in seno a una famiglia aristocratica, cattolica e papalina, figlio primogenito del conte spoletino Vincenzo e di Amalia dei principi romani Ruspoli. Riceve la sua prima educazione nella scuola dei Gesuiti e prosegue gli studi nell’Ateneo romano studiando legge. Laureatosi a vent’anni, svolge l’apprendistato professionale in qualità di segretario nello studio dello zio materno, monsignor Alessandro Ruspoli, uditore presso la Sacra Rota, ma tarda ad ottenere l’iscrizione all’albo che conseguirà soltanto tre anni e mezzo più tardi3. Negli anni Trenta dell’Ottocento Luigi Pianciani, forse deluso dall’attività forense che non gli restituisce le soddisfazioni sperate, torna a Spoleto per occuparsi delle attività e proprietà di famiglia. Qui si dedica anche in prima persona alla Cassa di Risparmio di Spoleto, che in quegli anni si trova a dover affrontare un delicato problema di indirizzo politico, ricevendo tra l’altro l’incarico di redigere una pubblicazione capace di diffondere opportunamente le finalità dell’istituto finanziario, ma il lavoro rimane inedito4. Più o meno a quegli stessi anni risale il suo impiego nell’amministrazione delle Dogane Pontificie ove opera come Ispettore generale in varie città dell’Umbria e delle Marche, una carica onorifica che mantiene fino al 1845. Il neoguelfismo di Pianciani presente nelle opere Considerazioni sullo Stato Pontificio e Saggio sulla riforma delle prigioni nello Stato Pontificio si spegne con il 1848, quando spinto dalla fuga di Pio IX a Gaeta egli si scopre un fervente democratico di dichiarata fede mazziniana, fortemente avverso al dominio temporale dei papi. L’11 giugno 1849 Luigi Pianciani viene arrestato dai Francesi sul Ponte Salario mentre tenta di rientrare a Roma per partecipare alla difesa della Repubblica Romana. Scarcerato il 15 luglio, si reca in esilio prima a Parigi e poi a Londra, Oxford, Bruxelles, Basilea e Ginevra5. Tornato a Spoleto nel 1861, l’anno successivo vi fonda la Società di Mutuo Soccorso. Nel 1865 sia i cittadini di Spoleto, sia quelli di Poggio Mirteto lo eleggono: Pianciani opta per il primo Collegio, segnalandosi alla Camera con interventi di natura politica e amministrativa, ma soprattutto contro il potere temporale della Chiesa invitando il Governo a marciare su Roma. Nelle elezioni del 1867 ottiene la rielezione a Bozzolo in provincia di Mantova. Da allora mantiene sempre la carica di deputato, eletto dal 1876 in poi nei collegi romani di Roma V (Trastevere) e Roma I (Monti). È per due volte sindaco di Roma6 e avrebbe ricoperto la carica di sindaco di Roma una terza volta nel 1889 se la legge sull’incompatibilità delle cariche entrata in vigore l’anno precedente non glielo avesse impedito. Diventa membro del Consiglio provinciale di Perugia una prima volta nel 1861 subentrando a un consigliere rinunciatario e rimane in carica per due anni, poi viene rieletto nel 1878 e il 26 agosto dello stesso anno diviene Presidente del Consiglio provinciale. Si spegne poco dopo, il 17 ottobre 1890, rinunciando ai conforti religiosi, coerente con ideali con i quali era vissuto.

Giovanni Battista Polidori (Montecastrilli sec. XIX) Si trova a Roma, dove si era recato a studiare Giurisprudenza, nel 1847 quando viene invitato a iscriversi nei ruoli della Guardia civica cittadina. Caduta la Repubblica Romana prende la via del Piemonte e da qui raggiunge Nizza dove si guadagna da vivere impartendo lezioni di lingua e letteratura italiana. A Nizza si impegna nel dibattito politico per la causa 67

CORRISPONDENZE

Corrispondenze dall’800


Corrispondenze dall’800

2/2008

CORRISPONDENZE

italiana e dà alle stampe nel 1856 Roma e il Congresso di Parigi, un’opera nella quale sostiene che “la prima fonte dei nostri danni è l’osceno connubio tra lo scettro e la tiara”7. Nel novembre del 1859 viene impiegato come segretario generale del Ministero della Pubblica Istruzione e Beneficenza in Romagna e nel mese successivo come capo divisione del Ministero della Pubblica Istruzione in Emilia, mentre nel maggio del 1860 è capo divisione dello stesso Ministero a Torino. Con l’Unità Polidori può rientrare a Montecastrilli: il Commissario generale Pepoli lo nomina prima vice commissario a Norcia e poi a Terni. Con l’arrivo del Gualterio viene destinato quale intendente di seconda classe a Borgataro e in seguito all’avanzamento di carriera viene destinato alle sedi di Avezzano, Firenzuola e Imola. Successivamente è prefetto di Caltanisetta e infine a Sondrio fino a quando verrà messo a riposo nel 1876. Viene eletto consigliere provinciale nel 1877 e deputato alla Camera nel 1880, ma vi rimase soltanto per un mese perché l’elezione venne annullata e si procedette nuovamente al ballottaggio tra lui e Paolano Frenfanelli in quanto dal nuovo ballottaggio tra lui e Paolano Frenfanelli, seguito all’annullamento della precedente elezione, risultò vincitore quest’ultimo8.

Ulisse Rocchi, foto b.n. (Comune di Perugia)

Ulisse Rocchi (Perugia 1836-1919) Completati gli studi di medicina presso l’ateneo cittadino presta servizio come medico nei ranghi militari prendendo parte attiva alle guerre d’indipendenza. Rientrato a Perugia diviene direttore dell’Ospedale civico e nel 1874 fonda il quotidiano «La Provincia», di stampo democratico e radicale, dichiaratamente anticlericale. Viene eletto nel 1877 consigliere provinciale e rimarrà nel Consiglio per trent’anni. Nel 1878, come esponente del partito progressista-radicale, diventa sindaco di Perugia, carica che riveste fino al 1885 per poi essere rieletto dal 1893 al 1902. La sua amministrazione viene ricordata per aver aperto le porte della città alla modernità avendola dotata di strutture estremamente importanti quali il tram, la nuova conduttura idrica e la rete elettrica cittadina. A completarne il profilo di uomo pubblico sono le presidenze dell’Istituto di Mutuo Soccorso, della Società Veterani e Reduci delle Patrie Battaglie e dell’Opera Pia Donini. Ulisse Rocchi “era un bell’uomo dagli occhi chiari e dolci e con i capelli che davano al biondo. Portava un colletto inamidato chiuso davanti, di un aspetto che oggi chiameremmo ecclesiastico, con una cravatta a piastra, baffoni a gronza senza punta e mosca sotto il labbro inferiore”9, ma quello che ricordano di lui amici e avversari politici è il suo carattere “adamantino” e “integerrimo”10. Viene infatti riconosciuto come “una coscienza senza macchia e senza paura, un uomo che aveva vissuto la sua lunga vita consacrando tutte le energie della sua mente eletta e della sua anima nobilissima al pubblico bene”, un uomo che in tutte le alte cariche ricoperte aveva portato “insieme all’onestà più austera, il criterio più illuminato, un senso di praticità e di genialità come difficilmente accade di ritrovare in quelli che assurgono ai fastigi dei poteri dirigenti”11. Gli avversari politici ne ammirarono la chiarezza e la coerenza di una persona “che in ogni lotta, in ogni competizione di partito, seppe meritare la stima e il rispetto”12. Fedele ai suoi principi, sempre apertamente professati e al suo sistema di vita, Ulisse Rocchi chiede nelle sue ultime volontà un funerale civile al quale venga tolta ogni forma di solennità. Non vi furono fiori, vi fu soltanto il discorso del sindaco Valentini eppure seguirono la salma in silenzio migliaia di perugini costernati dalla morte di colui che per tanti anni era sembrato vegliare da sulla città.

68


Corrispondenze dall’800

2/2008

1

Le notizie biografiche su Giuseppe Conestabile della Staffa sono tratte da L. Catanelli, Usi e costumi nel territorio perugino agli inizi del ’900, Edizioni dell’Arquata, Foligno 1987 e da U. Ranieri di Sorbello, Perugia della Bell’Epoca, Volumnia, Perugia 1970.

2

«Assalto. Settimanale dei fasci umbro-sabini», 30/10/1934.

3

Sulla sua educazione e sulla sua formazione di avvocato si vedano V. Pirro, Luigi Pianciani gonfaloniere di Spoleto e cittadino d’Italia, in R. Ugolini (a cura di), Luigi Pianciani tra riforme e rivoluzione, ESI, Napoli 1992, pp. 270-271 e F. Mazzonis, L’attività politica di Luigi Pianciani in Umbria, in R. Ugolini (a cura di), Vincenzo e Luigi Pianciani ed il loro tempo, Cassa di Risparmio di Spoleto, Spoleto 1988, p. 62.

4

La pubblicazione Istruzione Popolare è conservata in Archivio di Stato di Roma, Carte Pianciani, b. 63, f. 13. Su di essa si veda F. Mazzonis, L’attività politica di Luigi Pianciani in Umbria, cit., pp. 64-65 e n. 30.

5

Sul periodo dell’esilio si veda il saggio di R. Ugolini, Luigi Pianciani negli anni dell’esilio, in R. Ugolini (a cura di), Vincenzo e Luigi Pianciani ed il loro tempo, cit., pp. 13-28.

6

Una prima volta dal 16/11/1872 al 26/7/1874 e una seconda volta dal 30/9/1881 al 18/5/1882.

7

La citazione è riferita da Z. Cerquaglia, Il Comune di Montecastrilli da Napoleone all’Unità d’Italia, Ediart, Terni 1999, p. 155.

8

Le notizie biografiche sono tratte da Z. Cerquaglia, cit., mentre le informazioni relative alla sua elezione alla Camera dei Deputati sono tratte da T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, 1890, p. 253, in SAUR, I, 800, 601.

9

U. Ranieri di Sorbello, Perugia della Bell’Epoca, Volumnia, Perugia 1970, p. 272.

10

I due aggettivi sono presenti sia nel necrologio de «Il Popolo. Organo dei repubblicani umbro-sabini» (2/3/1919) sia in quello de «L’Unione liberale. Corriere dell’Umbria» (24/2/1919).

11

«Il Popolo. Organo dei repubblicani umbro-sabini», 2/3/1919.

12

«L’Unione liberale. Corriere dell’Umbria», 24/2/1919.

69

CORRISPONDENZE

Note


Corrispondenze dall’800

2/2008

“Monumentomania”. La statuaria commemorativa in Umbria negli anni ’70 dell’Ottocento MATTEO ROSSI

CORRISPONDENZE

agli anni ’70 del XIX secolo ha inizio anche in Umbria il fenomeD no noto oggi con l’appellativo di “monumentomania”, fenomeno davvero imponente che tanto contraddistinse la penisola italiana negli

Monumento all’Alunno, Foligno (Comune di Foligno)

anni all’indomani dell’Unità. L’epopea risorgimentale aveva avuto la sua lunga vicenda di lotte ed ardimenti, i suoi eroi e i suoi modelli, le sue guide spirituali e politiche che si volevano ora celebrare e additare alle generazioni future; la grande diffusione della scultura celebrativa sembrò rispondere pienamente all’esigenza di costruire un repertorio iconico dal forte valore simbolico, capace quindi di educare la popolazione ad una coscienza nazionale, ai nuovi valori civili e sociali, alle nuove ideologie politiche. È a questo scopo che si moltiplicarono concorsi e sottoscrizioni popolari per l’erezione di statue e monumenti ai “padri della patria”, Garibaldi su tutti, e ai tanti eroi che parteciparono alle battaglie indipendentiste anche a prezzo della vita. Pur in questo comune obiettivo di unificazione, nessuna regione o città volle tuttavia perdere la propria peculiare identità: così se da un lato s’invocava l’intervento accentratore dello Stato nello sviluppo di una cultura nazionale, dall’altro si auspicava che quello stesso intervento non mortificasse troppo le specificità locali. Ciò illustra l’altra faccia della “monumentomania” italiana, contraddistinta dall’erezione di monumenti e lapidi in onore dei genii loci, quegli illustri concittadini della storia passata distintosi per opere o imprese degne di prestigio non solo locale: un’intensa progettualità che affianca quella in onore degli eroi nazionali. Non sarà un caso allora che la prima opera scultorea pubblica ad aprire la “monumentomania” umbra sarà a gloria di Niccolò di Liberatore, detto “L’Alunno”, pittore folignate del XV secolo. Sebbene inaugurato nel 1872, il monumento era stato ideato fin dal 1865 quando l’artista di Foligno Ottaviano Ottaviani ne aveva illustrato il progetto al Consiglio comunale, il quale, entusiasta, aveva istituito un comitato con il compito di svolgere tutte le necessarie operazioni tra cui quella di reperire fondi mediante una pubblica sottoscrizione. Oltre alla cittadinanza e al Comune, che fu costretto a versare onerose quote per fronteggiare continui inaspettati intoppi, i costi furono coperti grazie ad apporti economici di diversa provenienza fra i quali quelli della Cassa di Risparmio di Foligno che tuttavia non fu, come si è creduto, il maggior contribuente1. Non semplice fu la scelta del luogo ove erigere la statua: alla decisione definitiva si giunse solo dopo un attento studio del comitato che collaudò varie zone cittadine per poi preferire l’odierna piazza Alunno, non solo per la buona illuminazione e per la corretta prospet70


Monumento Vittorio Emanuele II, Città di Castello (Comune di Città di Castello)

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tiva che l’area avrebbe concesso all’opera ma anche perché, dirimpetto alla stazione ferroviaria, il monumento avrebbe degnamente accolto qualsiasi forestiero giunto a Foligno tramite treno; come spesso si verificò in altre città per analoghe iniziative, anche a Foligno l’erezione della statua comportò un intervento di riqualificazione dell’area urbana interessata2 ma non solo poiché l’inaugurazione del monumento, avvenuta il 22 settembre 1872 alla presenza del ministro della Pubblica Istruzione A. Scialoja3, rinnovò radicalmente l’interesse nei confronti dell’Alunno4aprendo le porte ad una decisiva rivalutazione critica dell’artista che toccò il suo apice nella Mostra d’Arte Antica Umbra del 1907, nella quale all’Alunno venne dedicata un’intera sala espositiva. L’elegante basamento ideato dal ternano Benedetto Faustini e realizzato dallo scultore folignate Nicola Brunelli possiede ai lati i ritratti marmorei del Perugino e di Raffaello posti a ricordare come l’Alunno fu precursore di quei due geni; nella parte posteriore invece appare lo stemma della città di Foligno mentre in quella anteriore la consueta formula dedicatoria. Sembra che per il ritratto dell’Alunno, Ottaviani si ispirò al personaggio con berretto sulla destra nel dipinto Il Martirio di S. Bartolomeo (1503) nel quale fu anticamente riconosciuto il volto del pittore5. Alla fine degli anni ’70 fu la morte di Vittorio Emanuele II a dare vigoroso impulso alla scultura celebrativa: in tutta Italia si moltiplicarono manifestazioni e onoranze funebri e non meno fece l’Umbria che commemorò il sovrano il 12 febbraio 1878 a Perugia; in quell’occasione fu inaugurato nel cortile del Palazzo della Provincia il busto marmoreo con l’effige del sabaudo modellato da A. Passalboni, monumento non più in loco anche perché soppiantato dalla bronzea statua equestre di piazza Italia, opera più degna ad onorare il sovrano dell’indipendenza nazionale, voluta dai perugini proprio dal 1878 ovvero quando si capì la necessità di un monumento che non sfigurasse nei confronti di quello in onore di papa Giulio III, sito all’esterno della cattedrale di S. Lorenzo. Nel resto dell’Umbria la dipartita del “re galantuomo” segnò l’avvio di iniziative tese a celebrarne degnamente il ricordo ma che tuttavia vedranno realizzazione solamente negli anni seguenti. Così Città di Castello e Spoleto: nel 1878 entrambe decretarono l’erezione di un monumento al sabaudo ma mentre il primo vedrà la luce soltanto nel 1906, grazie all’Associazione Liberale Monarchica tifernate che commissionò il lavoro a V. Rosignoli, a Spoleto la statua sarà inaugurata nel

Monumento V. Emanuele II di Spoleto, era in piazza della Libertà ora non è più esistente, cartolina (Collezione privata)

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Monumento V. Emanuele II di Foligno, non più esistente, (tratta da Lutto della città di Foligno per la morte del re Vittorio Emanuele II, Foligno 1879)

Monumento ai caduti del 1859-1860 nel cimitero monumentale di Monterone (Perugia)

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1892 ma solo dopo continue vicissitudini. Nello stesso 1878 Terni volle esprimere il proprio cordoglio per la dipartita del sovrano con l’apposizione nella sala consiliare di una targa con medaglione bronzeo realizzato da O. Ottaviani (operazione che subirà proroghe fino al 1885)6 mentre Foligno progettò la lapide, con medaglione sempre di mano dell’Ottaviani, posta nella facciata del Palazzo municipale; l’opera negli anni dopo la II Guerra mondiale fu sostituita, probabilmente in quanto deturpata dai bombardamenti o a seguito della fine della monarchia, con quella odierna in memoria ai caduti. Anche al di fuori della commemorazione del defunto sovrano, molti furono i progetti celebrativi concepiti negli anni 70 e destinati a concretizzarsi negli anni seguenti; come la lapide folignate a Mazzini e a Quadrio, voluta dal 1877 ma affissa nel 1880, o quella in ricordo ai “Fattori dell’Unità d’Italia” nel portico di Palazzo dei Priori a Perugia, deliberata fin dal 1872 ma inaugurata solo nel 1886; non si scordi neppure che la celebre statua di S. Francesco (oggi all’interno della cattedrale di S. Rufino) fu commissionata, per le celebrazioni centenarie del santo ad Assisi del 1882, al senese Giovanni Duprè fin dalla fine degli anni ’70 così come quella di S. Benedetto da Norcia, deliberata dalle autorità nel 1879. Nello stesso 1879 G. De Angelis promosse l’erezione in piazza Italia di un monumento che immortalasse i tragici fatti accaduti a Perugia nel giugno 1859: il progetto si concretizzerà nel 1909 con l’obelisco di Giuseppe Frenguelli al Frontone; tuttavia, nel 1875, nel Civico Cimitero perugino fu innalzato il monumento ai Caduti di quel drammatico evento, con l’urna contenente le spoglie di quegli eroi sovrastata dalla turrita Perugia che detta l’epigrafe al Genio della Storia; il monumento realizzato da Ettore Salvatori prevedeva pure la presenza del Grifo, purtroppo rubato recentemente. Il monumento ai Caduti è uno dei primi del camposanto che proprio dagli anni 70 avviava i lavori di ampliamento diretti dall’Arienti destinati altresì, con l’innesto di molteplici opere funerarie private, a rendere il cimitero “monumentale”. Una scultura, quella a cavallo fra XIX e XX secolo, che anche in Umbria trovò esito nelle piazze, nelle vie e nei cimiteri delle plurime città della regione.

Note 1

Nel rendiconto dell’anno 1868 della Cassa di Risparmio vengono annotate £. 270 per il pagamento di metà di 12 azioni sottoscritte per l’erezione della statua all’Alunno, mentre nel resoconto per l’anno 1870 altre £. 270 sono segnate come “saldo di 12 azioni della Società della Statua all’Alunno”; infine, fra le spese per l’anno 1872 sono riportate £. 500 per le feste d’inaugurazione del monumento che portano il contributo della banca a un totale di £. 1.040. Vedi Archivio di Stato Sezione di Foligno, Moderno, Serie II, Cassa di Risparmio di Foligno, b. 1452.

2

Nel 1872, su progetto dell’ingegnere Pio Pizzamiglio, furono realizzati i due caselli della cinta daziaria tuttora esistenti, per la cui costruzione fu abbattuto il medievale ingresso di corso Cavour.

3

I festeggiamenti continuarono il 23 e 24 settembre; vedi «Corriere dell’Umbria», n. 146, 148, 149 e 150 rispettivamente del 21, 24, 25 e 26 settembre 1872.

4

In concomitanza all’inaugurazione del monumento, molteplici furono le iniziative fra cui le pubblicazioni di C. A. Meschia (Di Niccolò da Foligno detto l’Alunno e del suo monumento), di S. Frenfanelli (Niccolò l’Alunno e la scuola umbra) e di A. Rossi (I pittori di Foligno nel secolo d’oro delle arti italiane).

5

Il dipinto, rimasto incompiuto per l’improvvisa morte dell’Alunno, fu portato a termine dal figlio Lattanzio che, secondo una tradizione oggi ritenuta alquanto dubbia, volle dare al personaggio suddetto le sembianze del padre.

6

Oggi l’opera non esiste più in quanto distrutta dai bombardamenti della II Guerra mondiale che colpirono il vecchio Palazzo municipale sede dell’odierna Biblioteca comunale di Terni.

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Echi di cronaca locale: 1876 - 1880 LAURA ZAZZERINI

Orazio Antinori, foto b.n. (Università degli Studi di Perugia)

La Corsa dei Ceri, foto b.n. (Comune di Gubbio)

per la spedizione in Africa equatoriale di Orazio Antinori1. A Todi l’esattore del dazio consumo trova in casa di due macellai carne di maiale di contrabbando: riesce a sequestrare due animali, ma il il terzo animale non riesce a trovarlo. Il giorno seguente nella Chiesa di Sant’Antonio un’anziana signora “si accosta al confessionale e va per prendere la mano del suo padre spirituale per portarla alla bocca. Santi del cielo. La vecchierella invece di trovare la mano morbida e delicata del servo di Dio strinse nelle sue scarne dita qualche cosa di strano. Pensò al diavolo, mise un grido e svenne”: il maiale era stato nascosto nel confessionale2! Nel mese di marzo sulla linea ferroviaria Terontola-Chiusi due treni, uno diretto a Perugia e l’altro a Roma, “prima di lasciarsi si diedero un caldo amplesso sulla rotaia di scambio” portando al deragliamento di quattro vagoni “e se non s’ebbero a lamentare disgrazie ciò devesi attribuire all’abilità e al sangue freddo del macchinista del treno diretto a Roma”3. Sempre nello stesso mese nel Circondario di Rieti viene soppresso il Comune di Rocchette che contava soltanto 388 abitanti e annesso a quello di Torri4. A Perugia inizia in aprile la demolizione della Chiesa di Santa Maria degli Aratri: “Un tale che di là passava vedendo quella operazione ha esclamato. Tò demoliscono un pezzo del Paese!”5. A Ponte Felcino muore un operaio di sentimenti liberali che “non credeva niente in materia religiosa”: portato in chiesa, venne rigettato in strada; fu allora deciso di seppellirlo fuori dalla città, ma la popolazione non lo permise “dicendo che ciò avrebbe portato sfortuna e volle che fosse bruciato. Infatti fu dato fuoco al cadavere, dopo averlo unto con acqua ragia”: si faticò non poco a salvare dal fuoco uno dei becchini…6. A Gubbio durante la Corsa dei Ceri il maltempo imperversa tanto che i ceraioli, tesi più che mai, finiscono per prendersi a coltellate provocando un morto e un ferito grave: i giornalisti pregano i religiosi di sfatare la credenza secondo la quale le ferite d’arma bianca inferte durante la festa dei Ceri per miracolo verrebbero sanate da Sant’Ubaldo. A giugno «Il Paese» grida allo scandalo perché a Perugia si è costituita una nuova Associazione Monarchico-Costituzionale che tra le altre cose persegue la libertà di culto7. A San Sepolcro alcuni abitanti propongono di cambiare il nome al paese in favore di “Biturgia”8. Nel mese di luglio si inaugura nella cattedrale di Terni la “nuova balustrata” a protezione del presbiterio realizzata dall’architetto ternano Betto Faustini e molto ammirata per il contrasto che il marmo bianco di Carrara produceva con il colorito scuro 73

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l 1876 si apre con l’omaggio della poetessa Alinda Bonacci Brunamonti IMonnier, della prima copia dell’edizione dei suoi versi, stampati dall’editore Le “alla sua Perugia”, mentre il Club Alpino Italiano raccoglie fondi


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dell’altare9. A Perugia invece ci si lamenta perché le strade risultano più pulite delle botteghe e perché l’ex monastero di Santa Caterina in Porta Sant’Angelo è stato trasformato in un’osteria dove “l’esalazione de’ mosti e de’ vini hanno già annerito le pitture e la muffa vi ha fiorito sopra”10. In settembre sempre a Perugia iniziano i lavori di sistemazione del Corso diretti dall’ingegnere comunale Alessandro Arienti: l’opera è accolta con ammirazione ed apprezzamento, ma taluni cittadini manifestano qualche disagio dopo essere inciampati sulle macerie11. In novembre il regolare svolgimento della Fiera dei Morti viene ad essere compromesso da una nevicata davvero straordinaria12. L’11 maggio del 1877 muore a Gubbio, lasciando a sua memoria tra l’altro uno splendido parco, Francesco Ranghiasci Brancaleoni, Cameriere segreto di Cappa e Spada di Sua Santità13 e il 21 luglio si spegne a Perugia l’illustre archeologo Giancarlo Conestabile della Staffa14. Sotto il portico del Palazzo provinciale di Perugia, nel febbraio 1878 si inaugura il busto di Vittorio Emanuele II realizzato da Giulio Passalboni, allievo dell’Accademia di belle arti di Perugia, con i fondi raccolti dall’associazione monarchica e dal giornale «Il Progresso»15. Il 14 luglio a Nocera Umbra lo stabilimento dei Bagni Minerali e idroterapici dà inizio alla propria attività, diretto dal celebre professore romano Pietro Castiglioni, mentre parte per Roma monsignor Luigi Rotelli per essere preconizzato Vescovo di Montefiascone16. A fine mese esce la terza edizione riveduta e corretta della Guida illustrata di Perugia di Giovanni Battista Rossi Scotti arricchita di 12 litografie di Tilli17. In settembre quattro scosse di terremoto lasciano a Montefalco centinaia di persone senza tetto. Nel Duomo di Perugia viene esposta una tavola di Ulisse Ribustini raffigurante la Vergine con il Bambino che non piace troppo ai redattori de «Il Paese» perché nei volti “manca quel non so che di celeste e soprannaturale” che si addice alle figure sacre18. Il 31 marzo 1879 muore l’insigne matematico e chimico Sebastiano Purgotti e il 2 aprile si spegne Luigi Bonazzi “un eletto ingegno portato alle lettere”19. Il 17 agosto inaugura a Perugia l’Esposizione provinciale e per l’occasione il fotografo Cesare Polozzi mette in vendita 12 vedute dei principali monumenti cittadini20. Sempre a Perugia in occasione del XII Congresso Alpino Italiano giungono 60 mila alpinisti “tutti giovani allegri ed aitanti della

Annibale Angelini, L’interno della cupola di San Pietro ripreso dall’alto in giù. L’opera fu presentata all’Esposizione provinciale del 1879

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persona”21. Ad ottobre fa scandalo a Foligno un giornaletto anticlericale che prima si stampava soltanto a Terni, «Il Cittadino ternano», tanto che già dal numero del 19 ottobre una comunicazione ministeriale ne vieta la circolazione in città22. Il 1880 si apre con un periodo di carestia: a Umbertide il sindaco Giuseppe Savelli dispone perché siano distribuite gratuitamente 200 minestre al giorno e la Società di San Vincenzo a Città di Castello provvede a distribuirne 50023. A Perugia in maggio si decide il restauro del Palazzo vescovile con graffiti di Marzio Cherubini su disegni di Domenico Bruschi24. A Costacciaro, grazie alla maestria dell’ingegnere Bernardino Bartoletti che tramite tubature di terracotta “inverniciata” e un lungo sifone in ghisa riesce a portare l’acqua della sorgente Scirca in piazza, termina la penuria idrica25. In agosto Guglielmo Calderini presenta i progetti per decorare gli esterni del Duomo di San Lorenzo a Perugia26. L’Arcivescovo di Spoleto il 20 di agosto verifica le condizioni del corpo di santa Chiara di Montefalco morta nel 1308 e, tolte le vesti, i medici al suo seguito trovano che il corpo “era fino ad allora rimasto non solo incorrotto, ma anche flessibile e nelle braccia e nelle stesse cartilagini delle orecchie”27. Due lutti segnano tristemente gli ultimi mesi dell’anno: il 29 novembre muore Giuseppe Borgia Mandolini che era stato Gonfaloniere della città al tempo del Governo Pontificio mentre il 1° dicembre si spegne il capo del partito repubblicano Annibale Vecchi alla cui farmacia a partire dal 1848 avevano fatto capo tutti i liberali perugini28.

Note 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28

«Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 4/1/1876 e 14/1/1876. «Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 26/1/1876. «Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 9/3/1876. «Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 15/3/1876. «Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 8/4/1876. «Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 22/4/1876. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 10/6/1876. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 17/6/1876. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 22/7/1876. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 29/7/1876, 5/8/1876 e 11/4/1878. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 2/9/1876 e «Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 26/2/1877. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 4/11/1876. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 26/5/1877. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 28/7/1877. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 14/1/1877, 16/2/1877 e «Corriere dell’Umbria. Giornale politico, economico, amministrativo», 14/2/1877. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 13/7/1878. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 27/7/1878. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 28/9/1878. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 5/4/1879. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 23/8/1879. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 30/8/1879. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 25/10/1879. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 17/1/1880 e 24/1/1880. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 8/5/1880 e 3/7/1880. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 31/7/1880. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 14/8/1880. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 11/9/1880. «Il Paese. Rivista settimanale dell’Umbria», 4/12/1880 e «Il Progresso. Corriere dell’Umbria», 2/12/1880 e 4/12/1880.

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Tre anni di letteratura. «La favilla»: 1877-1879 GABRIELE DE VERIS

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l giornale «La Favilla. Rivista di letteratura e di educazione», fondato Idiffusione e diretto da Leopoldo Tiberi e Giovanni Piccini, fu uno dei luoghi di e di dibattito culturali nella Perugia del tempo. Iniziò le sue «La Favilla», 1877 (Biblioteca Comunale Augusta, Perugia)

pubblicazioni nel gennaio 1869 e le concluse nel 1910, con una lunga interruzione tra il 1879 e il 1886. Nelle sue pagine – stampate prima a Perugia, poi in Assisi e poi nuovamente in Perugia – diede spazio ai letterati e agli eruditi, ospitò poesie e saggi, fornì una ricca panoramica delle nuove pubblicazioni. Per dare conto della varietà del contenuto della rivista esaminiamo le annate tra il 1877 e il 1879, in cui uscirono 12 fascicoli della rivista, con una numerazione abbinata. Il primo numero (fasc I-I) del 12 aprile 1877 comprendeva un saggio di P. E. Castagnola (Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio); poesie e traduzioni; In Tunisia. Note di viaggi e studi di Giuseppe Bellucci, un resoconto di viaggio che si snoda lungo tutto l’anno e si concluderà con i fascicoli III-IV dell’agosto 1978; una sezione bibliografica curata da G. Sangiorgio e C. Berarducci. Nel fascicolo III-IV del 15 giugno 1877, oltre a varie poesi e e saggi, e ad una versione latina di un poemetto (Uranie) di Manzoni, si apre una Polemica letteraria, a firma di Cesare Berarducci, riguardante un articolo di P.E. Francesconi (Profili letterari. Ettore Barili, in Rivista Subalpina del 13 maggio 1877), e il suo giudizio sui poeti umbri, colpevoli di non cantare la vita dell’Umbria e dei suoi abitanti, di essere troppo convenzionali e antiquati. Berarducci 76


«La Favilla», 8-4-1876 (Biblioteca Comunale Augusta, Perugia)

«La Favilla», 8-4-1876 (Biblioteca Comunale Augusta, Perugia)

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ricorda le opere di Tiberi, Morandi, Bini, Brunamonti (“che, quantunque donna, riflette così bene ne’ versi suoi quella malinconia che è, per usare un frase del Carducci, la forma del mistero dell’essere e dello strazio sociale dell’età nostra, e canta la Natura e la Scienza...”). A Berarducci replicherà – come riportato in nota – lo stesso Francesconi, che smorza i toni della polemica e anzi lodando i poeti umbri. Il fascicolo V-VI del 5 agosto 1877 si apre con un lungo e interssante saggio di P. E. Castagnola (Origini della lingua italiana), in cui si ripercorrono le tappe della nascita della lingua italiana, alla luce delle teorie di Cesare Cantù e Ariodante Fabretti, fino ad affermare la derivazione dell’italiano dal latino rustico: “io mi ardisco asseverare che la lingua nostra, piuttosto che chiamarsi figliuola della latina, dee dirsi discesa in linea più retta da quell’idoma, da cui tutti gl’italiani dialetti, compreso il latino plebeo, erano derivati” (p. 180). Nel numero successivo (fasc. VII-VIII) la rivista ospita un commento alle Odi barbare, un saggio sulla pedagogia (Della pedagogia nelle sue armonie e antinomie, di Giuseppe Samosca), una Relazione di un viaggio alla Luna di Pico Sabellico (che si protrae nei due numeri successivi), e una ricca messe di Notizie letterarie, brevi o brevissime informazioni sul mondo culturale e la società del tempo: “Si annunzia il progetto d’innalzare a Perpignano una statua a Francesco Arago e a Lione un monumento al fisico Ampere” (p. 352); oppure “La Gazzetta Calabrese racconta che a Camorda (Aquila) il maestro comunale andò dal Sindaco a chiedere il suo stipendio. I Sindaco gli diede invece un carico di legnate, accompagnandolo con una grandine di vituperi” (p. 355); e ancora: “Il ministro della pubblica istruzione intende aprire il concorso per un sillabario o libro di lettura per le scuole elementari e rurali e di un altro sillabario o libro di lettura per le scuole elementari urbane.” (p. 358). L’ultimo numero del 1877 (fasc IX-X) comprende fra gli altri il seguito degli articoli di Sabellico e Bellucci, un saggio di Pier Leone Cecchi (Torquato Tasso e la vita italiana nel XVI secolo), e una ricca sezione bibliografica. Il pimo numero del 1878 (fasc. XI-XII) è dedicato in gran parte alla morte del re Vittorio Emanuele II (9 gennaio 1878), sono infatti presenti tre carmi di Gnoli, Bini Cima e Bonacci Brunamonti (In morte del primo re d’Italia. Canto funebre): “Vorrei cantar: ma tremano Le potenze dell’anima nel pianto: Chiede silenti lacrime Questo lugubre giorno e sdegna il canto” (p. 510) Nel numero successivo (fasc I-II, 8 giugno 1878) Leopoldo Tiberi pubblica Il Palazzo del Popolo a Perugia, componimento poetico composto nel 1872 in occasione di nozze, e ripubblicato in occasione del restauro del palazzo: “E tu di torri incoronata ergesti la tua fronte, o Perugia, amabil gemma degli umbri colli, e il popol tuo di leggi E d’armi si guernì. Nell’ombre è ascoso Di tue franchigie comunali il primo Ricordo. Invan dimandi all’astro e al fiore L’istante in cui nel ciel l’uno s’affaccia L’altro nel prato”. (p. 94) Nel fascicolo III-IV (9 agosto 1878) viene riportato il Discorso letto nel teatro Metastasio d’Asisi per la distribuzione de’premi dell’esposizione di Belle Arti, Industrie ed Agricoltura nell’ottobre 1873 di Antonio Cristofani: 77

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“A me non resta che fare un confidente appello allo zelo intelligente d’ogni ordine di cittadini, pregandoli per quanto hanno a cuore i vantaggi morali e materiali della patria loro ed aiutare i nobili intendimenti della nostra accademia.” (p. 181) Il fascicolo V-VI del 30 settembre 1878 contiene Una poetessa, saggio di C. U. Posocco su Maria Alinda Bonacci Brunamonti, e un inno (Guerra alla guerra) dello stesso autore: “Dai monti, dai piani – dell’itala terra Un grido risuoni – Sia guerra alla guerra. Sia guerra alla guerra – cruenta, fatale, Che danna migliaia – di vite a perir; Che, come la folgore, – i popoli assale E lascia le spose, – le madri languir.” L’ultimo numero dell’anno (fasc. VII-VIII, 22 dicembre) contiene diversi scritti di Posocco e di Giulio Gurrieri. Il numero successivo della rivista esce solamente a luglio (24 luglio 1879, fssc IX-X), con un saggio sulle varianti dei Promessi Sposi (a opera di Ferranti e Meschia) e uno sul Consavo di Leopardi (G. Frosina Cannella). Il 31 dicembre 1879 esce l’ultimo numero del periodico (fasc XI-XII). Troviamo alcuni componimenti per il 12. congresso degli Club alpino italiano (Bini Cima, Brunamonti, Tiberi, Rossi Scotti), un discorso di Cesare Ragnotti sul metodo didattico di Sebastiano Purgotti (17991879), scienziato, bibliotecario e insegnante; alcuni scritti (Brunelli, Guerrieri, Cozza) dedicati alla mostra di arte antica dell’agosto e settembre 1879; infine l’indice del IX anno. «La Favilla» con questo numero sospende le pubblicazioni per un lungo periodo, riprendendole nel 1886.

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Veduta esterna della Basilica di San Pietro. L’unica opera nota di Marino Angelini ALESSANDRA MIGLIORATI

Nella pagina seguente: Marino Angelini (Perugia 1844 - 1902), veduta esterna della Basilica di San Pietro, 1879, olio su tela, cm 120 x 102 (Perugia, Collezione privata)

tura di veduta e paesaggio, che aldilà di ritardi, chiusure e perdite di testimonianze, ha tuttavia dimostrato una sua presenza costante e precipua validità fin dalla metà del secolo, incrementata, nel periodo postunitario, da un allargamento di contatti e mercato oltre i confini regionali. Protagonisti certamente i già titolati Matteo Tassi, Giuseppe Rossi, Napoleone Verga ed Annibale Angelini, quest’ultimo non solo ottimo prospettico e vedutista ma anche sensibile interprete alla Vertunni della campagna romana, o ancora, in chiusura di secolo, solo per citarne alcuni, Ulisse Ribustini, Gigliarelli, Rossi Scotti, lo spoletino Moscatelli, o il ternano, nutrito alla scuola partenopea del “vero”, Alceste Campriani. Ma in quel contesto presenza fra le più interessanti certamente quella di Marino Angelini, figlio d’arte del più celebre Annibale, felicissima riscoperta di questi ultimi anni grazie a questo prezioso dipinto, unico noto a tutt’oggi del pittore. La tela, realizzata mentre il padre era impegnato in lavori di doratura all’interno della basilica romana, venne presentata dal pittore all’Accademia di Belle Arti di Perugia nel 1879 nella stessa esposizione in cui Annibale figurava con i tre dipinti prospettici dell’Interno della basilica di S.Pietro in Roma, della Cupola della Basilica di S. Pietro vista da sotto e della Cupola della basilica di S. Pietro vista dall’alto oggi nella Galleria Nazionale dell’Umbria. Vissuto a seguito del padre fra Roma e Perugia e con questi formatosi all’Accademia di S. Luca, Marino avrebbe anche lui poi praticato con discreto successo il genere prospettico e paesaggistico affinando ulteriormente quell’attenzione verso inquadrature meno scenografiche ed effetti di luce più naturalistici già certificati nell’opera di Annibale fin dal settimo decennio del secolo. A questi risultati, tanto per Annibale, quanto più per Marino era sicuramente determinante il lungo permanere nel cosmopolita ambiente romano dove, superfluo ricordarlo, ai locali pittori di paesaggio si sommava la massiccia presenza di artisti stranieri giunti nella capitale assetati della luce e delle bellezze naturali italiane. Ma altrettanto significativi dovevano essere per entrambi i soggiorni a Napoli, dove Annibale insegnava presso l’Istituto Reale fin dai primi anni Sessanta e dove non mancava di guardare ai più recenti esiti della locale scuola di paesaggio traendo spunto per uno dei suoi dipinti più suggestivi, Tramonto del sole del 1867, dall’Ofantino che un ancor giovane De Nittis presentava in quello stesso anno all’Esposizione Provinciale napoletana prima del definitivo trasferimento a Parigi. Da queste sollecitazioni quella luminosità intensa che esalta, nell’originalità del taglio prospettico, la mole della cupola michelangiolesca ritagliata sullo sfondo di rosati cumulonembi, fa muovere piacevolmente lo sguardo nella penombra della scalinata in primo piano ed annota le anonime presenze umane del frate e delle signore in abiti d’epoca.

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e opere presentate nella mostra “Arte in Umbria nell’Ottocento” (2006) illuminarono, è proprio il caso di dire, la realtà di una storia della pittuL ra umbra dell’Ottocento per gran parte ancora da scrivere, quella della pit-


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A colloquio con Erminia Irace FRANCESCO FELICI

postdottorato presso il Dipartimento di Scienze storiche dell'Università degli Studi di Perugia. Dal 1999 è ricercatore di Storia moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia. Le sue ricerche si sono sviluppate lungo due filoni principali, aventi entrambi per oggetto la storia dell’Italia moderna, in particolare il territorio dello Stato pontificio, e riguardanti rispettivamente: le dinamiche di costruzione e di riproduzione del “sistema patrizio” e le pratiche della memoria culturale in ambito nobiliare, municipale e, nella lunga durata, nazionale. D Gli storici sono concordi nel sostenere che l’Umbria ha condiviso la progressiva marginalizzazione dello Stato Pontificio in campo economico e sociale. Questo fatto riguardava anche le attività culturali? R Indubbiamente anche le attività culturali erano interessate da questa marginalità, tuttavia, parlerei più di marginalità riferita alla “società periferica” che alla sfera individuale. Già nel corso del trentennio preunitario, soprattutto a Perugia, alcuni salotti erano sede di importanti fermenti che contribuivano a rendere meno negativo il quadro. Inoltre, nel capoluogo possiamo citare due esempi di eccellenza: l’Università e il manicomio, che godevano di stima a livello nazionale. A mio avviso, è una caratteristica degli umbri quella della “rimozione di cose importanti”, un’analisi più approfondita ci consente di affermare che questo “mito della marginalità” è stato eccessivamente coltivato.

Erminia Irace, Itale glorie, Il Mulino, Bologna 2003

D Possiamo accennare brevemente alla situazione dell’istruzione prima e dopo il 1860? R Se pensiamo al sistema dell’istruzione è evidente che era nelle mani del clero e che era in condizioni pessime. Facevano eccezione soltanto quelle famiglie che potevano permettersi un precettore. Il nuovo stato puntava molto sulla scuola e sull’ istruzione ed almeno inizialmente operò una laicizzazione totale del sistema. Chiaramente rimaneva una scuola d’élite che privilegiava il genere maschile, tuttavia la rottura con il passato era netta e l’impegno della nuova amministrazione molto deciso. 81

INTERVISTA AGLI AUTORI

Irace laureata in Paleografia e diplomatica sotto la guida di Ericercarmina Attilio Bartoli Langeli, nel 1993 ha conseguito il titolo di dottore di in Storia urbana e rurale, usufruendo in seguito di una borsa


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Noi storici abbiamo spesso sottovalutato l’impatto che questo nuovo sistema scolastico ebbe nella società che si stava ridefinendo. D Come si posero gli intellettuali davanti alle novità portate dallo stato unitario? R I primi venti anni furono di grande partecipazione e coinvolgimento nelle nuove dinamiche, in primis coloro che avevano partecipato al Risorgimento, poi anche gli altri, quelli meno politicizzati, quando capirono che non si sarebbe tornati indietro offrirono il loro contributo. Investivano molto sulla “sprovincializzazione dell’Umbria”, ma in realtà, questo investimento andò in gran parte deluso. Pensiamo all’Università che rimase vincolata al finanziamento municipale e che quindi non ebbe lo sviluppo che ci si aspettava.

INTERVISTA AGLI AUTORI

Erminia Irace, La nobiltà bifronte, Unicopli, Milano 1995

D Possiamo tracciare un breve profilo della situazione culturale nelle principali città della Provincia dell’Umbria? R Si parla molto delle esperienze legate a Perugia, Assisi e Spoleto, meno di altre realtà molto interessanti quali Foligno e Gubbio. Perugia, obbiettivamente era il luogo più vivace in quanto sede di più poli di aggregazione culturale: l’Accademia dei Filedoni, i salotti, l’Università, le scuole superiori e una pubblicistica specializzata. Nelle altre città umbre, ad eccezione di Terni, dopo il 1860, si andava riorganizzando la vita culturale attorno alle accademie. Con la rottura dell’antico isolamento e l’avvicinamento a nuove esperienze, si percepiva non solo la necessità di un aggiornamento culturale, ma anche l’esigenza di difendere e rafforzare le identità locali e le vocazioni municipali. Queste finalità emergono nell’attività di Achille Sanzi a Spoleto e di Antonio Cristofani ad Assisi. Entrambi contribuirono alla salvaguardia del patrimoni librario messo a repentaglio dalle soppressioni delle corporazioni religiose. Sanzi si dedicò completamente alla valorizzazione della sua città dopo la delusione per la abolizione della provincia spoletina e durante la sua segreteria l’Accademia degli Ottusi (poi Spoletina) si trasformò in una “associazione di studi indirizzata a pubblica utilità”. Cristofani e l’Accademia Properziana miravano anch’essi alla diffusione dell’immagine di Assisi collocata in un contesto nazionale ma esaltandone la specificità dovuta alla storia francescana. Significativa e degna di approfondimento fu l’attività che si svolse a Foligno, legata agli snodi viari, ed aperta a al transito delle persone che portavano con sé un bagaglio di conoscenze spesso del tutto nuove. Particolare è il caso di Gubbio. Molti eugubini parteciparono attivamente al Risorgimento, viaggiarono e conobbero persone con le quali mantennero contatti anche dopo l’unità. Questi scambi, di per sé già culturalmente rilevanti, contribuirono non poco alla rivitalizzazione dell’ambiente intellettuale eugubino. Recentemente si sono tenute mostre e convegni che si sono occupate di quelle esperienze, il che mi pare un buon segno per che crede alla “necessità di non dimenticare”. D Che rapporto c’era tra cultura e politica? R In realtà, uomini colti e politici spesso coincidevano, oppure appartenevano alla stessa famiglia, o ancora finanziavano o scrivevano sulla stampa locale. Soprattutto questo contribuiva alla mancanza di un ruolo sistematico di spirito critico e ad una spiccata autoreferenzialità che acuiva, in un’area comunque ancora periferica, “lo scarso decollo di una opinione pubblica moderna e critica”. A cavallo tra i due secoli cultura e politica ancora coincidono ma 82


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INTERVISTA AGLI AUTORI

dalla consapevolezza che non sono ancora stati risolti i vecchi ritardi della provincia matura la convinzione che sia ormai superata la spinta della vecchia generazione risorgimentale, che non è stata capace di imprimere un impulso dinamico adeguato.

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