16 minute read

del 1931 e del 1938

Next Article
Appendice

Appendice

34 Ilaria Pavan

tratta dunque di una fonte assai ricca che è in grado di restituirci in maniera estremamente dettagliata e analitica il quadro dell’articolato mondo del commercio, della piccola e media imprenditoria ebraica, la sua distribuzione territoriale e l’indirizzo produttivo, documentandone inoltre i percorsi innescati dalla persecuzione.

Advertisement

2 La comunità ebraica italiana alla luce dei censimenti del 1931 e del 1938

Chi e quanti precisamente fossero gli ebrei attivi nel mondo della finanza, dell’impresa e del commercio era un dato che, alla vigilia della campagna antisemita del regime, sfuggiva con molta probabilità alle stesse autorità fasciste, forse con la parziale eccezione di Mussolini, che il 3 marzo 1934 richiese personalmente all’Istituto Centrale di Statistica il prospetto riassuntivo del censimento del 1931 relativo agli Israeliti censiti nel Regno 15 . Non si possono peraltro dimenticare i documentabili contatti personali ed epistolari che il duce intratteneva con singole personalità di rilievo del mondo imprenditoriale ebraico di quegli anni, quali Cesare Goldmann, Federico Jarach o Guido Segre, ma complessivamente, prima dell’avvio della persecuzione, l’opinione pubblica italiana e la gran parte degli stessi ambienti governativi fascisti erano probabilmente legate solo al classico e radicato pregiudizio di una ramificata presenza e di una decisiva influenza degli ‘elementi ebraici’ all’interno della vita economica del paese; per scontati motivi propagandistici la campagna stampa che precedette e accompagnò l’intera fase di preparazione della persecuzione antisemita fece largo ricorso a tale giudizio stereotipato.

Le poche informazioni cui il regime poteva fare riferimento riguardo al numero, alla distribuzione territoriale e alle professioni svolte dagli ebrei della penisola risalivano al settimo censimento generale della popolazione. La rilevazione del 1931 – l’ultima per la quale era prevista la dichiarazione circa la religione professata dal cittadino – era in grado di fornire notizie solo relativamente al numero complessivo degli ebrei italiani, che risultarono 47.825; i dati erano suddivisi per provincia, ma disaggregati in modo molto grossolano in base alle attività economiche svolte, poiché il censimento classificava gli ebrei secondo la condizione socio-professionale del capofami-

15 Cfr. M. SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 41.

Un ‘feudo immaginario’ 35

glia e non dei singoli soggetti. Nonostante le distorsioni inevitabilmente provocate da tale criterio, emergevano ugualmente alcune profonde divergenze socio-professionali rispetto al complesso della popolazione nazionale: se infatti tra gli ebrei italiani gli appartenenti alle classi popolari rappresentavano appena il 10%, il totale della popolazione italiana vedeva ammontare la sua componente meno abbiente al 76,70% 16. Predominanti, tra gli ebrei, gli occupati nell’ambito del commercio – il 34,30%, a fronte del 6,10% del dato nazionale complessivo – e nel settore del pubblico impiego – il 25,20% contro il 4,90%. Le caratteristiche ‘borghesi’ della Comunità non debbono peraltro far dimenticare il fatto che gli ebrei rappresentavano in Italia una frazione assolutamente minoritaria all’interno di tutte le classi sociali: fra i liberi professionisti erano infatti poco più di 4.000 su 760.000 (lo 0,50%), tra i commercianti e gli impiegati poco più di 10.000 su un totale di oltre 2.000.000 (lo 0,50%), tra gli imprenditori circa 2.600 su oltre 1.500.000 (lo 0,20%) e, infine, tra i possidenti e benestanti si contavano poco più di 2.000 ebrei su oltre 400.000 (lo 0,40%) 17. Come vedremo meglio in seguito, questi dati, già messi in evidenza dalla rilevazione del 1931, saranno confermati anche dal censimento razziale del 1938, da cui emergerà inoltre come fosse tutt’altro che trascurabile la percentuale dei semplici ambulanti all’interno del mondo del commercio, settore che coinvolgeva il maggior numero di ebrei. Prima del censimento razziale dell’estate 1938 e dell’emanazione della normativa antisemita, il regime aveva una conoscenza precisa ed analitica so-

16 Per «classi popolari», secondo le classificazioni utilizzate nel censimento, si intendevano gli addetti all’agricoltura, gli artigiani, i lavoratori a domicilio, gli operai, il personale di servizio e di fatica. Per ulteriori informazioni sul censimento del 1931, cfr. R. BACHI, La distribuzione geografica e professionale degli ebrei secondo il censimento italiano del 1931, in «Israel», 20, n. 1, 13 settembre 1934; M. SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., pp. 43-45. L’utilizzazione dei censimenti precedenti, quelli del 1901 e del 1911, per seguire l’evoluzione socio-demografica della comunità ebraica italiana nel corso dei primi decenni del Novecento è praticamente impossibile; il modo in cui era formulato il quesito relativo alla religione, basato su diverse definizioni di ebreo che mutavano da un censimento all’altro, e il modo stesso con cui le rilevazioni censuarie precedenti erano state eseguite, si differenziano nettamente tra il 1901, il 1911 ed il 1931. Anche le informazioni di natura demografico-statistica provenienti dalle stesse Comunità ebraiche, relative agli anni 1913, 1932 e 1936, non sono attendibili perché basate solo su stime e non su vere e proprie registrazioni. 17 Cfr. R. BACHI, La distribuzione geografica e professionale degli ebrei secondo il censimento italiano del 1931, cit., p. 7.

36 Ilaria Pavan

lo della realtà ebraica triestina. Nel 1928 e nel 1937, la locale Prefettura aveva infatti stilato due rapporti estremamente completi e dettagliati sulla presenza degli ebrei nell’economia 18 e, più in generale, nella vita cittadina, rapporti poi puntualmente inviati al Ministero dell’Interno. Nelle due relazioni venivano indicati i nomi di tutti gli israeliti che lavoravano nell’amministrazione e negli uffici pubblici, nelle scuole, nelle associazioni, i professionisti dei vari settori e, naturalmente, erano segnalate tutte le posizioni ricoperte – dalla carica di presidente a quella di semplice impiegato – all’interno di ogni singola realtà del mondo economico cittadino. Secondo la relazione del 1937, la presenza ebraica era documentata a vario livello all’interno di 4 compagnie di assicurazione, 11 banche, 8 società di navigazione, 51 società per azioni e 719 attività commerciali e artigianali 19. Le due minuziose indagini riguardanti l’ebraismo triestino – che, sino ad oggi, sono gli unici documenti di questo genere ritrovati all’interno del materiale esaminato – si inserivano probabilmente nel più ampio orizzonte delle lotte fra le due più importanti fazioni del fascismo locale, dove, a partire dagli anni Trenta, si avvertiva una contrapposizione tra un gruppo di formazione liberal-nazionale, di estrazione capitalistica, ed un gruppo più conforme alle posizioni del partito; quest’ultimo era apertamente appoggiato dall’allora segretario del PNF Starace che, in una relazione inviata alla segreteria nazionale del partito nel settembre 1937, dichiarava come occorresse eliminare quella «ibrida zona dell’ebraismo in camicia nera» 20. Il controllo cui erano sottoposti gli ebrei triestini si inseriva quindi all’interno di uno scontro di fascisti contro altri fascisti, nel quale gli ebrei erano oggetto di un’attenzione del tutto pretestuosa.

Annunciato dal regime il 5 agosto 1938 e svoltosi a partire dal 22 del mese stesso, il censimento degli ebrei rispondeva dunque alla necessità di superare l’imprecisione e l’incompletezza dei dati sino allora disponibili. Per la prima volta si trattava di una rilevazione basata sul criterio razziale e non su quello religioso, che prendeva in considerazione gli individui e non le famiglie, assumendo ad oggetto tutti i nati da almeno un genitore ebreo o ex ebreo. Tuttavia quel censimento non è in grado di offrirci un dato del tutto realistico circa la presenza ebraica in Italia; infatti i termini sulla base dei

18 ACS, MI, ctg. G1, b. 7, f. 6. 19 Ibidem. 20 Cfr. S. BON, Gli ebrei a Trieste. Identità, persecuzione, risposte, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2000, p. 45.

Un ‘feudo immaginario’ 37

quali fu individuata in quell’occasione l’appartenenza alla «razza ebraica» non corrispondevano alla definizione giuridica di ebreo che sarà introdotta dalla legislazione persecutoria soltanto nel novembre successivo, secondo la quale oltre a tutti i nati da due genitori ebrei o ex ebrei, non tutti i figli nati da un solo genitore ebreo o ex ebreo dovevano considerarsi appartenenti alla «razza ebraica». A fronte di tale discrasia si può quindi affermare che il censimento dell’agosto 1938 tenne conto di circa un 22,50% di persone che non vennero successivamente assoggettate alla normativa persecutoria, proprio in ragione della definizione giuridica introdotta nel novembre di quello stesso anno 21. Sulla base di tali considerazioni, gli esiti del censimento, nonostante la loro minuziosità, possono dunque essere esaminati solo in termini generali per ricostruire il profilo socio-economico della comunità. In ogni caso, alla fine dell’agosto 1938, con la diffusione dei primi dati, negli ambienti governativi cominciò ad apparire più definita – almeno da un punto di vista strettamente quantitativo – la presenza ebraica nella vita economica del paese.

Il censimento stimò in 46.656 gli ebrei residenti sul territorio nazionale, di cui 37.241 italiani e 9.415 stranieri, una presenza pari a circa l’1‰ della popolazione complessiva del paese; nel panorama dell’ebraismo europeo la comunità italiana rappresentava dunque una delle meno numerose, certo meno rilevante rispetto, per esempio, alla realtà tedesca o austriaca, dove, nel 1933, la popolazione ebraica ammontava rispettivamente a circa 525.000 e 192.000 persone, vale a dire l’1% e il 2,90% del totale 22. Il dato percentuale italiano rivelava, come già evidenziato dal censimento del 1931, che la grande maggioranza degli ebrei italiani viveva nelle regioni centro-settentrionali, concentrata in particolare nei grandi centri urbani; il 93% risiedeva infatti in sole nove città 23 e, più precisamente, ben il 49,30% del totale viveva all’interno delle due maggiori comunità del paese, Roma e Milano. Il forte inurbamento della popolazione ebraica era frutto della profonda ridistribuzione geografica seguita all’emancipazione; i flussi migratori interni all’ebraismo italiano avevano infatti portato alla scomparsa di molte piccole

21 Cfr. M. SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 47. 22 Nettamente superiori le percentuali relative ai paesi dell’Europa Orientale; in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia la popolazione ebraica rappresentava infatti rispettivamente il 5,10%, il 2,40% e il 9,70% del totale. 23 Si trattava di Roma, Milano, Trieste, Torino, Venezia, Genova, Firenze, Livorno, Bologna.

38 Ilaria Pavan

storiche comunità della provincia a favore di grandi accentramenti nei maggiori centri urbani del paese 24. Si trattava di un fenomeno che, cominciato subito dopo l’Unità, aveva assunto evidenza sempre maggiore nei primi trent’anni del Novecento, collegandosi con molta probabilità alle scelte e ai percorsi socio-professionali compiuti dagli ebrei all’interno di un’economia sempre più orientata in senso capitalistico. Il caratteristico inurbamento della popolazione ebraica e la peculiare predilezione per la grande città rappresentavano del resto un modello comune a tutto l’ebraismo europeo postemancipazione; anche in Germania, infatti, alla vigilia del secondo conflitto l’82,30% degli israeliti viveva in città con più di 100.000 abitanti e almeno un terzo di loro si concentrava nella sola Berlino 25, per non dire delle percentuali ancora più elevate che si registravano a Vienna o a Budapest 26. Si è spesso sostenuto che l’attrazione esercitata dalla grande città sulla componente ebraica non rispondesse soltanto all’esigenza di sfruttare le migliori opportunità professionali, culturali ed educative che i grandi centri erano in grado di offrire, ma celasse anche un inespresso – e forse inconscio – desiderio di anonimato, di protezione, di sicurezza che quegli stessi centri urbani avrebbero saputo garantire nel caso di nuove manifestazioni di antisemitismo.

Quanto agli orientamenti occupazionali, confermando in gran parte i dati emersi dal censimento generale del 1931, anche la rilevazione del 1938 ribadiva chiaramente la forte ‘vocazione commerciale’ della comunità ebraica italiana; era impiegato in quest’ambito il 43,30% dei soggetti censiti 27, a

24 Cfr. R. BACHI, Le migrazioni interne degli ebrei dopo l’emancipazione, in «RMI», 12, n. 10-12 (luglio-settembre 1938), pp. 332-34. 25 Cfr. U.O. SCHMELZ, Die demographische Entwicklung der Juden in Deutschland von der Mitte der 19. Jahrhunderts bis 1933, in «Zeitschrift für Bevölkerungswissenschaft», 8 (1982), n. 1, pp. 31-72. 26 Nel corso degli anni Venti si concentravano a Vienna e Budapest rispettivamente il 91% e il 45% della popolazione ebraica complessiva. Cfr. Y. DON, Patterns of Jewish Economic Behaviour in Central Europe in the Twentieth Century, in M.K. SILBER, Jews in the Hungarian Economy 1760-1945, Hebrew University, Jerusalem, 1992. 27 Questa percentuale, come quelle che seguono, sono state calcolate sulla base della popolazione discendente da almeno un genitore ebreo o ex ebreo, di cittadinanza italiana e di età superiore ai dieci anni, popolazione che, secondo il censimento del 1938, ammontava a 17.117 unità. Le percentuali così calcolate tengono conto, oltre che del numero dei proprietari, anche di quello dei dirigenti, dei salariati, degli impiegati e degli operai attivi in ogni singolo settore. Cfr. M. SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 47.

Un ‘feudo immaginario’ 39

fronte dell’8,20% del dato nazionale complessivo. In particolare, il 54,80% degli ebrei dediti al commercio gestiva esercizi di vendita al dettaglio, il 26,10% era costituito da semplici ambulanti, mentre il 19,10% era impegnato nel commercio all’ingrosso. Molto distanti tra di loro anche le cifre relative al settore agricolo, che vedeva impegnato ancora il 47,70% della popolazione italiana 28, a fronte di una percentuale di ebrei che raggiungeva appena l’1,50% 29. Fuori dal contesto commerciale ed agricolo, l’11,60% della popolazione ebraica trovava occupazione nel pubblico impiego dove operava invece il 4,40% degli italiani nel loro insieme; il 9,40% dei censiti dichiarava di appartenere al mondo delle libere professioni, a fronte dello 0,80% nazionale, mentre il 5,90% degli ebrei era impiegato nel settore del credito e delle assicurazioni contro una media italiana dello 0,60%. Nel complesso, dunque, va rilevata la presenza prevalente di un ceto borghese, spesso piccolo borghese, che almeno in parte poteva essere incluso all’interno di aree di povertà, o per lo meno vicine alla povertà, come confermano anche i dati relativi a singole comunità cittadine. Facendo infatti sempre riferimento agli esiti del censimento dell’agosto del 1938, relativamente ad alcune tra le più significative comunità della penisola come Venezia, Trieste, Firenze, si confermavano, e spesso si accentuavano, le percentuali relative al piccolo commercio o al lavoro dipendente. A Venezia, ad esempio, il 40% della popolazione ebraica era infatti costituito da salariati, operai e impiegati, mentre un 28% era rappresentato da artigiani, ambulanti e negozianti vari. Così a Firenze il 22,70% dei commercianti cittadini era costituito da ambulanti e il 28,80% aveva un impiego statale 30. Non dissimile il dato relativo a Trieste, dove il 20% della locale comunità era costituito da semplici operai, venditori ambulanti e artigiani 31 .

28 Dato rilevato sulla base dell’VIII censimento generale della popolazione italiana del 1936. 29 Ancora più significativo è il fatto che solo il 10,70% degli ebrei impegnati nel settore agricolo si qualificava come operaio o salariato; la cospicua quota restante comprendeva infatti proprietari o dirigenti. 30 Cfr. S. LEVI SULLAM, Una comunità immaginata. Gli ebrei a Venezia (1900-1938), Unicopli, Milano, 2001, pp. 60-61; F. CAVAROCCHI, Il censimento del 1938 a Firenze, in E. COLLOTTI (a cura di), Razza e fascismo. La persecuzione degli ebrei in Toscana, Carocci, Roma, 1999, p. 545. 31 Cfr. S. BON, Gli ebrei a Trieste, cit., p. 72. L’estrazione sociale non elevata della maggior parte della comunità triestina trova ulteriore conferma nei dati relativi all’inizio del secolo: nel 1903, sugli oltre 5.000 iscritti alla locale Comunità, solo un decimo era

40 Ilaria Pavan

Concentrando invece la nostra attenzione sui livelli più alti del quadro socio-economico ebraico italiano e considerando nel loro insieme i vari settori – agricolo, industriale, commerciale, dei trasporti, delle assicurazioni e del credito – rileviamo che il censimento del 1938 stimò la presenza di 5.782 «padroni» 32 di aziende e di 466 «dirigenti» 33. I dati disaggregati per ogni singolo settore evidenziano ulteriormente alcuni elementi già in parte emersi: nel settore agricolo, per esempio, a fronte di una scarsa presenza ebraica complessiva, notiamo che ben l’86,50% dei soggetti impegnati nel settore (218 persone) risultano proprietari della terra; elevatissima è anche la percentuale di proprietari nel commercio, con 4.785 titolari che corrispondono all’82,80%; seguono, tra «padroni» e «dirigenti», 662 soggetti attivi nel settore dell’industria (l’11,50%), 85 in quello dei trasporti (l’1,50%) e infine 32 nelle assicurazioni e nel credito (lo 0,50%). Entrando poi nel dettaglio del solo settore industriale, si rileva che la maggioranza dei 662 ebrei censiti, il 38,30%, era impiegata nel ramo tessile; il 20,70% nel campo dell’industria cartaria e poligrafica, il 15,20% nel settore metallurgico-meccanico, il 14,60% nell’industria chimica e l’11,20%, infine, nel ramo edile.

Nonostante la differente consistenza numerica tra la comunità ebraica italiana e quelle del resto d’Europa, i dati dei censimenti evidenziano sostanziali affinità nelle tendenze e nei comportamenti socio-professionali collettivi della minoranza, a partire dalla scarsa o nulla presenza nel settore agricolo; anche in Austria, in Germania e in varie comunità dell’Europa Orientale la percentuale di ebrei occupati nell’agricoltura era infatti molto limitata, oscillando tra lo 0,50% dell’Austria e il 6% della Lituania 34, men-

costituito da coloro che appartenevano al corpo dei contribuenti e tra essi si distinguevano soltanto 40 «maggiori contribuenti». Cfr. A. MILLO, L’élite del potere a Trieste. Una biografia collettiva 1891-1938, Franco Angeli, Milano, 1989, p. 58. Segnaliamo comunque che nel panorama certamente non ampio dedicato alla storia socio-economica degli ebrei d’Italia in epoca contemporanea va sottolineata l’assenza completa di ricerche dedicate alle fasce sociali più povere. 32 Questa la voce adottata nelle schede del censimento. Cfr. ACS, MI, Demorazza 193843, b. 22. 33 Ibidem. 34 Cfr. Y. DON, Patterns of Jewish Economic Behaviour, cit., p. 254. Una più consistente percentuale di ebrei occupati nel settore agricolo si registrava in Polonia, il 9,60%, e in Slovacchia, il 10,70%; si trattava comunque di percentuali sempre piuttosto distanti dal dato relativo alla popolazione complessiva che era impegnata nel settore agricolo dei due paesi, che registrava percentuali rispettivamente del 54% e del 29%.

Un ‘feudo immaginario’ 41

tre nel corso dei primi trent’anni del secolo, il commercio rappresentava anche tra gli ebrei tedeschi il settore in cui era impegnato più del 60% della comunità, che gestiva in larga maggioranza piccoli o medi esercizi di vendita al dettaglio 35; analoghe percentuali si registravano in Austria, Ungheria e Cecoslovacchia 36. Non molto diverso il discorso relativo al settore industriale: anche in questo caso i dati percentuali riferiti agli ebrei italiani non si discostano in modo significativo da quelli registrati in altre comunità europee 37. Un ulteriore elemento di analogia era rappresentato dalla generale predilezione per il lavoro autonomo, che anche in Italia attirava in effetti la maggioranza della forza lavoro ebraica, il 52,70%, analogamente a quanto accadeva nel resto d’Europa 38. Il prevalente impegno nell’ambito del lavoro indipendente – e al suo interno soprattutto nel mondo del commercio al dettaglio – non può essere unicamente interpretato come il risultato di tradizioni secolari e della ‘naturale propensione’ ebraica per determinate professioni; occorre infatti fare anche riferimento alle condizioni generali del paese ospite, alle opportunità che offriva, ma anche ai limiti e agli ostacoli che opponeva alla mobilità sociale ed economica della minoranza. Così, la scelta di svolgere un’attività autonoma, da parte di una tanto elevata percentuale del mondo borghese o piccolo borghese ebraico, può anche essere letta come desiderio di minimizzare la dipendenza dal settore pubblico e dalle attività economiche ad esso connesse, scelta che poteva essere motivata sia da un certo senso di isolamento che forse gli ebrei continuavano a percepire, sia dal timore che il ruolo di outsider avrebbe fatto loro scontare in partenza l’estraneità a reti di relazioni già consolidate. O-

35 Cfr. A. BARKAI, From Boycott to Annihilation, cit., p. 3. 36 Nel corso degli anni Trenta, in Austria, Ungheria e Cecoslovacchia lavoravano nel settore del commercio il 38%, il 45% e il 57% della popolazione ebraica complessiva. Cfr. Y. DON, Patterns of Jewish Economic Behaviour in Central Europe in the Twentieth Century, cit., p. 257. 37 Nel corso degli anni Trenta, in Europa, la quota di ebrei attivi nel settore industriale variava dal 23% della Germania al 34% dell’Ungheria. Non dissimili neppure le quote che si registravano in Canada, il 33%, o negli Stati Uniti, il 28%. 38 In Germania la percentuale di lavoratori autonomi tra gli ebrei era infatti del 46% in confronto al dato nazionale che era del 16,40%; anche in Ungheria la divaricazione tra il numero degli ebrei e dei non ebrei attivi nell’ambito del lavoro indipendente era significativa: il 40% a fronte del 25%. Cfr. G. RANKI, The Occupational Structure of Hungarian Jews in the Interwar Period, in M.K. SILBER, Jews in the Hungarian Economy 1769-1945, cit., p. 278.

This article is from: