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I social: nuovo modo di comunicare o di esserci? I rischi e le condotte

Stefania Pierazzi

1. Introduzione. Ma che cosa è un social network?

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I soggetti che popolano i social sono gli appartenenti alla cittadinanza digitale, coloro cioè che sono detentori di diritti e di doveri nella realtà digitale, perché anche se di virtualità stiamo parlando, i soggetti che vi interagiscono sono tenuti ad osservare non solo le regole della buona educazione (la così detta netiquette), ma anche le norme di diritto positivo.

È vero che si tratta di un mondo senza conini territoriali, al quale è possibile accedere in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo, che non è dotato per sua stessa natura di un sistema centralizzato, ma è vero anche che si tratta di uno spazio sociale, politico ed economico.

Ma che cosa è un social network?

Non è altro che la trasposizione in uno spazio virtuale di ciò che si intende per gruppo sociale: un insieme di persone unite tra di loro da una qualche relazione che condividono interessi ed hanno intenzione di collaborare.

E, affrontando il tema dei social network, non si può non parlare di privacy intesa secondo quando stabilito dalla normativa vigente1: diritto alla riservatezza delle informazioni personali e della propria vita privata, diritto cioè alla non intromissione nella sfera privata e, soprattutto, facoltà di impedire che le informazioni siano divulgate senza autorizzazione.

1 D.lgs 30 giugno 2003, n.196.

Premesso che il concetto di privacy è in continua evoluzione e destinato a mutare con il mutare della cultura, delle esperienze e dell’età dei singoli, è l’avvento della tecnologia, sempre più pervasiva, che ha accelerato la sua attuale conigurazione: basti pensare a come venga vissuta la presenza delle telecamere oggi, simbolo di necessaria sicurezza, rispetto a poco tempo fa, quando erano uno strumento fastidioso e soggetto a difidenza.

2. Rapporto tra privacy e social

E in che rapporto stanno privacy e social?

O meglio: come è possibile parlare di privacy se, aprendo un proilo su un social, già da contratto, diamo piena disponibilità al social stesso di tutto ciò che postiamo, siano foto, video o semplici like?

Il social attiva il proilo solo a condizione che si accettino le clausole che esso, in qualità di società privata, impone con un vero e proprio contratto di diritto privato.

E, a queste condizioni, è dificile invocare la violazione del libero consenso, o il trattamento illecito per poi ottenere il risarcimento del danno da parte del social stesso.

Tanto più che l’apertura di un proilo, per esempio su Facebook, implica l’immediata indicizzazione nei motori di ricerca e l’attribuzione di un valore commerciale dello stesso, che può essere di poco più di un dollaro o di qualche decina.

Diverso il caso in cui la violazione della privacy avvenga da parte di un soggetto che operi per mezzo di un social: il Tribunale di Monza, Sezione Quarta Civile, con la sentenza n. 770 del 2 marzo 2010, la prima in Italia, ha concesso il risarcimento del danno morale, inteso come «transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima» del fatto illecito ovvero come insieme delle sofferenze inlitte alla parte danneggiata dall’evento dannoso, da parte di colui che ha leso la reputazione per mezzo del social network, in questo caso Facebook.

Vale la pena, comunque, ricordare che tutte le volte che navighiamo in rete veniamo monitorati e analizzati. Navigando possiamo lasciare informazioni che ci riguardano molto importanti, dal tipo browser utilizzato al sistema operativo installato piuttosto che le pagine web visitate. Quindi, parlare di anonimato in rete, altro non è che una presunzione, anche quando vengano utilizzati software inalizzati a camuffare o a mascherare l’IP di connessione, visto che è comunque possibile veriicare l’identità dell’internauta attraverso, per esempio, l’OSINT (Open Source Intelligence), ovvero le informazioni open source che il web mette a disposizione.

Nel mondo social vale, piuttosto, la concezione della privacy intesa come strumento di comunicazione e tutela della riservatezza inalizzata a comunicare e non ad isolare, a condizione, però, che l’utente sia “educato” alla rete, nel senso di divenire consapevole di ciò che signiichi essere cittadino digitale.

Il cittadino digitale vive i social come luogo aperto al pubblico2 , piazza virtuale dove, reciprocamente, tutti gli appartenenti a questa tribù possono vedere e partecipare alle pubblicazioni altrui. La natura stessa del social favorisce la comunicazione tra i suoi membri: anche il più pigro può rappresentarsi con una foto o un like, poche parole, talvolta nessuna!

3. Social: comunicazione o rappresentazione?

Ma è comunicazione o rappresentazione?

Sicuramente è una vetrina dove piace mostrarsi per ciò che gli altri si aspettano che uno sia, poco importa di quale “io” venga data la rappresentazione, in un eterno presente con una distorta percezione del tempo passato/presente/futuro.

È il mondo dell’io adesso che si mostra, che, anzi, si rappresenta al popolo social.

Anche il linguaggio è mutato: sintetizzato ino all’eccesso, con abbreviazioni che rendono facilmente individuabile il non-utilizzatore di social, punteggiatura praticamente assente (il punto e virgola questo sconosciuto!), apprezzamenti indiscriminati e giudizi che non consentono rettiiche, perché tutto ciò che viene postato è subito metabolizzato dalla rete e mai più restituito.

2 La sentenza n. 37596/2014 della Corte di Cassazione, pronunciandosi in ordine ad una vicenda integrante il reato di molestia realizzato tramite social network, ha deinito quest’ultimo «luogo virtuale aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete di un social o community».

La ferma convinzione di essere padroni dei contenuti multimediali condivisi mal si concilia con il proliferare di proili falsi, di fake, con l’anonimato (un nickname non impedisce di individuare il reale utilizzatore del proilo!) e, soprattutto, con la non punibilità per aver commesso dei reati.

Fenomeno quest’ultimo sottovalutato, che rende l’utente poco propenso a denunciare di aver subito un danno o di essere vittima di reato per una serie di ragioni che vanno dal ritenere poco grave o risolvibile per altra via il “problema”, al timore di una pubblicità negativa piuttosto che nel non rendersi conto di essere vittima di un reato.

Ma i social sono diventati l’ambiente perfetto dove poter commettere reati, siano essi strettamente legati a ciò che li caratterizza, cioè la comunicazione, o utilizzati strumentalmente per il compimento di azioni delittuose.

4. Rischi e potenzialità dei social

Tra le fattispecie di natura penale ad essere più frequentemente violate vi è la diffamazione, che altro non è che l’offesa all’altrui reputazione veicolata in assenza dell’offeso e con comunicazioni indirizzate a più persone.

In pratica, parlando di social, questa si concretizza pubblicando contenuti denigratori ed infamanti, “battute pesanti”, epiteti, notizie riservate la cui diffusione sia pregiudizievole per la persona offesa, anche indipendentemente dalla indicazione nominativa3, nonché con la pubblicazione di fotograie ritraenti la vittima che comporti ripercussioni potenzialmente negative per la sua reputazione o con l’apposizione di un like ad un post diffamatorio che può addirittura integrare il reato in concorso con l’autore del suo contenuto.

Vale la pena ricordare, però, che la mera condivisione di post offensivi, ancorché corredata da commenti purché privi di insulti, non conigura il reato di diffamazione4 .

Parimenti frequente è il reato di sostituzione di persona che si concretizza allorquando venga creato e utilizzato un determinato proilo di un social network, inserendo i dati di un terzo ignaro5 per trarne un vantaggio personale e un danno al titolare dei dati utilizzati.

3 Cass., sez. I pen., 24 marzo 2014, n. 13604.

4 Cass., sez. V pen., 29 gennaio 2016, n. 3981.

In concreto: l’attribuzione a sé o ad altri di un falso nome, laddove per nome si intende uno qualsiasi dei contrassegni di identità, come il prenome, il luogo di nascita, la paternità’ l’attribuzione di un falso stato, cioè la condizione complessiva della persona nella società, comprendente la cittadinanza, la capacità di agire, la potestà familiare, la condizione di coniugato, i rapporti di parentela; l’attribuzione di una qualità cui la legge collega effetti giuridici, come nel caso di chi dichiari di aver raggiunto la maggiore età, purché la qualità in questione sia essenziale per la realizzazione dell’atto giuridico.

Ma tramite un social è possibile anche inviare materiale pubblicitario non autorizzato (spamming), utilizzare dei contatti per inviare virus informatici o per acquisire abusivamente codici di accesso per violare sistemi informatici, inoltrare messaggi di propaganda politica, di incitamento all’odio e alla discriminazione razziale, oltre che scambio di immagini pedopornograiche.

Integra, inoltre, il reato di molestia o disturbo alla persona quello attuato mediante l’invio di messaggi, sotto pseudonimo, tramite Internet sulla pagina Facebook della vittima, trattandosi di una community aperta accessibile a chiunque.

Secondo la Suprema Corte, nel caso speciico, i messaggi inviati tramite Facebook possono anche integrare il reato di stalking.

La previsione di questo reato assume una particolare delicatezza anche alla luce dell’attuale era tecnologica. Difatti, i temuti atti persecutori possono essere realizzati non solo con il telefono o lettere anonime, ma utilizzando le nuove tecnologie e quindi tramite i social network, per posta elettronica, con la messaggistica istantanea e strumenti afini.

Purtroppo gli strumenti del web 2.0, proprio perché dotati di una maggiore interattività che consente uno scambio di informazioni più dinamico tra gli utenti, nascondono delle insidie che possono essere sfruttate da malintenzionati ai danni di vittime del tutto inconsapevoli.

L’utilizzo dei social si è rivelato anche particolarmente utile al ine di sviluppare un’azione o una strategia terroristica.

Si tratta del cyber terrorismo, che per alcuni esperti di sicurezza consiste in operazioni condotte sul web e motivate politicamente con lo scopo di provocare gravi conseguenze come la perdita di vite umane o consistenti danni economici o, comunque, per terrorizzare. Per altri si manifesta con gli attacchi o le minacce di attacchi contro computer, reti e informazioni ivi archiviate, con lo scopo di intimidire o costringere un governo o la sua popolazione a determinati comportamenti al ine di conseguire effetti politici o sociali. Altri ancora lo deiniscono come l’insieme di atti che bloccano o distruggono nodi computerizzati delle infrastrutture critiche come Internet, le telecomunicazioni, le reti elettriche, il sistema bancario e così via. Senza ombra di dubbio, l’ambiente social è un’ottima vetrina di propaganda o di reclutamento di soggetti che per aspetti di carattere psicologico, sociale, politico, ideologico-religioso e culturale nonché per meccanismi che investono dinamiche di gruppo – siano quindi essi foreign ighters, homegrown terrorists, lone wolves – attraverso la comunicazione persuasiva del 2.0, riescono ad incanalare energie latenti.

5. I social e i minori

In questa carrellata di rischi e potenzialità date dai social, non restano esclusi i minori nativi digitali, per i quali la rapida ed esponenziale diffusione delle Tecnologie di Informazione e Comunicazione (ICT) ha comportato un profondo mutamento delle modalità con cui costruiscono le relazioni sociali, ricercano e diffondono le informazioni e i saperi nonché i processi che contribuiscono alla crescita ed evoluzione dell’identità di ciascuno.

Infatti, Internet e i social media offrono ai giovani nativi digitali un contesto potente per imparare, per esplorare e costruire la loro identità e vita pubblica, e per socializzare interagendo con i pari e sviluppando relazioni attraverso i siti di social network, chat, blog e giochi online. Internet e i social media sono degli strumenti e dei contesti per migliorare conoscenze e abilità, ma espongono anche al rischio di coinvolgimenti in relazioni violente e interazioni aggressive.

Accanto ai potenziali effetti positivi della Comunicazione Mediata, c’è grande preoccupazione circa i rischi associati alle nuove forme di comunicazione online, ai siti di social network, ai contatti anonimi, ai predatori online e al sexting, ossia l’invio messaggi sessualmente espliciti.

Statisticamente è stato calcolato che, negli ultimi cinque anni, il 75% dei reati commessi tramite un social sono riconducibili a minori degli anni diciotto, sia come vittime che come autori di reato.

Afiorano nuovi fattori criminogeni, incentivati dall’uso dei social network, che ruotano essenzialmente intorno all’aspetto documentale (evoluzione della real-tv) che, a sua volta, diviene un forte e potente stimolo di emulazione. Si pensi all’informazione trasmessa in rete preceduta dalla progettazione, in gruppo o da soli, di una condotta criminale da ilmare e documentare. In tale ottica, sia nell’infanzia, sia in adolescenza che nell’età adulta (un esempio sono i crimini terroristici), vanno prendendo forma sempre più una serie di condotte criminali progettate solo per essere documentate con videoriprese, immagini e suoni, che hanno una loro vitalità autonoma nel momento in cui sono condivise e scaricate in rete.

Gli eventi criminali sono stati in passato sempre immaginati a posteriori nella loro programmazione e nella loro esecuzione da chi si sentiva, in un certo qual modo, attratto. Il soggetto, potenzialmente emulatore, in passato, immaginava la condotta del suo precursore, immettendo nella propria immaginazione novità che appartenevano più a se stesso che non alla personalità del criminale da emulare. Da qui ne discendeva una ridotta potenzialità di effettiva emulazione.

Attualmente, i ilmati delle condotte criminali distribuite in rete hanno una maggiore capacità evocativa. Il soggetto-emulatore ripete la condotta così come l’ha vista eseguire nel video, per poter sentire le stesse emozioni e per poterle provocare sugli altri.

L’evento criminale è ridimensionato in una condotta che, ripetuta all’ininito (visione del ilmato e vissuti emotivi derivati), si svincola dai condizionamenti spazio/temporali. Tale condotta non ha un passato, né può ipotizzare un futuro, ma può solo vivere e muoversi nei frammenti del presente.

Il crimine acquisisce la caratteristica di essere agito fuori dal tempo e fuori dallo spazio, perché la sua vera vitalità è solo e unicamente in un contesto virtuale, adimensionale: il web.

Mobile commerce: regole e modelli per

Merchant Italiani

Angela Busacca

1. Sviluppo e diffusione del mobile commerce

I dati emergenti dalle analisi statistiche del mercato online testimoniano come, a fronte di una generale crisi del settore commerciale, le transazioni concluse tramite web registrino costantemente un incremento, con percentuali che siorano, per 2015, il 19%, generando un volume di affari di circa 29 miliardi di euro. Si tratta di un dato indubbiamente importante che segna una ripresa dopo un biennio di assestamento su percentuali decisamente più basse (nel 2013 l’incremento era stato del 6% e nel 2014 dell’8%), e che, se scomposto, indica, come fattori trainanti di questa ripresa, lo sviluppo dei c.d. centri commerciali online (primo fra tutti Amazon) e del mobile commerce, cioè dell’insieme di transazione poste in essere attraverso dispositivi quali smartphone, tablet, laptop o smartwatch. Sul portato della sempre più pervasiva diffusione del c.d. mobile computing, infatti, il canale di vendita attraverso dispositivi mobili assume un rinnovato valore che lo pone tra le priorità delle imprese che operano online: la facilità di accesso, la possibilità di concludere gli acquisti anche in movimento, in qualsiasi luogo ed in qualsiasi condizione di mobilità determinano una nuova modalità di concepire il commercio elettronico; ed il protagonista di questo mercato online è un cyberconsumatore che non è più l’utente rilessivo degli “scambi senza accordo”, che utilizzava Internet per acquisire le informazioni sul prodotto/servizio da acquistare e ponderava la scelta potendo visi- tare più siti comodamente seduto davanti al proprio pc, ma piuttosto un consumatore dinamico, che ricerca nella facilità dello scambio e nel vantaggio delle offerte, le chiavi del proprio acquisto. Per contro, gli operatori commerciali online, sempre più proiettati nell’ottica del “modern travelling merchant”, cercano di porre in essere strategie basate su forme di direct marketing che permettano di individualizzare le offerte e rispondere, in modo quanto più personalizzato, alle esigenze dei consumatori; al contempo attuano politiche di prezzi ed offerte tese alla idelizzazione, ed utilizzano anche nuovi canali, primo fra tutti quello dei social network, per sperimentare innovative forme di veicolazione dei messaggi e delle campagne promozionali. Analizzando i trend degli ultimi anni, balza subito all’occhio la “golden share” del mobile commerce, che ha registrato, nel 2012, un incremento pari a +54%, e che, in prospettiva futura sembra destinato a superare, per volume d’affari, le più tradizionali modalità e-commerce.

Queste considerazioni hanno determinato, per gran parte degli operatori commerciali, l’adozione di strategie indicate come “mobile irst”, che evidenziano una concentrazione di investimenti, in termini di miglioramento tecnologico e di promozione, presso il pubblico dei consumatori, dei canali di vendita tramite dispositivi mobili. Accanto agli e-shop ed agli e-marketplace, già oggetto di studio da parte della dottrina tanto economica quanto giuridica, si sviluppano infatti sia modalità di social commerce (utilizzando cioè i servizi di social networking, sia per la veicolazione dell’informazione pubblicitaria che per la creazione di vere e proprie community di utenti/consumatori), che modalità di vendita attraverso software applicativo installato sul dispositivo (mobile application): si tratta, in entrambi i casi, di canali che valorizzano il proilo della user experience e che propongono modalità estremamente sempliicate per la conclusione degli acquisti.

Se, dunque, le parole chiave del mobile commerce, possono individuarsi in facilità (di accesso), semplicità (di utilizzo) e celerità (di conclusione della vendita), appare opportuno evidenziare come tutto ciò non debba tradursi in un abbassamento del livello di afidabilità e tutela che deve essere (sempre) garantito ai consumatori; occorre allora interrogarsi su quale sia la disciplina applicabile ai contratti B2C conclusi tramite dispositivo mobile, per valutare se sia suficiente la piena applicazione della normativa dettata in tema di e-commerce (come risultante dalla Direttiva 200/31/CE e dalla Diret- tiva 2011/83/UE), oppure se debba auspicarsi un qualche (ulteriore) intervento normativo per colmare le lacune dovute alla speciicità del mezzo o del canale di comunicazione utilizzato; in particolare, nel prosieguo dell’esposizione, nel rispetto dei limiti imposti al presente contributo, si cercherà di proporre alcune considerazioni in ordine a due dei fenomeni precedentemente citati: il social commerce e l’utilizzo di mobile application.

2. Dall’e-commerce alla ricerca di regole per il social commerce

Nell’ambito delle tradizionali classiicazioni dell’e-commerce, il settore del B2C ha sempre costituito il polo di attrazione degli interventi normativi, indirizzati a garantire il cyber-consumatore dai rischi di una contrattazione dematerializzata: in questo senso devono leggersi le (poche) norme della Direttiva 2000/31/CE e le disposizioni della Direttiva 2011/83/UE che, per la prima volta, prendono in considerazione la circolazione dei contenuti digitali, i caratteri e gli elementi dei siti di e-commerce e, seppur incidentalmente, le caratteristiche tecniche dei dispositivi mobili; in relazione a quest’ultimo punto, bisogna infatti sottolineare che, nonostante la diffusione del fenomeno fosse già in atto, l’unica considerazione che la Direttiva 2011/83/ UE riserva al mobile commerce riguarda l’indicazione, per i fornitori, di parametrare la modalità di adempimento dell’obbligo informativo nei confronti del consumatore alla grandezza ed alle caratteristiche tecniche dello schermo dei dispositivi mobili: difatti, poiché tali informazioni costituiscono contenuto obbligatorio del contratto e sono poste a tutela della “parte debole”, le (eventuali) ridotte capacità di visualizzazione non potrebbero essere invocate come esimente dal corretto adempimento dell’obbligo in questione.

A parte queste considerazioni, tuttavia, nessuna previsione viene rivolta a modalità e-commerce diverse dall’e-shop: neanche la struttura complessa dell’e-marketplace viene presa in considerazione, nonostante tutte le implicazioni in termini di responsabilità e tutela per gli acquirenti già emerse dalle rilessioni della dottrina.

Tuttavia, se con riferimento a tali fenomeni non sembrano porsi dubbi circa l’applicabilità delle disposizioni della normativa consumeristica di settore, dal momento che la conclusione del contratto da sito-vetrina (e-shop) o da e-marketplace non sembra possa risentire delle diverse caratteristiche del dispositivo utilizzato (e rinviando ad altra sede le problematiche relative agli acquisti extra-UE), più problematico appare l’inquadramento del fenomeno del social commerce. L’espressione viene comunemente indicata per l’insieme delle strategie e-commerce attuate tramite sistemi di social networking, primo fra tutti Facebook (www.facebook.com/business/a/retail-ecommerce-industry): si tratta di un insieme eterogeneo, che compendia sia semplici ipotesi di veicolazione di contenuti promozionali, che rimandano poi alla pagina web dell’e-shop, sia fenomeni di couponing (cioè offerte di coupon che permettono di acquistare beni e servizi a prezzo scontato), che vere e proprie pagine social-shop che permettono di concludere un contratto di acquisto. In relazione alla prima ipotesi, il proilo problematico potrebbe appuntarsi sulla relazione funzionale tra pagina social e “sito-vetrina”, per veriicare in che termini le informazioni contenute nella pagina debbano conformarsi alle disposizioni relative agli obblighi informativi (precontrattuali) e quando essi possano integrare delle pratiche commerciali scorrette; sulla seconda e sulla terza ipotesi, il primo proilo problematico concerne l’individuazione del ruolo del gestore del social network, che non svolge direttamente attività commerciale, ma si limita a mettere a disposizione l’ambiente social: potrebbe, allora, ipotizzarsi una posizione simile a quella del gestore della piattaforma e-marketplace, posto che in caso di mancato adempimento o di una qualsiasi forma di patologia del contratto, il consumatore dovrebbe rivolgersi unicamente alla controparte del contratto, potendo, al più, inviare al gestore del social, una segnalazione, chiedendo la sospensione o l’oscuramento della pagina.

Ulteriore questione attiene poi alla tutela dei dati e dei contenuti veicolati attraverso la pagina social del consumatore: con la stipula del contratto per l’utilizzo del social network, infatti, l’utente accetta una serie di clausole che vincolano i contenuti immessi; tuttavia tale contratto (si consideri a titolo esempliicativo quello per l’utilizzo di Facebook), non contempla espressamente inalità commerciali, ponendo quindi il dubbio circa l’estensione e la validità del consenso alle attività di trattamento dei dati personali, soprattutto in riferimento alla proilazione ed alla possibilità, attraverso il meccanismo dei collegamenti tra le pagine personali degli utenti, di una diffusione incontrollata di dati ed informazioni personali.

3. Le mobile app

Una diversa declinazione del mobile commerce è data dalla conclusione dei contratti di vendita tramite utilizzo di un software applicativo presente sul dispositivo; la diffusione dei dispositivi mobili ha, infatti, determinato lo sviluppo del mercato di quei particolari software applicativi espressamente strutturati per i device e vengono indicati come “mobile application” o, con espressione ormai entrata nel lessico quotidiano, “app”.

Si tratta di programmi per elaboratore realizzati per essere eseguiti sui principali sistemi operativi dei dispositivi mobili (tra i quali ANDROID, che risulta essere il più diffuso, WINDOWS, IOS, Blackberry OS) attraverso una interfaccia graica ed una modalità touchscreen.

Per i proili di rilevanza ai ini delle presenti considerazioni, appare opportuno evidenziare come le mobile application costituiscono indubbiamente un bene giuridico immateriale e, come tale, possano essere considerate come oggetto giuridico e speciicatamente come oggetto del contratto (per l’elaborazione, lo sviluppo, la implementazione, la protezione delle applicazioni); al contempo, tuttavia, esse costituiscono un canale di comunicazione per la conclusione di contratti e transazioni (elettroniche): questa seconda accezione non soltanto risponde ad una diversa ratio ma richiede un differente inquadramento nella dinamica della vicenda contrattuale, ponendosi come piattaforma distributiva accanto ai tradizionali e-shop ed e-marketplace. Su queste considerazioni sarà possibile parlare di un mercato “delle” mobile application e di mobile application “per” il mercato.

Come beni giuridici immateriali, le app, ricondotte nella più ampia categoria dei software applicativi, ricadono nell’ambito di operatività della normativa sulla tutela del software (in particolare la Direttiva 2009/24/CE), pur presentando alcune peculiarità, che possono determinare una diversa modulazione degli strumenti di tutela a seconda della tipologia considerata. Trattandosi di un settore in continua, incessante evoluzione, una classiicazione esaustiva appare di dificile proposizione ed esulerebbe dall’ambito e dagli spazi a disposizione delle presenti considerazioni; possono, allora, richiamarsi solo alcune classiicazioni rilevanti, seppur parziali, che evidenziano l’estrema articolazione del settore. Una prima classiicazione permette di di-

Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole stinguere app native (installate sul dispositivo) e web app (che consistono, invece, in collegamenti con applicativi in remoto): le prime vengono installate e direttamente utilizzate sul dispositivo mobile, comportano l’utilizzo di una porzione dello spazio di memoria, ma permettono una maggior facilità di utilizzo, poiché non comportano alcun web runtime (il tempo di connessione alla rete Internet), né risentono delle eventuali limitazioni o problematiche legate all’utilizzo dei browser; le seconde, invece, pur non incidendo sullo spazio di memoria del dispositivo, risultano tuttavia condizionate da alcune variabili legate alla qualità e velocità di connessione del dispositivo. Una facile analisi empirica permette di dimostrare come, negli ultimi due anni, sia sensibilmente aumentata la quantità (e la qualità) delle app che vengono pre-istallate sui dispositivi: si tratta di app relativi più diversi servizi, dal servizio di social networking (Facebook o Twitter) a quello di posta elettronica (Gmail), dallo scambio di contenuti digitali (YouTube) all’e-commerce (Amazon), senza dimenticare il settore dei giochi, che costituisce, probabilmente, uno dei canali di elezione dello sviluppo delle app (per il quale occorre, tuttavia distinguere tra le app che riguardano giochi “per tutti”: ad es. Candy Crush Saga, che risulta al 17° posto tra le app più utilizzate, e quelle che, invece, riguardano contratti di gioco e scommessa, riservati al pubblico dei maggiorenni). La presenza di una serie di app pre-istallate sul dispositivo solitamente viene utilizzata come claim pubblicitario dal rivenditore dello stesso, senza comportare alcun onere aggiuntivo per l’acquirente (che ben può, dopo l’acquisto disinstallare l’app); rientra, tuttavia, negli obblighi informativi che gravano sul rivenditore a tutela del consumatore, la comunicazione di ogni costo aggiuntivo collegato all’utilizzo od alla sottoscrizione di servizi in abbonamento (eventualmente) collegati alle app pre-installate.

Accanto alle app pre-installate, qualsiasi dispositivo mobile può essere arricchito con l’installazione di app native reperibili (a pagamento o con altro corrispettivo) negli appositi app-store (tra i quali possiamo ricordare, a titolo esempliicativo, App Store per i dispositivi Apple e Google Play per i dispositivi con sistema operativo Android); su questo punto occorre sottolineare che attraverso l’attività di downloading ed installazione, l’utilizzatore acquisisce unicamente una licenza d’uso, per la quale sottoscrive un contratto accettandone le clausole che, quasi sempre, prevedono la possibilità di accesso, da parte del fornitore, ad una serie di dati archiviati nel dispositivo mobile (rubrica, contatti, elenco delle altre app presenti) nonché l’autorizzazione alla attività di geo-localizzazione e, talvolta, l’accesso ai dati contenuti nelle pagine personali dei social network e le attività di geo-tagging.

In relazione alla inalità ed al contenuto delle app presenti sul mercato, possono distinguersi, riprendendo una vecchia classiicazione dei contenuti online, quelle afferenti all’area “del mercato” e quelle afferenti all’area del “non mercato”; tra le prime possono annoverarsi gli store/marketplace e tutte quelle app che vengono utilizzate per l’acquisto di beni e servizi con corrispettivo in denaro (ad esempio: Amazon, Booking, Privalia); tra le seconde quelle che, pur prevedendo (eventualmente) un servizio a pagamento, offrono contenuti afferenti al mondo della comunicazione, dell’intrattenimento, del gioco, in generale della ricerca di informazioni e servizi di varia utilità (Whatsapp, Facebook, IlMeteo, YouTube, Google Maps); scorrendo l’elenco delle app più diffuse in Italia emerge come ai primi posti si collochino Whatsapp, Facebook, Google Play, Google Search e Gmail, ma risultino molto utilizzate anche Skype, Instagram, Twitter.

Un settore molto particolare, fra gli altri, è quello dei servizi legati alla salute ed alla medicina, attraverso le c.d. e-health app, che, tuttavia, quando non si limitino alla veicolazione di informazioni ma offrano dei veri e propri servizi di assistenza, pongono delicati problemi in ordine alla tutela dei dati (posto che i dati sanitari sono dati sensibili, che richiedono particolari forme di tutela ed in diversi casi il ricorso all’anonimizzazione), nonché al regime delle responsabilità degli operatori.

Il mercato “delle” mobile app, come emerge dalle analisi della dottrina, risente dell’inluenza di una pluralità di fattori, legati non soltanto alla funzione dell’applicazione, ma anche alle strategie di pubblicità, alle politiche dei costi, nonché alla facilità di utilizzo e, da non sottovalutare, alla capacità attrattiva dell’interfaccia (icone e graica) che si rivela, soprattutto nei riguardi del pubblico più giovane, una variabile di sicuro rilievo. Del resto, proprio le generazioni più giovani risultano essere non soltanto i principali “consumatori” di dispositivi mobili, ma altresì i maggiori utenti del mercato delle app: basti considerare che, da analisi statistiche, il tempo mediamente trascorso utilizzando delle app da smatphone e da tablet è di quasi due ore al giorno nella fascia 18-24 anni, di circa un’ora e

34 minuti per la fascia 25-34, per poi ridursi progressivamente nelle successive fasce d’età, assestandosi comunque intorno all’ora di utilizzo per i c.d. boomers, cioè gli over 65; non sorprende, pertanto, come la maggior parte delle mobile app investano su di una graica accattivante ed intuitiva, e contenuti facilmente accessibili anche ad un pubblico non esperto: come evidenziato in dottrina, sono proprio l’analisi del mercato rilevante e la richiesta degli utilizzatori inali a determinare le scelte in ordine allo sviluppo ed al lancio sul mercato di nuove app.

Si è già detto che le app possono inquadrarsi nella categoria dei software applicativi e che, conseguentemente, la disciplina in ordine alla qualiicazione in termini di opera dell’ingegno, al riconoscimento della paternità e, più in generale, ai diritti morali e patrimoniali, può ricondursi alle disposizioni della legge sul diritto d’autore, come novellata sul portato della normativa di derivazione europea; parimenti il contratto per lo sviluppo di una mobile app può inquadrarsi nella genarle categoria dei contratti ad oggetto informatico e, particolarmente, nei contratti sul software (con una speciica attenzione al proilo della tutela della proprietà intellettuale), che afferiscono alla categoria dei contratti tra professionisti. Qualche rilessione in più merita, invece, il contratto per l’utilizzazione delle app, che può considerarsi nel novero dei contratti B2C ed afferente alla categoria dei contratti di fornitura di contenuto digitale, al momento privi di una disciplina unitaria, ma sui quali si appunta proposta di Direttiva UE presentata nello scorso mese di dicembre (sulla quale si rinvia al paragrafo seguente); in relazione alla stipulazione del contratto, normalmente attraverso compilazione di un form o pressione del tasto negoziale virtuale, dovrebbe ritenersi applicabile la normativa consumeristica, quale risultante dalla Direttiva 2000/31/CE e dalla direttiva 2011/83/UE, in particolare con riferimento agli obblighi di informazione a carico del professionista, in tema di caratteristiche della app, di capacità /interoperabilità con il sistema operativo del device, nonché, dal punto di vista patrimoniale, dell’eventuale presenza di servizi in abbonamento o di c.d. costi occulti, nonché dell’eventuale durata della licenza e della gratuità (o meno) degli aggiornamenti periodici. In tema di costi, particolarmente, il rischio per un consumatore poco accorto, è quello di installare una app che preveda accanto ai servizi gratuiti anche servizi a pagamento (con accredito in conto al dispositivo mobile), e ritrovarsi a pagare per forniture (ab- bonamenti e c.d. servizi premium) non richieste. Sul punto, peraltro, appare opportuno segnalare che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel mese di ottobre 2015, ha sanzionato i quattro più importanti operatori di telefonia mobile in Italia, rilevando l’insuficienza dell’apparato di protezione contro i servizi non richiesti ed attivati accidentalmente dagli utenti: in particolare il provvedimento si collega ad una precedente delibera che imponeva la predisposizione di meccanismo di consenso esplicito ed informato, da parte dell’utente, per l’attivazione dei servizi c.d. “premium”.

Un particolare proilo attiene alla tutela dei dati personali degli utenti che, proprio in forza del consenso prestato al momento della sottoscrizione del contratto, vengono acquisiti dal fornitore della app, il quale, da un lato può effettuare su di essi attività di trattamento, anche a ini commerciali, e dall’altro lato, può costituire, con gli stessi, una sorta di database. L’assenza di una normativa speciica in argomento (che dovrebbe essere colmata dalla Direttiva sulla fornitura di contenuti digitali), determina il ricorso, quanto alla normativa applicabile, alle disposizioni in tema di trattamento dei dati nell’e-commerce anche se, appare opportuno sottolineare, che sarebbe opportuno identiicare una serie di soglie di accessibilità per i dati archiviati nei dispositivi mobili, lasciando così all’utente la possibilità di determinare quali dati rendere accessibili e quali, invece, mantenere in uno spazio di memoria assolutamente “riservato”. Per altro verso, dal punto di vista del merchant e dell’operatore commerciale, la possibilità di creare un database relativo agli utilizzatori delle proprie app, costituisce indubbiamente un investimento per migliorare le tecniche di direct marketing e parametrare le proprie offerte sul criterio del c.d. end user demand.

4. Verso una nuova regolamentazione per i contratti B2C per la fornitura di contenuti digitali

Come già anticipato, nello scorso mese di dicembre, la Commissione europea ha presentato due proposte di Direttiva, indirizzate ai contratti di vendita online ed a distanza di beni mobili ed ai contratti di fornitura di contenuti digitali; si tratta di provvedimenti che si inseriscono nel più ampio progetto della “Strategia per il mercato unico digitale”, adottata dalla Commissione in data 06.05.2015 e sono indirizzati a rafforzare la iducia dei consumatori nel mercato online, attraverso una armonizzazione della disciplina degli scambi business to consumer.

In particolare, nelle inalità della duplice proposta di Direttiva (alla quale si afianca anche una proposta di Regolamento per la garanzie della “portabilità transfrontaliera dei servizi di contenuto online”), vengono espressamente indicati la rimozione degli ostacoli dovuti alla frammentazione normativa dei singoli ordinamenti e lo sfruttamento delle potenzialità del commercio elettronico transfrontaliero che, sebbene risulti in crescita, tuttavia non esprime appieno le proprie potenzialità di sviluppo. Da una analisi dei dati relativi alle transazioni e.commerce sul territorio europeo, infatti, emerge non soltanto che i consumatori sono più inclini ad acquistare su siti nazionali, ma altresì che le piccole e medie imprese incontrano una serie di dificoltà nel proiettarsi sul mercato internazionale, preferendo mantenersi entro ambiti localistici. In particolare, nella Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al consiglio e al Comitato Economico e Sociale europeo del 9.12.2015 – “Contratti nel settore digitale per l’Europa – Sfruttare al massimo il potenziale del commercio elettronico”, si legge che

«la quota rappresentata dal commercio elettronico nel settore complessivo del commercio al dettaglio rimane signiicativamente più bassa in Europa che negli USA: nel 2014 era del 7,2% dell’UE rispetto all’11, 6 negli USA (…) solo il 12% dei dettaglianti dell’UE vendeva online a consumatori di altri paesi dell’Unione, mentre quelli che vendevano a livello nazionale erano tre volte tanto (il 37%) e solo il 15% dei consumatori acquistava online da un altro paese dell’Unione, mentre circa il triplo acquistava a livello nazionale (il 44%)».

Su queste considerazioni, l’armonizzazione della disciplina in ordine alla fornitura di contenuti digitali ed in ordine alla vendita online ed a distanza di beni mobili, potrebbe sicuramente generare una serie di effetti positivi sia per i consumatori che per le imprese: per queste ultime, infatti, non soltanto risulterebbero abbattuti i costi dovuti alle differenze normative tra i diversi ordinamenti europei ed alla necessità di rimodulare i modelli contrattuali (relativi alle vendite transfrontaliere), ma altresì, sulla base di una maggior certezza delle normative applicabili, verrebbe a crearsi «un ambiente giuridico favorevole, e particolarmente beneico per le PMI»; per il consumatore, invece, aumenterebbe la iducia negli scambi transfrontalieri, anche e soprattutto in relazione alla circolazione dei contenuti digitali ed in caso di contenuti difettosi, potranno avere a disposizione una serie di strumenti rimediali di sicura afidabilità, mentre per la vendita di beni mobili, sarebbero rafforzate ed implementate le garanzie già previste nella Direttiva 1999/44/CE.

Nella Relazione che accompagna la presentazione della proposta di Direttiva sui contratti di fornitura di contenuti digitali viene prospettata, come positiva ripercussione dell’incentivo alle transazioni online in dimensione transnazionale, la possibilità, per più di 120.000 nuove imprese, di affacciarsi al mercato online, con un aumento delle esportazioni intra UE di circa 1 miliardo di euro ed una diminuzione dei prezzi al dettaglio dovuta alla maggiore concorrenza.

Scorrendo l’articolato delle proposte di Direttiva, appare tuttavia manifesto come il legislatore europeo abbia considerato, ancora una volta, in modo unitario il sistema del commercio elettronico, prendendo in considerazione le diverse modalità di diffusione e fruizione dei contenuti solo in relazione all’esecuzione del contratto da parte del fornitore (cfr. in particolare l’incipit del considerando n. 23 «i contenuti digitali possono raggiungere i consumatori attraverso vari canali»), ma senza prevedere che le speciiche caratteristiche dei dispositivi o dei canali di comunicazione utilizzati per la conclusione del contratto; in particolare, poiché la fornitura dei contenuti digitali oggetto della proposta di Direttiva comprende anche quelli per i quali il consumatore non sia tenuto a pagare un prezzo, ma a fornire «attivamente una controprestazione non pecuniaria sotto forma di dati personali o di qualsiasi altro dato», probabilmente sarebbe stato preferibile prestare una certa attenzione a forme quali il social commerce (laddove la commistione tra comunicazione ed attività economica pone a più serio rischio i dati del consumatore) od alla fornitura di contenuti digitali tramite mobile application.

Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole

Se, come le statistiche prospettano, la dimensione mobile è destinata non soltanto ad ulteriori incrementi nel corso dei prossimi anni, ma addirittura a realizzare il “soprasso” in relazione al volume delle transazione online, i problemi relativi al mobile commerce (in tutte le sue declinazioni) dovranno necessariamente trovare posto nell’agenda del legislatore europeo, nell’ottica di una completa “Strategia per il mercato unico digitale”, in grado di rispondere al meglio alle esigenze di un “ecosistema”, quale quello di Internet, in continua mutevole evoluzione, ma altresì alla continua ricerca di regole (giuridiche) certe ed afidabili.

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1. La complessa qualiicazione giuridica dei servizi dell’economia collaborativa

Rispetto all’ordinamento dell’Unione, così come, del resto, all’ordinamento di ciascuno degli Stati membri, appare incerta la qualiicazione giuridica delle attività svolte dagli operatori economici della c.d. «economia collaborativa», recentemente deiniti dalla Commissione come quei «modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati»1 . Si tratta, come ben noto, di un fenomeno la cui rilevanza non può essere trascurata per gli evidenti beneici che esso comporta sia per i consumatori che per le imprese. Da un lato, infatti, l’innovazione tecnologica ha condotto allo sviluppo di nuovi modelli imprenditoriali, come le piattaforme online di collaborazione, che costituiscono innegabili elementi di sviluppo della competitività e della crescita; dall’altro, l’accesso a nuovi servizi e, in generale, una loro più ampia offerta e a prezzi più bassi risultano evidenti vantaggi per i consumatori. La complessità del tema, di inquadramento sistematico ma, evidentemente, pure di indubbia rilevanza pratica, si coglie in maniera chiara, nell’ultimo periodo, ad esempio con riferimento alle attività prestate dalla piattaforma online Uber, riguardo alle quali l’operatore del diritto è chiamato a domandarsi se si tratti di attività astrattamente conigurabili come mero servizio di trasporto, come un servizio elettronico di intermediazione o un servizio della società dell’informazione. L’esigenza di qualiicare correttamente i servizi offerti nell’ambito dell’economia collaborativa deriva dalla possibilità, in astratto, di ricondurre le attività in parola a regimi normativi già in vigore; nessuno dei quali, tuttavia, sembra a prima vista prestarsi a disciplinarne ogni proilo ovvero non a farlo in maniera adeguata perché in origine non pensati per essere applicati a tali, e ben più recenti, fenomeni.

1 Comunicazione della Commissione «Un’agenda europea per l’economia collaborativa», del 2 giugno 2016, COM(2016) 356 inal, in https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2016/IT/1-2016-356-IT-F1-1.PDF, 3.

In una prospettiva più ampia, inoltre, la necessità di individuare uno speciico regime giuridico per gli operatori dell’economia collaborativa costituisce parte integrante della strategia varata dalla Commissione europea in tema di mercato unico digitale. Dalla Comunicazione «Un approccio globale per stimolare il commercio elettronico transfrontaliero per i cittadini e le imprese in Europa»2 può infatti desumersi che una tale disciplina rappresenti un tassello del più generale quadro normativo che la Commissione intende promuovere in vista del pieno sviluppo del commercio elettronico nell’Unione europea. Per garantire, contestualmente, alle imprese la certezza del diritto applicabile e tutele speciiche agli utenti della rete, i numerosi atti di soft law via via adottati3 mirano infatti a preparare una futura disciplina legislativa interamente dedicata all’esercizio delle attività economiche del mercato digitale; a ispirarla, due principi fondamentali: quello, centrale dell’ordinamento dell’Unione, della non discriminazione e l’esigenza di assicurare la piena iducia dei consumatori. Nella medesima direzione, peraltro, pare saldamente orientato anche il Parlamento europeo. Da un lato, e innanzitutto, esso collega espressamente la realizzazione di un mer-

2 Comunicazione della Commissione, del 25 maggio 2016, COM(2016) 320 inal, in https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2016/IT/1-2016-320-IT-F1-1.PDF.

3 Cfr., ad es., la Comunicazione della Commissione, del 6 maggio 2015, «Strategia per il mercato unico digitale in Europa», COM(2015) 192 inal, in http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0192&from=IT cato unico digitale alla crescita di competitività dell’Unione e alla migliore occupazione. Dall’altro, e più speciicamente, il Parlamento europeo invoca una regolamentazione del commercio elettronico transfrontaliero degna della iducia di consumatori e imprese, esortando poi esplicitamente la Commissione a trovare, nell’ambito dell’economia collaborativa, «un equilibrio tra la tutela dei consumatori e il conferimento di poteri a questi ultimi e, ove sia necessario un chiarimento, a garantire l’adeguatezza del quadro normativo relativo ai consumatori nella sfera digitale»4 .

I servizi delle piattaforme di intermediazione online...

2. L’applicabilità delle norme dell’Unione sul mercato interno alle imprese dell’economia collaborativa

È necessario, innanzitutto, chiarire che le attività potenzialmente rilevanti per l’ordinamento dell’Unione nel quadro dell’economia collaborativasonoquellecheattengonoallerelazionicheintercorrono fra la piattaforma online di economia collaborativa (come, ad esempio, Uber) e, da un lato, l’utente del servizio (vale a dire il cliente che, restando ancora al caso della piattaforma Uber, intende raggiungere un dato luogo con un’auto con conducente), e, dall’altro, il prestatore del servizio (cioè colui che, mettendo a disposizione un proprio bene/ un proprio servizio, nel nostro esempio l’autista della propria auto, offre il servizio richiesto dal consumatore). L’economia collaborativa coinvolge, infatti, tre differenti categorie di soggetti: il prestatore di servizi che intende condividere un bene/servizio e la propria competenza, sia in via occasionale (come accade quando si tratti di un soggetto privato che offra un servizio «pari») che in via professionale (nell’ambito, cioè, della sua capacità professionale); l’utente di tale servizio; l’intermediario che mette in contatto i primi due soggetti tramite una piattaforma online agevolando le transazioni fra di essi5. Secondo i principi generali del diritto dell’Unione e, in particolare, del suo diritto del mercato interno e delle libertà economiche di circolazione, le due relazioni «piattaforma online-utente» e «piattaforma online-prestatore del servizio» assumono rilievo soltanto qualora sia possibile considerarle attività economicamente rilevanti6. La piattaforma online può non ricevere (e di norma infatti non riceve) alcuna retribuzione né dall’utente del servizio né, se non con modalità che sovente possono essere deinite per lo più simboliche, dal suo prestatore, ciò non esclude tuttavia che la sua attività sia sottoposta all’applicazione delle norme sul mercato interno. Giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, facendo propria un’interpretazione assai lata del concetto di «retribuzione»7, impone infatti di concentrarsi sul carattere economico delle attività di volta in volta svolte e sul loro essere «reali ed effettive e non talmente ridotte da potersi deinire puramente marginali ed accessorie»8. La circostanza per cui né il prestatore del servizio né il cliente inale, singolarmente o congiuntamente considerati, remunerino la piattaforma online per i suoi servizi di intermediazione, in deinitiva, non assume perciò rilevanza e non vale a sottrare tali servizi all’ambito di applicazione del TFUE e della pertinente normativa di diritto derivato9. Vengono così in considerazione almeno due distinti livelli di regolamentazione cui il diritto del mercato interno deve ritenersi pienamente applicabile: il primo, relativo alla disciplina dell’avvio e dell’esercizio delle attività delle imprese dell’economia collaborativa; il secondo, concernente la tutela degli utenti di tali attività.

4 Risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 2016 sul tema «Verso un atto sul mercato unico digitale» (2015/2147(INI)), punto 78. Analogamente, cfr. anche il parere della commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori sulla relazione annuale della Commissione europea sulla politica di concorrenza dell’UE (2015/2140(INI)), punto 13.

5 Per alcune delle criticità derivanti dalla necessità di disciplinare, con le norme del diritto derivato dell’Unione esistenti, il peculiare rapporto trilaterale «prestatore del servizio-utente-intermediario online», cfr. C. Wendehorst, Platform Intermediary Services and Duties under the E-Commerce Directive and the Consumer Rights Directive, in Journal of European Consumer and Market Law, 2016, 30-33.

6 Con riguardo alla relazione «utente-prestatore del servizio», nella particolare ipotesi in cui tale prestatore sia un privato non remunerato (ma soltanto rimborsato per le spese sostenute) per il proprio servizio, cfr. l'ordinanza della Corte giust., 27 ottobre 2016, causa C-526/15, Uber Belgium, EU:C:2016:830.

7 In questi termini, ex multis, Corte giust., 26 aprile 1988, causa 352/85, Bond van Adverteerders, EU:C:1988:196, punto 16.

8 Corte giust., 11 aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97, Deliège, EU:C:2000:199, punto 54.

9 Chiarissima in tal senso, con speciico riferimento ai servizi della società dell’informazione ex direttiva 2000/31/CE, Corte giust., 11 settembre 2014, causa C-291/13, Papasavvas, EU:C:2014:2209, punto 30.

3. La disciplina dell’accesso al mercato e dell’esercizio delle attività degli operatori dell’economia collaborativa: TFUE, direttiva sul commercio elettronico e direttiva “Bolkestein”

Concentrandosi sul primo dei citati livelli di disciplina, occorre domandarsi se ed eventualmente in quale misura, alla luce del diritto dell’Unione, le piattaforme di collaborazione possono essere soggette a normative interne che impongano requisiti speciici per l’accesso al mercato, quali ad esempio il rilascio di autorizzazioni o di licenze. Determinante è la considerazione della natura delle attività di volta in volta prestate da tali operatori. Qualora si tratti di (soli) servizi della società dell’informazione a venire in rilievo è la direttiva 2000/31/CE10 e, dunque, la disciplina, già da tempo in vigore, di diritto derivato dell’Unione sul commercio elettronico. Tale regime si applica infatti a «qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi»11 e, dunque, alla piattaforma online che si limiti a mettere in relazione l’utente con un prestatore di servizi.

10 Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»), in GUCE L 178 del 17.7.2000, 1. Nella vastissima dottrina in argomento, pare qui suficiente il rinvio a A. Antonucci (a cura di), E-Commerce. La direttiva 2000/31/CE e il quadro normativo della rete, Milano, Giuffrè, 2001; U. Draetta, Internet e commercio elettronico nel diritto internazionale dei privati, Milano, Giuffrè, 2005, 59-90.

11 In questi termini l’art. 2, lett. a), della direttiva 2000/31/CE tramite rinvio, oggi, all’art. 1, n. 1, lett. b), della direttiva (UE) 2015/1535 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 settembre 2015 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (codiicazione), in GUUE L 241 del 17.11.2015, 1.

Ai sensi dell’art. 3 di tale direttiva, signiicativamente rubricato «Mercato interno», principio cardine del regime in parola è il divieto per gli Stati membri di limitare la libera circolazione dei servizi della società dell’informazione che provengano da un altro Stato membro. In altri termini, rispetto a tali peculiari categorie di servizi il legislatore di diritto derivato dell’Unione ha sancito l’applicazione del principio del Paese di origine, imponendo che, pur in assenza di coordinamento fra le differenti legislazioni nazionali pertinenti, uno Stato membro non possa in linea di principio impedire che sul suo territorio possa essere prestato un tale servizio se chi lo fornisce eserciti legittimamente la propria attività nello Stato ove è stabilito (e secondo le disposizioni ivi vigenti).

Le piattaforme online che si limitino a prestare servizi della società di informazione possono perciò essere soggette ad autorizzazione preventiva o ad altro genere di requisiti e formalità equivalenti soltanto alle condizioni previste dalla direttiva 2000/31/CE. In effetti, in via di deroga, quest’ultima ammette che, con riferimento a un «determinato servizio della società dell’informazione»12, lo Stato della prestazione possa limitare la libera circolazione di tali operatori ove ciò sia necessario per ragioni di ordine pubblico, tutela della sanità pubblica, pubblica sicurezza e tutela dei consumatori13 e, più in particolare, qualora si tratti di servizi che ledano tali rilevanti interessi o anche solo rischino, sia pure in modo «serio e grave»14 , di pregiudicarli. Tuttavia, salvi i casi di urgenza, lo Stato membro non può adottare simili provvedimenti restrittivi se non dopo aver chiesto – vanamente – allo Stato di stabilimento dell’operatore economico interessato di assumere misure opportune e aver notiicato alla Commissione tale propria intenzione15 .

Laddove, invece, oltre ai servizi della società dell’informazione la piattaforma online sia diretta fornitrice di una ulteriore (e diver- sa) attività economica, essa andrebbe soggetta alle pertinenti normative settoriali, in particolare a quelle relative alle autorizzazioni/ licenze richieste per l’avvio e l’esercizio dell’attività di volta in volta considerata. Se, cioè, l’impresa dell’economia collaborativa non si limita a consentire all’utente di utilizzare un servizio offerto in concreto da altri ma lo presta essa stessa, attuando, ad esempio, con i propri mezzi e le proprie competenze un servizio di trasporto o di locazione a breve termine, il trattamento cui essa sarà sottoposta non varierà da quello previsto dalla disciplina normalmente applicabile a coloro che, in qualsiasi contesto e dunque anche in quello dell’economia collaborativa, prestano quel dato servizio. Ove fornisca concrete attività economiche, in deinitiva, la piattaforma online è assimilata a qualsiasi impresa cui sono applicabili le libertà economiche di circolazione del TFUE e le normative di diritto derivato; quelle, generali, relative alla libera circolazione dei servizi (la direttiva «Bolkestein») e, se presenti, quelle settoriali, riferibili al dato settore economico cui quelle attività si riferiscono. La circostanza per cui destinatarie di tali discipline siano imprese dell’economia collaborativa non può in alcun modo legittimare nei loro confronti un trattamento speciale (da intendersi qui, evidentemente, deteriore rispetto a quello generale). Tale constatazione impone semmai una ponderazione tutta particolare e speciica delle ragioni che giustiicano un eventuale ostacolo opposto dagli Stati membri alla libera prestazione dei servizi e un’applicazione più lessibile, a vantaggio di tali imprese, del relativo giudizio di proporzionalità e di adeguatezza. In merito, infatti, la Commissione pare affermare che la circostanza per cui un’attività economica autonoma sia prestata nell’ambito dell’economia collaborativa e, soprattutto, attraverso un’intermediazione online, indurrebbe a riconoscere allo Stato membro ancora meno giustiicazioni a fondamento di ostacoli interni alla libera prestazione dei servizi. Le ragioni di ordine pubblico che in linea generale giustiicano regimi nazionali sull’accesso alle attività, sulle loro qualità e sicurezza, ad esempio, dovrebbero dunque essere soddisfatte con strumenti, diversi da quelli usualmente impiegati, speciici quanto speciico è l’ambito dell’economia collaborativa. Similmente, se la riduzione delle asimmetrie informative fra prestatore e cliente può legittimamente ammettere che l’ordinamento interno imponga il rispetto di determinati requisiti di autorizzazione allo svolgimento di un dato servizio, nell’ambito della economia collaborativa quella medesima esigenza può, probabilmente, essere soddisfatta attraverso sistemi di reputazione e di valutazione ormai tipici del contesto online. In linea ancor più generale, e sempre in piena coerenza con la prassi applicativa delle norme dell’Unione sul mercato interno, i divieti assoluti e le restrizioni quantitative all’esercizio di un’attività vanno considerate, di norma, soltanto come «misure di ultima istanza»16; mentre, qualora un’autorizzazione o una licenza siano previste, le condizioni per ottenerle debbono essere «chiare, proporzionate e obiettive»17 e la loro durata limitata nel tempo.

12 Art. 3, n. 4, della direttiva 2000/31/CE.

13 Ai sensi dell’art. 3, n. 4, della direttiva 2000/31/CE, fra i motivi di «ordine pubblico» igura, ad esempio, «l’opera di prevenzione, investigazione individuazione e perseguimento in materie penali, quali la tutela dei minori e la lotta contro l’incitamento all’odio razziale, sessuale, religioso o etnico, nonché violazioni della dignità umana della persona».

14 Art. 3, n. 4, lett. a), ii), della direttiva 2000/31/CE.

15 Art. 3, n. 5, della direttiva 2000/31/CE.

Quesito essenziale, e di non agevole risoluzione, si presenta a questo punto quello volto ad accertare quando una piattaforma di collaborazione fornisca, oltre al servizio della società dell’informazione, un’attività economica ulteriore o, secondo le parole della Commissione, un «servizio sottostante»18. La circostanza è da appurare caso per caso, tenendo conto di vari criteri, di ordine sia fattuale sia giuridico, ma preziosa è l’indicazione di una serie di indizi tesa a riscontrare la sussistenza del «fattore determinante»19 da accertare, ovverosia il livello di controllo o di inluenza che la piattaforma di collaborazione può esercitare sul prestatore di servizi.

Si tratta, in particolare, di tre diversi criteri: il prezzo, le «altre condizioni contrattuali fondamentali» e la proprietà dei beni essenziali. Quanto al primo dei criteri proposti, occorre domandarsi se nella determinazione del prezzo inale pagato dall’utente la piattaforma di collaborazione abbia oppure no un’inluenza determinante. Qualora essa si limiti a raccomandare un prezzo, lasciando libero il prestatore di servizi sottostanti di adeguarlo alla proprie esigenze e necessità, tale criterio non può ritenersi soddisfatto. Rispetto alle condizioni contrattuali differenti dal prezzo, quali ogni termine o condizione che incida in maniera fondamentale sull’esecuzione del rapporto contrattuale (si pensi, ad esempio, alla deinizione di istruzioni vincolanti, come l’obbligo di prestare il servizio, per la fornitura del servizio sottostante), occorre anche in questo caso escludere che il criterio sia soddisfatto se tali con-

16 Comunicazione «Un’agenda europea», cit., 5.

17 Ibid

18 Comunicazione «Un’agenda europea», cit., 6 19 dizioni restano nella piena e autonomia discrezionalità del prestatore del servizio sottostante. Inine, è necessario chiedersi se i beni essenziali per la fornitura del servizio sottostante siano di proprietà della piattaforma di collaborazione. Solo ove tutti e tre questi criteri siano soddisfatti è da ritenere che sussistano «forti indizi che la piattaforma di collaborazione esercit[i] un’inluenza o un controllo signiicativo sul prestatore del servizio sottostante, il che può a sua volta indicare che la piattaforma dovrebbe essere ritenuta anche fornitore del servizio sottostante (in aggiunta al servizio della società dell’informazione)»20 .

Accanto a quelli citati, sono inoltre applicabili, a seconda delle diverse circostanze del caso concreto, criteri ulteriori quali, ad esempio, la considerazione che la piattaforma di collaborazione sostenga le spese e si assuma i rischi connessi alla prestazione del servizio sottostante, così come l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra la piattaforma di collaborazione e la persona isica che ha fornito il servizio sottostante.

Se gli indici da ultimo ricordati offrono, al pari dei primi, signiicativi indizi circa la sussistenza di quel livello di controllo e di inluenza idoneo a far ritenere che la piattaforma di collaborazione sia anche la fornitrice del servizio sottostante, ve ne sono altri che, invece, pur non potendo essere del tutto trascurati non sono da soli suficienti per poter giungere a una tale conclusione. È il caso, molto diffuso, della possibilità che la piattaforma di collaborazione offra non già il servizio sottostante ma un’attività a quello strumentale come, ad esempio, la fornitura di un sistema di pagamento, o di una copertura assicurativa, o dell’assistenza post vendita o di un meccanismo di recensione da parte dell’utente. A fronte dell’evidente dificoltà di trarre da tali indizi il segno inequivocabile dell’inluenza e del controllo signi- icativi da parte della piattaforma di collaborazione sul prestatore del servizio sottostante, non si può tuttavia non considerare che, in linea generale, «più le piattaforme di collaborazione gestiscono e organizzano la selezione dei prestatori dei servizi sottostanti e il modo in cui tali servizi sono forniti […] più diventa evidente che la piattaforma di collaborazione potrebbe essere considerata anche come prestatrice dei servizi sottostanti stessi»21 .

20 Comunicazione «Un’agenda europea», cit., 7. È applicando i citati criteri (ferma restando la valutazione inale che di essi farà il giudice del rinvio) che l'Avvocato generale M. Szpunar ha escluso, nelle conclusioni dell'11 maggio 2017 relative alla causa C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi (EV:C:2017:364), che il servizio prestato da Uber possa proilarsi come «servizio della società dell'informazione» ai sensi della direttiva 2000/31/CE. A suo giudizio, infatti, Uber controlla i «fattori economicamente rilevanti del servizio di trasporto offerto nel quadro delle sue piattaforme» (punto 51) fungendo di fatto essa stessa da «vero e proprio organizzatore e operatore di servizi di trasporto urbano» (punto 61).

4. Il legislatore italiano e i servizi dell’economia collaborativa fra istanze di riforma e piena applicazione dei principi di liberalizzazione di matrice europea

Pur in assenza di una normativa espressamente dedicata alle imprese dell’economia collaborativa, a esse il diritto del mercato interno dell’Unione europea è inequivocabilmente applicabile con una disciplina desumibile dai principi generali relativi alle libertà economiche di circolazione del TFUE e dal diritto derivato che su tali basi è stato via via adottato nel corso del tempo. Con riferimento alle questioni preliminari, dell’accesso al mercato e dei requisiti richiesti per poter svolgere (anche) un’attività dell’economia collaborativa, alle piattaforme di collaborazione risultano infatti applicabili, essenzialmente, la direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno e la direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico.

21 Ibid. Del tutto analogamente va poi affrontato anche il delicato tema dei regimi di responsabilità per le informazioni memorizzate cui sottoporre la piattaforma di collaborazione. Qualora quest’ultima presti esclusivamente un servizio della società dell’informazione a essa sarà applicabile la sola direttiva 2000/31/CE e, dunque, il relativo regime che, in linea generale, esenta un tale operatore economico dalla responsabilità per la cosiddetta attività di «hosting», ovverosia la memorizzazione delle informazioni fornite dall’utente del servizio (cfr. l’art. 14 della direttiva 2000/31/ CE). Ai sensi del considerando n. 42, tale attività è però solo quella che «si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più eficiente la trasmissione» (sul punto, in giurisprudenza, Corte giust., grande sez., 23 marzo 2010, cause riunite da C-236/08 a C-238/08, Google France e Google, EU:C:2010:159, punto 114).

Si tratta, come noto, di due atti di diritto derivato che hanno per comune base giuridica gli attuali artt. 53 e 62 TFUE che abilitano il legislatore dell’Unione ad adottare direttive intese «al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative all’accesso alle attività autonome e all’esercizio di queste»22 e che prevedono, come ovvio, una disciplina coerente con gli articoli del Trattato cui, nella sostanza, mirano a dare attuazione, così come con la giurisprudenza della Corte di giustizia che su di essi si sia consolidata nel corso del tempo23 .

Ciascuna conformemente alle proprie competenze, le istituzioni dell’Unione dimostrano in modo inequivoco la necessità di giungere comunque, ovviamente nel modo più compatibile possibile con i principi dell’ordinamento dell’Unione (in particolare con il diritto del mercato interno), all’adozione di una disciplina speciicamente riservata alle attività e agli operatori dell’economia collaborativa. Da ultima, con la Comunicazione «Un’agenda europea per l’economia collaborativa», la Commissione è intervenuta con un atto che, sia pure di soft law, innegabilmente rappresenta un rilevante (e quanto mai opportuno) punto fermo per fornire necessarie chiavi di interpretazione e adeguamento della normativa vigente; in generale, e nell’ampio contesto della disciplina del mercato digitale, anche il Parlamento europeo, come detto, si è espresso in tal senso.

Al contrario, il legislatore italiano non pare curarsi troppo di fornire alle piattaforme di collaborazione un regime certo e adeguato alle loro istanze. L’AGCM ha del resto in più occasioni invitato il Parlamento italiano a legiferare spingendosi anche, nei limiti delle proprie competenze, a suggerire l’adozione di una disciplina ispirata a principi di liberalizzazione (anche) di derivazione europea24. Tali in-

22 In tali termini recita la parte conclusiva del paragrafo 1 dell’art. 53 TFUE. La direttiva 2000/31/CE, oltre agli artt. 47 e 55 TCE, ha per base giuridica anche l’art. 95 TCE (ora art. 114 TFUE), fondamento normativo generale per l’adozione di direttive volte al ravvicinamento delle normative nazionali relative all’instaurazione e al funzionamento del mercato interno.

23 In proposito, con riferimento alla direttiva 2006/123/CE, si veda Corte giust., grande sez., 16 giugno 2015, causa C-593/13, Rina Services e a., EU:C:2015:399, punti 39-40.

24 Si veda, ad esempio, il parere AS1222 – Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea, 29 settembre 2015.

Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole viti sono tuttavia allo stato rimasti inascoltati e appare quanto mai signiicativo l’atteggiamento, perlomeno prudente, del nostro legislatore che può ricavarsi dall’esame attualmente in corso in commissione parlamentare del disegno della prima «legge annuale per il mercato e la concorrenza»25 in merito a una possibile riforma della disciplina del trasporto di persone non di linea in modo da renderla il più possibile adeguata (anche) alle istanze degli operatori dell’economia collaborativa. Se, infatti, in tale contesto si sono inizialmente intravisti segnali molto chiari volti a modiicare il regime in vigore per permettere un concreto e disciplinato accesso al mercato anche alle imprese operanti nel mercato digitale, più di recente è emersa l’opposta volontà di non procedere in alcun modo a una novella legislativa della normativa in vigore26 .

Una tale indifferenza desta senz’altro qualche perplessità, finanche preoccupazione in termini di certezza del diritto e tutela del legittimo affidamento, e il noto contenzioso sorto di fronte al Tribunale di Milano fra numerose associazioni sostenitrici delle ragioni dei Taxi e le imprese del «Gruppo Uber» non può che confermare tali timori. In assenza di una normativa specificamente riservata alle piattaforme di intermediazione online nel mercato del trasporto locale, i giudici milanesi hanno applicato la disciplina vigente relativa al trasporto pubblico non di linea (e dunque la l. n. 21/92) sul presupposto che, «ancorché realizzat[o] con modalità più moderne»27, il servizio prestato dalle imprese del «Gruppo Uber» fosse del tutto assimilabile a quello di radiotaxi. Su tali basi, e dunque correttamente dal punto di vista logico, essi hanno accolto parzialmente, ex art. 700 c.p.c., le istanze cautelari loro formulate e, accertata la sussistenza di atti di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c., avevano inibito al Gruppo Uber l’utilizzo del servizio «UBER POP», con conseguente blocco e oscuramento del sito Internet e dell’applicazione informatica28 con un’ordinanza, oggetto di reclamo, poi confermata con un’ordinanza successiva29. Come evidente, è la mancanza di una disciplina espressamente appliacabile agli operatori dell’economia collaborativa a imporre, come in questo caso, complesse operazioni di qualificazione giuridica di fenomeni che mal si prestano a essere ricondotti nell’ambito di applicazione di regimi vigenti, a volte anche risalenti nel tempo, che non sono certo stati adottati per essere applicati a tali più nuove e ben differenti realtà. Allo stesso tempo, però, l’individuazione di principi, ancorché generali, di disciplina di derivazione europea dovrebbe condurre a una correzione, nel senso di una interpretazione, come si diceva un tempo, comunitariamente orientata, del tessuto normativo in vigore; operazione, non lo si nasconde, tuttavia senz’altro non semplice che compete al giudice nazionale come pure a tutta la p.a. chiamata ad applicare la normativa in vigore. I ricordati principi di libera circolazione dei servizi di cui al mercato interno dell’Unione restano in ogni caso applicabili e, anzi, sono destinati a prevalere, in caso di conflitto, sulle disposizioni interne eventualmente con essi contrastanti30. In definitiva, dunque, in attesa di un intervento legislativo specificamente dedicato agli operatori dell’economia collaborativa, che ragioni di certezza del diritto comunque auspicano, per quanto possa a prima vista apparire sorprendente, a disciplinare le attività delle piattaforme di intermediazione online sono i medesimi principi generali desumibili dagli articoli sulla libera prestazione dei servizi dell’originario

25 Ai sensi dell’art. 47 della l. n. 99/2009 (in GU n. 176 del 31.3.2009, suppl. ord. n. 136), ogni anno (o entro sessanta giorni dalla data di trasmissione della relazione annuale dell’AGCM) il Governo presenta (rectius, dovrebbe presentare) alle Camere il d.d.l. annuale per il mercato e la concorrenza. Tale legge, secondo l’art. 47, n. 1, è adottata «al ine di rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di garantire la tutela dei consumatori». È paciico, e del resto l’art. 1 del d.d.l. lo ricorda esplicitamente, che tali obiettivi sono perseguiti «anche in applicazione dei principi del diritto dell’Unione europea in materia di libera circolazione, concorrenza e apertura dei mercati, nonché delle politiche europee in materia di concorrenza».

26 Numerosi sono stati gli emendamenti, rilevanti ai nostri ini, presentati nel corso dell’esame nella commissione «Industria, commercio, turismo» del Senato all’(attuale) art. 52 del d.d.l. per il mercato e la concorrenza (AS.2085) recanti modiiche alla l. n. 21/1992, «legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea» (in GU n. 18 del 23.1.1992). Essi, da un lato, affermavano la sottoposizione a tale legge dei cosiddetti «servizi tecnologici per la mobilità » (e, dunque, delle piattaforme di collaborazione), dall’altro, abrogavano l’obbligo dello stazionamento dei mezzi di trasporto all’interno delle rimesse (così, ad esempio, l’emendamento n. 52.1). Tali emendamenti sono stati tuttavia ritirati, mentre uno più recente (n. 52.0.400) che conferiva delega al Governo per la «revisione della disciplina in materia di autoservizi pubblici non di linea», anche per adeguarla «ai più moderni standard tecnologici» è stato dichiarato inammissibile.

27 Trib. Milano, sez. spec. impresa, ord., 9 luglio 2015, pubblicata (quasi integralmente) in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2016, 2, 46 ss., con nota di A. Donini, Regole della concorrenza a attività di lavoro nella on demand economy: brevi rilessioni sulla vicenda Uber, 46-50.

28 Trib. Milano, sez. spec. impresa, ord., 25 maggio 2015.

29 Trib. Milano, ord., 9 luglio 2015, cit., punto 4.3.

Trattato CEE31 .

30 Sul punto, per tutti, U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, Bari, Cacucci, 2016, 418 ss.

31 Sulla libera circolazione dei servizi nel mercato interno, ex multis, R. Mastroianni, La libera prestazione dei servizi, in G. Strozzi (a cura di), Diritto dell’Unione europea, Parte Speciale, Torino, Giappichelli, 2015, 269 ss.

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