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L’assistenza sanitaria a Siena nella Grande guerra

MAURO BARNI

L’assistenza sanitaria a Siena nella Grande guerra

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Sullo straordinario panorama di Siena durante la prima guerra mondiale1, spiccano i tratti impressi a fortissime tinte, relativi allo scempio della vita e della salute dei nostri combattenti e della stessa gente comune coinvolta nel “fronte interno” ed allo straordinario impegno sanitario del Paese tutto, tardivo, insufficiente quanto si voglia (anche in senso operativo), ma alla fine

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Il Convegno di studi su La grande guerra in provincia: comunità e fronte interno, promosso dall’Accademia dei Rozzi (Siena maggio 2015. Atti in corso di stampa) fu moderato da Giacomo Zanibelli e introdotto dall’Assessore professor Stefano Maggi. In una tavola rotonda, cui partecipò con un intervento documentato e appassionato il Prefetto di Siena Renato Saccone, fu delineata l’estensione nazionale della tragica vicenda, che, sia pur osteggiata e malvista, fu tuttavia il decisivo collante dell’unità della patria, poi sciaguratamente indirizzata verso la dittatura, proprio per l’insufficienza della classe politica. Non è possibile dar conto dei “passaggi” più significativi del convegno: i cui resoconti originali si preannunciano di grande interesse informativo e scientifico. Ma si impone comunque un sia pur breve accenno al geniale approfondimento di Saverio Battente sugli effetti del cattivo governo degli eventi nella città di Siena e la sua reazione “politica” e “sociale” aggravata dal crollo della comunità politica (1914) anche sulla nostra città, essenzialmente tradottasi nella paralizzante dialettica tra interventisti e non, tra fautori dell’uno o dell’altro schieramento. Quel che occorse dal Nord al Sud della penisola, in ambito civile, economico, industriale, amministrativo con ogni riflesso sull’ordine pubblico, la alimentazione, la riconversione militare della grande macchina metal-meccanica, e più intimamente sulle famiglie, sulle donne, improvvisamente chiamate ad un ruolo muovo nella società, è stato analizzato con felice scelta di temi e si esempi da parte di un qualificato drappello di studiosi da Giulio Cianferotti, su tutti che hanno riferito sulla salute e sulla sanità. A Siena dovettero essere escogitate molteplici improvvisazioni e soluzioni anche attraverso la mobilitazione di ogni possibile professionalità e di un grande potenziale assistenziale, col prevalente ricorso al volontariato. Mi è parso assolutamente interessante il ricordo delle “pubblicazioni” (Mineccia) relative alle precauzioni igieniche e sanitarie da adottare al fronte e all’interno: una collana preziosa diretta dal sommo patologo fiorentino Lustig, che impartì alcune direttive molto elementari per scongiurare epidemie come la malaria e il colera. Ma quando il colera esplose, non restò al grande Lustig che la nomea di menagramo. Nel quadro è inserito lo studio del disagio mentale dei soldati e dei civili in un manicomio periferico, quello di Teramo (Valeriani).

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appassionato, generoso, spesso eroico, tanto da costituirsi drammatico ma innegabile punto di partenza per il progresso medico, nel duplice ambito diagnostico e terapeutico. È comunque essenziale e doveroso, prima di trattare le vicende affrontate dalla nostra comunità, brevemente considerare il quadro generale di una situazione assurda e assolutamente disperata e di una impreparazione paralizzante, ben più vistosa che in altri paesi europei, ben più desolante rispetto alle iniziative, altrove, in Europa, adottate.

I) La guerra stava per detonare; ma fino all’inizio del 1915 il governo d’Italia e una politica squinternata indugiavano intorno alle stesse storiche decisioni da prendere sul se e contro chi scatenare la Nazione, senza preoccuparsi degli inusitati compiti non solo militari in senso stretto, ma anche di sostanza civile, sociale, ed etico-sanitaria in particolare, che avrebbero fatalmente coinvolto tutti gli italiani dalla fascia alpina ai più distanti lembi mediterranei.

Ben poco si intuivano e si prevedevano d’altronde, le stesse tradizionali conseguenze di un lungo e sanguinoso conflitto di posizione e ancor meno l’impatto logistico che avrebbe squassato una stralunata seconda linea, neppur pensata, che doveva in realtà subire, appena dopo il passaggio in avanti dei «primi fanti» (il 24 maggio), il riflusso e il ritorno continuo dei “colpiti” nel corpo e nello spirito, sopravvissuti al macello della prima linea e più tardi, dopo Caporetto, il biblico esodo dei friulani. Una retrovia andò così formandosi che si estese vieppiù in profondità sino a coinvolgere tutto il territorio nazionale e la gente tutta delle campagne e delle città, chiamata a fornire uomini e a produrre mezzi di sopravvivenza e d’offesa, nell’assoluta ignoranza del catastrofico riflesso di una mobilitazione veramente generale in termini di lavoro, di sussistenza, ma anche di difesa contro i nemici insidiosi della miseria, della fame, delle malattie (direi, soprattutto, delle malattie) sicché la guerra mondiale fu guerra totale, per la prima volta nella storia del mondo.

Nulla la popolazione, largamente analfabeta, sapeva dei modi, dei tempi, delle possibilità stesse di tutela sanitaria collettiva e personale a partire dai soldati impegnati in battaglia e sul pesante fardello della loro dolente inabilità, una volta superata la fase acuta del vulnus fisico, oltre che psichico. Ai disagi d’ogni genere, si sovrappose il dilagante tsunami delle patologie infettive che, partendo dal fronte, travolgeva la popolazione insieme con l’esplosione delle affezioni carenziali: e a questo fenomeno devastante accennerò in conclusione. Si concretizzava così lo spettro di una tipologia di guerra di sterminio, quale trenta anni dopo sarebbe culminata nel massacro atomico.

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Le prime informazioni sanitarie furono diffuse, con la frettolosa distribuzione (più capillare possibile), di opuscoli destinati alle autorità militari e ai civili, cui collaborarono i più insigni patologi del tempo e anche il nostro Achille Sclavo2, pioniere della igiene pubblica, della prevenzione e della lotta contro le infezioni… poche gocce in un allucinante deserto cognitivo. Come difendersi al fronte dalla lesività del fuoco nemico e contemporaneamente dalle infezioni, dalle intemperie, dagli agenti chimici utilizzati ben presto sul Carso? Come realizzare il recupero e l’assistenza dei feriti (e se ne contavano fin da subito decine di migliaia ogni mese, fino a raggiungere il milione a fine guerra)? Come contenere le normali patologie, peraltro accentuate nel Paese dalla tragica carenza alimentare, e garantire un efficace intervento globale e umanitario, nel quadro della desolante imprevidenza? Si creavano al fronte, i presupposti di quell’ineluttabile selezione che la bioetica ha poi raccontato come equa distribuzione delle risorse? Quasi mezzo secolo dopo, questa triste scansione di “precedenze“ si sarebbe chiamata triage, ma paradossalmente fu intesa allora in senso inversamente proporzionale alla drammaticità clinica. Una sorta di codice bianco voleva dire rapida medicazione sul posto di combattimento da parte degli infermieri; di codice verde consigliava lo spostamento negli ospedali da campo e, poi, nei centri anche lontani di cura; di codice rosso voleva dire solo accesso al conforto in trincea in attesa della morte, per non pensare a di chi restava a morire sui reticolati. Ma gli ospedali da campo

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erano e restarono ben pochi (appena duecento all’inizio). Nel giugno 1915 l’esercito disponeva di 24.000 posti letto al fronte e di un

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Achille Sclavo, piemontese di nascita e di formazione, fu a Siena dal 1893 come professore di Igiene e dal 1898 come Direttore della Cattedra e dell’Istituto di ricerca, ove si dedicò con successo alla sieroterapia del carbonchio ematico. Da qui alla realizzazione dell’Istituto Sieroterapico e Vaccinogeno Toscano, le imprese di Sclavo si imposero al livello nazionale ed europeo. Nel 1915 il Maestro senese fu chiamato a dirigere la Scuola di Sanità militare ove fu formato personale tecnico esperto in batterilogia e profilassi antitubercolare. Il Ministro della Guerra gli conferì pieni poteri. Dopo la guerra, Ricerca e Università (di cui fu Rettore) restarono i suoi obiettivi di grande studioso e di straordinario operatore.

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«Nessuno sa cosa significa trasportare un ferito al posto di medicazione» (così Eugenio Baroni soldato: lettere di guerra raccolte da Enzo Boccardi in Cortina d’Ampezzo 191517: La Grande Guerra sulle montagne di Cortina d’Ampezzo, edito dal Comitato Cengia Martini - Lagazuoi, Cortina, 2014). «La frana che continua, uno che cade e rotola e ritorna alle stringhe della barella o alle gambe del martire, l’altro che da tutto il peso è gravato e par che scoppi dallo sforzo ma non molla, i piedi puntato fora la pietra appena caduta che si spostano. Il ferito maciullato che non si lamenta…»

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migliaio di medici, rispettivamente elevato a 100.000 e 17.000 nel 1918. Dovettero essere supplettivamente coinvolti i vicini nosocomi veneti e lombardi e poi via via quelli del centro-sud: insomma, a seconda delle esigenze, tutte le strutture sanitarie del paese. Chi prestava l’opera di primo e di successivo intervento erano gli infermieri del Corpo di Sanità militare e della CRI, gli ufficiali medici (non più di duemila) e poi i più giovani medici condotti e le crocerossine distribuite negli ospedali di retrovia, e poi gli studenti di medicina richiamati e promossi sul campo, senza la dovuta preparazione, all’inatteso rango di curanti armati anche di fucile (gli aspiranti ufficiali).

Lentamente, la situazione migliorò (si fa per dire) e si affacciarono idee e iniziative positive. Ad esempio, i futuri medici (mandati al fronte operativamente inermi) beneficiarono di un impensabile tirocinio negli ospedali friulani, non lontani ma rapidamente sovraccarichi di pazienti, feriti o ammalati che fossero. Vi si impartivano anche lezioni teoriche e, ovviamente, pratiche in una sorta di università improvvisata (meglio, di facoltà medica), superdotata di casistica, e talvolta animata da illustri docenti volontariamente venuti dagli Atenei italiani: la c.d. università castrense. Una moltitudine di laureandi acquisivano così conoscenze inusitate, competenze e crediti e sostenevano anche gli esami di profitto e persino la laurea presso l’Università di Padova, per tornare prestissimo in trincea. Il prototipo di questa straordinaria catena di montaggio fu l’ospedale di San Giorgio di Nogaro4, mitica oasi di buon senso e di efficienza in un deserto di efferata impotenza, che i medici del dopoguerra ricorderanno per tutta la vita. (La pratica ostetrica, veniva garantita, dal contemporaneo ricovero delle puerpere friulane!)

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San Giorgio di Nogaro (Friuli) è un paese di pianura che nel 1915 aveva 3.000 abitanti, prossimo a Monfalcone, posto sulla strada tra Latisana e Palmanova; era dotato di un buon ospedale realizzato al tempo dell’appartenenza all’Austria. Qui, dopo lo scoppio della guerra, fu istituito un centro universitario che pomposamente fu chiamato “università castrense”, ove gli studenti impegnati al fronte si alternavano per brevi periodi nel seguire le lezioni teorico pratiche tenute da illustri clinici per lo più militarizzati e per apprendere e praticare le cure ai feriti, generalmente gravi, che vi venivano trasportati dopo le battaglie (dell’Isonzo) nonché gli ammalati infettivi. La pratica ospedaliera ne fece dei professionisti tecnicamente ed eticamente esemplari. Il mondo accademico accolse con relativo entusiasmo l’iniziativa; ma l’Università di Padova si fece carico dell’amministrazione e degli esami fino alla laurea. Il gran numero di provenienti dalla zona e di bambini ammalati favorì l’apprendimento anche in campo pediatrico e ostetrico (Rai Storia: documentario trasmesso il 29 maggio 2015, alle 23). San Giorgio di Nogaro veniva ricordata con commozione dai vecchi medici che vi avevano trascorso giorni gloriosi e massacranti (ed io ne ho conosciuti alcuni!).

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E ai feriti si aggiungevano gli ammalati5, per lo più colpiti dall‘infezione delle ferite o dagli effetti caustici degli aggressivi chimici, dai (presto dimenticata) malefizi del colera, soprattutto, che esplose in trincea e fece in un anno più di trentamila morti (già nel 1916); ma anche dalla broncopolmonite (sino alla micidiale e ubiquitaria “spagnola” del 1918), dalla malaria (sei milioni di casi di febbre palustre tra i civili con 10.000 morti fino al 1918), dalle affezioni esantematiche e mentali. Ecco perché dovevano per forza esser smistati, i colpiti, verso le strutture ospedaliere dell’interno già appesantite dall’aumento della incrementata morbosità nella popolazione civile fortemente indebolita. Anche il colera, nonostante le prime vaccinazioni, si diffondeva, partendo dalle lontane trincee della Macedonia: così come le forme polmonari e, in particolare la t.b.c. E si moltiplicavano, giorno dopo giorno, gli impegni da fronteggiare connotati d’emergenza, in senso quantitativo e qualitativo. Anche a Siena, naturalmente, gli ospedali e i presidi medici, in buona misura anche maestosamente antiquati ma validi, tanto per le malattie mentali quanto per quelle fisiche, si mostrarono ben presto assai provvidi anche se insufficienti. Erano santuari da tempo emersi in una piccola meravigliosa città, connotata da enormi disparità sociali, economiche e certamente insalubre nei quartieri più degradati sui quali incombeva la t.b.c., e cui connaturate erano le insufficienze di cibo e di sole con le conseguenti patologie carenziali: dal rachitismo alla denutrizione, affrontate con la rassegnata disperazione della quale Federigo Tozzi

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dolorosamente narrava le derive depressive e persino suicidiarie. La presenza, a Siena, in quella che si chiamò Piazza d’Armi, dell’ospedale Territoriale della CRI (sin dall’inizio del secolo) garantiva un validissimo presidio, già straordinaria al tempo della guerra di Libia.

L’impianto sanitario preesisteva anche in senso qualitativo e assistenziale, per le sorprendenti compresenze di una storica Facoltà universitaria, di Con-

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I dati sui soldati italiani ricoverati per malattia sono impressionanti: oltre un milione nel 1917; quasi un milione e mezzo nel 1918. Il fronte di guerra e quello interno erano colpiti in maniera sconvolgente dalla malaria, dal colera, dalla t.b.c., dalla difterite, dalle malattie esantematiche e, infine dalla malaria e dalla spagnola, malattie tutte concausate da problemi di alimentazione, dai ritmi massacranti di lavoro, dall’indebolimento della struttura civile (cfr. M. ISNENGHI, G. ROCHAT, La grande guerra 1914-1918, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 213 e ss.). I morti per malattie infettive furono oltre 100.000 (sui 600.000 caduti). Solo nell’inverno 1915-1916 si procedette alla vaccinazione delle truppe contro il colera e il tifo.

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Il grande narratore senese operò negli anni di guerra come “impiegato” della Croce Rossa Italiana ed a Siena e a Roma molto attivo.

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Guardaroba dell’Ospedale della Croce Rossa in Piazza d’Armi, circa 1915.

fraternite e Associazioni su base volontaristica, della Croce Rossa e di una rete capillare di mutuo soccorso animato, dalle Società operaie e di Contrada, e soprattutto dalle realtà ospitaliere come l’Ospedale Psichiatrico e l’Istituto “Pendola” per il recupero dei sordomuti, gli Ospizi per i vecchi e i disabili. Ne derivava una “potenzialità” anche edilizia, che la “guerra” avrebbe fatalmente riscoperto, requisito, valorizzato. Pur nelle asprezze della lotta di classe, il solidarismo socialista e l’assistenzialismo cattolico davano buoni frutti, come più oltre verrà esposto.

II) È compito arduo, anche per la dispersione delle memorie, consegnate più che agli archivi sanitari alle sparute testimonianze sin qui raccolte e pubblicate, ricostruire in dettaglio le reazioni e poi le iniziative della città di Siena e delle sue storiche e giustamente celebrate istituzioni d’ospitalità, beneficienza, assistenza e cura (primi, fra tutte, gli Ospedali Riuniti di Santa Maria della Scala) per far fronte, a partire dal 1915 e fin oltre il 1918, alla imprevista e imponente emergenza sanitaria ben più rilevante, per le ragioni già esposte, di quanto potesse immaginarsi, prodotta come fu, in buona misura,

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dall’assenza di una fascia di contenimento attrezzato che subito alimentò, un vero e proprio bacino interno. E la Toscana tutta divenne anch’essa un’autentica retrovia, direttamente coinvolta nella organizzazione nazionale dell’emergenza. La strategia militare, pervicacemente ideata in senso tatticamente offensivo, rapidamente riprodusse un vero e proprio stato di assedio della e nella comunità tutta, rinserrata nel caos, nel dolore, nell’orrore come ai tempi dell’antico strangolamento delle città murate.

Il coinvolgimento della nostra città

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nella sofferenza e nella lotta per sopravvivere dei soldati interessò ben presto la popolazione meno abbiente, colpita dal rapido precipitare della qualità – già non eccellente – della vita (anche in termini di alimentazione, di igiene e di benessere fisico e psichico); rese vieppiù complessa la inedita mobilitazione sanitaria, in primo luogo diretta ad accogliere le vittime del conflitto mediante la moltiplicazione di strutture, mezzi e personale. La più efficace risposta sanitaria fu garantita e gestita dall’Ospedale di Piazza del Duomo e si distinse per la collaborazione universitaria della Facoltà medica, titolare allora di tutte le cliniche generali e speciali8. I medici dell’Ateneo si distinsero «per alta volontà e ammirevole spirito di abnegazione … durante tutto il periodo della guerra», svolgendo la massima parte dell’assistenza nosocomiale, secondo una convenzione destinata a restare in vigore sino alla fine degli anni ’70. L’impegno ospedaliero per i nuovi utenti, i militari feriti e ammalati, fu chiaramente documentata, dopo la fine del conflitto, dall’avvocato Sallustio Pacciani, segretario storico dei R.R. Ospedali riuniti, nella sua relazione al Consiglio direttivo, pronunciata il 26 luglio 1919 su L’attività dello spedale policlinico nel periodo bellico9. Vi è puntualmente sottolineata la autentica leadership assunta dal clinico chirurgo professor Vittorio Remedi, di cui sarà più oltre ampiamente riferito, richiamato col grado di “maggior generale”, e coadiuvato dai colleghi come

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Cfr. il bellissimo “taccuino” di Giuliano Catoni, Siena e la grande guerra, pubblicato dalla Università popolare senese, Betti editore, 2014. Sulle condizioni igienico-sanitarie e, in genere, sulla vita durante la grande guerra cfr. L. LUCHINI, Siena dei nonni, 1993.

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Tale situazione doveva perdurare fino al 1970, allorché fu attuata la riforma ospedaliera che esigeva reparti piccoli e specializzazioni multiple, cui furono destinati primari e assistenti dipendenti delle istituzioni ospedaliere e poi delle U.S.L. Solo la Radiologia e la Direzione sanitaria erano state garantite dall’Ente ospedaliero (la nuova Convenzione tra Università e Regione fu stipulata dal Rettore M. Barni e dal Presidente V. Meoni).

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S. PACCIANI, L’attività dello spedale policlinico nel periodo bellico, Siena, Tipografia cooperativa, 1919.

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il neurologo Onofrio Fragnito, che sarà poi Rettore dell’Università, dall’oculista Amilcare Bietti

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e da altri ancora: una leadership illuminata da amor di patria e trainante per tutto il personale. Provvidamente vi partecipò la Croce Rossa Italiana, civile e militare, dotata del ricordato presidio ospedaliero, per l’epoca eccellente, di Piazza d’Armi. In proposito ci dice tutto la documentazione raccolta da Marcello Cinotti nel suo personale archivio. Della Croce Rossa è giusto subito rammentare una eroica volontaria: la crocerossina Elena Riccomanni11, medaglia d’argento, alla memoria, che morì sul fronte giuliano ove prestava servizio presso l’Ospedale militare di Udine.

Naturalmente il caso senese va sempre considerato nel generale ambito della situazione nazionale. Stimano infatti Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, nella loro straordinaria opera12, in oltre 500.000 il numero dei feriti e in più di 100.000 quello dei malati tradotti dalla linea del fuoco nei centri interni di cura

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Amilcare Bietti, clinico insigne e di fama internazionale è il fondatore di una Scuola di altissimo livello, successivamente onorata da docenti come Alberto Bencini e Renato Frezzotti.

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G. CATONI, Siena e la grande guerra, nota 6. M. ISNENGHI e G. ROCHAT, La grande guerra 1914-1918, cit. Gli ospedali da campo si prodigavano per strappare dalla morte decine di migliaia di colpiti, non solo dalle armi convenzionali ma anche dalla fame e poi dall’odissea del trasferimento dal campo di battaglia. La burocrazia sanitaria militare aveva ragionato, d’altronde, in base al criterio esclusivo della “gravità delle ferite” e si trovò pressoché inerme di fronte alle nuove eziologie, come quella chimica (il fosgene, sull’Isonzo) e quella clinica delle epidemie dilaganti su tutti i teatri bellici. Ben poca prevenzione poteva in loco farsi (a parte la vaccinazione contro il tifo e il colera attuata anch’essa sul fronte dell’Isonzo), sicché, ad esempio, il diffondersi della malaria fu drammaticamente devastante tanto per i combattenti quanto per la popolazione civile, mentre furono ben due milioni di ammalati per malattie infettive, durante tutto il conflitto. Negli ultimi due anni, si scatenò infine la leggendaria “spagnola” che dalla Sicilia al Piave fece seicentomila morti e il cui diffondersi fu facilitato dalle conseguenze del conflitto, in termini di denutrizione, di iperlavoro nelle fabbriche e nei campi, di sovraccarico delle strutture, anche a Siena, aggravato dallo spostamento al fronte dei medici condotti, come mi raccontava (nelle veglie castellinesi) un mio già anziano e infaticabile nonno, Diodato Lardori, che si prodigò in tutto il Chianti. Ed era stato, da fervente socialista, un militante deciso contro l’intervento! Per di più vigeva ancora la sciagurata legge sull’isolamento nei lazzaretti, valida anche per i militari colpiti da patologie infettive e diffusive.

Prevalentemente tra le truppe (in particolare per la malvagia pertinacia offensiva di Cadorna sull’Isonzo e poi per la caotica “fuga” da Caporetto) esplosero le nevrosi provocate dal turbine di battaglie inutili e perdenti, le cosidette nevrosi da trincea, così si diceva,

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Infermeria del reparto chirurgico dell’Ospedale della Croce Rossa in Piazza d’Armi, circa 1915.

Infermeria del reparto medico dell’Ospedale della Croce Rossa in Piazza d’Armi, circa 1915.

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Il cataclisma fu dunque affrontato a Siena con molta buona volontà, mediante improvvisati ma saggi provvedimenti e fattivi comportamenti pubblici e privati che compensarono la incertezza delle direttive emanate dal fantomatico Comando ospedaliero di Sanità militare con sede in Livorno. Laboriosissime furono la ricerca e la attrezzatura dei necessari posti-letto e di “nuovi” luoghi di degenza. In un primo tempo furono messi a disposizione, all’interno del Santa Maria della Scala, un centinaio di letti delle cliniche universitarie che formarono il primo nucleo ricettivo. Ne soffrì incredibilmente anche la sala del Pellegrinaio, con il suo florilegio pittorico dedicato alla “accoglienza di Siena”, trasformato come fu in corsia, con gravi danni persino agli affreschi. Essenziale e dispendiosa fu la messa a punto degli impianti di riscaldamento ed idroelettrici, in ambienti che ne erano quasi del tutto sprovvisti. Nacque così una vera e propria sezione ospedaliera militare cittadina, necessariamente resa pluricentrica, con la requisizione di impropri ambienti nelle innumeri residenze assistenziali e scolari: dalla scuola-convitto di Maria Maddalena (ai Tufi), al Brefotrofio, al nuovo Istituto Pendola per Sordomuti, al Convitto delle Antigianelle di Santa Teresa e, successivamente, al Convitto Tolomei

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al Campansi, e così si arrivò a disporre, ben considerando anche l’Ospedale della CRI, di oltre settecento letti per i militari; praticamente al raddoppio delle preesistenti potenzialità di ricovero; ma l’epidemia di spagnola vanificò più tardi molti sforzi, provocando anche l’aumento della utenza “civile”. «I locali reperiti furono – per di più – trovati in istato deplorevole» e l’Amministrazione ospedaliera, con l’ausilio della (allora operosa) Società Esecutori di pie Disposizioni dovette pensare a tutto: dalla ripulitura e imbiancatura generale, alla messa a punto dell’impiantistica anche igienica. La stupefacente «creazione di un reparto meccano-terapico per la cura e la riabilitazione dei mutilati» e la parallela entrata in funzione (1916), al Santa Maria della Scala, di un provvido gabinetto radiologico, gestito dal popolarissimo professor Adelchi Salotti, furono autentiche conquiste.

che provocavano allucinazione, mutismo, perdita di controllo degli arti, confusione mentale, “insubordinazione” e altre due piaghe, spesso assimilate al tradimento e relegate in ambito criminologico e medico-legale (e come resistette al tempo il relativo capitolo nei testi della mia disciplina universitaria!): la simulazione cioè e l’autolesionismo, curati con il ricovero in manicomio militare e criminale e non eccezionalmente con la fucilazione.

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Contrariamente a quanto occorse nell’ultima guerra, fu allora trasferito, in Palazzo Buonsignori anche il Liceo Ginnasio, ma per breve periodo; al Tolomei prestarono servizio i medici in convalescenza rimasti feriti al fronte.

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Nel quinquennio bellico più di un terzo dei ricoverati (2407 su un totale di 6871) furono militari arrivati dal fronte che complessivamente ascesero, durante tutta la guerra a ben 7858, tra soldati e ufficiali, in transito nei reparti dell’ingigantito sistema ospedaliero senese.

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Da questi pochi cenni e dati, si trae dunque conferma dell’opera veramente efficace dalla Amministrazione ospedaliera, presieduta da Alfredo Bruchi, Provveditore e poi Presidente leggendario del Monte dei Paschi e coadiuvato dal professor Achille Sclavo e dal Conte Guido Chigi Saracini, reduce dal Veneto, ove aveva prestato servizio nella CRI, nonché da Remigio Bartalini e dal Direttore sanitario Pilade Bandini. La loro esemplare volontà, unita all’umiltà, ci fa dire che non mancavano allora uomini prestigiosi e impegnati per la comunità.

Il parallelo ruolo del Manicomio di San Niccolò in Siena durante il conflitto fu rilevantissimo: e quest’impegno merita un particolare ricordo. Ne dette conto l’alienista primario Virgilio Grassi

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in un’ampia e documentata relazione, che il Direttore, il notissimo professor D’Ormea, qualificò come contributo prezioso per la conoscenza dell’andamento a Siena della pazzia nell’esercito17. Quel che più stava a cuore al relatore era il fatto che, in buona sostanza, non si ebbe «nessun aumento nella ospedalizzazione - manicomiale della popolazione civile durante il periodo bellico, ma anzi lo scemare di essa progressivamente». Questo fenomeno, secondo la discutibile opinione del Grassi, «contraddiceva a tutti i timori della maggiore morbilità del sistema nervoso» che avrebbe dovuto accompagnare e seguire le privazioni, le ansie e gli strapazzi fisici e morali di ogni genere dovuti al conflitto immane, non solo per i combattenti ma anche per gli altri»; e meritava pertanto di essere particolarmente considerato e studiato.

Con ogni probabilità a determinare questo fenomeno che appariva allora ben strano (ma non lo era) concorrevano altre cause d’indole sociologica. Da

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Anche ai convalescenti si pensò, grazie alla generosità di Guido Chigi Saracini, che mise a disposizione la villa e il parco di Castelnuovo Berardenga, mentre la CRI, utilizzava all’uopo la succursale ospedaliera di Villa Suvera.

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Giuliano Catoni con Paolo Leoncini, gli ha dedicato un bel contributo: Un talento contradaiolo: Virgilio Grassi: 1861-1950 (Ed. Fondazione MPS, 2012), non solo esaltando la sua straordinaria dedizione a Siena e alla Contrada del Leocorno, le sue doti di storico attento del Palio e delle glorie cittadine ma lumeggiando un campo d’azione sanitaria professionalmente coltivato per tutta la vita e anche poco noto ai concittadini. 17 V. GRASSI, Relazione statistico-clinica del manicomio di S. Niccolò in Siena, per il quadriennio 1916-1919, in Rassegna di Studi Psichiatrici, vol. IX, fascicolo VI, 1920.

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un lato infatti le famiglie operaie e contadine – aiutate dagli assegni di guerra e quindi meglio protette in guerra – non sentirono più il bisogno di rinchiudere – come si soleva – molti giovani tranquillotti o troppo vivaci che prima rappresentavano un peso intollerabile per il magro bilancio domestico e ora dovevano rimpiazzare i richiamati. Dall’altro lato l’Amministrazione provinciale, di fronte all’enorme aumento delle rette manicomiali, favoriva in ogni modo l’esodo e il non ricovero degli irregolari psichici in manicomio, sia con larghi sussidi specifici per l’assistenza famigliare anche con l’invio dei meno pericolosi a semplici istituti di mendicità o simili, nei quali il costo di degenza era notevolmente minore. Il beneficio di una presunta diminuzione della pazzia «si traduceva invece nel danno di una più trascurata cura di essa, con un deplorevole ritorno all’antico e con quanto vantaggio della eugenica (sic!) è facile immaginare».

Gli «alienati militari» (come li definiva il Grassi), ricoverati durante tutto il periodo di guerra, furono 809 mentre è imprecisato il numero dei morti. La maggior parte di loro «resultò affetta da forme ciclotimiche e amenziali, molti anche da demenze precoci (sebbene sulla diagnosi di demenza precoce già si facessero le dovute riserve), da epilessia e da difetti intellettuali. La maggior parte degli ospitalizzati fu trattenuta in manicomio da due a cinque mesi e molti ne uscirono guariti per ritornare al Corpo cui appartenevano, o migliorati e congedati dopo essere stati riformati dal servizio militare. I non migliorati, ovviamente riformati per deficit mentale, vennero trasferiti ai manicomi della Provincia cui appartenevano. Non mancarono casi di simulazione e altri che non presentavano una vera e propria alienazione mentale: di costoro alcuni furono restituiti ai Corpi cui appartenevano, altri, sottoposti per lo più a procedimenti giudiziari, passarono a luoghi di reclusione e di pena… Malgrado tutto, il servizio si svolse con sufficiente regolarità e non avvennero gravi inconvenienti dalla contemporanea presenza giornaliera anche di almeno 250 militari, verificatasi nel settembre 1917». Vi fu qualche caso di evasione e di suicidio; ma purtroppo non pochi “matti” evasi dal fronte, erano stati trattati come simulatori, non eccezionalmente condannati a morte e fucilati sul posto.

Ebbene, questa documentazione mi pare particolarmente suggestiva e, nelle considerazioni del Grassi, fortemente ammonitrice. Il San Niccolò, che già negli anni della guerra ospitava malati mentali provenienti anche da altre Province della Toscana e del Lazio fino ad annoverarne qualche migliaio di degenze contemporanee fino agli anni ’70 del secolo scorso, era talvolta il reclusorio di persone “diverse” e quindi sgradite, allontanate dalla fami-

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glia, dalla società per motivi economici (o peggio) anche senza una reale necessità di isolamento e di “cure” coattive. Si dovevano attendere gli anni ’60-’70 per la specifica evoluzione della psichiatria e la chiusura progressiva dei manicomi.

Mi piace a questo punto sintetizzare qualche breve considerazione di fondo: la prima delle quali riguardante il decisivo ruolo sanitario della Facoltà medica dell’Università nella grande emergenza bellica senese che ne illumina un passato da non dimenticare nonché quello fondamentale del Comune guidato dal Sindaco Nello Pannocchieschi d’Elci che tra l’altro abolì, in pratica, il triste manzoniano lazzaretto di Porta Laterina, ivi realizzando un piccolo ospedaletto seminuovo, per i malati infettivi e contagiosi (aggirando così le incredibili leggi di polizia). Le istituzioni aprirono poi le porte e il cuore agli sfrattati dal Veneto, dopo Caporetto, consentendo tra l’altro il ricovero di 883 di questi autentici pellegrini, in una città, memore di antiche vocazioni.

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Non ho trovato alcun specifico riferimento, se non del tutto generico, alla condizione igienico-sanitaria della cittadinanza, che, già precaria, ebbe nel quadriennio bellico un drammatico peggioramento. Purtroppo già infierivano, come è stato accennato e come verrà più avanti sottolineato, la tbc, le malattie infettive, diffusive e reumatiche e, infine, la “spagnola”, oltre al rachitismo pressoché endemico. Fortunatamente, arrivava a Siena l’acquedotto del Vivo!

D’altronde, i medici operanti nel territorio non erano molti e buona parte della popolazione iscritta negli elenchi comunali dei poveri poteva contare su appena tre medici condotti del centro storico (uno per ogni terzo) e su altri tre per le Masse (le condotte mediche di Costalpino, di Monteliscai-Stellino, di Valli-Coroncina). I benestanti provvedevano con i propri mezzi, chiamando, per le visite domiciliari, i non molti medici liberi e persino i grandi clinici,non sottoposti al regime del tempo pieno, e disponibili presso i loro ambulatori o nelle esigue cliniche private.

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È doveroso tuttavia far presente come il caos assistenziale e organizzativo dei primi mesi del primo conflitto mondiale non si ripeté nel 1940, allorché ancor prima della sciagurata dichiarazione di guerra, fu garantita, per la informata e partecipata, ancorché raggelante preveggenza di G.A. Chiurco, capo storico del fascismo senese, la utilizzazione di grandi contenitori dall’Orfanotrofio S. Marco e di tutti il Collegio Tommaso Pendola per sordomuti, che nell’autunno 1940 erano già attrezzati a ricevere i soldati feriti, ammalati, congelati sui monti della Grecia. Ma in proposito ogni commento sarebbe superfluo!

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III) Il quadro “sanitario” generale risultava aggravato dunque, sotto il profilo psicologico-collettivo, dal sentimento di insofferenza (più volte segnalato dal Prefetto Ildebrando Merli)

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e dal malessere indotto dalla grave situazione alimentare. Non può tuttavia negarsi il fatto che anche il “prevalente” fronte pacifista si unì ai fautori del grande impegno assistenziale, ai quali, cittadini singoli, istituzioni, enti mi piace dedicare questo paragrafo, in modo assolutamente indicativo e non certo esaustivo.

Era stato preventivamente costituito, un Comitato femminile per la Patria che elesse alla sua guida Bianca Bindi Sergardi (14 marzo 1914). Fecero seguito spontanei “aggregati” di predisposizione alla assistenza e al conforto economico, come il Comitato senese per la preparazione civile in caso di guerra, sotto il prevalente impulso di medici illustri come il chirurgo Vittorio Remedi e il dermatologo Domenico Barduzzi, esponenti dell’Associazione di Pubblica Assistenza, (operante dal 1883), di Virgilio Grassi, appartenente alla storica Arciconfraternita della Misericordia, che oltre al diretto contributo, assistenziale indirizzarono le iniziative promosse dal Comune, dal Monte dei Paschi, dalle Società degli Esecutori di Pie Disposizioni, dalle Società di mutuo soccorso, tra le quali erano ancor vivacchianti quelle di emanazione contradaiola. Comunque (come osserva Orlandini) «la mobilitazione assistenziale fu sostenuta dalla vecchia élite aristocratica e da esponenti della borghesia delle professioni: fenomeno diretto a recuperare, confermare e consolidare spazio e ruolo a una classe sociale che si rivelò dominante nelle organizzazioni umanitarie di matrice cattolica e religiosa».

D’altra parte s’imponeva grande senso di responsabilità, oltre che ardore patriottico, in un clima drammaticamente intriso di lutto e di preoccupazione. Dal luglio 1915 si cominciò infatti a percepire concretamente e direttamente che «combattere significava morire». Giungevano incessantemente le notizie sul numero dei caduti al livello provinciale: «706 morti nel 1915, 1016 nel 1916, 991 nel 1917, 580 nel 1918» con circa il 20% di senesi del capoluogo. Sul fronte interno locale, si sopperì alla meglio per affrontare il freddo e la denutrizione e, in ambito strettamente sanitario «l’Ordine dei Medici si mobilitò promuovendo e diffondendo opuscoli rassicurativi anche se, talvolta, insensatamente ottimistici: una sottovalutazione tragicamente smentita verso la fine del conflitto dalla esplosione della “spagnola”, favorita, come

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A. ORLANDINI, in Centodieci e lode: l’associazione di pubblica assistenza dal 1893 al 2003, Edizione P.A., Siena, 2014, p. 69 (amplissima la bibliografia).

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verrà ancor detto, dall’indebolimento delle difese immunitarie: “aggiungi lutti a lutti”». Il Bollettino Sanitario mensile (1918) dell’Ordine Provinciale valutava addirittura in 1070 casi nel solo settembre 1918, in 12935 nell’ottobre, dei quali 1935 nel Comune di Siena: e i morti superavano il 10% dei colpiti

20:

669 in tutta la provincia.

Durante la guerra, l’Arciconfraternita di Misericordia21 , di ispirazione cattolica, potenziò la sua attività di trasporto dei feriti e cedette alcuni locali dell’Asilo dei vecchi impotenti per accogliere i militari ammalati e feriti. Le sue brigate si recavano alla stazione ferroviaria, ove i malati giungevano con i treni-ospedale. Al trasporto contribuivano anche i “Giovani esploratori” di Don Orlandi (il grande animatore del centro giovanile del Costone). È senz’altro da segnalare la continua cooperazione della Misericordia con la CRI, alla quale l’Arciconfraternita, già dal tempo della guerra italo-turca, aveva consentito di disporre dell’automobile e di alcuni carri-lettiga per il trasporto dei feriti arrivati dal fronte. Non a caso la CRI premiava, il 28 agosto 1918, come vedremo, «la Confraternita per le sue benemerenze». Anche la Croce Rossa americana ne onorava i meriti. «Numerose furono le elargizioni dell’Opera pia durante la guerra per sostenere i Comitati sorti per fronteggiare le conseguenze belliche». Il Ministro della Guerra segnalò la Misericordia di Siena per l’opera svolta e per il costoso rifornimento della benzina e la manutenzione dell’automobile usata per trasportare i militari. Infine, durante il conflitto, l’Arciconfranternita seppellì gratuitamente “a titolo d’onoranza” le salme dei militari morti a Siena.

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Anche in questo contesto associativo si distinse per l’intelligente abnegazione il dottor Virgilio Grassi dell’Ospedale Psichiatrico San Niccolò, cittadino e contradaiolo di grande prestigio che fu, nei primi decenni del secolo amministratore, a vario titolo, della Misericordia23, cui conferì efficienza e

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La bibliografia raccolta in proposito da Orlandini comprende, tra l’altro, il contributo di Simonetta Soldani, La grande guerra lontano dal fronte, in G. MARI, La Toscana, Torino 1896, p. 382. 21 Relativamente alle vittime di guerra, cfr. M. NOTARI OLIVOTTI, Luce di scomparsi, Siena, 1923, Vol. I e II disponibili presso la biblioteca comunale di Siena. È un’opera che ricorda quasi tutti i caduti senesi, con commossa trepidazione. 22 Cito C., L’Arciconfraternita della Misericordia dagli inizi del secolo al secondo conflitto mondiale in La Misericordia di Siena attraverso i secoli, a cura di M. Ascheri, P. Torrini, Protagon, Siena 2004, p. 426. 23 R. BARGAGLI e LEONCINI, Figura del Novecento, Virgilio Grassi, in La Misericordia di Siena attraverso i secoli, cit.

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autonomia, collaborando con impegno e persino scontrandosi a fin di bene con personalità come il conte Guido Chigi Saracini24, che, dopo l’esperienza diretta nel conflitto, fu presente in ogni iniziativa di solidarietà. «In concomitanza con la grande guerra ci furono per il Grassi diversi anni di intenso lavoro… L’impegno più forte fu quello per l’acquisto di un’ambulanza, di cui la città e la provincia erano sprovviste». E anche in quell’occasione scoppiò una violenta polemica tra amministratori nel più inveterato “stile senese”. Ma poi «l’ambulanza arrivò mandando in pensione una antiquata e mal ridotta autolettiga».

L’Associazione di Pubblica Assistenza, dal canto suo, si distinse onorevolmente nelle immediatezze del conflitto, anche per il fatto che la maggior parte dei soci «era a favore» dell’intervento e, nello stesso Consiglio Direttivo, le posizioni neutraliste erano in netta minoranza, ma consone nello scetticismo della ampia base popolare. Ne scaturì la già ricordata costituzione (22 febbraio 1915) del Comitato femminile formato da un florilegio di benestanti signore e signorine decise a valorizzare le donne «per essere utili all’Italia, per promuovere la beneficienza a favore della famiglie dei combattenti, per sostenere i soldati feriti, e più direttamente prepararle a sostituire gli uomini, chiamati quasi tutti alle armi, negli impieghi civili, nel commercio, nelle scuole, nelle attività sociali». Il 14 marzo 1914 sempre per iniziativa della Pubblica Assistenza, l‘infaticabile professor Remedi aveva costituito, con il professor Domenico Barduzzi, una commissione e poi un comitato per la preparazione civile, cui la Associazione dette ufficiale adesione. Grande e generoso fu lo sforzo per la raccolta dei fondi, anche con la realizzazione di manifestazioni pubbliche come la Festa del Tricolore. E negli anni successivi fu dedicato forte impegno per aiutare i soldati al fronte e prigionieri. Anche la Pubblica Assistenza si prodigò per il trasporto dei feriti e con questo spirito, la porta del Ricovero di Campansi si aprì, già nel luglio 1915 per 100 profughi da Gradisca d’Isonzo, la cittadina della Venezia Giulia, teatro della prima guerra mondiale. Altri 100 furono i soldati ammalati, assistiti nel periodo del conflitto con esclusione di quelli bisognosi d’interventi chirurgici.

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Il formidabile Diario di guerra di Guido Chigi, riscoperto da Marco Baglioni, riordinato da Giuliano Catoni, edito dalla Fondazione MPS (2015, Alla guerra in automobile); è stato premiato nel 2014 e ammesso alla collezione dei Diari di Pieve S. Stefano (AR).

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G. CATONI, Il Campansi, ed. Cantagalli, Siena, 2014. Alla pag. 50 di quest’opera il Catoni offre un profilo esaustivo della figura di Domenico Barduzzi (1847-1939); preside e Rettore dell’Ateneo senese per complessivi 16 anni, dermatologo illustre, Presidente del-

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La vicenda della sanità senese durante il primo conflitto mondiale fu indubbiamente personalizzata e guidata, come ho più volte riferito, da un grande senese (1859-1923), il concittadino Vittorio Remedi, che, appena dopo la laurea, si era dedicato alla chirurgia generale ed era divenuto ben presto Aiuto del celebre clinico S.F. Novaro, per poi ascendere alla cattedra universitaria. Come lodevolmente accadeva in quel tempo, il Remedi, dal 1907 al 1914 aveva diretto le cattedre chirurgiche delle Università di Cagliari e di Modena, per essere poi richiamato a Siena, ove si distinse nelle attività didattiche, scientifiche e cliniche, formando una folta schiera di bravissimi allievi. Fu ben presto eletto Preside di Facoltà di Medicina e Chirurgia, in un ruolo che riassumeva ogni impegno non solo universitario ma anche assistenziale, profuso nell’Ospedale di Santa Maria della Scala. La sua dedizione alle attività sociale si era del resto già manifestata negli anni ’90 allorché aveva collaborato alla realizzazione e all‘attività dell’Associazione di Pubblica Assistenza. Nel 1915 col ruolo di consulente chirurgico degli Ospedali militari e della Croce Rossa per le provincie di Siena e di Grosseto e, con il grado di Maggior generale di Sanità della riserva, formò e diresse l’esemplare centro senese di accoglienza e di cura dei feriti e degli affetti da patologie contratte in guerra. E Siena seppe allora realizzarsi, grazie a questo apostolo laico, come una vera e propria città ospedaliera. In una relazione pubblicata nella Rivista ufficiale di Medicina militare26, il Remedi dette conto delle attività, in particolare chirurgica, che personalmente diresse. «L’Amministrazione del Policlinico ridusse ad Ospedale di 300 letti i locali di S.M. Maddalena (R. Scuola normale e Convitto annesso) e questa Sezione Chirurgica, dipendenza della Clinica – egli così scrive: «Ed io affidai al mio aiuto prof. Bolognesi, che mi fu valido collaboratore nella cura dei feriti che vi furono ricoverati. Debbo far notare che, quando erano necessari interventi chirurgici gravi, i feriti venivano trasportati nella clinica»

27 .

l’Accademia dei Fisiocritici e dell’Ordine dei Medici, consigliere comunale, presente in tutte le migliori imprese senesi in pace e in guerra. Fu l’autentico promotore del Comitato “pro aqua“, realizzatore dell’Acquedotto del Vivo che portò finalmente in città la sospirata acqua nel maggio 1914.

26

V. REMEDI, Resoconto dei feriti di guerra avuti in cura nella clinica chirurgica di Siena, Giornale di Medicina Militare, 67, 1-32, 1920.

27

Il quadro riassuntivo che segue da conto del numero dei feriti avuti in cura ed i loro esiti Anno 1915 - Ricoverati 384 - Guariti 344 - Trasferiti ad altri ospedali 38 - Morti 2 ” 1916 - Ricoverati 991 - Guariti 896 - Trasferiti ad altri ospedali 93 - Morti 2

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Al di là della mera statistica, già di per sé assolutamente espressiva, il Remedi mirabilmente descrive le fasi di diagnosi e di cura messe a punto con originale preveggenza e i risultati ottenuti, assunti alla stregua di linee-guida per la cura delle lesioni chirurgiche traumatiche. Il suo contributo ha veramente arricchito la dottrina e la prassi terapeutica in chirurgia, grazie – purtroppo – alla dolorosa esperienza bellica, tramandando nuove direttive salvifiche atte a raggiungere in primo luogo le finalità ideali di: «accrescere la resistenza dell’organismo, onde poter impedire ai microorganismi di svilupparsi e, se sviluppati, renderli al più presto inoffensivi». Su questo teorema si sarebbero in effetti sviluppati l’impegno e il progresso chirurgico veri e propri. In un’epoca, precedente alla scoperta e all’applicazione terapeutica di sempre nuovi farmaci antisettici ognor più sofisticati e alla efficace siero-vaccino-terapia (già peraltro introdotta anche in guerra grazie soprattutto all’opera di Achille Sclavo) e, ovviamente all’era antibiotica, il Remedi ritenne essenziale la conoscenza dei meccanismi cellulari ed umorali della infezione e dei presupposti della difesa antiflogistica e antibatterica, preliminare, fatte salve le urgenze, ad ogni atto chirurgico ed essenziale per garantire l’efficacia del bisturi a contenere la proporzione demolitoria.

Questo criterio seguì allora il Remedi, ponendosi all’avanguardia di una nuova chirurgia non soltanto interverntistica. «Abbiamo sempre limitato le manovre chirurgiche entro i limiti» tracciati dalle misure protettive «tese ad evitare complicazioni gravi di inutile aggressione dei tessuti organici»

28 .

Anno 1917 - Ricoverati 984 - Guariti 886 - Trasferiti ad altri ospedali 94 - Morti 4 ” 1918 - Ricoverati 374 - Guariti 310 - Trasferiti ad altri ospedali 62 - Morti 2

Totale: Ricoverati 2733 - Guariti 2436 - Trasferiti in altri ospedali 287 - Morti 10

I 10 morti sono così divisi: a) per setticemia acuta 5; b) per suppurazione cronica e degenerazione amiloide degli organi interni 1; c) per tubercolosi 1; d) per polmonite da influenza 1; e) per tetano1; f) per lesione della colonna vertebrale e del midollo 1.

28

I risultati ottenuti dalla applicazione esatta dei principi sopra esposti nella cura dei feriti vengono riassunti nel seguente quadro: a) Ferite recenti:

Con infezioni in corso o senza che questa fosse ancora ben limitata localmente: Casi 778 - Guariti 773 - Morti 5

Con suppurazione acuta e quindi con infezione già limitata localmente: Casi 1380 -

Guariti 1380 - Morti 0 b) Ferite con suppurazione cronica:

Casi 571 - Guariti 570 - Morti 1, per degenerazione amiloide degli organi interni.

I cinque casi di morte riguardavano feriti nei quali era già in corso una setticemia acuta, sviluppatasi in quattro, in seguito a frattura comminutiva degli arti (1, arto superiore, 3, arto

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Tra le più efficienti e generose istituzioni vocate alla vicenda assistenziale e sanitaria, va data infine ulteriore menzione alla CRI

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e al Sottocomitato senese, espressivo delle componenti “civili” di questo straordinario sodalizio, che nella sua componente militare affiancava la Sanità in divisa sin dagli anni della guerra di Libia (e ancor prima), avvalendosi del dimenticato Ospedale Territoriale, diretto dal col. Luigi Bordoni (medaglia d’argento al v.m.) e avente sede nel palazzone di Piazza d’Armi che di recente ha ospitato l‘autorità scolastica. Particolarmente e ottimamente descritti da Giuliano Catoni

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sono gli avvenimenti, i meriti, i riconoscimenti, ottenute da donne ed uomini rosso-crociati di Siena e al fronte nello svolgersi di un contributo che si espose anche al sacrificio della vita di malati e volontari. In un capitolo tra i più preziosi, il Catoni, dopo aver particolarmente riferito sui preliminari del conflitto, si diffonde su alcuni episodi come quelli relativi al conte Guido Saracini, alla moglie Bianca Kaschmann e alla loro partecipazione diretta, con la CRI al fronte. Il Conte aveva offerto alla “organizzazione” della CRI fin dal 1961 la sua villa di Castelnuovo Berardenga (e l’annesso parco) «perché ne facesse un ospedale peri feriti convalescenti». La Bianca Kaschmann fu «cooperatrice meravigliosa nella realizzazione di un ricovero di 74 letti completo di ogni singola parte», autentica succursale dell’Ospedale Territoriale di Piazza d’Armi, in quanto dotato anche di un reparto chirurgico». Richiamata all’ospedale di Udine, la sorella Bianca, assisteva alla breve agonia di Elena Riccomanni.

inferiore) con estese lacerazioni muscolari, ed in un caso in seguito a congelazione degli arti inferiori. L’amputazione era stata praticata a distanza dei limiti apparenti dal focolaio infezioso ma non valse a salvare la vita dei feriti. Un solo caso di morte si ebbe a lamentare tra i feriti affetti da suppurazione cronica. Come si può vedere dal primo quadro riassuntivo gli altri quattro morti riguardano un caso di tetano che fu ammesso in clinica con tetano già generalizzato. Si trattava di un ferito della coscia destra con frattura comminuta del femore al terzo medio, lacerazione estesa delle parti molli e ritenzione di corpi estranei, nel quale il tetano si era sviluppato durante il viaggio. In un altro caso la morte fu consecutiva a pielonefrite purulenta sviluppatasi in un ferito paraplegico per ferita da pallottola di fucile della colonna vertebrale: la ferita era già cicatrizzata. In un terzo caso la morte fu dovuta a tubercolosi generalizzata e in un quarto a polmonite da influenza.

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CRI - Comitato di Sezione di Siena: Distribuzione di medaglie e diplomi, 29 maggio 1917, Arti grafiche Lazzeri, 1917.

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Cfr. La Croce Rossa a Siena: dalle origini al secondo dopoguerra, a cura di Fabrizio Stelo, con un saggio storico di Giuliano Catoni (Betti Ed., Siena 2008). Vi sono descritte le provvide raccolte di fondi, la gamma delle celebrazioni, il ruolo dell’ospedale, il concorso delle patronesse e soprattutto delle infermiere diplomate che furono oltre 200.

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Infermeria dell’Ospedale per convalescenti allestito dalla Croce Rossa nella Villa La Suvera messa a disposizione dai Bichi Borghesi a Pievescola, circa 1915.

Intanto, era entrato in funzione anche il convalescenziario presso la Villa Suvera, verso la Montagnola.

In occasione della celebrazione dell’anniversario delle battaglie risorgimentali di Curtatone e Montanara, il 29 maggio 1917, furono conferite onoranze, medaglie e diplomi a benemeriti della CRI, tra i quali Bandini Piccolomini, Bianca Chigi Sergardi, Rosalia e Teresa Sclavo per la loro partecipazione, come infermiere diplomate, in ospedali anche veneti, offrendo testimonianza dell’ardimentoso protagonismo di una élite cittadina dagli storici cognomi nobiliari. Più volte ho avuto modo di dar conto delle straordinarie partecipazioni delle diplomate della CRI, che fin dal 1910 aveva organizzato una scuola triennale per aspiranti crocerossine ed infoltire così la milizia femminile reclutata dall’umana pietà e dal patriottismo. Al corso accelerato del 1915, di cui la CRI affidò la direzione al tenente colonnello Luigi Bordoni, direttore dell’Ospedale Territoriale di Piazza d’Armi, che si avvalse di docenti erano l’infaticabile Vittorio Remedi, Vincenzo Patella e ilo già ricordato dermatologo Domenico Barduzzi31. A questo corso partecipò con grandissima

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L. Andreassi et al., Domenico Barduzzi (1847-1929), Accademia dei Fisiocritici, Siena, 1987.

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dedizione la Donna senese che voglio ancora onorare, eletta a simbolo della nuova sensibilità femminile verso le vicende sociali, spinta sino al sacrificio della vita, Elena Riccomanni, ragazza colta e piena di vita e di amor patrio, che visse per anni a Roma (ove fece parte del Comitato Centrale della CRI), restando sempre legata alla città natale. Nel 1916 già veniva chiamata a far parte dell’equipaggio dei treni-ospedale per il trasporto dei feriti, come capogruppo. Ma il 5 aprile di quell’anno venne assegnata, all’ospedale di campo n. 212; con sede in Valvasone (Udine). Qui si distinse per la cura dei malati “chirurgici” meritando riconoscimenti militari e civili e si prestò ad assistere con eguale abnegazione feriti e malati fatti prigionieri (oltre una settantina), molti dei quali erano affetti da malattie infettive. Nella “dimenticata”, eccezionale pubblicazione, nell’immediato dopoguerra, della Notari Olivetti, Luce di scomparsi, sono riportate alcune lettere spedite dalla Riccomanni ai familiari, dalle quali la crocerossina riferiva del suo incessante e pericoloso lavoro. A un tratto è trasferita dall’ospedale di Udine. Prima della fine la donna scrive un’ultima lettera, piena ancora di speranza e di volontà, nella quale accenna a dolori addominali e dissenteria. Poche ore dopo (5 settembre 1916) Elena muore: non per un bombardamento (a tanti era sopravvissuta nell’ospedale da campo) ma per «febbri reumatiche intestinali», costretta nella cura dei soldati ammalati. Così lei stessa definisce il colera, contratto in ospedale da campo. Accorsero per l’ultimo conforto tante persone care, come Guido Chigi con la moglie ed il maggiore medico professor Andrucci, in rappresentanza della medicina senese32… La successiva onorificenza (medaglia d’argento) non consolò una città duramente colpita.

33

Questi ricordi concludono, mi sembra degnamente, una breve incompleta storia della Sanità a Siena durante la prima guerra e illustrano tra l’altro, una Università che seppe, grazie al Remedi e agli altri Maestri, docenti e studenti, «militarizzati» e non, offrire un contributo di salvezza e di speranza ai feriti

32

M. NOTARI OLIVOTTI, Luce di scomparsi, Siena, Tipografia San Bernardino, 1922 (due volumi con centinaia di ricordi di molti senesi in guerra, ufficiali e soldati, due volumi che fanno riflettere e commuovono).

33

CRI - VIII circoscrizione: commentato da sezione di Siena: Distribuzione di medaglie e diplomi, fatto da S.E. l’On. Roth Sottosegretario alla Pubblica Istruzione, Arti grafiche Lazzeri, Siena 1928.

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con il conforto luminoso della ricerca scientifica e, nel quadro d’una meravigliosa armonia di istituzioni, di associazioni, di volontariato. Si potrebbe, in vista del centenario, ricordare che si pensò e si realizzò a Siena, nel 1917, la Scuola di Lingua e Cultura Italiana per Stranieri: i soldati alleati, in specie americani, che avevano combattuto sul fronte del Piave!

Ma su un tema di grande interesse medico-sociale generale e sociale occorre, per un attimo ancora, consapevolmente soffermarsi: un evento che non fece distinzione alcuna tra militari al fronte e civili a casa, scatenando una guerra nella guerra la epidemia influenzale, nota come “spagnola”, che esplose nell’Europa all’inizio del 1918, mietendo più vittime che lo stesso conflitto bellico. La concorrente e progressiva diffusione della malattia tra i soldati impegnati al fronte e le popolazioni civili realizzò una autentica decimazione del potenziale umano, prodotta non solo dalle degenze e dai decessi, che misero a durissima prova la reazione sanitaria e colpirono la produttività, la resistenza sociale stessa di fronte ad un improvviso flagello. Ma anche dalla paura!

Non fu quella della spagnola né la prima né l’ultima esperienza di infezioni di massa simultanea in trincea e in tutto il paese, dilaganti e veramente “diffusive“ dalle retrovie al fronte e viceversa. Basti pensare alla malaria già endemica nella palustre zona del basso Isonzo, che si accentuò nel 1916 per l’andirivieni continuo dei militari. «Nel 1918 i casi denunciati dall’autorità militare italiana furono oltre centomila: e il contributo più violento a carico del nostro esercito pervenne dal fronte balcanico». Altra malattia, portata dalle reclute provenienti dal sud, fu il tracoma, per non parlare della tubercolosi, con tassi di mortalità pari al 2,09% che giunsero all’apice nel 1918 con 73.944 morti

34 .

«È gravemente lacunosa la ricostruzione» del fenomeno endemico (la spagnola) del 1918, anche se è indubbio che le condizioni sanitarie generali si aggravano già nel 1917, dopo la ritirata, per l’ingente rientro in patria di militari impegnati sui fronti orientali, portatori di ogni sorta di agenti infettivi, che misero nuovamente in crisi anche a Siena il controllo sanitario al livello territoriale»… «Il punto dolente, oltre a riguardare l’ingente massa di militari da assistere, fu l’aggravio sulle condotte mediche, da tempo private, per la leva militare di medici e farmacisti locali idonei al servizio»

35 cui si oppose solo

34

A. LUTRARIO, La tutela dell’Igiene e della Sanità pubblica durante la guerra e dopo la Vittoria, Direzione Generale della Sanità pubblica, Roma 1921.

35 D. MARAFFINO, Quel terribile autunno del 1918, in Medicina positiva, 2010.

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l’abnegazione degli anziani rimasti a difendere la gente stremata in «proficua concordia di intenti con la Sanità militare e la Croce Rossa». Mentre, al fronte, la situazione sul piano militare e morale, nonostante tutto, si riprendeva, sinistramente arrivò la nuova «influenza», la tragedia di un contagio di estensione europea piombata «quasi fulmineamente, dallo Stelvio al mare» e poi rapidamente estesa a tutte le province del Regno, senza dar tempo per orientarsi nemmeno sulla concausalità etiopatogenetica.

«Quella che era già conosciuta come una febbre elevata ma transeunte… cominciò a rivelarsi come una malattia letale». La splendida relazione della Direzione generale di Sanità, si diffonde sui sintomi e sui decorsi clinici e non trascura, oltre alle cifre addirittura impressionanti sulla morbosità e la mortalità, la memoria dello stupore e del terrore dei soldati e dei civili, il senso di impotenza, di fronte allo sterminio di vecchi e bambini, la rabbia di una Sanità e di una Medicina rivelatesi pressoché impotenti.

Ebbene, la narrazione degli storici della Medicina, relative al disorientamento della Sanità ufficiale, offre un allucinante quadro del fenomeno che colpì drammaticamente anche la nostra città e la nostra gente denutrita e provata e tuttavia ancora restia al ricovero e alle norme igieniche. È un dato che fa riflettere quello del triste primato “senese” e del “grossetano” che fecero registrare punte estreme di morbosità! Poche, sono tuttavia le notizie di cronaca nella stampa cittadina, tartassata dalla censura che avrebbero potuto forse offrire una più completa documentazione; ma l’intento che ha ispirato questo racconto è stato solo quello di richiamare una realtà umana, civile e civica, attraverso il ricordo esemplare di coloro che fecero onore alla città e alla patria nostre, col fervore della loro opera di bene nell’orrore di una guerra feroce.

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