Creativity 01 - Inverno 2013

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Come segnalavo sopra, mi piace ritrovare il tratto blasé della visione di G. Mora nelle caratteristiche formali dell’immagine. Mi ripeto, le sue foto sono scattate preferibilmente tra le 17.00 e le 19.00, quando il cielo delle città si presenta azzurro grigio o biancastro. Questa scelta mi ha indotto a pensare che l’artista non voleva cadere nella trappola del naturalismo o degli stereotipi fotografici. Non vedo nemmeno nelle sue immagini l’aspetto spesso un po’ ebete della bella fotografia, tutta forma e contenuti rispettabili. Aggiungerei che G. Mora è indifferente anche nei confronti del perbenismo fotografico, il punto di vista che vorrebbe vincolare le immagini ad un a-priori etico, schierandosi nettamente su posizioni che potremmo definire scettiche o ciniche (rispetto l’attuale assiologia dei valori fotografici). Ma se accettassimo questa impostazione dovremmo definire il punto di vista del fotografo uno sguardo critico (sulla città, sugli edifici più evidenti di una metropoli etc..). Il problema è che più ci penso e maggiore è l’impressione che G. Mora si ponga aldilà della critica o dell’analisi (dei punti di rottura o di forza) delle città che mette nel mirino. Definirei pertanto la visione di Mora, uno sguardo dadaista sulla metacittà. Ovvero l’emblema architettonico che finisce davanti al suo obiettivo, sembra subire di colpo uno straniamento che ne annulla le magnificenze, destinandolo ad un gioco di interpretazioni dal sapore nuovo. Le composizioni di fotografie di diversi edifici, esaltano il bricolage di significazioni che frantumano l’idea che queste strutture abbiano i valori abitabili e rassicuranti che in qualche modo ho messo in discussione sopra. La bellezza di questi polittici insensati dal punto di vista della logica delle immagini, ha più a che fare con ciò che nella cultura giapponese viene definito wabi-sabi, piuttosto che appellarsi al To Kalon greco. Wabi è la bellezza dell’asimmetria, dell’imperfezione; Sabi significa solitudine ovvero l’assenza dell’entusiasmo tipicamente occidentale di fronte alla bellezza intesa come eccitamento. G. Mora usa il wabi-sabi per ricordarci, attraverso le immagini degli edifici di solito presentati come il culmine delle passioni costruttive dell’uomo, il retrogusto leggermente amaro della loro ruvida inadeguatezza, dell’imperfezione scivolosa che in ultima analisi li rende Altri rispetto le nostre vite. Suppongo che sia la percezione della loro non-esistenza rispetto al nostro senso dell’abitare a rendere così squisita ed evocativa la loro visione.

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