Vario 63

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63 dicembre 2007

Direttore responsabile

Claudio Carella Redazione

Antonella Da Fermo (grafica e foto), Fabrizio Gentile (testi), Mimmo Lusito (grafica), Giovanna Porcaro (marketing) Hanno collaborato a questo numero

Guido Alferj, Michele Camiscia, Stefano Campetta, Giuseppe Capone, Marina Catena, Andrea Carella, Michela Ciavatta, Annamaria Cirillo, Galliano Cocco, Sergio D’Agostino, Giacomo D’Angelo, Roberto De Liberato, Piero Di Silvestro, Ugo Del Castello, Enzo Fimiani, Laura Grignoli, Silvia Jammarrone, Roberto Mingardi, Cristina Mosca, Daniela Peca, Giovanna Romeo, Fabio Trippetti, Ivano Villani, Eugenia Zangardi.

Editing AB Puzzle Pescara Progetto grafico Ad. Venture - Compagnia di comunicazione Stampa e Fotolito Litografia Botolini - Rocca S. Giovanni (Ch) Allestimento Legatoria D’Ancona - Cepagatti (Pe) Claudio Carella Editore Autorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Copia singola Euro 4,50 Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 24, estero Euro 40 Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 34296 Fax 085 27132 www.vario.it redazione@vario.it

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PESCARA-ROMA NO STOP BIGLIETTO ON-LINE

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* servizio estivo 15/6 - 15/9

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Sommario 6

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INCHIESTA Gente di Walter SPECIALE NEVE Abruzzo regione bianca MEDIAMUSEUM Affetti speciali PERSONAGGIO Marina Catena

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PERSONAGGIO Francesco Vantaggio PERSONAGGIO Piero Di Silvestro EVENTI Assist Mediterraneo 22

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VARIO 5 STELLE RISTORANTI Villa Maiella VINO Bosco Nestore 28

OLIO Ursini

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HOTEL Rigopiano EVENTI Convention Food&Wine 2007 EVENTI Il tralcetto di Zaccagnini

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RIBALTA ARTE Gabriella Abertini LETTERATURA Marco Patricelli 55

TEATRO Il treno della valle TEATRO Recensioni LETTERATURA Recensioni CINEMA Roberto Pedicini

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MUSICA Santino Spinelli MUSICA Recensioni FOTOGRAFIA La mostra sulla Provincia di Pescara

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In copertina: Giulia Tenaglia

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Inchiesta/Il Partito democratico di Sergio D’Agostino foto Antonella Da Fermo

Le aspirazioni, i valori, i miti e i tabù degli under 35 a disposizione del Cittì del Piddì.

Lasciati alle spalle Cipputi e le ideologie dei padri, invocano la politica del “fare” ben decisi a dire la loro 6

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I

l Partito democratico? È l’ultima chiamata utile per saltare sul treno della buona politica. Parola dei giovani del Piddì, ovvero quel Partito democratico che gazebo e primarie hanno tenuto a battesimo a metà ottobre incoronando Walter Veltroni segretario nazionale e Luciano D’Alfonso segretario regionale, dopo l’autodissoluzione che i promotori -Democratici di sinistra e Margheritaavevano decretato in primavera delle rispettive formazioni, decidendo di confluire nella stessa casa comune.

Lontani dalla visione del mondo di mamme, papà e fratelli maggiori che furono figicciotti (nel senso di Federazione giovanile comunista) o giovani Diccì, sono stati fino all’altro ieri Sinistra giovanile o giovani della Margherita, ma spesso niente altro che spettatori distratti delle cose della politica. Nessuno di loro ha mai declinato l’impegno nel segno dell’internazionalismo proletario, del fuori l’Italia dalla Nato, della difesa della presenza cristiana nella società assediata dall’assalto secolare. No: la politica, la new generation del Pd la preferisce coi piedi ben piantati per terra, meno fumo e più fatti, più concretezza e meno sermoni. Generazione lontana dalle piazze e vicina al mouse, orfana senza rimpianti di Cipputi e del “Che”, in qualche caso ha già sperimentato della politica le rudezze e la feroce selezione che impone: per questo conosce già bene del gioco le regole e il lessico, ma sarebbe sbagliato raffigurarli solo come promettenti “polli di batteria” .

Arruolati durante le primarie di ottobre sotto le diverse bandiere di Veltroni, Letta o della Bindi, in Abruzzo di D’Alfonso o del rivale Ginoble, hanno forse per primi deposto l’ascia di guerra, lanciando la loro particolarissima “Opa” sul futuro partito: solo che l’offerta d’acquisto vogliono sia nelle mani di un azionariato diffuso, di cui loro si immaginano come Consob. Hanno deciso di giocare in proprio, e sul ponte di comando in molti dovranno fare i conti con la pattuglia degli under 35, soprattutto quando da ex diessini o margheritini scopriranno il piacere di fiutarsi, fare fronte comune, andare alla conta.

Nell’attesa, scrivono il loro manifesto politico. Invocano discontinuità con la vecchia politica, anche a costo di fare un dispetto ai “padri fondatori”, Ds e Margherita, che guardano con rispetto ma anche una certa dose di disincanto e diffidenza, timorosi che alla fine tutto si riveli frutto di una fusione a freddo, senza passioni e senza slanci; perchè soprattutto non vogliono un partito autoreferenziale, privo di antenne nella società. Non parlano apertamente di

LE DOMANDE >A cosa e a chi serve il PD? >Che cosa non dovrà mai fare o mai essere? >Qual è il suo valore di riferimento? >C’è una priorità politica? >Il PD ha un Pantheon? >Di che colore è?

casta, ma forse è solo questione di pudore e di linguaggio politicamente corretto. Difficilmente parteciperanno a un “vaffa day”, ma tutto congiura nel far pensare che percepiscano i professionisti della politica e i “culi di pietra” che pensano solo ad autoperpetuare il proprio potere come il nemico da battere. Sull’agenda delle priorità dettano il loro punto di vista: come per la lotta al precariato, che già in tanti vivono sulla propria pelle o temono di incrociare alla prossima svolta che conta della vita. È la priorità delle priorità: perchè tra un mercato del lavoro che ti trasforma in un oggetto e l’esigenza di flessibilità, parola amata nel nuovo partito, loro dicono che vengono prima le tutele.

Ancora, chiedono a gran voce la riforma della legge elettorale, perché è urgente disfarsi del “porcellum” di Calderoli, restituire lo scettro ai cittadini. Di un Pantheon del nuovo partito, i più preferirebbero evitare che la creatura nascesse già zavorrata di altarini, icone e santini, che insomma odori troppo d’incenso. Per chi l’ideologia l’ha studiata solo sui banchi di scuola, meglio cambiare pagina, provare a scrivere su un foglio bianco. Se proprio uno sforzo va fatto, nell’album di famiglia c’è spazio soprattutto per Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, pionieri di una unità tra sinistra e cattolici che oggi prende un corpo e un nome. Oppure per chi, come Nelson Mandela, con la forza delle proprie idee è riuscito a cambiare il corso della storia.

Dalle ideologie che hanno segnato il Novecento e incendiato i cuori delle generazioni che li hanno preceduti, sono distanti come un tifoso del Milan dalla curva dell’Inter: credono invece sia giusto pescare le idee migliori in circolazione, magari attinte senza gerarchie prestabilite, in nome di un sincretismo che è figlio di una visione disincantata e pragmatica della realtà, ma forse anche di una certa saggezza che spinge a chiudere con le overdosi ideologiche del passato. Non sarà un caso, allora, che quasi a sorpresa elevino merito e meritocrazia a valori di riferimento della futura formazione. Del colore, infine, nonostante le origini affondino nel biancofiore e nella rossa bandiera, la mozione dei sentimenti non li attrae più di tanto. Così, piacciono soprattutto l’arancione (colore di sintesi), che ha il pregio di essere acceso come le idee e le passioni che tutti, senza distinzione, vogliono siano alla base del “loro” Piddì. Oppure l’arcobaleno che coglie meglio di qualsiasi altra immagine l’idea che si sono fatti di un partito dove dovranno trovar casa, e pari dignità, idee e percorsi molto diversi.

Giulia Tenaglia 18 anni, Pescara, studentessa «Dovrà creare un argine alla sfiducia verso la politica, soprattutto tra i giovani che pensano sia solo un “mangiamangia”: tutti uguali, destra e sinistra. Non dovrà essere la somma dei partiti che lo costituiscono, sarebbe solo gioco di maggioranze e minoranze. Valori? Rispetto verso le differenze, tolleranza e legalità, regole. Priorità? La riforma elettorale, la lotta al precariato, la riforma delle pensioni. Trovo difficoltà a indicare riferimenti ideali: non si tratta di rinnegare le origini, ma di guardare avanti. Lo vedo molto rosso, forse per la tradizione; e verde, come la bandiera dell’Ulivo».

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Daniela Valenza Federica Mariotti

26 anni, Sulmona, legale «Serve a ridare la fiducia verso una “sinistra” davvero progressista, in grado di affrontare la modernità e prospettare nuovi obiettivi. Per questo non dovrà nascere solo come mera fusione tra Ds e Margherita. Serve a rinnovare la classe dirigente, a rafforzare la stessa dialettica politica. Non dovrà mai adottare gli schemi della vecchia partitocrazia, nè di una politica autoreferenziale. Valore guida? L’umiltà, cioè capacità di ascolto. Prioritaria è la lotta al precariato: il futuro è rappresentato da una generazione di giovani che, allo stato, vede svalutato il proprio talento ed il proprio lavoro. Modelli? Tanti quelli del passato cui guardare, ma spero si possa esprimere una figura di leader rappresentativa. Colore? Il giallo».

25 anni, San Salvo, laureanda

Alessio Paolini 16 anni, Pescara, studente «Dovrà servire alla società nel suo complesso, evitare di perdersi dietro le contingenze: in epoca di scarse differenze, le idee contano. Partito democratico vuol dire espressione della polis e dell’uguaglianza: sarà questo il valore di riferimento, con tolleranza e laicità, perchè etica e morale non sono appannaggio esclusivo della Chiesa.

Importante sarà farlo nascere, questo partito e farsi capire dalla gente. Sbagliati i modelli precostituiti, il bello è non averne. Colore? Penso a bianco e nero: il primo li contiene tutti, il secondo è l’apertura alla diversità, la mancanza di pregiudizio».

«Serve a dare una nuova speranza all’Italia, ai tanti giovani che fino ad ora hanno guardato dalla finestra perché non si sentivano a casa propria in partiti troppo vecchi, e che invece hanno voglia di dire la propria e partecipare. Il Pd non dovrà essere verticistico. Quanto ai valori, al primo posto metto la sincerità, perché per essere sinceri ci vuole coraggio. Priorità? Un patto generazionale, per riequilibrare una società sempre più tenace nel conservare rendite e privilegi acquisiti, sempre più avida nel dispensare opportunità per i propri figli. I miei modelli? Enrico Berlinguer e Aldo Moro, perché hanno dimostrato che la buona politica è un servizio per il Paese. Quanto al colore, dico arancione: perché si trova tra il rosso, la passione, e il giallo, la gelosia: due sentimenti forti».

Antonio Iannamorelli 30 anni, Sulmona, collaboratore ministero della Salute «Serve all'Italia, perchè offre un grande partito a tutti coloro che vogliono cambiare le cose, e sono la maggioranza. Non dovrà mai chiudere gli occhi, impacchettarsi in un sistema politico che così non può andare lontano.Valore guida? La libertà: ma non "da" qualcosa, come nel '900, ma "per". Poi, le nuove generazioni: perché sviluppino il proprio progetto di vita, scommettano su se stesse. Prioritaria è la riforma elettorale, reintroducendo la preferenza, e la drastica diminuzione di ministri e sottosegretari, per riavvicinare i cittadini alla cosa pubblica. Nel Pantheon metto Aldo Moro: immaginò ciò che sarebbe accaduto, indicando la via dell' "innovazione attenta e senza retorica". Il colore? Arancione, mischia il bianco e il rosso».

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Marco Rapino 23 anni, Pescara, studente universitario «Dovrà essere il partito dei giovani e delle donne, o non sarà. Dovrà puntare su temi come il lavoro, dove si sconta deficit di riformismo, abbattere la precarietà, assicurando flessibilità: fare la stessa cosa nella vita non appaga, ma neppure diventare una merce. Non dovrà autoconservarsi: cozza con aspirazioni maggioritarie. Le priorità? La legge elettorale, il distacco dalla politica nasce anche da lì. Il modello? Il socialismo liberale dei fratelli Rosselli, e Bob Kennedy, Enrico Berlinguer.

E D’Alema, che ha rilanciato l’Italia in Europa.

Colore? Arancione. Rosso diluito, acceso: il Pd è a tinte forti».

Francesco Verzella 24 anni Spoltore, studente universitario «Ne ha bisogno la politica per cambiare natura. E la società, dove si assiste al ritorno dell’antipolitica da destra e sinistra. Serve ai cittadini e ai giovani, che nonostante studi, viaggi all’estero e specializzazioni hanno difficoltà a trovare lavoro. Non dovrà riproporre le logiche dei partiti attuali, della cooptazione; al contrario, premiare il merito, che anche per colpa della sinistra è stato negato. Ok sulle liberalizzazioni, che hanno un’essenza di sinistra. Non vedo figure di spicco da inserire in un Pantheon, neppure un colore solo, ma i colori dell’arcobaleno della pace».

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Chiara Coppa Zuccari Luigi Di Marco

33 anni, Pescara, insegnante e musicologa

Eleonora Chierici

23 anni, Cugnoli, studente universitario

22 anni, Spoltore, studentessa universitaria

«Serve a dare risposte al Paese su lavoro, formazione, ambiente, economia. A noi giovani per pensare al futuro. Non dovrà ripetere gli errori tipici dei partiti: soliti volti, solite correnti. Il Pd non è solo una somma, perciò largo al valore della discontinuità, così come alla partecipazione: vanno rimessi al primo posto il cittadino, i problemi semplici della gente, nessuno crede più a chiacchiere e ideologie. Priorità è la legge elettorale, che deve permettere di scegliere, deve ridare il coltello dalla parte del manico agli elettori. Modelli non sono necessari, alla guida ci vuole chi conosce bene la realtà. Quanto al colore vedo bene il bianco: perchè è neutro e ci mette tutti d’accordo».

«Serve a interpretare un’esigenza di innovazione della politica in cui si mescolano generazioni e culture un tempo distanti, ma che oggi intendono partecipare in modo paritario. Dovrà essere più vicino alla società civile, per respingere il rischio incombente dell’antipolitica, mantener fede a un’idea di sintesi di culture democratiche diverse, rispettare una vocazione dal respiro europeo, capace di ascoltare le esigenze della collettività in nome di soluzioni concrete e unitarie. Che sappia riscoprire il valore della mobilità sociale e della meritocrazia.

Il valore fondante? Conciliare libertà e rispetto dell’alterità in tutte le sue forme. Il modello ideale?

L’apporto di un punto di vista “contemporaneo” nell’era della globalizzazione e dell’immaterialità: un’icona è Yunus, l’economista bengalese premio Nobel per la pace 2006, fondatore della Grameem Bank che ha creato sviluppo sociale dal basso. Il colore? Trasparente e iridato come il vetro al sole: che contempli nell’idea della trasparenza, la possibilità di cogliere molte sfumature».

«Serve al centrosinistra, troppo frammentato. Con Ds e Margherita nascerà un baricentro, evitando problemi di scelta, come per il leader. Non dovrà mai far venire meno la sua missione, che è affermare la sovranità popolare: non più élite senza alternanza, perchè dovrà essere al servizio del popolo. Prioritaria è la modifica della legge Biagi: C’è troppa flessibilità. Ci vuole, ma va accompagnata dagli ammortizzatori sociali. Poi, occorre battersi per riforme che accrescano le competenze specifiche in Parlamento. Un modello è Alexis de Tocqueville, che ha studiato davvero la democrazia. Il colore è l’azzurro, lo stesso della Margherita e della Repubblica».

Fabio Maccione Yuri D’Antonio 24 anni Torre de’ Passeri, laureato «Serve a superare i Ds e Margherita di oggi, portatori di vecchie ideologie, della logica del sì e del no. La società non si muove più intorno a schemi semplici, non ci si possono più appiccicare sopra i propri schemi precostituiti. Principio guida? La libertà in politica, in economia. Nelle scelte individuali occorrono nuovi principi basati sul rispetto, come per la famiglia: quindi occorre guardare anche ad altre unioni...Priorità è il sistema elettorale, più poteri al premier. Il Pantheon evoca scelte del passato: ci metterei Moro e Berlinguer, ma preferisco i leader di oggi, i Letta e i Veltroni o uno come il senatore Obama». Il colore è l’arancione, che attinge a vari colori».

27 anni, Fara Filiorum Petri studente universitario «Serve a rendere il centrosinistra italiano più simile al resto del mondo, a compiere una trasformazione che altrove c’è già stata. All’Italia e ai più giovani, se sarà quel soggetto che promette. Non dovrà mai farsi strumento di classi dirigenti che si autotutelano senza merito, preservandosi nel tempo a prescindere da quello che fanno. Di valori ne vedo più di uno in una società da reinterpretare: uguaglianza, libertà, centralità del lavoro, diritti civili e sociali. Bisogna risanare il Paese per lottare contro l’esclusione sociale: con un maxi debito pubblico non si può. Modelli? Ognuno avrà i suoi: la statura immensa di Nelson Mandela continuerò a vederla ora come prima. I colori? Spesso sono rifugi per chi non vuol affrontare il mare aperto. Dico colore libero, o meglio: tutti. Perchè sarà un partito-società»

Marco Di Monte 29 anni, Pescara, impiegato «Servirà a creare una nuova società. Nasce da due antiche tradizioni che hanno segnato l’Italia, sinistra e cattolici, ma non dovrà mai esserne solo la sintesi, perchè occorre prendere il meglio della società. Spero serva alla comunità intera: partito per la gente, con la giustizia sociale al primo posto tra i valori. Per dare risposte agli ultimi, riformare il mercato del lavoro, dare garanzie a quelli come me. Di un Pantheon non c’è bisogno, meglio cercare qualcosa di nuovo. Colore? Mi piacerebbe il rosso, ma anche qui deve prevalere il nuovo, e allora dico verde come la speranza».

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Chiara Zappalorto

Luigi Guerrieri

Ludovica Di Nicolantonio

29 anni,Chieti, laureata

30 anni, Teramo, avvocato

19 anni, Pescara, studentessa universitaria

«Serve a “sbloccare” e modernizzare il sistema politico italiano, non più in grado di “leggere” una società in continua evoluzione come quella italiana, protagonista di un processo di globalizzazione.

Non dovrà mai essere chiuso alle istanze del Paese, farsi interprete delle sue esigenze coinvolgendo la società nelle scelte. Il valore più importante? La laicità: come autonomia della politica, pluralismo religioso e morale, di convivenza.

Priorità? Lotta al precariato, con maggiori tutele, e riforma elettorale che consenta di scegliere da chi farsi rappresentare. Modelli? Nelson Mandela e Anna Lindh, che con le loro battaglie di libertà sono riusciti a modernizzare i loro Paesi.

L’arancione è il colore che vorrei: acceso e forte, come i valori che rappresenterà il Pd».

«È una opportunità per ricominciare a far politica, giovani in testa, sennò qui si rischia che i problemi della nostra generazione non trovino risposte, anche se di “questa” politica capisco non ci si fidi. Però, senza, il rischio è che si inneschi una deriva populista: Grillo sarà simpatico, però solo riformando la politica si possono trovare risposte ai problemi. Il Pd non dovrà essere frutto della fusione fredda tra due partiti esistenti che hanno esaurito la loro funzione, sono anchilosati, vanno superati. Se manca innovazione, se non c’è ricambio di classi dirigenti, la crisi rischia di durare. Valori? Non possono che essere quelli della tradizione riformista e progressista, ma occorre anche qualche coraggio in più e la produzione di proposte più articolate, come sul lavoro: da lì si deve ripartire, anche con concretezza nelle proposte. Il problema non è cambiare il nome alla legge “Biagi”, ma pensare ai contenuti di una nuova normativa sul lavoro. Pantheon? Che senso ha mettere assieme Sturzo e Berlinguer, che in vita furono antagonisti? Oppure Kennedy con la tradizione europea? Poi, in Italia, non dimenticherei il peso dellla Chiesa di Roma».

«Serve a iniziare a cambiare tutto, spero. Serve a giovani e meno giovani, a permettere loro di riavvicinarsi alla politica, serve a tutta l’Italia. Il Pd non dovrà mai più calare dall’alto le decisioni, essere democratico davvero! In più, veloce e popolare, soprattutto in questa fase di contestazione verso la politica vista come male assoluto. Il valore più importante? L’umiltà, intesa come rispetto verso gli altri, l’opposto dell’arroganza del potere. Come priorità vedo la soluzione dei problemi del precariato e dei giovani, come scuola e università. Il mio modello ideale? Giorgio La Pira, leader idealista ma anche concreto, risoluto e umile nel vivere e nell'agire. Il colore? Fucsia: più forte, più deciso, più brillante del classico rosa».

Antonio Castricone 33 anni, Popoli, impiegato

Matteo Dartagnan 19 anni, Tossicia, studente universitario

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«Serve a semplificare il quadro politico italiano, a dare risposte a domande che oggi non ne hanno. Mi auguro dia risposte all’antipolitica, ma dipenderà tanto dalla classe dirigente che dai militanti. Servirà, spero, ai giovani, anche se non si deve cadere nel giovanilismo.

Però scuola e università sono spesso argomenti “negati”, in Abruzzo la legge sul diritto allo studio è decrepita. Il Pd non dovrà mai essere partito di soli eletti, ma di massa: che non chiede solo voti alle elezioni, non litiga solo per le poltrone. Valori? Solidarietà verso chi è debole, i poveri, non ha lavoro, è sfruttato.

Verso territori svantaggiati. La scelta? Battersi per una accessibilità dei saperi uguale per tutti. Pantheon?

Oggi si fondono culture diverse, però io ci vedo bene Enrico Berlinguer, che sollevando la questione morale rappresentò una novità in quel momento storico.

Colore? L’arcobaleno, tutti ci si possono riconoscere».

Emilio Longhi 21 anni, Pescara, studente universitario «Dovrà avvicinare i giovani alla politica, non essere la somma di ciò da cui nasce. Un partito “scalabile” con la forza delle idee, da tutti. Il valore di riferimento? La pace, ma non il pacifismo ideologico: semmai tensione a evitare nuovi confilitti, come in Libano. Dovrà ridare speranze ai giovani, lavorare contro il precariato, e non c’è bisogno che tutti i contratti siano cambiati.

Puntare sulla ricerca, gli ammortizzatori sociali. Nel Pantheon non metterei nessuno, parlare al passato è riduttivo. Quanto al colore vedo il verde: della speranza, ma anche di grandi emergenze come l’ambiente».

«Serve a cambiare e non può che avere l’ambizione di servire ai cittadini, a tutto il Paese. Non dovrà essere mai un partito autoreferenziale. Il valore più importante? La libertà. Le priorità?

Tante, riguardano aspetti diversi e indispensabili per creare una società armonica. Va cambiata assolutamente la legge elettorale e occorre evitare che in Italia si crei una frattura generazionale: per questo va affrontato il problema del lavoro precario e delle tutele sociali per i giovani.

Chiederei al Pd cosa pensa dell’attuale sistema pensionistico, se l’unico problema sia l’abbattimento dello scalone o forse anche il futuro dei giovani di oggi. Poi dico anche che occorre ridurre le tasse. In questo nuovo partito ognuno porterà la propria cultura e non dovrà aver paura di quella degli altri, ma tra i riferimenti io direi Antonio Gramsci ed Helder Camara, un comunista e un prete... Il colore? Rosso, perchè è il più vivo».

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Chiara Santarelli 16 anni, Teramo, studentessa «Lo decideremo tutti noi a che serve, sarà strumento per raggiungere obiettivi. Un partito lo fanno le persone. Vedo bene una trasposizione degli obiettivi della Sinistra giovanile, cioè rappresentare e difendere una generazione, i suoi problemi: sia a livello della scuola che dell’università, o magari anche del mondo del lavoro. Il Pd non dovrà mai dimenticare da dove viene, come accade per la discussione sull’adesione al Partito socialista europeo, che i Ds vogliono e la Margherita no. Poi, non deve lasciare buchi nella politica, le questioni vanno affrontare e risolte. Valori? La meritocrazia, che oggi nella politica non si vede nè a sinistra nè a destra: ci dovrà essere fondato il nuovo partito. Il Pd dovrà frenare il malcontento verso il governo, forse imprevisto: vanno messi in chiaro i rapporti, porci rimedio.

Modelli? Penso a Gramsci, che fu padre del Pci ma anche del Partito socialista: la politica deve essere fatta di persone che credono nelle cose per cui si battono. Colore? Rosa».

Giuseppe Di Saverio Lorenzo Dell’Oso

30 anni, Montorio al Vomano, professore

17 anni, Pescara, studente

«Deve garantire maggiore governabilità, ma soprattutto dare oppurtunità alle nuove generazioni di partecipare attivamente alla politica, visto che ne sono state escluse. Non dovrà essere solo intersezione di nomenklature, evitare le vie della politica tradizionale, ispirate a logiche spartitorie di gestione del potere. Valori? Tanti, ma in cima metto la meritocrazia. In ogni ambito, dal lavoro alla formazione, fino alla selezione della classe politica, sin qui scelta per cooptazione. Poi, etica e onestà devono tornare ad avere un ruolo centrale. Sull’agenda politica punterei subito sui temi del lavoro, a cominciare dalla precarietà, più in generale a rilanciare il lavoro contro le ragioni delle rendite improduttive. Modelli ideali? Eviterei un santuario: ci sarebbero tanti nomi, ma meglio creare nuovi modelli. Colore? Poco importante, i miei gusti portano al giallo».

«Serve a chi ha ancora voglia di lottare, si batte contro il precariato, l’evasione fiscale, non trova risposte in una politica lontana. Ai giovani, trattati come oggetti quando votano, alla gente che crede in valori negati. Non dovrà essere una casta: mai rimettere in sella chi ha già dato. Il valore più importante? L’uguaglianza dei diritti. Dovrà puntare alla riforma elettorale, riformare il Welfare. Nel Pantheon vedo Gandhi, John Kennedy ed Enrico Berlinguer, accomunati dalla voglia di cambiare.

Credo che il colore sia il bianco, segno della purezza e della trasparenza, del nuovo».

Silvio Paolucci 30 anni, Tollo, impiegato

Mirko Secone 33 anni, Montesilvano, responsabile commerciale azienda «Il Pd? Serve ad innovare la politica e a dare stabilità e certezze a tutto il popolo italiano. Non dovrà mai pensare solo a se stesso. Come valore di riferimento dico l’onestà e il rispetto, perche sono le cose di cui l’Italia ha bisogno. Nell’agenda politica metterei come priorità la lotta al precariato e l’abbattimento delle tasse. Nel Pantheon del nuovo partito vedo bene un ex presidente della Repubblica, come Carlo Azeglio Ciampi. Il colore? Mi piacerebbe che il nuovo partito fosse un insieme di colori, non un solo colore. Per rappresentare tutto e tutti».

«Serve a rappresentare la società del 21esimo secolo, le sue dinamiche, i suoi interessi: perciò mi auguro che divenga il luogo d’incontro degli italiani. Il Pd deve fare le cose che dice, avere il coraggio delle scelte, assumersi responsabilità: perciò non deve fare il contrario di tutto ciò. Il valore più importante? La democrazia, la mediazione degli interessi e dei valori sociali, economici e politici, che oggi avviene in modo insufficiente.

Il Pd deve creare ricchezza per l’Italia, la prima cosa da fare è individuare la priorità, le scelte sono conseguenti. Non mi ha mai appassionato indicare icone, mi piace parlare soprattutto del futuro. Valori, passioni e conquiste del passato sono già dentro di noi. Colore? L’arancione, caldo, che fa pensare in modo positivo».

Giuseppe Farinacci 16 anni, Teramo, studente «Serve agli elettori e a dare più stabilità all’Italia.

Dovendo dare ascolto ai cittadini, non potrà sottovalutare il diffuso dissenso che si avverte verso la politica. I suoi valori? Forse se ne avverte una certa mancanza, per me però resta prioritario quello della legalità, che in Italia è assente. La prima scelta? Risolvere il problema dell’informazione, troppo legata alla politica: occorre più indipendenza. Modelli? Gramsci resta un riferimento certo. Colore? Non ce l’ha, tutt’al più io vedo bene il verde che è segno dell’Ulivo e della speranza».

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Marinella Sclocco

Marco Presutti

33 anni, Pescara, psicologa

33 anni, Pescara, Insegnante

Francesca Sborgia

«Per la prima volta un partito nasce capovolgendo i normali meccanismi di costituzione: i cittadini scelgono i propri leader. Servirà a tutti coloro che vorranno scegliere la politica come strumento per cambiare in meglio la società. Non dovrà mai perdere il contatto con i cittadini. Quanto ai valori, parlerei di quello che accomuna i partiti che andranno a formare il Pd: la solidarietà, è da qui che dobbiamo partire. Diverse le cose da fare subito: lavoro, stato sociale e legge elettorale. Non ho modelli ideali da indicare, non ne ho mai avuti: ognuno di noi deve prendersi la responsabilità di scegliere sapendo ascoltare ed innovarsi. Il colore? Verde scuro, quello dell’Ulivo».

«Il Pd serve alla politica italiana da oggi ai prossimi decenni. Deve raccogliere la domanda di rappresentanza e di partecipazione che viene dai cittadini e coltivare l’interesse generale degli italiani, abbandonando le convenienze di parte e di corporazione. Non dovrà mai essere un partito di gestione dell’esistente e di protezione degli addetti ai lavori. Valori guida? Giustizia e libertà.

Quanto alle priorità, credo si debba liberare le energie degli italiani ingabbiate da tanti vincoli che tutelano gli interessi di pochi, dare spazio al merito e alla voglia di fare, offrire una formazione di qualità e sviluppare la ricerca. Pantheon? Mi sta benissimo quello… di Roma, uno degli angoli più belli del mondo. Ma il Pd deve occuparsi di altro.

Come colore scolgo il verde, perché io lo concepisco giovane nel cuore di una società che non ha ancora perso la speranza».

26 anni, Spoltore, laureata «Mi auguro serva ai cittadini, questa unione è un fatto strano per la nostra politica, che di solito divide e non unisce. Non dovrà mai dimenticare le differenze che sono alla base della sua formazione, ma usarle invece come un valore. Quanto ai valori-guida, io dico senza esitazione la libertà.

Prioritario è tornare accanto ai cittadini, e questo vuol dire soprattutto pensare ai problemi dei giovani, come lavoro e formazione. Un Pantheon del Pd? Non dovrebbe essere indispensabile, migliori risultati si ottengono senza portarsi dietro delle icone: che ognuno porti la sua. Colore? Ne vedo due, l’azzurro che è un po’ il colore della nazione, e il giallo, che non si identifica ancora con nessuna formazione esistente».

Dario Giorgiani 30 anni, Francavilla, laureato

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«Serve a dar voce ai cittadini, a svincolarsi dalle vecchie ideologie ed a fare riforme: questo serve all’Italia. Non dovrà mai essere un partito dove non c'è spazio per tutti quelli che vogliono partecipare, deve essere un partito aperto, capace di ascoltare i suoi elettori e di coinvolgerli nelle scelte.Valori? Non dovrà mai allontanarsi dalla trasparenza e dalla verità: solo così potrà essere il partito che attraverso la partecipazione democratica costruirà il nostro nuovo futuro. Il lavoro da fare è tanto: possiamo dire che il precariato sia più importante della sicurezza o delle pensioni minime o della natalità? Sono tutti problemi complessi, spesso collegati: il Pd dovrà decidere su tutti i grandi temi dando certezza e risposte ai cittadini. Visto che nasce come partito riformista composto da più anime, il riferimento ideale è il pensiero di tutti coloro che attraverso diverse vie sono arrivati alla stessa soluzione, sono arrivati a un nuovo strumento che è arrivo e partenza di una nuova coscienza politica e sociale. Colore? Verde speranza, anche se spero di far parte di un partito trasparente…».

Marco Di Nicolantonio 27 anni, Torre de’ Passeri, impiegato

Alexandra Coppola 25 anni, Torre de' Passeri, impiegata «Serve come guida per i cittadini, a far ritrovare loro la fiducia nella politica. Per questo dovrà andare nel territorio, ascoltare la voce della gente, per riportare una politica che decida su fatti precisi, sia concreta e faccia scelte. Il Pd non dovrà mai essere il partito delle correnti e delle clientele, ma delle idee e dei progetti. Valori?

Trasparenza e libertà di pensiero ed espressione.

Quanto alle priorità, vorrei una linea politica chiara, in grado di risolvere i problemi del lavoro: lotta al precariato, ma anche sviluppo di nuove opportunità per i giovani. Vorrei si attingesse soprattutto al contributo dei giovani e della società civile, come ha fatto Enrico Letta, in controtendenza con gli altri partiti al servizio dei professionisti della politica. Colore? Arancio».

«Serve all’avvio di una riforma radicale della politica, e serve al Paese. Se si riducono le conflittualità interne alle coalizione sarà molto più semplice, da una parte, avviare una seria stagione di riforme e dall’altra riavvicinare la gente alla politica. Il Pd non dovrà mai essere un partito chiuso ma fare della partecipazione un valore fondante.

Come valore morale, dico onestà e legalità. La lotta al precariato dovrà necessariamente essere una delle linee guida del Pd, ma la prima scelta credo debba essere la riforma elettorale, con una legge che crei le condizioni per un governo stabile e concreto, immune dai ricatti dei micro partiti familiari. Il Pantheon? Modelli di persone a cui mi rifarei sono tutti legati alla lotta alle mafie: Peppino Impastato, i giudici Falcone e Borsellino, don Ciotti e Roberto Saviano. Il colore? Arancio»

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Cinzia Trabucco

Rizziero Giandomenico

32 anni, Bussi sul Tirino lavoratrice a tempo determinato

Gianluca Chiola

31 anni, Castiglione a Casauria, impiegato

34 anni, Castiglione a Casauria, impiegato

«Il Pd serve a tutti gli italiani, in particolare alle nuove generazioni. Perchè la politica torni ad incarnare il valore del bene comune, il Pd non dovrà mai allontanarsi dalle persone lontane e silenziose, quelle che prese dagli innumerevoli problemi del quotidiano sentono la politica assolutamente inutile. Per questo ritengo che la solidarietà sia il valore fondamentale che il partito nuovo deve mettere a base della sua azione. In tempi di antipolitica e di “casta”, credo inoltre sia importante portare esempi di onestà e di trasparenza. Le cose da fare? Tante, e tutte molto importanti, ma penso che la lotta al precariato possa dare una speranza in più ai giovani. Io non ho una figura o un modello in particolare, ma è importante avere tante sensibilità rivolte al sociale, alla pace, alla lotta al precariato. Il colore? Spero tanti, tutti quelli dell’iride: il verde della speranza, il rosso della passione, il bianco della trasparenza...»

«Servirà per iniziare una nuova era politica, per dare maggiore trasparenza e speranza a tutti i cittadini. Costruire un partito non “per” i cittadini ma “con” i cittadini, riavvicinare i cittadini alla politica è la scommessa. Per questo non dovrà mai essere quello che sono stati i partiti in passato, chiudersi nelle stanze che contano e decidere senza dialogare con i cittadini: sono convinto che ciò non accadrà più perchè una delle novità sono state le primarie. Valore più importante? La trasparenza.

Quanto alle priorità, dico lotta al precariato e riforma elettorale. Colore? Non penso sia o sarà troppo importante. Comunque i manifesti hanno uno sfondo arancione, con la dicitura Pd in blu».

«Il Pd serve alle generazioni che oggi sono nella culla, dovrà creare le condizioni affinché i miei figli e i miei nipoti un giorno possano ringraziare noi ragazzi del 2007 che ci siamo sacrificati per il loro futuro. Non dovrà mai essere il partito di Tizio o di Caio, ma la casa di tutti gli emarginati della vita sociale, di coloro che hanno perso la speranza e di tutti gli immigrati che arrivano sulle nostre coste e vogliono integrarsi onestamente nella vita del nostro paese. Valori? Dignità della propria classe dirigente. Scelta prioritaria? Ridurre il debito pubblico. Mi chiedete dei modelli ideali? Sono i tre milioni e mezzo di persone che hanno fatto la fila per votare alle primarie del 14 ottobre…»

Maria Laura Plebani

Pamela Roncone 29 anni, Collecorvino, collaboratrice Ds Regione Abruzzo «Serve a dare un soggetto politico forte al nostro Paese: un partito nuovo, solido e aperto in grado di portare avanti le riforme necessarie. Serve all’Italia di oggi e di domani. Non potrà essere uno dei tanti nuovi partiti che affollano e frantumano lo scenario della politica italiana. Valore fondamentale dovrà essere la trasparenza: la chiede la gente, ne ha bisogno la politica. Le cose da fare sono tante, ma il segnale forte per le nuove generazioni è uno: nuove tutele, nuovi diritti per le nuove forme contrattuali. La storia del nostro Paese è ricca di donne e uomini da prendere a modello ma preferisco non indicarne uno tra tutti. Il colore è il rosso: il colore della passione... politica».

Andrea Catena

18 anni, Teramo, studentessa

33 anni, Chieti, funzionario politico

«Serve a far crescere la democrazia, ad abbattere la dittatura dei piccoli partiti, della minoranza. A permettere ai partiti più grandi di poter esercitare il loro ruolo. E serve all’Italia, che con troppi partiti non riesce neanche a crescere. Il Pd non deve commettere l’errore di restare diviso al proprio interno, ma puntare sulle riforme, litigare non serve. Valori? Puntare sui nuovi cittadini, i giovani, cominciando dalla scuola. E poi il valore-salute. Il Pd deve ridare certezze a chi lavora, cosa che oggi non avviene: meglio tornare a puntare su contratti a tempo indeterminato, non si può vivere pensando a contratti di tre mesi. Poi, le politiche per le famiglie: a che servono mille euro di contributo per un figlio se poi non hai i soldi per crescerlo? Modelli? La Finocchiaro, una delle poche in grado di svettare in questa mediocrità, a cominciare dal Parlamento. Colore? Arancione».

«Serve a restituire alla politica la forza e la capacità di riformare e modernizzare il Paese. Serve agli italiani. Il Pd non dovrà mai essere una federazione di correnti e di notabilati. Il valore più importante? L’uguaglianza nelle libertà, è la ragione di fondo dell'impegno democratico nella società moderna e nell’era globale. Come priorità, vedo l’abbattimento delle tasse per i ceti medi e il lavoro dipendente. Il Pantheon? Lo vedo affollato, e io dico Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Nelson Mandela, Gandhi, Gro H. Brundtland, Aung San Suu Kyi, Sonia Gandhi, Hillary Clinton. Perchè il Pd che immagino ha le radici nella storia ma guarda al mondo e al futuro. Il colore? Verde bianco rosso, che sono i colori della nazione italiana e delle principali culture del Pd: ambientalista, cattolico-democratica, di sinistra».

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Abruzzo Testo e foto di Andrea Carella

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Dal verde al bianco, dalle camminate alle sciate, il passaggio è naturale.

Alla scoperta degli itinerari, fra impianti modernissimi, 850 km di piste e panorami mozzafiato, guidati da Enrico Paolini, di professione assessore al turismo. E sciatore per passione

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Abruzzo è la regione dei primati: una quantità di superficie protetta (28,1%) che non ha paragoni in Europa, il ghiacciaio più vicino all’Equatore, l’olio e lo zafferano più apprezzati nel mondo. E naturalmente non poteva mancare un record anche nel campo (pardon, sulle piste) dello sci: in Abruzzo si scia con vista mare, anche fuori stagione e in un paesaggio mutevole e affascinante che non

L’ Qui sotto, un giovane Enrico Paolini durante una impegnativa discesa del Gran Sasso

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teme confronti con quelli alpini. In certi periodi dell’anno si può andare in montagna al mattino, trascorrere una giornata sulle piste e andare al mare in serata. E per raccontarci questo spettacolare patrimonio naturale e turistico ci siamo rivolti ad uno sciatore esperto: Enrico Paolini, assessore regionale al Turismo e allo Sport.

«Siamo la terza regione d’Italia –dice– per numero di sciatori dopo Trentino e Valle d’Aosta e prima di Piemonte e Lombardia. Le stime sono del 2006, l’anno in cui si sono svolte le Olimpiadi invernali e il Sestriére ha dato il meglio di sé. Possiamo distinguere quattro grandi poli: Roccaraso-Aremogna, paragonabile a Madonna di Campiglio nel suo complesso; Ovindoli-Campofelice, il Gran Sasso, e infine la Maiella».

Altopiano delle Cinque miglia «Roccaraso è adatta a tutti, ci sono piste per ogni livello di preparazione. E sono tante: è possibile sciare tutta la giornata senza mai percorrere due volte la stessa pista. Per i bambini c’è, ad esempio, una gigantesca azzurra-verde che dalla cima dell’Aremogna finisce al Pratello: un’ora e mezza di sci. I più esperti hanno un ventaglio di rosse con pezzi di blu, giustamente

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alternati, con piccoli muri rossi. Ce ne sono di bellissime. E per quelli bravissimi ci sono le splendide nere di monte Pratello e dell’Aremogna, che è un muro eccezionale di 250 metri che guarda sul rifugio di Valleverde, veramente emozionante, dove hanno fatto i mondiali di libera femminile. E poi qualche fuoripista veramente bello, come il vallone che si trova a destra dell’Aremogna. Un servizio di elicottero porta gli sciatori dove vogliono, per poche decine di euro a persona: si può arrivare a Passo Godi e sciare guardando il lago di Barrea, per esempio. L’elicottero è utilizzato anche per i soccorsi, grazie alla lungimiranza di Roberto Del Castello, uno dei gestori, gratuitamente. Gli impianti di Pescocostanzo, poi, sono di grande importanza soprattutto dal punto di vista storico. E la bomboniera del Bosco di Sant’Antonio, attraversata da un anello per lo sci di fondo, rende tutto il comprensorio il più completo della regione».

Ovindoli «Ovindoli e Campofelice sono due grandi stazioni, modernissime, con impianti all’avanguardia (come l’ovovia a otto posti di Ovindoli, la più moderna d’Italia) e una gran varietà di piste al sole e nel bosco, per espertissimi e per principianti. In mezzo si trova una grande risorsa naturale, i Piani di Pezza, cuore del Parco Sirente-Velino e una delle mete preferite dai fondisti. Ovindoli e Campofelice accolgono ogni domenica dai 10 ai 15mila sciatori ciascuna, contro i 30mila di Roccaraso. E tutto a meno di un’ora da Roma. Qui io e Giovanni Lolli, anche lui ottimo sciatore, venivamo a sciare con Bruno Trentin, grande sindacalista che ci ha lasciati da poco. Una volta, da ragazzino, accompagnai a sciare Achille Occhetto, insieme a una mia amica, bravissima maestra di sci; sapevamo che la moglie di Occhetto era una signora di colore, cosa non comune all’epoca. Quello che non sapevamo è che la signora in questione era quella che faceva la pubblicità dei frigoriferi Indesit, stesa sugli elettrodomestici con una pelliccia bianca: una delle donne più belle a quel tempo. Quando arrivammo a Campofelice, ricordo che lei scese dall’auto con pantaloni

bianchi e un piumino bianco: si paralizzarono gli impianti».

Campo Imperatore «La funivia che parte da Assergi (una Agudio del 1988 con cabine Pininfarina a 100 posti che percorre una tratta unica lunga 3008 metri ed è una delle più lunghe d’Europa) porta gli sciatori alla base di due seggiovie: Le Fondari e La Scindarella. La zona è molto battuta dal vento, e generalmente è adatta per sciatori di una certa esperienza, che scelgono una via di mezzo tra sci, alpinismo, fondo; non si accontentano della pista perfetta, vogliono qualcosa di più. Il Gran Sasso, e lo dico da innamorato di quella montagna, non è una zona facile perché ha condizioni meteorologiche complicate. Attorno agli impianti ci sono poi dei percorsi, cosiddetti fuoripista, discese fantastiche alla portata anche di sciatori meno esperti. C’è tutto il fascino della grande montagna… Campo Imperatore era la stazione per eccellenza dei romani: durante il Ventennio c’era un collegamento diretto dalla capitale con Assergi».

«Siamo la terza regione d’Italia per numero di sciatori, dopo il Trentino e la Valle d’Aosta»

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«Ogni sciatore esperto dovrebbe fare almeno una volta il giro delle stazioni sciistiche abruzzesi»

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La Maiella «Quando mi sono trasferito a Pescara 25 anni fa ho imparato a nuotare e ho imparato a sciare sulla Maiella. Ho scoperto Passolanciano, un posto bellissimo, con tre rosse: il “Pistone”, a destra la “Tre”, e anche la “Panoramica”, molto belle: molto corte, soprattutto il Pistone, impegnative ma varie; e c’è una lunga pista blu che gira intorno alla Tre e permette ai bambini di fare lezione. È un posto bellissimo perché si scia in mezzo al verde. Poi ci sono i grandi spazi del Mamma Rosa-Maielletta, con lunghe piste rosse che partono dallo skilift superiore, e l’azzurra tutt’intorno. Anche qui una vista eccezionale (si vede il mare), sole e grandi panorami. Dico la verità: io che mi ritengo uno sciatore esperto mi fermo a Passolanciano perché la Maielletta mi sembra un po’ più facile. Però è uno dei luoghi prescelti per chi va sullo snowboard».

Scanno «È uno di quei posti dove si va “per stare in montagna” e quindi anche a sciare, ma offre tante opportunità anche per chi non ha voglia di passare tutto il giorno sulle piste. È un gioiellino. Per me Scanno è il luogo ideale per trascorrere una giornata in montagna con la mia famiglia».

Prati di Tivo «La seggiovia, è bellissima, con le due spalle del Corno Piccolo, granitiche, che sovrastano le piste… somiglia a Mamma Rosa, ma il paesaggio è più severo. Grandi spazi, di sicuro richiamo per sci-alpinisti e snowboarders, con un impianto e sette-otto piste di difficoltà media. Colpisce soprattutto il paesaggio, e Pietracamela, la Courmayeur d’Abruzzo, un paesino semplicemente meraviglioso».

Pescasseroli «Ha un bellissimo impianto, e –pochi lo sanno– una pista nero-rossa bellissima, molto lunga ed

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emozionante, con vista sul paese. 25 anni fa c’era una bidonvia sulla quale ho insegnato a sciare al figlio di Enrico Berlinguer… era un ragazzo molto caparbio, stessa tempra del padre; lo accompagnai su questa pista che ricordavo molto facile, invece… era una rossa con dei pezzi di nera. La scese tutta, solo grazie al suo carattere».

In conclusione «Uno sciatore esperto deve fare almeno una volta il giro delle stazioni sciistiche abruzzesi, perché la sensazione data dalla diversità di situazioni e di paesaggi è quella di essere in quattro o cinque regioni diverse, o addirittura in due stati: a Prati di Tivo sembra di essere in Austria, sulla Maiella dove ci sono i boschi sembra quasi di stare sulle Dolomiti, il Gran Sasso ricorda le impegnative Dolomiti del Brenta, e in parte, dove è senza alberi, il Sestriére; Roccaraso fa pensare a Madonna di Campiglio. Un collage di situazioni che non farà pentire chi ama le Alpi. E del resto, se sulle piste di Roccaraso, Pescocostanzo e Rivisondoli si sono disputate le finali di Coppa Europa di sci alpino degli anni 2005 e 2006, e si attende l’assegnazione di una gara della Coppa del Mondo, una ragione deve esserci».

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E in principio fu lo ski Il Gran Sasso: “il più grande campo di sports invernali d’Europa”. Così recitava un manifesto pubblicitario del 1932 in puro stile littorio per invitare gli “Italiani di Roma” a praticare la nuova disciplina su quello che sarebbe presto diventato il campo da sci dell’Italia centro-meridionale. Già nel 1923 il famoso alpinista del nord, Aldo Bonacossa, aveva “conquistato” la vetta con gli sci in spalla, e al ritorno aveva dichiarato che “la discesa del Gran Sasso era una scivolata bellissima, superiore a quella del Nuvolau sopra Cortina”. Ma quando nasce lo sci in Abruzzo?

L’abbigliamento da ski (allora si scriveva col “k”) era rigorosamente in bianco e nero come i film che proprio a quell’epoca scrissero le prime pagine della storia della cinematografia. E sulle montagne degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo furono scritte le prime pagine della storia dello ski abruzzese. Tutto ebbe inizio con il Concorso di Roccaraso del 26, 27 e 28 febbraio 1910, quando il Touring Club Italiano convocò sulle nostre nevi i fratelli Harald e Trygwe Smith, che insieme ai soldati Alpini effettuarono un corso d’istruzione dimostrativo. Ci furono le prime gare con gli sci da fondo e su un improvvisato trampolino, costruito sui rilievi che contornano a Sud il Piano delle Cinque Miglia, quegli sciatori effettuarono i primi salti con gli sci.

Gli ospiti che avevano partecipato all’evento tornarono nelle loro città e predicarono il nuovo attrezzo (o, se si vuole, il Verbo) e gli adepti si moltiplicarono. Il successo fu immediato. Nel 1914 fu iscritta all’ordine del giorno del Consiglio Comunale di Roccaraso l’istituzione di una Scuola di Ski. Ma lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò ogni iniziativa e solo agli inizi degli anni ’20 l’attività sciistica ripartì, ponendo le basi sia per l’attività agonistica che per una più proficua attività di ospitalità. Nel 1922 fu fondato lo Ski Club Roccaraso. Il Principe di Piemonte incominciò a frequentare il paese e con lui gli appassionati dello sci provenienti da Roma.

Tre prestigiosi sodalizi: la Sezione Universitaria del Club Alpino Italiano e il Gruppo Romano Sciatori prima, lo Ski Club Roma poi, fecero di Roccaraso il punto di riferimento della loro attività agonistica invernale che ormai si era impossessata degli interessi sportivi di molti giovani, soprattutto studenti universitari, ma anche di nobili, professionisti e impiegati. Sotto l’albergo Milano fu aperta la sede dello Ski Club Roma e ai margini del paese furono costruiti due trampolini di salto, perché allora per essere uno sciatore completo era necessario saper saltare. Insomma, in quegli anni che precedettero l’invasione napoletana, i romani occuparono Roccaraso. Poco dopo anche gli studenti napoletani scoprirono lo ski e per raggiungere le nevi abruzzesi partivano dalla stazione di Piazza Garibaldi con il mitico treno delle 0,40 per arrivare a Roccaraso alle otto del mattino. Sciavano sui campi di sci intorno al paese e non disdegnavano di salire con le pelli di foca all’Aremogna, alle Toppe del Tesoro. E i più intraprendenti, alla fine dell’inverno, si avventuravano per una epica traversata verso Scanno.

Il 1937 segnò per Roccaraso l’inizio del nuovo mondo dello sci: infatti sul Monte Zurrone fu realizzata una slittovia che portava in cima quattordici sciatori alla volta. Fu il primo impianto di risalita dell’Appennino al servizio esclusivo dello sci.

Da allora milioni di solchi sono stati tracciati sulle nevi che puntualmente sono cadute e si sono sciolte. Il resto è storia dei nostri giorni: lo sci in bianco e nero è diventato una esplosione di colori.

Ugo Del Castello

Nella foto in basso a sinistra, un manifesto del Ventennio che pubblicizzava il collegamento in bus da Roma alla funivia di Assergi.

In alto: copertina di un dépliant turistico degli anni ‘40.

Qui sotto: fine anni ‘20, sciatori dello Ski Club Roma sotto il trampolino appena inaugurato a Roccaraso

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2 Ovindoli-Magnola Come ci si arriva: Ovindoli dista 38 km da L’Aquila e si raggiunge, dall’A24, uscendo a Celano (venendo da Pescara) o a Magliano dei Marsi (venendo da Roma).

Gli impianti e le piste: Gli oltre 20

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chilometri di piste, cui si aggiungono da quest’anno altre due lunghe piste per totali 4 chilometri, sono servite da impianti modernissimi, con due nuove seggiovie triposto; si snodano tra quota 1400 e 2200. La neve è sempre abbondante e sono presenti impianti di innevamento artificiale. Sempre da quest’anno verrà aperto anche lo Stadio del Fondo con anelli di 5 + 3 chilometri.

Ricettività: Ovindoli è una località turistica molto attrezzata. Inoltre alla base di alcune piste si trovano baite con rifugio, solarium, bar e ristorante.

3 Campofelice Come ci si arriva: Campofelice si raggiunge da Roma e da Teramo con la A24, uscite di L’Aquila e di Campofelice-Lucoli (venendo da Roma) oppure da L’Aquila in 30 km, via Rocca di Cambio.

Gli impianti e le piste: Gli impianti di risalita, modernissimi, dispongono di 5 seggiovie quadriposto, 3 biposto, 2 manovie, 1 skilift, 2 tappeti, 1 snow tubing park, e vanno

da 1410 metri a 2064 metri di quota.

Ricettività: le numerose strutture alberghiere sono divise tra i centri di Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio e Lucoli.

4 Scanno Come ci si arriva: da Roma e da Pescara: A25, uscita Cocullo, poi circa 20km sulla Ss. 479.

Gli impianti e le piste: Scanno, certamente più nota per il suo centro storico e per il suo artigianato che per i suoi impianti, offre anche la possibilità di sciare.

Sicuramente si può praticare il fondo a Passo Godi, dove ci sono anche quattro skilift con piste adatte anche ai meno esperti. Dal centro abitato parte una seggiovia che porta ai 1615 metri del rifugio di monte Rotondo, la cui apertura per questa stagione è però ancora incerta.

Ricettività: Scanno è ricca di strutture alberghiere, pensioni e B&B; numerose soluzioni per tutti i gusti e tutte le tasche.

Napoli

Come ci si arriva: dall’A24, uscita di Assergi, si svolta a destra e si percorre la Ss. 17 bis fino a Fonte Cerreto per circa 2 km fino all’inizio della funivia.

Gli impianti e le piste: a) Funivia bifune va e vieni; collega Fonte Cerreto, mt. 1100 al complesso sciistico di Campo Imperatore mt.

2200, superando in sette minuti un dislivello di 1000 metri. Dotata di due cabine con portata singola di 100 passeggeri - corsa. b) Seggiovia Fontari Campo Imperatore, quadriposto ad ammorsamento automatico, con portata oraria di 2.200 viaggiatori, collega gli impianti sciistici con l’Albergo Campo Imperatore e la stazione di monte della Funivia; c) Seggiovia Scindarella, quadriposto ad ammorsamento automatico, realizzata nell’anno 2003, con portata oraria di 2.400 viaggiatori, collega gli impianti sciistici con Monte Scindarella a quota 2.200 slm. d) Manovia (a servizio del campo scuola).

Ricettività: a Campo Imperatore, vicino allo storico albergo dove fu tenuto prigioniero Mussolini prima della sua liberazione ad opera delle truppe tedesche, c’è l’ostello-rifugio, sempre a quota 2120. Altre strutture si trovano a L’Aquila, Fonte Cerreto e Assergi.

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5 Prati di Tivo Prato Selva Come ci si arriva: dall’A14 si esce a Giulianova-Teramo e si prosegue per la Ss. 80 fino al bivio per Prati di Tivo e Prato Selva.

Dall’A24 uscire a Colledara e proseguire per Montorio al Vomano fino alla Ss.80 e da lì procedere verso Prati di Tivo-Prato Selva.

Gli impianti e le piste: dal piazzale dei Prati di Tivo, a quota 1.450 metri, partono 6 skilift e la seggiovia che sale ai 2.000 metri dell’Arapietra. Questi impianti servono 20 chilometri di piste di discesa, cui si affianca una pista da fondo. La zona, nota d’estate per le sue possibilità di escursioni e ascensioni, è ricca di itinerari per il fuoripista e lo scialpinismo.

Ricettività: tra i Prati di Tivo e la vicina Pietracamela sono in funzione 7 alberghi.

6 Passolanciano Majelletta Come ci si arriva: A25 Pescara-Roma, uscita di Alanno-Scafa: in soli 16 km, passando per Lettomanoppello si raggiunge Passolanciano; dall’A14 si esce a Pescara

sud-Francavilla, e in 18 km passando per Pretoro (Ss. 263) si raggiungono le piste. Ogni giorno collegamenti con pullman Arpa da Chieti e da Pescara, e bus-navetta da Passolanciano alla Maielletta.

Gli impianti e le piste: a Passolanciano sono disponibili 7 sciovie per un totale di Km. 5.3 capaci di portare 5200 sciatori ogni ora. Gli impianti sono nuovi, efficienti, con ingressi agevoli, senza lunghe attese. A Base-Stazione (Passo Tettone): sci di tutte le discipline, campi scuola, piste di fondo, di freestyle, di bob, slitte, deval-kart, ski-doo, parco glochi; a seguire (m. 1700): piste di media difficoltà; le piste più impegnative, da gara, si trovano in quota, insieme a uno Snow-Park attrezzato ed immensi campi di neve per i fuori pista, fondo, sci-alpinismo e molte altre discipline. La Majelletta ha a disposizione circa 400 ettari di territorio sciabile, una pista naturale immensa larga circa 1000 metri che va da quota 2000 (Cima Majelletta) verso il Rifugio Pomilio (m.

1930) fino a Passo Tettone (Base-Stazione m.1650).

Ricettività: numerose ed efficienti le strutture alberghiere, tra cui l’albergo Mamma Rosa alla base delle piste; altre strutture nei centri di Passolanciano, Pretoro e Fara Filiorum Petri.

7 Altipiano delle 5 miglia Come ci si arriva: dall’A25 si esce a Pratola Peligna e si prosegue in direzione Sulmona sulla Ss.17 verso Roccaraso e la

Piana delle Cinque miglia.

Gli impianti e le piste: RIVISONDOLI / MONTE PRATELLO: 1 cabinovia a sei posti, due seggiovie quadriposto (una ad agganciamento automatico), 1 seggiovia triposto, 4 sciovie, 1 manovia (camposcuola) - 50 km di piste di sci alpino innevate artificialmente - 6 km di piste di sci nordico.

AREMOGNA: 1 cabinovia a sei posti, 7 seggiovie triposto, 1 manovia - 70 km di piste di sci alpino innevate artificialmente - 30 km di piste di sci nordico PIZZALTO: 1 seggiovia esaposto ad agganciamento automatico, 4 sciovie, 1 manovia - 15 km di piste di sci alpino innevate artificialmente - 10 km di piste di sci nordico LA VALLETTA (Aremogna): 2 sciovie, 1 manovia - 3 km di piste di sci alpino innevate artificialmente PESCOCOSTANZO: 2 seggiovie, 1 sciovia, 1 manovia - 9 km di piste di sci alpino innevate artificialmente - 30 km di piste di sci nordico (Bosco di Sant’Antonio) PESCASSEROLI: 1 seggiovia quadriposto, 1 seggiovia triposto, 1 seggiovia biposto, 3 sciovie, 1 manovia - 15 km di piste di sci alpino innevate artificialmente Ricettività: Roccaraso è nota per essere la piú importante stazione di sport invernali di tutta l’Italia centro meridionale. L’eccellente attrezzatura alberghiera ne fa un centro di attrazione turistica molto apprezzato dagli amanti della montagna.

Foggia/Bari

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Mediamuseum

Affetti speciali Sorge a Pescara a poche centinaia di metri dalla casa natale di Ennio Flaiano il museo delle arti dello spettacolo voluto da Edoardo Tiboni, che dello sceneggiatore era amico e collaboratore

di Fabrizio Gentile foto Claudio Carella

ophia Loren sfila sensualmente una calza nera dalla gamba tornita, mentre Clint Eastwood in piedi è pronto a scostare il suo poncho e a mostrare all’incredulo Gian Maria Volonté la lastra di metallo che gli protegge il cuore. Accanto a loro, Giuliano Montaldo sta guardando nell’obiettivo della macchina da presa. Non si tratta del set di un nuovo film, ma di alcune

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delle tantissime immagini che dai pannelli alle pareti accolgono i visitatori del Mediamuseum, a Pescara, l’ultimo nato dei musei cittadini e uno dei pochi in Italia dedicati al Cinema e alle arti dello spettacolo.

Un tributo al cinema nella sua forma più immediata, quella dell’immagine, del ricordo, dei simboli anzi, che appartengono a tutti. Non sarà difficile ai più

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Da D’Annunzio a Flaiano, da Cabiria ai Vitelloni: le sale del museo custodiscono identificare ogni volto, ogni momento, ogni pellicola a cui si riferiscono quei fotogrammi entrati nell’immaginario collettivo: Totò con le “mani in pasta”, James Dean e il suo viso imbronciato, lo sguardo del “pazzo” Jack Nicholson, gli occhi dolci di Chaplin e quelli magnetici della Ekberg, la folle corsa di Jules e Jim e la cavalcata del Mucchio Selvaggio; la sensazione è quella di immergersi in qualcosa che ci appartiene, un ambiente familiare ai nostri sensi, che hanno assorbito quelle immagini, sopite in un angolo della memoria e ora riaffioranti dal passato come un amore di gioventù.

Le numerose sale dell’ex tribunale di Pescara, che in un tempo recente ospitavano aule di giustizia e uffici legali sono oggi piene di reperti che raccontano il cinema in tutte le sue declinazioni: macchine d’epoca per la proiezione, un esemplare di lanterna magica anticipatrice della cinematografia, proiettori di vari periodi; sceneggiature, storyboard,

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fotografie, pellicole e manifesti, nonché costumi e libri, materiale audiovisivo, cartoline e cimeli provenienti, spesso, da un tempo ormai remoto, quello dei divi indimenticabili entrati a far parte della storia della settima arte. Vi sono custodite le testimonianze del forte legame tra l’Abruzzo e il cinema, fin dalla sua nascita, alla fine del XIX secolo: le fotografie di Basilio Cascella e i bozzetti scenici di D’Annunzio (che fu autore, ricordiamo, della sceneggiatura di Cabiria di Pastrone e che fornì l’ispirazione per numerosi film tratti dalle sue opere) godono di un apposito spazio, mentre la grande sala al primo piano accoglie le opere del celebre pittore Manfredo Acerbo, che ha realizzato manifesti cinematografici di film come I magliari, Europa di notte, Il mulino del Po, La tunica, Il processo, Queimada, accompagnando con le sue illustrazioni oltre trent’anni di storia del cinema italiano (e non solo).

In queste sale, a volte, al visitatore può capitare di vedere un piccolo signore distinto, anziano, intento a osservare con nostalgia questo o quel manifesto, o la lettera autografa del famoso regista o dell’attore di turno, a rimirare compiaciuto la collezione giunta a un ragguardevole numero di “pezzi” tutti di valore, sia esso artistico, storico, o semplicemente affettivo, testimonianza di un rapporto, di un incontro, di un momento. Quel signore è Edoardo Tiboni, il “papà” del Mediamuseum, il fondatore (insieme ad Ennio Flaiano) della Società del Teatro e della Musica, il promotore del Premio intitolato proprio a Flaiano che da 34 edizioni consegna riconoscimenti ai più importanti personaggi italiani e stranieri della letteratura, del teatro, del cinema e della televisione. Oggi, a quasi due anni dall’inaugurazione, Tiboni racconta come nacque l’idea del Mediamuseum. «Nel 1995, in occasione del centenario del cinema, nell’ambito

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oggi la memoria del lungo rapporto tra l’Abruzzo e l’arte cinematografica del Premio Flaiano fu allestita una mostra (nei locali dell’attuale Museo Colonna) sul contributo abruzzese alla settima arte. Al momento di chiudere, la domanda che venne spontanea a tutti fu “perché chiudere?”, non avevamo voglia di disperdere il lavoro fatto, anzi: semmai di proseguire l’iniziativa istituendo un museo apposito, che trovò spazio, inizialmente, nei locali del Liceo Scientifico “Da Vinci”. Uno spazio modesto, che però ci consentì di raccogliere –anche se in maniera un po’ sacrificata– il primo nucleo di quello che oggi è esposto nelle sale dell’ex tribunale: manifesti e attrezzature cinematografiche, oltre a una ricca videoteca con migliaia di titoli. Finalmente, dopo molti anni, ci è stata data la possibilità dal Comune di Pescara di ottenere gli attuali spazi, che ci hanno permesso di allestire la maggior parte del materiale in nostro possesso e di acquisirne del nuovo, come il recente lascito di

Lorenzo De Pompeis o quello di Ugo Gregoretti». Il Mediamuseum (“media”, quindi non solo cinema ma anche teatro, radio e tv: tutte le arti dello spettacolo) è, per sua stessa natura, un museo in divenire costante, diverso da un museo archeologico la cui collezione può variare di pochi pezzi: «Gli spazi sono già tutti esauriti e per l’esposizione delle nuove acquisizioni bisogna procedere ad un forzato turn-over». E sbaglierebbe chi pensasse al Mediamuseum come a un luogo di semplice “conservazione della memoria”: c’è molto di più.

«Il MediaMuseum –spiega Tiboni– non si pone semplicemente come raccolta di reperti ma come luogo multimediale di grande suggestione, in grado di legare il passato e il presente con il futuro dell’immagine audiovisiva. Si tratta dunque di un centro pulsante di attività e di un Museo vivente, luogo di confronto multimediale tra l’interpretazione e la seduzione dello spettacolo, tra la cono-

scenza attiva e le passioni dell’immaginario sia cinematografico che teatrale e televisivo».

Nei 4000 metri quadri del museo, divisi su tre piani di cui due dedicati alle esposizioni, trovano spazio sale di proiezione che all’occorrenza ospitano convegni e dibattiti, e postazioni video, che consentono la consultazione digitale di archivi testuali e fotografici registrati su cd e dvd, nonché la visione degli oltre 12mila titoli conservati nell’ampia videoteca del museo. «Abbiamo voluto dare ai giovani la possibilità di conoscere e apprendere i saperi ed i mestieri della civiltà dello spettacolo attraverso una didattica a più livelli, articolata in corsi, seminari e master, che hanno avuto e continuano ad avere un notevole seguito. C’è una videoteca, una cineteca con circa 30 titoli, le biblioteche specialistiche di cinema, teatro, televisione e radio, l’emeroteca, la fototeca, la manifestoteca, l’osservatorio multimediale di

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cinema, teatro e televisione, una sala di registrazione, una sala di montaggio, un set per riprese interne, un’aula laboratorio e un’aula multimediale per corsi professionali».

Dall’apertura, nel gennaio 2006, personaggi italiani e stranieri come Dan Fante, Tonino Valerii, Giorgio Albertazzi, Mario Monicelli, Ugo Gregoretti, Maurizio Scaparro, Luciano Vincenzoni, Antonio Skàrmeta hanno visitato il museo «e sono rimasti talmente colpiti –prosegue Tiboni– da impegnarsi a contribuire, con oggetti di loro proprietà, ad aumentare la collezione».

Appare strano che un luogo come questo, così legato a una cultura “fruibile”, di massa, ottenga riconoscimenti e

apprezzamenti da tanti “addetti ai lavori” e da molti giovani ma stenti ancora a farsi amare dal grande pubblico (che pure è intervenuto numeroso all’inaugurazione) e dalla sua stessa città: «Per il premio Flaiano è diverso, ormai è un appuntamento atteso e consolidato. Ma quando si sposta il fuoco su qualcosa di nuovo, Pescara è sempre un po’ fredda, un po’ lenta, è capace di un affetto intermittente. Del resto anche le istituzioni tardano a riconoscere al Mediamuseum il valore che ha, a livello non solo regionale ma nazionale».

Un amaro ritratto di provincia che sarebbe piaciuto a Flaiano e Fellini.

«Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile» Ennio Flaiano

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ENTE MORALE

ISTITUTO CINEMATOGRAFICO DELL’AQUILA «La Lanterna Magica» fondato da Gabriele Lucci MINISTERO PER I BENI E REGIONE ABRUZZO PROVINCIA DELL’AQUILA COMUNE DELL’AQUILA

LE ATTIVITÀ CULTURALI

Notte Noir

L’Aquila, venerdì 21 dicembre 2007 nella notte più lunga dell’anno UN PROGRAMMA DI EVENTI dal tramonto all’alba seconda edizione Un viaggio attraverso i mille volti del noir con proiezioni di film, concerti, reading di poesia e letteratura, incontri sul cinema, stage, mostre ...

MARATONA NOIR Proiezioni non-stop di capolavori noir

LE “PAGINE NERE” Live reading di brani della letteratura noir

TV CRIME NIGHT A ciclo continuo i migliori episodi delle serie televisive noir

ICONE NOIR I grandi autori del genere

LA LUCE NEL NOIR Stage di illuminazione cinematografica nei luoghi più suggestivi della città PREMIO ‘NESTOR ALMENDROS’ Per la fotografia cinematografica - XVI edizione BLACK COMICS I grandi protagonisti del fumetto noir italiano NEW MEDIA & BLACK ART La donna nel noir

NOIR ON STAGE / LIVE MUSIC Musica e atmosfere noir STILE NOIR Make-up e moda dark QUANDO LA CRONACA INCONTRA IL NOIR Tra mistero e realtà: i grandi casi polizieschi irrisolti …effetti collaterali nei locali della città eventi e degustazioni noir

partner

ISTITUTO CINEMATOGRAFICO DELL’AQUILA «La Lanterna Magica» Parco di Collemaggio 67100 L'Aquila - Italia Tel. +39 0862 4871.1- Fax +39 0862 487147 E.mail: nottenoir@icaq.it

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Marina Catena

Soldato di pace

Da Ortona a Roma, e da lì in Kosovo, Iraq, Libano.

Vita da peacekeeper di una donna con le idee chiare e coraggio da vendere di Guido Alferj foto Claudio Carella

e qualcuno, la sera del 1 ottobre scorso, fosse riuscito ad intrufolarsi nella blindatissima palazzina del Circolo della Farnesina, sul Lungotevere dell’Acqua Acetosa a Roma, beh, sarebbe rimasto sicuramente a bocca aperta, spalancata. Lì, nella sala ristorante del primo piano, intorno all’unica tavola imbandita, sedevano i ministri degli esteri di tre importanti Paesi europei, l’italiano D’Alema, il francese Kouchner, lo spagnolo Moratinos, impegnati in una cena di lavoro per discutere il dossier del nucleare iraniano. Ma c’era una quarta presenza, ecco la sorpresa, che sicuramente contribuiva a rendere meno formale la serata e più rilassati i tre capi della diplomazia dei loro rispettivi Paesi: Marina Catena, funzionario dell’Onu e, da qualche tempo, anche ufficiale della

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riserva,appena rientrata da una missione in Libano dove è stata consigliere politico del Comandante del contingente italiano. «Conosco bene D’Alema e Kouchner e loro, forse, volevano presentarmi anche Moratinos…» scherza, ma nemmeno tanto, Marina.

Sì, bisogna davvero conoscerla questa trentottenne ragazza ortonese, sempre in movimento tra l’Italia e le zone più “calde” del mondo, oggi impegnata in politica e domani in missioni umanitarie, ora in minigonna poi in divisa militare, a volte scrittrice di successo a volte serissimo diplomatico del Programma Alimentare Mondiale.

Difficile che sbagli una mossa, difficile che faccia un passo più lungo delle sue pur lunghissime gambe: qualsiasi cosa intraprenda, si può esserne certi, avrà successo.

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Marina Catena in abiti borghesi, sulla spiaggia del Foro di Ortona.

Sopra il titolo, il tenente Catena nel Libano del sud, agosto 2007.

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Mi confidava di recente un comune amico ortonese che gira il mondo per una organizzazione umanitaria: «Una volta, viaggiando, per dire che venivo da Ortona, ricordavo che ero concittadino di Tosti. Più di recente che anche Maurizio Costanzo era ortonese. Confesso di aver detto a qualche mia amica persino che venivo dalla stessa città di Rocco Siffredi… Ora non ho dubbi, dico che Marina Catena è ortonese e il suo nome è sempre un buon lasciapassare!».

Io invece ho conosciuto Marina Catena a Pristina a fine estate del ‘99 quando il Kosovo si era da poco liberato, grazie ai bombardamenti della Nato, della dittatura di Milosevic e quando quasi tutti gli 800mila sfollati erano rientrati nelle loro case. Facevo la spola con Belgrado per raccontare ai lettori del mio giornale cosa dicevano i serbi e cosa rispondevano i kosovari. Marina era la responsabile delle relazioni esterne della Missione di Pace Onu. Le aveva affidato quell’incarico Bernard Kouchner, francese, ex ministro di Mitterrand, capo della Missione in Kosovo e Rappresentante speciale del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan. Io e Marina in quei pochi e brevi incontri che avemmo, non realizzammo di essere “compaesani”. Ci scoprimmo tutti e due ortonesi l’anno successivo in una cena a Roma con George Malbrunot, giornalista francese grande ammiratore di Marina, che nel 2004 venne poi catturato in Iraq dagli uomini di Al Qaeda e rilasciato dopo quattro mesi di pesantissima prigionia. E proprio in Iraq, prima a Bagdad e poi a Nassiriya incontrai di nuovo Marina Catena impegnata questa volta in una missione del governo italiano. La rividi anche nella nostra ambasciata poche ore dopo che un missile lanciato da qualche gruppo terrorista si era stampato sui muri esterni della sede diplomatica.

A questo punto ecco spiegata la presenza di Marina alla cena di lavoro al Circolo della Farnesina. Con Kouchner, ministro degli esteri di Sarkozy, ha mantenuto continui contatti. L’attuale capo della diplomazia francese venne a Roma quando Marina presentò il suo libro Il treno di Kosovo Polje, l’ha invitata addirittura nell’ambasciata francese di Beirut quando la scorsa estate si è recato in Libano a visitare il contingente francese. E anche tra D’Alema e la Catena c’è ormai una “vecchia” amicizia. E quella cena fra i tre ministri? «Si parlò di Iran, certo –risponde Marina– ma anche dei piatti raffinati che Vissani portava personalmente in tavola…»

Marina, tu hai girato il mondo, Francia, Belgio, Balcani, Iraq, Libano… Ma alla fine, quando puoi, scappi sempre al mare, a Ortona…

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«Sì, Ortona è l’unico posto al mondo che chiamo casa. Bastano poche ore di libertà e corro in quella mia casetta gialla in riva al mare, al Foro di Ortona, nella quale sono nata e cresciuta con i miei nonni, tra il mare e la ferrovia, con un piccolo orto e con un oleandro. Ecco, per me la casa è così, non ce ne possono essere altre. Gli altri posti sono approdi ai quali mi sono legata tantissimo. Ma nessuno di quei posti ho mai chiamato casa».

Degli anni trascorsi nella tua città, dei tuoi amici, della scuola, dei tuoi legami, ti è rimasto qualcosa?

«Adoravo la mia scuola, ero una tipica secchiona.Pensa che quando ero malata, non dicevo niente ai miei, prendevo una medicina di nascosto e andavo in classe con la febbre… Ma sono andata via presto, a quindici anni, un distacco molto faticoso, ma esaltante.È successo quando mio padre che era comandante della nave scuola dell’Istituto Nautico, approdò a Trieste durante una crociera con i ragazzi.Scoprì che lì c’era una scuola, il Collegio del Mondo Unito, che sembrava fatta apposta per me, con studenti provenienti da ogni nazione.Aveva capito mio padre che, al di là dell’affetto per la mia città, Ortona mi stava già stretta.Mi iscrisse a Trieste e quell’esperienza, dopo le medie a Ortona e dopo tre anni di Liceo linguistico a Pescara, mi cambiò la vita».

Ma cos’ era questa voglia di scappare, di evadere, avevi già allora le idee così chiare, sapevi che avresti fatto la peacekeeper, la scrittrice, il militare?

«No, non tutto questo naturalmente. Ma io già a Ortona ero una specie di… fenomeno, quasi una bambina prodigio: facevo un tema e vincevo tutti i concorsi, facevo un disegno e tutti dicevano “che meraviglia!”, insomma ogni cosa che toccavo diventava “speciale”… La scuola di Trieste mi ha poi aperto questa vita senza frontiere. Mi sono iscritta quindi all’università, alla Luiss di Roma, ho vinto borse di studio, ho fatto l’Erasmus e me ne sono andata a Strasburgo, amavo la Francia, la letteratura francese, la musica, il cinema… Per me ognuno ha una seconda patria, dove gli sarebbe piaciuto nascere. Il mio secondo Paese è la Francia. Mi trovai benissimo da subito e quando seppi che l’Air France cercava delle hostess, feci il concorso così quasi per ridere. E invece mi presero. A ventun anni ero a Parigi, il mio sogno.

E volavo. Hostess nei voli intercontinentali. Oggi a Tokio, domani a Bombay, a Pechino in Thailandia, una pacchia. Poi sono tornata alla Luiss, laureata col massimo dei voti, naturalmente…»

Possibile che a Parigi tu non abbia lasciato il cuore, possibile che non ti sia innamorata di qualche pilota dell’Air France?

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«Pilota? Neppure per sogno. No, assolutamente… Mi sono semmai innamorata di uno steward, e lui di me, quindi tutto a posto…»

A questo punto cos’hai vinto ancora? E qual è stata la tua nuova città?

«Ho vinto uno stage alla Commissione europea e mi sono trasferita a Bruxelles. Dovevo rimanerci sei mesi, ci ho trascorso sette anni… Sono infatti diventata funzionaria della Commissione europea e ho iniziato a lavorare nel settore degli aiuti umanitari. A Bruxelles ho capito quello che avrei fatto, cosa sarei diventata. E poi ho avuto lì due grandi incontri, i più importanti forse della mia vita. Il primo proprio con Bernard Kouchner, allora deputato della Commissione europea. Lui mi fermò all’uscita dal Parlamento europeo e disse che voleva conoscermi, mi convinse ad occuparmi di aiuti umanitari, a studiare la situazione di quei Paesi in cui venivano compiute violazioni dei diritti umani, mi indicò insomma la strada che poi ho intrapreso. Ho lavorato in quel settore e gli devo molto, ecco perché sono tornata con lui a Pristina, ecco il perché di quella cena a Roma il 1 ottobre…»

Poi l’incontro con Emma Bonino…

«Anche Emma l’ho conosciuta a Bruxelles. All’inizio non le stavo simpatica, in particolare non amava le mie minigonne, i miei tacchi alti… Poi ha capito che, al di là delle gambe, ero una che lavorava, che si impegnava. E così è iniziata la nostra amicizia. E arriviamo al ‘99, quando Bernard viene nominato rappresentante di Kofi Annan in Kosovo, una specie di governatore, e mi chiede di partire con lui. Beh, giuro, quei due anni a Pristina, una città non certo affascinante, ancora oggi li ricordo come i più belli della mia vita. Io ero un po’ il braccio destro di Kouchner, mi occupavo di tutte le sue relazioni con la popolazione kosovara. Ero l’anello di congiunzione tra lui e la gente. È stato un lavoro faticoso, massacrante, si dormiva tre-quattro ore a notte e dovevamo prendere decisioni di vita o di morte, responsabilità incredibili. Avevo due esigenze: la mia sicurezza ma anche la vicinanza col dolore degli altri, andavamo sulle fosse comuni ad aiutare le persone a trovare i brandelli dei corpi dei loro cari, sono stati momenti strazianti.»

Esperienze drammatiche, che ti sono poi tornate utili…

«Sì, è vero. In pochi anni ho vissuto due tragedie in famiglia: la malattia di mia madre e un incidente a mio padre. Oggi hanno tutti e due problemi di mobilità, di autonomia… Come a

Pristina l’esperienza dell’aiuto umanitario, della solidarietà l’ho fatta anche qui a Ortona, a casa mia. Ma alla fine ho capito cosa mi piaceva fare e cosa so fare meglio: stare con le persone, affrontare i problemi e risolverli, far cambiare le cose. Il Kosovo e le prove che ho dovuto affrontare mi hanno dato questa grande opportunità».

Qualche lacrimuccia quando alla fine hai lasciato Pristina?

«Beh, ovviamente. Ho, del giorno della partenza, un ricordo indimenticabile. Io e il mio autista,Valon, un giovane kosovaro, bellissimo, che mi ha portato in aeroporto, nevicava. In quel momento, mentre mi lasciavo la città alle spalle ho realizzato che terminava una fase della mia vita, che non sarei mai stata più felice come lì. La stessa sensazione che ebbi quando lasciai la prima volta Ortona, quando mi resi conto della fine della mia infanzia, dei miei giochi da ragazzina».

Sei quindi rientrata a Roma,al tuo lavoro al Pam,l’Agenzia dell’Onu del Programma alimentare mondiale,ma non hai dimenticato Kosovo e kosovari: tanto che ci hai scritto un libro.Ma non ti bastava.Così ti è venuta l’idea di partire per Bagdad: non ce la facevi proprio a stare ferma nel tuo ufficio?

«Nell’agosto del 2003 in un attentato a Bagdad muoiono tre dei miei amici più cari, tutti funzionari dell’Onu, gente che avevo incontrato in giro per il mondo. Un mese dopo arriva questa richiesta del nostro ministero degli Esteri e parto per l’Iraq. Le cose sono andate diversamente rispetto al Kosovo, non potevo avere contatti con la gente, vivevo blindata, si poteva uscire poco e sempre con la scorta. Anche quella comunque è stata una grande esperienza, ho visitato numerose città, un territorio affascinante che avevo imparato a conoscere sui libri di storia, sono stata in quella che era la residenza di Saddam, mi sono seduta sulla sua poltrona, il suo trono… Poi c’è stata la tragedia di Nassiriya, dove io ero stata il giorno prima dell’attentato contro i soldati italiani. Lì, dopo la morte di tanti ragazzi che avevo conosciuto è maturata l’idea di indossare la divisa, per rendermi utile agli altri ma anche per esaudire un sogno che avevo fin da bambina: fare il soldato. Al mio rientro in Italia mi sono studiata le leggi, ho fatto la domanda per la riserva selezionata e nel maggio del 2005 ho fatto il giuramento e sono diventata ufficiale dell’Esercito…»

Così è iniziata la tua nuova avventura, quella che pochi mesi fa ti ha portato in Libano. Un’esperienza diversa rispetto alle precedenti?

Nelle foto in alto, da sinistra: il tenente Catena con il Ministro della Difesa francese Hervé Morin in visita alla truppe francesi, 14 luglio 2007, Libano del sud; nel cimitero inglese di Baghdad con la scorta di Carabinieri del reparto “Tuscania”; con Kofi Annan e Bernard Kouchner in visita alla Missione Onu in Kosovo; al fianco al generale della “Folgore” Maurizio Fioravanti e il colonnello francese Benis Heck nel Libano del sud.

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«Sono stata per quasi tre mesi consigliere politico, country advisor, del generale Fioravanti, comandante della Brigata Folgore, ho dovuto affrontare problemi diversi rispetto alle missioni del passato, problemi logistici, organizzativi, rapporti con gli altri contingenti internazionali, rapporti con le autorità libanesi, con il governo italiano. Anche lì, a Tibnine, nella sede del settore ovest della Missione Unifil, ho comunque imparato molto. Ad esempio che l’esperienza militare era un completamento della mia personalità, che la divisa ti aiuta a vedere in maniera diversa problemi

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che prima neppure notavi. Ma certo una cosa straordinaria è stata il condividere le proprie giornate con duemila paracadutisti, c’erano soltanto altre nove donne, ti sentivi sempre al centro dell’attenzione e della curiosità di questo piccolo mondo».

Viaggi, libri, missioni civili, missioni militari, parlamento europeo, voli in estremo oriente… Non c’è proprio più nulla da inventare?

«Mai dire mai…»

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Il racconto

I ragazzi sulla collina di San Donato di Marina Catena Il testo vincitore del Concorso di Narrativa 2007 organizzato dall’Unione nazionale ufficiali in congedo in Italia

i ricordi il nostro primo incontro? Avevo 14 anni, una gonna troppo corta per l’occasione e per quel vento capriccioso di dicembre che soffia su questa collina a picco sul mare.

A scuola ci avevano assegnato un tema sull’eroismo e così ero venuta qui, mi ero seduta su questo scalino di pietra con un quadernino a righe e per la prima volta avevo visto questa distesa bianca di marmo: 1,2,3… 1.615 tutti così belli, giovani, coraggiosi. Chi scegliere? Così usai il mio solito trucchetto: ad occhi chiusi, contai 18 passi –il mio numero fortunato– poi nell’erba bagnata persi l’equilibrio, riaprii gli occhi e c’ eri tu: 30 anni, capitano di fanteria.

Iniziasti subito a raccontarmi la tua storia: la casetta in riva al lago, i tuoi fratelli che lavoravano alla segheria, la chiamata alle armi, il tuo viaggio verso l’Italia, lo sbarco a Taranto e poi chilometri e chilometri verso l’Abruzzo; la prima volta che avevi dovuto sparare e la prima volta che avevi dovuto chiudere gli occhi ad un tuo compagno, la conquista della collina di San Donato strappata palmo a palmo ai tedeschi e le grida dei tuoi commilitoni; il fango che ti entrava dentro le ossa e le arance selvatiche di San Vito; l’assedio dentro Casa Berardi e le vecchine che vi davano da mangiare; il pranzo di Natale nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli che vi alzavate da tavola e tornavate a combattere; le ragazze che vi sorridevano sulla porta e quella canzoncina che ti avevano insegnato in dialetto abruzzese. E poi quello sparo, dritto, secco, inaspettato quando tutto sembrava ormai tranquillo e invece il destino… E da quel giorno questa collina a picco sul mare, per sempre.

Il tema era piaciuto molto alla professoressa che lo aveva letto ad alta voce in classe ed aveva aggiunto un po’ sarcastica: «Non ti sarai mica innamorata?». Sono passati tanti anni ed ancora non so se quello fosse amore o solo ammirazione. So solo che da quel giorno sei diventato il mio punto di riferimento, la mia stella polare, il mio nord. Venivo il sabato pomeriggio, dopo la scuola, mi sedevo su questo scalino e ti chiedevo di raccontarmi ancora una volta la tua storia che in fondo era anche un po’ la mia.

Per questo vorrei tanto che oggi tu potessi vedermi con questa uniforme: mi sono arruolata e credo sia stata colpa tua e dei tuoi racconti di coraggio. Ma forse è stata anche colpa di mio nonno Peppe, Tenente dei Bersaglieri che combattè in

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Polonia, fu internato in un campo di concentramento e riuscì a tornare a casa che pesava 40 chili. Devono essere stati quei pomeriggi passati ad ascoltare di quando al fronte aveva mangiato uccelli steneriti sotto la neve, e di quando di nascosto andava ad accarezzare la sua sciabola da ufficiale nascosta nell’armadio e gli si inumidivano gli occhi, e di quel giorno in cui lo sorpresi in cucina a strappare tutte le foto di guerra. Ne salvò solo una: c’è lui al fronte, in mezzo alla neve, che ride assieme ai suoi compagni.

E c’entra un po’ anche mia nonna Memena, che mettendo in ordine il baule del corredo mi raccontava di quando lavava le divise di voi giovani soldati canadesi feriti in battaglia, le smacchiava dal sangue con la cenere, le stendeva al sole e quelle strappate le tagliava, le cuciva per farne vestiti a mio padre e agli altri bambini. Peccato che i nonni non siano riusciti a vedermi con questa divisa grigio-verde: sarebbero stati contenti.

Ti stupisce vedere una donna ufficiale? Eh sì, le Forze Armate sono cambiate: da qualche anno ci sono anche le donne, è stata abolita la la leva obbligatoria e si può scegliere di fare il militare di carriera. Le Forze Armate hanno dovuto adattarsi a nuovi scenari, a nuove sfide, e soprattutto alle nuove guerre. Ai tuoi tempi si combatteva uno stato contro l’altro, e tutto era chiaro, stabilito, codificato: c’erano i militari e c’erano i civili, c’era il fronte e c’era la patria, c’era la pace e c’era la guerra.

Le guerre moderne invece sono fluide, le chiamano “guerre asimmetriche”, da una parte i guerriglieri, i ribelli, i terroristi, dall’altra gli eserciti veri e propri. Oggi i soldati si chiamano peace-keepers, sono inviati sulla base di accordi internazionali a mantenere la pace in paesi dai nomi esotici come Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libano, ma il più delle volte quando arrivano in teatro operativo hanno in mano solo una risoluzione ONU scritta in politichese da un gruppo di diplomatici a New York e devono “implementarla” come si dice in gergo.

Così più che mantenere la pace debbono costruirla: gli è chiesto di saper usare le nuove armi in dotazione ma anche di saper proteggere la popolazione, di saper parlare con i diplomatici e anche dialogare con i capi tribù, di rispettare le regole d’ingaggio che il loro governo stabilisce ma anche di improvvisarsi ingegneri, medici, avvocati in questi conflitti sempre più complicati, in una futuristica babele di razze, cul-

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ture, religioni, sensibilità, storie, destini. È un compito così difficile che Dag Hammarskjold, segretario delle Nazioni Unite ebbe a dire: “Il peacekeeping non è un lavoro per soldati, ma solo i soldati possono farlo”.

Eroi? Io non li chiamerei così. Sono ragazzi normali che hanno deciso di indossare una divisa e farne il proprio mestiere: voglia di una carriera senza frontiere a contatto con la gente? Un mutuo da pagare? Un amore finito male? Un sogno di gioventù? Qualsiasi sia la ragione che li spinge ad indossare una uniforme sono semplicemente uomini e donne che fanno il proprio dovere: come il sergente degli alpini nel monastero di Pec che proteggeva i pochi serbi rimasti in Kosovo dalla vendetta degli albanesi; o il luogotenente dei Carabinieri che indagava sui reperti trafugati dal museo di Baghdad ed aveva scritto la prima mappa dei beni archeologici iracheni; o come la soldatessa spagnola che faceva la scorta ad un convoglio medico a Kabul.

Le battaglie di oggi somigliano molto alla battaglia di Ortona del dicembre 1943 per la quale tu e gli altri 1.614 soldati vi siete sacrificati per liberare un paese che non era neppure sulla cartina geografica: “la Stalingrado d’Italia” combattuta casa per casa dove, oltre a voi soldati, persero la vita anche 1.314 civili. Anche i nostri peace-keepers sono chiamati a portare la sicurezza dentro le città, nelle stradine polverose di Sadr City, nel fango di Kandahar, o sul ponte di Mitrovica. E come allora militari e civili muoiono insieme.

Sì, certo, oggi ci sono i Predator, le mappe tridimensionali, il satellite che ti fa vedere il territorio persino nelle strade. Non devi più aspettare mesi per parlare con la fidanzata ma puoi chattare su internet o parlarle con il telefonino. E poi c’è la televisione che con le sue immagini porta tutti in prima linea, a sentire il rumore dei proiettili, a vedere le tempeste di sabbia nel deserto, il dolore dei feriti, la vita di tutti i giorni; la TV

• Il cimitero di guerra canadese nella frazione San Donato di Ortona 34

che a Natale dedica un servizio al pranzo dei militari sotto la tenda e che fa piangere i tuoi cari a casa e gli fa dire con orgoglio che vale la pena tenere duro ed aspettare il tuo ritorno a casa.

Il coraggio e lo spirito di sacrificio dei soldati invece sono sempre gli stessi, uguali a quelli che avevate voi in quell’inverno 1943 quando siete arrivati in questo paese tanto piccolo da non essere neppure sulla cartina geografica e siete rimasti qui per sempre.

Anche la morte è sempre la stessa: arriva con una telefonata a casa, una notizia dell’ ANSA, una volante dei Carabinieri.

Poi il picchetto d’onore dei tuoi commilitoni ed il C130 che ti riporta a casa.

Eppure quando torno a trovarti in questo cimitero canadese alle porte di Ortona penso a quante cose ho imparato dal vostro sacrificio leggendo queste 1.615 lapidi bianche come fossero pagine di un libro, ascoltando le vostre storie silenziose di sacrificio uguali alle storie di tutti coloro che sono caduti per realizzare la pace e che non hanno mai fatto ritorno a casa.

Sarebbe bello se un giorno anche le storie dei nostri peacekeepers fossero un esempio per le nuove generazioni, non solo in Italia ma anche in quei paesi dai nomi esotici dove i nostri soldati vanno a costruire la pace e la sicurezza.

Sarebbe bello se tra 50 anni quelli che oggi sono i bambini kosovari, iracheni, afghani, libanesi si ricordassero che sono stati i soldati italiani a ricostruire la loro ferrovia tra Kosovo-Polje e Mitrovica, a far ripartire la loro centrale elettrica a Nassirya, a permettere agli aquiloni di volare ancora ad Herat, a riaprire le scuole a Tibnine. E magari un giorno una ragazza irachena della regione di Dhi Qar scriverà un tema su un soldato venuto dall’Italia per liberare il suo villaggio così piccolo che non c’è neppure sulla carta geografica e poi… chissà!

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Francesco Vantaggio

Un pescarese a Parigi di Daniela Peca foto Antonella Da Fermo

Danzare è il suo mestiere, l’Opéra il suo luogo di lavoro.

Ritratto di un artista che il palcoscenico ce l’ha nel sangue

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udolf Nureyev? «Il più grande ballerino del mondo di tutti i tempi». Roberto Bolle? «È un mio amico: è perfetto, come un libro di danza stampato e aperto».

Francesco nei suoi giudizi è sicuro, aperto, cordiale.

Nessuna invidia, nessuna imitazione. Solo una smisurata passione in comune con gli altri ballerini: la danza classica.

«Amo profondamente ballare, comunicare con il corpo, con l’espressione del viso e con i gesti.

Quando sono in scena cerco di trasmettere al pubblico tutto quello che ho dentro, quello che sono. La danza ha dato un significato importante alla mia vita, e mai direi ora che avrei preferito fare qualcos’altro». È bello e bravo. E lo sa. Come lo sa il corpo di ballo del migliore Teatro del mondo, l’Opéra di Parigi, di cui fa parte da ormai dieci anni. «Ho avuto grandi insegnanti e tanta fortuna per arrivare fin qui. Essere il miglior ballerino di una compagnia mediocre è facile, mentre a Parigi io ballo con il meglio della danza del mondo. E sono soddisfatto. Si lavora con i più bravi coreografi, classici e contemporanei, si percorrono tutti i repertori possibili e si raggiunge una qualità massima».

Francesco Vantaggio ha ventinove anni ed è figlio d’arte. Vissuto tra Venezia, Roma e Pescara a diciannove anni è approdato al Teatro della capitale francese dopo aver superato un’audizione. «La danza è stata sempre presente nella mia infanzia. Assistevo a tutti gli spettacoli dei miei genitori». La mamma, Rossana Raducci, pescarese, è stata ballerina e poi si è dedicata all’insegnamento: diplomata all’Accademia di Danza di Roma, ha aperto e attualmente dirige una scuola a Pescara dove si seguono corsi accademici di altissimo livello. «Ho iniziato a

ballare proprio lì, nella scuola di mia madre, a nove anni. Era solo una prova, anche perché io a quei tempi volevo fare tutt’altro. Amavo il calcio e lo studio. Se qualcuno mi chiedeva “cosa vuoi fare da grande?” rispondevo “l’architetto o l’ingegnere”. Ora, col senno di poi, devo sicuramente ringraziare mia madre, che ha sempre trovato le giuste parole di incoraggiamento e conforto, negli inevitabili momenti di depressione, per farmi continuare sulla strada della danza». Il padre, Giancarlo Vantaggio, romano, è stato primo ballerino del Teatro dell’Opera di Roma, poi direttore del Teatro “La Fenice” di Venezia ed infine coreografo. «Ho perso papà a quindici anni, e quando una cosa fa male ci si cammina sopra per non sentire il dolore. Così ho fatto: mi sono dedicato alla danza con tutta l’anima, guardando lui come punto di riferimento. Forse è stato questo sentimento a dare una svolta alla mia vita professionale».

Il fratello Cristiano, di cinque anni più piccolo, si è incamminato invece verso un altro campo artistico, quello del teatro.

Capelli folti e corvini accuratamente spettinati, occhi grandi ed espressivi, sorriso dolce e accattivante: Francesco Vantaggio è un misto artistico tra Hugh Grant e Antonio Banderas, un concentrato di armonia, ben distribuita nel suo metro e ottanta di muscoli, agili ed elastici, curati in ore ed ore di danza ogni giorno. Intorno a sé ha un’aura che lo distingue dagli altri ragazzi. «La danza è un’arte, è una passione, e deve essere vissuta come tale. Mi sono sempre rifiutato di entrare negli schemi rigidi di quello che può essere un “corpo di ballo”. Io ballo per ballare, e così dovrebbe essere sempre. Essere in scena, fare ciò che piace. C’è sempre una magia che circonda la preparazione di un balletto. E poi portarlo sul palcoscenico, a

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«La danza è sempre stata presente nella mia infanzia.

Assistevo a tutti gli spettacoli dei miei genitori»

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compimento, davanti a migliaia di persone: è questo il vero piacere della danza. Che sia all’Opéra di Parigi o in una Compagnia itinerante il ballerino è fatto per stare in scena e trasmettere la propria passione al pubblico». Anche quando parla Francesco è così: passionale ed espressivo. Gli si legge negli occhi e nei gesti la gioia di amare il proprio lavoro. Rinunce?

Sacrifici? Certo, non lo nega. «Nessuno di noi può dire di aver avuto un’infanzia come quella degli altri bambini, ma questo vale per tutti gli sport fatti ad un certo livello. Le feste degli amici non esistevano. C’era la scuola, la danza, i compiti e poi il letto. E così tutti i giorni fino a diciotto anni. Assolutamente tutto ciò non mi è pesato, perché quello che non avevo dai contatti esterni lo compensavo con le amicizie della danza, con tutto quel microcosmo che si crea intorno». Francesco a dieci anni comincia a frequentare la scuola media collegata con l’Accademia di Danza di Roma, dove si trasferisce con la famiglia per esigenze di lavoro del padre. Lì studia insieme a ragazzi e ragazze che praticano la danza come lui. «Un contesto senz’altro favorevole, ma allora non ero ancora convinto di voler continuare. Non c’era la passione alla Billy Elliot. I miei genitori mi hanno convinto di anno in anno, finché alla fine delle medie mi hanno iscritto alla scuola del Teatro dell’Opera di Roma in concomitanza con l’arrivo di Elisabetta Terabust, che poi è stata onnipresente nella mia vita in svariati modi: come direttrice della scuola di danza, come direttrice della Compagnia di ballo, come amica, come maestra.

Con il liceo, lo Scientifico, è iniziata la passione: una scintilla, come capita a volte, o forse una maggiore responsabilità. E così ho continuato, lavorando anche un anno nella Compagnia del Teatro dell’Opera. Poi a diciannove anni ho fatto un’audizione a Parigi e da allora vivo lì». Il corpo di ballo dell’Opéra conta 167 elementi, tutti francesi ad eccezione di quattro italiani (tre uomini e una donna) tra cui Francesco, e porta in scena circa duecento spettacoli l’anno più le tournée.

«Noi a Parigi portiamo avanti danza classica e contemporanea. Oggi il contemporaneo ha molto più seguito rispetto a prima, quando si prediligevano i balletti classici. I direttori dei teatri cominciano a bilanciare le programmazioni, anche a livello di budget, perché i grandi balletti costano di più sia per il numero di ballerini sia per la ricercatezza delle scene e dei costumi. Il pubblico, d’altronde, si interessa alle novità, all’opzionale, ma non sempre queste soluzioni sono ben riuscite rispetto ai grandi capolavori classici, a meno che a lavorarci non siano i geni della coreografia mondiale». Anche se afferma che è necessario che un ballerino sia polivalente, che sappia passare da uno stile ad un altro con estrema naturalezza, Francesco ama profondamente i ruoli poetici, lirici,

romantici. «L’aspetto fiabesco del ballo mi ha sempre affascinato, fin da piccolo, e ritrovarmi ora nei panni del Principe delle favole mi piace. Prediligo i ruoli dei grandi balletti come il “Don Chisciotte”, “La Bella Addormentata”, “Lo Schiaccianoci”, “Il Lago dei Cigni”».

Il fisico, la tecnica e il lavoro, tenuti uniti da costanza e passione, sono gli ingredienti di base per diventare bravi ballerini. Poi, quel qualcosa in più che si ha dentro, e la capacità di esprimerlo, piroettando e volteggiando sul palco, fa la differenza, crea l’eccezione. «In ogni ballerino, come in ogni persona di spettacolo, c’è un lato narcisista indispensabile per riuscire a comunicare i propri sentimenti e dare il massimo alla gente che sta intorno: il pubblico, la famiglia, gli amici. Io sono gratificato da ciò che dò, da ciò che trasmetto».

La vita però per Francesco non è solo danza, anche se quest’ultima è il perno intorno alla quale la prima ruota. Ama la poesia, l’arte, la letteratura e l’informatica. È aperto a tutti i campi che lo affascinano e lo coinvolgono. Lo coinvolgono la bravura di Al Pacino, la bellezza e il fascino di Audrey Hepburn e la musica classica, Beethoven in particolare. «Sono anche gli altri interessi che ti aiutano a crescere in professionalità ed umanità. Solo così si riesce a dare il meglio di sé: catturando le sensazioni che ti circondano». Ogni estate Francesco torna a Pescara, dove trascorre lunghe giornate al mare, sotto la palma di famiglia, organizza partite di calcio in spiaggia con gli amici e gusta i piatti che preferisce: spaghetti alla carbonara e lasagne. E tanti dolci. Quest’anno è con lui anche Isabel, la sua ragazza: francese, laureata in marketing e finanza, anni di studio di danza alle spalle.

«Ho imparato il francese –spiega– ascoltando telegiornali e leggendo libri. Amo Parigi, è una città regale e raffinata, e mi piace molto viverci, ma divento una belva quando qualcuno mi parla male dell’Italia. E la conquista della coppa del mondo di calcio non ha fatto altro che aumentare l’orgoglio di essere italiano».

Si definisce influenzabile e fatalista, ma in verità ha le idee chiare. «Più che idee sono ideali –precisa– abbastanza chiari. So che non mi interessa ballare per me stesso, sacrificando affetti ed interessi per diventare “il migliore di tutti”. Per il momento questo scatto non fa per me. In futuro non so. Ora come ora mi farebbe solo piacere che mio padre fosse qui, per fargli vedere quello che sono riuscito a fare. Penso che sarebbe stato fiero di me. Principalmente, quando sono in scena, sul palcoscenico, ballo per lui».

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Piero Di Silvestro

Bicirider di Fabrizio Gentile Foto di Claudio Carella / Archivio Piero Di Silvestro

Venticinquemila chilometri in bicicletta.

Un viaggio lungo due anni dall’Italia alla Thailandia, al seguito di un circo molto particolare.

Il suggestivo percorso geografico, umano e intellettuale di un artista tra Chatwin e Marco Polo, alla ricerca di se stesso

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anno è il 2005, ma lo spirito è quello del ’68. A muovere l’animo –e le gambe– di un giovane artista, pescarese di nascita e romano d’adozione, sono le stesse cause che molti giovani sposarono quarant’anni orsono, quando gli ideali di libertà, di una vita condotta secondo regole diverse spinsero molti ad abbandonare tutto e partire. Lo scrittore Paul Morand si interrogò sulle ragioni del viaggiare, e finì per considerare il viaggio un gesto di difesa, un comportamento antisociale. Chatwin vedeva il viaggio come una crescita culturale, un cambiamento di luogo che ne implicava uno dell’anima; per Piero Di Silvestro il viaggio è una sintesi di questi due pensieri: «Volevo scoprire, vedere quel che succede nel resto del mondo, ma soprattutto volevo stare bene con me stesso.

Non avevo paura di lasciare casa, di lasciare tutto. Le cose a cui tenevo veramente le ho lasciate in una casa dei miei nonni, a Pratola Peligna, il resto l’ho regalato». Viaggiare è, soprattutto, un modo per vivere da artista, per portare l’arte a tutti. «L’idea che ho io è: l’arte deve essere portata in strada. Solo così arriva a tutti, la galleria o il museo sono luoghi elitari, invece io preferisco il concetto alla rovescia. Non è l’individuo che va all’arte, è l’arte che va dalla gente. Nella strada l’arte l’avvicini a tutti». Scultore, trentenne, diplomato all’Accademia di Belle arti di Roma, lavorava come educatore sociale in una ludoteca a Tor Bella Monaca, «il Bronx roma-

L’

no», dice, «dove i genitori venivano armati a riprendere i figli» e dove aveva cominciato a unire arte, progetto politico e passione. Come dire ruote, telaio e catena, perché è proprio alla periferia Est di Roma che Piero apre, nel settembre 2004, la sua prima Ciclofficina: «Si trova nel Centro sociale dell’ex Snia, sulla Prenestina; mi serviva un luogo dove poter lavorare, costruire bici strane, e inoltre volevo insegnare agli altri, gratuitamente, come si costruiscono e si riparano le biciclette. Per me la bici ha un forte valore politico, oltre che essere la mia “ossessione” artistica: i miei scultori preferiti sono Calder e Tinguely. La mia tesi di laurea è stata una parata, una vera Critical Mass, dalla Ciclofficina all’Accademia. Ottanta persone in bici (molte costruite da me) vestite in modo elegante, chi in smoking, chi con la cravatta, con abiti da sera, e una bici con due altoparlanti anni ’50 che diffondevano musica operistica».

Poi, un giorno, la decisione di lasciare questo ambiente, di cambiare vita: «Ero stressato da tutto quello che facevo.

Dormivo pochissimo, correvo continuamente da un posto all’altro, preparavo concerti, riparavo biciclette; soprattutto mi ero stancato di Tor Bella Monaca, e allora insieme a Simone, un mio carissimo amico, ho deciso. Ho programmato la partenza sei mesi prima. Ho avvertito prima di tutti il mio capo, che si è messo a piangere… avevo le chiavi della ludoteca, gliela portavo avanti… poi ho

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CYCLOWN CIRCUS Il Cyclown Circus nasce dall’iniziativa di 3 persone che dal Texas, nel ’98, hanno preso un aereo e sono andate a Christiania, a Copenaghen; hanno costruito tre biciclette assemblate con scarti di altre bici e hanno cominciato a viaggiare. Artisti di strada. Da lì il gruppo si è ingrandito, altri amici e altre persone si sono aggregate lungo la strada. Nel circo sono passate circa 150 persone.

«Siamo partiti in due –spiega Piero–

cominciato a cercare chi poteva sostituirmi alla Ciclofficina.

E a giugno del 2005, sono salito in sella alla mia bicicletta da Roma, e ho iniziato a pedalare. Destinazione: Est». Il “tredicesimo viaggio”, quello lungo, quello che sai quando parti e non sai quando torni. La partenza, Roma, dalla Ciclofficina; la meta, raggiungere un gruppo di artisti di

ma il nostro è un gruppo aperto.

Quando si viaggia è difficile stare insieme perché ognuno ha le sue esigenze, le sue curiosità: “Io voglio andare a vedere questo, io quello…” allora si dice “ci vediamo a Kuala Lumpur, tra un mese”. Capita che si viaggi in due, in tre.

Di italiani siamo solo io e Simone, poi c’è una ragazza argentina, una canadese, quattro o cinque americani, ragazzi tedeschi, due inglesi, una russa, una estone; con noi hanno viaggiato ragazzi turchi, per un po’, e greci».

strada raccolti sotto il nome di Cyclown Circus, un ensemble che viaggia da anni e che al momento della partenza di Piero si trovava in Turchia. Quello che segue è il racconto del suo incredibile viaggio da Roma a Bangkok, durato 2 anni durante i quali Piero e i suoi amici hanno percorso oltre 25mila chilometri, quasi tutti in bicicletta.

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LA VALIGIA DELL’ATTORE «Per un viaggio come questo devi avere il minimo indispensabile. Oggi si vive con tante cose che in realtà non ti servono, siamo circondati e attaccati al superfluo. Io viaggio con un equipaggiamento assolutamente non tecnico. Mi viene da ridere quando vedo ‘sti ciclisti ipertecnologici, con luci e apparecchi vari, tute e caschetti… Roba da nordeuropa, dove sono educati. Nel Sud-Est asiatico non esiste nulla di tutto questo. Il mio equipaggiamento consiste in tantissimi bagagli con cose che mi servono per lo spettacolo, e la mia vita è racchiusa in due borse con vestiti, qualche memory card per le fotografie e un materassino per dormire, nient’altro. E naturalmente attrezzi: io sono il meccanico del gruppo: ho una borsa che pesa una decina di chili. » DUE PESI, DUE MISURE «La mia bicicletta pesa 80kg, è composta di due telai sovrapposti; è una bici a due piani che uso per gli spettacoli, e comunque va molto piano.

Ma abbiamo proprio voglia di andare piano, non è un viaggio improntato alla velocità.»

MODUS VIVENDI «È tutto alla giornata, non ci sono programmi. Quando siamo in viaggio la giornata tipo è: sveglia presto, si pedala, nel primo posto dove è possibile mangiare qualunque cosa ci fermiamo, poi si pedala di nuovo.

La cosa assurda del nostro viaggio è che appena arriviamo in un villaggio ci fermiamo, e la prima cosa che facciamo è scendere dalle bici, bere un sorso d’acqua e bum, spettacolo. È il modo più semplice e diretto per spiegare chi siamo e cosa facciamo. E poi noi suoniamo musica: siamo otto persone e ci portiamo un contrabbasso, una fisarmonica, due violini, una tromba, un trombone, un clarinetto, una cassa flamenca, un banjo e un tamburello. Nello spettacolo abbiamo una mappa che mettiamo a terra, e un cartello che facciamo tradurre ogni volta che attraversiamo un confine, che dice che quella è la nostra vita, giriamo il mondo in bicicletta e facciamo spettacoli, e se ti piace ci puoi aiutare dandoci un alloggio, del cibo, o del denaro… Poi dopo lo spettacolo se possiamo andiamo al mercato e compriamo del cibo, ma più spesso capita che ci offrano di tutto».

• In queste pagine, alcuni dei luoghi attraversati da Piero durante il suo lunghissimo viaggio. In alto, segnali stradali, alcuni dei quali particolarmente bizzarri.

Qui sotto, da sinistra a destra: la bici parcheggiata in Thailandia; spettacolo in Mongolia; in Turchia, sotto la pioggia; un’esibizione davanti all’esercito georgiano; on the road in Laos; un buon raccolto in Mongolia; nella fila in basso: accampamento in Thailandia; foto di gruppo in Cina; davanti alla Piazza Rossa di Mosca; la carcassa di un cavallo nel deserto del Gobi; un giovane giocoliere laotiano; il circo viaggiante del Laos; un momento di spettacolo in Thailandia

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SÌ, VIAGGIARE «Viaggiare in bicicletta è come andare a piedi o a cavallo: un metodo antico. Non è una forma di turismo moderno. Quando vai in un villaggio e ti vedono arrivare con quei mezzi, e gli dici che vieni dall’altra parte del mondo, la gente si apre».

letteralmente presi e sollevati, gli cambiano le ruote e li spostano sugli altri binari. Il vagone con le nostre bici era partito in un’altra direzione… poi alla fine siamo riusciti a recuperarle,dopo ore di spiegazioni alla dogana».

VISTI E RIVISTI «La cosa più importante in viaggio è il visto d’ingresso nei vari Paesi.A volte un visto costa molto,altre volte si paga in base al periodo che si prevede di trascorrere in quel Paese,altre ancora –come in Russia– ci hanno concesso un visto limitato.Questo ci costringe,talvolta,a usare il treno per spostarci,quando dobbiamo muoverci più velocemente.Per esempio il visto per la Russia durava solo un mese,quindi siamo stati tre settimane a Mosca e da lì abbiamo preso la Transiberiana fino al Lago Bajkal.Una settimana di treno,abbiamo cambiato fuso orario cinque volte».

LA CINA È VICINA? «In Cina è vietato fare spettacoli per le strade, quindi siamo stati costretti a cercarci luoghi dove potevamo esprimerci. A Pechino abbiamo fatto spettacoli in posti incredibili, molto “fancy”, come la fiera internazionale del mobile, scuole internazionali… Alcuni ragazzi che studiavano fotografia e avevano bisogno di sperimentare ci hanno fatto circa sei o sette servizi fotografici. La cosa più incredibile è che a un certo punto ho sentito un odore familiare, e ho scoperto che in un ristorante stavano mangiando, incredibile a dirsi, degli… arrosticini!

Erano fatti a mano, piccanti, e ricoperti di salsa di soia. Ma erano proprio i cari, vecchi arrosticini di pecora».

BINARIO, TRISTE E SOLITARIO «Dal lago abbiamo fatto in bicicletta gli ultimi 300 chilometri fino al confine con la Mongolia. Arrivati a Ulan Bator abbiamo ripreso il treno, perché dovevamo superare i 500 chilometri del deserto del Gobi. Giunti in Cina, a Jinin, abbiamo dovuto aspettare tre giorni le nostre biciclette rimaste al confine per un disguido, perché quando si passa dalla Mongolia alla Cina cambiano le rotaie, quindi i vagoni vengono

LE DISCESE ARDITE, E LE RISALITE «Da Pechino siamo scesi a sud, verso il confine con il Laos, e lì è stata una parte abbastanza dura del viaggio. La regione cinese dello Ju-Nan è una delle più montuose, e ci è toccato spingere le nostre bici per giorni, su interminabili salite. Anche se, alla fine, mi sono goduto una discesa altrettanto lunga, durante la quale sono stato in sella, senza pedalare, per quasi tre ore, guardando i terrazzamenti per la coltivazione del riso».

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MR. LIVINGSTONE, SUPPONGO «Sono stato in posti dove non si era mai visto un bianco, dove nessuno aveva mai visto dei peli, i locali mi toccavano i baffi. Mi prendevano gli occhiali, me li guardavano. Sembrava di vivere l’esperienza degli esploratori in Africa nel XIX secolo.Ti accorgi come funzionavano le cose un tempo, e come è delirante il turismo di adesso».

CIRCO «Entrati nel Laos da circa tre giorni, eravamo solo in due, io e Simone (l’amico che è partito insieme a Piero da Roma, ndr), gli altri erano rimasti indietro. Un giorno abbiamo incontrato un circo itinerante: viaggiavano su un camion scassatissimo, un residuato bellico russo, e su un piccolo pick-up. Li abbiamo seguiti e appena raggiunti ci siamo messi subito a fare il nostro spettacolino. Loro sono rimasti a bocca aperta, e ci hanno chiesto (e per capirlo ce n’è voluto) di fare lo spettacolo insieme a loro quella sera stessa. Siamo stati insieme per un mese, poi siamo entrati in Thailandia perché avevamo già acquistato il visto; dopo due mesi siamo ritornati in Laos, per riunirci a loro; per la prima volta siamo tornati indietro, perché nel nostro viaggio non si torna mai indietro, si va sempre avanti. Ma la situazione era stata talmente bella che abbiamo deciso di trascorrere un altro mese con loro in Laos. La cosa più bella è stato l’incontro con il cantante, sedicenne, del circo laotiano. Ho voluto vedere fino a che punto l’aria di innocenza, di purezza che lo circondava fosse vera, e gli ho chiesto se conoscesse i Backstreet Boys, Britney Spears e Michael Jackson. Quando ha risposto di no, è stato un sollievo, mi sono commosso. Credo sia stato il momento in cui mi sono sentito più libero».

THAILANDIA «I thailandesi sono forse le persone più belle che ho conosciuto in viaggio. Ma a mano a mano che ci si avvicina alle grandi città, ai luoghi più turistici, vedi che cominciano a parlare francese, inglese, e soprattutto cominciano a chiederti soldi, a vederti come un turista anche se non lo sei. Il fatto è che il nostro non è un viaggio turistico, è un viaggio di conoscenza».

ITALIAN GAFFES «Viaggiando, le culture cambiano: a volte nello spettacolo ci sono gag che in un luogo possono piacere, in un altro magari risultano offensive.

Questo spesso lo abbiamo imparato sulla nostra pelle, come in Laos, paese buddista: io e Simone di solito prendiamo un volontario, lo mettiamo al centro con una sigaretta e con le clave gliela facciamo saltare. Il tipo era un po’ timido, si muoveva, così a un certo punto io gli ho preso la testa, da dietro, e gli ho detto “fermati”. Il pubblico ha fatto “oooooohh”, la banda si è fermata, c’è stato il gelo… Il fatto è che in un paese buddista non si tocca mai la testa alle persone. È una mancanza di rispetto. O, per esempio, puntare i piedi in alto, o verso qualcuno: il piede, in un luogo dove si va spesso scalzi, è la parte del corpo più sporca, e quindi non si mostra mai a nessuno… Quando eravamo col circo, alla fine di uno spettacolo, abbiamo fatto coi piedi il gesto, clownesco, di mandare via le persone coi piedi, come se li prendessimo a calci: il direttore del circo ci ha guardato con una faccia… Abbiamo sempre la scusante che siamo stranieri, quindi le gaffes rientrano sempre. Però questo serve a capire meglio un popolo, le sue usanze».

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CIBO «Se viaggi in bicicletta devi imparare la lingua e adattarti a qualunque cosa. A Cipro abbiamo conosciuto una ragazza argentina, Janine, che si è aggregata al gruppo. Era vegetariana: dopo due mesi non lo era più.

Del resto se sei in Mongolia e un contadino ti offre una bistecca di cavallo, che per lui è la cosa più buona e importante che ha, non puoi offenderlo rifiutando. Non ci sono patate, non ci sono carote, al massimo ci sono delle strane erbe… oltre alla mancanza di rispetto c’è comunque un discorso di sopravvivenza: in Asia il cibo è estremamente diverso dal nostro. Nel sud della Cina, nel Laos, ho mangiato cose che non avrei mai creduto di mangiare in vita mia: cani, gatti, serpenti, cavallette, marmotte. Le cavallette sono buone, le mangiano come fossero patatine, mentre si parla, si cammina… In certi posti mangiano tutto quello che si muove, perché c’è un livello di povertà incredibile, quindi quello che trovi mangi. Se nel villaggio dove il circo arriva non si trovano altro che marmotte, ti mangi la marmotta. Che tra l’altro è buonissima».

SORPRESA! «Tornati in Thailandia per altri tre mesi, siamo poi andati in Malesia. 40 chilometri dopo il confine ho trovato un punto internet dal quale ho potuto scoprire che i miei amici mi facevano tornare a Roma con un biglietto aereo. Ho attraversato mezza Europa, l’Asia e l’Estremo Oriente, ci ho messo due anni ad arrivare a Bangkok, e sedici ore per tornare a Roma».

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Assist mediterraneo Dal successo di Euro Basket Woman 2007 a una poltrona che “scotta”: quella di general manager di Pescara 2009. Un ruolo che sembra tagliato su misura per un playmaker di lusso come Mario Di Marco di Stefano Campetta foto Roberto De Liberato

R • Nelle foto, alcuni dei momenti più significativi degli Europei di Basket.

Nella pagina accanto, al centro, Mario Di Marco

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ipetere a Pescara 2009, ovvero i Giochi del Mediterraneo, il miracolo di Chieti 2007, gli Europei di basket femminile. È la missione possibile affidata a Mario Di Marco, presidente del Cus Chieti, ideatore dell’evento continentale da poco concluso e attore protagonista nel grande spettacolo degli Europei, un film che ora aspetta di essere replicato sul set dei Giochi del Mediterraneo, nonostante sull’evento soffino forti i venti di problemi organizzativi e di una certa smania di protagonismo della politica. Beghe che spetterà ora proprio al supermanager teatino districare

con la pazienza e l’abilità che gli sono riconosciuti, ma soprattutto con un occhio attento alle lancette dell’orologio, lanciate verso l’ultimo giro.

Dalla parte di Di Marco, del resto, ci sono proprio i grandi numeri a parlare. Come quelli che hanno portato in Abruzzo, sulle tribune dei cinque impianti coinvolti nella più importante manifestazione continentale dedicata alla pallacanestro femminile, qualcosa come oltre 30mila spettatori provenienti da tutta l’Europa. Con ben 3mila assiepati sugli spalti del rinnovatissimo Palatricalle di Chieti, per la sola finalissima. Poi, ci sono i 50 passaggi

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• Qui sopra, al centro, il Presidente del Cus Mario Di Marco; alla sua destra il Presidente della Fiba, Fausto Maifredi, e alla sua sinistra il Vicepresidente della Provincia Umberto Aimola

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radiofonici su emittenti nazionali, in grado di sviluppare 7 milioni e mezzo di contatti, che diventano oltre 41 milioni sulle televisioni nazionali, più di 200 su scala europea… Cifre che fanno impallidire sport più gettonati e più corteggiati dal mondo dei media, visto che sono state circa 240 le testate giornalistiche accreditate per l’evento. Un festival di numeri, cui vanno sommate le oltre 200 braccia di volontari impegnati per la buona riuscita della manifestazione, i mille e passa componenti delle delegazioni sportive presenti.

Il bilancio di Chieti 2007, insomma, diventa per Di Marco la migliore credenziale sullo scenario, forse sportivamente meno importante, ma di certo politicamente e organizzativamente più complesso e oneroso, che lo attende a settembre 2009 con i Giochi del Mediterraneo. Inevitabile, così, chiedere quale sia stata davvero la chiave del successo della manifestazione che lo hanno proiettato sullo scenario dei grandi eventi sportivi internazionali: «Sicuramente il lavoro di gruppo –dice– soprattutto nella fase conclusiva. Forse all’inizio non tutti i protagonisti avevano compreso le dimensioni dell’evento. Ma negli ultimi mesi la consapevolezza è cresciuta, il coinvolgimento è stato grande, l’impegno forte da parte di tutti. Siamo soddisfatti di aver raggiunto tutti gli obiettivi, e abbiamo ottenuto risultati eccellenti sul piano della comunicazione, sia sulla carta stampata che in tv: ben 106 Paesi

hanno potuto seguire in diretta le gare nelle varie città abruzzesi. È stato un successo di pubblico stratosferico: difficile in un Paese come il nostro dove il basket femminile non è poi così seguito avere una media di mille spettatori a partita anche nelle gare eliminatorie, con punte altissime nelle fasi preliminari e tremila persone presenti alle quattro finali».

Il fatto che Nar Zanolin, presidente della Fiba Europe, abbia espresso parole di lode completa il quadro. «E non possiamo che sentirci gratificati, perché ci ripaga dei sacrifici fatti. Non è stato facile, perché da noi non c’è la mentalità dei grandi eventi sportivi» dice il manager sportivo.

Il problema, adesso, è lavorare sulla mentalità vincente. Naturale, così, chiedersi se oggi sia stata costruita, o si sia trattato di un caso sporadico per un evento eccezionale. «Secondo me –afferma Di Marco– è stato buttato un seme, e lo abbiamo visto anche germogliare. Ora si tratta di coltivare il terreno, affinché i frutti non si disperdano. Abbiamo visto cosa si può fare con un grande evento sportivo, in termini anche economici. Ora bisogna essere bravi a continuare». Anche con le ragazze del Cus. «L’impatto è stato notevole, le quattro città hanno avuto immediati riscontri, centinaia di bambini si sono avvicinati a questa disciplina. Ora bisogna essere bravi nel coltivare questo terreno». Una ricetta destinata ad essere presto servita anche sulla tavola dei Giochi del Mediterraneo.

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Provincia a canestro Umberto Aimola, vicepresidente della Provincia di Chieti, conferma il ruolo svolto dall’amministrazione Coletti nella promozione e nella realizzazione del grande evento sportivo continentale: «Abbiamo ricevuto lodi da tutti gli intervenuti, e questo ovviamente ci fa piacere. Ma i ringraziamenti vanno girati anche alla collettività, che ha avuto un ruolo di primo piano nel successo della manifestazione».

Un successo frutto di un lavoro di équipe.

«Questo evento si è caratterizzato per un “giusto equilibrio”: di solito gli enti pubblici rivestono un ruolo sostanzialmente passivo, invece stavolta è stato un ruolo attivo, il che ha consentito un forte coinvolgimento della cittadinanza nella manifestazione sportiva; alla finale il palazzetto era stracolmo, segno inequivocabile di una partecipazione sentita».

Un bilancio positivo che dai parquet si irradia su tutto il territorio.

«Il grande pregio di questi Europei è stato aver portato tanta gente nuova a scoprire le bellezze della regione, della provincia e delle città: saranno i probabili turisti degli anni a venire. Abbiamo registrato circa 100mila presenze alberghiere, che già da sole hanno ripagato la spesa del comitato, una cifra intorno ai 5 milioni di euro».

Quattro città, intanto, si ritrovano un patrimonio di impianti non comune.

«Ed è questo un altro aspetto da considerare. Il lavoro di ristrutturazione svolto per adeguare i palazzetti ha determinato, in un diametro di soli 50 chilometri, la presenza di cinque strutture in grado di ospitare manifestazioni internazionali, non solo sportive. Neppure Roma o Milano hanno questo patrimonio».

Come metterlo a frutto adesso?

«Occorrerà sfruttarlo adeguatamente per il futuro: abbiamo già convocato una runione con i sindaci per studiare il modo di sostenere i loro Comuni nella gestione e nella manutenzione di queste strutture, che devono restare in perfetta efficienza, ma che soprattutto non dovranno essere sottoutilizzate come in passato. Così come non va disperso il grande patrimonio di conoscenze, di know-how, che si è costituito in funzione degli Europei. Vorremmo che si concertasse con gli altri enti locali la possibilità di sviluppare un discorso di ampio respiro sulla formazione sportiva, dato che crediamo che lo sport possa essere un volano della nostra economia. Nel senso della promozione territoriale, non solo turistica».

Aimola: «Il successo è frutto di un lavoro di squadra» foto Michele Camiscia

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TRENT’ANNI DI BUONA COMUNICAZIONE ITALIANA Le campagne dell’agenzia Ad.Venture nel volume celebrativo.

Trent’anni di buona comunicazione italiana raccolti in un elegante volume.

L’Unicom (Unione Nazionale Imprese di Comunicazione) celebra così l’attività dei suoi associati dal 1977 al 2007.

In più di duecento pagine presenta le migliori campagne pubblicitarie italiane, viste su: stampa quotidiana, periodica, tecnica e specializzata, televisioni, affissioni, cinema, comunicazione sociale, pubblica ed istituzionale, politica ed elettorale, no-profit, cataloghi, folder, brochures, direct, editoria aziendale, branding, corporate identity, packaging, promozionali, incentive, allestimenti, stand, eventi, materiale POP, web e prodotti multimediali, la storia Unicom con l’elenco delle Agenzie associate ed i clienti delle stesse.

Nella presentazione il primo intervento è di Lorenzo Strona, Presidente Unicom, con “30 anni con le imprese di comunicazione italiane”; seguono Gianni Muccini su “30 anni di creatività in Italia” e Renato Sarli con “Il mestiere di comunicare”.

Scrive Lorenzo Strona:“Se in qualche modo - per sensibilità, per cultura, per tensione etica - abbiamo il privilegio di poterci considerare classe dirigente, se abbiamo la possibilità, attraverso il nostro lavoro, di inviare segnali che in qualche misura possono incidere sull’opinione pubblica e quindi sulla coscienza collettiva, abbiamo - noi per primi - il dovere di riflettere e di agire di conseguenza, facendoci carico delle responsabilità che ci competono”.

Fra le migliori campagne pubblicate nel volume, compaiono i lavori realizzati dal 1988 ad oggi da Ad.Venture - Compagnia di Comunicazione di Pescara, per i clienti Dayco, Sammontana, Bluserena, Schiratohotels, Società del Teatro e della Musica, Regione Abruzzo,Delverde,MU6,Abruzzohotel,Santoleri e Fattoria La Valentina.

Un volume ricco, da sfogliare con curiosità e attenzione, fra sorprese, guizzi e riflessioni. Perché, come scrive sempre Lorenzo Strona: “È in corso una vera e propria rivoluzione copernicana che, oltre agli aspetti economici, coinvolge e, in qualche caso, sconvolge, la nostra società, e finisce per incidere profondamente sulla vita di ogni giorno di tutti noi, a prescindere dai ruoli di ognuno”.

Un contesto nel quale il ruolo della comunicazione, con i suoi mille impieghi, deve essere sempre più responsabile e cosciente.

Buona comunicazione a tutti.

Shopper realizzato in occasione dell’evento 30° Unicom.

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Cliente Associazione Amici dei Musei d’Abruzzo Anno 2005-2006

Cliente Consorzio Abruzzohotel Anno 2006

Cliente Delverde Anno 2006

Cliente Blueserena Anno 2003 Cliente La Valentina Anno 1988-2004

Cliente Dayco Anno 1999

Cliente Schirato Hotels Anno 1999

Cliente Sammontana Anno 1998

Cliente STM Anno 1991

Cliente Azienda Agricola Santoleri Anno 1988-2004

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bruzzo: una regione che ha fatto della qualità un elemento di caratterizzazione e identificazione, che abbiamo voluto simboleggiare con la mela piana, un frutto di stagione, “povero” ma ricco di sapore e di profumo (foto in alto). Qualità nell’ambiente: regione dei parchi, del mare e della neve; qualità nei prodotti (olio e vino la fanno ormai da padroni in tutte le manifestazioni nazionali e internazionali) e nella gastronomia.

Del resto basta il nome di Peppino Tinari, titolare del ristorante Villa Maiella di Guardiagrele, a confermare il livello raggiunto dall’enogastronomia abruzzese: uno dei custodi della tradizione culinaria regionale e rappresentante di un’associazione –Qualità Abruzzo, appunto– che ha lo scopo di tutelare, salvaguardare, promuovere le specialità locali. Per raggiungere l’eccellenza in cucina occorrono eccellenti prodotti. L’olio Ursini, per esempio, altra scintillante medaglia sul petto della regione: oltre ad essere il produttore dell’olio agrumato più premiato d’Italia, Peppino Ursini si distingue anche per i suoi prelibati pestati e sottoli. A rappresentare il vino c’è invece l’azienda di Nestore Bosco, i cui prodotti rimandano ai colori, ai sapori e ai profumi della terra da cui nascono. Questo, infatti –far capire che l’Abruzzo e i suoi prodotti sono intimamente legati– è stato lo scopo della Convention Food&Wine organizzata dall’Arssa, alla quale hanno partecipato oltre 70 operatori regionali, che hanno presentato il patrimonio enogastronomico abruzzese ad altrettanti giornalisti italiani e stranieri. Qualità, infine, nell’accoglienza, come nel caso del confortevole Hotel Rigopiano, immerso nello splendido scenario del Parco nazionale del Gran Sasso - Monti della Laga, riportato in vita da una coppia di intelligenti imprenditori nell’ambito di una vasta operazione di recupero delle strutture turistiche della zona. E se preferite un’atmosfera più familiare, in allegato a questo numero di Vario trovate la guida agli agriturismi della provincia di Pescara, cui seguiranno, con le prossime uscite, quelle delle altre tre province. E buona lettura, alla scoperta dell’Abruzzo a 5 stelle.

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Giuseppe Tinari Ristorante Villa Maiella

Ricetta di saperi Guardiagrele meta obbligata per i buongustai alla ricerca dei sapori della tradizione di Roberto Mingardi foto Antonella Da Fermo è un filo robusto che lega la trippa di Mamma Ginetta al raviolo di burrata allo zafferano del figlio Giuseppe, un legame fatto di amore per la propria terra, attenzione alla qualità, passione per il proprio lavoro. Sapori, prima di tutto, e poi anche saperi. Il figlio è Giuseppe Tinari, chef del ristorante di Guardiagrele Villa Maiella la cui fama ha varcato da tempo i confini dell’Abruzzo. E lui riconosce volentieri un debito di riconoscenza nei confronti della madre, «anche se –commenta scherzosa lei– in cucina spesso mi maltratta non potendo sfogarsi con gli altri». Tutto comincia a metà degli anni 60 quando nella trattoria di mamma e papà, pochi piatti, trippa appunto, baccalà, braciole d’asino e lumache, anzi meglio “ciammariche”, il giovane Giuseppe impara l’arte e la mette da parte. Poi frequenta la scuola alberghiera a Villa Santa Maria e come “compito a casa” studia e perfeziona con la mamma le ricette della tradizione. «Da lei –dice Giuseppe– ho imparato che se vuoi fare una cucina innovativa devi conoscere prima bene gli alimenti e le materie prime, poi se vuoi puoi inventare, ma solo se hai i fondamentali». E lui i fondamentali ce li ha eccome: lo riconosce per prima la moglie Angela, nativa di Guardiagrele con lunghi trascorsi in Svizzera, che lo affianca in cucina e cura personalmente i dessert: «È insuperabile nella scelta delle materie prime, in

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Abruzzo è il numero uno». La stessa Angela si sta laureando in Scienze gastronomiche con una tesi sul parrozzo, e il figlio 19enne (che belle sorprese ci regalano ogni tanto i giovani!) ha imparato dalla nonna come si cucinano le lumache: come a dire che per studiare il Dna di questa famiglia non occorre un genetista, basta un gastronomo. Tornando alla nostra storia, Giuseppe dopo gli studi in Abruzzo va alla scuola del mitico Giovanni Spaventa, chef del prestigioso Hotel Cipriani di Venezia. «Per me è stato un vero maestro, talvolta anche un po’ sergente di ferro, però il cuore che gli ho dato e quello che anche lui ha dato a me...». E non solo il cuore gli ha dato, ma anche quella solida professionalità che sorregge una ormai prorompente passione: e quindi nei primi anni ‘90 Giuseppe e Angela aprono un nuovo capitolo, il loro, nella storia di Villa Maiella. Da allora vivono in cucina una seconda esperienza di coppia, quella professionale. Con quali risultati?

«Te’ li guai...» sospira fintamente sconsolato Giuseppe guardando la moglie. E Angela precisa che in realtà non si lavora in coppia ma ognuno con un proprio preciso compito in campi distinti. «All’inizio è stato difficile –aggiunge– perchè tendevamo a riportare a casa le discussioni della cucina. Poi ci siamo dati ruoli diversi e regole: lui è il grande capo, anche se qualche volta faccio a modo mio («cercano di fregarmi» chiosa ridendo Giuseppe). Però il palato è il mio, sono io che

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devo assaggiare». Alla fine comunque è lui il direttore d’orchestra che sa far suonare al meglio ogni strumentista nella partitura dei sapori. «Sì, ad esempio quando facciamo le prove di un nuovo piatto ognuno dice la sua e si discute, ma quando la ricetta è scritta guai a chi la cambia senza dirmelo, sono capace di aprire un’udienza… Poi lo chef deve conquistarsi il rispetto sul campo, dimostrando in concreto cosa sa fare; e devi essere anche umile, ad esempio imparando a sporcare il giusto e a ripulire quando serve». Una dote che tutti gli riconoscono è l’attenzione, potremmo dire (e sbaglieremmo) maniacale, alla qualità delle materie prime: «Io devo sapere dove e come nasce quel prodotto per cucinarlo –proclama– per questo la spesa la faccio io e dico al produttore di polli che tipo di animali mi deve allevare, così per il coniglio, per non parlare dell’agnello che deve essere rigorosamente nostrano e che io riconosco ormai quasi a occhi chiusi. Certo se mi accontentassi di quello neozelandese che ormai si trova anche qui, a 5 euro al chilo invece di quello che costa 11...» E qui Giuseppe Tinari, già di suo sanguigno e torrenziale, si infervora e si abbandona volentieri al colorito dialetto: si

sente che l’argomento gli sta a cuore perchè, attenzione, qui si ragiona dell’Abruzzo, del suo territorio e della qualità. E così, a tavola tra una crema di broccoli al foie gras, uno stinco di agnello allo zafferano e un’insospettabile ma impeccabile soupe a’ l’oignon,si parla della crescita della cultura enogastronomica di questa regione.«L’Abruzzo è cambiato molto in questi anni, lo chef non è più solo quello che sapeva far da mangiare, uno al quale non si dava grande importanza; oggi deve anche essere colto, preparato, capace di dare emozioni, trasmettere al cliente, che anch’esso è cresciuto assai, un quid in più nella proposta dei piatti o nella composizione del menù partendo dai sapori più delicati sino a quelli più decisi, nel suggerire un vino al di fuori delle mode. E soprattutto non deve barare nel dire che quell’agnello è abruzzese quando non lo è o nel proporre il tartufo di Alba in omaggio ai blasoni quando il nostro, spesso, non ha nulla da invidiare al celebre “cugino”». E qui una frecciatina ai quei colleghi che bluffano o, chissà perché, si vergognano di “vendere” il prodotto del nostro territorio. Colleghi verso i quali peraltro Tinari non sente nè gelosie nè rivalità ma piuttosto una

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comune mission, quella della ricerca attraverso personalità e percorsi diversi della massima valorizzazione del prodotto Abruzzo, dal fornitore al ristoratore, la cosiddetta “filiera corta” che ha come unica bussola la qualità. Non a caso Tinari fa parte dei “magnifici 7”, la pattuglia dei migliori chef abruzzesi riuniti dalla regione in un consorzio dei principali interpreti della nostra cucina. Chi si ricorda l’omonimo westerncult di John Sturges, dove i 7 pistoleros difendono un villaggio messicano dal cattivo di turno,non farà fatica a immaginare Tinari come un difensore delle virtù della nostra tavola.

Un difensore “laico” che non si chiude nelle sue certezze, pronto ad accettare il responso del cliente, di chi però assaggia e giudica con serenità, non di chi viene prevenuto o con la puzza sotto al naso. Molti si avvicinano al locale con attesa e fiducia anche grazie alle recensioni di stampa, ma poi bisogna anche stare al gioco della critica, abituarsi ad essere bersaglio, ad incassare commenti talvolta sgradevoli, come quella volta che Raspelli… «Già, scrisse nel 1996 che “qui si arriva in una delle più brutte periferie mai viste…”: per me fu peggio di una coltellata, avrei preferito che demolisse i miei piat-

ti, ma mi sono abituato e non mi faccio condizionare più di tanto. Anche perché è il cliente alla fine che fa il ristorante, anche se stare sulle guide e con punteggi alti ovviamente fa piacere». Per questo Tinari sta più spesso in sala che in cucina a proporre, consigliare, curare il rapporto con il cliente. E ammette che questo è il versante che spesso lo gratifica di più: «Io non penso a come piazzare per forza quello che ho comprato, cerco di trasmettere a chi sta a tavola le mie sensazioni nel creare un piatto e sperare che mangiandolo le senta anche lui». E da questo punto di vista il ritorno è tangibile, fatto anche di consolidate amicizie, come quella facoltosa newyorchese che viene qui ad alternare lo jogging a Bocca di Valle e le deliziose maratone culinarie al suo desco o il maestro di musica marchigiano che da Francoforte lo torna a trovare almeno ogni due mesi. Ma il segreto dello chef è di non sentirsi mai sazio. «Quando nel 2003 preparammo la cena di gala per la visita di Ciampi, fu un successo, anche se pagato con fiumi di sudore e picchi di tensione, ma non è mai stato un punto di arrivo, caso mai di partenza». Capito il soggetto?

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Prodotti/ Vino Bosco

Vignaioli da 110 e lode di Claudio Carella foto Antonella Da Fermo

Sulle colline di Nocciano una delle cantine storiche abruzzesi brinda al secolo (e oltre) di vita con un Montepulciano da intenditori 60

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entodieci anni votati al Montepulciano d’Abruzzo. Corre l’anno 1897 quando Giovanni Bosco produce per la prima volta, dai suoi vigneti coltivati sui Colli Innamorati di Pescara, quel vino senza nome né Dop che nel secolo seguente sarebbe diventato il vanto dell’agricoltura abruzzese.

Chiamò la cantina Bosco Nestore, col nome del figlio: era uno che guardava al futuro, pensava in grande e pensava giusto: il vitigno è ottimo, e le sue uve, se ben trattate, tirano fuori un prodotto di grande qualità. Ancora oggi alla qualità sono rimasti fedeli i giovani Bosco, Nestore (col nome impegnativo che si ritrova non può deludere) e sua sorella Stefania che gestiscono l’azienda di famiglia.

Dalla collina pescarese, dove l’aggressione edilizia ha gettato a terra intere pinete con alberi secolari e occupato terreni agricoli, i Bosco si sono trasferiti nella bella campagna di Nocciano: colline coltivate a vigneti e uliveti con vista sulla Maiella e sul Gran Sasso.

Cantina nuova con tutte le tecnologie, necessarie, non solo utili, per produrre vini di pregio, e con qualcosa di più, raro da trovare in Abruzzo e non solo: il caveau dove centinaia di migliaia di bottiglie vengono lasciate ad affinare per oltre un anno, naturalmente dopo aver lasciato maturare il vino in grandi botti di rovere o in piccole barrique e tonneaux.

«La filosofia che ci ha sempre guidato –dice Nestore– è quella della fedeltà al territorio e alle tradizioni familiari: nascono così vini che sono lo specchio fedele di una regione, quella abruzzese e della passione che la famiglia Bosco mette ormai da 5 generazioni, nella coltivazione della vite e nella produzione del proprio vino».

«Un legame alla tradizione che si conferma nella scelta dei nomi maschili di fami-

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glia –dice Stefania– che si susseguono di generazione in generazione: Giovanni –il fondatore– in onore del quale è stata creata l’edizione speciale “110 Anniversario” Montepulciano d’Abruzzo, nostro nonno Nestore che ha dato il nome all’azienda, suo figlio Giovanni, mio fratello Nestore, ed infine il piccolo Giovanni di 10 anni,che tra qualche anno prenderà il testimone.Sempre per l’attaccamento alla storia –continua Stefania– la nostra cantina è diventata quasi un piccolo museo dove si possono vedere gli storici attrezzi e i macchinari utilizzati per la produzione. È un luogo che apriamo a tutti i visitatori assieme alla galleria con le bottiglie che dopo un anno andranno in commercio e quelle storiche delle nostre vecchie annate».

«Il nostro vino di punta –dice Nestore– è naturalmente il Montepulciano ma produciamo anche dei bianchi: allo storico e amabile “Fior di bosco” da qualche tempo si è affiancato il “Pan”, uno Chardonnay di indicazione geografica tipica lasciato maturare e affinare per diversi mesi in barrique di rovere da 225 e 500 litri, dal profumo di frutta matura, miele, vaniglia e caffè tostato, di buona struttura e lunga persistenza al palato, e imbottigliato con una etichetta d’autore del maestro Pietro Cascella».

«Ultimo D.O.C. nato è il “110”, che abbiamo chiamato così per festeggiare il nostro primo secolo e passa di vita –dice orgogliosa Stefania– e nasce dalla esclusiva vinificazione di uve Montepulciano d’Abruzzo, coltivate nella zona collinare di Nocciano, nei vigneti a filari de “La Collina”. La bassa resa (80 quintali per ettaro), l’ottima esposizione, il terreno ghiaioso-calcareo, ci permettono di ottenere un grande vino che si nobilita grazie all’elevazione di circa 30 mesi in nuove barrique di rovere francese e al successivo affinamento di oltre un anno in bottiglia. Il colore è rosso rubino intenso, dalle lievi sfumature aranciate e presenta ampi sentori di confettura di more e mirtilli, profumi speziati di noce moscata e vaniglia. A berlo ha un gusto caldo e avvolgente, morbido al palato, è ottimo da sorseggiare accanto a piatti di grande struttura, carni rosse e selvaggina, o come vino da meditazione».

Meditate, gente, meditate.

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Prodotti/ Olio Ursini

L’olio di V Oli monocultivar e speziati, ortaggi sott’olio e pestati, prelibatezze prodotte all’ombra dell’Abbazia di San Giovanni in Venere di Claudio Carella

he ci farà mai Peppino Ursini, da Fossacesia, produttore di olio extravergine di oliva, seduto accanto a Sergio Marchionne, amministratore delegato Fiat? E per di più sul palco della sala conferenze del Lingotto a Torino, gremita di giornalisti provenienti da tutto il mondo? A svelare il mistero è lui stesso: «Marchionne mi ha voluto al suo fianco, dopo avermi scelto come testimonial per uno spot sul “Fiorino”. Voleva un piccolo imprenditore maniaco della qualità –lui apprezzava i miei prodotti, gli oli e i sottoli già molto prima di avermi conosciuto– che nella scelta degli strumenti di lavoro fosse altrettanto rigoroso».

Putì, il “potatore”–questo il soprannome che Peppino ha ereditato dal bisnonno toscano chiamato in Abruzzo per la sua professionalità– dai suoi prodotti vuole si percepisca il sapore della terra di origine, ma soprattutto la passione e la sapienza del produttore. «Opera Mastra, il mio olio più pregiato, è pro-

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dotto con oli diversi: Gentile di Chieti, Ascolana, Nebbio e Leccino, varietà che abbino come le essenze per i profumi, scegliendo le giuste percentuali. Io non miscelo le olive prima di andare nel frantoio, come recita il disciplinare della Dop, ma gli oli. Visti i risultati, il mio metodo è accettato se non preferito».

Il primo successo, tuttavia, ha avuto le fragranze dell’olio agrumato. «Quando si dice la tradizione: questo era l’olio che in famiglia si consumava nelle occasioni speciali anche perché prodotto in piccolissime quantità. Era l’olio delle ultime spremiture, quando per pulire le presse si versava del limone e non certo pensando ad una prelibatezza da offrire al mercato. Io ho cominciato a proporlo nel mio ristorante di Lanciano, i “Vecchi Sapori”: vedendo quanto era apprezzato pensai di presentarlo al Vinitaly… ma a qualche ora dall’apertura avevo già esaurito tutte le bottiglie che avevo portato a Verona. Nel novembre del 1987 iniziai la produzione del mio “Putì numero 5” sempre per usare una metafora da profumiere, e decisi di trasferire dal ristorante al frantoio la mia attività, le mie conoscenze e tutti i miei collaboratori. Nacquero gli oli speziati, i sott’olio (carciofi, pomodori secchi, melanzane, raccolti rigorosamente freschi in Abruzzo, come le patate e le carote dal Fucino, l’aglio rosso di Sulmona, i carciofi di Cupello, le mele cotogne di Santa Maria Imbaro e i cachi da Perano) e i pestati che meritano una menzione a parte. Per prepararli usiamo il tritacarne, che dà rusticità, esalta il sapore e non riscalda, non usiamo conservanti né acidificanti».

«La tecnica che usiamo per conservare –prosegue– è il soffritto: in questo modo si elimina l’acqua presente nelle verdure, che fa sviluppare la fermentazione e aumenta il ph.

L’olio che viene utilizzato lo rimettiamo nel vasetto, per

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concentrare il sapore. L’esperienza della ristorazione è il nostro valore aggiunto: Mario Solinas, il docente che mise a punto il metodo per l’analisi sensoriale dell’olio, il cosiddetto “Panel Test” mi venne a trovare e restò talmente colpito dai prodotti che mi predisse un radioso futuro se avessi cominciato da subito una commercializzazione su larga scala. Scelsi di attendere, passarono sette anni. Se avessi cominciato subito, oggi sarei fra i primi tre produttori in Italia».

E invece? «Come fatturato siamo intorno al milione e mezzo di euro, che è poco in assoluto ma molto in termini specifici. Non vendiamo olio sfuso, tutto da noi viene imbottigliato e confezionato: 1100 quintali di olio non li fa nessuno.

Complessivamente sono circa 300mila confezioni tra vasetti e bottiglie di varie misure».

Problema finale: come si fa a riconoscere l’olio Ursini? «Ha diverse sfumature per i prodotti monovarietali, che sono non modificabili, a seconda della materia prima; “Opera Mastra” invece può essere modificato fino a raggiungere il gusto che voglio: un sentore netto di oliva verde, non aggressivo, che richiami l’erba e la mela verde. Poi, è questione di equilibrio e armonia. Non credo agli oli troppo caratterizzati, l’olio deve accompagnare il cibo, non prevaricarlo; non deve essere molto dolce, ma avere una sua personalità».

Parola di Putì.

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Nel cuore del Parco Gran Sasso Monti della Laga una struttura che scommette sul rapporto tra natura e qualità

i può sfruttare la natura, e senza torcerle neppure un capello fare business nel settore turistico? La risposta è pronta:certo che si può.Anzi:si deve.Meglio,se il prodotto che ne deriva è in grado di parlare alla mente, al cuore e alle tasche di un pubblico variegato sì, ma sempre attento al valore aggiunto della qualità.

Corre su questa lunghezza d’onda il progetto che ha per protagonisti Roberto e Paolo Del Rosso, cugini pescaresi, titolare di Alta Design il primo, ingegnere il secondo. Un progetto imprenditoriale che potrebbe fare del comprensorio di Rigopiano,

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cuore nobile del versante pescarese del Parco nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, un nuovo “caso” in un panorama turistico voracemente proteso alla ricerca di novità, un po’ come è stato per Santo Stefano di Sessanio e il suo “albergo diffuso”. Un progetto,soprattutto,che potrebbe far scolorire certa retorica da cartolina illustrata del turismo verde, con immancabile condimento di arrosticini e bruschette, per agganciarlo a modelli più maturi, tipici delle realtà d’impresa più strutturate.

Il puzzle che i Del Rosso stanno realizzando a 1200 metri di altitudine è un sapiente dosaggio di rispetto fedele della natura,

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massiccio utilizzo di tecnologie avanzate ma eco-compatibili, rigoroso rispetto di valori storici e culturali. Entro le prossime festività natalizie, il progetto integrato di valorizzazione turistica del comprensorio di cui sono animatori e protagonisti con il marchio “Georesort” (che già conta nella sua faretra camping, ostello e rifugio) si arricchirà della sua pedina forse più attesa e coccolata: il vecchio hotel Rigopiano, che dopo dieci anni di abbandono e ragnatele, tornerà a riaprire le sue porte a un turismo che viaggia in aereo, naviga su internet, ama la natura, chiede servizi di qualità, parla diverse lingue. Poi, a breve giro di posta, arriverà anche la beauty farm, già oggetto dei desideri di uno dei più importanti marchi internazionali del settore, che per ora resta ancora top secret.

«L’area che abbiamo scelto –spiega Roberto Del Rosso– è stata sin qui considerata depressa, nonostante rappresenti una sintesi mirabile dell’offerta turistica regionale.Quando dai 1200 metri d’altezza è possibile scorgere il mare, vuol dire che si dispone di un bene che sui mercati internazionali ha un peso inestimabile e che deve essere valorizzato come risorsa economica unica. Ma che da solo non basterebbe se non fosse integrato da un’attenzione rigorosa verso i servizi da offrire».

«In effetti –illustra così Paolo Del Rosso– l’attenzione verso le caratteristiche del progetto è stata grandissima. Sotto il profilo tecnologico, territoriale, architettonico, storico, culturale. Del resto, sarebbe davvero impensabile usare un metro differente per una idea imprenditoriale che abbraccia uno scenario che da Rigopiano si estende,nell’arco di 20-25 chilometri al massimo,su Santo Stefano di Sessanio, Castelli, Penne, Loreto Aprutino, il loro indotto artistico e culturale straordinario. O si affaccia sugli scenari unici di Campo Imperatore. Per questo, ad esempio, la ristrutturazione dell’edificio è stata realizzata tenendo conto dei più avanzati criteri di risparmio energetico, tanto che alla fine ne chiederemo la certificazione».

Per tradurre in comfort questi concetti, il progetto ha attinto a

piene mani alla cultura regionale: «Pietra, legno, ferro battuto, ceramica, elementi tipici del nostro mondo –dice Roberto Del Rosso– sono i materiali più usati nella ristrutturazione dell’albergo. Antonio Di Simone, un artigiano di Castelli tra i più conosciuti, ha lavorato per dieci mesi a impreziosire le stanze di decorazioni originali, vere e proprie opere d’arte. E lo stesso è accaduto con i maestri scalpellini e del ferro battuto. Una ricostruzione rigorosa, sottolineata dalla scelta di dedicare una sala-biblioteca alla cultura regionale e alla scelta di illustrare i diversi spazi di hotel e ristorante con riproduzioni di fotografie e quadri di autori abruzzesi. Ma anche, ed è l’altra faccia della stessa medaglia, dalla decisione di creare attorno ai piatti sfornati dalla futura cucina una vera e propria filiera produttiva che punti sulla peculiarità dei prodotti locali, la loro tracciabilità».

Sul piano territoriale, va detto senza eccessi di campanile, il progetto turistico partorito sul Gran Sasso pescarese fa giustizia di un certo senso comune che vuole (vorrebbe) questo spicchio incuneato nei più vasti territori dello stesso parco che ricadono sul versante aquilano e teramano, destinato al solo ruolo minore di porta d’ingresso: da qui si entra, ma per proseguire verso altri lidi. Al contrario, la straordinaria ricchezza di infrastrutture dedicate alla mobilità del capoluogo adriatico (aeroporto, porto, hub autostradale e ferroviario) rischia di diventare l’asso nella manica del progetto: «Perchè –argomentano i cugini imprenditori– punteremo proprio su questi strumenti per promuovere su diversi mercati la nostra creatura. Un servizio di navetta con l’aeroporto assicurerà ai turisti un collegamento diretto con Rigopiano».

A regime, come si dice con una brutta espressione, il complesso turistico che ruota attorno al poker servito dai Del Rosso (hotel con beauty farm, rifugio, ostello, camping) metterà in campo circa 350 posti, e qualcosa come una ventina di posti di lavoro.

Una ragione in più per dire che tradizione e modernità hanno eletto domicilio a Rigopiano.

Gli abruzzesi più premiati?

Guardatevi intorno.

CAGIÒLO

Montepulciano d’Abruzzo DOC

• 2000 - MEDAGLIA D’ARGENTO VINITALY 2007 • 2003 - MEDAGLIA D’ORO VINITALY 2006 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO CONCOURS MONDIAL BRUXELLES 2006 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO CHALLENGE INT. DU VIN BORDEAUX 2006 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO INTERNATIONAL WINE CHALLENGE LONDRA 2006 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO MUNDUS VINI 2006

COLLE SECCO RUBINO

ALDIANO

Montepulciano d’Abruzzo DOC

• 2005 - MEDAGLIA D’ARGENTO DECANTER WORLD WINE AWARDS 2006 • 2004 - MEDAGLIA D’ORO CONCOURS MONDIAL BRUXELLES 2006 • 2004 - MEDAGLIA D’ARGENTO INTERNATIONAL WINE CHALLENGE LONDRA 2006 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO CHALLENGE INT. DU VIN BORDEAUX 2006

HEDÒS

Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo DOC

• 2006 - LE PRIX DE LA PRESSE BORDEAUX 2006 • 2006 - MEDAGLIA D’ORO CHALLENGE INT. DU VIN BORDEAUX 2007 • 2005 - MEDAGLIA D’ORO VINITALY 2006

MENIR

Trebbiano d’Abruzzo DOC

• 2004 - MEDAGLIA D’ARGENTO CHALLENGE INT. DU VIN BORDEAUX 2007 • 2004 - MEDAGLIA D’ORO CONCOURS MONDIAL BRUXELLES 2006 • 2004 - MEDAGLIA D’ORO MUNDUS VINI 2006

CRETICO

Chardonnay Terre di Chieti IGT

• 2006 - MEDAGLIA D’ARGENTO VINITALY 2007 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO CHALLENGE INT. DU VIN BORDEAUX 2006

PECORINO

IGT Terre di Chieti

www.cantinatollo.it

• 2006 - MEDAGLIA D’ARGENTO DECANTER WORLD WINE AWARDS 2007 • 2005 - MEDAGLIA D’ARGENTO CONCOURS MONDIAL BRUXELLES 2006 • 2005 - MEDAGLIA D’ARGENTO MUNDUS VINI 2006

SINERGIA ADV.

Montepulciano d’Abruzzo DOC

• 2004 - MEDAGLIA D’ORO CONCOURS MONDIAL BRUXELLES 2007 • 2004 - MEDAGLIA D’ARGENTO DECANTER WORLD WINE AWARDS 2007 • 2003 - MEDAGLIA D’ORO INTERNATIONAL WINE CHALLENGE LONDRA 2006 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO CONCOURS MONDIAL BRUXELLES 2006 • 2003 - MEDAGLIA D’ARGENTO MUNDUS VINI 2006

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5stelle vino / Le strategie dell’Arssa all’indomani della Convention Food&Wine 2007

La Convention fa la forza

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ettanta operatori e giornalisti del settore vitivinicolo da 26 Paesi di tutto il mondo, dall’Australia all’Argentina, e 78 aziende abruzzesi: la Convention Food&Wine 2007 che si è svolta tra Corropoli e Pescara dal 13 al 15 settembre è stata un evento di fondamentale importanza per il vino abruzzese. Come sottolinea Giuseppe Cavaliere, responsabile del settore vitivinicolo dell’Arssa, «Portare qui tutti questi personaggi non è stata cosa facile, ma lo sforzo congiunto di Ministero del Commercio Internazionale e Istituto per il Commercio con l’Estero da una parte, e Regione Abruzzo e Arssa dall’altra, ha fatto sì che si arrivasse a questo appun-

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tamento in cui per la prima volta in Abruzzo sono confluiti tanti operatori. Scopo dell’evento era quello di dare visibilità ai prodotti ma anche all’Abruzzo in quanto territorio, rendere manifesto il patrimonio culturale dal quale nasce il nostro vino». Il vino italiano e in particolare quello abruzzese godono infatti di un crescente apprezzamento su quasi tutti i mercati, come hanno testimoniato molti giornalisti esteri intervenuti alla tavola rotonda. «A quello abruzzese –precisa Marco Verticelli, assessore all’agricoltura della Regione Abruzzo– viene riconosciuto un ulteriore valore legato al rapporto qualità-prezzo, che consente una maggiore fruibilità. Per esempio sul mercato

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Foto Valerio Simeone

americano i nostri prodotti crescono in volume e in valore, malgrado un cambio estremamente sfavorevole; nel 2006 abbiamo realizzato il 10% in più, ed è un dato in linea con quello generale italiano. Quel che ci è stato rimproverato è di non essere ancora riusciti a fare massa critica per quanto riguarda la comunicazione, specie sui grandi mercati come quello statunitense, indiano, giapponese. La prima iniziativa dell’assessorato, all’indomani della Convention, sarà comunicare agli operatori l’esistenza di una regione, l’Abruzzo, ricca di un patrimonio culturale che riflette quello dell’Italia tutta: natura, cultura, arte e tradizioni che si fondono insieme nel sapore unico di una bevanda antichissima e che oggi viene sempre più apprezzata oltreconfine». Sono previste azioni diversificate sui vari territori per far sì che il vino abruzzese venga veicolato nei paesi i cui mercati offrono,

in prospettiva, maggiori potenzialità. Donato De Falcis, direttore generale dell’Arssa, precisa: «Il mercato italiano è saturo; per questo già da un paio di anni ci stiamo orientando sul mercato estero. Va detto poi che l’Abruzzo produce qualcosa come tre milioni e mezzo di ettolitri, che non possono essere tutti collocabili in una fascia di eccellenza; abbiamo una consistente base fatta di vini da tavola e Igt che rispecchiano in pieno il principio della qualità ma che non possono essere collocati nella fascia alta di mercato. Il Montepulciano d’Abruzzo, nel 2006, è stato il vino più venduto nella grande distribuzione (studio AC Nielsen) e ciò significa che dobbiamo aprirci su altri fronti, in Italia e all’estero, anche in quei settori nei quali siamo già presenti ma in maniera forse meno significativa di quelle che potrebbero essere le nostre potenzialità».

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Eventi/Il tralcetto dell’amicizia a Gigi Proietti Dopo Peppino Prisco, Luigi Federici, Guido Bellini, Roberto Gervaso, Ermanno Olmi, Ennio Morricone, Sergio Zavoli e Gianni Letta, anche il Maresciallo Rocca, ovvero Gigi Proietti, è entrato a far parte della grande compagnia degli amici di Marcello Zaccagnini, tra coloro che amano il vino e il valore dell’amicizia. Il celebre attore ha ricevuto il “Tralcetto dell’amicizia” 2007 davanti ad un gruppo di personalità (Gianni Letta, l’ex comandante dell’Arma dei Carabinieri Luigi Federici, il generale Corinto Zocchi, lo scultore Pietro Cascella, e un altro celebre attore di casa nostra, Bud Spencer), ricordando i suoi legami con l’Abruzzo e soprattutto con i suoi valori, ben rappresentati dal premio, che viene consegnato a un personaggio “che si sia distinto nel campo artistico, culturale o nel sociale”. E l’arte, in tutte le sue declinazioni, è sempre stata il “pallino” di Zaccagnini, che di recente è riuscito, con l’amico Remo Girone e il maestro pasticcere Fabrizio Camplone, nell’intento di sposare un testo teatrale con una degustazione di vino e la presentazione di un gelato. Il 16 ottobre scorso al Teatro Eliseo di Roma i tre personaggi hanno concentrato tre “prime” nella stessa serata. Il popolare attore siciliano, nel presentare in anteprima nazionale il suo nuovo spettacolo “La lunga giornata verso la notte”, dal testo di Eugene O’Neill, ha voluto coinvolgere Marcello Zaccagnini, cui è legato da un rapporto di amicizia e stima reciproca di vecchia data e di cui apprezza particolarmente le produzioni, e Fabrizio Camplone del bar Caprice di Pescara, da poco riconfermato tra i migliori bar d’Italia a punteggio pieno dalla Guida del Gambero Rosso. Così la serata è stata l’occasione per Zaccagnini di presentare al pubblico romano il suo vino Novello, Ikebana, e contemporaneamente il pubblico ha potuto assaggiare l’omonimo gelato (anche questo presentato in anteprima assoluta) nato dalla collaborazione del famoso produttore con il maestro Camplone.

Zaccagnini è soddisfattissimo del risultato: «Il lavoro di Fabrizio è eccellente, il nostro rapporto è ottimo e il pubblico ha gradito. Abbiamo lavorato benissimo insieme e non escludo ». «L’idea è venuta a Marcello –spiega Camplone– che mi ha chiesto di studiare le possibilità di realizzare un gelato a partire dal suo novello. Si è trattato solo di trovare i giusti equilibri, e una confezione che fosse adeguata. Il nome è venuto da sé». La collaborazione tra i due maestri, del resto,

aveva già dato tempo fa i suoi frutti: il gelato al Passito Zaccagnini, che Camplone ha realizzato basandosi sul moscatello dell’azienda di Bolognano. «Ikebana –afferma Camplone, che si appresta a organizzare a Pescara il Simposio annuale dei Maestri pasticceri per il prossimo mese di novembre– verrà presto proposto anche al pubblico abruzzese, e sarà sicuramente uno dei cavalli di battaglia di quest’inverno».

• In alto, Marcello Zaccagnini con Gigi Proietti; l’attore tra il gen. Luigi Federici e il generale Corinto Zocchi. Qui sotto, la folla alla presentazione del Novello Ikebana e dell’omonimo gelato di Camplone al teatro Eliseo di Roma.

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low-up, cioè soffiare, gonfiare: nel film del 1966 diretto da Michelangelo Antonioni era proprio un ingrandimento fotografico a muovere l’indagine del fotografo interpretato da David Hemmings. Oggi gli ingrandimenti (i blow-up) del maestro ferrarese recentemente scomparso muovono i visitatori, che potranno ammirarli nella mostra Le montagne incantate, al Castello Cinquecentesco dell’Aquila fino al 9 dicembre.

Le opere (ben centosessanta tra blow-up e dipinti originali) sono state realizzate seguendo un particolare procedimento ideato dallo stesso Antonioni: dalle dimensioni ridotte degli originali,“spazi ridottissimi o minuscoli, quasi da miniatura, cartoncini che non esorbitano mai troppo dal formato del cassetto o della busta”, attraverso la ripresa fotografica e l’ingrandimento, si arriva a dimensioni che svelano particolari normalmente non visibili e atmosfere nascoste. Il progetto, a cura di Anna Imponente, Soprintendente per il Patrimonio storico Artistico ed Etnoantropologico per l’Abruzzo, è stato realizzato in collaborazione con le Gallerie Civiche di Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, e con l’Istituto Cinematografico “La lanterna magica” e l’Accademia dell’Immagine dell’Aquila.

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L’Aquila Antonioni e la montagna

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di Annamaria Cirillo

Gabriella Albertini Morbida come la cera e dura come l’acciaio: profilo di un’artista capace di passare dalla scenografia alla pittura, dal disegno all’incisione

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In queste pagine: le vetrate absidali della chiesa di San Pietro Apostolo a Pescara (foto Ezio Palombo)

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ell’approfondire la conoscenza di Gabriella Albertini, la sua cultura, la sua arte, si evidenzia (e sorprende) la dicotomia tra la sua figura di donna, così fragile, delicata e garbata nei modi da comunicare un proprio intimo di grazia, riserbo e sensibilità –doti proprie di una mitezza all’antica tutta al femminile– e la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una donna di grande forza e tenacia, dal carattere profondamente determinato e estremamente rigorosa nella gestione del proprio “modus operandi”, esercitato in varie esplicitazioni e teso ad ambite mete in tutte le attività letterarie ed artistiche di un ricco programma di vita, tutto dedicato all’arte e alla cultura del territorio d’Abruzzo.

La sua collaborazione a tante note riviste come “Oggi e Domani“, “Il Monitore“, “D’Abruzzo”, “Incontro”, ”Rassegna Abruzzese” e ai quotidiani “Il Tempo”, “Il Messaggero” e “Il Centro”, già sarebbe sufficiente a testimoniarlo.

Ma la musica, la scenografia, la pittura esercitate sin dalla adolescenza, e dal ‘77 anche l’interesse per l’incisione, costituiscono le matrici profonde del suo ineccepibile percorso artistico e culturale, così ricco di affermazioni e notorietà che, in aggiunta a tanti precedenti riconoscimenti, nel 2007 le è valso il “Premio Donna” per la categoria cultura, assegnatole dalla Commissione Pari Opportunità del Comune di Pescara.

Artista quindi a tutto tondo, morbida come la cera e dura come l’acciaio. Forse coniugare l’ambivalenza di questi due aspetti può essere facilitato dalla sua storia che parte da lontano, a cominciare dalla eccessiva severità di una vita precocemente dedicata, dall’infanzia, alla durezza di uno studio intenso ed poi ad una operatività artistica che inizia seriamente sin dall’adolescenza.

«Avevo cinque anni –ricorda l’artista– non sapevo nè leggere nè scrivere e già suonavo bene il pianoforte», il cui studio continuò poi, per tutti gli anni seguenti, senza mai interrompersi sino al conseguimento del diploma in pianoforte presso il Conservatorio “Gioacchino Rossini” di Pesaro nel 1957, anno in cui Gabriella Albertini, dopo il liceo artistico, già stava frequentando l’Accademia delle Belle Arti di Roma nella sezione Scenografia.

Certamente la scenografia è stato il primo interesse predominante della creatività artistica

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di Gabriella Albertini e riveste un ruolo, poco individuato, ma fondamentale nella formazione della sua arte pittorica di cui la scena pare costituire idea innata, connotata di dilatata libertà espressiva e filo conduttore, visivamente rintracciabile in ogni struttura compositiva. Tutte le sue opere infatti appaiono fedeli ad una orchestrazione scenografica che si sviluppa per piani intermedi irregolari, quasi a definire, in spazi d’ampiezza diversi, una “scena di fondo” propria di ogni singola narrazione tematica dell’ immaginario. In questo, magica fantasia e realtà recitano e si compenetrano, quasi a fare della pittura teatro e della scena di teatro pittura.

Le Martyre de Saint-Sèbastien, testo teatrale in francese di Gabriele D’Annunzio, scelto nel ‘61 dalla Albertini come argomento di tesi per l’Accademia, ispirò all’artista vari dipinti di scenografia dei quali quattro bozzetti di scena e nove disegni di costumi sono in esposizione permanente a Pescara dal 2006 presso il MediaMuseum.

Tra le scenografie che Gabriella Albertini ha studiato ed approfondito si ricorda l’Amleto, Carlo V, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, La bottega del caffè, Il gabbiano, una scena del Giulio Cesare ed inoltre le opere liriche La Bohéme e la Tosca.

Per la successiva tesi in Storia dell’Arte, sempre per il diploma in scenografia, la Albertini scelse un argomento del romanico abruzzese. Ecco profilarsi il suo secondo interesse che lega la sua arte, oltre alla scenografia, alla storia arcaica della cultura d’Abruzzo nello studio approfondito dell’Arte Romanica (ricordiamo la magnifica esposizione storica del suo libro “Amboni e portali nel Romanico Abruzzese”, edito da Ediars nel ‘94). Nella sua creatività questo studio si coniuga alla scenografia, destinati ambedue ad un lungo e proficuo connubio d’arte, durante un percorso di produzione artistica che accoglie anche la pratica del disegno. Questo infatti occupa un posto d’onore nello sviluppo della figurazione della Albertini già a partire dai suoi primi esiti, con tecnica monotipo appresa, negli anni ‘60, dal notissimo pittore Guido Giancaterino, e poi in quelli successivi con segno “a tratto”, effettuato con punta di

In alto: Santi, angeli, dèmoni (III), tecnica mista su tela (1997) Qui sotto: Bominaco, S.Maria Assunta, particolare nell’architrave dell’ambone: leone (disegno)

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In alto: Cicogne, olio e tecnica mista su tela, 2007; Farfalla, acquaforte-acquatinta, 2007; Chiocciola, acquaforte-acquatinta, 2007. Qui sopra, a sinistra: Epilogo, tecnica mista su tela, 2002; a destra, Allegoria, tecnica mista su tela, 2001.

In basso, Gabriella Albertini ritratta da Giuseppe Jammarrone.

feltro sottile. Nel ’71 l’artista realizza diversi disegni ispirati ad una poesia di André Verdet: Sogno di Fernande Léger, e ancora pitture, nelle quali introduce anche la figura umana, e disegni, tra cui, nel ‘73, quelli molto particolari ispirati ad alcune pagine del libro di Italo Calvino Le città invisibili. Nel 1989 realizza 16 disegni per il documentario Il piacere a cura di Ivanos Ciani, prodotto dal Centro Studi Dannunziani di Pescara. Vengono in mente le parole del grande scultore Giuseppe Di Prinzio, il quale un giorno osservando una rivista con illustrazioni di Gabriella Albertini disse “La Albertini è una pittrice che sa disegnare e possiede la libertà di fare la pittura che vorrà. Il disegno è l’anima dell’arte, chi non sa praticarlo non sarà mai un vero artista”. Quella “pittura che vorrà” di Gabriella Albertini, si è copiosamente sviluppata nel tempo, in tutta la sua identità, col supporto del suo buon disegno e le sue opere pittoriche su tela (realizzate ad olio e tecnica mista, senza prospettiva e a stesura piatta di colori accesi tra i quali predomina sempre un blu intenso) raffigurano inizialmente rosoni e facciate di cattedrali romaniche. Successivamente affiorano altri temi, come nei primi anni ‘90 quello del Giardino e a fine anni ‘90 il tema degli Angeli, Santi e Demoni che ha ispirato anche acqueforti e incisioni. Agli inizi del 2002 la Albertini realizza le pitture di grandi dimensioni (100x100) Epilogo, Grande volo e Angeli dell’Apocalisse.

Realizza poi anche la serie pittorica Inseguendo ali immortali, con mostra e catalogo che riporta le immagini di grandi ali di angeli in volo, verso un infinito denso di spiritualità. Al 2004-2005 risale il suo Bestiario immaginato, 21 incisioni e 22 dipinti, riportati in catalogo, che costituiscono memorie tra realtà e immaginario di un lontano mondo arcaico, raffigurato nelle immagini di 23 animali, veri e fantastici, che vivono liberi in una natura medievale che li accoglie come sospesi tra mito e realtà, simboli della magica iconografia del romanico e metafore della libertà, della meditazione, del buon messaggio ma anche del vizio e del male. Tra i tanti fascinosi animali l’airone, il fenicottero rosa, la colomba, il serpente, la farfalla, la tartaruga, la lumaca.

Come già accennato, in alcuni periodi del suo percorso, a cominciare dal ‘77, e specie in questi ultimi anni, l’artista si è anche dedicata all’incisione (acquaforte ed acquatinta) realizzando una copiosissima produzione di ben 150 acqueforti presso lo Studio Calcografico Urbino di Pescara, sotto la cura dapprima del compianto Gigi Giannotti ed ora di Marina Giordani. Il suo segno, indotto dal preciso lavoro su lastra per incisione, si è nel tempo arricchito e raffinato, divenendo duttile alla narrazione e allontanandosi dall’illustrazione.

La cospicua produzione artistica di Gabriella Albertini (peraltro nota e documentata dai suoi libri, premi, cataloghi e mostre, sul territorio regionale e nazionale), giunge nel 2005 alla realizzazione di un’opera prestigiosa: i tre bozzetti per le grandi vetrate verticali della Parrocchia di S. Pietro Apostolo a Pescara, realizzate dalla Vetreria Artistica Camper di Atri.

Le due opere poste ai lati dell’abside raffigurano con incisiva sintesi figurale rispettivamente un grande albero dalle coloratissime foglie, ed un angelo che si eleva verso il cielo, immagini simboliche di religiosità e di pace, che connotano di intensa spiritualità il senso dell’identità pittorica di questa grande artista.

La documentazione dell’attività artistica di Gabriella Albertini, che onora l’Abruzzo, è depositata presso l’Archivio per l’Arte del Novecento a Firenze e in parte presso l’Archivio dell’Università “Gabriele D’Annunzio” Chieti-Pescara

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Italo Lupo Orafo in Pescara,

via Roma, 31/35 tel e fax 08527666 Oro Nostrum, c/o Aeroporto d’Abruzzo tel 085 4311095 Desaurum, oggettistica di pregio via dei Colli, 53 Bolognano (Pe)

www.italolupo.it - lupooro@italolupo.it

Le Virtù

Frammenti di felicità, incastonati in una nuova linea di gioielli

Le Virtù

Le Sciacquaje

La Presentosa

La Pescarina

L’anello con stella in Acqua Marina

Il ciondolo con Acquamarina

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di Giacomo D’Angelo

Pioggia di fuoco La storia delle incursioni aeree in Italia durante la Seconda guerra mondiale e le reazioni della popolazione civile, raccontate con drammatica precisione hi era Giulio Douhet? Probabilmente un lettore di buona cultura, con eccellenti scuole alle spalle, curioso della storia del ‘900, dinanzi a tale domanda dovrebbe confessare di ignorare la risposta, magari assolvendosi pensando a un interrogativo tranello o a un personaggio minore. Ma Giulio Douhet è stato un genio e un protagonista della guerra aerea. Come risulta dal libro di Marco Patricelli, L’Italia sotto le bombe. Guerra aerea e vita civile. 19401945, una sorta di millefoglie storiografico,già al centro di recensioni lusinghiere e di affrettati appunti critici. Trattato militare e insieme affresco sociale,ampio reportage e disamina accurata degli arcana imperia sottesi al secondo conflitto mondiale, di respiro collettivo e con una sola “storia soggettiva” come prologo, il libro anima nel drammatico teatro della guerra una folla di personaggi, tra cui Giulio Douhet, teorico del “potere aereo”, autore di un libro fondamentale, Il dominio dell’aria (ristampato nel 2002 a cura dell’Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare), divenuto quasi una bibbia alla von Clausewitz. Il libro e le idee dell’ingegner Douhet ebbero seguaci entusiasti, come Mussolini che ne fu affascinato ma interprete discorde, Italo Balbo che ne curò la ristampa e soprattutto Sir Arthur Trevers Harris, capo del Bomber Command dal 1942.

L’intuizione del Douhet, salutato come un “precursore”, fu quella di capire quanto

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fosse determinante in un conflitto moderno l’impiego di massa degli aerei e il bombardamento strategico.

Il 2 settembre 1914, sulla Gazzetta del Popolo, Douhet scrive: “Se per vincere è necessario distruggere, uccidere, devastare, spandere la rovina e il terrore, tutto ci si faccia, purché si vinca; domani, dopo la vittoria, ci sarà il tempo di provvedere[…].

La civiltà è come la Fenice che risorge dalle ceneri[…]. Incendiare villaggi, distruggere capolavori d’arte, spandere il terrore di sé, può dissuadere gli insorti a volgersi contro di noi, è utile al fine supremo: vincere[…]. In tempo di pace si possono elucubrare canoni e leggi sul diritto delle genti, che possono illudere momentaneamente sull’influenza della civiltà sulla guerra; allo scoppiare della guerra tutto viene stracciato e disperso; di sua natura l’impiego della forza bruta non ammette limiti, restrizioni, cerimonie, etichette”.

Tale filosofia dello sterminio fu adottata da Sir Harris, che l’applicò alla lettera.“Chi bombarda le città meglio e prima dell’altro ha più ragione dell’altro”, era il suo motto. Cominciò la sua opera di macelleria con raid su Lubecca, del tutto distrutta, Rostock, Stoccarda, Warnemünde, Mannheim, Colonia, dove il bombardamento dura un’ora e mezzo, con soddisfazione di Churchill e Göring balbettante dinanzi a Hitler furente.

Il libro squaderna il densissimo calendario delle incursioni aeree e dei raid e il diario

di come reagivano le popolazioni, in particolare quella italiana, altalenante tra l’informazione imbavagliata del regime fascista e le dure repliche degli avvenimenti.

L’offensiva alleata di distruzioni e di morti è massiccia, ininterrotta, crescente. Non c’è aeroporto o consimile punto strategico italiano che venga risparmiato. Persino Roma subisce il bombardamento a ondate dei quadrimotori. Nell’agosto ’43 i velivoli della Nataf e le Fortezze volanti colpiscono a più riprese la Sicilia, Messina con due attacchi, poi Napoli (che nel corso della guerra sarà martoriata da cento bombardamenti), dove il tritolo annienta case, chiese, ospedali, il Tempio del miracolo di San Gennaro. Con particolare accanimento gli alleati prendono a bersaglio il triangolo industriale, al fine di azzerare l’apparato industriale italiano: Genova (sgomenta per i 354 cittadini dei rifugi della Galleria delle Grazie,morti non per le bombe, ma per il “terrore innescato nell’anonima folla assassina”), Torino, Milano. Andrea Damiano, nel suo diario Rosso e grigio, annoterà:“Siamo tutti color maceria”. Tra le operazioni militari più crudelmente stupide la distruzione dell’Abbazia di Montecassino, avvenuta per la traduzione errata di una parola, e quella della scuola elementare di Gorla, in cui rimangono uccisi centinaia di bambini, maestri, bidelli, genitori.

Anche Pescara,“totalmente e letteralmente indifesa”, con un aeroporto militare di

Marco Patricelli, giornalista del «Tempo» e storico, è autore, tra l’altro, di Liberate il duce - Gran Sasso 1943: la vera storia dell’Operazione Quercia (2001, Premio Polidoro), La Stalingrado d’Italia (2002), e Le lance di cartone (2004). È consulente storico del TG della storia (Raiuno) e cultore della materia all’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti

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addestramento, dove –precisa Patricelli– “non c’è neppure un antiquato fucile antiaereo”,viene colpita inaspettatamente tra l’agosto e il settembre del ‘44 da due bombardamenti, con migliaia di morti, una città abitata da tedeschi e saccheggiatori-monatti:narra Flaiano che il secondo bombardamento, quello del 14 settembre, “fu salutato con grida di gioia e applausi, perché si pensava a uno sbarco alleato”.

Come una metafora poetica nel racconto l’autore inserisce anche Pippo, termine gergale con cui si indicava un aereo solitario (Douglas A-20 o Mosquito) che nel cuore della notte seminava terrorismo psicologico, limitandosi a fotografare, lanciare volantini, a volte qualche bomba. Un volo notturno (lo scrittore Antoine de Saint-Exupéry, esperto pilota, abbattuto da un aereo tedesco, intitolò un suo libro Vol de nuit) che restituisce completamente il senso di allarme continuo,di precarietà, di insicurezza che Ungaretti tanti anni prima aveva ben espresso: Si sta come d’autunno/sugli alberi le foglie. Ma il poeta parlava dei soldati, Pippo si rivolgeva ai civili.

Il picco più alto del terrore è l’Operazione Gomorrah,“Un’impresa che fa impallidire qualsiasi raid fin allora messo a segno dal Bomber Command”, quando flotte di quadrimotori vomitano uragani di fuoco “di proporzioni bibliche”su Amburgo: 40.000 morti, 16.000 edifici polverizzati, 1.200.000 abitanti evacuati. Scrive Patricelli: “La fortuna delle città italiane è che a nessuna di esse sarà riservato lo stesso destino di Amburgo, che invece conoscerà moltiplicato Dresda, la Firenze sull’Elba, e prima di essa Kassel, Darmstadt, Brunswick, Heilbronn”. La notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945 quasi 800 Lancaster grandinano su Dresda, una delle più belle città del mondo, 2.659 tonnellate di bombe dirompenti: quasi 200.000 morti e appena lo 0.50 per cento delle perdite alleate. Un successo militare, ma anche un crimine contro l’umanità, un’operazione che apparve più inutilmente sanguinosa delle atomiche sganciate sul Giappone.

Per anni, a malumori alterni, Indro Montanelli, grande divulgatore di storia con libri ultravenduti, ha accusato gli storici italiani di non saper narrare la storia e di essere parrucconi e figli noiosi dell’idealismo. Neanche Renzo De Felice sfuggiva alla ghigliottina del giornalista toscano. A lui dava man forte lo storico inglese, Denis Mack Smith, che rimproverava ai colleghi italiani la boria professorale.

Il libro di Patricelli sarebbe piaciuto a Montanelli, perché scritto limpidamente, con sapiente incastro tra l’impianto tecnico-militare di fiamminga precisione e il tessuto narrativo dei drammi della “gente senza volto e senza nome”, costretta a subire le strategie megalomani, gli errori dei governanti e gli orrori di una guerra condotta da entrambe le parti senza pietà umana, nel modo più barbaro.

Ai tanti meriti del libro va aggiunta, nel contesto raccapricciante degli orrori e dei lutti, un’aria di casa, un filone abruzzese di personaggi illustri e anonimi, di eventi, di luoghi. D’Annunzio innanzi tutto, che fu comandante effettivo di squadriglia aerea, pilota di imprese leggendarie, coniatore della parola velivolo, di cui Patricelli riporta la Canzone della diana (pubblicata sul Corriere della Sera ma sommersa di critiche) in cui esalta i cavalieri dell’aria, i pionieri di una specialità che ancora oggi con le Frecce Tricolori man-

dano in visibilio le folle. Flaiano inoltre, con le sue cronache minuziose su Risorgimento liberale (diretto da Mario Pannunzio), in cui, due anni dopo, narra la “storia di Pescara… di una città che ha sofferto in maniera diversa dalle altre”, dei saccheggi (anche la casa di d’Annunzio fu ripulita), delle razzie di mobili e di oggetti, degli sfollati, del periodico Danni di guerra che molti compravano come una volta compravano La Domenica del Corriere.

Ernesto Galli Della Loggia, segnalando il libro di Patricelli, si è chiesto: perché non adottare l’espressione “guerra ai civili”, usata per le stragi naziste, anche per i bombardamenti alleati, che produssero un maggior numero di vittime innocenti?

Domanda giusta ma poco pertinente per un libro che al contrario si basa proprio sulla puntuale cronaca della guerra ai civili fatta dalle incursioni aere alleate, non meno barbare degli eccidi tedeschi, anzi del tutto simili e di eguale natura terroristica.È difficile trovare differenze tra i massacratori delle Fosse Ardeatine o di Pietransieri e il baronetto, Arthur Harris, l’allievo più spietato di Giulio Douhet. La lettura storica che Patricelli compie della responsabilità degli alleati,in primo luogo degli inglesi, è impeccabile. Sarà per questo che un editore inglese, interessato alla pubblicazione del libro, si è poi dissociato nel più britannico dei modi, all’inglese appunto?

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Paola Dell’Aquila

Enrica Buccione

Tommaso Di Giorgio

Un viaggio spettacolare

Filomena Di Zio

di Stefano Campetta foto Silvia Jammarrone

Silvana Bosi

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Diego Verdegiglio

Teatro

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Gianna Coletti

VARIO

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Diego D’Elia Elena De Ritis

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Da Lanciano a San Vito, a bordo del “treno della valle”, per un viaggio all’interno delle emozioni, guidati da Walter Manfrè

V

i è sicuramente capitato di viaggiare in treno, e di trascorrere il tempo leggendo o sonnecchiando, o ascoltando musica.

Ma vi sarà anche capitato di assistere a qualche conversazione tra gli occupanti del vostro scompartimento, magari partecipando anche voi.

Cosa succederebbe però se durante un viaggio in treno due persone cominciassero a raccontarvi storie personali, che parlano di incesti, di prostituzione, di pedofilia, o semplicemente di amore? È quanto accade, effettivamente, sulla tratta Lanciano-San Vito della linea Sangritana, ormai dismessa e destinata a diventare un’attrazione turistica.

Ma niente paura, è solo uno spettaco-

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lo. Ideato da quel Walter Manfré, regista messinese dotato di inventiva e sperimentatore, che si è ritagliato un posto nel panorama nazionale –e non solo– con quello che i critici hanno definito “Teatro della persona”: un modo di rappresentare il testo scritto che pone lo spettatore al centro della scena, pur preservandone il ruolo “passivo” rispetto a quello “attivo” dell’attore. E così nasce, nel 1997, Il Viaggio, oggi proposto al pubblico abruzzese grazie al progetto di Teatro Ambiente dello stesso Manfré, promosso dalla Provincia di Chieti in collaborazione con la Sangritana e la Bls, con la collaborazione artistica della Compagnia teatrale “I Guardiani dell’Oca” di Tollo e

dell’associazione “Teatro del Krak” di Ortona.

La formula è semplice: puntare tutto sul coinvolgimento emotivo dello spettatore, consapevole di trovarsi al centro di una rappresentazione, ma non per questo meno vulnerabile e partecipativo. Basta salire sul simpatico trenino della Sangritana che percorre la tratta Lanciano-San Vito ed aspettare che una voce filodiffusa tra gli scompartimenti annunci la partenza, l’inizio di un viaggio che potrebbe essere uno dei tanti fatti in treno, quel luogo così adatto per racconti e confidenze. Da questo momento in poi il tramonto incorniciato nei finestrini del treno fa da sfondo ai dialoghi dei nove attori

82_83 Ribalta IL VIAGGIO

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che, a coppie, entrano “in scena”, e dopo essersi seduti a fianco ai sei spettatori (questo il numero massimo consentito per vagone) raccontano storie assolutamente reali, quotidiane, tragiche o allucinate e a volte crude fino all’imbarazzo –difficile restare indifferenti davanti alla durezza di certi episodi– e trascinando gli “spett-attori” in un vortice di emozioni.

In cinque fermate “fantasma” gli attori passano da un vagone ad un altro e gli spettatori immobili sul posto hanno giusto il tempo di riprendersi dalla scena precedente quel poco che basta per affrontare i successivi quindici minuti di viaggio con altri attori. I temi trattati vanno dalla prostituzione giova-

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nile, all’assistenza degli anziani e dei malati di mente, la violenza, l’eutanasia, eccetera: «Quelle tragedie quotidiane che si ripetono in quasi ogni famiglia come il problema degli anziani: molti giovani hanno i loro problemi e gli anziani hanno i loro e da questo nasce spesso un contrasto. Contrasti che avvengono anche quando c’è amore, quando c’è affetto» spiega Silvana Bosi, attrice di teatro, televisione e cinema, attualmente nella compagnia dell’Eliseo con Leo Gullotta, già attrice di Manfrè in La confessione e Visite ai parenti. Manfrè è un inventore di spettacoli: «lui non scrive, non vuole scrivere però inventa lo spettacolo e poi commissiona i testi agli autori che lui

conosce, gli autori che vanno per la maggiore oggi» ed infatti a scrivere i testi de Il viaggio ci sono Rocco D’Onghia, Edoardo Erba, Pia Fontana, Aurelio Grimaldi e Francesco Silvestri.

Quando si fa ritorno alla stazione di Lanciano e lo spettacolo è finito gli spettatori tacciono e si allontanano ancora coinvolti dalle storie vissute in un’ora su quel treno. Un viaggio così particolare da rendere un breve tragitto un difficile insieme di emozioni e pensieri contrastanti tra loro e tragicamente reali, quotidiani, eppure raramente affrontati.

Come se non ci riguardassero tutti da vicino, come se accadessero sempre agli altri.

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84_85 SPOTLIGHT

21-11-2007

9:27

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Teatro/Prima Il loro simbolo è un guerriero di Capestrano stilizzato, perché nell’Abruzzo vogliono identificare se stessi e i loro progetti. Il teatro Lanciavicchio di Antonio Silvagni (Avezzano), il Teatro del Sangro Guardiani dell’Oca di Stefano Angelucci Marino (Atessa), il Teatro del Paradosso di Giacomo Vallozza (Loreto Aprutino), i Terrateatro di Ottaviano Taddei (Nereto) e la Compagnia della Memoria di Milo Vallone (Pescara) presentano il primo consorzio teatrale esistente sul territorio: si chiama “Prima – Teatri d’arte in rete” ed è un progetto a lunga scadenza che permetterà lo scambio di esperienze e soprattutto produrrà nuovi spettacoli.“Prima” si traduce tra il 15 ottobre e il 13 dicembre in un cartellone di 25 spettacoli tra la sala Mazzini di Lanciano (Ch), il teatro Luigi De Deo di Loreto Aprutino (Pe), l’auditorium comunale di Magliano dei Marsi (Aq), il Cantiere Teatrale di Pescara e la sala Trevisan di Giulianova (Te). Dettagli e contatti su Cristina Mosca www.teatridabruzzo.it.

Recital/Terzani “La grande vera libertà comincia quando le scelte finiscono”. È uno degli ultimi pensieri di Tiziano Terzani, giornalista, reporter di guerra, intellettuale e pacifista impegnato. Finalmente il pensiero di Terzani diventa teatro, grazie all’adatta-

mento di Simone D’Alessandro, creativo pescarese. Per la prima volta, in assoluto, va in scena l’opera più emblematica e significativa dell’autore: Un altro giro di Giostra. Con gli esotismi musicali del maestro Sergio Rendine, una regia (di Milo Vallone e Dino Vitullo) che torna al teatro di parola –sul quale vengono innestati dispositivi tecnologici– e un allestimento a metà strada tra innovazione e classicità, va in scena il tragitto di un uomo che, dopo essere stato famoso, decide di rinunciare persino alla sua identità, diventando Anam: il senza nome. Il resto è…Un altro Giro di Giostra.

Un altro giro di giostra

anteprima nazionale Auditorium Flaiano, Pescara 29 e 30 Novembre 2007, 0re 21.00 Costo del Biglietto: Euro 10,00

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Prosa/Teatro Immediato L’importanza delle relazioni umane, i legami, le dipendenze, la struttura dei rapporti, sono i temi e le dinamiche attorno alle quali si sviluppa la nuova stagione teatrale della compagnia pescarese Teatro Immediato. Nello spazio di Via Gobetti a Pescara si alterneranno realtà emergenti del teatro italiano e spettacoli prodotti dalla Compagnia tra i quali figura una prima assoluta in debutto a novembre: Sangue di fratelli, tratto dal film di Abel Ferrara The Funeral del 1996. In totale, undici spettacoli (7 “esterni” e 4 produzioni) che riconfermano una vitalità e un impegno di cui, in una città che ancora non ha un teatro vero e proprio, si sente francamente bisogno.

Il CARTELLONE 2007/2008 26-28 ottobre 2007 Compagnia Esse p.a. Palermo I RACCONTI DELL’ANGELO 30 nov - 2 dic 2007 Teatro Immediato SANGUE DI FRATELLI (1a nazionale) di Vincenzo Mambella - regia: Edoardo Oliva con Ezio Budini, Miche Costabile, Elena De Ritis, Yuna Frankevych, Vincenzo Mambella, Enzo Spirito, Ennio Tozzi, Annapaola Vellaccio ed Edoardo Oliva 14-16 dicembre 2007 Karoshi Teatro - Pescara LA LEZIONE da Eugene Ionesco 11 gennaio 2008 Teatrino Giullare - Sasso Marconi (Bo) FINALE DI PARTITA di S. Beckett 25-27 gennaio 2008 Teatro Immediato SOPHIE 23 febbraio 2008 Le nuvole teatro - Roma GRIDO D’AMORE – Edith Piaf 7-9 marzo 2008 Teatro Immediato STORIE DI DONNE (raccontate da uomini) di Ennio Tozzi da AA.VV. 14-16 marzo 2008 Aretè ensemble, Giovinazzo (Ba) STUDIO K – La notte poco prima delle foreste 11-13 aprile 2008 Sutta Scupa - Teatro Garibaldi - Palermo SUTTA SCUPA 25-27 aprile 2008 Teatro Immediato USCITA D’EMERGENZA di Manlio Santanelli 17 maggio 2008 Politeama Mancini - Napoli MAMMA- Piccole tragedie minimali

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9:27

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Libri/Accademia Libri/Dacia Maraini Dalla Cina alla Giordania, dalla Nigeria alla California fino alla “civilissima” Europa: riecheggiano, nelle storie narrate dalla Maraini, violenza e sopraffazione. Il dolore di donne appartenenti a mondi diversi che vengono oltraggiate nella loro persona, dignità e libertà.“Passi affrettati” (Ianieri Editore) racconta un universo complesso, un deserto nelle relazioni, una rappresentazione del corpo e del desiderio maschile schiacciati nella categoria dei bassi istinti da imporre con la violenza o con il denaro.

Dacia Maraini, tra le più conosciute scrittrici italiane e una delle più tradotte nel mondo,

ha fondato a Gioia dei Marsi la scuola di teatro alla quale è dedicato questo testo, S.C. intenso e drammatico.

Dacia Maraini, Passi affrettati Ianieri Editore, pp. 62, Euro 9,50

Libri/Annarita De Santis Poesia, narrativa e anche saggistica: davvero versatile ed inesauribile la vena creativa di questa giovane “donna di lettere”,giacché sfugge alle classificazioni.Ispirata poetessa, pubblica nel 2006 il suo primo volume di poesie dal titolo “Fragmenta”e si guadagna il premio “Histonium” di Vasto.Bissa il successo con le liriche di “Selon la Nature”(Tracce, 2006), premiato al concorso nazionale “Scrivere Donna”e impreziosito dalla presentazione di Aldo Busi.

Contemporaneamente un nuovo orizzonte si apre e quest’anno arriva il suo primo lavo-

ro di narrativa, “Dietro la Maschera”: un racconto dal quale emerge, come scrive Paolo Lagazzi nella prefazione,“il bisogno di un tempo rigenerato nella grazia, nel perdono, la sete di una seconda chance di vita all’interno delle dinamiche del nostro tempo mortale”.Ultima fatica, un saggio sulla bioetica dal titolo:“Bioetica: nuova scienza, nuovi orizzonti”nel quale l’autrice si propone di offrire “segmenti di pensiero tesi a far scrivere al S.C. meglio il tema della vita”.

Chi di voi non ha mai fischiettato il tema de Il buono, il brutto, il cattivo? O quello di C’era una volta in America? Lo straordinario ed entusiasmante percorso artistico di Ennio Morricone, autore di alcune delle partiture più belle del nostro cinema (e non solo), consacrato nel 2007 con l’Oscar alla carriera, è oggetto del bel volume pubblicato da Electa e Accademia dell’Immagine che dalla fine di ottobre occupa un posto d’onore sugli scaffali delle librerie. Ennio Morricone, cinema e oltre, a cura di Gabriele Lucci, contiene testi inediti scritti dallo stesso Morricone, che rivela i segreti della sua produzione nota e meno nota, a partire dagli esordi degli anni Sessanta fino a oggi.

Impreziosito dall’emozionante prefazione di Giuseppe Tornatore e dalle fotografie firmate da Gianni Berengo Gardin, il volume è completato da un CD in allegato, contenente brani scelti dallo stesso Maestro tra musica per il cinema e musica da concerto. In appendice una ricca sezione di apparati, oltre alle significative testimonianze sull’opera del maestro e a una serie di frammenti di partiture e autografi, realizzati proprio in occasione dell’uscita del libro.

Ennio Morricone. Cinema e oltre A cura di Gabriele Lucci. Electa/Accademia dell’Immagine, 2007 pp. 304, Euro 100.

Saggi/Abruzzo contemporaneo I prigionieri di guerra: un argomento scomodo. Gli storici lo hanno guardato con scarsa attenzione per lungo tempo, e una certa classe politica vi vedeva, giustamente, “la conferma delle gravi inadeguatezze belliche e politiche di un Paese, il fallimento del bellicismo fascista, le incapacità del nuovo governo di Badoglio, le enormi responsabilità della monarchia dei Savoia”. Così scrive Enzo Fimiani nell’introduzione al bel volume pubblicato dall’Istituto Abruzzese di Storia patria sulle memorie di un prigionie-

ro di guerra particolare, Alessandro Santoro, pensatore, storico, critico letterario e insigne latinista. Curatore del libro è Nicola Palombaro, ricercatore e studioso della guerra e della Resistenza; un suo intervento è stato anche pubblicato nel volume L’Abruzzo e Montenerodomo nel secondo dopoguerra: ricostruzione e nuovo esodo, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno curato dallo stesso istituto. Due libri per riflettere e per non dimenticare.

Alessandro Santoro, Ricordi di guerra. Conflitto e morale nelle riflessioni

di un intellettuale A cura di Nicola Palombaro.

Media Edizioni, pp. 201, Euro 10 L’Abruzzo e Montenerodomo nel secondo dopoguerra: ricostruzione

e nuovo esodo Atti del convegno. A cura di Costantino Felice e Enzo Fimiani. Media Edizioni, pp.

248, Euro 10

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22-11-2007

Cinema

VARIO

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di Fabrizio Gentile foto Antonella Da Fermo

La voce protagonista

Cinema, spot, radio, telefilm, teatro: Roberto Pedicini, l’uomo dal multiforme impegno, mostra il suo nuovo volto

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C

osa direste di una scuola in cui ad impartire le lezioni fosse la voce squillante e solare di Jim Carrey? O quella, ambigua e melliflua, di Kevin Spacey? È quello che succede all’Accademia Flaiano, la scuola di doppiaggio pescarese in cui a fare da docenti sono Roberto Pedicini (voce, appunto, di Spacey, Carrey, Val Kilmer e tantissimi altri) e Christian Iansante (Joseph Fiennes, Johnny Depp, Ewan McGregor) due dei doppiatori più apprezzati dal pubblico e dalla critica, insieme ad Alba Bucciarelli che insegna dizione. «Siamo al quarto anno –spiega Pedicini– le lezioni hanno avuto inizio ai primi di novembre. Mi sono reso conto che insegnare comporta una capacità di trasmettere non tanto informazioni ma un modo di vivere la professione».

Che ti sta dando grandi soddisfazioni…

«Ho 45 anni. Da cinque vivo una fase di mutazione, ho rivisto molte scelte, rimesso in discussione il mio modo di vivere, lavorare. Mi sento più maturo, più attento a ogni aspetto della mia vita professionale e privata. Questo è dovuto anche alla forza, all’energia che mi fornisce l’esistenza della mia “principessa”, (la sua misteriosa compagna, ndr) con cui vivo una relazione estremamente particolare…».

Hai cominciato a diversificare i tuoi impegni: sei attivo su più fronti.

«Prima tendevo a rifiutare molte proposte, oggi vivo il lavoro più serenamente. Faccio recital, letture di poesie, mise en espace… È stato bello interpretare per la Settimana Mozartiana di Chieti il grande compositore, a 22 anni dal film di Forman, in cui lo doppiai. Faccio pubblicità da molti anni, oggi sono voce fuori campo degli spot Vodafone con Totti e Gattuso».

Hai cominciato anche a doppiare telefilm.

«In questi ultimi anni ho rifiutato molti telefilm. Tempo fa vinsi il provino per doppiare il protagonista di Dr. House.

Impegnato su altri fronti, rifiutai, con rimpianto. Ora sono la voce di Bennett, un personaggio della serie Heroes, che in America ha sbaragliato Lost e sta avendo un gran successo anche da noi. Il mio è un personaggio ambiguo, padre di una bimba con superpoteri, ma legato all’organizzazione che controlla i ragazzi prodigio. I telefilm rivaleggiano con il grande schermo, sceneggiatori e registi del cinema si cimentano nei tv-movies».

Hai mutato modo di avvicinarti a un personaggio?

«Prima ero più inconsapevole delle emozioni che provavo nel mio lavoro. Oggi le godo di più. Mi sento più me stesso, mi rendo conto che sto vivendo la vita “da uomo”.

Ho tolto barriere e maschere, appreso che l’aspetto “eufonico”è quello meno importante, un fatto di distribuzione della voce sul volto dell’attore. Oggi io non penso più all’aspetto estetico: parlo, faccio, cerco di essere. Così vivendo mi è venuta voglia di fare l’attore…» …Non sei partito con quest’idea già 25 anni fa?

«L’intenzione era imparare a recitare. Poi a causa di un

«Mi sento come un illusionista, creo una realtà che non esiste»

86_87 Ribalta PEDICINI

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momento sfavorevole per il settore, Elia Iezzi (l’allora patron di Tvq, ndr) mi consigliò il doppiaggio. Fu una scelta, non un ripiego: amo il doppiaggio, la recitazione orale; non mi importa apparire, ma oggi sento di poterlo fare anche grazie all’esperienza radiofonica di Jack Folla».

Quello è stato il vertice della tua carriera.

«Non solo: è stato il primo caso in cui mi sono trovato non a dover adattare la mia voce a quella di un attore, ma a creare il personaggio insieme al suo autore. Jack Folla aveva tutto: corpo, anima, voce. Ma era solo la voce ad attribuirgli un’esistenza. All’inizio non è stato facile, ma ha cambiato profondamente il mio rapporto con la recitazione, un passaggio epocale. E l’autore Diego Cugia, geniale ma insopportabile, è stato l’incontro perfetto: dai contrasti abbiamo tirato fuori un fenomeno radiofonico di cui ancora oggi si parla. Fossimo stati meno consapevoli, io me ne sarei andato, lui avrebbe chiesto di lavorare con un altro. Ma siamo andati avanti, perché entrambi ne sentivamo la necessità».

Quindi oggi fai anche l’attore?

«Vivo il lavoro a tutto tondo: recital, poesie, radio, pubblicità… e anche l’attore, sì. Doppiai Gesù in un San Pietro diretto da Giulio Base; quando lui si trovò a dirigere alcuni episodi di Don Matteo si ricordò di me, disse che avevo la faccia dell’ “assassino non colpevole”, mi diede una parte. Prima avevo partecipato solo a poche cose: una particina in un film con Giacomo Battiato, Per Sempre di Lamberto Bava, un horror di serie B… poi mi sentii di sospendere. Non avevo un agente che mi promuovesse, foto che girassero nell’ambiente… ho sempre fatto queste cose per via amichevole. Ed è iniziata di nuovo nello stesso modo: dopo Don Matteo Base mi chiese di partecipare al film tv L’inchiesta (2006), basato sul testo di Flaiano portato sul grande schermo da Damiano Damiani nel 1987. Abbiamo girato in Tunisia…

Base mi chiese di dimagrire qualche chilo: e da allora ho gettato via 20 chili di me».

Hai scoperto quali sono i tuoi “superpoteri”?

«Di recente ho cenato con due ragazzi che avevano partecipato ad Amici, il programma della De Filippi. Uno dei due, appassionato di recitazione, mi ha chiesto come riuscire a tirar fuori il meglio di sé in questo lavoro. Gli ho detto che io alla sua età ero solo anima, poi sono diventato anima e cuore, perché il cuore ha una sorta di coscienza; e con l’acquisizione della tecnica sono diventato anche testa. Gli auguro di riuscire quanto prima a far lavorare insieme cuore, anima e testa, perché così riuscirà a trasmettere emozioni e ad arrivare al cuore della gente. Io penso di riuscirci perché amo questo mestiere. Il mio superpotere, se ce l’ho, è riuscire a creare un’emozione anche se non esiste, a trasmetterla, forse anche a farla provare a chi mi ascolta. Mi sento un illusionista, credo che questo sia il mio potere: quello di creare una realtà che non esiste».

«Vivo una seconda giovinezza, anche grazie alla mia “principessa”»

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21-11-2007

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Musica

VARIO

di Fabrizio Gentile

Ho fatto il Cd Rom Alexian, al secolo Santino Spinelli, presenta il suo ultimo disco e annuncia un concerto in prima mondiale

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n disco, un concerto e un evento in prima mondiale: Santino Spinelli, in arte Alexian, ambasciatore della cultura Romanì, non si ferma mai. E il veicolo che usa per spostarsi in Italia e in Europa è sempre lo stesso: la musica. “Il percorso di Spinelli è conoscenza ed iniziazione, espressione forte di appartenenza”, scrive Ciro De Rosa (giornalista esperto di musica etnica e collaboratore di World Music Magazine) nella sua recensione all’ultimo cd di Alexian, Romanò Thèm - Orizzonte Rom; ma la frase è specchio di tutta l’attività dell’uomo Spinelli, non solo della sua carriera musicale. «Sono sei secoli che i Rom sono in Italia, e ancora ci chiamano nomadi», spiega. «Pochi sanno che il nostro nomadismo era dovuto alle epurazioni, alle purghe, ai pogrom… il popolo Rom ha una storia secolare di persecuzioni, del resto è l’unico che non abbia mai mosso guerra a nessun altro». Il nuovo disco di Alexian, prodotto e distribuito dalla Compagnia Nuove Indye, è «uno spaccato di vita sul

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mondo Rom. Diversamente dagli altri miei dischi, in cui si compie una sorta di viaggio “orizzontale” attraverso la storia, qui invece ho voluto ritrarre i Rom italiani, che paradossalmente sono quelli la cui cultura è meno nota al pubblico». Nel cd sono presenti una versione Rom di Khorakhanè, il celebre brano del compianto Fabrizio De Andrè, e un singolare esperimento di “crossover”: «Pri ni thèm fiddèr è una commistione tra musica Rom e una pizzica tarantata. Mentre in Spagna i Kalè (una delle cinque etnie dei Rom: le altre sono Manush, Sinti, Rom e Romnichels, ndr) hanno fatto confluire la loro musica nel folklore locale, elevandola poi a musica nazionale (il flamenco), e la stessa cosa si è verificata in Ungheria, in Romania, nell’ex Jugoslavia e in Russia, in Italia quest’incrocio non è avvenuto. Questo brano è il primo tentativo, dichiarato, di contaminazione, realizzato da me e da Nico Arcieri, e si chiama “Per un mondo migliore”: un brano volutamente interculturale».

Anche il concerto del 26 e 27 ottobre a

Alexian Santino Spinelli con la sua band: Andrea Castelfranato, Luciano Pennese, Gennaro Spinelli

«In questo lavoro ho voluto ritrarre la mia gente come è oggi, molto diversa da quella che si vede al tg»

88_89 Ribalta SPINELLI

21-11-2007

10:00

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AUSCHWITZ Muj sukhó ˇ khiá kalé vust ˇ surdé; ˇ kwit.

Jilò indò Bi dox, bi lav, nikht rovibbé.

Faccia incavata, occhi oscurati labbra fredde; silenzio.

Cuore strappato Senza fiato, senza parole, nessun pianto.

Alexian Santino Spinelli

Lanciano (al Teatro Fenaroli) durante il quale è stato presentato il cd ha valore interculturale: «È la quattordicesima edizione dell’Alexian & International friends, una manifestazione che porto avanti con piacere e nella quale coinvolgo grandi stelle della musica italiana e straniera. Per quest’edizione sono intervenuti Rossana Casale, i Tazenda e molti altri». Un altro grande evento interculturale è quello che si terrà il 26 gennaio, all’Aquila, in occasione della “giornata della memoria”: la presentazione di Porràjmos, l’equivalente della “shoah”, una composizione “per Rom e orchestra” che vedrà l’Alexian Group accompagnato sul palcoscenico del Teatro San Filippo dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese: «I grandi compositori classici e nel periodo romantico, da Liszt a Brahms a Dvorak, hanno tutti tratto grande ispirazione dalla musica romanì, ma nessun riconoscimento per il contributo culturale è mai stato tributato al popolo Rom. Adesso vogliamo riappropriarci del ruolo che ci spetta nel panorama musicale, e

questo è un evento di portata mondiale, in cui vogliamo ricordare i tanti Rom e Sinti morti nei campi di sterminio nazisti».

Impossibile parlare solo di musica con Alexian: le sue non sono operazioni commerciali, hanno sempre un valore aggiunto: «Il mio lavoro consiste nel divulgare la cultura Romanì, permettere all’opinione pubblica di avere una versione dell’immagine dei Rom diversa da quella veicolata dai media. Malgrado le mie tante apparizioni in tv, l’unico Rom che oggi buca lo schermo è quello che vive in un accampamento ed è coinvolto in un fatto di cronaca».

«All’Aquila celebreremo i Rom e i Sinti uccisi nei campi di sterminio nazisti»

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20-11-2007

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Musica/Ensemble ‘900 Agiscono nell’ombra; passano il tempo a studiare e insieme non appaiono se non, il più delle volte, in festival stranieri (come accadrà, a cavallo tra maggio e giugno 2008, in Belgio e in Polonia). L’associazione culturale Ensemble ‘900, nata nel 1994, propone da ormai 9 anni in Abruzzo un Festival estivo itinerante di musica antica che predilige i paesi interni ed offre concerti ad ingresso libero tenuti da alcuni dei massimi interpreti europei di musica seisettecentesca e seguiti in media da 200 persone. Il pezzo forte: le esecuzioni curate dall’ensemble Labirinto Armonico, branca di Ensemble ‘900 specializzata in musica barocca, che si dedica, tra le altre cose, alla riscoperta di compositori abruzzesi che hanno fatto fortuna altrove. È stato così per Pietro Marchitelli e Michele Mascitti, consanguinei di Villa Santa Maria (Ch) che tra il 1600 e il 1700 hanno lavorato accanto

ad Arcangelo Corelli a Napoli il primo e a Parigi il secondo, con grandi apprezzamenti nel panorama musicale coevo: «Di Michele Mascitti –spiega il presidente di Ensemble ‘900 Pierluigi Mencattini, docente di violino al conservatorio “Luisa d’Annunzio” di Pescara– nel 2004 abbiamo inciso in prima assoluta l’Opera IX a violino e basso, e all’inizio del 2007 abbiamo annunciato alla stampa abruzzese il rinvenimento, presso una biblioteca di Parigi, della partitura originale de Le lamentazioni di Geremia per 2 soprani e basso, finora data perduta.

L’ensemble Labirinto armonico la eseguirà per la prima volta in pubblico nel 2008 in occasione del decennale del festival “Seicentonovecento”». In occasione del decennale, per il quale fervono già grandi preparativi, Ensemble ‘900 ha ricevuto una piacevole sorpresa da parte della

Musica/ Perizona

Musica/Mediterra

La band psychedelic rock di Lorenzo “L’ex” Capisciotti torna dopo quasi cinque anni di assenza dalle scene, e lo fa alla grande: un cd dalla confezione impeccabile e dai contenuti eccellenti, in cui il predominio chitarristico degli esordi lascia il passo a composizioni più strutturate ed equilibrate. Il risultato è un disco gradevolissimo, che fa da apripista per un lavoro più complesso di prossima pubblicazione.

Affiancano il lisergico guitarist i fedeli Alessandro “Gaben” Gabini (basso) e Pax (Batteria).

Flamenco no es solo musica, es una manera de vivir. Con questo motto l’associazione “Mediterra” ha portato a Pescara uno spaccato di vita andalusa. Ed ha raccolto un gran successo, come dimostra l’entusiasmo che ha accompagnato i corsisti della settimana d’arte flamenca, che si è svolta nel Teatro d’Annunzio dal 3 all’8 settembre. La manifestazione, intitolata “Pescara barrio flamenco” (Pescara quartiere flamenco), ha portato nel capoluogo adriatico i più prestigiosi nomi del flamenco internazionale come Oscar de los Reyes, Alba Heredia, Miguel Vergas, Luis Amador, Ramon Amador e Israel Varela. Sono stati proprio questi artisti, presenti più volte alla “Bienal de Flamenco” di Siviglia, a tenere i corsi di ballo, canto, chitarra, basso, percussioni e batteria per i giovani allievi provenienti dall’Abruzzo e dall’Italia che hanno anche imparato ad usare le “palmas” ossia a battere a tempo il palmo delle mani, come insegna la cultura gitana. Due concerti, uno dei docenti e un altro che ha visto suonare insieme allievi e

Presidenza del Senato della Repubblica: l’assegnazione di una targa d’argento, che si va ad aggiungere alla targa e alla medaglia conferite dalla Presidenza della Repubblica nel 2007 e nel 2005.

«Riconoscimenti –commenta Mencattini– che ci riempiono di orgoglio, come quando ci hanno comunicato dal Ministero dei beni culturali che il Festival era stato incluso tra i 15 più importanti d’Italia». Progetti imminenti? «L’incisione di sei cantate, di cui tre per soprano, due violini e basso, di un altro compositore seicentesco abruzzese: Giuseppe Corsi, originario di Celano (Aq). Il soprano sarà una docente del Conservatorio dell’Aquila, Antonella Cesari, e dovrebbe essere completato per la prima metà del 2008».

C.M.

maestri, hanno chiuso in bellezza l’edizione 2007 della manifestazione.

L’iniziativa (che verrà riproposta anche il prossimo anno) ha rappresentato la prima espressione concreta della giovane realtà culturale “Mediterra”, nata dalla volontà di un gruppo di professionisti della musica e del teatro, già da tempo operanti nell’ambito dello spettacolo. L’associazione tende a valorizzare paesaggi e tradizioni di profonda matrice mediterranea, e quest’anno ha scelto di esordire con il Flamenco proprio perché esso rappresenta una tra le più intense espressioni dei popoli mediterranei, un linguaggio che, passando nel corso dei secoli attraverso culture diverse, ha trovato il suo humus ideale in Andalusia, regione arricchita dalla presenza di arabi, ebrei, africani e gitani provenienti dall’India, ognuno col suo bagaglio di poesia, di musiche e di danze.

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di Enzo Fimiani *

Così giovane, così ottantenne La storia della Provincia di Pescara raccontata in una mostra con fotografie di vita quotidiana li anniversari, presi in sé, sono niente di più che semplici occasioni temporali. Giungono e passano così come sono arrivati, senza lasciare traccia, se danno luogo a manifestazioni di vuota retorica celebrativa e a stanche ritualità pubbliche. Bisogna dar loro un senso, per provare a farne qualcosa di vivo. Gli anniversari vanno colti al volo, tentando di trasformarli in spunti per una riflessione collettiva sul proprio passato, una ricerca delle identità originarie della storia comune, una più consapevole progettazione del futuro.

Al territorio pescarese, in questo 2007, è toccato in sorte di spegnerne ottanta, di candeline. Otto decenni fa, infatti, venivano al contempo istituite una nuova città e una nuova provincia. Nel 1927 la Pescara nata dall’unione delle due cittadine poste a cavallo dell’antico confine d’acqua dell’Aternus flumen –Castellamare a nord e a sud, sulla sponda destra del fiume, l’omonimo centro urbano racchiuso per secoli entro le mura della propria piazzaforte– veniva elevata al rango di capoluogo della quarta provincia abruzzese.

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La neonata distrettuazione amministrativa spezzava il secolare equilibrio che si era stratificato nel corso dei secoli tra le tre provincie degli Abruzzi storici, il Citra, a mezzogiorno del fiume Pescara, e l’Ultra a settentrione. Per quanto precario fosse stato un tale bilanciamento territoriale sul piano politico, economico e sociale, le aree chietina, aquilana e teramana avevano dato comunque un’impronta tipicamente montana e agropastorale alle vicende abruzzesi lungo le età medievale e moderna.

A partire da quel 1927, invece, si determinava una cesura epocale indotta dall’autentica “invenzione” (com’è stata definita dagli storici) della circoscrizione provinciale di Pescara, caratterizzata sempre più marcatamente dal dinamismo del suo capoluogo, dallo slancio produttivo sul territorio, dalla piccola rivoluzione demografica e sociale di cui fu protagonista, in definitiva dal progressivo spostamento dell’asse regionale dalle zone interne verso le rive di un Adriatico sempre meno “selvaggio”. Dagli anni successivi a quell’evento-spartiacque, davvero la storia dell’Abruzzo contemporaneo non

sarebbe stata più la stessa.

Dell’anniversario di tutto l’insieme di avvenimenti e fenomeni storici qui abbozzati, occorreva fare un’occasione viva di confronto e ragionamento. Non v’era nulla da celebrare in modo agiografico; molto, invece, da comprendere.

L’Amministrazione provinciale, decidendo di dedicare l’intero anno 2007 a iniziative di varia natura sugli ottant’anni dalla propria nascita, si sta sforzando di coinvolgere i cittadini proprio in un’operazione del genere: per abitanti e istituzioni dell’intera provincia è forse giunto il momento di fermarsi per un po’ a riflettere sul proprio passato, cercando le radici stesse dello stare insieme, i caratteri per così dire “originari” della propria via di sviluppo. Al contempo, dagli otto decenni di vita collettiva, osservati e compresi senza che le luci debbano far dimenticare le molte ombre della nostra vicenda locale, potrà giungere la capacità di essere migliori cittadini del presente e di progettare con tratti più lucidi e razionali i decenni a venire. Evitando, possibilmente, di commettere gli stessi errori del passato.

* Storico, direttore della Biblioteca provinciale di Pescara. Membro del Comitato direttivo dell’Istituto abruzzese per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea, docente di Storia dei partiti e dei movimenti politici alla Facoltà di Lettere dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti e Pescara

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La mostra, il cui allestimento è stato curato da Sinergia Advertising, ripercorre la storia di Pescara e della sua provincia attraverso immagini che raccontano gli usi e i costumi, le trasformazioni urbanistiche e sociali, le tradizioni e il folclore del territorio. In questa pagina: una scena di vita balneare a Pescara; due donne lavano i panni lungo il fiume.

Nella pagina a fianco, da sinistra: la costruzione del Municipio di Pescara; un camion della ditta Forese; un operaio della Cofer al lavoro. In alto, il manifesto della mostra

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È una giornata di sole. È una delle ultime giornate soleggiate d’autunno.

I colori densi, vivaci, gli odori forti. I colori indistinti, a volte, dalla nebbia mattutina. L’odore è quello del mosto, quello delle olive mature, quello delle foglie marce. Un’opera d’arte polisensoriale della natura. Nelle gallerie non si vedono più opere così. L’arte ha cambiato segno, la riconoscibilità dello stimolo che induce l’artista a produrre un’opera è svanita. Per fortuna, mi dico. L’uomo fa meglio a rappresentare ciò che sente anziché ciò che vede. In questo modo “presenta” quello che cova dentro e intriga l’attenzione di chi guarda. Di chi ha il coraggio di guardare. È, infatti, difficile guardare per chi è stato abituato, a volte costretto, a “riconoscere” la mano dell’artista, attraverso la sua tavolozza tipica o i temi visuali di un mondo condiviso. Il colore era il miglior suggeritore: come confondersi con quelli particolari di Domenico Veneziano, di Piero della Francesca, di Rosso Fiorentino fino a Kirchner o Gauguin!

Oppure attraverso il segno, dallo stile del “bel disegno” fino ad arrivare alle cifre dell’astrattismo; dai soggetti come nel periodo del romanticismo o dell’impressionismo; o dalle periodizzazioni stesse, cui gli storici dell’arte ci hanno abituato.

Oggi gli artisti non rispondono più a certi canoni, essi sono di difficile collocazione, hanno una loro personalità non “svendibile”, non sono (grazie a Dio) accomodanti, non incontrano necessariamente una fortuna critica. Si sa, la riconoscibilità appaga, accontenta tutti. L’artista di oggi non pensa più di divenire un po’ eterno: esprime quello che prova per comunicare, per

ARTicolo s-velare; egli non si preoccupa dell’eternità. Il fruitore che un tempo non doveva fare il minimo sforzo di comprensione su ciò che aveva davanti, anzi si sentiva sicuro e un po’ proprietario di un pezzo di storia, di un’opera d’arte, oggi è confuso, incredulo, curioso magari ma si sente buttato fuori dal dialogo. Si va ancora a visitare una retrospettiva in un museo o a un vernissage in galleria? Purtroppo richiama più una mostra di un impressionista (non ce l’ho certo con loro!) che un’altra con splendidi Campigli o cento opere divine di autore astrattista. Ammetto. È consolante e l’occhio non subisce alterazioni quando ci si trova davanti al “già noto”, non si entra in crisi, anzi si prova una sorta di appagamento e un certo compiacimento nel “riconoscere” un’opera: è come rivedere un amico. Ma perché l’arte ha cambiato segno? Chi è l’artista di oggi? È uno che ha molto da dire e che vuole cacciare fuori ciò che gli rosica dentro, è uno che vuol sapere “cosa” nasconde dentro. Non si innamora della sua opera, non potrebbe, una volta terminata, separarsene definitivamente perché l’opera è quello che gli accade dentro e non ciò che si vede fuori. Forse (ma è un frammento di pensiero e nulla più) non può permettersi di provare soddisfazione se non per quello che dice a se stesso dato che molto probabilmente chi guarda trova “orrenda” la sua opera. È messa a dura prova la sua capacità di staccarsi dal suo prodotto, di separarsi da qualcosa che, essendo proprio, rassicura. Risiede nel gesto di distaccarsi (guardare a distanza) da ciò che si produce la propria intima trasformazione. Qualcuno parlerebbe di vitalità, quella vitalità che comporta

Ma i politici trombano?

La domanda che ricorre, ogni volta che sui giornali compaiono notizie di politici coinvolti in scandali sessuali, è: ma come trombano i politici? e poi: tromberanno veramente? ora, io non ho mai chiesto ad un politico della sua vita sessuale, ma i casi sono due: o il politico ha la sua attenzione costantemente impegnata ai problemi della gente, ed in questo caso (non possiamo nascondercelo) stiamo attraversando un periodo di sfiga catastrofica ed intergalattica e quindi al povero politico/a, quando mai può venire di pensare alle 490 varianti del rapporto sessuale? (sono proprio 490: se un politico non le conosce tutte vuol dire che non ha a cuore i problemi della gente). Se invece è il classico politico che si fa pescare con le veline o altre bonazze in atteggiamento intimo o comun-

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di Laura Grignoli* una trasformazione e separazione continua.

L’artista davanti alla tela bianca dovrebbe compiere un unico sforzo: togliersi di dosso la pellerazionalità che lo ha spinto ad andare ad acquistare la tela, i colori, i pennelli. Il minimo fardello di razionalità che gli resterà incollato, lo renderà prigioniero. Lo costringe a ricercare mentalmente il ricordo di un segno o di un colore o di un tratto già eseguito, ma non sarà più originale. Prometeo incatenato: quel puzzle costituito rinascerà ogni volta, accompagnando così la mano quasi in un automatismo che di creativo ha solo la tecnica ma non il “discorso”. La razionalità, ormai guscio vuoto di una cicala caduto accanto al cavalletto, per l’artista sarà sempre un gioco alla pari: uomo nuovo davanti ad una tela nuova. Un tuffo in un sogno, l’emozione di un volto di donna, di un odore, di un pensiero, di una sensazione, al ricordo di una melodia, ma anche di un pianto, di un dolore, di un dubbio, di una ossessione: a ciò attinge l’artista per tradurlo in libertà espressiva. Poi, apposta la firma, l’opera è compiuta e non è più sua. Che venga acquistata, appesa su una parete di casa, esposta in una mostra, o al limite distrutta, non lo riguarda più. Una volta riposto il pennello nel liquido per detergerlo affinché sia ancora pronto per l’uso, l’artista saggio e libero riesce quasi a dimenticarsi dell’opera.

Come l’innamorato che si dimentica della serenata eseguita non appena la bella si affaccia alla finestra.

Se non lo avessi mai provato, non avrei parlato.

*Psicologa e psicoterapeuta

di Giuseppe Capone

que compromettente, permettetemi di dubitare: un politico, interessato al potere, agli inguacchi, agli inciuci, pastette, maole, ricatti eccetera, secondo me, mentre cerca di trombare o fa finta di godere, pensa: verrò bene allo specchio, quanto mi costerà questa trombata (un vecchio proverbio tibetano dice “chi tromba col politico prima o poi ne ricava almeno una capra”) oppure ma che cacchio ci ricavo da questo su e giù? ma mi piacerà veramente? ma i miei elettori, si divertono a trombare? E così via, perchè la casta che non è né casta n pura ricava goduria solo dal potere, a differenza della massa, perch come dice un vecchio proverbio tibetano, “è megghio cummannàri ca fùttiri”.

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La catena dell’innovazione Ci avviamo a concludere questa lunga serie di articoli sulla creatività trattando in questo numero un’altra tecnica molto diffusa per lo sviluppo delle abilità creative delle persone nei più diversi contesti organizzativi e non.

Illustriamo, infatti, il metodo PAPSA. creato dal più famoso esperto (insieme a E. De Bono) della creatività in Europa: il francese Hubert Jaoui. Il PAPSA –che prevede il passaggio attraverso 5 tappe, che costituiscono la catena dell’innovazione– è un acronimo che sta per: Percezione; Analisi; Produzione; Selezione; Applicazione. Laddove per percezione si intende il cogliere, nel modo più dettagliato possibile, il contesto del problema e la totalità delle sue sfaccettature. Nell’analisi si scompone il problema finché lo si riduce al maggior numero di elementi indivisibili, per poi ricomporlo in schemi che ne chiariscono la struttura. Jaoui afferma che la maggior parte dei problemi senza soluzione è quella male analizzata e non a caso Einstein diceva: “un problema ben analizzato è risolto per tre quarti”.

Nel momento della produzione si succedono, invece, le tecniche per la produzione di idee: da quella per analogia, per associazione libera o forzata, a quella della visualizzazione o del sognare ad occhi aperti, da soli o in gruppo. Il

di Galliano Cocco

ricorso al pensiero libero/magico è una garanzia di produttività solo dopo aver ben interiorizzato e, quindi rispettato, le quattro regole della “ruota libera”: il C.Q.E.M. dove C sta per Critica abolita, con nessun giudizio né valutazione. Q per Quantità, ossia lasciar uscire in abbondanza le libere associazioni: in questo modo si hanno maggiori probabilità di avere una buona idea su cento prodotte che non su dieci. E come Estrosità benvenuta: nel senso di “viva le idee pazze”; in questo modo è più agevole rendere realistica un’idea strana che aggiungere con pertinenza originalità a un’idea convenzionale. M come Moltiplicazione sistematica: massima apertura alle idee degli altri offrendo anche generosamente le nostre.

Nella selezione si ha un vero e proprio atto creativo perché creare è scegliere! Accettare di rinunciare alle decine di possibilità per non realizzarne che una sola, è doloroso ma necessario.

Infine, nell’applicazione abbiamo la pietra di paragone del successo, la tappa che giustifica la parola creatività: l’immaginazione efficace. Se malgrado tutti gli sforzi, non riusciamo nell’applicazione, sappiamo che il vero fallimento è l’errore da cui non si sia saputo trarre tutte le conseguenze positive.

Le parole per dirlo Cos’è la violenza e cosa la genera? L’ho domandato ad alcuni bambini di quinta elementare, curiosa di sentire il loro punto di vista in proposito.

Lorenzo: «La violenza è il contrario di rispetto per l’altro, di gentilezza, di amore verso gli altri e verso te stesso. Esistono due tipi di violenza: fisica e sentimentale. La violenza fisica può far male e persino uccidere una vita. La violenza del cuore invece non si può curare facilmente e alcune volte può renderti pazzo e puoi addirittura suicidarti. La violenza nasce perchè si provano sentimenti come gelosia, invidia o ancora più terribile la vendetta. Può consumarti e poi indurti a compiere cose orrende. Sembra impossibile ma la violenza passa anche attraverso l’amore. La violenza passa dalla mente e non dal cuore. Poche persone in pochi casi hanno la pietà, capace di farti contenere e portare rancore… anche per sempre».

Daniele: «La violenza più grave è quella di ferire i sentimenti di altre persone perchè non è giusto. La violenza per me è anche incolpare altre persone di cose che non hanno fatto e credo anche che ci siano delle persone che fanno violenze più gravi: nel senso che le persone che picchiano i bambini sono veramente dei matti. Comunque questa cosa per me è al secondo posto, perchè io sono convinto che la violenza più grave resta sempre quella di ferire gli altri e magari anche deluderli o tradirli. La violenza secondo me nasce soprattutto quando qualcuno è piccolo e non si sente capito dalla famiglia e dagli amici che dicono che la pensa come uno non è!»

Paola: «La violenza verbale è quella che secondo me ferisce di più, quando una persona ti insulta, ti ingiu-

ria e ti prende in giro molto pesantemente. Io lo so cosa significa, ma quando dico che mi fa tanto male tutto questo tutti mi prendono in giro. Perchè nessuno ci crede che uno soffre per queste cose?»

Massimiliano: «Io credo che la violenza nasce dalla cattiveria. Io per esempio mi sento cattivo: mi piacerebbe giocare a calcio e mio padre mi fa giocare a pallamano. Odio la musica e mio padre mi consiglia di suonare il violoncello e lo faccio. Però mi sento nervoso e spesso mi esce la violenza contro me stesso. Mi mangio le mani e mi faccio dei tagli. I miei genitori sono buoni, non mi sgridano e non mi hanno mai picchiato. Penso sia cattiveria la mia».

Angelo: «La violenza viene sempre da qualcosa di spiacevole che ha fatto quella persona che è stata violentata».

Edoardo: «Per me la violenza è un’offesa oppure quando una persona fa male a un’altra. Secondo me proviene dal dolore che si ha dentro. A me fa diventare violento molte volte Diana, perchè quando mi giro per vedere la cartina o a chiedere lo sbianchetto a Veronica o Alessandra lei mi dice di starmi zitto perchè nessuno mi ha interpellato, io invece non dico mai niente. Quando mi dice quelle cose io mi arrabbio e le rispondo e questo mi provoca molto dolore, oltre a mandarmi in bestia. La violenza si usa per vendicarsi di una cosa brutta e spesso si usano parolacce o si usano le mani per fare male».

Veronica: «Al telegiornale fanno sempre vedere persone che hanno ucciso qualcuno e questo è un esempio di persona violenta e io penso che una persona sia violenta anche quando per uccidere una

di Giovanna Romeo* persona usa il veleno».

Andrea: «Ieri volevo cambiare la sedia rotta a Lorenzo per essere gentile e la maestra mi ha sgridato forte perchè dice che volevo perdere tempo. Mi sono sentito come se mi avessero spaccato il cuore e in quel momento avrei fatto tanta violenza».

Alessandra: «Ho fatto vedere il mio diario con una cosa segreta ad Andrea e Riccardo ha letto sapendo che era un segreto e ha detto tutto a Francesco e Angelo. Io lo avrei ucciso invece non ho potuto fare altro che piangere con la rabbia forte nel cuore».

Valentina: «La violenza è una paura. A me non piace la violenza perchè mi fa paura e con la paura si rimane muti».

Francesco: «Per me la violenza è un modo di chiedere in un modo sbagliato. Io quando dico a Nicolas di non scocciarmi lui non mi vuole ascoltare, non mi rispetta e allora io divento violento e lo meno».

Gaia: «Io vengo sempre rimproverata per cose che fa mia sorella e i miei genitori mi sgridano perchè dicono che io sono più grande. Ma che vuole dire? Io non sono stata, e così risulta che io faccio cose che non faccio e a me sale una rabbia!»

Francesco: «Io voglio andare dalla nonna il sabato ma mia madre non mi manda anche se so che i nonni stanno bene. Mia madre dice no e io non so perchè e ci soffro come un cane. Mio padre sa perchè non mi manda e io no, questo mi fa salire una rabbia forte e irosa».

Anche io penso che l’opposto di violenza sia diritto di essere se stessi, proprio come lo pensano questi bambini. *Psicologa e psicoterapeuta

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Salute e Benessere

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Le orecchie Vi siete mai chiesti cosa percepisca un feto nel ventre materno? Seppur vedesse, il panorama sarebbe noioso e ripetitivo.

Stesso dicasi per tatto, gusto e olfatto. Dei cinque sensi resta quindi l’udito: cosa sente un feto? Dal momento che il suo orecchio inizia ad assolvere la sua funzione, ossia circa tra il quarto e quinto mese gestazionale, tutti i suoni interni del corpo materno (battito cardiaco, respirazione, circolazione sanguigna, articolazioni) terranno continua compagnia a quell’individuo in formazione.

A tali suoni si aggiungerà la voce della madre, e poi tutte le vibrazioni del mondo esterno. In altre parole, la prima esperienza percettiva e quindi psichica avviene in modo uditivo. Solo dopo la nascita sarà la vista ad assumere un ruolo di quasi totale rilievo sugli altri sensi, rilievo però apparente se pensate che nel sonno, momento di grande vulnerabilità, gli occhi sono chiusi ma le orecchie no, e sarà un rumore sospetto, non un’ombra, a svegliarci consentendoci di reagire.

L’orecchio, e per tale non dobbiamo intendere soltanto il padiglione esterno, serve per udire, orientare sulla provenienza di suoni, mantenere l’equilibrio. Secondo la psicosomatica, in caso di problemi all’apparato uditivo bisogna chiedersi:“Cosa non voglio sentire? Cosa non ascolto del mio mondo interiore? Cosa mi rende instabile, squilibrato?”. La risposta a tali domande può arrivare da sola, ma non abbiate timore a

di Fabio Trippetti* chiedere aiuto ad un esperto, cui non potrete certamente rinunciare per un'altra indicazione psicosomatica riguardante la connessione, non così matematica ma ricorrente, tra disturbi all’apparato uditivo e disturbi della sfera sessuale, condizione articolata e complessa non risolvibile con il fai-da-te. I rimedi erboristici per il mal d’orecchi sono numerosi. D. Frawley, per prevenire le otiti, consiglia di condire le pietanze con chiodi di garofano e zenzero, riducendo dolci, grassi e latticini. Inoltre egli individua nella Centella Asiatica o pianta di Gotu Kola capacità preventive delle infezioni dell’orecchio, oltre che migliorative delle capacità uditive.Tale pianta va assunta o in capsule (due da 500 mg al mattino e due alla sera) o in polvere (un quarto di cucchiaino mescolata a del miele, due volte al dì). Per mal d’orecchie associato a raffreddore, M. Treben utilizza Edera Terrestre, Salvia e Achillea, mescolate in parti uguali e messe in infusione, per poi sciacquare le orecchie con tale prodotto. Molto efficace anche l’introduzione nell’orecchio, con un batuffolo di cotone imbevuto, di alcune gocce sia di Olio di Serpillo riscaldato che di Erbe Svedesi (o Piccolo Amaro Svedese), prodotti reperibili in erboristeria. Non dimenticate mai che questi sono rimedi naturali, adatti a lenire sofferenze o risolvere piccole affezioni, e non sostituiscono ne’ la visita otorinolaringoiatrica ne’ la cura farmacologica eventualmente prescritta.

L’arte della digitopressione, tecnica collegata all’agopuntura cinese, indica nella prima falange delle dita delle mani (escluso il pollice) e nei polpastrelli delle dita dei piedi (escluso l’alluce), i punti riflessologici collegati all’orecchio. Stimolando con la punta del pollice (premendo, ruotando, strusciando) tali aree, si attivano risposte energeticamente positive nell’orecchio, con intento sia preventivo che lenitivo di affezioni a tale organo.

La musica, che nel linguaggio d’uso comune può “carezzare le orecchie”oppure “rompere i timpani”, è certo un mezzo d’eccellenza per stimolare l’apparato uditivo, anche se non ne esiste una specifica per tutti. Evitare i volumi troppo alti è certamente una sana accortezza, poiché ciò nel tempo produce sordità, ma vi sono condizioni psichiche che comunque traggono giovamento (indipendente dai giudizi estetici) da suoni rudi, forti, stridenti e finanche sgradevoli, mentre per altre vanno ricercate sonorità dolci, flebili e carezzevoli. Se accusate un oppressivo senso di colpa o vi sentite tendenzialmente i diretti responsabili dei vostri problemi, vi sarà utile ascoltare musica con le caratteristiche indicate al primo punto, mentre il secondo vi riguarda quando, troppo spesso, il vostro dito punterà accusatorio sugli altri. *Dottore in Psicologia, Direttore della Libera Università Medicine Naturali e Artiterapie, Professore a contratto Facoltà di Scienze Sociali, Università “G. D’Annunzio”di Chieti. (Tel. 328 4463456)

MASTER Scienze ambientali Ambientalisti, professionisti, docenti universitari, medici: queste le personalità che insieme hanno deciso di lanciare un Master in Scienze ambientali, con la partecipazione di Irvine 2 Labs (Università “G.D’annunzio”), Isvi (Italian Society For Vascular Investigations), Cardiovascular Research Sas e International Open University. «L’idea –sostengono i promotori– è che molte patologie hanno cause ambientali. Si è passati dal concetto della

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malattia del singolo a quello del “community care”, cioè l’attenzione per le comunità che permette di rilevare malattie e di curarle prima che diventino importanti.

L’attenzione all’ambiente rientra in questo concetto: in un ambiente curato e pulito si ammala meno gente, la comunità spende un pò di più per tenere pulito il suo ambiente e molto di meno per curare malattie che si potrebbero evitare».

Il MESM (Master of Environmental Science

and Management), gran parte del quale sarà costituito di lezioni on-line, è diretto a quegli studenti che ricerchino posizioni professionistiche nel settore ambientale, ma in aree diverse da quelle della ricerca e dovrebbe creare “soggetti in grado di divenire protagonisti in un’azione di pressione che permetta di conservare l’ambiente pulito così da non produrre malattie inutili”.

Per informazioni: 3387067630.