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002-003 Indice COPERTINA+INFO CONTROCOPERTINA+CONTROLLO NUM. PAG. NEWS

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in questo numero In copertina: Guerriero della Papua Nuova Guinea - Foto di Jago Corazza Controcopertina: Ghiandaia marina - Foto di Andrea Marzorati

REPORTAGE PUBBLICAZIONE REGISTRATA PRESSO IL TRIBUNALE DI AOSTA AUT. NUM. 7/’84 DEL 14-11-1984

DIRETTORE RESPONSABILE Fabrizio Ventura DIRETTORE SCIENTIFICO

16 LA BELLA ZOOLOGIA Formiche che costruiscono un cimitero per le compagne defunte, varani che giocano a palla, uccelli che quasi parlano con gli uomini. Il più noto etologo italiano ci guida alla scoperta dei comportamenti animali più curiosi e sconosciuti Ì DANILO MAINARDI

Francesco Petretti CAPOREDATTORE CENTRALE

Gianfranco Corino REDAZIONE

Claudia Patrone, Beppe Malò UFFICIO GRAFICO

Andrea Astegiano FOTOGRAFI OASIS PHOTOFARM

Christian Patrick Ricci, Fabio Liverani, Mirko Sotgiu, Massimiliano Dorigo

32 VIAGGIO TRA GLI ULTIMI CANNIBALI Nelle Highlands della Papua Nuova Guinea, i guerrieri di tutte le tribù, alcune delle quali hanno abbandonato solo di recente la pratica del cannibalismo, si sfidano in una gara di bellezza e potenza, ornandsi con colori sgargianti e piume d'uccello Ì JAGO CORAZZA – GRETA ROPA

50 BIRDWATCHING IN SUDAFRICA

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

Danilo Mainardi, Donatella Bianchi, Ermete Realacci, Jago Corazza, Andrea Marzorati, Greta Ropa, Nicola Fasoli, Massimo Morpurgo, Domenico Ruiu, Roberto Marcon, Patrizia Di Martino, Giovanni Losavio, Leonardo Dapporto, Mauro Toccaceli, Luciano Ruggieri, Lorenza Piretta, Lorenzo Macchio, Danilo Russo, Gloria Svampa

STAMPA Arti Grafiche Dial via Alba 50, Mondovì – tel. 017440780

FOTOLITO: Gi.Mac – Savigliano (Cn) EDIZIONI il Corriere.net srl via Galimberti 7, 12051 Alba tel. 0173284077 email oasis@ilcorriere.net mailing-list oasisforum@ilcorriere.net Internet www.oasisweb.it PRESIDENTE

Daniela Gaia DIRETTORE EDITORIALE

Paradiso dei birdwatcher, il parco nazionale del Kruger in Sudafrica è la terza riserva più grande del continente. Percorrendo i suoi 2000 chilometri di piste, attraverso paludi, savane e foreste, si possono osservare oltre 500 specie di uccelli Ì NICOLA FASOLI – ANDREA MARZORATI

60 I MISTERI DEL NAUTILUS Ha novanta tentacoli, vive dentro una grande conchiglia ed è uno dei più antichi animali conosciuti, un vero fossile vivente che continua a rappresentare un mistero per gli zoologi. È il Nautilus, una creatura leggendaria che si può osservare all’acquario di Bolzano Ì MASSIMO MORPURGO

68 AVVOLTOI IN SARDEGNA, UN TRAGICO RITORNO Un trionfo trasformato in tragedia. Così si può riassumere la storia del ritorno dell'avvoltoio gipeto in Sardegna.Tutti e tre gli esemplari provenienti dall'Austria e liberati sul Supramonte sono infatti stati ritrovati morti, uccisi dalle esche avvelenate. Ì DOMENICO RUIU

74 IL DESERTO DELLA NAVARRA

Eugenio Ecclesiastico SERVIZIO ABBONAMENTI

Antonella Bilotta abbonati@oasisweb.it AMMINISTRAZIONE

Francesca Burdese

Tra gole spettacolari e paesaggi lunari e desertici, un itinerario nell'arida e selvaggia regione della Navarra spagnola, dove si effettuano fin dagli anni '50 le esercitazioni militari della Nato. Muovendosi tra le carcasse degli aerei utilizzate come bersagli per le bombe... Ì ROBERTO MARCON

PUBBLICITÀ

Anca Mara, Mario Bianco, Beppe Grosso DISTRIBUZIONE PER L’ITALIA So.Di.P. Angelo Patuzzi Spa via Bettola 18, Cinisello Balsamo tel. 02660301 – fax 0266030320

81 ITINERARI D'AUTUNNO La Riserva Naturale di Onferno in provincia di Rimini, la zona dei Castelli Romani, le colline delle Langhe nel basso Piemonte, la Riserva Regionale del Lago di Serranella in provincia di Chieti e la Riserva Naturale di Monterano nel Lazio. Sono gli itinerari d’autore proposti da Oasis per l’autunno.


002-003 Indice COPERTINA+INFO CONTROCOPERTINA+CONTROLLO NUM. PAG. NEWS

PRIMO PIANO

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natura, geografia, fotografia

Portfolio: il Glanzlichter 2008

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RUBRICHE 2 INDICE 5 EDITORIALE Le firme di questo numero 7 L’OPINIONE Di Donatella Bianchi, Ermete Realacci, Giovanni Losavio, Gloria Svampa

14 97 105 114 116 118 124 125 128

IL TACCUINO DELLA NATURA Di Francesco Petretti PORTFOLIO Luci sul Glanzlichter 2008 OASIS FOTOGRAFIA A cura di PhotoFarm BIRDWATCHING A cura di Ebn Italia LEGGERE LA NATURA Rassegna delle novità editoriali OASIS NEWS Notizie dal mondo: ricerca, parchi, associazioni

RUBRICHE Il Sasso nello Stagno Amputate gli acrobati

TECNICA La composizione Regole, elementi e terzi

AGENDA Il calendario PhotoFarm Bayerischer ed Engadina

CONCORSI Le foto più belle Lipu e Campionato Italiano di Fotografia Naturalistica

PUNTO E A CAPO Spazio aperto ai lettori MICROFONO VERDE Eventi in Italia: le segnalazioni di Oasis LA FIABA Leggende e racconti dei popoli tribali

Da pag. 105


Swarowski

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IL NUOVO EL 42

L’EVOLUZIONE DELL’OTTICA DA OSSERVAZIONE

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Editoriale

Le api non fanno solo il miele

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volte trovo un nido di api selvatiche nel tronco di un albero o in un mucchio di pietre. Sono gli stessi piccoli insetti laboriosi che gli uomini allevano da secoli in comode e pratiche arnie di legno. Dalle api selvatiche non è facile ricavare il miele – lo sanno fare solo gli aborigeni – ma forse queste api selvatiche o inselvatichite potrebbero nel prossimo futuro fornirci la soluzione per arrestare la drammatica moria che sta colpendo l’apicoltura, industriale e amatoriale, del mondo intero. Alcuni apicoltori hanno perso la metà delle proprie famiglie nel giro di una stagione. Il loro reddito si è dimezzato, dalla mattina alla sera. Le conseguenze sono gravi, e non solo per gli appassionati di miele. Le api non fanno solo il miele, la cera, la propoli e la pappa reale, ma impollinano le piante di interesse alimentare e industriale. Niente mandarini, fragole, zucchine, pesche, girasoli e colza, senza le api: il Pil generato dalle api italiane in un anno supera i due miliardi e mezzo di euro. Nel 2007, con la scomparsa di 200.000 famiglie di api, l’agricoltura nel nostro Paese ha perso almeno 250 milioni di euro. Sul banco degli imputati siedono soprattutto i pesticidi sistemici contenenti molecole neonico-

tinoidi, apparsi in Francia nel 1991 e lì subito messi al bando per la loro portata distruttiva, ma per alcuni anche le onde elettromagnetiche generate dalla telefonia mobile. Se si mette un cellulare acceso accanto a un’arnia, le api si rifiutano di entrarvi. «Le api sono stressate, perché costrette a produrre troppo miele», sentenzia qualche saggio apicoltore: «per questo non sono in grado di resistere ai cambiamenti climatici e alle avversità naturali». Non possiamo fare a meno di questi piccoli insetti, indicatori di salute dell’ecosistema, ma oggi bisogna agire subito per salvarli dalla Ccd, cioè la sindrome del collasso della colonia. Un fenomeno che non ha precedenti nella storia dell’uomo che, da quando cammina su due gambe, ama il miele e fa di tutto per procurarselo. Potremmo ripartire dalle api selvatiche, rustiche e sicuramente più resistenti, selezionarle di nuovo e accettare che producano di meno, ma resistano di più ai tanti nemici che le insidiano. Ma in ogni caso dobbiamo ridurre l’impiego di prodotti chimici nelle campagne.

Francesco Petretti

Le altre firme di questo numero Jago Corazza

Danilo Mainardi

Massimo Morpurgo

Bolognese, ha preso parte a viaggi e spedizioni nei luoghi più remoti del mondo. Realizza programmi e documentari per la Cnn e le principali reti televisive.

Milanese, 75 anni, con i suoi libri e i programmi televisivi ha fatto conoscere l’etologia al grande pubblico. È docente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Bolzanino, biologo e istruttore subacqueo. Dal 1997 è il curatore degli acquari al Museo di Scienze Naturali di Bolzano. Collabora con diversi acquari pubblici e musei.


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Zoologia

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Donatella Bianchi Giornalista e scrittrice Conduce il programma Rai “Lineablu”

I nuovi mostri del mare

© MINK REINHARD - ARCHIVIO GLANZLICHTER

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l Mediterraneo ci regalerà in futuro ancora molte e a volte inquietanti sorprese. Spesso abbiamo visto in Tv film dedicati a incredibili mostri marini e tanti scrittori si sono dedicati al mare e ai suoi misteri: su tutti Giulio Verne, che fantasticava di calamari giganti, impegnati nelle profondità dell'oceano in lotte all'ultimo sangue contro indomabili capodogli. Ottime sceneggiature per film dall'incasso facile al botteghino – mi sono sempre detta – ma da quando conduco “Lineablu” il mio granitico scetticismo ha subito più di una picconata. Qualche anno fa, al largo delle coste calabresi, tra Diamante e l'isola di Dino, mi è capitato di vedere issare a bordo con un palamito (una lenza per la pesca da fondo) quello che per gli standard abituali del Mediterraneo era un vero e proprio calamaro gigante. Pesava undici chili, era alto quanto la sottoscritta e aveva due occhi che Giulio Verne avrebbe definito senza dubbio umani. Il calamaro era stato catturato mentre stava facendo uno spuntino con un merluzzo, a sua volta di dimensioni inquietanti, rimasto agganciato all'amo. Il Mediterraneo sta tornando ad essere un mare sempre più sconosciuto e misterioso, abitato da creature che neppure immaginiamo e che difficilmente riusciamo a documentare. Gli stessi scienziati che abitualmente lo studiano rimangono spesso stupefatti. I pesci che cambiano aspetto a causa del global change, quelli che si riproducono nei mesi o nei luoghi sbagliati, quelli che competono con specie mai viste prima d'ora nelle nostre acque e che sono in grado di convivere con le forme d'inquinamento figlie del nostro tempo. Sono loro i nuovi, veri mostri del mare. Mostri però nel senso etimologico del termine: per i latini, infatti, il monstrum era qualcosa di improvviso e straordinario che violava la natura ed era un ammonimento per l'uomo. Questi sono gli avvisi che ci manda la natura, per metterci in guardia, per spingerci a fare di più per tutelare il nostro mare. Il mito dei mostri marini ci insegna a coltivare un rispetto particolare per le nostre acque: e allora ben vengano tutti i mostri marini che la fantasia di Giulio Verne ha prodotto, se potranno servire a far maturare la nostra cultura marinara.

Il Mediterraneo ci regalerà in futuro ancora molte inquietanti sorprese Esistono creature che neppure immaginiamo, e mostri marini che sorprendono gli stessi scienziati

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Parco Beigua

7-10-2008

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Alimentazione

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Ermete Realacci Presidente onorario di Legambiente Ministro per l’Ambiente del governo-ombra

Un pasto a chilometro zero

Soprattutto ortaggi e frutta, ma anche latte,carni e tutti gli altri cibi, sono più sani ed ecologici se prodotti vicino a casa

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’effetto serra si vince anche a tavola. È stato stimato che un pasto medio percorre infatti più di 1.900 km su camion, navi o aerei prima di arrivare a noi. Si usa, insomma, molta più energia per portare il cibo nel piatto di quanto questo stesso provveda in termini nutrizionali. Per contrastare questa tendenza, ridurre le emissioni di Co2, ma anche per combattere il caro-prezzi, tra le priorità che avrò nei prossimi impegni parlamentari c’è il disegno di legge sul chilometro zero, per incoraggiare l’acquisto e la coltivazione di alimenti prodotti nell’ambito locale in cui devono essere consumati. Tra gli scopi della proposta di legge c’è quello di favorire il consumo di prodotti alimentari provenienti da filiera corta e di prodotti sani e di qualità, per venire incontro alle esigenze di molti consumatori che da una parte ricercano prodotti con prezzi più contenuti e dall’altra sono attenti alle caratteristiche nutrizionali, di sicurezza, di eticità e di ecocompatibilità degli alimenti. La proposta di legge, inoltre, vuole valorizzare le piccole e medie imprese agricole, per lo più a conduzione familiare, che operano e vivono sul territorio, per tutelare la loro identità e sopravvivenza. Per garantire i produttori sulla provenienza dei prodotti e degli alimenti la legge prevede un’informazione trasparente e la disponibilità di spazi adeguati nella distribuzione commerciale. Allo studio è anche la disciplina di un marchio di filiera a chilometro zero, un riconoscimento formale per certificare la provenienza dei prodotti dalle campagne locali e, nei menu, la preferenza di specialità acquistate direttamente dalle imprese agricole locali. Acquistare prodotti del proprio territorio e sostenere la filiera corta vuol dire anche dar vita a nuove forme di scambio, incontro, cooperazione che si basano sul rapporto diretto tra chi produce e chi consuma, inoltre diminuire il numero degli intermediari negli scambi economici dalla campagna alla tavola. Si stima che la riduzione delle emissioni di Co2 legata alla minore movimentazione delle merci, al taglio dei tradizionali passaggi della distribuzione come l’imballaggio e il confezionamento possano portare una famiglia a risparmiare, in termini di emissioni annue, anche una tonnellata di Co2.

È stato stimato che un pasto medio percorre più di 1.900 km su camion, navi o aerei prima di arrivare sulla nostra tavola Con sprechi energetici enormi

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Monterano

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Cultura

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Giovanni Losavio Presidente Italia Nostra Presidente di sezione della Suprema Corte di Cassazione

Perché difendo il Pincio Il Pincio è uno dei colli di Roma, occupato da giardini e ville storiche

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e ragioni che hanno convinto il sindaco di Roma a recedere dal proposito di convertire il cuore del Pincio in un gigantesco garage sono le stesse opposte da Italia Nostra al distruttivo progetto. La passeggiata del Pincio, il monumentale fondale concepito dal Valadier per piazza del Popolo (con gradinate, prospettive architettoniche, nicchie e viali ascendenti fino al culmine del belvedere, piazzale Napoleone), costituisce l’esempio più illustre di quello speciale oggetto della tutela considerato dal Codice dei Beni Culturali come “spazio aperto urbano di interesse storico e artistico”. E per il Pincio, dunque, bene culturale espressamente riconosciuto, vale il divieto non solo di usi incompatibili con il carattere storico e artistico, ma innanzitutto di trasformazioni che ne pregiudichino la stessa integrità. Come l’edificazione – e non soltanto – in elevazione, ma pure sotterranea che, anzi, con lo svuotamento dei sedimenti millenari di fondazione, costituisce l’alterazione più radicale e irreversibile. Il sindaco di Roma si è dunque infine investito delle esigenze di tutela di uno straordinario bene culturale, negate invece – e sorprendentemente – dalle istituzioni preposte a quel compito (le Soprintendenze per i Beni Architettonici e Archeologici, la Direzione Regionale per i Beni Culturali), disposte ad acconsentire alla trasformazione del Pincio nell’involucro di una gigantesca autorimessa in privato condominio tra i residenti della zona. Come se sulle supposte esigenze di servizio alla mobilità urbana non debba in ogni caso prevalere il prioritario precetto di salvaguardia del patrimonio storico solennemente posto dall’articolo 9 della Costituzione. Una così distruttiva trasformazione di un bene pubblico avrebbe costituito un illecito penale severamente sanzionabile, come l’osservanza dell’insuperabile divieto al riguardo non potrà dar fondamento ad alcuna pretesa risarcitoria né ad alcuna responsabilità patrimoniale per la pubblica amministrazione che doverosamente quell’osservanza abbia fatto valere.

A Roma è stato abbandonato il progetto di costruire un gigantesco parcheggio nel cuore del Pincio, riconosciuto come spazio urbano di interesse pubblico

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30-07-2008

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natura da leggere, regalare, ritrovare nel tempo OASIS è un regalo elegante e prezioso: un modo per farti ricordare tutto l’anno, contribuendo a far conoscere e proteggere le meraviglie della natura e del mondo e a diffondere la coscienza ambientale

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10-10-2008

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Zoologia

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Gloria Svampa Presidente Uiza Unione Italiana Zoo e Acquari

Uniti per salvare la tigre FOTO ANDREA ASTEGIANO

Nell’ultimo secolo,la popolazione di tigri è diminuita di oltre il 60%

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el giro di un secolo la popolazione mondiale di tigri è diminuita di oltre il 60%. Tre delle otto sottospecie conosciute sono scomparse nel secolo scorso e una quarta, quella cinese, può dirsi estinta, contando non più di 20-30 esemplari. La deforestazione e la caccia illegale per il commercio di parti del corpo impiegate nella medicina orientale sono fra le principali cause di questo spaventoso declino. Salvare questo felino significa salvaguardare tutto il suo ecosistema, e quindi molte altre specie. È urgente quindi intraprendere ogni azione utile a proteggere le tigri che ancora vivono negli ultimi paradisi naturali dell’Asia. E, per far questo, un ruolo importante rivestono soprattutto le tigri ospitate negli zoo. Il loro potere di attrazione costituisce uno strumento ineguagliabile per trasformare i milioni di persone che ogni anno visitano queste istituzioni nei più strenui sostenitori delle campagne che governi e associazioni conducono per scongiurare l’estinzione del più bello fra gli animali. In un solo anno i giardini zoologici europei, nell’ambito della “Tiger Campaign”, hanno raccolto una cifra superiore a 780.000 euro, che hanno messo a disposizione di importanti progetti di ricerca per la conservazione delle popolazioni selvatiche. Così le tigri degli zoo italiani, tedeschi, inglesi e degli altri Paesi europei sono divenute davvero le ambasciatrici di quelle che in natura sono costrette a muoversi in spazi sempre più angusti, insidiate dai bracconieri. “Uniti per la Conservazione” è il motto dell’Associazione Mondiale degli Zoo ed Acquari, a significare quali sono le finalità degli zoo del terzo millennio. È grazie a questo lavoro in coordinamento che gli zoo moderni stanno contribuendo con successo alla salvaguardia delle specie minacciate. Depositari di lunga esperienza nel campo della gestione e dell’allevamento degli animali selvatici, gli zoo hanno inoltre messo in campo una task force straordinaria, formata da veterinari, zoologi ed educatori, che porta avanti un progetto veramente indispensabile alla salvaguardia della tigre e di ogni altra specie: l’educazione alla conservazione.

Nell’ultimo secolo, la popolazione di tigri è diminuita di oltre il 60% Per scongiurare il pericolo di estinzione saranno fondamentali gli esemplari custoditi negli zoo europei

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014-015 Taccuino OK

9-10-2008

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il Taccuino della natura.. in ottobre

Testi e acquerelli di FRANCESCO PETRETTI

Birdwatching in laguna

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a vecchia Opel avanzava a passo d’uomo sulla strada che corre lungo la diga artificiale che taglia in due la laguna di Orbetello, incurante della coda di vetture che le si era formata dietro e da cui partivano rabbiosi colpi di clacson e lampeggi di fari. Dal finestrino a tratti sbucava il lungo teleobiettivo che riprendeva le strolaghe mezzane, gli svassi maggiori e minori, i cormorani che di tanto in tanto scomparivano tra i flutti, chi facendo una capriola in avanti, chi inabissandosi lentamente come un sommergibile, chi dileguandosi sott’acqua come se un invisibile subacqueo lo avesse tirato giù per le zampe. Era un tramonto di novembre, dopo una violenta tempesta di libeccio e pioggia a non finire. Il vento era girato a ponente, il cielo si era aperto e incendiato di giallo e di rosso, e le ultime nuvole plumbee si dissolvevano a poco a poco. La diga separava le acque di ponente, mosse e agitate, da quelle di levante, sottovento, calme e terse come uno specchio. Quasi fazzoletti bianchi sbattuti dal vento, i beccapesci si fiondavano in acqua per catturare lattarini e noni, mentre gli svassi piccoli galleggiavano come tappi di sughero sballottati dalle onde. A levante il corpo idrodinamico e lucido delle strolaghe mezzane, degli svassi maggiori e dei cormorani entrava e usciva dall'acqua, quasi senza turbare l'immobilità di quella parte riparata dal vento.

L’uccello delle tempeste

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uando li vidi mi prese la tenerezza. Avevano le dimensioni di uno storno, la colorazione di un balestruccio, nera e bianca, ed entravano spediti nella grotta per raggiungere i pulcini o i compagni in cova. Gli uccelli delle tempeste di Marettimo sono le piccole procellarie che affrontano il pelago e vengono a terra solo per nidificare. Hanno il volo da rondine, sfiorano le onde, alternando brevi planate a tratti battuti e soste contro vento, fermandosi a nuotare o a camminare sulla superficie. Spesso si possono osservare quasi camminare sull'acqua, con le ali tenute rialzate sul dorso, la coda aperta a ventaglio e le zampe penzoloni. Una meraviglia della natura, un mistero per gli ornitologi che li studiano, un patrimonio italiano da conservare in ogni modo.

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014-015 Taccuino OK

9-10-2008

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La Sardegna catalana

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i sono mete ricorrenti nei viaggi, purtroppo brevi, con cui alterno la mia vita in città. Una di queste è l’angolo nord-occidentale della Sardegna, per l’esattezza Alghero, dove si parla catalano. Nel 1353 gli Aragonesi si impadronirono di Alghero, che era in possesso della famiglia genovese dei Doria, con una memorabile battaglia navale nel golfo di porto Conte e vi favorirono l’insediamento delle popolazioni catalane alle quali re Pietro IV concesse gli stessi diritti di Barcellona, facendo di quest’angolo della Sardegna un frammento di Catalogna a tutti gli effetti. Nel corso dei secoli l’impronta catalana è rimasta e ha permeato il linguaggio, le tradizioni e l’architettura di quella che può essere considerata di diritto la più elegante cittadina sarda, che si affaccia su una delle zone più pregevoli dal punto di vista naturalistico, dove gli ornitologi fanno un pellegrinaggio almeno una volta nella vita. I cormorani pescano fra i gozzi dei pescatori e lunghe file di berte tagliano il golfo nel loro incessante andirivieni verso il promontorio. Il promontorio di Punta Cristallo, dalla piatta sommità inclinata come un tavolo sghembo, ospita la nidificazione degli uccelli di mare, del falco pellegrino e del grifone, i cui nidi si trovano nelle falesie a picco sul mare.

L’arpa di Marettimo

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’arpa è il nome con cui gli abitanti dell’isola di Marettimo chiamano il falco pescatore, che fino agli anni Settanta, come mi ha detto il mio amico e ornitologo Bruno Massa, faceva il nido sulla roccia sormontata dal castello di Troia in quella bella terra delle Egadi. Quindi Marettimo dovrebbe essere una delle ultime zone di nidificazione del grande rapace in Italia. Si è parlato anche di una coppia nidificante nei laghi Alimini in Puglia negli anni Sessanta, e di qualcuna sulle scogliere della Sardegna più di recente. I tentativi di nidificazione negli ultimi anni si sono ripetuti in varie zone, a partire dal parco della Maremma dove è in corso un progetto di reintroduzione, e a val

Campotto nel Ferrarese, ma c’è un’aria di mistero intorno alla possibile nidificazione del falco pescatore nella Sardegna nord-occidentale, un tratto di costa poco frequentato da turisti e naturalisti. Non sarebbe strano, poiché a poca distanza da lì si trova la bella e produttiva popolazione della Corsica occidentale. Ma, si sa, gli animali fanno cose strane e per noi inspiegabili: certe zone meravigliose continuano a restare deserte, poi all’improvviso una coppia decide di riprodursi in qualche luogo modesto e disturbato dagli esseri umani. E noi non capiremo mai il perché di questa scelta, ma ci sta bene che sia così purché il falco pescatore torni a nidificare nel nostro Bel Paese.

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Š DIETMAR NILL - ARCHIVIO GLANZLICHTER 2004

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LA BELLA

ZOOLOGIA DI

DANILO MAINARDI

Istinto e cultura, capacità innate e abilità apprese Nel suo ultimo libro, il più noto etologo italiano ci guida alla scoperta dei comportamenti animali più curiosi e meno conosciuti


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-SOLO BOX

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COME È CAMBIATA

L’ETOLOGIA ’etologia e lo studio del comportamento animale rappresentano oggi materie di grande interesse non soltanto per gli addetti ai lavori. Il merito di aver reso accessibile a tutti in Italia questa particolare branca di studio va attribuito a quello che possiamo considerare il volto storico dell’etologia nel nostro Paese, Danilo Mainardi, autore di numerosissime opere scientifiche e divulgative. Com'è cambiato l'interesse del grande pubblico verso l'etologia da quando lei ha iniziato la sua carriera di ricercatore e divulgatore? «Ho cominciato la mia carriera nella seconda metà degli anni ‘50 e all’epoca nessuno sapeva niente di etologia e comportamenti animali. Gli etologi erano pochi, anche tra gli stessi zoologi. La grande rivoluzione, a livello divulgativo, l'ha fatta nel 1976 l’uscita del libro "L'anello di re Salomone" di Konrad Lorenz e, da allora, è stato un crescendo di interesse». Quanto conosciamo della mente degli animali e quanto resta ancora da scoprire? «C'è ancora moltissimo da scoprire. Ciò che sappiamo con certezza è che nel mondo degli animali esistono tante menti tra loro davvero diverse, sia per capacità che per aver seguito differenti percorsi evolutivi». Da un punto di vista puramente comportamentale, quanta dif ferenza c'è tra l'uomo e lo scimpanzé? Fino a che punto, per gli animali più evoluti, si può parlare di intelligenza?

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IL PERSONAGGIO Danilo Mainardi, 75 anni, originario di Milano, è l’etologo italiano più noto al grande pubblico. Autore di numerose pubblicazioni, è presidente onorario della Lipu e docente di Ecologia Comportamentale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

IL LIBRO I testi di questo

«L'uomo è assai più culturale dello scimpanzé, che ha mantenuto una base istintuale piuttosto forte. In un certo senso potrei dire che lo scimpanzé è una specie meno estrema rispetto alla nostra riguardo alle capacità di produrre e trasmettere cultura. E' pertanto una specie più equilibrata, in quanto ancora dotata di quella che potremmo chiamare la sapienza della specie. Quanto all'intelligenza, è lo stesso discorso che ho fatto per la mente: si tratta di intelligenze tra loro assai diverse». Parlando di animali meno evoluti, pensa che anche gli insetti abbiano una qualche forma di consapevolezza o sono soltanto macchine viventi? «Certi insetti, soprattutto le api, hanno una buona consapevolezza dell'ambiente che li circonda; ciò che credo non sia stata dimostrata è la consapevolezza del sé. Non sono, ad ogni modo, compiutamente macchine viventi». Qual è in Italia la situazione della ricerca etologica? Cosa direbbe ad un ragazzo intenzionato a indirizzarsi verso questa branca di studio? «In Italia c'è nel complesso una buona ricerca etologica. A un giovane appassionato consiglierei di visitare il sito della Società Italiana di Etologia e contattare qualche gruppo che tratta argomenti di suo interesse. Consiglierei, comunque, di di rivolgersi e fare esperienze anche all'estero». GIANFRANCO CORINO

servizio sono tratti dal libro “La bella zoologia”, edizioni Cairo

La zoologia e i comportamenti animali ispirano i migliori fotografi del mondo: il concorso Glanzlichter celebra qui questi temi con il suo ricco archivio storico www.glanzlichter.com OASIS - 31


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i danzatori dell’arcobaleno In Papua Nuova Guinea, i guerrieri di tutte le tribÚ si sfidano in una gara di forza e bellezza foto di Jago Corazza testo di Greta Ropa


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egli ultimi quattro anni avevo raccolto tutte le notizie e tutti i dati riguardanti la Papua Nuova Guinea su cui avevo potuto mettere le mani. Il ristretto numero di pubblicazioni sull’argomento stimolava ulteriormente la mia curiosità e l’immensa ragnatela web non faceva che aumentare la confusione in una miriade di informazioni. Anche in questo caso la fonte più sicura e attendibile si era dimostrata essere la grande rete di amici viaggiatori. Frasi, indirizzi, appunti, racconti ma anche consigli, avvertimenti e raccomandazioni. In mezzo a questo flusso di nozioni a senso unico individuai presto alcuni dati di particolare interesse, che si ripetevano ed erano tanto insoliti quanto affascinanti. Un nome e un luogo ricomparivano frequentemente in queste relazioni, e accompagnati da aggettivi sempre magici e seducenti. Il nome era Daniel e il luogo suonava come Enga. Daniel appariva dai racconti come un’entità, un uomo della foresta, una sorta di Crocodile Dundee romantico. La sua specialità pareva essere quella di accompagnare gli appassionati di ornitologia nella foresta, alla ricerca del mitico uccello del paradiso. Daniel era nato nelle Highlands, le Terre Alte, e sicuramente ne conosceva alla perfezione i segreti, le popolazioni e i molti pericoli. Daniel era il mio uomo. Ma le sue tracce più recenti si perdevano nel racconto di un fotografo che aveva sentito parlare di lui anni prima a Port Moresby. Nessun indirizzo, nessun telefono. Il poco turismo che raggiungeva la Nuova Guinea era, ed è tuttora, attratto in massima parte dal relativamente noto “Sing Sing di Mount Hagen”, una sorta di festival tribale dove un grande numero di tribù invia i propri rappresentanti, splendidamente agghindati con i costumi tradizionali, a sfidarsi in una sorta di gara di bellezza. Ma avevo notizie di altri Sing Sing meno noti, e per questo più autentici, tra i quali aveva attratto il mio interesse quello del villaggio di Enga, località che non compariva però in nessuna mappa in mio possesso. Pareva svolgersi con cadenza annuale, in data incerta ma comunque precedente a quella di Mount Hagen, e le pur scarse notizie insistevano sulla grande varietà delle tribù partecipanti. Nessuna immagine, nessun filmato, nessun racconto. Papua Nuova Guinea, l’arrivo

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n dieci minuti l’aeroporto di Port Moresby, capitale della Papua, si svuota completamente. Non c’è nessun altro turista tra i pochi passeggeri che con noi hanno volato sin qui da Singapore, e quindi restiamo soli a sbrigare le pratiche d’ingresso. Il problema è che ogni cosa deve essere pagata in kina, la valuta locale, e le operazioni di cambio sono interminabili.

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Guerrieri con i colori della propria tribù,


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riuniti in occasione del grande raduno di Mount Hagen, nella Papua Nuova Guinea


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La Papua Nuova Guinea è considerata ancora una sorta di ultima frontiera, dove il turismo è quasi inesistente

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opo aver suddiviso nelle tasche un preoccupante volume di banconote unite assieme con decine di punti metallici e dopo aver pagato 100 kina un visto che portava stampigliata la scritta “Kina 75”, cerchiamo un mezzo di trasporto per raggiungere un hotel. L’idea è quella di rimanere alcuni giorni a Port Moresby, per rintracciare il misterioso Daniel e con lui organizzare le spedizioni presso le tribù e i villaggi. Ma le luci dell’aeroporto si vanno via via spegnendo e restiamo solo io, che tento a fatica di decriptare le istruzioni avvitate sull’unico apparecchio telefonico, e il piccolo gruppo di persone accampate davanti allo sportello di cambio. Anche i controllori doganali se ne vanno esausti senza controllare nessuno, dopo averci salutato con un cenno di noia. Mentre scopro che nessuno dei numeri in mio possesso stimola un minimo di interesse all’altro capo della linea telefonica, e che comunque nessuna monetina viene mai restituita, noto uno strano personaggio che fuma appoggiato al fusto di una palma: occhiali neri, una folta barba dello stesso colore e un cannocchiale verde appeso al collo. Indossa una maglietta con la scritta “Paradise Adventure Tours”, e quando mi avvicino per leggere meglio mi tende la mano con un grande sorriso: «Hi, I’m Daniel Wakra, birdwatching guide. Can I help you?». Daniel si dimostra subito capace e soprattutto dotato di senso pratico. Vive e lavora in un microscopico ufficio all’interno dell’hotel, colmo di attrezzature da campo, taniche e giornali disseminati sul pavimento. Discute con noi su tutti i particolari del percorso e prende atto che, nonostante la spettacolare flora e fauna dell’ambiente che attraverseremo, il nostro sarà un viaggio di taglio antropologico, studiato per contattare diverse tribù e visitare i villaggi più rappresentativi delle varie etnie. Daniel non si capacita del nostro scarso interesse per il Sing Sing di Mount Hagen, il festival tribale che costituisce la più grande attrazione nazionale, e si incuriosisce quando nominiamo il festival di Enga, che ci conferma essere praticamente sconosciuto ai fotografi e ai turisti. Nemmeno lui lo ha mai visto, e si ripropone di cercare informazioni a riguardo. Serviranno un paio di giorni per organizzare mezzi, persone e attrezzature: Daniel, nel frattempo, ci farà scoprire i dintorni della città, considerata una delle più pericolose al mondo. Ogni volta che manifestiamo la necessità

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di uscire dall’area protetta dell’albergo il personale ci riempie di raccomandazioni e avvertimenti, che raddoppiano di intensità il venerdì sera, chiamato friday pay night, giorno di paga in cui i giovani trasformano magicamente le kina in alcool. Lasciamo comunque in albergo apparecchiature, documenti e danaro, fatta esclusione per i raskol money, i soldi per i delinquenti, banconote di piccolo taglio da offrire ad eventuali rapinatori per non farli arrabbiare ulteriormente. In città esiste un unico grande negozio di artigianato, che rivende ai pochi turisti manufatti di recente costruzione ma anche pezzi di pregevole fattura. Tra i vari oggetti di artigianato, in un angolo del magazzino mi colpisce un batik, peraltro l’unico presente nel locale. Riproduce in modo molto semplice, quasi naïf, un aeroplano che trasporta alcuni passeggeri affacciati ai finestrini. A terra alcuni indigeni che indossano piume camminano guardando il cielo seguiti da un maiale. La mia curiosità, stimolata dall’insolito soggetto, attira l’attenzione del fedele Daniel che si avvicina sorridendo. «Probabilmente questo dipinto evoca il culto dei cargo, un tempo diffuso in queste terre». Daniel racconta quindi che questa sorta di movimento religioso, dai connotati quasi superstiziosi, risale agli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale ed era assai diffuso nelle zone più isolate. In quell’epoca un massiccio afflusso di personale militare aveva trasformato diverse zone dell’isola in basi cruciali per la guerra del Pacifico. Il Paese era stato invaso improvvisamente dai costumi americani, ma ancora di più dalla tecnologia da loro impiegata. Così era nato e si è diffuso il cargo cult, propriamente culto del cargo, dal nome degli aerei e dei mezzi carichi di beni che giungevano molto di frequente. Gli indigeni a quel tempo credevano che i preziosi oggetti provenienti dalle industrie occidentali fossero stati appositamente creati dagli spiriti degli antenati per essere destinati a loro. Gli uomini bianchi, grazie alla loro tecnologia più avanzata, avevano però illegittimamente preso il controllo di queste spedizioni impossessandosi degli oggetti. Gli adepti dei cargo cult si proponevano di purificare le loro comunità, evidentemente in difetto nei confronti degli antenati, attraverso imitazioni dei comportamenti occidentali e presumendo, grazie a questi nuovi riti, di poter attirare i cargo inviati pieni di ricchezze.


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Ancora in tempi recenti, le popolazioni della foresta praticavano il cannibalismo NIKON D200, 80 MM, 1/500 SEC, F 2.8


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Il Sing Sing è una sorta di festival tribale che si celebra ogni anno nelle Highlands, le Terre Alte della Papua Nuova Guinea. Ogni tribù invia i propri guerrieri agghindati con i colori del villaggio, che si sfidano danzando in una gara di potenza, agilità e bellezza

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Il Sing Sing di Mount Hagen


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Port Moresby e dintorni

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entre Daniel si dà da fare per soddisfare le nostre esigenze, ne approfittiamo per visitare i dintorni di Port Moresby. La capitale, come del resto tutti i villaggi della Papua, ha una rete stradale pressoché inesistente e non è connessa via terra con le altre cittadine. I collegamenti interni sono infatti affidati alle linee aeree. Praticamente solo tre strade permettono a mezzi su ruote di allontanarsi dalla città: la più estesa attraversa le montagne verso nord-est per circa 250 km e raggiunge la costa della Dyke Ackland Bay, mentre una seconda via raggiunge 200 km a nord il villaggio montano di Tapini. Un bus attrezzato per il fuoristrada ci porta invece lungo la strada costiera che si interrompe a Kupiano, 150 km a sud di Port Moresby. Ci fermiamo per pranzo accanto ad un curioso negozio di salumi: appesi ad un bastone alcuni quarti di wallaby, un piccolo marsupiale affine al canguro, vengono venduti ai viandanti. Una leggera affumicatura consente la conservazione della carne all’aria aperta, ma conferisce alle piccole zampette un aspetto ancor più sinistro. Mangiamo sotto banani e alberi carichi di pompelmi giganteschi. Sessanta chilometri separano dalla capitale il villaggio di Gabagaba, un piccolo agglomerato di pescato-

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ri affacciato sul Mar dei Coralli. La marea è forte a questa latitudine, e i pescatori si sono adeguati a vivere su palafitte, per ripararsi dall’acqua ma anche dall’umidità. Tre enormi contenitori fumano su un letto di braci. Alcune donne ci spiegano che in quelle pentole sta cuocendo un banchetto funerario, in onore di un uomo morto in mare. Al ritorno in città Daniel mi invita nel suo ufficio per discutere i costi e i particolari della spedizione. La cifra necessaria è molto alta, e lavoriamo fino a tarda notte per ridurla entro un limite per noi accettabile. Il giorno seguente è dedicato alla visita del Varirata National Park, distante poche decine di chilometri sulla strada che porta al villaggio di Sogeri. La strada sale velocemente, tagliando come una lama gli splendidi panorami, e ci fermiamo spesso a fotografare le numerose cascate formate dal Laloki River che costeggia la carreggiata fino all’ingresso del parco. Da qui proseguiamo a piedi, tra una miriade di enormi farfalle e uccelli velocissimi e variopinti. In mezzo alla lussureggiante vegetazione c’è una capanna costruita a più di dieci metri di altezza. Ospitava il primo missionario che si stabilì in queste zone e che, in questo modo, era in grado osservare meglio gli uccelli del paradiso e proteggersi dalle zanzare che non riescono a raggiungere quell’altezza.


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La capitale Port Moresby è una delle città più pericolose al mondo. Non ci sono strade e l’unico mezzo per arrivare qui è l’aereo

La foresta si apre poco dopo su un vasto prato che offre uno spettacolare panorama della capitale e di gran parte della costa. Al ritorno visitiamo la zona a sud di Port Moresby chiamata Ela Beach, una piccola spiaggia fiore all’occhiello della città. A ovest una vastissima area di abitazioni costruite su palafitte con materiale di recupero contrasta non poco con i grattacieli della downtown sullo sfondo. Daniel ci comunica esultante che il nostro programma è stato approvato e l’indomani un aereo ci porterà a Goroka, dove troveremo ad attenderci i mezzi e le guide per la spedizione. «Non hai capito – gli spiego – tu domani chiuderai l’ufficio e verrai con noi. Tu sarai la nostra guida». Daniel spalanca gli occhi e, commosso, mi abbraccia. Prova a dirmi che non può lasciare il posto di lavoro, ma quando gli garantisco un pagamento extra per il suo volo e il suo lavoro di un mese, corre emozionato a telefonare. Dopo trenta minuti torna raggiante. «Ok, brother. Now I’m your personal guide!». La vita nelle città di frontiera

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l sistema di voli interni gestito dalla Air Niugini si rivela puntuale ed efficiente. Questi voli rappresentano l’unica possibilità di comunicazione tra la capitale e i pochi agglomerati urbani dell’isola. La rete stradale, che è

infatti frammentata e incompleta e non consente collegamenti via terra, fa sì che le piccole cittadine abbiano quasi l’identità di isole: indipendenti, sospese, fluttuanti in un immenso mare verde. In questo modo non hanno sviluppato caratteri peculiari, ma hanno assunto una comune identità di città di frontiera che le rende tra loro simili in un’atmosfera di perenne transizione. Impossibile ambientarsi del tutto in queste città della Papua, dove non ci si sente mai pronti nemmeno per disfare la valigia. Goroka è una sorta di avamposto dotato di un certo numero di servizi come supermercati, banche, alloggi, mercati e perfino un piccolo ospedale. È una città rumorosa dove il nuovo diventa subito vecchio e le insegne pubblicitarie, per lo più costruite artigianalmente, indicano spesso le attività svolte nei locali sottostanti prima che chiudessero. Impossibile non notare il massiccio uso di inferriate, lucchetti, cancelli e filo spinato. Coppie di guardie armate dotate di cani poco rassicuranti sostano minacciose all’ingresso degli uffici e di tutti i negozi. Il luogo è in realtà un immenso ufficio di cambio: denaro al posto di esperienze e sopravvivenza. Quando ci avviciniamo alla banca per cambiare un po’ di dollari e di euro, un poliziotto all’ingresso si precipita su di noi e ci trascina direttamente allo sportello, facendoci superare tutta la fila. OASIS - 41


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Con un poco di vergogna mi volto appena per accennare un sorriso di scusa, ma non incrocio gli sguardi ostili che temevo di incontrare: questo trattamento privilegiato da turista portavalute è evidentemente considerato normale. Anzi, le lunghe code agli sportelli sono considerate dai locali momenti di condivisione sociale, e nessuno dimostra di avere fretta di lasciare i compagni incontrati durante l’attesa. L’impiegata allo sportello soppesa con un’occhiata la quantità di valuta che intendiamo cambiare e chiede al poliziotto di farci accomodare in una saletta privata. Spiega sussurrando che non è opportuno ritirare tutto quel denaro sotto gli occhi di tutti e insiste sulla pericolosità della cittadina. Il racconto di frequenti furti e violenze ci convince che non è il caso di passeggiare liberamente per i quartieri. D’accordo con Daniel decido che faremo base a Goroka e da qui ci muoveremo per raggiungere i villaggi Asaro nella valle. L’alternativa, che prevedeva di costituire i campi base presso le tribù, non è percorribile perché la polizia ci ha assolutamente sconsigliato l’uso della tenda. Al di fuori della città non esiste nessun alloggio sicuro per noi e per le nostre attrezzature. Ci fermiamo a visitare una piccola torrefazione, gestita da un australiano, che produce il famoso Goroka coffee 100% arabica, praticamente l’unico caffè bevuto in Papua ed esportato da qui in Australia. I chicchi vengono pazientemente selezionati a mano, uno ad uno, da alcune ragazze locali. Le inferriate che costeggiano la strada che conduce al Bird of Paradise Hotel, praticamente l’unico alloggio del paese, sono state trasformate in vetrine e grondano variopinte borse in rete. Le tradizionali bilums portate sulla testa dalle donne di tutte le tribù dell’isola sono state così adattate ad un uso più cittadino. Il mercato di Goroka

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oroka possiede un piccolo supermercato dove è possibile trovare generi di prima necessità e concedersi anche qualche lusso, come succhi di frutta o carne congelata, anche se a prezzi molto elevati. Per i pochi abitanti che possono permettersi di fare qui le loro spese, un sorprendente numero di poliziotti privati e di militari monta la guardia agli ingressi e all’interno. Con grande preoccupazione di Daniel, preferiamo quindi fare acquisti al mercato giornaliero, che è interessante quanto pericoloso. L’area del mercato è recintata e il pavimento sterrato mostra tra i cumuli di rifiuti i segni dei forti acquazzoni pomeridiani. Ma la zona dove si vendono frutta e verdura è un caleidoscopio di colori disposti con gusto e ordine rigorosi. La merce è presentata su sacchi di plastica stesi a terra ed una particolare attenzione è riservata alla sistemazione estetica dei prodotti. Carote, fagiolini, piselli so-

no pazientemente legati assieme in piccoli mazzetti, come sculture disposte in fila per attrarre i clienti. Ancora più colorati degli ortaggi sono gli onnipresenti pezzi di sapone B29 venduti ad ogni angolo di strada. I prezzi di tutte le merci sono sempre ordinatamente scritti su pezzetti di cartone e indicati in kina. Solo un negozio espone prezzi in dollari, perché la sua merce possa avere una possibilità in più di essere venduta ai rarissimi turisti: è la “Fashion Jewelry”, che espone collane e orecchini artigianali a prezzi esorbitanti, sicuramente frutto di un frettoloso errore di conversione. Poco più avanti un’altra esplosione di colori copre il terreno sabbioso di un mare di matasse di lana e cotone, disposte in onde di riccioli, trecce o gomitoli. Saranno utilizzate per realizzare indumenti e le tipiche borse colorate. Il bar itinerante, uno strano incrocio tra un carretto, due frigoriferi e una tettoia, porta la scritta “Coke, ples” con cui offre l’ubiqua bevanda in dialetto pidgin. Un denso fumo ci separa dalla zona dove vengono offerte le specialità alimentari. Il cibo viene cotto dentro larghe padelle e offerto direttamente agli acquirenti. Si può gustare carne di capra a cubetti, banana fritta, pezzi di maiale, palle di riso, e qualche temerario assaggia salsicce di un inquietante color rosso. Una grande tettoia offre protezione a qualche decina di abiti confezionati in due soli modelli ma in centinaia di colori. Al centro di un distratto capannello di persone, un papua con berretto a visiera scandisce frasi con fare autoritario, mentre indica un cartello consumato dal tempo e dall’uso che porta la scritta “Stop Aids” scarabocchiata con un grosso pennarello nero. Sta cercando di spiegare i vantaggi del preservativo agli indigeni che, man mano che riescono a decifrare i rozzi disegni illustrativi, riescono a stento a contenere le risa e si allontanano commentando. Queste campagne sono sempre finanziate dal governo australiano, che firma in stampatello questo tipo di iniziative proponendosi comunque agli abitanti della Papua come partner indispensabile e come unico e autorevole riferimento di ogni percorso socioculturale. Dopo un paio d’ore abbiamo completato i nostri acquisti, per lo più acqua, verdura e frutta. Daniel nel frattempo ci assicura di aver trovato il fuoristrada, casualmente guidato da un suo zio «molto bravo», e un paio di portatori. Faremo la loro conoscenza alla partenza da Goroka. Questa notte andranno ad avvertire le tribù asaro, perché possano organizzare la nostra ospitalità e preparare una festa in nostro onore. Si adorneranno delle maschere più belle e cercheranno di convincerci che le loro danze non hanno uguali in tutta la valle. All’esterno del mercato un negozio di ferramenta esibisce la scritta “We sell coffin here”, qui si vendono bare.

L’ISOLA DELLE MERAVIGLIE Sorong

In Nuova Guinea vive oltre l’8% delle specie animali del mondo

Irian Jaya Nabire

Jayapura Bogia

PAPUA PAPUA NUOVA GUINEA

Impossibile spostarsi senza una valida guida: sconsigliati i campi tendati 42 - OASIS

Popondetta

Merauke Port Moresby


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Gran parte della Nuova Guinea è ancora ricoperta da un’impenetrabile foresta vergine

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In Nuova Guinea si contano oltre 700 etnie diverse, ciascuna con una propria lingua In effetti un discreto campionario uomo-donna-bambino di quelle che Daniel chiama «permanent house» è esposto in offerta tra utensili e reti metalliche. Il momento di giocare

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l mercato di Goroka è un vero e proprio ponte tra la verde foresta punteggiata di villaggi e la brulicante città. Una zona franca, che genera nuova cultura e accorcia le distanze geografiche che si frappongono tra le genti della Papua. Il mercato offre quindi prodotti e inventa nuovi spazi di scambio, offrendo pure opportunità di divertimento e occasioni di socializzazione. Un’intera e ampia area è trasformata in una sorta di casinò all’aria aperta, con tanto di selezione all’ingresso. Il passatempo più gettonato è sicuramente la tombola. I giocatori, sia uomini sia donne, si riuniscono sotto tendoni di plastica blu e, seduti sul terreno polveroso, coprono i numeri usciti con piccoli sassi. Chi siede per giocare a tombola si ferma molto tempo, ore probabilmente. Le donne intrecciano le tipiche borse e allattano i bambini, gli uomini mangiano, mentre l’improbabile croupier estrae i numeri e li chiama a gran voce. Facciamo pochi passi e incontriamo altri ambulanti del gioco. Mi colpisce subito una bizzarra ruota della fortuna costruita su un supporto di legno pesante. Lungo la circonferenza è schierato un intero mazzo di carte francesi, che determinano l’entità della vincita a seconda di dove si ferma l’ago fortunato. Al centro della ruota, dipinti colorati e locandine si trasformano con il movimento rotatorio in un ipnotico caleidoscopio. Immancabili le freccette, il cui bersaglio viene fissato su supporti curiosi come finestre rotte o piastre di metallo. La classica prova di abilità che consiste nel centrare vari bersagli con anelli di ferro si ritrova in diversi banchi di gioco. Che siano bicchieri foderati direttamente con le banconote in pa-

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lio oppure lattine di Coca-Cola su cui le banconote colorate vengono fissate con elastici, si tratta sempre del medesimo gioco. I ragazzi più giovani scelgono prevalentemente il gioco dei tappi, che forse è anche il più economico. Si tratta di centrare con le monete di misura più piccola alcuni tappi rovesciati e disposti l’uno accanto all’altro come le cellette di un grande alveare. Nessuno dei gestori dei giochi sembra però volersi procacciare clienti. Nessuna insistenza e nessun invito viene rivolto ai passanti, e mi pare che questo confermi lo spirito puramente ludico degli abitanti di queste terre. Iufi-Iufa School

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a primary school che ci stiamo recando a visitare è situata pochi chilometri a est di Goroka, lungo la strada che si addentra nella valle degli asaro, circondata da alte montagne. Per colmo di fortuna, pare che anche nella scuola sia giorno di sing sing. Mentre ci allontaniamo dalla città ripenso alla mia scuola elementare e al giorno tanto atteso della recita scolastica. Ricordo l’entusiasmo, i sonni irrequieti, l’ansia palpabile, ma soprattutto il vanto di esibire un costume da me stessa realizzato. Al mio arrivo nel piazzale della Iufi-Iufa Primary School non posso non riconoscere quello stesso entusiasmo. Siamo capitati nel bel mezzo dell’annuale festa scolastica, un piccolo sing sing per studenti molto giovani ma non per questo meno desiderosi di celebrare l’orgoglio Png indossando i costumi tradizionali delle proprie tribù. Molti bambini sono già presenti e molti altri stanno arrivando a frotte, accompagnati da famiglie compiaciute che oltrepassano il cancello della scuola con aria trionfale. Ogni bambino è adorno di penne d’uccello colorate, enormi e lucide foglie carnose color verde intenso, code di opossum e collane di conchiglie.


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Gli affollati mercati sono il più importante momento di ritrovo per tutta la comunità I piccoli volti sono decorati con i colori tribali, le gambe abbellite con ondulati graffiti di argilla bianca. È evidente quanto la nostra presenza di occidentali sia una gradita sorpresa per tutti loro e ognuno spera di essere notato e fotografato. Questa è la mia terra e questi sono i miei colori, recitano quei travestimenti. All’interno della scuola, poche grandi aule ospitano intere pareti di lavagne ricoperte di parole in polvere di gesso. Non ci sono banchi, ma tavoloni e lunghe panche. Latte vuote di pomodori e frutta sciroppata fungono da portamatite e le pareti conservano il ricordo di colori vivaci. Sui fogli appesi si distinguono i disegni e i pensieri dei ragazzi. All’esterno, lungo il perimetro della scuola dove tutti i ragazzi in costume si stanno radunando, una zona è adibita all’esposizione di oggetti ed è circondata di cartelloni su cui spiccano i pensieri dei ragazzi: un ripetitivo schema a nuvolette racchiude desideri e stati d’animo. Curiosamente i fiumi figurano tra i loro luoghi preferiti e, in risposta a domande sul loro futuro, primeggiano le attività agricole e la costruzione di belle case. Poco distante un gruppo di genitori organizza il pranzo. Alcune donne costruiscono contenitori di foglie intrecciate, mentre altre si accingono a cuocere carne e platano. Seduta sul prato, cerco di godermi lo spettacolo dell’arrivo dei gruppi. Alcuni agitano fieri, come fosse il pennone di una bandiera, una lunga asta coperta di banconote. «Sono le offerte raccolte per la scuola – spiega orgoglioso un insegnante con il volto colorato e piume d’uccello sul capo - più l’asta è lunga e più denaro è stato raccolto». La curiosità dei ragazzi per il nostro piccolo gruppo è fin troppo evidente. Un’ora dopo siamo coinvolti in vertiginosi girotondi e misteriosi giochi di carte tra l’ilarità generale. I ragazzi sono molto divertiti dalla nostra presenza e ci seguono ovunque, rumoreggiando allegramente. Ogni tanto i più coraggiosi tentano qualche domanda in un

timido ma corretto inglese insegnato a scuola come lingua ufficiale, pur essendo in realtà parlato solo da un’esigua minoranza. La lingua più diffusa in Papua è infatti il tok pisin, una particolare lingua franca utilizzata anche da numerosi quotidiani e addirittura nei dibattiti parlamentari. Il tok pisin nasce originariamente come una sorta di lingua-filtro, in risposta alla necessità di convivenza di gruppi estranei entrati in contatto. Costituito di fatto da una base di lingua inglese con l’aggiunta di termini mutuati dal tedesco, dal portoghese e dagli idiomi locali, il tok pisin oggi non è più considerato dai linguisti una vera e propria lingua franca, visto che esistono ormai molti parlanti madrelingua, ma è trattato con maggiore considerazione. Da semplice ed efficace strumento di facile comunicazione, il tok pisin si sta quindi sempre più evolvendo in una lingua autonoma, attraverso una fase di consolidamento della struttura grammaticale. Tuttavia, grazie alle sue origini eterogenee, conserva ancora molte caratteristiche delle antiche lingue locali. Alcuni significati infatti sono espressi da lemmi che figurano come un semplice raddoppiamento sillabico: ad esempio, il termine usato per zanzara è natnat, il coccodrillo diventa pukpuk e lo straniero bianco dimdim. Altri significati, soprattutto se riferiti a oggetti non comuni a quelle latitudini, sono espressi da perifrasi, come la traduzione della parola “pianoforte”, che si traduce “bigfella bockus, teeth alla same shark, you hitim he cry out”, che più o meno significa “grande uomo di legno, denti come squalo, tu colpire lui gridare”. La foresta pluviale

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a fitta foresta pluviale lo protegge talmente bene da renderlo invisibile. Questo incredibile lodge ci ospiterà per i prossimi giorni, utile avamposto per visitare la lontana regione di Enga. OASIS - 45


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Abbiamo superato i 2.600 metri di altitudine e la temperatura si fa più umida durante le giornate e più rigida nelle ore notturne. Intorno a noi, la vegetazione esplode rigogliosa e grondante d’acqua. Fiori variopinti interrompono le mille sfumature di verde e canti d’uccello riecheggiano a tutte le ore del giorno e della notte. Stretto in questo verde abbraccio, lo scheletro legnoso del lodge pare lottare ora dopo ora per non soccombere alla forza vitale della foresta. Costruito come rifugio per i birdwatchers, è meravigliosamente integrato nell’ambiente circostante con la sua struttura di legno e bambù, stuoie di cocco e foglie. Ricalca esattamente l’architettura delle capanne nei villaggi e l’unica stanza riscaldata è un enorme salone centrale. Le stanze sono piccole celle dotate di minuscoli terrazzi affacciati sulla foresta. Appena la pioggia lascia il posto al sole impaziente, decidiamo di esplorare le zone circostanti. Tra i rami di un albero scorgo un paio di occhietti che mi fanno trasalire. Osservando più attentamente individuo una bianca palla di pelo che quasi si chiude su se stessa. Meraviglia! Il timido animaletto non assomiglia a nessuna specie che io abbia mai visto nemmeno in un documentario. Le mie grida, smorzate dalla paura di una sua possibile reazione di fuga, attirano un indigeno che si avvicina sicuro tra la vegetazione. «Cus-cus», afferma sorridendo, mentre ognuno di noi annuisce fingendo di aver riconosciuto l’animale. Scopriremo più tardi che si tratta di una specie di lemure, animale schivo e notturno, quindi assai difficile da incontrare. È completamente innocuo e votato all’estinzione, vista la sua scarsa resistenza agli attacchi di qualsiasi predatore. Paul, il cugino di Daniel che ci scorta durante la passeggiata esplorativa, decide di catturarlo per farcelo ammirare più da vicino. L’animaletto ci guarda dall’alto restando immobile e un po’ perplesso ma, appena raggiunto dalle mani del nostro amico, stringe con forza il ramo grazie alle buffe zampette, per poi arrendersi e aggrapparsi alla testa del suo stesso cacciatore. Mai avevo toccato un animaletto tanto soffice! Lo disturbiamo per pochi minuti, circondandolo con i nostri volti incuriositi che lui sembra studiare con espressione più sbalordita che spaventata. Appena liberato il cus-cus riconquista tranquillamente la postazione originaria, tornando ad appallottolarsi sul medesimo ramo. Rientriamo all’imbrunire, sotto una pioggia sottile che torna a bagnare la vegetazione esausta. Quando la notte sopraggiunge, un freddo penetrante avvolge ogni cosa e paralizza le membra in un silenzio irreale.

NIKON D200, 24 MM, 1/80 SEC, F 4.5

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La regola del wantok

Animali della foresta cotti nei mercati

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O

gni sosta è un’occasione di incontro, qualcosa di inaspettato. Il nostro fuoristrada è fermo a lato della strada principale. La nostra guida scende per prima, pregandoci di attendere un suo cenno. Parla gesticolando con una donna che si è avvicinata al mezzo, fino a che la conversazione si fa più distesa, per culminare addirittura in una sorta di abbraccio e in una fragorosa risata. Come ridono qui in Papua! Spalancano la bocca, mettendo ben in mostra tutti i denti e compiendo un gesto liberatorio con il capo all’indietro, lasciando ciondolare il collo. «Potete scendere» ci comunica, mentre si appresta ad estrarre alcune monete. Intanto compaiono dal nulla due donne. Camminano verso di noi con passi piccoli e veloci, e con le braccia scure protese in avanti cariche di collane di fiori. È evidente da come le maneggiano che sono le autrici di questi manufatti. Daniel, aiutato dal nostro autista, ne acquista sei o sette, rumorosamente e con gesti plateali, addobbando completamente con queste il nostro mezzo, sia all’esterno che all’interno. Ci spiega poi, una volta ripartiti, che abbiamo dovuto pagare un pegno per via della differenza di wantok. Qui non si parla la sua lingua, quindi non godiamo di alcuna protezione, ed è giusto pagare una sorta di tributo a questa gente. Non acquistare questi prodotti sarebbe stata una grave mancanza di rispetto, che avrebbe potuto probabilmente esporci a tentativi di furto o violenza.


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E, tra le bancarelle, uomini e donne si ritrovano anche per giocare a tombola o a freccette

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I contrasti della capitale Port Moresby, villaggi rurali di palafitte e moderni grattaceli Iniziamo così a renderci conto della grande valenza di questa rete di relazioni e di tutela, che in realtà si è trasformata nel tempo in una sorta di etica condivisa con precise regole di comportamento. La parola wantok, che deriva dall’inglese one talk, si può tradurre semplicemente come “persona che parla la stessa lingua, quindi appartiene allo stesso gruppo tribale e, di conseguenza, alla stessa famiglia allargata”. In un Paese con oltre 700 tribù e lingue diverse, le relazioni, o wantok appunto, possono fare la differenza tra il possibile e l’impossibile; possono far accedere a determinati ambienti, o far sì che se ne venga tagliati fuori. Queste assicurano, ad esempio nel caso di un viaggio, che non si resti senza cibo o senza aiuto. Se da un lato questo sistema rappresenta un vero e proprio lasciapassare tra le persone, dall’altro regolamenta inevitabilmente le relazioni sociali impedendo qualsiasi elasticità nei rapporti. In un certo senso questo sistema, che fino ad ora ha garantito la sopravvivenza delle genti dell’isola, sta ora minandone l’apertura al resto del mondo come una sorta di pesante ancora che impedisce i liberi movimenti. Basti pensare alla triste condizione dei molti giovani provenienti da piccoli e isolati villaggi: spesso infatti abbandonano la famiglia, per raggiungere le grandi città alla ricerca di un nuovo El Dorado. Molti sono analfabeti e attratti dal miraggio di ricchezza rappresentato da prodotti e tecnologie occidentali. Ma spesso vengono delusi dall’impossibilità di guadagnare il denaro necessario a soddisfare le aspettative. Si ritrovano quindi soli e senza alcun wantok, ovvero senza la protezione di chi potrebbe aiutarli. Svanito il sogno della facile ricchezza, si ritrovano a vivere per strada o nelle baraccopoli per unirsi in bande di disperati che, sotto gli effetti dell’alcool, non risparmiano alcuna violenza. Questi ragazzi-canaglia, che la popolazione chiama raskal, popolano le grandi città dell’isola contribuendo a rendere Port More48 - OASIS

sby una delle più violente e pericolose al mondo. Quando chiediamo di assistere ai preparativi dei gruppi etnici prima delle danze, Daniel spiega che dovrà rivolgersi alla sua gente per ottenere l’autorizzazione. Sarebbe impensabile interpellare la tribù di un altro wantok. Poi torna trionfante e ci conduce dai suoi. Veniamo accolti con cortesia in un cortile chiuso. Ci guardiamo intorno e abbiamo subito la sensazione che nessuno si stupisca della nostra presenza. Siamo liberi di muoverci, osservando e fotografando la meravigliosa e antica arte della preparazione alle danze. Con pettini dai larghi denti intinti in una pasta bianca e densa, vengono tracciati ondulati motivi sulle gambe dei danzatori. Tutti partecipano, uomini, donne e bambini, ma i dipinti sui volti vengono eseguiti solamente dai guerrieri, quasi quel tocco personale rappresenti un rituale essenziale. I preparativi continuano nonostante le nostre riprese fotografiche. Daniel, compiaciuto, dice che la sua gente gradirebbe che portassimo sul volto i loro colori nel perimetro del Sing Sing. Saranno presenti, infatti, molti altri gruppi e attraverso le pitture del nostro viso potrà essere chiaro a tutti il nostro wantok. Naturalmente accettiamo e ognuno di noi viene preso in consegna da un guerriero, che ci pittura il volto tra l’ilarità generale. Segni rossi e gialli, i principali colori della tribù, vengono tracciati sulle nostre guance, sul naso e sulla fronte. Ognuno di noi avrà un disegno personale creato dall’ispirazione dell’artista, con segni molto semplici che rispettano sempre l’alternanza di colori. Un appuntito bastoncino di legno viene intinto nelle polveri vegetali e inumidito con generosi schizzi di saliva. Tutti accolgono divertiti questo ampliamento della famiglia. Daniel, anch’egli con il volto dipinto, ride felice: è certo che gli stranieri, i suoi stranieri, durante la festa faranno il tifo per il suo clan. Ora anche noi abbiamo un wantok. Ì JAGO CORAZZA - GRETA ROPA


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Con Jago e Greta tra le ultime tribù preistoriche del pianeta on questo reportage sugli ultimi mesi e 64.000 km percorsi con due fuopopoli primitivi della Nuova ristrada, ha portato via terra Jago, la sua Guinea, Jago Corazza e Greta compagna Greta Ropa e due giornaliRopa iniziano la loro nuova collaborasti da Bologna a Miami (Florida). zione con Oasis in veste di inviati. Un L’impresa, definita dalla CNN “unica ruolo che li vedrà impegnati negli ane senza precedenti” è stata seguita giorgoli più remoti e inaccessibili del pianalmente dai più importanti quotidiani, neta per documentarci, con i loro avtelevisioni italiane ed estere e racconvincenti racconti e le splendide tata da un volume fotografico e da 28 immagini, la vita, i costumi e le cultuspeciali puntate televisive. Cura, in re degli ultimi popoli tribali. Per il qualità di direttore di produzione e nostro giornale si tratta di un impordirettore della fotografia, la produziotante arricchimento, portato da due prene di eventi, show, eventi musicali e stigiose firme del giornalismo di viagprogrammi spettacolari in onda sulle gio, per approfondire sempre più gli varie emittenti nazionali. Collabora con stretti legami che uniscono il mondo diverse testate e case editrici, tra cui naturale a quello antropologico. National Geographic e White Star-NaJago Corazza ha iniziato quindicentional Geographic, con cui ha realizzane come fotografo in to una importante moun’importante agenzia nografia a carattere pubblicitaria bologneantropologico sulle ulse. La passione per i time tribù preistoriche viaggi lo ha poi spinto della terra. Un libro e una in tutta Europa, e poi Greta Ropa corriin Africa, prima come spondente in lingue mostra raccontano viaggiatore e poi coestere e laureata in il loro viaggio tra me guida in Algeria, scienze della formazioMarocco, Niger, Tunine e selezione delle rigli “ultimi uomini” sia, Mali, Cameroun, sorse umane, ha al suo nelle terre vergini Nigeria, Kenya, Conattivo anni d’esperiengo, Centrafrica, Bur- della Nuova Guinea za nel settore moda e kina, pubblicando inpubblicità. Lavora coconsueti reportage di me indossatrice e fotoviaggio ha realizzato modella per numerose servizi e documentari aziende d’importanza in Perù, Circolo Polanazionale ed internare Artico, Messico, Argentina, Bolivia, zionale. Appassionata scrittrice, viagBrasile, Nord Kapp, Chile, Paraguay, giatrice e fotografa ha collaborato a Turchia, India, Nepal, Sikkim, Birmadocumentari girati in Australia, Camnia, Thailandia, Libia, Indonesia, Sud bogia, Cuba, Vietnam, Yemen, ZimAfrica, Vietnam, Cambogia, Belize, babwe, Zambia, El salvador, Honduras, Zambia, Zimbabwe, Botswana, EtioBotswana, Namibia, Ethiopia, Isola di pia, Guatemala, El Salvador, Honduras, Pasqua, India, Nepal, Perù, Belize, Russia, Giappone, Stati Uniti, Siberia, Papua Niugini, Patagonia, Guatemala, Cina, Alaska, Mongolia, Namibia, CaRussia, Giappone, Stati Uniti, Siberia, nada, Patagonia, Borneo, Papua NuoLesotho, Libia, Cina, Namibia, Alaska, va Guinea, Galapagos, Isola di Pasqua, Swaziland, Corea, Ecuador, Galapagos, Ecuador, Australia, Yemen, Irian Jaya. Sud Africa, Mongolia, Canada e Mali. In qualità di regista e direttore della Nel 2002 partecipa come fotografa alla fotografia ha realizzato trasmissioni spedizione che la porta, facendo il giro per le reti Rai, Mediaset, Videomusic, del mondo, da Bologna a Miami (FloTmc e per importanti emittenti regiorida). Lavora per il cinema, per la telenali. Per la televisione e il cinema ha visione, e collabora come scrittrice con realizzato inoltre la serie documentarivarie testate e case editrici come White stica “Extreme Tv”, spot pubblicitari, Star-National Geographic, con cui ha documentari culturali e geografici, corappena realizzato una importante motometraggi, monografie e programmi nografia. musicali. Nel 2002 ha realizzato una spedizione giornalistica che in cinque Info: www.iago.com

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GLI AUTORI Jago Corazza e Greta Ropa, realizzano articoli e documentari antropologici da tutto il mondo

IL LIBRO I testi e le fotografie di questo servizio sono tratti dal libro “Gli ultimi uomini” edizioni White Star formato 29,5 x 31,5 pagg. 288 - Euro 38 www.whitestar.it

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NIKON D200 – 380 MM. – 1/2.500 SEC. – F 5.6

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C Ghiandaia marina (Coracias caudata)

NIKON D200 – 600 MM. – 1/320 SEC. – F 8.0

Storno di Burchell (Lamprotornis australis)

CANON EOS 30D – 700 MM. – 1/1.250 SEC. – F 5.6

Martin bianco e nero (Ceryle rudis)

on i suoi 20 mila km quadrati, all’incirca quanto lo Stato di Israele, il Parco Nazionale di Kruger è il più grande del Sud Africa e uno dei più ricchi al mondo per concentrazione di animali e mammiferi, che si possono osservare percorrendo una rete di oltre duemila chilometri di sentieri e strade asfaltate. Ma il parco è considerato un autentico paradiso soprattutto dai birdwatcher, per la presenza di oltre 500 specie di uccelli. Sono stati proprio loro l’obiettivo del nostro tour: un lungo viaggio sulle tracce delle ali del Kruger.

CANON EOS 30D – 500 MM – 1/2.000 SEC. – F 4.5

Jacana africana (Actophilornis africanus)

Ghianda (Coracia NIKON D200


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Birdwatching nel

Kruger Park testo e foto di Andrea Marzorati e Nicola Fasoli w w w. a n g a l i a . i t

Ghiandaia marina petto lilla (Coracias caudata) NIKON D200 – 500 MM. – 1/350 SEC. – F11


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Gruccione piccolo (Merops pusillus)

NIKON D200 – 650 MM. – 1/350 SEC. – F 6.7

NIKON D200 – 29 MM. – 1/40 SEC. – F 5

Gli ambienti del Kruger sono molto vari e

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Storno splendente (Lamprotornis chalybaeus)

CANON EOS 30D – 300 MM. – 1/80 SEC. – F 4.5

on una superficie di oltre ventimila chilometri quadrati (all’incirca quanto lo Stato di Israele), il Kruger National Park è la più grande riserva naturale del Sudafrica e la terza del continente, dopo lo Tsavo del Kenya e il Selous della Tanzania. All’interno è rappresentato l’intero campionario della grande fauna africana: elefanti, bufali, ippopotami, leoni, rinoceronti. L’obiettivo del nostro viaggio, tuttavia, è quello di dedicarci principalmente all’avifauna, alle ali del Kruger, per cercare di osservare e fotografare almeno una parte delle 507 specie di uccelli censite in questo parco. Sbrigate le formalità all’aeroporto di Johannesburg, dunque, abbiamo preso possesso dell’auto noleggiata dall’Italia e siamo usciti senza difficoltà dalla città. Per raggiungere il parco di Kruger si percorre una scorrevole autostrada, un viaggio di circa cinque ore, durante il quale ci si rende immediatamente conto della vastità degli spazi di questo immenso Paese. La vista corre fino all’orizzonte senza ostacoli, attraverso un territorio lievemente ondulato dominato da due colori, l’azzurro intenso del cielo e il giallo dorato dei pascoli. Giunti nella zona di Nelspruit il paesaggio cambia invece radicalmente, il territorio diventa ondulato e ai campi si sostituiscono estesi frutteti. Tra il verde spiccano le tinte dei limoni e delle arance; sono coloratissime anche le cassette di frutta che i locali vendono nei numerosi mercatini che si susseguono a bordo strada. La vicinanza del parco appare evidente anche senza consultare la cartina, per la presenza, sempre più frequente, di piccoli alberghi che pubblicizzano safari, dentro o fuori i confini del Kruger.


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Dopo quasi cinquecento chilometri vediamo finalmente il Crocodile Bridge, il famoso Ponte dei Coccodrilli che precede l’ingresso al parco. Il nostro viaggio, che durerà una decina di giorni, farà tappa ai campi di Crocodile, Pretorius Kop, Skukuza, Satara e Olifants. In tal modo potremo viaggiare attraverso le diverse regioni del parco, muovendoci tra vari ecosistemi per poter osservare il maggior numero possibile di specie. I Rest Camp sono strutture recintate gestite dal National Parks Board. Sono puliti, dotati di energia elettrica e per dormire si può scegliere tra la classica sistemazione in bungalow o quella più spartana in tenda. In ogni campo sono presenti un ristorante, un distributore di benzina e un negozio dove fare acquisti di ogni genere, dall’artigianato locale ai generi alimentari, anche se i ristoranti offrono buon cibo e i migliori vini sudafricani a prezzi davvero contenuti. E, visto che anche gli appassionati di birdwatching si mettono a tavola, vogliamo menzionare uno dei due ristoranti di Skukuza, allestito nella vecchia stazione ferroviaria, dove sui binari c’è ancora un vecchio treno che oggi ospita il bar. È possibile organizzare il viaggio in completa autonomia e la presenza di una guida non è obbligatoria. Le strade sono infatti in ottime condizioni, tutte ben segnalate: il parco, sotto questo profilo, è molto sicuro e in caso di emergenza si può usare tranquillamente il cellulare, dato che ovunque è garantita la copertura. Ogni giorno ci alziamo molto presto, così da essere tra i primi davanti al cancello, pronti a uscire alle 6, orario fisso di apertura. Ogni giorno seguiamo il percorso programmato la sera precedente, sfogliando la Visitors Guide che suggerisce i migliori hot spot dell’ampio territorio.

Francolino del Natal (Pternistes natalensis)

NIKON D200 – 400 MM. – 1/125 SEC. – F 4.0

differiscono anche in base alla stagionalità

NIKON D200 – 550 MM. – 1/250 SEC. – F 10

Coucal di Burchell (Centropus burchellii)


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Bucorvo cafro (Bucorvus leadbeateri)

NIKON D70 – 170 MM. – 1/500 SEC. – F 3.5

A

l Kruger, tranne in alcune località segnalate, sono in vigore alcune regole ferree. In primo luogo è vietato scendere dalla macchina: le osservazioni e le foto vanno sempre fatte dal finestrino; questo non è un grande problema, ma in alcune occasioni la tentazione di uscire è davvero forte. Nel parco è poi necessario osservare il limite di velocità dei 50 km/h, anche se per vedere gli animali, soprattutto i più elusivi, è opportuno andare molto più piano; questo comunque è un punto da tenere presente quando si pianificano le escursioni, soprattutto per evitare di rientrare troppo tardi la sera, quando il cancello dei campi è già chiuso. Il limite di velocità è una questione di sicurezza, per i turisti ma soprattutto per gli

animali: durante il giorno, molti infatti ci attraversano la strada anche d’improvviso, da piccole manguste a elefanti, passando per gli onnipresenti impala, o intere mandrie di bufali. È sempre bene fermarsi e lasciarli passare. La lista delle specie osservate ogni giorno è molto lunga: noi abbiamo avuto occasione di vedere quasi tutto quello che avevamo desiderato, dai predatori ai grandi erbivori, ma – come previsto – uno degli aspetti che ci ha maggiormente colpito è stata l’abbondanza e la varietà di uccelli di ogni forma, colore e dimensione. Abbiamo potuto osservare con inattesa frequenza l’aquila pescatrice africana, rapace magnifico presente praticamente in ogni pozza di una certa dimensione e lungo le sponde dei fiumi.

CANON EOS 30D – 500 MM. – 1/3.200 SEC. – F 4.0

Bucero beccogiallo (Tockus leucomelas)


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Ghiandaia petto lilla (Coracias caudata)

NIKON D200 – 400 MM. – 1/1.500 SEC. – F 5.6

In alcune occasioni abbiamo assistito, seppur da molto lontano, ad emozionanti scene di caccia dell’aquila, vedendola planare veloce sull’acqua e catturare con gli artigli i pesci che nuotano ignari sotto la superficie. Un’altra specie osservata di frequente è stata la ghiandaia petto lilla, un coraciforme dai colori splendidi, con varie tonalità di blu, viola, azzurro, verde e naturalmente lilla, spesso posata sulle acacie a bordo strada. È impossibile non vederla, e non restare a guardarla mentre caccia gli insetti, soprattutto scarabei e cavallette. Noi l’abbiamo osservata almeno in un paio di situazioni particolari. Nella prima, protagonista di uno scontro con uno storno a cui stava contendendo il posatoio. La ghiandaia aveva

Martin pescatore (Alcedo cristata)

sempre la meglio, ma lo storno non mollava dando l’impressione di voler difendere la propria posizione ad ogni costo; dopo qualche minuto e diversi scontri è arrivato un secondo storno che si è infilato in una fenditura del tronco. Ecco così spiegata tanta aggressività: nell’albero la coppia aveva il nido, dunque stava difendendo i piccoli. Un altro episodio interessante è stato quando abbiamo visto diverse ghiandaie a bordo strada insolitamente vicine tra loro. Il motivo, abbiamo poi scoperto, era un piccolo incendio che stava bruciando la rada vegetazione: moltissimi insetti, nel tentativo di scappare dalle fiamme, attraversavano la strada finendo preda degli uccelli che godevano così dell’inatteso banchetto.


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S

NIKON D200 – 650 MM. – 1/100 SEC. – F 9.0

Falco giocoliere (Terathopius ecaudatus) Ghiandaia petto lilla (Coracias caudata)

CANON EOS 30D, 500 MM, 1/2500 SEC, F 4.0

i possono anche osservare di frequente, lungo le sponde dei fiumi, varie e coloratissime specie di gruccioni, soprattutto il white fronted e il little. A noi sembrava di essere quasi a casa, dato che il loro comportamento è molto simile a quello della specie che conosciamo bene e che comunque vive per la maggior parte del tempo in Africa. Purtroppo, dato il periodo del viaggio, abbiamo mancato l’appuntamento con il bellissimo gruccione carminio, uno dei soggetti più desiderabili. È stato proprio mentre cercavamo i gruccioni che abbiamo avuto un incontro inaspettato. Con l’auto stavamo attraversando una piccola zona boscosa, gli alberi erano molto vicini tra loro e il fogliame fitto, il terreno completamente in ombra. Ci siamo fermati a controllare, perché avevamo già notato che queste isole di vegetazione rigogliosa, presenti in alcuni punti vicino ai fiumi e sempre molto verdi anche nella stagione secca, erano sempre ricche di soggetti interessanti. Così è stato anche in quel caso, dato che proprio su uno dei rami sporgenti verso la strada c’era un astore africano, probabilmente fermo lì per individuare con maggiore facilità le prede che si muovevano tra l’area verde in ombra e quella dominata da arbusti secchi ed erba bruciata dal sole. Siamo rimasti sul posto fino a quando il rapace ha preso il volo, disturbato dall’arrivo di altri turisti che, purtroppo, avendo visto noi ma non l’astore, avevano fermato l’auto proprio sotto di lui. Come non ricordare poi i vari tipi di storni, dal blu intenso all’azzurro, molto confidenti e sempre presenti nei bar e nei ristoranti dei campi, numerosissimi in un’area di sosta con annesso ristorante all’aperto di Timbawati. Gli storni, vicini ad ogni tavolo, aspettavano che i turisti finissero il pranzo per poi cibarsi delle briciole e di ogni altro avanzo lasciato nel piatto. E ancora i francolini, che camminavano a bordo strada e spesso sembrava che volessero farsi investire dalle macchine, dato che per attraversare attendevano proprio il loro passaggio. Abbiamo osservato varie specie di martin pescatore: il piccolo ma stupendo malakite nei pressi del fiume Sabie, forse il martino più somigliante al nostro Alcedo atthis, il pied, completamente bianco e nero, spesso posato sui canneti che circondano uno dei ponti sul fiume Olifants, il brown hodeed kingfisher, che si differenzia nettamente dagli altri perché si alimenta in prevalenza di insetti, in particolare le cavallette. Impressionanti i marabù, grandi cicogne dalla caratteristica sacca sotto il becco: come gli avvoltoi sono soprattutto saprofagi, e come loro hanno testa e collo privi di piume, per evitare di sporcarle quando le infilano all’interno delle carogne; posati non hanno certo un bell’aspetto, ma il loro volo planato è molto elegante, grazie anche alla notevole apertura alare che in alcuni esemplari sfiora i tre metri. Una sera, rientrando al campo di Satara, ne abbiamo visti molti già posati sugli alberi-dormitorio, ma il giorno seguente non abbiamo voluto perderci la fase di rientro: ci siamo sistemati in tempo e li abbiamo visti arrivare uno dopo l’altro, provenendo tutti dalla stessa direzione in una magica cartolina, mentre dietro di loro il tramonto africano colorava il cielo in modo spettacolare. Nella savana intorno a Skukuza abbiamo invece visto atterrare una coppia di serpentari, e sempre nei dintorni, ancora a terra, l’otarda di kori.


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Il serpentario ha una particolare struttura fisica, simile a quella di un rapace nella parte superiore e ad un ardeide nella parte inferiore: sembra quasi di vedere un’aquila con le zampe di una cicogna, ed è inusuale anche il fatto che caccia le prede sempre a terra, dove passa la maggior parte del suo tempo. Prevalentemente a terra si muove anche la grande otarda di kori, in grado di volare ma dalla corporatura veramente grande e pesante: le femmine pesano circa otto chilogrammi, ma alcuni maschi oltrepassano i quindici. Sono state per noi tante altre le specie osservate: tra queste le bufaghe, compagne inseparabili di bufali e giraffe, le oche egiziane, varie specie di averle, gli ardeidi – compreso il più grande della famiglia, l’airone golia, visto in una pozza frequentata da diversi ippopotami e coccodrilli, le tante specie di tessitori che nidificano sui rami degli alberi nei rest camp, l’uccello martello, gli ibis, le gru, varie specie di hornbill, limicoli e passeriformi. Il viaggio stava finendo, eravamo soddisfatti, avevamo visto e fotografato ogni tipo di specie, non solo avifauna naturalmente ma anche impala, kudu, waterbuck, giraffe, elefanti, zebre, iene, licaoni, gnu, ippopotami, qualche leone e ghepardo. Ci mancava però uno dei rapaci che ci interessava maggiormente osservare: la rara aquila marziale. Il giorno della partenza era arrivato e l’aquila l’avevamo vista solo da molto, molto lontano. La speranza di vederla bene c’era ancora, ma il tempo stava per finire. Siamo come sempre partiti all’alba, per sfruttare le ultime possibilità di osservare e fotografare gli animali. Durante il viaggio tra Olifants e Orpen abbiamo avuto un ultimo, emozionante e inaspettato incontro, protagonisti alcuni cuccioli di iena così confidenti da arrivare a toccare i paraluce dei teleobiettivi che sporgevano dai finestrini. Mancava meno di un’ora all’uscita dal parco, quando all’improvviso il nostro desiderio sembrò potersi avverare: all’ombra, nascosta tra i rami di un grosso albero sulla sponda di un fiume, ecco la nostra aquila. Allora dagli a invertire la marcia, preparare l’attrezzatura fotografica, avvicinarci con tutte le precauzioni possibili... quando un magnifico esemplare di falco giocoliere si involava sotto i nostri sguardi delusi. Abbiamo così terminato gli ultimi scatti e raggiunto il cancello, lasciando che gli addetti registrassero la nostra uscita dal parco. Fuori a malincuore dal Kruger, ci siamo diretti verso Johannesburg per tornare a casa.

CANON EOS 30D – 700 MM. – 1/1.250 SEC. – F7.1

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Storno pancia nera (Lamprotornis corruscus) Avvoltoio orecchiuto (Torgos tracheliottus)

Il Kruger National Park, oltre ad essere uno dei parchi più conosciuti del mondo, è anche uno dei più grandi e antichi. Le sue origini risalgono al 1898, quando tra i fiumi Sabie e Crocodile venne creata da Paul Kruger, allora presidente della Repubblica del Transvaal, una prima piccola riserva, la Sabie Governement Reserve. Pochi anni dopo, nel 1902, i suoi confini si estesero verso nord ma, nonostante la regolamentazione della caccia, si diffuse il bracconaggio. Nello stesso anno il maggiore James Stevenson Hamilton divenne il primo guardiano del parco, e probabilmente fu il primo ad intuire le grandi potenzialità turistiche della zona. Hamilton dedicò 44 anni della sua vita al Kruger, e una targa lo ricorda nei pressi del campo di Skukuza, dove aveva il quartier generale. Nel 1912 la zona venne attraversata dalla ferrovia, che attirò i primi viaggiatori.

NIKON D200 – 650 MM. – 1/250 SEC. – F 9.0

LA STORIA DEL PARCO


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Gruccione fronte bianca (Merops bullockoides)

Bucero grigio (Tockus nasutus)

CANON EOS 30D – 700 MM. – 1/640 SEC. – F 5.6

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35.000 Km2, il Great Limpopo National Park, che collegherà diverse aree protette di Sudafrica, Mozambico e Zimbabwe (tra cui i parchi nazionali di Limpopo e Gonarezhou, il Manjinj Pan Sanctuary e la Malipati Safari Area). La zona di conservazione dovrebbe poi essere ulteriormente ampliata, fino a 100.000 Km2. Nel 2000 i Ministri per l'Ambiente dei tre Paesi coinvolti hanno firmato un memorandum d'intesa (Mou) per l’istituzione e nel 2001 si sono tenuti i primi trasferimenti di elefanti dal Sudafrica al Mozambico, nazione martoriata dalla guerra civile che ha conservato ben poco dell’originaria fauna selvatica. Il 9 dicembre 2002 è stato poi firmato un trattato internazionale per fondare il Great Limpopo Transfrontier Park. Parte delle recinzioni che separavano il Kruger da un’area protetta in Mozambico sono già state rimosse, ma il grande parco transfrontaliero verrà aperto soltanto quando animali e turisti potranno muoversi liberamente tra le riserve.

a costituzione del Kruger National Park fu proclamata nel 1926: il territorio in quel periodo comprendeva la riserva di Sabie e quella di Singwitsi. L’anno seguente, il parco aprì per la prima volta le porte ai turisti: nel 1935 erano già 25.000, oggi sono più di un milione. Ora il Kruger si sviluppa da sud a nord per circa 350 km, ha una larghezza media di 60 km ed è attraversato da oltre 2.000 km di strade, tutte percorribili anche con una normale autovettura. Il clima qui è subtropicale: gli ambienti naturali sono molto diversi, con 13 diversi ecosistemi classificati. I principali fiumi sono il Limpopo, l’Olifants, il Sabie, il Letaba e il Crocodile: alcuni, durante la stagione secca da maggio a ottobre, diventano quasi ruscelli, ma da novembre le piogge cambiano il paesaggio rendendolo molto più rigoglioso. Nel parco sono censite 147 specie di mammiferi, 114 di rettili, 49 di pesci, 34 di anfibi e 507 di uccelli. In questi ultimi anni il Kruger è al centro di un ambizioso progetto: la creazione di un parco internazionale di oltre

La riserva di Phinda Turismo sostenibile e lodge ecologici nel parco più ricco di vita del Sudafrica a Phinda Game Reserve, nella regione del Kwazulu Natal, è considerata una delle grandi meraviglie del mondo. Nei suoi ventimila ettari di superficie si trova una straordinaria varietà di ecosistemi, che ospitano praticamente il campionario degli animali africani compresi i grandi mammiferi. Grazie ai progetti per lo sviluppo del turismo sostenibile, che coinvolgono direttamente le popolazioni locali, la riserva è stata insignita di numerosi riconoscimenti internazionali. I visitatori possono muoversi a piedi o in jeep, navigare in canoa sul fiume Mzinene, immergersi nelle acque dell’oceano Indiano, osservare di notte le tartarughe giganti che depongono le uova o effettuare voli panoramici. Sono a disposizione suite e lodge perfettamente integrati nell’ambiente.

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I parchi del Sudafrica Tra savane, foreste e barriere coralline, muovendosi in auto, a piedi, in barca o a cavallo 1. KRUGER NATIONAL PARK

5. PARCO GREATER ST. LUCIA WETLAND

Tra i maggiori del mondo per estensione, diversità di specie faunistiche e presenze turistiche. Può essere visitato sia con la propria auto, sia partecipando a safari con jeep o pulmini. Diciannove campi con bungalow e ristoranti. www.sanparks.org

Un’eccezionale varietà di ecosistemi circonda il lago di S. Lucia: paludi di mangrovie, praterie e la barriera corallina lungo la costa. Numerosi ippopotami e coccodrilli. Recentemente è stata introdotta una famiglia di elefanti. www.kznwildlife.com

2. KGALAGADI TRANSFRONTIER PARK

6. UMFOLOZI GAME RESERVE

Parco transfrontaliero tra il Sudafrica e il Botswana. Alte dune, distese di sabbia e formazioni rocciose caratterizzano il territorio popolato da antilopi, struzzi, iene, ghepardi e giraffe. Si può pernottare nei tre campi attrezzati. www.peaceparks.org

Numerose colline e una vegetazione rigogliosa. L’attrattiva più forte qui è la possibilità di avvistare il rinoceronte. È possibile esplorare l’area a piedi o a cavallo. www.kznwildlife.com 7. PILANESBERG NATIONAL PARK

3. ADDO ELEPHANT NATIONAL PARK Nato nel 1931 per proteggere gli ultimi elefanti del Capo (oggi sono circa 300), copre una vasta area dell’Eastern Cape nella valle del Sundays River. Ospita 185 specie di uccelli, rinoceronti bianchi e bufali. www.sanparks.org

Immerso in un affascinante paesaggio dominato da affioramenti rocciosi, ospita rinoceronti bianchi e neri, elefanti, giraffe, iene e ghepardi. Nel 2000 sono stati reintrodotti i cani selvatici africani. www.parksnorthwest.co.za 8. GOLDEN GATE HIGHLANDS NATIONAL PARK

4. MOUNTAIN ZEBRA NATIONAL PARK È un piccolo parco (7.000 ettari) creato per proteggere uno degli animali più rari del mondo, la zebra di montagna (Equus zebra). Presenta paesaggi di montagna e una ricca vegetazione di acacie e olivi selvatici. Il più grande predatore è il caracal; vivono qui anche diversi esemplari di piccoli felini, oltre a più di 200 specie di uccelli. www.sanparks.org

Ideale per scalate, lunghe passeggiate ed escursioni a cavallo tra immensi dirupi di arenaria che al tramonto assumono una splendente colorazione dorata. www.sanparks.org 9. PHINDA GAME RESERVE Una riserva privata, dove si possono ammirare con facilità durante i safari tutti i grandi mammiferi africani. www.phinda.com

Natura protetta In Sudafrica è stata creata una vasta rete di parchi e riserve

ZIMBABWE

B O T S WA N A Pretoria

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INDIRIZZI UTILI

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NAMIBIA

SOUTH AFRICAN TOURISM Tel. numero verde 800925245 email info.it@southafrica.net Web www.southafrica.net

Johannesburg

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Bloemfontain

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SWAZILAND 9 6 5

LESOTHO

SUDAFRICA O CEANO AT L A N T I CO

4 Cape Town

O CEANO I NDIANO

3 Port Elizabeth OASIS - 59


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Novanta tentacoli, una grande conchiglia: animali antichi e misteriosi, i nautili si possono oggi osservare in uno speciale acquario a Bolzano testo e foto di Massimo Morpurgo


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l Museo di Scienze Naturali dell’Alto Adige è attualmente l’unica struttura pubblica in Italia a ospitare in acquario i nautili (Nautilus pompilius). Il museo è situato nel centro storico di Bolzano, in uno splendido edificio del 1500. La sua esposizione permanente, suddivisa su due piani e aperta al pubblico nel 1999, è dedicata alla geologia e agli ambienti naturali dell’Alto Adige. Al primo piano, nella sala delle Dolomiti si trovano due acquari marini: una grande vasca di barriera corallina da 9.000 litri e la vasca più piccola con i nautili. L’acquario di barriera, popolato da un centinaio di pesci di barriera e da decine di specie di madrepore e alcionacei che formano colonie di dimensioni naturali e in continua crescita, è stato allestito con l’intento di spiegare in maniera viva la relazione tra la barriera corallina e le Dolomiti. L’idea di allestire un acquario con i Nautilus è nata nel 2005 in seguito a importanti scoperte paleontologiche avvenute pochi anni prima in provincia di Bolzano. Il dott. Herwig Prinoth e il prof. Renato Posenato (Università di Ferrara), in collaborazione con il Museo di Scienze Naturali dell’Alto Adige, hanno portato alla luce in Val Gardena oltre cento esemplari di fossili di Nautiloidi appartenenti a otto specie, sei delle quali nuove per la scienza, indicativamente di circa 255 milioni di anni fa (formazione a Bellerophon del Permiano Superiore). Questi fossili sono ora custoditi al Museo di Scienze Naturali di Bolzano e due esemplari, appartenenti a due specie nuove, sono stati esposti nella mostra permanente in una vetrina affiancata dal nuovo acquario con i nautili. Gli animali vivi in acquario danno ai visitatori un’idea di come si comportavano e si muovevano i Nautiloidi che nuotavano nell’antico mare permiano, e una più facile lettura dei fossili esposti.

Via Bottai 1, Bolzano - www.museonatura.it


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Veri fossili viventi, i nautili rappresentano ancora oggi un mistero per gli zoologi

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Nautiloidi, caratterizzati dalla conchiglia suddivisa in camere, costituiscono una sottoclasse dei molluschi cefa lopodi. Comparvero 500 milioni di anni fa, alla fine del Cambriano, e successivamente, come dimostrano i resti fossili delle loro conchiglie, si diffusero nei mari della Terra con tantissime specie, alcune delle quali raggiunsero anche i tre metri di diametro. In milioni di anni hanno attraversato periodi di grande diffusione ed evoluzione di nuove specie, suddivise in diverse famiglie e generi, alternati da altri di estinzioni di massa. Questo antico gruppo di animali oggi è rappresentato da poche specie, fossili viventi. Sulla tassonomia dei Nautiloidi viventi non tutti gli zoologi concordano. La maggior parte riconosce cinque specie appartenenti alla famiglia

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Nautilidae: una del genere Allonautilus (Allonautilus scrobiculatus) e quattro Nautilus (Nautilus pompilius, Nautilus macromphalus, Nautilus belauensis e Nautilus stenomphalus). Per la specie Nautilus scrobiculatus, descritta sulla base della conchiglia nel 1786 e vista viva per la prima volta soltanto nel 1984 in Papua Nuova Guinea, i ricercatori grazie a studi genetici hanno istituito nel 1997 il genere Allonautilus. Una seconda specie attribuita a questo genere (Allonautilus perforatus) è dubbia: se ne conoscono solo le conchiglie, trovate alla deriva nel mare di Bali. Oggi le specie della famiglia Nautilidae vivono in una limitata zona nell’oceano Indiano orientale e nel Pacifico occidentale. La specie più comune, Nautilus pompilius, è diffusa nei mari intorno a Filippine, In-

donesia, Nuova Guinea, Australia, e dalle isole Salomone fino alle Fiji. Nautilus repertus è stato trovato in Australia meridionale e occidentale. Nautilus belauensis è noto solo alle isole Palau. Nautilus macromphalus si trova esclusivamente nelle acque della Nuova Caledonia. Nautilus stenomphalus è stato segnalato solo sulla barriera corallina australiana. Allonautilus scrobiculatus vive nelle acque della Nuova Guinea. La parola Nautilus è di origine greca e significa navigante: Aristotele fu il primo a utilizzare questo nome nell’“Historia animalium”, riferendosi però all’argonauta, cefalopode ottopode le cui femmine producono una conchiglia. Più di duemila anni dopo, nel 1758, Linneo avrebbe descritto, solo sulla base della conchiglia, il nautilo denominandolo Nautilus.


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La conchiglia del nautilo è a spirale piana ed è internamente suddivisa da setti in numerose camere. Nelle specie più grandi può misurare fino a 24 cm di diametro. Il corpo dell’animale occupa solo l’ultima e più grande camera. Tutte le camere, che a seconda dell’età dell’esemplare possono essere più di trenta, sono collegate tra loro da un cordone di tessuto detto sifuncolo. Contengono un gas, di composizione simile all’aria, e un liquido. Attraverso il sifuncolo, con un complesso sistema di pompa osmotica, l’animale è in grado di regolare la quantità di gas e di liquido all’interno delle camere e di variare in questo modo il suo peso specifico, e quindi il suo assetto in acqua. Il nautilo mantiene sempre, con un minimo dispendio energetico, un assetto neutro, ossia

lo stesso peso specifico dell’acqua in cui si trova. Il sistema di regolazione del sifuncolo può entrare in azione per compensare l’aumento di peso dopo un pasto abbondante, oppure per bilanciare la riduzione del peso in seguito alla perdita di un pezzo di conchiglia. Questo sistema non viene utilizzato per compiere spostamenti in verticale, che vengono effettuati unicamente nuotando. Come è stato dimostrato sottoponendo a radiografie a distanza di settimane un nautilo in acquario, a lungo termine il sistema viene utilizzato per compensare la crescita della conchiglia con la formazione di un nuovo setto e conseguente delimitazione di una nuova camera, che viene a poco a poco svuotata dal liquido e riempita di gas. Sorprendentemente la pressione del gas

all’interno delle camere è sempre di un’atmosfera, anche quando il nautilo scende a grandi profondità. La conchiglia è incredibilmente resistente e implode a circa 800 metri di profondità. Esternamente al corpo è visibile sul dorso il cappuccio, che è composto da tessuto connettivo molto robusto. In caso di pericolo l’animale può ritrarsi nella conchiglia e chiuderne l’apertura con il cappuccio. Il nautilo è dotato di circa 90 tentacoli privi di ventose, ma dotati di sottili scanalature che gli permettono un’ottima presa. Sono suddivisi in due corone, e quella più esterna comprende 19 paia di tentacoli digitali. A riposo possono essere ritratti in apposite guaine e all’occorrenza, come ad esempio durante la ricerca del cibo, completamente estroflessi. OASIS - 63


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setto gangli nervosi

radula

gonadi

tentacoli interni cuore

ghiandola digestiva ano cavità del mantello

branchie

Una conchiglia divisa in camere Una serie di setti suddivide la conchiglia in numerose camere L’animale occupa solo l’ultima, mentre le altre contengono un gas che viene regolato per mantenere un corretto assetto in acqua

L’uovo di Nautilus è simile ad uno spicchio d’aglio

In acquario le ofiure si cibano delle feci dei nautili 64 - OASIS

L’apparato boccale è circondato da 90 tentacoli


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