IV. Nella cospirazione e nelle carceri
La «presunzione di innocenza» del popolo italiano ebbe nei decenni della Repubblica democratica riflessi negativi per la cultura del paese e per la sua autorappresentazione: impedì una serio esame delle cause storiche che portarono all’affermarsi del regime mussoliniano, favorì le interpretazioni di stampo moderato presso larga parte dell’opinione pubblica, mentre presso le stesse forze intellettuali e politiche più responsabili e colte servì solo rafforzare quella immagine del fascismo, che fu detta «demoniaca», in una inefficace contrapposizione che non valse a cancellare l’influenza delle interpretazioni moderate. Benché tutto ciò sia vero, tanto che ancor oggi se ne può cogliere l’eco nelle ridicole esaltazioni del «buon uomo Mussolini», occorre anche riflettere al fatto che senza quella pur erronea percezione sarebbe stato ben più difficile mettere in campo un movimento di massa disposto a rischiare gli averi e la vita per opporsi alle forze armate del Reich. Un popolo, che in quei momenti avesse dovuto riconoscere di essere corresponsabile degli orrori del nazismo e di avere generato per primo quella forma di dittatura totalitaria, avrebbe avuto probabilmente solo due scelte: o ribellarsi a chi lo metteva davanti alle sue responsabilità e riaffermare la coerenza dell’alleanza con il Reich e la giustizia dei suoi ideali, come in effetti fece quella parte del popolo italiano che si schierò nelle file della repubblica fascista; oppure lasciarsi opprimere dal senso di colpa e accettare passivamente un destino di umiliazione e sofferenza. Chi invece scelse si impegnarsi nella lotta e nella cospirazione lo fece anche con la coscienza di essere parte di un popolo che era stato conculcato e che di ciò aveva sofferto: quello che oggi può sembrarci un autoinganno è stato anche il piedistallo da cui è scaturita la forza della ribellione. Per molti degli autori delle