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Le persone imparano finchè vivono; le aziende vivono finchè imparano

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AUTORI

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Soprattutto in questi ultimi anni l’attività formativa aziendale ha cercato di evolvere sulla spinta dell’innovazione tecnologica e dei nuovi modelli di business. Sovente, però, presso gli addetti ai lavori permane la confusione di fondo tra formazione, che è fondamentalmente addestramento su attività operative e normative legate al ruolo, e apprendimento che riguarda l’evoluzione del comportamento. A livello individuale la motivazione al cambiamento è massima quando si entra in contatto con le proprie aspirazioni; l’energia e l’impegno necessari a modificare il comportamento, infatti, scaturiscono proprio da questa visione del futuro.

Pertanto, l’equivoco che deriva dal non fare questa distinzione può causare lo spreco di importanti risorse economiche ma, soprattutto, vanificare irripetibili opportunità di crescita dei collaboratori, per non parlare di delusione e sconforto rispetto ai risultati attesi.

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In buona sostanza, lo strumento che ci serve per innovare, competere, adattarci, orientarci al risultato, gestire il rischio, assumerci le responsabilità si chiama apprendimento che non può essere lineare, chiuso, pianificato, autoreferenziale, autistico e rituale come la monotona formazione che va tuttora in onda in ancora troppe aziende italiane.

Il processo di apprendimento richiede un livello di consapevolezza, una apertura mentale ed una capacità di autocritica sconosciuti ai tradizionali modelli di management. E lo switch-over tra formazione ed apprendimento non avviene azionando un interruttore: serve acquisire, consolidare e affermare diversi componenti dell’intelligenza emotiva, ad iniziare dalla consapevolezza. Ancora una volta, se non c’è consapevolezza non possono esserci partecipazione, condivisione, collaborazione e, quindi, innovazione del comportamento.

Appena ritenete di aver acquisito e diffuso consapevolezza nella vostra Azienda, sviluppate piani di apprendimento sulla base di quello che è utile ai vostri colleghi per aiutarli a migrare da una cultura procedurale ad una cultura professionalmente più divertente, abilitante, ricca di senso e di prospettive, sia per l’individuo che per l’Azienda. Le vostre sessioni, reali o virtuali, saranno gremite di colleghi interessati a partecipare!

Una notevole conseguenza che deriva da quanto detto sopra riguarda la gestione della tecnologia in Azienda. Torno a riflettere su questo dato di fatto: la tecnologia è digitale; l’uomo è analogico.

Le aziende non sono native-digitali; ciononostante tra alcuni anni le aziende saranno tutte digitali perché, per competere, dovranno automatizzare i processi interni e gli aspetti operativi (ogni intervento manuale rallenta il processo). Come conciliare allora gli estremi analogico con digitale? Quando si evita di acquisire la consapevolezza di questa realtà, assistiamo al fatto che l’ultima innovazione tecnologica viene innestata su di un paradigma organizzativo e culturale obsoleto, inidoneo ad accoglierla. Come pretendere di ottenere risultati con queste idee confuse? Perché dare la colpa alla tecnologia se poi la soluzione non funziona?

Alla funzione Risorse Umane l’Azienda ha storicamente chiesto di lavorare sulla omogeneizzazione e sul controllo del comportamento dei collaboratori. Ne deriva che, quando l’Azienda assume nuovi collaboratori, privilegia portatori di uniformità e di continuità, non certo agenti di innovazione. E allora come pretendere di fare innovazione con questi solidi e referenziati sacerdoti del conformismo? Come pensare di riorientare rapidamente la stagnante cultura aziendale per sfruttare mercati emergenti e nuove opportunità di business? Tutto questo mi fa ricordare come un amico ha sagacemente definito la parola innovazione: “una trasgressione andata a buon fine”.

Analogamente, avvalendosi di un management confortevolmente legato ad un paradigma di misurazione esclusivamente quantitativo, ad azioni di condizionamento e di controllo, l’Azienda si allontana ancora di più dall’economia della conoscenza e dai benefici del network, ossia da quei modelli di condivisione e collaborazione con i vari stakeholders che rappresentano il vero vantaggio competitivo (*).

(*). A proposito di controllo, ricordo cosa ha detto Mario Andretti, noto campione automobilistico degli anni ‘70 (897 gare; 111 vittorie): “Se hai tutto sotto controllo vai troppo adagio”.

Cosa fa l’Azienda per trattenere i suoi talenti migliori, sempre ammesso, e raramente concesso, che disponga di adeguata e aggiornata mappatura degli stessi? Perché dedicarsi scrupolosamente all’inventario delle rimanenze di magazzino e omettere di inventariare e valorizzare il capitale umano, ben più importante?

Una fondamentale dimostrazione di coerenza nella gestione delle risorse umane riguarda sia la loro motivazione quanto la motivazione del management incaricato di gestirle. In questo caso spesso il quesito è: può un manager privo di motivazione motivare i suoi collaboratori?

Anche in questa situazione l’improvvisazione non può produrre gli effetti sperati: la motivazione è il risultato di un processo di maturazione e di evoluzione che inizia con la delega, la responsabilità e la distribuzione di informazioni; prosegue con l’assunzione del rischio, la sperimentazione consapevole e la tolleranza all’errore che diventa un momento fondamentale dell’apprendimento.

Diffidate da chi sostiene che lui non sbaglia mai. La sua autoconsapevolezza è pericolosamente inadeguata per qualsiasi obiettivo da raggiungere. Se una persona non è disposta ad imparare dai suoi inevitabili errori è destinata ad un comportamento involutivo, e a pesare sull’Azienda.

Fabrizio Favini

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