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Gli incerti percorsi della reintegrazione. Note sugli
Introduzione 3
mondiale è importante anche per capire se un certo linguaggio, ovvero quell’insieme di codici retorici e di categorie identitarie introdotte dal fascismo riguardo alla ‘questione ebraica’, sia stato metabolizzato dalla società italiana nel suo complesso e si possa ancora ritrovare nel secondo dopoguerra. Non bisogna infine dimenticare che la normativa antisemita introdotta dal regime nel biennio 1938-39, anche se non prevedeva esplicitamente l’eliminazione fisica dei perseguitati – almeno sino all’autunno 1943 – era comunque «fortemente tesa a conseguire un abbassamento del livello medio di vita e delle caratteristiche socio-culturali degli italiani ebrei» 4, soprattutto in campi come quello dell’istruzione e delle attività economico-professionali. Ed un tale obiettivo presumeva che si guardasse «a tempi lunghi, che si facesse riferimento ad un lento ‘sgretolarsi’ delle caratteristiche intrinseche al gruppo oggetto delle politiche razziali in un tempo non valutabile in anni, bensì in ‘generazioni’» 5. Si tratta dunque di dinamiche, di effetti che forse possono apparire meno evidenti nell’immediato, ma che diventano molto più significativi se colti e analizzati in tempi medio-lunghi.
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Anche in Italia si è assistito negli ultimi anni alla comparsa di un numero consistente di nuovi studi sul tema della persecuzione razzista che hanno favorito il rovesciamento di tesi storiografiche a lungo condivise 6, in gran parte riconducibili al cosiddetto «mito del bravo italiano» 7, all’idea che la per-
4 Cfr. D. BIDUSSA, Razzismo e antisemitismo. Ontologia e fenomenologia del «bravo italiano», in «Rassegna Mensile di Israel», (da qui in avanti «RMI»), 59 (1992), n. 3, pp. 26-27; IDEM, I caratteri propri dell’antisemitismo italiano, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza, Grafis, Bologna, 1994, pp. 113-124. 5 Ididem, p. 118. I traumi e le conseguenze di medio-lungo periodo prodotti dalla campagna antisemita furono nel dopoguerra estremamente evidenti anche per ciò che riguarda la struttura demografica della popolazione ebraica italiana: nel 1965, ad esempio, la differenza percentuale tra il numero totale di ebrei previsto dalle proiezioni dei demografi in assenza delle persecuzioni e il loro numero effettivo era del 41% in meno. Era soprattutto nel gruppo di persone che nel 1965 avevano dai 30 ai 50 anni –le giovani generazioni che avevano subito la persecuzione – che la differenza negativa rispetto alle aspettative era più marcata, sfiorando il 50%. Tutto questo ebbe naturalmente ovvie ripercussioni anche sul quadro economico e sociale dell’ebraismo italiano postbellico. Cfr. S. DELLA PERGOLA, Appunti sulla demografia della persecuzione antiebraica in Italia, in «RMI», 47 (1981), n. 3, p. 136. 6 Mi riferisco a studi ormai classici: R. DE FELICE, Storia degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1996, prima edizione 1961, e M. MICHAELIS, Mussolini e la questione ebraica, Edizioni di Comunità, Milano, 1982. 7 Cfr. D. BIDUSSA, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano, 1994.