La Shoah Guida agli studi e alle interpretazioni

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La Shoah

Guida agli studi e alle interpretazioni

Salvatore Loddo
CCarocci editore

1a edizione, dicembre 2014

© copyright 2014 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Progedit Srl, Bari

Finito di stampare nel dicembre 2014 da ??? isbn 978-88-430-7623-9

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, Ăš vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Introduzione 00

1. Storia della “soluzione finale” e della questione ebraica: 1933-45 00

1.1. Legislazione antisemita e programmi di emigrazione forzata 00

1.2. Il sistema concentrazionario nazista 00

1.3. Dall’“operazione T4” all’“azione Reinhardt” 00

1.4. Auschwitz: compimento della soluzione finale 00

2. Dopo Auschwitz: crisi della coscienza europea 00

2.1. ImpunibilitĂ  della colpa, questione della corresponsabilitĂ  tedesca e zona grigia 00

2.2. Auschwitz e lo scandalo della modernitĂ  00

2.3. Genocidio e singolaritĂ  della violenza nazista 00

3. Narrazioni storiche della Shoah 00

3.1. Intenzionalismo vs funzionalismo 00

3.2. Modernità, modernizzazione, modernismo: Zygmunt Bauman, Götz Aly, Jeffrey Herf 00

3.3. Antisemitismo eliminazionista tedesco: Daniele J. Goldhagen 00

3.4. Processo di distruzione e triade vittime-carnefici-spettatori: Raul Hilberg 00

3.5. Storia memoriale e integrata: Saul FriedlÀnder 00

7 Indice

4. Vittime: testimonianza, memoria e storia 00

4.1. Ebraismo orientale, donne e bambini nel Lager, musulmani, sopravvissuti 00

4.2. Universalità della testimonianza: Primo Levi, Eli Wiesel, Jean Améry 00

4.3. Dovere della memoria, crisi della testimonianza e “testimoni integrali” 00

5. Carnefici: uomini ordinari, male straordinario 00

5.1. Propedeutica allo studio dei carnefici 00

5.2. Uomini comuni: modelli esplicativi 00

5.3. Einsatzgruppen e intellettuali ss 00

5.4. Medici 00

5.5. Diventare génocidaire: Adolf Eichmann, Rudolf Höss, Franz Stangl 00

6. Spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 00

6.1. Una realtĂ  di sfondo decisiva e dinamica 00

6.2. Spiegazioni del comportamento di spettatori e soccorritori 00

6.3. Ritratti di nazioni, comunitĂ  e individui 00

7. Presente e futuro della Shoah: ricordare, rappresentare, educare 00

7.1. Memoria, commemorazione e diritto di dimenticare 00

7.2. Forme e limiti della rappresentazione 00

7.3. Fatiche dell’insegnare e dell’apprendere 00

8. Conclusioni 00 Bibliografia 00

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Introduzione

Durante la Seconda guerra mondiale l’Europa Ăš stata il teatro dello sterminio di milioni di ebrei da parte del Terzo Reich nazista. Quasi settant’anni sono passati dal piĂč grande disastro di cui la comunitĂ  ebraica continentale ha memoria. Da allora il tempo trascorso ha spento le vite e i ricordi di quasi tutti coloro che presero parte, volenti o nolenti, a questo tragico momento storico. Eppure oggi questa storia non cessa di essere presente nei nostri pensieri e nei nostri cuori. CiĂČ che Ăš stato chiamato Shoah (dall’ebraico HaShoah “catastrofe”), Olocausto (dal greco antico ᜁλόÎșÎ±Ï…ÏƒÏ„ÎżÏ‚ “bruciato interamente”, composto di áœ…Î»ÎżÏ‚ “tutto, intero” e ÎșÎ±ÎŻÏ‰ “bruciare”), Churban Europa (dall’yiddish khurbn “distruzione” eyrope “Europa”), soluzione finale della questione ebraica (dal tedesco Endlösung “soluzione” der Judenfrage “questione ebraica”) Ăš qualcosa di piĂč di un capitolo della storia del xx secolo. Questa vicenda storica Ăš stata irrimediabile perdita per chi ne Ăš stato vittima, impresa epocale, una «pagina di gloria»1 per chi l’ha ideata, organizzata e realizzata, esperienza di indifferenza e coraggio collettivo per chi non Ăš stato coinvolto direttamente ma vi ha assistito. Non solo. Questa vicenda storica Ăš stata ed Ăš ancora materia su cui riflettere, da cui trarre una conoscenza profonda sull’umanitĂ  in tempo di crisi. Oggetto di un ricordo sentito e ritualizzato, Ăš fonte di un continuo dibattere fra quanti ne hanno fatto un argomento di ricerca, ma Ăš anche fonte di polemica fra i politici e di contesa tra chi ne difende o strumentalizza o oltraggia la memoria. Questa storia, che preferiamo

1. Tale Ăš per Heinrich Himmler, comandante delle ss, “squadre di protezione” del FĂŒhrer Adolf Hitler, della polizia e delle forze di sicurezza del Terzo Reich nel discorso tenuto a PoznaƄ, in Polonia, il 4 ottobre 1943 davanti a centinaia di ufficiali delle ss.

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chiamare Shoah, ù sottoposta a una continua narrazione, a un racconto dai significati, toni e contorni diversi. La dimensione storica in cui ù narrata cambia, così come i soggetti, il modo e le poste in gioco. Ciononostante essa continua a essere al centro dell’interesse collettivo, a volte in modo solo accennato, altre direttamente.

In questo saggio la Shoah Ăš affrontata come oggetto di interesse, narrazione e attribuzioni di significato individuale e collettivo.

Nel cap. 1 proponiamo una storia della persecuzione nazista degli ebrei lungo il Terzo Reich evidenziando il sovrapporsi di alcuni elementi che l’hanno resa possibile come la legislazione antiebraica, il sistema concentrazionario e l’evoluzione dell’esperienza e dei metodi di sterminio. Dopo aver attraversato rapidamente i dodici anni della distruzione, ci troviamo nel cap. 2 nel dopo Auschwitz. In questa nuova era per l’Europa post-nazista inizia una profonda crisi di coscienza, ancora oggi aperta. Il presentarsi di Auschwitz nella storia del Vecchio continente ha interrotto la corsa moderna dell’Occidente verso il progresso e ha infranto l’immagine positiva della civilizzazione europea, fatta di acquisizioni scientifiche, tecnologiche e di diritti. Si capisce che quelli nazisti sono crimini talmente inauditi che non v’ù giustizia che possa perseguirli efficacemente. Talmente originale Ăš la violenza nazista da essere definita attraverso un termine di nuovo conio: genocidio. La sua specificitĂ  storica Ăš oggetto di dibattito, talvolta aspro, condotto attraverso un’analisi interdisciplinare e comparata. Come per qualsiasi altro avvenimento storico, anche della Shoah vi sono piĂč interpretazioni. L’opposizione fra intenzionalismo e funzionalismo e i tentativi di sintesi, le interpretazioni “moderniste” di Zygmunt Bauman, Götz Aly e Jeffrey Herf, quella canonica di Raul Hilberg, quella provocatoria di Daniel J. Goldhagen e il progetto di storia integrata di Saul FriedlĂ€nder sono gli esempi paradigmatici di narrazioni storiche della Shoah delineati nel cap. 3. Nei capp. 4-6 ci soffermiamo sugli attori del genocidio, sull’esperienza e i comportamenti delle vittime, dei carnefici e degli spettatori. Trattarli come facciamo, come soggetti separati incapsulati in dimensioni distinte, Ăš un artificio metodologico che risponde all’esigenza di studiarli efficacemente. Nondimeno bisogna tenere sempre a mente che la realtĂ  dello sterminio, quando accadde, era un tutto unitario, dove gli odori e gli occhi di chi era deportato e ucciso incontravano quelli dei loro persecutori e di chi, vicino di casa, collega di lavoro, collaborava coi carnefici, si voltava

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dall’altra parte per non vedere o prendeva il coraggio a due mani per offrire loro cura e sollievo.

Giungiamo alla fine di questo saggio provando a guardare il presente e il futuro della Shoah alla luce dell’interdipendenza fra le attività del ricordare, del rappresentare e dell’educare. Per andare avanti e avere uno scopo l’una ha bisogno dell’altra. Si ricorda la Shoah e si educa a partire da essa servendosi dei contenuti e delle forme della sua rappresentazione (film, memorie, diari, fotografie). Ogni anno si commemora lo sterminio degli ebrei per educare la cittadinanza ai valori del rispetto, della cura reciproca e della tolleranza. Ci si riappropria di quel difficile passato assegnandogli un significato nuovo e diverso, una differente contestualizzazione per trasmetterlo alle generazioni a venire e fare tesoro dell’esperienza e del sapere in esso racchiusi.

introduzione 11

La strada per Auschwitz fu costruita dall’odio, ma lastricata dall’indifferenza.

1.1

Legislazione antisemita e programmi di emigrazione forzata

Come si Ăš giunti allo sterminio degli ebrei d’Europa? Il genocidio degli ebrei nell’Europa asservita al dominio nazista Ăš stato il compimento di un progetto di segregazione e di pulizia razziale messo in atto a partire dalla presa del potere di Hitler avvenuta nel gennaio del 1933. Sviluppandosi in due fasi – la prima che va dalla presa del potere nazista nel 1933 al 1939 e la seconda che inizia dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e arriva alla tarda primavera del 1945 –, la politica antiebraica nazista si trasformĂČ da discriminatoria e segregazionista in sterminatrice. Lo sterminio sistematico non Ăš stato l’esito ineluttabile, nĂ© lo scontato risultato di un progetto perfettamente congegnato sin dalla presa del potere nazista. Allo strenuo sforzo di un’élite ideologicamente votata a compiere lo sterminio e al coinvolgimento diretto o indiretto dell’intera societĂ  tedesca si opposero le resistenze psicologiche degli esecutori, le carenze logistiche dettate dalle necessitĂ  belliche oltre agli intoppi burocratici. La “soluzione finale della questione ebraica” – eufemismo con il quale i nazisti definirono lo sterminio degli ebrei d’Europa – si realizzĂČ grazie all’incontro della legislazione antisemita di Stato e del sistema concentrazionario che trovĂČ ad Auschwitz il suo compimento. Nei dodici anni del Terzo Reich la politica antiebraica interessĂČ vari campi di intervento del governo nazista, dall’economia alla cultura, dalla sanitĂ  all’istruzione.

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Storia della “soluzione finale” e della questione ebraica: 1933-45

L’emarginazione, la spoliazione e la definitiva esclusione degli ebrei dalla societĂ  tedesca avvennero attraverso la legge. Lo strumento legislativo risultĂČ determinante per dare concretezza politica all’odio viscerale che i nazisti nutrivano per gli ebrei. Nei primi anni del regime la politica antiebraica perseguĂŹ l’allontanamento degli ebrei dalla vita pubblica. Le prime decisioni antiebraiche prese sei settimane dopo la nomina di Hitler a cancelliere (5 marzo 1933) incanalarono le ondate di violenza antisemita scatenate dagli attivisti del partito in diverse regioni del Reich.

Il 1° aprile venne proclamato il boicottaggio ufficiale dei negozi ebraici. La Legge sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche pubbliche del 7 aprile 1933, al paragrafo 3, recitava: «gli impiegati pubblici di origine non ariana devono andare in pensione». Il primo decreto applicativo della legge, promulgato l’11 aprile, precisava che «non ariano» era «chiunque discendesse da genitori o nonni non ariani ed ebrei in particolare» (FriedlĂ€nder, 2004, p. 36). Con la Legge contro il sovraffollamento delle scuole e universitĂ  tedesche del 25 aprile si limitava nelle scuole l’immatricolazione di nuovi studenti ebrei. Il 10 maggio dello stesso anno le cittĂ  universitarie furono teatro dei tristemente noti “roghi dei libri”. L’esclusione degli ebrei dalla vita culturale e professionale fu ispirata da un antisemitismo conservatore che reputava eccessiva la presenza ebraica in certi settori chiave della vita sociale e professionale e vedeva gli ebrei come un elemento non assimilabile ed estraneo alla societĂ  tedesca (Hilberg, 1999, p. 85).

A Norimberga il 14 settembre 1935, al congresso annuale del partito nazista, venne varata la Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedeschi che vietava matrimoni e relazioni sessuali tra ebrei e cittadini di sangue “tedesco o apparentati”, l’assunzione da parte delle famiglie ebraiche di cittadini di “sangue tedesco o apparentati” con meno di quarantacinque anni e proibiva agli ebrei di avvicinarsi alla bandiera del Reich. Il 15 settembre venne annunciata la Legge sulla cittadinanza del Reich la quale stabilì che solo le persone di “sangue tedesco o apparentate” sono cittadine del Reich. Il principio di eguaglianza dei cittadini ebrei in vigore in tutta la Germania dal 1871 venne soppresso e gli ebrei furono segregati biologicamente dal resto della popolazione.

Dopo la definizione legale dell’appartenenza ebraica, dall’estate del 1936 ebbe inizio un processo di espropriazione economica degli ebrei realizzato per gradi per mezzo di licenziamenti, arianizzazioni

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(cessione volontaria o forzata dell’impresa ebraica a un tedesco privo di ascendenza ebraica), imposte sul patrimonio (“tassa di espatrio dal Reich” e “pagamento espiatorio”), blocco dei conti correnti, lavoro obbligatorio, regolamentazione dei salari, imposizione di tasse sulle entrate e un regime di fame organizzata.

L’applicazione delle leggi sulla cittadinanza in Austria e nel Protettorato di Boemia e Moravia annessi al Reich, rese centinaia di migliaia di ebrei apolidi, profughi di cui nessuno in Europa voleva farsi carico. Il pogrom della Notte dei cristalli tra il 9 e 10 novembre 1938 segnĂČ il «passaggio del Rubicone» per il destino degli ebrei (Mommsen, 2003, p. 91). Ormai proscritti, la loro presenza si trasformĂČ in un problema sanitario che il Servizio di Sicurezza (sd) e la polizia segreta (Gestapo) proposero di affrontare ricorrendo all’emigrazione forzata dal Reich. I provvedimenti legislativi emanati prima del 1939 mirarono alla separazione della minoranza ebraica dal resto della popolazione. In Germania, per esempio, dei 520.000 ebrei residenti nel 1933 ne restavano 350.000 nel 1938.

Nel settembre del 1939 con l’occupazione tedesca della Polonia si apre la seconda fase della politica antiebraica nazista, apertamente distruttiva. La conseguente spartizione della Polonia, dove risiedevano 3.300.000 ebrei, tra nazisti e sovietici pose sotto il controllo tedesco due milioni dei 3.300.000 ebrei residenti, di cui 600.000 stavano nei territori annessi al Reich (Danzica-Prussia occidentale, Wartheland, Prussia orientale, Alta Slesia) e 1.400.000 nel Governatorato generale. Fino all’estate del 1941 la Polonia fu il principale spazio d’applicazione dei programmi di “soluzione territoriale della questione ebraica” realizzati dall’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (rsha) guidato da Reinhard Heydrich, sottoposto di Heinrich Himmler, capo delle “squadre di protezione” (ss) e della polizia tedesca. La delega di ogni competenza in materia di politica migratoria a Heydrich venne sancita dal decreto del 24 gennaio 1939 che istituĂŹ il Centro per l’emigrazione ebraica a cui spettava di «favorire l’emigrazione con tutti i mezzi effettivamente possibili».

Un’ordinanza del 21 settembre 1939 emanata da Heydrich, destinata ai capi del rsha e ai comandanti delle unità della polizia di sicurezza, ingiungeva l’espulsione degli ebrei dai territori incorporati e il concentramento nelle principali città del Governatorato generale. Con il Decreto per il rafforzamento della nazione tedesca del 7 ottobre

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1939 Hitler assegnĂČ a Himmler, nuovo commissario del Reich per il consolidamento della germanicitĂ , il compito di riportare nel Reich i “tedeschi etnici” residenti all’estero ritenuti idonei per un ritorno permanente, di eliminare l’influenza degli «elementi della popolazione etnicamente alieni che rappresentavano un pericolo per il Reich e per la comunitĂ  tedesca», e di formare nuove aree di insediamento tedesco mediante trasferimenti di popolazione.

Nel biennio 1939-41 la politica antiebraica in Polonia mirĂČ al riassetto delle popolazioni dell’Europa orientale sulla base dei principi razziali nazionalsocialisti attraverso la loro ghettizzazione. I principali ghetti si trovavano a ƁódĆș, dove vivevano 144.000 persone, e a Varsavia, dove ne risiedevano 445.000. Fra il 1939 e il 1941 il consolidamento dello “spazio vitale” nei territori incorporati e la soluzione finale della questione ebraica si scontrarono tanto che il primo dei due progetti, fino a tutto il 1940, cedette il passo al secondo. Dopo il fallimento del cosiddetto “piano Nisko” (un programma di deportazione che prevedeva il trasferimento forzato degli ebrei dell’Austria e del Protettorato in un campo di transito, a Nisko, nella regione di Lublino, prima della loro espulsione verso est), nell’ottobre 1939 fu la volta del “primo piano a breve termine” (che comportĂČ la deportazione il 17 dicembre, con 80 carichi ferroviari, di 87.000 persone, ebrei e polacchi, dal Warthegau, al fine di liberare spazio per l’insediamento dei “tedeschi etnici” del Baltico).

Per dare esecuzione all’ordine di Himmler di deportare tutti gli ebrei dai territori incorporati, tra il gennaio e il maggio del 1940, si pensĂČ alla creazione di una “riserva ebraica” nella regione di Lublino. A causa del contrasto fra gerarchi nazisti, Himmler da una parte e Göring e Frank dall’altra, i grandiosi progetti di Himmler di deportare un milione di persone dai territori incorporati nel Governatorato generale entro il febbraio 1940 e di trasferire 7.500.000 polacchi nel Governatorato generale subirono una netta battuta d’arresto. La prospettiva di dare vita a una riserva ebraica a Lublino tramontĂČ a favore del “piano Madagascar” (un’ipotesi predisposta dall’esperto del ministero degli Esteri per gli affari ebraici, Rademacher, che prevedeva di confinare gli ebrei nell’isola africana e che fallĂŹ perchĂ© la Gran Bretagna controllava ancora le rotte marittime) con cui per la prima volta comparve la formula soluzione finale nell’ambito di una soluzione finale territoriale e una chiara motivazione omicida. Questo progetto non fu il prodotto

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storia della “soluzione finale della questione ebraica”

di una strategia diversiva, ma «un importante passo psicologico verso la soluzione finale» (Browning, 1998, p. 29).

Quanto piĂč cresceva l’insoddisfazione dei nazisti per i piani abortiti tanto piĂč prossima era la soglia oltre la quale non restava che l’omicidio di massa. Il 15 marzo del 1941 venne interrotto il “terzo piano a breve termine” (che prevedeva la deportazione di circa 830.000 persone nel Governatorato generale per fare spazio ai tedeschi etnici di Bessarabia, Bukovina, Dobrudia e Lituania) perchĂ© ostacolava i preparativi dell’Operazione Barbarossa. A questo punto inizia a tirare un’aria diversa, Hitler pensa di risolvere molte cose in modo diverso. Con l’invasione dell’Unione Sovietica si profilava una ridefinizione del significato di “spazio vitale”, da dottrina di graduale consolidamento razziale in pratica dell’espansione illimitata e di soluzione finale. In un telegramma del 31 luglio 1941 Göring ordinava a Heydrich di «compiere tutti i preparativi richiesti, di carattere organizzativo e materiale, per una soluzione globale della questione ebraica nel territorio europeo che si trova sotto l’influenza tedesca» (Mommsen, 2003, p. 161). La radicalizzazione della concezione nazista di una soluzione finale della questione ebraica dipese dal modo in cui l’invasione dell’Unione Sovietica era stata concepita, come una guerra di sterminio contro il giudeo-bolscevismo.

1.2

Il sistema concentrazionario nazista

I primi campi di concentramento che nascono sotto il segno dell’improvvisazione e della concorrenza tra le diverse gerarchie amministrative sono un temporaneo strumento di repressione per il consolidamento del nuovo regime e l’instaurazione della “rivoluzione nazionale”. Con la riorganizzazione e l’ampliamento del sistema concentrazionario ad opera del comandante di Dachau Theodor Eicke (in seguito capo dell’istanza centrale di controllo e gestione del sistema concentrazionario), i Lager diventano un’istituzione permanente destinata all’internamento preventivo di intere categorie di cittadini, avversari non integrabili nella “comunità nazionale”. Dachau fu il primo Lager a essere aperto il 22 marzo 1933 e a essere posto sotto l’esclusiva vigilanza delle “teste di morto” ss. Esso fu il modello di riferimento per l’intera costellazione concentrazionaria. Eicke impose le linee guida di Dachau

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negli altri Lager, consolidĂČ il sistema concentrazionario riunendo tutti i detenuti sotto il comando unico dei quadri ss, codificando il campo come un sistema sociale dove un catalogo di norme standardizzate legittimarono una prassi di terrore quotidiano (Mantelli, 2010).

Da strumento di persecuzione esclusivamente politica i Lager diventarono progressivamente luoghi di detenzione per persone arrestate per motivi di igiene sociale e razziale, per criminali, “asociali”, ebrei ecc. Nel giugno del 1938 una delle prime “azioni contro gli asociali” causĂČ l’arresto e la deportazione nel Lager di Buchenwald di tutti gli ebrei giĂ  gravati da carichi penali. Il pogrom della Notte dei cristalli diede luogo alla «prima operazione di annientamento intrapresa nel quadro del sistema concentrazionario» (Sofsky, 2004, p. 38) aprendo le porte dei Lager per 26.000 ebrei; non piĂč dunque solo isolati avversari del regime ma tutti coloro che fossero estranei alla razza. Le violenze del 9 novembre e l’internamento nei Lager non miravano primariamente all’annientamento fisico quanto a fungere da arma di ricatto. Chi fra gli ebrei si impegnava a emigrare e firmava un contratto che ne autorizzava l’arianizzazione dei beni veniva liberato dopo qualche settimana. Per la prima volta antisemitismo di Stato e sistema dei Lager si incontrarono.

Tra il 1936 e il 1939 si passĂČ da una concezione dell’internamento strettamente punitiva degli avversari politici a una concezione razzista e di “igiene sociale” consentendo di includere nelle categorie su cui imporre la “custodia cautelare” tutti coloro sospettati di deviare dall’ordine e dalla normalitĂ  dell’ideologia nazionalsocialista. In accordo con un criterio geografico-territoriale sorgono nuovi Lager: nel 1936 nella Germania settentrionale, non lontano da Berlino, a Sachsenhausen; nel 1937 nella Germania centrale, vicino Weimar, a Buchenwald, e nel 1939 un Lager femminile a RavensbrĂŒck; nel 1938, nella Germania meridionale, a metĂ  strada tra Norimberga e Praga, a FlossenbĂŒrg e, dopo l’unificazione austriaca, a Mauthausen, vicino Linz. In questi campi le baracche avevano una capacitĂ  di accoglienza ampliabile a seconda delle esigenze di impiego, nelle fabbriche gestite dalle ss, della manodopera internata.

In seguito alle deportazioni di massa di prigionieri di guerra dai vari paesi occupati dopo l’emanazione del decreto Notte e nebbia del 7 dicembre 1941 e all’avanzata in Unione Sovietica, la popolazione concentrazionaria si internazionalizza, delineandosi la trasformazione dei

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“soluzione finale della questione ebraica”

Lager in luoghi di sfruttamento del lavoro forzato e di morte di massa. Nascono altri sei grandi Lager: a Neuengamme, presso Amburgo; ad Auschwitz, in Alta Slesia nell’ottobre del 1940; a Groß Rosen, in Bassa Slesia; a Natzweiler, in Alsazia e, piĂč tardi, nell’ottobre del 1941, a Lublino e a Stutthof, presso Danzica, nella Prussia orientale. Con l’inquadramento (decreto del 3 marzo 1942) dell’Ispettorato dei campi di concentramento nell’Ufficio centrale economico-amministrativo delle ss s’impose il predominio del fattore economico nella gestione dei Lager. A riprova di ciĂČ vi Ăš il moltiplicarsi dei “sotto-campi” o “campi esterni” intorno ai “campi principali” vicino a impianti industriali1, tra i quali anche i sotto-campi di Auschwitz-Birkenau (Auschwitz ii), in seguito divenuto campo di sterminio, e i Lager satelliti minori di BunaMonowitz (Auschwitz iii), nei pressi del colosso industriale produttore di gomma sintetica ig Farben. 1.3

L’inizio della guerra fornĂŹ il contesto adatto per avviare il programma di eutanasia per i malati incurabili in Germania. Un’autorizzazione scritta redatta dalla Cancelleria del FĂŒhrer, firmata nell’ottobre 1939 da Hitler e retrodatata al 1° settembre 1939 – data d’inizio della Seconda guerra mondiale – costituĂŹ la base legale del programma omicida. «Al capo del Reich Bouhler e al Dr. med. Brandt viene conferita la responsabilitĂ  di estendere la competenza di taluni medici designati per nome, cosicchĂ© ai pazienti che, sulla base del giudizio umano, sono considerati incurabili possa essere concessa una morte pietosa dopo una diagnosi approfondita» recitava l’autorizzazione (Friedlander, 1997, p. 94). Non essendo mai stato promulgato o pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, questo documento non ebbe forza di legge, tuttavia assegnĂČ alla Cancelleria del Reich, nella persona del dott. Viktor Brack, il compito di organizzare e attuare il programma di eutanasia.

L’“operazione eutanasia” coinvolse in prima istanza bambini e neonati affetti da difetti fisici o mentali. In concomitanza con il pro-

1. Complessivamente sul suolo del Reich e dei territori occupati vi erano 22 campi principali, ordinati gerarchicamente a seconda del livello di violenza a cui erano destinati, e 1.202 comandi esterni.

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Dall’“operazione T4” all’“azione Reinhardt”

gramma di eutanasia infantile, venne avviato nel 1940 un programma di soppressione degli adulti disabili. A causa della risonanza pubblica del programma e dell’inquietudine popolare generata, nell’agosto del 1941 Hitler ordinĂČ l’interruzione dell’eutanasia degli adulti. In realtĂ  fu solo una ritirata strategica. Non si pose infatti termine all’eutanasia degli adulti nĂ© dei bambini, continuata con grande intensitĂ  e meno visibilitĂ . Dal settembre del 1941 fino alla fine della guerra venne praticata la cosiddetta “eutanasia selvaggia” in numerose case di cura. Medici e infermieri eliminarono migliaia di pazienti incapaci di lavorare e dispendiosi per le casse dello Stato. Complessivamente circa 70.000 persone vennero “disinfettate” di cui 5.000 bambini (ivi, p. 85). Nota come “azione T4”, poichĂ© l’ufficio centrale si trovava in una villa confiscata a una famiglia ebrea al numero 4 di Tiergarten Strasse a Berlino, l’eutanasia degli adulti, per l’alta cifra di persone da “trattare”, richiese la creazione di centri di uccisione a Grafeneck, Brandenburgen an der Havel, Hartheim, Sonnenstein, Bernburg (Saale) e Hadamar e l’impiego del monossido di carbonio per asfissiare i pazienti. Per questo l’operazione T4 rappresentĂČ la «prefigurazione concettuale e nello stesso tempo tecnica e amministrativa della “soluzione finale” che sarebbe stata attuata nei campi di sterminio» (Hilberg, 1999, pp. 950-1).

Dall’aprile del 1941 entrĂČ in funzione in dieci Lager un programma segreto denominato “14f13” di “trattamento speciale” dei detenuti troppo deboli per lavorare o troppo onerosi economicamente (Caplan, Wachsmann, 2010, p. 28). Questa estensione dell’operazione T4 tracciĂČ uno spartiacque nella storia dei Lager. Da quel momento essi servirono come centri di sterminio. La decisione presa nella primavera del 1940 di uccidere i pazienti ebrei disabili in quanto gruppo razziale collegĂČ l’operazione eutanasia alla soluzione finale della questione ebraica, presagĂŹ la misura estrema. L’operazione T4 fu un modello pratico per la soluzione finale della questione ebraica per via dell’impiego di metodi provati e sperimentati nel programma di eutanasia e del personale in esso occupato nell’“azione Reinhard”, nome in codice (Reinhard per onorare la memoria di Reinhard Heyedrich, ucciso in un attentato partigiano a Praga nel 1942) del programma segreto di sterminio degli ebrei polacchi, realizzato sotto la responsabilitĂ  del comandante delle SS e della Polizia del distretto di Lublino Globocnik, incaricato verbalmente direttamente da Himmler.

1. storia della “soluzione finale della questione ebraica” 19

Il 22 giugno del 1941, data d’inizio dell’Operazione Barbarossa, iniziĂČ lo sterminio di massa delle comunitĂ  ebraiche dell’Europa orientale ad opera della Wehrmacht e delle “unitĂ  operative” al seguito in ottemperanza a un ordine di Heydrich del 19 luglio indirizzato ai comandanti delle “unitĂ  operative” e ai “commissari del Reich” (Mommsen, 2003, p. 119). Da misure dirette ai singoli ebrei, ad agosto le fucilazioni vennero estese a interi villaggi. Dall’estate del 1941 al novembre del 1942 le operazioni mobili di massacro coprirono zone vastissime dell’Europa orientale. Dei circa quattro milioni di ebrei residenti nei territori sovietici prima del 22 giugno 1941, circa un milione e mezzo riuscirono a fuggire prima dell’arrivo dei nazisti, mentre circa 1.350.000 caddero vittima dei massacri o morirono di privazioni nei ghetti o nei luoghi d’internamento. Dall’autunno del 1941 il distretto di Lublino divenne il cuore dell’azione Reinhard. Dal marzo del 1942 al novembre del 1943 nei centri di sterminio di BeĆ‚ĆŒec, SobibĂłr e Treblinka furono sterminati 1.750.000 ebrei deportati dai ghetti polacchi dei territori incorporati, Governatorato generale, Germania, Austria, protettorato di Boemia e Moravia, Iugoslavia, Grecia e Olanda.

Collocati in luoghi isolati, nelle vicinanze degli scali ferroviari, questi centri di sterminio si distinsero dai campi di concentramento per una fondamentale ragione: esistevano solo per distruggere completamente in tempi rapidi quante piĂč vite possibile. Le operazioni di sterminio erano completate quando i corpi erano cenere e ossa e i beni delle vittime (abiti, capelli, denaro, protesi odontoiatriche d’oro) raccolti e inviati in Germania. Belzec costituĂŹ il prototipo di una struttura completamente nuova nel suo genere composita di due elementi preesistenti, fino allora sviluppati distintamente e per scopi diversi: il campo di concentramento e le installazioni di sterminio. Col soffocamento dei deportati nelle camere saturate da gas di scarico, nei tre campi dell’azione Reinhardt era messa a frutto l’esperienza maturata negli istituti dell’operazione eutanasia dove il monossido di carbonio riempiva le camere a gas fisse camuffate da docce, e quella acquisita nel corso delle operazioni di sterminio nei territori orientali e nel Lager di CheƂmno dove nei camion a gas mobili veniva immesso il gas di scarico. A Treblinka – il maggiore e piĂč attrezzato dei centri dell’azione – il metodo dell’uccisione “a catena” ebbe massima efficacia con lo sterminio di 763.000 ebrei.

la shoah 20

1.4

Auschwitz: compimento della soluzione finale

Anche se probabilmente servĂŹ solo a conferire alla prassi delle uccisioni l’avallo burocratico e a coordinare gli interessi degli uffici coinvolti nel processo di distruzione, la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 prova che a quel punto esisteva un programma nazista di sterminio sistematico degli ebrei. In quell’occasione Heydrich parlĂČ di “soluzione finale della questione ebraica”, di “evacuazione degli ebrei verso est” di circa 11 milioni di persone. Il comandante di Auschwitz Rudolf Höss raccontĂČ che durante l’estate del 1941 venne convocato da Himmler il quale gli riferĂŹ che il FĂŒhrer aveva ordinato la «soluzione finale della questione ebraica» (Höss, 1997, p. 127).

Auschwitz era il luogo prescelto per via del suo isolamento e perchĂ© vi si poteva agevolmente giungere con i treni. Tra la fine di agosto e gli inizi di settembre del 1941 comparve in via sperimentale un terzo metodo di uccisione, alternativo all’uso del monossido di carbonio adoperato nei camion mobili e nelle camere fisse. Si trattava dello Zyklon B, l’acido prussico giĂ  adoperato dall’estate del 1941 ad Auschwitz per disinfettare ambienti e indumenti. Il 5 settembre del 1941, nelle celle sotterranee del blocco di punizione 11 vennero uccisi 900 prigionieri di guerra sovietici, insieme ad altri detenuti malati, con lo Zyklon B. Alla fine di settembre Himmler diede ordine di costruire a due chilometri dal campo base, presso il villaggio di Brzezinka (Birkenau), un Lager di enormi proporzioni dove internare i prigionieri di guerra fino a 50.000 persone. Intanto Höss procedeva con la costruzione delle installazioni di sterminio. Il crematorio i del campo principale fu trasformato in camera a gas e utilizzato come luogo di sterminio dall’inizio alla fine del 1942 e per incenerire i cadaveri fino al luglio del 1943. Nel marzo del 1942 due camere a gas in grado di contenere fino a 800 persone furono costruite nella “casa rossa”, in una piccola cascina agricola al limitare del campo di Birkenau, rinominata “Bunker i” e impiegata per tutto il 1942. Nella “casa bianca”, un’altra casa colonica, potevano essere rinchiuse per essere sterminate circa 1.200 persone alla volta.

Dal 4 luglio del 1942 i deportati ebrei furono selezionati regolarmente al loro arrivo: il 20% degli abili al lavoro sopravviveva, tutti gli altri andavano direttamente al gas. Coloro che erano destinati al lavoro erano sottoposti a condizioni di vita durissime che portavano

1.
21
storia della “soluzione finale della questione ebraica”

in poche settimane a un forte deperimento e alla facile esposizione a malattie mortali. Rispetto al gas, l’impiego lavorativo conduceva a una morte piĂč lenta. Lo scopo del lavoro forzato non era la libertĂ , come recitava la scritta “Il lavoro rende liberi” apposta nel cancello d’ingresso del Lager principale, ma la morte al pari di quello perseguito con l’eliminazione fisica diretta con il gas. Ad Auschwitz economia e sterminio si incontravano nello «sterminio mediante il lavoro» (Steinbacher, 2005).

Con la liquidazione dei centri dell’azione Reinhardt tra luglio e novembre del 1943 e la cessazione delle deportazioni alla volta del Lager di Majdanek-Lublino, il complesso di Auschwitz-Birkenau divenne il principale centro della soluzione finale. I crematori ii, iii, iv e v edificati ad Auschwitz ii (Birkenau) tra marzo e giugno del 1943 avevano una capacitĂ  di incenerimento giornaliero di 4.756 cadaveri. In questa fabbrica di morte, divenuta simbolo dell’enormitĂ  dello sterminio, il processo di uccisione “a catena” era incessante. Nell’estate del 1944, quando tra il 15 maggio e il 9 luglio arrivarono ad Auschwitz-Birkenau circa 438.000 ebrei dall’Ungheria, l’85 per cento dei deportati fu ucciso con il gas. In quei mesi in cui quotidianamente transitarono 10.000 ebrei sulla rampa di selezione «la capacitĂ  di distruzione si avvicinava a un punto senza ritorno» (Hilberg, 1999, p. 1041).

la shoah 22

Dopo Auschwitz:

Erano state uccise vittime in numero inaudito, fin lĂ  dove la luce della storia puĂČ illuminare il passato, e comunque la perennitĂ  del progresso umano non era che un’ingenuitĂ  nata nel xix secolo.

2.1

Il 21 novembre 1945 si aprono a Norimberga i lavori del tribunale militare internazionale. Sulla base di quanto stabilito dal art. 6 dello statuto del tribunale militare internazionale, adottato a Londra l’8 agosto del 1945, 24 nazisti (tra cui Göring, Speer, Frank) e 6 “organizzazioni” (tra cui ss, sd, sa, Gestapo) sono rinviati a giudizio secondo quattro capi d’accusa: cospirazione, crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanitĂ . L’ultima delle imputazioni costituiva la maggiore innovazione del processo di Norimberga. La testimonianza su Auschwitz rilasciata alla Corte il 15 aprile del 1946 dal comandante Rudolf Höss e la proiezione di un documento video sui campi di concentramento liberati dagli alleati spalancarono la voragine dell’orrore nazista. Hans Fritzsche, uno degli imputati, propagandista e collaboratore del ministro della Propaganda nazista Goebbels affermĂČ Â«Nessun potere in cielo o in terra cancellerĂ , nelle prossime generazioni, nĂ© nei secoli, questa vergogna dal mio paese» (Mettraux, 2008, p. 667). Dei 24 imputati, 3 furono assolti, a 2 furono comminati 20 anni di carcere, ad altri 2 rispettivamente 15 e 10 anni, a 3 l’ergastolo, 12 vennero condannati alla pena di morte mediante impiccagione. Dando esecuzione alle condanne il 16 ottobre 1946 viene fatta giustizia. Nondimeno continuano a risuonare queste parole scritte da Hannah Arendt nel 1950: «Se il nostro senso comune vacilla quando

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ImpunibilitĂ  della colpa, questione della corresponsabilitĂ  tedesca e zona grigia
2
crisi della coscienza europea

viene posto di fronte ad azioni che non sono mosse nĂ© da passioni nĂ© da motivi utilitaristici, la nostra etica Ăš a sua volta incapace di far fronte a crimini non previsti dai dieci comandamenti. Condannare all’impiccagione un uomo che ha preso parte alla fabbricazione di cadaveri (anche se, ovviamente, non abbiamo molte altre alternative) Ăš assurdo. Questi sono crimini per cui nessuna punizione sembra adeguata; tutte le punizioni infatti hanno un limite invalicabile: la pena di morte» (Arendt, 2006, p. 71).

Qui non Ăš tanto dichiarata l’inadeguatezza allo scopo della Corte giudicante, espressione di una giustizia dei vincitori, imputabili a loro volta di crimini di guerra e contro l’umanitĂ  (bombardamento a tappeto di Dresda, bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, strage di Katyn compiuta dall’Armata Rossa) quanto l’inappropriatezza di una punizione tarata sui parametri della giustizia retributiva, dove al reato corrisponde la pena, per i responsabili di un regime capace di elevare a ideale sociale il campo di concentramento, quella «societĂ  dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un prodotto [...] un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza» (Arendt, 2004, p. 626).

Oltre all’impunibilitĂ  della colpa, i processi ai maggiori criminali, cosĂŹ come quelli secondari per crimini di guerra (ai dottori, ai giudici, ai ministri) che ebbero luogo a Norimberga sollevarono la questione morale della corresponsabilitĂ , di come i confini che separavano i criminali dalle persone normali nella Germania hitleriana (e nel resto dell’Europa) risultassero indistinguibili. Essi posero il problema della porzione di colpa e responsabilitĂ  di quanti, pur non rientrando fra i criminali, avevano ricoperto una funzione nel regime, di quanti, pur essendo nella posizione per dare l’allarme, preferirono tollerare in silenzio. Si profilava il problema della “responsabilitĂ  individuale limitata” o dell’“irresponsabilitĂ  organizzativa” in seno alla burocrazia e nella moderna societĂ  di massa in genere. Rispetto al diffuso coinvolgimento nel crimine sotto il Terzo Reich, Arendt notava nel 1945: «il bisogno di giustizia degli uomini non puĂČ trovare alcuna risposta soddisfacente al fatto che tutto il popolo si mobiliti a quel fine [lo sterminio amministrativo di massa]. Quando tutti sono colpevoli, nessuno, in ultima analisi, puĂČ essere giudicato. Infatti, quel tipo di colpa non Ăš nemmeno ac-

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compagnato dalla mera apparenza, dalla mera pretesa di responsabilità» (Arendt, 2006, pp. 69-70)1 .

A margine della sentenza della Corte militare internazionale, investendosi in prima persona a nome del popolo tedesco, il filosofo Karl Jaspers pose la «questione della colpa tedesca» nel 1946 distinguendo fra quattro concetti di colpa (politica, criminale, morale, metafisica):

Non ci puĂČ essere alcun dubbio che tutti noi tedeschi siamo colpevoli, e che ogni tedesco in un modo o nell’altro ha la sua colpa: 1) ogni tedesco, senza alcuna eccezione, ha la sua parte di responsabilitĂ  politica. Esso non puĂČ sottrarsi alle riparazioni che nelle forme del diritto, deve necessariamente soffrire insieme con gli altri per le conseguenze di quello che decidono e fanno i vincitori [...]. 2) Non ogni tedesco, ma solamente una piccola minoranza deve essere punita per i delitti commessi. Un’altra piccola minoranza deve espiare per attivitĂ  naziste. [...] 3) Ăš fuori dubbio che in tutto questo ciascun tedesco, sebbene in condizioni differenti, trova l’occasione per fare l’esame della propria coscienza dal punto di vista morale. Qui non c’ù bisogno di riconoscere alcuna autoritĂ  costituita al di fuori della propria coscienza 4) Ăš certo che ogni tedesco che comprende nelle esperienze metafisiche tali sciagure trasforma la propria coscienza dell’essere e di sĂ© stesso. Come ciĂČ accada Ăš cosa che nessuno puĂČ prescrivere o fissare in anticipo. È cosa che riguarda ciascun individuo nella sua solitudine. Quel che ne puĂČ emergere puĂČ costituire la base essenziale di quello che dovrĂ  essere nell’avvenire l’anima tedesca (Jaspers, 1996, pp. 75-6).

Essere tedesco, subito dopo la fine del Terzo Reich, per Jaspers significa sentirsi colpevole per ciĂČ che i nazisti hanno fatto. Nondimeno questo sentimento di colpa collettiva urge di tradursi nel rinnovamento dell’esistenza umana dalle sue radici.

Quando si parla di collaborazione nel crimine non si puĂČ non considerare la riflessione sulla “zona grigia” proposta da Primo Levi

come un ingranaggio

grande macchina – minasse alla base ogni tentativo dell’istituzione giuridica di farvi fronte. Quest’ultima istituzione «si basa sull’idea di una responsabilitĂ  e di una colpa personale, nonchĂ© sull’idea abbinata alla prima di una coscienza che funziona a pieno regime» (Arendt, 2006, pp. 11-2). Mentre la prima di queste idee vacillĂČ a Norimberga ogni qualvolta i criminali giustificavano le loro condotte con l’obbedienza a “ordini superiori”, fu a Gerusalemme durante il processo Eichmann che la seconda condizione – la lucida coscienza dell’imputato di commettere il male – mancĂČ, ai suoi occhi, clamorosamente.

2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea 25
1. Hannah Arendt evidenzia come il meccanismo dello scaricabarile delle responsabilità all’opera nelle società moderne – dove ognuno si considera di una

in Sommersi e salvati, meditazione matura sull’esperienza d’internamento ad Auschwitz. Considerando il microcosmo del Lager come la riproduzione del macrocosmo della societĂ  totalitaria, come il punto d’osservazione privilegiato per indagare piĂč a fondo la specie umana e le dinamiche del potere che avvolgono la nostra societĂ , Levi sente l’esigenza di esplorare quello spazio, lasciato vuoto da una retorica schematica che separa nettamente le vittime dai persecutori, quella «zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi», connotata da «una struttura interna incredibilmente complicata [...] alberga in sĂ© quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare» (Levi, 2009, p. 1022). In questo spazio intermedio, tra privilegio e abiezione, dimorano figure dell’ambiguitĂ  morale, come i prigionieri-funzionari delle baracche e le “squadre speciali” dei crematori da non giudicare e biasimare alla leggera. Questa categoria concettuale risulta molto utile per studiare gli spettatori dello sterminio.

2.2 Auschwitz e lo scandalo della modernitĂ 

Auschwitz Ăš una presenza ingombrante nella memoria collettiva occidentale perchĂ© rappresenta un evento storico centrale del xx secolo, un momento di svolta per la nostra autocoscienza come esseri appartenenti al genere umano capaci di sdegno e compassione e come cittadini dell’Europa post-nazista. Auschwitz Ăš un «buco nero» (Levi, 2009), una voragine per il pensiero, una ferita aperta, una «frattura di civiltà» (Traverso, 2005, pp. 16-46) difficilmente sanabile, con cui non si riesce mai completamente a venire a patti. Una delle ragioni per cui nel genocidio ebraico permane qualcosa di irriducibile rispetto alla nostra capacitĂ  di comprenderlo consiste nel fatto che ad Auschwitz civiltĂ  moderna e barbarie si incontrarono, le acquisizioni tecnico-scientifiche figlie della modernitĂ  furono poste al servizio dello sterminio distruggendo quell’ideale di progresso da cui scaturirono. Nel tentativo di capire «la piĂč radicale ricaduta nella barbarie nell’Europa del xx secolo», il sociologo Norbert Elias si chiedeva: «Come era stato possibile che in modo razionale e perfino scientifico nel xx secolo degli uomini avessero potuto progettare ed attuare un’impresa che sembra una ricaduta nella brutalitĂ  e barbarie dei tempi lontani – che, trascu-

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rando le differenze di grandezza delle popolazioni, avrebbero potuto aver luogo nell’antica Assiria o a Roma dato che in seguito si Ăš riconosciuto lo status di esseri umani agli schiavi? [...] Nel xx secolo non ci si sarebbe aspettato nulla di simile» (Elias, 1991, p. 356).

Eccoci posti di fronte al dilemma dell’inattualitĂ  della violenza nazista rispetto alla percezione collettiva del xx secolo, come di un’era civile in cui certe cose non sono piĂč ammissibili (la violenza sulle donne, lo sfruttamento minorile, la pena di morte ecc.). L’immagine positiva della civile Europa, storicamente culla dei diritti e delle libertĂ  individuali e collettive Ăš stata infranta dalla comparsa di Auschwitz che ci ha mostrato come «progresso e rovina sono due facce della stessa medaglia» (Arendt, 2004, p. lxxx). I critici della modernitĂ  hanno sospettato che nel progetto illuminista di liberare l’uomo dalla paura e dall’illusione per renderlo padrone della natura vi dimorasse sin dal principio il «germe della regressione» (Horkheimer, Adorno, 1982) avanzando il sospetto che lo sterminio degli ebrei sia stato «piĂč di un’aberrazione, piĂč di una deviazione da un sentiero di progresso altrimenti diritto, piĂč di un’escrescenza cancerosa sul corpo altrimenti sano della societĂ  civilizzata [...] prodotto e fallimento della civiltĂ  moderna, un utile test delle possibilitĂ  occulte insite nella civiltĂ  moderna» (Bauman, 2010a, pp. 24-30). Auschwitz Ăš un atto d’accusa per la civiltĂ  moderna occidentale.

Cosa si intende comunemente per civiltĂ ? Leggiamo che «nell’uso comune e piĂč tradizionale, Ăš spesso sinonimo di progresso, in opposizione a barbarie, per indicare da un lato l’insieme delle conquiste dell’uomo sulla natura, dall’altro un certo grado di perfezione nell’ordinamento sociale, nelle istituzioni, in tutto ciĂČ che, nella vita di un popolo o di una societĂ , Ăš suscettibile di miglioramento» (Enciclopedia italiana Treccani). Per modernitĂ  s’intende «un gruppo di processi interrelati: economici (l’ascesa del capitalismo e dello scambio monetario), politici (la comparsa dello Stato-nazione e delle forme secolari di governo), sociali (il declino delle gerarchie e delle alleanze tradizionali e l’emergere di distinzioni di genere, razza, classe), culturali (il privilegio delle idee secolari basate sulla speranza illuminista del progresso, della scienza e della ragione) [...] qualcosa di positivo, desiderabile e migliorato» (Laban Hinton, 2007, p. 7). In quanto sinonimo di progresso, la civiltĂ  Ăš stata acquisita progressivamente. Con il processo di civilizzazione si assiste a un cambiamento dell’habitus umano, alla modificazione

2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea 27

della struttura dell’economia psichica e pulsionale del singolo individuo, all’accrescimento del senso di pudore e ripugnanza, allo sviluppo del controllo su sĂ© stesso nel rapportarsi agli altri, al monopolio statale dell’uso della violenza, confinata nelle prigioni e nelle caserme (Elias, 1983). Lo Stato razional-burocratico moderno occidentale Ăš definito in relazione all’uso della forza, suo «mezzo specifico», «come unica fonte del “diritto” all’uso della forza» (Weber, 1968, p. 281). La concentrazione razionale e organizzata del potere, tipica dello Stato moderno, a disposizione di un regime autoritario come quello nazista puĂČ invertire l’uso legittimo della forza fisica in deliberato abuso.

L’immagine della societĂ  moderna occidentale come civilizzata, mite e moderata Ăš «un mito eziologico che, in una variante o nell’altra, la civiltĂ  occidentale ha utilizzato nel corso degli anni per legittimare la propria egemonia spaziale spacciandola per superioritĂ  storica» (Bauman, 2010a, p. 140). Questo dovrebbe mettere in guardia dall’accogliere l’idea che la violenza disumana e degradante propria delle civiltĂ  precedenti sia stata eliminata. Piuttosto che un’eliminazione vi Ăš stato un dislocamento della violenza, una redistribuzione dell’accesso a essa, una sottrazione alla vista. Il processo di civilizzazione ha sottratto l’uso e lo spiegamento della violenza al giudizio morale e svincolato i criteri di razionalitĂ  dall’interferenza delle norme etiche e delle inibizioni morali (ivi, p. 50). Mancanza di riguardo per la persona, prevedibilitĂ  delle regole e calcolabilitĂ  dell’effetto sono tratti fondamentali della struttura tecnico-economica della civiltĂ  moderna. Negli affari d’ufficio la burocrazia generalmente agisce spassionatamente sotto il principio della condotta sine ira ac studio escludendo tutti gli elementi affettivi puramente personali in genere irrazionali e non calcolabili (Weber, 1968, pp. 217-20). Caratteristiche basilari della condotta d’ufficio che possono essere colte alla base dell’organizzazione della soluzione finale. La sezione iv B4 del rsha guidata da Adolf Eichmann attua il trasferimento forzato di popolazioni e le deportazioni degli ebrei verso i centri di sterminio massimizzando spazi e costi dell’operazione al prezzo di disumanizzare gli “oggetti” dell’azione, gli ebrei, ridotti a dati quantitativi: “tonnellate per chilometro”, “carico”, “capitolo di spesa”, “pezzi”. Il compimento del genocidio ebraico Ăš stato possibile perchĂ© «la civiltĂ  si dimostrĂČ incapace di garantire un uso morale del terrificante potere da essa creato» (Bauman, 2010a, p. 158).

la shoah 28

Nel Terzo Reich le forme di articolazione sociali, come la classe operaia, le organizzazioni autonome dei lavoratori, i partiti, furono smantellate e poste sotto controllo di centri di potere statali come il partito nazionalsocialista (nsdap), il Fronte del lavoro e la GioventĂč hitleriana. La scienza e la Chiesa, le istituzioni nobili di salvaguardia del progresso e della tradizione, caddero sotto l’orbita nazista. Stimolante per la riflessione sulla relazione fra modernitĂ  e violenza nazista restano le riflessioni di Hannah Arendt sul totalitarismo la cui «terribile originalità» (in termini di definizione della natura del governo rispetto alla tradizione del pensiero politico occidentale)2 ha provocato una frantumazione delle «nostre categorie politiche e dei nostri criteri di giudizio morale» (Arendt, 2008, p. 110) e una «bancarotta del senso comune moderno» sostituito da una stringente logica totalitaria. Le intuizioni di Arendt sulla filiazione del nazismo dal razzismo e dall’imperialismo europeo del xix secolo hanno aperto la strada alla contestualizzazione della Shoah nella storia dell’evoluzione “civile” europea alternativamente alla “via speciale” seguita dalla Germania e sfociata nel nazismo e nello sterminio. Secondo la tesi della “via speciale”, l’irresistibile ascesa del nazismo e l’eccezionalitĂ  del crimine nazista andrebbero ricondotti a un’intrinseca debolezza e illiberalitĂ  del sistema di potere del Reich guglielmino e a specifici tratti culturali tedeschi come il conservatorismo aristocratico e l’esacerbato militarismo che posero la Germania prehitleriana fuori dal percorso democratico seguito dai regimi liberali inglese e francese. La genealogia – disciplina ausiliaria della storia che tratta le origini e la discendenza di famiglie e di stirpi – della civilizzazione occidentale, tematizzando le forme della violenza moderna, ha rivelato che Auschwitz, lungi dall’essere una ricaduta nella barbarie, in un’inciviltĂ  senza tempo, Ăš stato uno dei prodotti possibili e uno dei figli legittimi dell’Occidente, in quanto sintesi delle violenze moderne (Traverso, 2002, p. 180). Facendo riaffiorare una corrente antilluminista e una passione europea per il genocidio, la genealogia del disastro come storia del xx secolo ci insegna che «l’idea dei continui progressi dell’umanitĂ  Ăš solo pia illusione» (Bensoussan, 2009, p. 25).

2. Il governo totalitario Ăš senza precedenti perchĂ© fa saltare l’alternativa tra governo legale, costituzionale o repubblicano, da un lato, e governo illegale, arbitrario e tirannico, dall’altro, su cui si basano le definizioni della natura del governo sin dagli albori del pensiero politico occidentale sfidando ogni comparazione.

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Genocidio e singolaritĂ  della violenza nazista

L’irruzione della violenza nazista nell’Europa asservita al dominio tedesco pose i suoi contemporanei di fronte a un «crimine senza nome», come ebbe modo di affermare Winston Churchill quando apprese dei sistematici massacri di massa delle comunitĂ  ebraiche dell’Unione Sovietica. L’originalitĂ  della violenza nazista non sfuggĂŹ a Raphael Lemkin, giurista polacco a cui va attribuita la paternitĂ  del termine genocidio, il quale andava a colmare proprio quella lacuna rilevata da Churchill. Genocidio deriva dal greco ÎłáœłÎœÎżÏ‚ (razza, stirpe, etnia) e dal latino caedo (uccidere). Nel novembre del 1944 esce negli Stati Uniti il libro Axis Rule in Occupied Europe in cui viene precisato il significato del neologismo:

Con genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico [...]. In generale, il genocidio non comporta necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, ad eccezione di quando ù compiuta attraverso uccisioni di massa di tutti i suoi membri. Significa piuttosto un piano coordinato di differenti azioni miranti alla distruzione delle essenziali basi della vita dei gruppi nazionali, con lo scopo di annientare i gruppi stessi. L’obiettivo di tale piano sarebbe la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e dell’esistenza economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche delle vite degli individui appartenenti a tali gruppi. Il genocidio ù rivolto contro il gruppo nazionale come entità, le azioni implicate sono dirette contro gli individui, non rispetto alle loro capacità individuali, ma come membri di un gruppo nazionale (Lemkin 2005, p. 79).

Ponendo l’accento sul gruppo-vittima piĂč che sul singolo, Lemkin coglieva il tratto specifico delle violenze di massa del xx secolo nel fatto che le vittime sono state assassinate sulla base di un’identitĂ  collettiva. Lemkin con questo concetto non guardava esclusivamente allo sterminio degli ebrei, ma alle modalitĂ  dell’occupazione nazista in Europa.

Diversamentedaquantogeneralmentesipensiilfenomenogenocidario ù multidimensionale, investe diversi piani (politico, sociale, culturale, economico, biologico, fisico, religioso e morale). In quanto genocidio, la Shoah ha comportato la distruzione fisica delle persone, della cultura, della società, dell’economia ebraica europea. A Norimberga nessuno dei nazisti portati alla sbarra fu giudicato colpevole di genocidio pur es-

la shoah 30
2.3

sendovi fra le imputazioni quella di «genocidio deliberato e sistematico, sterminio di gruppi razziali e nazionali [...] in particolare di ebrei, polacchi e zingari». Le pressioni esercitate da Lemkin per far avere un adeguato riconoscimento al nuovo concetto sul piano giuridico internazionale diede luogo alla approvazione da parte dell’Assemblea generale dell’onu il 9 dicembre 1948 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Crimine di genocidio che Ăš cosĂŹ definito all’art. 2: «ognuno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere completamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razionale e religioso: a) l’uccisione dei membri di un gruppo; b) lesioni gravi all’integritĂ  fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro». Le critiche alla definizione di genocidio contenuta nell’art. 2 non sono mancate. Essa Ăš stata giudicata troppo ristretta poichĂ© omette deliberatamente i gruppi politici e sociali, risultando pertanto inapplicabile in numerosi casi (Chalk, 1989; van Schaack, 1997). Inoltre non si fa distinzione tra la violenza destinata ad annientare un gruppo – gli atti espressi in (a) e (c) – e gli attacchi non letali sui membri del gruppo, esemplificati ai punti (b) e (d) (Chalk, Jonassohn, 1990). Cosa significa caso per caso “totale” o “in parte” Ăš da stabilire. CosĂŹ come da chiarire Ăš ogni volta la natura dell’intenzionalitĂ  di chi commette genocidio.

La mancata applicazione della definizione onu in molti casi ù dipesa dalla natura stessa delle Nazioni Unite, un’organizzazione di Stati sovrani che all’occasione hanno impedito che l’ordine legale internazionale prevalesse sulle singole prerogative nazionali. Per esempio, la scelta di non usare il termine da parte della diplomazia statunitense nel 1994 in Ruanda, dove tra il maggio e il luglio del 1994 furono massacrati a colpi di machete 800.000 Tutsi dalla maggioranza etnica Hutu, ù legata alla volontà politica statunitense di non intervenire. Dopo alcuni decenni di limitato interesse, a partire dagli anni Ottanta l’attenzione per il genocidio e in special modo per la Shoah si ù rinnovata nei paesi anglosassoni. Con la comparsa di alcune opere ormai classiche3

3. I. L. Horowitz, Genocide: State Power and Mass Murder, Transaction, New Brunswick 1976; L. Kuper, Genocide. Its Political Use in 20th Century, Yale University Press, New Haven 1981; Id., The Prevention of Genocide, Yale University Press, New Haven 1985; S. Totten, W. S. Parsons, Century of Genocide, Routledge, New York 1995.

2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea 31

prendono corpo i Genocide Studies, un sapere interdisciplinare ancora poco considerato in Italia. Proprio negli “studi sul genocidio”, alla luce delle criticitĂ  della definizione onu si cerca di definire e di delimitare concettualmente il termine genocidio, di formulare schemi comparativi e strategie di prevenzione del genocidio. Sono state formulate definizioni minimali «ogni atto che mette in pericolo la reale esistenza di un gruppo» (Huttenbach, 1988), ampie «il genocidio comporta l’uccisione di massa di un sostanziale numero di esseri umani, non nel corso di un’azione militare contro le forze militari del supposto nemico, sotto condizioni di essenziale inermità» (Charny, cit. in Andreopoulos, 1994), inclusive, «i genocidi contro gruppi razziali, nazionali, etnici, religiosi sono generalmente una conseguenza di un conflitto politico, o ad esso intimamente legati» (Laban Hinton, 2007, p. 67), e «genocidi e politicidi sono la promozione, l’esecuzione e/o comportano il consenso di politiche sostenute dalle Ă©lite al governo o dai loro agenti – sia in caso di guerra civile, sia di autoritĂ  contesa – che sono destinati a distruggere, in parte o totalmente, un gruppo comunitario, politico o etnico politicizzato» (Harff, Gurr, 1988).

Sin dagli anni Novanta si Ăš discusso sull’unicitĂ  della Shoah e si Ăš giunti a un ampio accordo sul carattere senza precedenti e singolare di Auschwitz. Questo dibattito ha messo in luce come l’applicazione esclusiva del termine genocidio alla Shoah in ragione della sua unicitĂ  storica e fenomenologica (Katz, 1994) o la distinzione fra Olocausto e altri genocidi (Bauer, 2009) possa dar luogo a polemiche fortemente politicizzate sul rischio di gerarchizzare le sofferenze delle vittime (Rosenbaum, 2009). L’insoddisfazione rispetto al riferimento prevalente negli studi sul genocidio alla definizione onu ha generato formule alternative come quella di «societĂ  estremamente violente» (Gerlach, 2010) e nuovi interessanti progetti di critica del canone degli studi sul genocidio in cui la Shoah appare come prototipo (Moses, 2008; Laban Hinton, 2012).

La singolaritĂ  della Shoah non la rende affatto incomparabile. Al fine di riconoscere la singolaritĂ  storica di Auschwitz, di evitare di renderla oggetto di una «focalizzazione esclusiva» (Flores, 1998, p. 318) e di far emergere ciĂČ che vi Ăš di peculiare in ognuna delle violenze di massa del xx secolo, Ăš necessario comparare la Shoah con altri casi di violenza, come il massacro degli armeni del 1915-16, l’autogenocidio cambogiano del 1975-79 e lo sterminio dei tutsi del 1994. Utili stru-

la shoah 32

menti per mettere in piedi un’adeguata struttura comparativa sono le nozioni di massacro e paradigma di violenza (SemĂ©lin, 2007), i quattro livelli comuni della definizione del gruppo vittima, del grado di intenzionalitĂ , del profilo degli esecutori e delle forme di perpetrazione del genocidio (Charny, 1999, pp. 12-5). Tenere conto del carattere processuale e dinamico dell’evento genocidario ed evitare, da una parte, quel modo di pensare agli eventi di violenza come se tendessero a eguagliarsi, a ridursi, al di lĂ  delle loro differenze qualitative, gli uni agli altri rispetto al computo delle vittime, dall’altra, quello di assegnare al fenomeno di violenza una superioritĂ  ontologica, un’aura sacrale. La Shoah esprime esemplarmente il paradigma del potere di “distruggere per sradicare”, mentre l’autogenocidio in Kampuchea democratica quello del potere di “distruggere per sottomettere”, a cui corrispondono due opposte dinamiche della violenza (SemĂ©lin, 2007, pp. 41-5). Il ruolo paradigmatico della Shoah potrebbe consistere nella sua capacitĂ  di riassumere, in qualche modo, tutte le violenze del xx secolo: «non sono l’intensitĂ , nĂ© le motivazioni, nĂ© le modalitĂ , nĂ© il carattere premeditato e “finale” della distruzione messa in atto [...] Ăš la loro compresenza. È quella sorta di tragico compendio di tutti i tipi di violenza possibili presenti nella Shoah che fa del genocidio degli ebrei un evento storico di particolare e unico rilievo nel panorama della violenza novecentesca” (Flores, 2005, p. 27).

2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea 33

Narrazioni storiche della Shoah

3.1

Intenzionalismo vs funzionalismo

Quale ruolo va attribuito a Hitler nel processo decisionale sfociato nel sistematico sterminio degli ebrei d’Europa? Gli storici della Shoah si sono schierati secondo due orientamenti principali: intenzionalista e strutturalista-funzionalista. Mentre l’intenzionalismo storiografico ha posto l’accento sull’intenzione omicida e sulla preminenza dell’ideologia antisemita come fattore determinante gli esiti estremi della violenza nazista, sul ruolo preponderante avuto da Adolf Hitler, assertore di un antisemitismo radicale e primo motore dello sterminio sistematico, il funzionalismo si Ăš concentrato sulla complessa struttura del potere nazista tutt’altro che ordinato sotto il controllo di un uomo solo al comando, frammentato e conteso tra le diverse istituzioni implicate nell’implementazione del processo di distruzione. Secondo la tesi intenzionalista la soluzione finale Ăš stato il prevedibile risvolto di un’idea – quella di sterminare gli ebrei – espressa da Hitler giĂ  nel 1925 nella sua opera Mein Kampf (La mia battaglia) e riaffermata in un momento cruciale come nel discorso del 30 gennaio 1939 tenuto al Reichstag in cui prospettĂČ l’eventualitĂ  dello sterminio degli ebrei. Per il funzionalismo la via che condusse ad Auschwitz fu “tortuosa” (Schleunes, 1990), l’esito di una “radicalizzazione cumulativa” (Mommsen, 2003) della soluzione della questione ebraica posta al centro della contesa e degli interessi di diversi centri di potere (sa vs ss, Himmler vs Göring/ Frank). Secondo Klaus Hildebrand, preminente esponente della scuola intenzionalista, «per il genocidio nazista, il dogma razziale di Hitler fu fondamentale [...] le idee programmatiche di Hitler sull’eliminazione degli ebrei e sulla supremazia razziale vanno ritenute causa primaria,

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3

motivo e fine, intenzione e punto di fuga della “politica ebraica” del Terzo Reich» (Kershaw, 1995, p. 127).

Per il funzionalista Martin Broszat, in assenza di un ordine generale e globale impartito dal FĂŒhrer, «il “programma” dello sterminio degli ebrei conobbe uno sviluppo istituzionale graduale, e fu in pratica il frutto di iniziative individuali, fino al principio del 1942, acquisendo una fisionomia definita solo dopo la costruzione dei campi di sterminio in Polonia (tra il dicembre 1941 e il luglio 1942)» (ivi, p. 128).

Tale controversia storiografica raggiunse il suo culmine in una serie diconferenzeinternazionalitenuteaPariginel1982,aGerusalemmenel 1983 e a Stoccarda nel 1984. L’incapacitĂ  di sopportare separatamente il carico della successiva ricerca suscitata dall’apertura degli archivi sovietici dopo la fine della Guerra fredda ha richiesto l’integrazione dei due orientamenti. Il maggiore dei pregi dell’approccio intenzionalista Ăš di avere stimolato la ricerca sul ruolo, anche indiretto, avuto da Hitler e sulle peculiaritĂ  dell’antisemitismo nazista. Tuttavia far discendere la soluzione finale direttamente dalle intenzioni programmatiche di Hitler rivela un vizio teleologico, un’attitudine a sottovalutare le contraddizioni e le difficoltĂ  emerse nel corso dell’implementazione del programma di sterminio, oltre a sovrastimare l’importanza delle decisioni venute dalle alte sfere del potere e a sottostimare le iniziative locali nei luoghi dello sterminio alla periferia del Reich. Merito del funzionalismo Ăš di aver dato il giusto rilievo alle spinte venute dal basso dagli attivisti del partito e dalla periferia, dai capi dei distretti dell’Europa orientale per l’implementazione del processo di distruzione e alla multidimensionale logica burocratica che ha strutturato a piĂč livelli l’ampio coinvolgimento delle societĂ  genocidarie.

Vedere Hitler come un dittatore debole, incapace nei momenti cruciali di decidere non ha impedito di riconoscerne il ruolo centrale di guida morale e di fonte ultima della legge nel Terzo Reich, il potere carismatico-sanzionatorio di forte spinta nel processo di distruzione in direzione dello sterminio sistematico (Mommsen, 2003). Nondimeno, l’aver posto l’accento sul funzionamento complessivo della macchina dello sterminio, sui processi strutturali e sul gioco delle funzioni contrastanti ha fatto perdere di vista il problema dell’intenzione e allentato la stretta sulla responsabilitĂ  dei carnefici, talvolta visti piĂč come ingranaggi di un meccanismo distruttivo che come soggetti consapevoli delle terribili implicazioni delle loro azioni.

3. narrazioni storiche della shoah 35

I sintetizzatori, che hanno cercato di fare sintesi delle due posizioni, inclinano verso i funzionalisti nel dubitare che Hitler pianificĂČ la soluzione prematuramente situando la decisione sullo sterminio intorno all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, mentre inclinano verso gli intenzionalisti nel valutare il ruolo avuto da Hitler nell’evoluzione delle politiche antiebraiche prima del 1941, ritenendo probabile che Hitler stesso ordinĂČ o autorizzĂČ l’inizio delle uccisioni in massa nel giugno del 1941. Tra i sintetizzatori vi Ăš disaccordo sul grado di personale coinvolgimento del FĂŒhrer nel formulare le politiche anti-ebraiche e sul tipo di motivazione alla base della sua decisione nel momento di passaggio dal trasferimento forzato allo sterminio. Tra questi Saul FriedlĂ€nder in La Germania nazista e gli ebrei (2004) ha arguito che Hitler ebbe sempre un piano per gli ebrei, di emigrazione e nuovo insediamento prima del 1941, dopo di cui uno di sterminio, e che nel periodo 1933-41 mantenne sempre il controllo sulle politiche antiebraiche indirizzandone l’evoluzione impartendo ordini verbali ai suoi luogotenenti. Richard Breitman, in Himmler. Il burocrate dello sterminio (1995), ha sostenuto che Hitler diede l’ordine di sterminio nel marzo del 1941 nel corso dei preparativi per l’Operazione Barbarossa. Christopher Browning, in Verso il genocidio (1999) e Le origini della soluzione finale (2008), ha sostenuto che il piano di sterminare gli ebrei d’Europa ebbe origine fra il luglio e l’ottobre del 1941, nell’euforia della vittoria. Altri sintetizzatori invece hanno affermato che Hitler fu motivato dalla rabbia per la sconfitta imminente e hanno collocato la sua decisione piĂč tardi, come Philippe Burrin, in Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio (1994), alla fine di ottobre del 1941 e Arno J. Mayer, in Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, alla fine di settembre del 1941 come effetto collaterale della crociata anti-bolscevica, l’Operazione Barbarossa.

ModernitĂ ,

3.2

modernizzazione, modernismo: Zygmunt Bauman, Götz Aly, Jeffrey Herf

Il sociologo Zygmunt Bauman e gli storici Götz Aly e Jeffrey Herf si sono serviti rispettivamente delle categorie di “modernità”, “modernizzazione” e “modernismo” per far luce sul nazismo e sullo sterminio degli ebrei.

la shoah 36

Bauman ha inteso la Shoah come un importante test sulle possibilitĂ  occulte della modernitĂ , esito tanto unico quanto normale della tendenza patologica della cultura burocratica moderna a considerare la societĂ  come un oggetto da amministrare secondo una logica strumentale che riduce gli esseri umani a mezzi nell’ottica di un grande progetto utopistico politico-ideologico. A suo avviso, la Shoah sarebbe un genocidio tipicamente moderno poichĂ© mira a uno scopo, quello di edificare una societĂ  perfetta attraverso l’eliminazione di certi gruppi umani, come se si trattasse di curare un giardino, privandolo delle erbacce infestanti (Bauman, 2010b, p. 101)1 .

Dallo studio realizzato da Götz Aly a quattro mani con Susanne Heim sui precursori dello sterminio Ăš emersa una lettura “economica” della soluzione finale basata sulle connessioni tra modernizzazione e sterminio. Secondo questa prospettiva interpretativa, lo sterminio degli ebrei rientrerebbe in una piĂč ampia strategia di «politica negativa della popolazione» adottata dai pianificatori nazisti in applicazione di un modello concettuale di «economia demografica» in ragione del quale ogni problema sociale ed economico va commisurato al raggiungimento della «misura ottimale della popolazione» (Aly, Heim, 2002, p. 60). Agli occhi di questi tecnocrati, per giungere all’integrazione economica dei territori dell’Europa orientale nel grande Reich tedesco, Ăš necessario razionalizzare i metodi di produzione, standardizzare i prodotti, introdurre una divisione continentale del lavoro, modernizzare e semplificare le strutture sociali riequilibrando il rapporto tra le quote di popolazione produttiva e improduttiva, rafforzando la classe media a garanzia di condizioni sociali stabili, facendo fiorire mercati interni locali, monitorando il sovrappopolamento con programmi di controllo e di promozione delle nascite, reinsediamento e sterminio. Modernizzazione, riforma del sistema psichiatrico e sterminio sono interconnessi nei programmi segreti centralizzati sotto il ministero degli Interni avviati dopo la sospensione ufficiale dell’operazione T4.

1. La visione baumaniana della cultura burocratica moderna come condizione necessaria ma non sufficiente della Shoah ha prestato il fianco alle aspre critiche dello storico Yehuda Bauer che giudica l’analisi di Bauman «insoddisfacente e contraddittoria» poichĂ© manca di chiarezza nel definire il concetto di modernitĂ  e fa un uso improprio della categoria di genocidio. La lettura baumaniana della Shoah ha il punto di forza di mostrare come le conseguenze morali della razionalizzazione e della burocratizzazione della societĂ  moderna facilitino l’azione del criminale nazista, mentre Ăš debole rispetto al fatto che la violenza calda delle Einsatzgruppen Ăš solo in parte burocratizzata.

3. narrazioni storiche della shoah 37

Questa nuova fase di massacri istituzionali che coinvolse migliaia di tedeschi “improduttivi” era basata su un’attenta sistematizzazione, pianificazione e riforma del sistema psichiatrico di lungo periodo (Aly, Chroust, Pross, 1994). Dissentendo dalle posizioni ultra-funzionaliste di Aly (secondo cui non vi fu alcun piano complessivo, nĂ© alcuna decisione a livello centrale di uccidere gli ebrei, ma Ăš stato il fallimento dei piani demografici dei tecnocrati nazisti a determinare la soluzione finale), lo storico statunitense Christopher Browning il quale sostiene che, lungi dall’esservi ampio consenso tra gli esperti pianificatori sull’omicidio di massa degli ebrei come soluzione estrema al fallimento della politica demografica in Europa orientale, la via verso il genocidio fu aperta dal frazionamento tra “produttivisti”, coloro che volendo sfruttare la manodopera ebraica tentarono di tenerla in vita, e “logoramentisti”, coloro per i quali l’impiego per l’economia di guerra era secondario. Browning sostiene che non fu tanto il progetto di un’integrazione economica dei territori orientali occupati nel Reich, nĂ© il calcolo economico il primo motore per la soluzione finale quanto l’illogicitĂ  economica, lo smantellamento dei ghetti polacchi, nonostante la crescente richiesta di lavoro ebraico e il rapido aumento della produttivitĂ  (Browning, 1998, pp. 63-78). Alla critica di Browning va aggiunta quella di Bauer che reputa l’analisi di Aly carente perchĂ© considera solo gli esecutori, non fa cenno alle potenze straniere, nĂ© alle Chiese, non analizza il nazismo e tratta i polacchi, gli ebrei e i rom come vittime passive, non convince sulla pressione decisiva esercitata dai funzionari tedeschi di livello intermedio sui governanti di Berlino (Bauer, 2009, pp. 118-25).

Allo storico americano Jeffrey Herf, che pone al centro della sua ricerca le origini culturali del Terzo Reich, la soluzione finale appare come il momento culminante del «modernismo reazionario», un concetto che esprime il paradosso culturale della modernitĂ  tedesca: l’accettazione da parte di alcuni pensatori tedeschi (Spengler, JĂŒnger, Sombart, Freyer, Schmitt, Heidegger) e del regime nazista della tecnologia moderna pur nel rifiuto della sua matrice, la ragione illuminista (Herf, 1998, p. 318). Questo potĂ© accadere grazie all’integrazione della tecnologia nel simbolismo e nel “gergo dell’autenticità” della cultura nazista dove sangue, razza, anima, volontĂ , comunitĂ  divennero termini assoluti oltre la giustificazione razionale e per mezzo dell’estraniamento dalla sfera della civilizzazione, sede per i nazisti di ragione,

la shoah 38

internazionalismo, materialismo, finanza ed ebraismo. Facendo prevalere nel processo decisionale l’ideologia antiutilitarista sulla razionalitĂ  tecnica commisurante mezzi e fini, Hitler condusse il Terzo Reich alla catastrofe bellica. Secondo Herf, diversamente da Bauman, lo sterminio degli ebrei non ha rappresentato il destino del mondo moderno, nĂ©, in disaccordo con Horkheimer e Adorno, l’involuzione dialettica della ragione illuminista nel dominio; tutt’al piĂč Auschwitz rimane «un monumento all’insufficienza e non all’eccesso di ragione nel Reich hitleriano» (ivi, p. 320). 3.3

Antisemitismo eliminazionista tedesco:

Daniele J. Goldhagen

Non c’ù stato libro tanto controverso e discusso nella storia della storiografia sulla Shoah quanto I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, pubblicato dal politologo statunitense Daniele J. Goldhagen nel marzo del 1996. Con l’uscita della versione tedesca in Germania divenne un bestseller, facendo infuocare sui quotidiani tedeschi un’appassionata discussione tra storici e non. L’enorme ricezione di pubblico e di critica Ăš dovuta alla sua tesi centrale: lo sterminio degli ebrei d’Europa Ăš stato un progetto nazionale accolto e sostenuto dall’intera societĂ  tedesca dove un «antisemitismo eliminazionista» era il «senso comune» dell’epoca (Goldhagen, 1998). Goldhagen spiega perchĂ© lo sterminio avvenne rivolgendo l’attenzione non tanto al gruppo dirigente nazista nĂ© al processo decisionale quanto alle azioni dei «realizzatori» (ss, poliziotti, guardie dei campi) esempio di «tedeschi comuni». A Goldhagen gli agenti materiali dello sterminio appaiono «volonterosi carnefici» che parteciparono in piena coscienza, perfettamente in grado di intendere, giudicare e comprendere quel che stavano facendo, tutt’altro che neutrali e passivi, sulla base di un modello cognitivo-culturale secondo cui l’ebreo era diverso dal tedesco, l’opposto binario del tedesco, non un diverso innocuo, bensĂŹ maligno e pernicioso, pervasivo nella societĂ  tedesca sin dal xix secolo. La volontarietĂ  – espressa nel libro per mezzo della forma grammaticale attiva – lo zelo e il sadismo con cui questi uomini agirono escludono il ricorso a interpretazioni “convenzionali”, come dire essi non uccisero perchĂ© costretti a farlo o per acritica obbedienza agli ordini, tantome-

3. narrazioni storiche della shoah 39

no per le pressioni sociali subite, nĂ© per favorire la propria promozione personale o perchĂ©, essendo parte della macchina burocratica dello sterminio, non erano nella posizione di cogliere nella globalitĂ  gli effetti delle singole azioni intraprese, ma esclusivamente perchĂ© erano animati da un antisemitismo demonologico che relegava gli ebrei fuori dalla famiglia umana. Pur avendo il merito di aver rimesso al centro dell’attenzione l’antisemitismo e la questione dell’intenzionalitĂ  del crimine sottovalutati dal funzionalismo, questa spiegazione monocausale, che sfida la pluralitĂ  delle motivazioni usualmente riconosciuta alla base delle azioni umane, appare circolare e deterministica sul piano logico, razzista e demonizzante nei confronti dei «tedeschi» osservati con l’occhio giudicante dell’antropologo che etnicizza l’adesione della societĂ  tedesca a un certo ordine di valori rispetto al quale lo sterminio degli ebrei appare ai tedeschi giusto. L’eccezionalitĂ  attribuita all’antisemitismo eliminazionista lo sottrae alla comparazione, mitologizzandolo. Il manicheismo moralista e la “via speciale” imboccata dalla Germania verso lo sterminio si trasforma in un’apologia del civile Occidente contrapposto ai cattivi “tedeschi” (Shandley, 1998; Bauer, 2009, pp. 126-48; Zamperini, 2001, pp. 6-7).

3.4

Processo di distruzione e triade vittime-carnefici-spettatori: Raul Hilberg

Il 1961 ù un anno significativo per la ricerca sulla Shoah. Mentre a Gerusalemme si tiene il processo Eichmann, a New York ù data alle stampe la prima edizione di La distruzione degli ebrei d’Europa, opera canonica sul genocidio degli ebrei. Il suo autore Raul Hilberg, viennese d’origine e statunitense d’adozione, considera la distruzione degli ebrei d’Europa come un avvenimento senza precedenti nella storia per dimensioni e tipo di organizzazione, il punto di arrivo dell’evoluzione ciclica di secolari politiche antiebraiche e l’esito dell’applicazione di una serie progressiva di misure amministrative (Hilberg, 1999, p. 6).

La distruzione degli ebrei d’Europa richiese l’impegno diretto e congiunto di quattro gerarchie distinte (burocrazia ministeriale, forze armate, apparato economico-finanziario, partito nazionalsocialista e ss, suo braccio armato) facenti capo al FĂŒhrer. Hilberg ritiene che le migliaia di funzionari coinvolti non avrebbero potuto prevedere sin

la shoah 40

dall’inizio l’esito a cui si sarebbe giunti al termine del 1941. Questo processo che non corrispose a un piano prestabilito si articolĂČ in fasi strettamente correlate e susseguenti: 1. definizione a mezzo decreto; 2. espropriazione e spoliazione economica; 3. trasferimento e concentrazione nelle grandi cittĂ , ghettizzazione e sfruttamento della forza lavoro; 4. annientamento fisico con i reparti mobili di massacro nei territori sovietici occupati, deportazione su scala continentale ed eliminazione sistematica nei centri di sterminio (ivi, p. 51).

Secondo Hilberg se si vuole «capire questa storia in tutta la sua ampiezza» Ăš necessario guardarla dalla prospettiva dei comuni funzionari tedeschi (Hilberg, 1996, p. 61) chiamati a svolgere compiti straordinari per realizzare un’enorme impresa di distruzione in esecuzione delle leggi emanate e degli ordini impartiti dall’alto grazie a «una disposizione dello spirito», a una «consonanza» e a un «sincronismo» d’intenti (Hilberg, 1999, p. 53). I burocrati tedeschi esercitarono le loro competenze specifiche in un contesto d’azione segnato dall’ipertrofia legislativa, dalla moltiplicazione dei provvedimenti – le direttive scritte lasciarono via via posto ai provvedimenti verbali – e da una progressiva evanescenza della fonte ultima d’autoritĂ  del FĂŒhrer. Questi uomini furono in grado di fronteggiare gli ostacoli amministrativi, economici e psicologici che ne gravarono l’azione perchĂ© percepirono questo sforzo come un evento esclusivo, un’esperienza vissuta provvedimento dopo provvedimento (ivi, pp. 1121-2). Con Carnefici, vittime e spettatori Hilberg allarga la prospettiva d’osservazione sulla Shoah. Dal piano politico-decisionale e organizzativo-amministrativo si sposta ai gruppi e agli individui secondo un diverso approccio metodologico. A prescindere dalla rilevanza politica i singoli sono inclusi nella narrazione storica. Il carnefice non si trova piĂč al centro della scena, ora occupata dalla triade carnefici-vittime-spettatori (Hilberg, 1996, pp. 190-1). Nella Distruzione degli ebrei d’Europa, ispirandosi all’architettura musicale di Beethoven, l’artista-storico – cosĂŹ lui stesso si concepisce –, Hilberg ricostruisce il processo di distruzione nazista come una sinfonia i cui spartiti sono i documenti della burocrazia nazista (Hilberg, 1999, pp. 81-9). In Carnefici, vittime e spettatori, con una serie di brevi e incisivi ritratti, dĂ  spazio alle testimonianze delle vittime dopo averle tenute nell’ombra per decenni dalla sua narrazione storica: solo fonti secondarie secondo un approccio radicalmente oggettivista (Amodio, De Maio, Lissa, 1998, pp. 6-13; Hilberg, 2001; Finchelstein, 2005, pp. 3-48).

3. narrazioni storiche della shoah 41

Storia memoriale e integrata: Saul FriedlÀnder

Altra imprescindibile fonte di studio e riflessione sulla Shoah Ăš l’opera pluridecennale di Saul FriedlĂ€nder, praghese d’origine, cittadino israeliano e statunitense, di particolare interesse perchĂ© profondamente ispirata dalla sua storia personale di ebreo cosmopolita e sradicato, scampato alla persecuzione nazista da bambino (FriedlĂ€nder, 1990). Punto di arrivo della sua ricerca sono i due volumi della Germania nazista e gli ebrei. Con il primo, Gli anni della persecuzione 1933-39 (1997), si sofferma sulla politica antiebraica nazista prima del conflitto mondiale, con il secondo, Gli anni dello sterminio 1939-45 (2007), si concentra sull’eliminazione degli ebrei. Con questo progetto, che lo ha impegnato dal 1990 al 2006, FriedlĂ€nder propone una storia integrata, inglobante, totale, pluridimensionale e polifonica, integrando due contrastanti paradigmi storiografici: quello tedesco e anglosassone, centrato sui carnefici e sul processo politico-decisionale nazista, e quello ebraico-israeliano al cui centro stanno le vittime viste in chiave eroico-apologetica (Goldberg, 2009, pp. 220-37). TotalitĂ  di avvenimenti definita dalla convergenza di elementi distinti – politiche, provvedimenti e decisioni tedesche, reazioni del mondo circostante, opposizione delle vittime –, la Shoah Ăš narrata alla luce della sua pluridimensionalitĂ .

Nell’Europa occupata l’applicazione delle decisioni naziste dipese dalla disponibilitĂ , dalla reticenza delle autoritĂ  e dei funzionari locali, dalle azioni individuali o collettive delle vittime. Traccia delle interazioni tra ebrei, nazisti e popolazioni non ebree dei paesi occupati Ăš rimasta nelle testimonianze, nelle memorie, nei diari, nelle lettere delle vittime. Restituendo voce alle vittime FriedlĂ€nder intende dare risalto all’esperienza della persecuzione vissuta «in tempo reale» per mantenere viva la memoria e comunicare al lettore quel misto di straniamento, incredulitĂ , eccesso e ordinarietĂ , quel «senso primario di smarrimento» che di primo acchito la persecuzione suscitava nelle vittime (FriedlĂ€nder, 1993, pp. 102-16). Il senso di disorientamento, di disperazione, di impotenza e catastrofe imminente sentito dalle vittime precede per FriedlĂ€nder ogni sforzo di comprensione e spiegazione storica: prima viene la memoria, poi la storia. Le voci individuali delle vittime interrompono l’ossessivo inveire del discorso dell’antisemitismo «redentivo» (FriedlĂ€nder, 2004, pp. 81-120; 2009, pp. 21-40) amplificato e propagandato nell’opinione pubblica europea per legittimare la soluzione finale.

la shoah 42
3.5

figura 3.1

Schema triangolare delle relazioni tra gli attori del genocidio

Partecipazione diretta

Saccheggio sanzionato/ non sanzionato governo

Aiuto indiretto genocidio

spettatore carnefice

Acquiescenza Coinvolgimento

Inibizione politica governo

Leadership e assassini

Fuga/ nascondersi Elementi del genocidio Soccorso/ resistenza

Lenta implementazione genocidio

Elusione/ Acquietamento

vittima

Veloce implementazione genocidio

Per FriedlĂ€nder, Hitler e la propaganda di Stato sono stati i fattori decisivi che alimentarono il fervore ideologico antiebraico basato sul credito incondizionato dato a Hitler, padre provvidenziale del popolo, garante della purezza razziale della comunitĂ , annientatore del bolscevismo e della plutocrazia ebraica. I tedeschi comuni parteciparono alla persecuzione perchĂ© interiorizzarono l’antisemitismo redentivo hitleriano. Nel piĂč ampio contesto europeo la generale mancanza di solidarietĂ  verso gli ebrei fu il terreno fertile sul quale questo ardore ideologico potĂ© radicarsi, accomodando ostacoli e dinamiche strutturali della societĂ  moderna con interessi di partito, di classe, dell’industria e delle Chiese (FriedlĂ€nder, 2004, pp. 16-8).

3. narrazioni storiche della shoah 43
Fonte: tratto da Ehrenreich, Cole (2005).
c b c' c''

Vittime:

testimonianza, memoria e storia

Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager.

4.1

Ebraismo orientale, donne e bambini nel Lager, musulmani, sopravvissuti

La soluzione finale del problema ebraico ha causato quasi sei milioni di vittime (Benz, 1998). Due terzi della comunitĂ  ebraica continentale Ăš scomparsa tra la fine del 1941 e la primavera del 1945. Questi dati numerici danno un’idea chiara della dimensione quantitativa del genocidio. Nei quattro angoli dell’Europa, famiglie e comunitĂ  intere furono spazzate via dalla furia nazista. Il principale teatro del massacro fu l’Europa orientale (Traverso, 2005, pp. 813-49). La Polonia, occupata e smembrata da russi e tedeschi, costituĂŹ il cuore dello sterminio sistematico: 2,7 milioni di ebrei polacchi vennero uccisi, i centri di sterminio di Auschwitz, Treblinka, SobibĂłr, CheƂmno, BeĆ‚ĆŸec e Majdanek sorsero sul suolo polacco. Il computo delle vittime, complessivo o relativo ai diversi paesi coinvolti Ăš indubbiamente necessario per cogliere la dimensione della Shoah (tab. 4.1). Tuttavia le cifre assolute o relative danno solo una comprensione parziale di quanto Ăš accaduto. Dietro le grandi masse di morti ci sono singole individualitĂ , vittime di diverse etĂ , genere, nazionalitĂ , istruzione, professione, pregresso politico e religioso, che differentemente resistettero alla privazione della libertĂ , alla perdita dei cari e dei compagni di prigionia – fucilati, gassati, affamati –, allo sfinimento fisico e psichico, alla minaccia diretta, continua e incombente della morte. Fortuna e virtĂč, il caso insieme alla prontezza ad approfittare di favorevoli quanto impreviste circostanze, permisero solo a una ristretta minoranza di detenuti di uscire miracolosamente vivi dall’inferno dei Lager, di evitare gli eccidi di massa o addirittura di riemergere

44
4

tabella 4.1

Numero degli ebrei uccisi nei vari paesi interessati dalla Shoah

Totale delle vittime*Percentuale sul totale dei residenti ebrei per paese

dalle fosse comuni, miracolosamente incolumi dopo le esecuzioni. I piĂč dovettero arrendersi. Nella distinzione tra vita e morte, i “sommersi”, coloro che non ce la fecero, e i “salvati”, i superstiti, condivisero un’esperienza e una conoscenza del male e della violenza del tutto fuori dal comune, al limite della narrazione. Chi ne ha avuto la forza l’ha raccontata a voce o l’ha fissata sulla carta per sgravarsi da tanta sofferenza silenziosamente patita, tenere viva la memoria col trascorrere del tempo, dar voce a chi non ha potuto raccontare e mettere a tacere chi vigliaccamente nega che la Shoah Ăš accaduta. A settant’anni dai fatti pochi, sempre di meno, sono i testimoni del disastro. Consultando i diari, le lettere,

4. vittime: testimonianza, memoria e storia 45
Austria
Belgio23.000 34% Bielorussia245.000 65% Danimarca 120 1,6% Francia77.00022% Germania 170.000 30% Grecia60.000 83% Italia 7.550 15% Iugoslavia 68.500 83% Lussemburgo 764 95% Norvegia 745 43% Olanda102.000 63% Paesi Baltici225.000 95% Polonia2.700.000 77% Slovacchia263.00073% Ucraina 1.200.00044% Ungheria606.000 70%
50.00026%
* Queste cifre tratte da diverse fonti sono approssimate in alcuni casi per eccesso, in altri per difetto.

le memorie, i biglietti gettati dai treni in corsa verso i Lager, i foglietti nascosti dove possibile e dissotterrati dopo tanto tempo, riacquistano tono le voci, spessore i vissuti, fisionomie i volti e ossigeno il pensiero di chi vuole comprendere il soverchiante orrore della distruzione.

La Shoah ha posto fine in Europa all’ebraismo orientale, ha sradicato l’yiddishkeit, quello stile di vita proprio del giudaismo ortodosso ashkenazita di cui erano parte la lingua yiddish e il dimorare in piccoli villaggi – shtetl. Un’indelebile testimonianza della cancellazione dell’yiddishkeit hanno lasciato queste pagine del Canto del popolo yiddish messo a morte scritte dall’ebreo bielorusso Itzhak Katzenelson:

CosĂŹ ci hanno distrutto, dalla Grecia fino alla Norvegia, fino davanti Mosca, fino a sette milioni, senza il conto dei bambini yiddish dentro i grembi [...]. Non esistono piĂč. Non chiedete laggiĂč voi d’oltremare, non chiedete piĂč notizie di Kasrilevke, di Yehupetz, rinunciate. Non andate a cercare i Menahem Mendel, i Tevye lattivendoli, gli Shloime il ricco, i Motke furfanti, non cercate [...]. La voce della TorĂ  non sarĂ  piĂč sentita uscire da una yeshivĂ , da una casa di studio, e giovanetti pallidi nobili di studio, approfonditi nella GhemarĂ , assorti nei pensieri [...]. Estinti ormai, rabbini, capi di yeshivĂ , yidn studiosi, grandi sapienti magri, asciutti e fragili, ripieni di Talmud, commentatori, piccoli yidn con le grandi teste, elevate fronti, occhi limpidi, non esistono piĂč nĂ© esisteranno. Nessuna madre cullerĂ  un bambino, non morirĂ  nĂ© nascerĂ  nessuno tra gli yidn, non ci saranno canti commoventi di poeti yiddish, di valenti scrittori, Ăš tutto giĂ  passato. Non ci saranno piĂč teatri yiddish, non si riderĂ  piĂč in quei posti nĂ© scivolerĂ  lenta una lacrima, e musicisti yiddish e pittori, i Bartchinski, non comporranno piĂč tra il dolore e la gioia, cercando nuove strade [...]. Guai a me, ora non c’ù nessuno. C’ù stato un popolo, c’ù stato, e non esiste piĂč. C’ù stato un popolo, c’ù stato, e adesso niente (Katzenelson, 2009, pp. 106-10).

Un destino, quello della distruzione della cultura yiddish e dell’ebraismo orientale, che trovava nella scrittura e nella parola gli strumenti per resistere all’oblio completo a cui stava andando incontro. Sebbene larga parte degli scritti andĂČ perduta a seguito della liquidazione del ghetto di Varsavia, non bisogna dimenticare quanto lo storico Emanuel Ringelblum diceva degli abitanti del ghetto: «scrivevano tutti... i giornalisti e gli scrittori, ma anche gli insegnanti, le persone in vista, i giovani e persino i bambini. La maggioranza di costoro teneva diari nei quali i tragici avvenimenti di ogni giorno si riflettevano attraverso il prisma dell’esperienza personale» (Wieviorka, 1999, p. 19). Fino a pochi istanti prima della morte, molti, non solo a Varsavia, scrisse-

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ro lettere di addio, indirizzate a parenti e amici. Da Williampola, nel ghetto di Kaunas (Lituania), il 19 ottobre 1943, un uomo di nome Elchanan scriveva ai figli: «Abbiamo scoperto che il nostro destino sarĂ  deciso nei prossimi giorni: il ghetto in cui ci troviamo sarĂ  smantellato e abbattuto. Solo Dio sa se ci uccideranno tutti o se qualcuno sopravvivrà» (Bacharach, 2011, p. 67). Una donna, di nome Mushiya, provata dalla sofferenza e terrorizzata dalla paura di morire scriveva da Ternopil (Ucraina) il 7 aprile 1943: «prima di andarmene da questo mondo vorrei lasciarti alcune parole. Se mai riceverai questa lettera, io e tutti noi qui non saremo piĂč vivi. La nostra fine si avvicina. Lo sentiamo e lo sappiamo. Siamo tutti destinati a morire, come tutti gli ebrei innocenti che sono giĂ  stati liquidati [...]. È una cosa terribile ma Ăš la pura verità» (ivi, p. 89). Dal ghetto di Ć iauliai (Lituania), Shmuel Mintzberg annotava con estrema e gelida concisione: «Noi confermiamo che il 7 luglio 1944 Ăš stato emesso l’ordine di evacuare il ghetto di Shavli. Vogliamo rendere noti i nostri nomi per le generazioni future [...]. Non sappiamo dove ci stanno portando. Nel ghetto duemila ebrei aspettano l’ordine di andare. Il destino Ăš sconosciuto. Il clima Ăš terrificante» (ivi, p. 100). Un progetto di sterminio totale come quello nazista non contemplava eccezioni: tutti andavano uccisi, dal lattante agli anziani, ogni presenza ebraica cancellata.

La differenza di genere tra le vittime ebree – debitamente considerata dagli studiosi solo a partire dagli anni Novanta – comportĂČ una diversa esperienza della persecuzione, una specificitĂ  della deportazione femminile (Chiappano, 2009, p. 71). Complessivamente, tra le vittime, piĂč della metĂ  furono donne. Fino a prima dell’inizio delle deportazioni sistematiche verso i Lager, nei ghetti esse godettero di un certo privilegio rispetto agli uomini, i quali furono decimati rapidamente a causa di malattie, malnutrizione e sfruttamento del lavoro forzato. Con l’inizio delle evacuazioni dei ghetti la situazione si capovolse: lo scarso impiego delle donne al lavoro si tradusse nella deportazione immediata verso i centri di sterminio o di concentramento dove la selezione andĂČ terribilmente a svantaggio di tutti coloro, donne comprese, che non erano considerati in grado di svolgere un lavoro dentro il Lager. Se ad Auschwitz solo un terzo dei sopravvissuti furono donne, nei campi di sterminio di CheƂmno, BeĆ‚ĆŸec, SobibĂłr e Treblinka, dove i sopravvissuti furono pochissimi, quasi nessuna donna rimase in vita (Hilberg, 1997, pp. 126-8). Il Lager femminile di RavensbrĂŒck e il settore bi di

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Auschwitz-Birkenau furono i luoghi principali della deportazione femminile. Una “ferita di genere” venne inflitta alle internate ebree (De Angelis, 2007, pp. 105-14). Nei Lager il corpo della donna era violato dalla completa rasatura iniziale, sottoposto a trattamenti sterilizzanti, lasciato nudo sotto gli occhi di ss compiaciute. Liliana Segre, deportata ad Auschwitz, della nudità vergognosamente patita racconta come mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo ù senz’altro una cosa umiliante e terribile [...]. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta ad un oltraggio ancora maggiore [...] di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare su una carta geografica, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non c’ù nulla, lì intorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo nascosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude (Padoan, 2010).

Con l’interruzione del ciclo mestruale e il deperimento delle forme plastiche causate dalla malnutrizione, le internate perdono la piĂč intima femminilitĂ  legata alla capacitĂ  generativa. È stato piĂč volte sottolineato come, rispetto alla prevalente ostilitĂ  e indifferenza nei riguardi dell’altrui sofferenza o ai celati legami intessuti tra i compagni detenuti, le donne, sfidando l’individualismo imperante dettato dal costante stato di necessitĂ , instaurarono rapporti di reciproco sostegno. Giuliana Tedeschi, deportata ad Auschwitz con il marito e la suocera, ha raccontato:

Nelle ore di abbandono ritornavano i richiami del mondo lasciato e insieme il bisogno di stringersi alle compagne, di piangere e di sperare con loro. Le cuccette delle italiane del convoglio di aprile erano tutte vicine: ottanta giovani donne erano entrate nel Lager [...]. CosĂŹ sperimentai che cos’era la mano di Zilly, una piccola mano calda, modesta e paziente, che la sera tratteneva la mia, che mi aggiustava la coperta intorno alle spalle, mentre al mio orecchio una voce tranquilla e materna sussurrava: «Buona notte, cara; mia figlia ha la tua etĂ !» [...]. CosĂŹ trovai Olga un giorno e rimanemmo nascoste nell’angolo di un blocco. SentĂŹ d’improvviso che avrei potuto parlare e che lei avrebbe potuto intendermi. Io parlai del senso dionisiaco della vita e lei parlĂČ dello spirito e del corpo. Le mie pupille si persero nel bianco dei suoi occhi, non vedemmo piĂč le baracche, dimenticammo i fili spinati, e la sconfinata libertĂ 

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dello spirito ci inebriĂČ al di sopra di ogni limite imposto dall’umana bestialitĂ . Ci scegliemmo compagne (Tedeschi, 2004)1 .

E i bambini, soggetto a lungo marginalizzato nella storiografia sulla Shoah, come vissero la persecuzione, quali furono le reazioni alla progressiva privazione materiale e affettiva? Dei bambini ebrei che vivevano nell’Europa dell’occupazione nazista il 90%, circa un milione e mezzo, perĂŹ (Dwork, 2005, p. 12; Di Palma, 2014, p. 17). Se in larga misura dalla selezione per il lavoro all’ingresso ad Auschwitz essi risultavano inabili perchĂ© ancora troppo piccoli, molti si mostrarono abili fingendo di avere piĂč anni di quanti in realtĂ  ne avevano come fecero Elie Wiesel (Wiesel, 2010, p. 37) e Imre KertĂ©sz (KertĂ©sz, 2002). Una volta nel Lager si faceva in fretta a diventare adulti, non c’era scelta, la concorrenza per sopravvivere era spietata. Liliana Segre, che al momento della deportazione ad Auschwitz aveva 13 anni, ricorda: «imparai in fretta che cosa voleva dire Lager. Voleva dire morte-fame-freddo-botte-punizioni; voleva dire schiavitĂč, voleva dire umiliazioni-torture-esperimenti» (aa.vv., 1996, p. 57). La dodicenne viennese Ruth KlĂŒger dimostrĂČ un’immediata presa di coscienza della situazione in cui si trovava appena scesa sulla banchina degli orrori di Auschwitz: «avrei dovuto provare sollievo, e per qualche istante lo provai, avevo finito di crepare di caldo in quella scatola da sardine, respiravo aria fresca. Ma l’aria non era fresca, aveva un odore che non esiste altrove su questa terra. E io seppi d’istinto e subito che quello non era un luogo per piangere, per attirare l’attenzione su di sĂ©. Affaticata, stravolta, esausta, inghiottii l’orrore che mi saliva in gola come vomito» (KlĂŒger, 2005, p. 36).

GiĂ  molto prima della deportazione verso i Lager i bambini esperirono netti cambiamenti in famiglia e a scuola. Per il piccolo Jona Oberski, nato ad Amsterdam nel 1938, la memoria dell’offesa comincia nella sua cittĂ , con un torto fattogli da un bambino piĂč grande che gli strappa il cappuccio dalla testa dicendogli «Ah! Ah! che sporca mantellina ebrea» (Oberski, 2010, pp. 16-7). L’esclusione dalla scuola, per via dell’emanazione nel 1938 delle leggi razziali fasciste, apparve ingiusta, un’ipoteca negativa sul proprio futuro, a Pietro Terracina che

1. Richiamiamo l’attenzione su alcune delle piĂč importanti voci europee della testimonianza sulla deportazione femminile. Tra le detenute ebree L. Millu, Il fumo di Birkenau, Giuntina, Firenze 2008; E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990. Tra le politiche M. Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, il Mulino, Bologna 1994; C. Delbo, Un treno senza ritorno, Piemme, Milano 2002.

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allora aveva 8 anni: «mi stavano facendo un torto e io lo sentivo [...] pensavo che non avrei piĂč potuto frequentare la scuola, che mi stavano togliendo la possibilitĂ  di riuscire nella vita» (Silvestri, 2007, p. 35), un momento di drammatica cesura – la fine dell’infanzia – a Liliana Segre: «quando mio papĂ  mi spiegĂČ che in quell’autunno non sarei piĂč potuta andare alla mia scuola (pubblica) perchĂ© ero una bambina ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare la mia vita di prima. Quel momento, eravamo a tavola, Ăš il momento che divide la mia infanzia tra il prima e il dopo» (aa.vv., 1996, p. 50).

Ancora prima delle deportazioni, tanti genitori, presentendo il peggio per i propri piccoli, a rischio di non rivederli mai piĂč, nascosero i figli presso “famiglie adottive” di conoscenti o sconosciuti (Dwork, 2005, pp. 91-138), o in istituti infantili per ebrei o di religiosi cristiani, dove i bambini diventarono invisibili, tenuti sotto falso nome.

Tra le testimonianze coeve alla Shoah impressionano il diario scritto dalla quindicenne Mary Berg dal 10 ottobre 1939 al 5 marzo 1944, per la luciditĂ  con cui fa la cronaca della distruzione del ghetto di Varsavia (Berg, 2009) e i settantanove disegni miniaturizzati, delle dimensioni di una cartolina, eseguiti nel blocco 29 del Lager di Buchenwald dall’allora sedicenne berlinese Thomas Geve che illustrano, con cura e semplicitĂ , i vari aspetti della detenzione nei campi di Auschwitz, Gross-Rosen e Buchenwald (Geve, 2011). Questa penetrante capacitĂ  espressiva Ăš sideralmente distante, quanto la vita del campo dal mondo fuori, dalla mancanza e dal bisogno della parola del «senza-nome», del piccolo «figlio di Auschwitz», Hurbinek, nato ad Auschwitz, a cui mai nessuno aveva insegnato a parlare, capace solo di articolare un’unica parola incomprensibile «mass-klo», «matisklo» (Levi, 1979, pp. 166-7).

Emblema della distruzione di ogni residuo di personalitĂ  nei detenuti nel Lager Ăš il musulmano. Ridotto allo stremo, il musulmano Ăš ultimo fra gli ultimi nel Lager, ormai incapace di lavorare, prigioniero dell’abisso incolmabile del suo stomaco che lo isola dall’infernale dinamica sociale del Lager, sbeffeggiato, picchiato e ignorato nella sua sofferenza dagli altri. Egli Ăš un «cadavere ambulante, un fascio di reazioni, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia» (AmĂ©ry, 2008, p. 39). Non piĂč padrone del suo corpo, nĂ© capace di difendere la sua immediata prossimitĂ  fisica e di credere ancora nella sua salvazione, il musulmano sta in «un terzo regno tra la vita e la morte» (Sofsky, 1995, p. 294), vegeta nell’anticamera della morte, in quel «punto in

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cui, pur restando in apparenza uomo, l’uomo cessa di essere uomo» (Agamben, 1998, p. 50). Quasi tutti i musulmani morirono nel campo, alcuni scampando le selezioni che si facevano nelle baracche riuscirono a riacquistare il controllo delle loro vite e a sopravvivere. Feliksa Piekarska ha testimoniato della condizione estrema che ha patito: «Io sono personalmente stato per poco tempo un musulmano. Ricordo che dopo il trasporto nella baracca crollai completamente dal punto di vista psichico. Il crollo si manifestĂČ in questo modo: fui sopraffatto da una generale apatia, nulla mi interessava, non reagivo piĂč nĂ© agli stimoli esterni nĂ© a quelli interni, non mi lavavo piĂč, e non solo per mancanza di acqua, ma anche quando ne avevo l’occasione; non sentivo piĂč nemmeno la fame...» (ivi, p. 155).

Dopo la fine del Terzo Reich vi erano, tra gli ebrei, piĂč di un milione di superstiti: coloro che non erano stati coinvolti nella fase finale del processo di distruzione perchĂ© i governi li risparmiarono o perchĂ© risiedevano in cittĂ  ormai fuori dalla portata dei tedeschi, quei coraggiosi che avevano evitato il peggio nascondendosi, resistendo o camuffandosi in ogni modo e luogo utile, tutti quelli che erano rimasti prigionieri fino alla liberazione dei territori controllati dai nazisti. Tra questi ultimi, oltre agli ebrei dei campi di lavoro e dei ghetti non ancora completamente liquidati, vi erano i reduci dei Lager. Secondo Raul Hilberg «esiste una gerarchia inequivocabile tra gli ebrei che sopravvissero alla guerra nazista. In questa gerarchia i criteri decisivi sono l’esposizione ai pericoli e l’immensitĂ  della sofferenza. I membri delle comunitĂ  che non furono colpite o le persone che continuarono a vivere nella propria casa non sono considerati affatto dei sopravvissuti. All’estremitĂ  della scala, quelli che venivano dalle foreste o dai campi sono i sopravvissuti per eccellenza» (Hilberg, 1997, p. 182). I superstiti dei Lager sono portatori esclusivi di una conoscenza originale sulla riduzione dell’essere umano a una straordinaria condizione di privazione.

4.2

UniversalitĂ  della testimonianza:

Primo Levi, Eli Wiesel, Jean Améry

Oggi, nell’«era del testimone» (Wieviorka, 1999) il valore universale della Shoah Ăš legato alla narrazione del male estremo fatta dal sopravvissuto. Raccontando l’esperienza personale e piĂč intima dell’offesa ricevu-

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ta, l’ex deportato riflette sul significato generale, universale di quanto gli Ăš accaduto. Con Se questo Ăš un uomo Primo Levi vuole «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» (Levi, 1979, p. 9), far luce sul grado di dignitĂ  umana dell’internato che ad Auschwitz Ăš arrivato a toccare il fondo. Come un antropologo che studia dal suo interno una realtĂ  e una condizione umana oltre la comune esperienza, Levi spinge chi legge a partecipare a una sorta di esperimento mentale (Bucciantini, 2011), a compiere uno sforzo di immaginazione:

Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarĂ  un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignitĂ  e discernimento poichĂ© accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrĂ  a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinitĂ  umana; nel caso piĂč fortunato in base ad un puro giudizio di utilitĂ . Si comprenderĂ  allora il duplice significato del termine “Campo di annientamento”, e sarĂ  chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo (Levi, 1979, p. 23).

Attraverso e al di là di quella del detenuto 174517 – numero che Levi portava tatuato al braccio – ù la possibilità di essere ancora umani nel progressivo trasmigrare nell’inumano a occupare lo spazio di una lucida narrazione. Ne La notte Elie Wiesel testimonia l’incrinatura della sua fede in Dio, l’aspro confronto nel suo animo con un Dio assente nei giorni dell’orrore ad Auschwitz. Credente e studioso della Torah, il giovane Elie, nel Lager, in occasione della preghiera per la celebrazione del Rosh Hashanah, ultimo giorno dell’anno ebraico, si rivolta contro Dio:

Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella tempesta. – Sia benedetto il Nome dell’Eterno! Ma perchĂ©, ma perchĂ© benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche della morte? Come avrei potuto dirGli: «Benedetto Tu sia o Signore, Re dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati al Tuo altare? (Wiesel, 2010, p. 69).

Lungi dal condurre alla morte della sua fede in Dio, l’esperienza di Auschwitz non placa la lotta di Wiesel con un Dio amico, per il quale si

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nutre piĂč pietĂ  per la sua intangibile solitudine che rabbia per l’imperscrutabile scelta dell’inazione al momento del bisogno (Wiesel, 2009, p. 197). A fronte delle conseguenze incalcolabili avute da Auschwitz sull’umanitĂ , sulla sua storia, sulla percezione dell’uomo, sul significato di certe parole (per Wiesel notte Ăš sinonimo di morte), sulla capacitĂ  di riconoscere i limiti e l’assenza di limiti riguardo alle persone (nell’essere buoni e cattivi) rispetto all’insanabilitĂ  della frattura fra creatura annientata e creatore silente, Wiesel si chiede: «Ma allora, che cosa ci resta? La speranza malgrado tutto, nostro malgrado? La disperazione forse? O la fede? Ci resta soltanto la domanda» (ivi, p. 19).

Tra le fila dei “colti laici” al pari di Levi e diverso dai “colti credenti” come Wiesel, Ăš Jean AmĂ©ry che testimonia nel suo Intellettuale ad Auschwitz della sua esperienza nel Lager da intellettuale scettico-umanista, agnostico, privo di credi, religiosi o politici, qual era. Raccontando di sĂ© AmĂ©ry pone al centro della sua riflessione l’intellettuale stretto nell’urto tra spirito e orrore, fra utilitĂ  e inopportunitĂ  della vita dello spirito ad Auschwitz. Rammentando quanto gli Ăš accaduto, AmĂ©ry risponde a questo interrogativo: «la cultura e il sostrato intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio al prigioniero del campo? L’hanno aiutato a resistere?» (AmĂ©ry, 2008, p. 34). La sua risposta Ăš negativa. Essere dotati di una ben sviluppata coscienza estetica e di un’attitudine al pensiero astratto si Ăš rivelato svantaggioso perchĂ© i lavoratori dell’ingegno mancavano generalmente di agilitĂ  fisica e di coraggio, della capacitĂ  di reagire prontamente o di prevenire efficacemente i torti a cui erano regolarmente fatti beffe dai compagni di prigionia. L’intellettuale avvezzo alla frequentazione del tedesco letterario resta isolato poichĂ© patisce l’incomunicabilitĂ  del Lager. Il pensiero analitico-razionale nel campo «conduceva direttamente verso una tragica dialettica di autodistruzione»: mettere in dubbio, come era uso per l’intellettuale, la realtĂ  di qualcosa, in questo caso quella del Lager, risultava controproducente a fronte della ferrea illogicitĂ  della logica del campo, dove rispettare le regole era materialmente impossibile. I meno avvezzi alla riflessione si trovavano senza saperlo in vantaggio nella lotta per stare piĂč a lungo possibile in vita, cosĂŹ come i detenuti politici e religiosi rispetto all’intellettuale AmĂ©ry, agnostico e apolitico. Tuttavia quello spirito di cui ad Auschwitz ci si faceva poco, inservibile ai fini della sopravvivenza materiale, talvolta, al pari della fede per i credenti, aiutava l’intellettuale al superamento di sĂ©.

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Un inatteso sollievo prova Levi, altro intellettuale ad Auschwitz, la cui laicitĂ  esce rafforzata dall’orrore del Lager, quando avverte la «voce di Dio» recitando al compagno di commando Pikolo alcuni versi danteschi superando il qui e ora che l’opprimeva: «per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono» (Levi, 1979, p. 102). Per Levi il Lager equivalse all’universitĂ  poichĂ© ricorda, «ci ha insegnato a guardarci intorno e a misurare gli uomini» (Levi, 2009, p. 1102). Per AmĂ©ry c’ù stata invece solo degradazione: «Ad Auschwitz non siamo diventati piĂč saggi [...]. Neanche nel campo siamo diventati piĂč profondi [...] ad Auschwitz non siamo nemmeno divenuti migliori, piĂč umani, piĂč benevoli nei confronti dell’uomo e piĂč maturi moralmente» (AmĂ©ry, 2008, p. 52).

4.3

Dovere della memoria, crisi della testimonianza e “testimoni integrali”

Primaria rilevanza, tra le altre fonti documentarie di cui si serve lo storico della Shoah per ricostruire la veritĂ  su quanto Ăš accaduto, va attribuita alla memoria dei superstiti. In un’epoca come quella che viviamo in cui, mentre Auschwitz sta al centro della memoria collettiva occidentale, si avvicina l’ora dell’ultimo testimone (Bidussa, 2009), per i sopravvissuti dei Lager raccontare l’esperienza della deportazione Ăš sempre piĂč un dovere morale e civico in quanto far conoscere alle nuove generazioni quel terribile passato puĂČ aiutare a evitare che qualcosa di simile possa ripetersi.

Una duplice impellenza continua a spingere l’ex deportato a testimoniare: immediatamente dopo la liberazione dal Lager, quel bisogno violento ed elementare di “fare gli altri partecipi”: questo tormento spinse Primo Levi a partorire, «a scopo di liberazione interiore», Se questo Ăš un uomo (Levi, 1979, p. 9)2; oggi, l’impellenza della fine: «semplicemente, con parole povere; ma bisogna parlare [...] perchĂ© siamo alla fine» (SemprĂșn, Wiesel, 1996, p. 45)3 .

2. Ricordava Levi che durante la prigionia «la speranza di sopravvivere coincide insomma con la speranza ossessiva di far sapere agli altri, di sedere accanto al fuoco, attorno alla tavola, e raccontare» (Bravo, Jalla, 1986, p. 9).

3. Questa “impellenza della fine” Ăš affermata anche da Primo Levi: «Noi superstiti siamo dei testimoni, ed ogni testimone Ăš tenuto (anche per legge) a rispondere in

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Portare testimonianza di un’esperienza storica fondamentale del xx secolo Ăš occasione di promozione sociale per l’ex deportato il quale ingaggia una lotta per la veritĂ  contro tutti gli “assassini della memoria” (Vidal-Naquet, 2008) – i nazisti che cercarono a ogni costo di nascondere e distruggere ogni traccia dello sterminio e i revisionisti che «dedicano pagine e pagine di acrobazie polemiche per dimostrare che noi non abbiamo visto quello che abbiamo visto, non vissuto quello che abbiamo vissuto» (Bravo, Jalla, 1986, p. 7).

Il testimone, mentre offre allo storico elementi qualitativi di conoscenza fattuale inaccessibili attraverso altre fonti, scompagina le sue carte, lo costringe a rivedere il suo metodo di lavoro (Traverso, 2006, p. 14). Prima di accoglierla nel suo archivio lo storico si chiede: fino a che punto la testimonianza dell’ex deportato ù affidabile?

L’accoglimento delle testimonianze orali e scritte nell’archivio (deposito che cataloga le tracce del passato per consegnarle alla memoria futura) impone allo storico uno sforzo critico volto ad avvalorarne l’attendibilità.

Quello testimoniale Ăš un materiale tanto prezioso quanto delicato, da accettare con riserva ed esaminare criticamente poichĂ© proviene da una fonte sospetta, la memoria del deportato. Si sa i ricordi con il tempo si deteriorano, si fanno piĂč sfocati e stilizzati. Tanto piĂč se riguardano esperienze estreme, di violenze e offese subite. Esperire qualcosa nel dolore puĂČ falsare la percezione di una scena vissuta, la sua registrazione mnemonica fino a intaccarne la restituzione nel racconto4. Il resoconto del superstite Ăš “debole” perchĂ© manca di una visione d’insieme del Lager – gli Ăš stato infatti impossibile distanziarsi dagli avvenimenti di cui Ăš stato vittima – e perchĂ© grava sul suo cuore un senso di vergogna per essere vivo al posto di un suo compagno. Lottando contro l’incredulitĂ  e la voglia di dimenticare, incapace di spogliarsi dell’inumanitĂ  che ha vissuto sulla propria pelle, di liberarsi dell’estraneitĂ  che ha generato l’orrore, il sopravvissuto incarna la «crisi della testimonianza dopo Auschwitz» (Ricouer, 2003, p. 250).

modo completo e veridico: ma si tratta per noi anche di un dovere morale, perché le nostre file, esigue da sempre, si stanno assottigliando» (Levi, 2009, p. 1352).

4. Quanto ai ricordi di esperienze estreme, Primo Levi nota come «il ricordo di un trauma, patito o inflitto, Ú esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi Ú stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore» (ivi, p. 1007).

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Questa crisi si trasferisce nello spazio pubblico del confronto dove variano le reazioni rispetto ai limiti delle testimonianze dei sopravvissuti. Il negazionista, insofferente all’imprecisione testimoniale dice: «le camere a gas non sono mai esistite, non c’ù mai stato lo sterminio» e va alla ricerca della matrice comune di tutti gli errori al fine di costruire «un edificio fatto di frammenti di testi e di congetture che si spacciano per veritĂ  assolute» (Pisanty, 1998, p. 170). Il filosofo postmoderno dice: «qui vi Ăš un dissidio, un’impossibilitĂ  nel linguaggio stesso di articolare stabilmente qualcosa, come l’esistenza delle camere a gas, che sta al di fuori dell’esperienza comune» (Lyotard, 1985) e avverte: «non potendo testimoniare integralmente in vece del sommerso, il superstite sta testimoniando l’intestimoniabile» (Agamben, 1998). Contro il sospetto programmatico del negazionista e lo scetticismo del filosofo ricorda lo storico: «non scartare una testimonianza solo perchĂ© Ăš problematica [...] se lo storico dovesse attendere la prova perfetta, probabilmente si scriverebbe molto poco di storia» (Browning, 2011c, p. xx) mentre riaffiorano le voci dei “testimoni integrali”, alcuni membri del “commando speciale” di Auschwitz, i quali parlando dall’epicentro dell’orrore, la camera a gas in cui hanno lavorato, strappano il velo gettato per coprire il piĂč terribile dei segreti nazisti (MĂŒller, 1999; Venezia, 2007; Saletti, 1999).

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Il male avanza pensosamente e sconsideratamente; pieno di significato e privo di senso; da solo e in compagnia; di proposito e in modo fortuito; misurato ed ebbro; con e senza compunzione. Incendia i confini nazionali, ma non sarĂ  confinato dai caratteri nazionali. Si trova e viene insegnato. È monocausale e multicausale. Non sarĂ  messo alle corde a lungo, in teoria o in pratica. Non sarĂ  esaurito da alcuna delle sue espressioni. È di per sĂ© la prova di quell’aspetto della vita umana da cui si ha piĂč da temere che Ăš l’aspetto dell’universalismo.

5.1

Propedeutica allo studio dei carnefici

Chi uccise gli ebrei? PerchĂ© lo fece? Perpetratore (dall’inglese perpetrator) Ăš «chiunque ha partecipato a un attacco contro un civile con lo scopo di ucciderlo o di infliggerli gravi lesioni» (Strauss, 2004, p. 87), da solo o in forza a un gruppo.

Suddividiamo i carnefici in quattro categorie disomogenee: gli ideologi, come gli intellettuali ss in forza al sd e al rsha; i professionisti e gli esperti supposti apolitici che condivisero determinati obiettivi con il regime nazista; gli “uomini comuni” capaci di uccidere “faccia a faccia” civili inermi; i burocrati e i funzionari di basso e medio livello tenuti a distanza dalle conseguenze fisiche e morali delle loro azioni dalla divisione del lavoro (Browning, 2011b, pp. 1-3).

L’intrinseca complessitĂ  caratteriale, la varietĂ  delle dinamiche collettive e dei contesti d’azione rendono vano pensare che vi sia stato un unico motivo, bensĂŹ diversi che si sovrapposero. Disposizione personale o fattori situazionali, cosa contĂČ di piĂč? La sintesi “interazionista” – terza via rispetto agli approcci situazionale e disposizionale (Blass,

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5
Carnefici: uomini ordinari, male straordinario

1993) – propone di integrare fattori endogeni ed esogeni, analisi dei tratti biografici e dei contesti di socializzazione ed esposizione diretta alla violenza estrema. Erano i carnefici “pazzi”, esecutori privi di coscienza di quanto facevano o estremamente lucidi e convinti di fare la cosa giusta? La ricerca sui colpevoli che si sforza di spiegare i comportamenti dei carnefici dovrebbe rifuggire dalla trappola della demonizzazione dei perpetratori. CosĂŹ come si dovrebbe evitare di normalizzare i crimini e di esonerare i carnefici dalle loro responsabilitĂ . Qualsivoglia tentativo di comprendere gli attori diretti del genocidio riposa sulla ricostruzione storica degli avvenimenti. Quanto piĂč essa Ăš minuziosa tanto piĂč attentamente si discende nell’abisso di violenza che avviluppa il carnefice, nel «passaggio all’atto» (SĂ©melin, 2007).

La storia tuttavia non Ú sufficiente per comprendere. La psicologia della personalità che aiuta a capire il singolo e la psicologia sociale che studia i comportamenti delle persone nelle interazioni di gruppo, presupponendo che il male non sia un fenomeno eccezionale e demoniaco compiuto da persone per natura malvagie ma che trae origine da processi psicologici ordinari (Ravenna, 2004, p. 264), sono risorse preziose. Assassini difficilmente si nasce; con il tempo e una certa esperienza si diventa génocidaires (termine francese utilizzato presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda per qualificare i carnefici Hutu). La discesa nel crimine di massa non Ú qualcosa che avviene nottetempo, vi si arriva per radicalizzazioni progressive (Mann, 2005, p. 192) nel contesto in cui si agisce dove uccidere diventa la norma.

5.2

Uomini comuni: modelli esplicativi

La piĂč cospicua quota di tedeschi ordinari (di ogni estrazione sociale, tra i 16 e i 55 anni) implicati in crimini di guerra e di genocidio Ăš rappresentata dai 20 milioni di soldati che prestarono servizio nella Wehrmacht, dei quali 13 combatterono sul fronte orientale (Bartov, 2003, pp. xx)1. Il personale ss che gestiva i centri dell’“operazione Reinhard”

1. L’interesse storiografico per gli “uomini comuni” ù stato stimolato dalla pubblicazione di Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia (1992) e per i “tedeschi comuni” da quella di I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto (1996). Il dibattito fra i due autori sugli uomini del battaglione di polizia 101 ù culminato nel simposio dell’8 aprile 1996 tenuto all’us Holocaust Memorial Museum.

la shoah 58

era composto di «persone assolutamente ordinarie» prive di qualitĂ  o caratteristiche eccezionali (Arad, 1999, p. 198). Comune Ăš un attributo che non possiede un significato univoco per chi lo usa: per Christopher Browning i riservisti del battaglione 101 sono «uomini comuni» alla luce delle loro caratteristiche socio-politiche, per Daniel J. Goldhagen gli esecutori sono «tedeschi comuni» perchĂ© rappresentano una vasta maggioranza nazionale di «volonterosi esecutori di Hitler» (Goldhagen, 1996). All’apparenza la composizione degli “uomini comuni” del battaglione di polizia d’ordine 101 di Amburgo non dava l’impressione di uomini capaci di uccidere 38.000 ebrei e di caricarne sui treni per Treblinka altri 45.000 come poi in effetti avvenne. Si trattava infatti di poliziotti semplici che appartenevano alle classi inferiori, troppo vecchi per l’esercito, di formazione sociale avvenuta in epoca prenazista, dei quali solo un quarto era iscritto al partito nazista. Come Ăš stato possibile per questi uomini trasformarsi in assassini professionisti?

Quattro modelli teorico-sperimentali spiegano i crimini degli “uomini comuni”: obbligo di obbedire agli ordini superiori; personalità autoritaria; abnormità culturale tedesca; approccio sociopsicologico.

La prima spiegazione, utilizzata dagli imputati ai processi di Norimberga, cosÏ riassunta «sono stato costretto a uccidere in ottemperanza agli ordini dei miei superiori» Ú invalidata dalle testimonianze dirette dei perpetratori che dimostrano come ci si poteva sottrarre agli ordini senza essere puniti (Klee, Dressen, Riess, 1990).

Nel 1950 Adorno e colleghi proposero la personalità autoritaria, un modello teorico-sperimentale di sindrome di personalità “dormiente” che presentava i seguenti tratti: sottomissione all’autorità, rigidità di pensiero, tendenza alla superstizione, intolleranza all’ambiguità, moralità convenzionale, rifiuto della debolezza e dell’anticonformismo, ostilità verso l’estraneo e avversione all’introspezione; tratti che emergevano a seguito della repressione di un risentimento nutrito verso genitori rigidi e punitivi e che si attivavano grazie a processi di selezione e auto-selezione dei soggetti entro contesti in cui certe attitudini sociopolitiche e credenze risultavano coerenti con i leader, le politiche e i partiti anti-egualitari. Una scarsa considerazione dei fattori sovra-individuali ed extra-individuali (Levi Martin, 2001) ha viziato la costruzione del modello che sottovaluta il dato empirico che molti “uomini comuni” furono scelti casualmente ed educati alla violenza nell’appartenenza a un gruppo piuttosto che sulla base di caratteristiche persona-

5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario 59

li (Browning, 2011b, p. 5). La conclusione di Bauman, «il nazismo fu crudele perchĂ© furono crudeli i nazisti, i nazisti furono crudeli perchĂ© le persone crudeli tendevano a diventare naziste» (Bauman, 2010a, p. 213) riassumendo quanto scoperto da Adorno e colleghi evidenzia come questo tipo di spiegazione abbia spiegato poco e confortato molto chi ha preferito tenere una distanza di sicurezza dal comportamento criminale dei nazisti senza considerare l’eventualitĂ  di comportamenti autoritari fra individui privi di quella personalitĂ .

Il paradigma dell’abnormitĂ  culturale tedesca Ăš stato declinato secondo la tesi della “via speciale” alla modernizzazione e alla democratizzazione seguita dalla Germania nel xix secolo e secondo quella dell’antisemitismo sterminazionista proposta da Goldhagen. Queste due prospettive esplicative hanno il difetto di fondarsi su un latente pregiudizio culturale riferito a un canone democratico e morale europeo-occidentale: la Germania e il nazismo sono corpi estranei, deviazioni dal giusto corso democratico-liberale. I collaborazionisti francesi, ucraini, lituani, ungheresi furono anch’essi guidati dall’ideale sterminazionista tedesco? La tesi di Goldhagen Ăš «un ottimo tranquillante per le scosse coscienze democratiche del Novecento»

(Zamperini, 2001, p. 7). L’approccio sociopsicologico, che enfatizza i tratti universali del comportamento umano spostando l’attenzione dall’aberrazione individuale e culturale ai fattori situazionali, organizzativi, istituzionali operanti all’interno di una dinamica di gruppo, si ù sviluppato a partire dagli esperimenti sulla conformità di gruppo, l’obbedienza all’autorità e l’adattamento al ruolo.

Lo psicologo Salomon Asch con l’esperimento sulla “conformità” (Asch, 1956) studiĂČ l’influenza che puĂČ esercitare un gruppo di “soggetti complici” che formulano un giudizio contrario rispetto a quanto Ăš esperibile con la vista, sul singolo “soggetto critico” nel valutare a quale di tre linee disegnate su un cartone corrisponde un’altra singola disegnata su un supporto distinto. Questa influenza incise sul 33% dei giudizi, in 25 dei 31 soggetti critici2. Tra le diverse motivazioni che Browning adduce per spiegare il comportamento dei riservisti del bat-

2. Vanno considerate le variabili situazionali del grado di influenza esercitata e di acquiescenza al gruppo come il rapporto numerico tra soggetto critico e complice (con 1:1 non vi ù conformità, con 1:3 si raggiunge il massimo) e l’ingresso di soggetti dissenzienti, che esprimendo giudizi concordanti col soggetto critico, infrangevano l’unanimità di giudizio fra i complici.

la shoah 60

taglione 101 vi ù la conformità verso il gruppo, nel suo gioco di reciproco rafforzamento con l’obbedienza all’autorità.

Stanley Milgram compie a Yale nel 1961 un esperimento sull’obbedienza all’autoritĂ  che piĂč di ogni altro influenzerĂ  l’approccio psicosociale alla Shoah (Milgram, 2003). Con questo esperimento, che coinvolse americani comuni di New Haven, suddivisi in “insegnante” (soggetto ignaro) e “allievo” (finta vittima), fatti accomodare in due stanze contigue, Milgram mirava a studiare le reazioni dell’insegnante, sotto la guida e il controllo dello “sperimentatore”, un uomo in camice bianco da medico che impersonava l’autoritĂ  scientifica. L’insegnante faceva le domande ed era incaricato di rilasciare a ogni errore una scossa elettrica (in realtĂ  finta) di potenza progressiva (da 50 a 450 volt) sull’allievo a cui erano stati applicati degli elettrodi sul corpo. Nonostante le urla (fittizie, solo registrate) dell’allievo sofferente, due terzi degli insegnanti continuarono a punire l’allievo fino al massimo di scarica elettrica. Per Milgram, che attribuisce quest’abnegazione non a sadismo o a perversione, ma all’incapacitĂ  dell’insegnante di uscire dallo “stato eteronomico”, condizione di subalternitĂ  psicologica all’autoritĂ  scientifica impersonata dallo sperimentatore3, questo Ăš il principale insegnamento da trarre: «gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e che non Ăš motivata da nessuna particolare aggressivitĂ  puĂČ da un momento all’altro rendersi complice di un processo di distruzione» (ivi, p. 7).

Per Browning «molte delle intuizioni di Milgram trovano conferma nel comportamento e nella testimonianza degli uomini del battaglione di polizia 101» (Browning, 2004, p. 179). Milgram vedeva all’opera un comune processo psicologico nel suo laboratorio e durante la Shoah, la caduta nello stato eteronomico, il fatto che gente normale smettesse di considerarsi un elemento responsabile nella catena degli avvenimenti che determinano la sofferenza di un individuo, altresĂŹ riconosceva anche le enormi differenze tra i due contesti (Milgram, 2003, p. 164): l’esperimento in laboratorio durava un’ora, i massacri di ebrei si protrassero dal 1941 al 1945, differenza questa che implicava

3. Bisogna aggiungere che la capacitĂ  di disobbedire allo sperimentatore, che incoraggia l’insegnante ad andare avanti con l’esercizio nonostante il conflitto interiore, varia con il modificarsi della relazione spaziale tra sperimentatore, insegnante e allievo: quanto piĂč l’allievo Ăš posto in prossimitĂ  dell’insegnante tanto piĂč riesce a controbilanciare il potere d’ordine dello sperimentatore.

5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario 61

una piĂč profonda interiorizzazione dell’autoritĂ  col passare del tempo. Diversamente dalla Shoah, l’esperimento in laboratorio fu privo di conseguenze per le vittime. La percezione del male che si stava infliggendo era diversa: chi Ăš coinvolto nello sterminio sa di uccidere o di dover uccidere ancora, all’insegnante viene garantito dallo sperimentatore che non infliggerĂ  danni fisici permanenti all’allievo. Chi assume il ruolo di insegnante non ha bisogno di disumanizzare gli allievi che non considera non degni di appartenere all’umanitĂ  in quanto elementi nocivi da eliminare. Il travaglio interiore vissuto dai soggetti sperimentali, esperito anche da molti carnefici nazisti sul fronte orientale, contrasta fortemente con le ricorrenti esplosioni di sadismo durante la Shoah (Waller, 2002, p. 107).

Vi Ăš un irriducibile divario morale e psicologico fra i soggetti sperimentali di Milgram e coloro che presero parte alle uccisioni di massa di ebrei. Questo tuttavia non impedisce di riconoscere che «Milgram ci ha insegnato qualcosa di profondamente rivelatore sulla natura umana – su noi stessi – che non sapevamo prima: quanto potente Ăš la nostra propensione ad obbedire ai comandi di un’autoritĂ  anche quando questi comandi possono confliggere con i nostri principi morali» (Newman, Erber, 2002, p. 104).

Nel 1971 Philip Zimbardo effettuĂČ un esperimento sull’adattamento al ruolo (Zimbardo, Haney, Banks, 1973) che coinvolse 24 studenti dell’universitĂ  di Stanford (maschi, di ceto medio, tra i piĂč equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti) divisi tra detenuti e guardie rinchiusi in una prigione. Per via degli evidenti sintomi di disgregazione individuale e di gruppo tra i detenuti causati dal comportamento vessatorio delle guardie, questo esperimento fu interrotto dopo una settimana a fronte delle due previste. Per Zimbardo, «il valore dell’esperimento della prigione di Stanford risiede nel dimostrare che il male che brave persone possono essere facilmente indotte a fare ad altre brave persone in un contesto di ruoli, regole e norme socialmente approvate con un’ideologia legittimante e un supporto istituzionale trascende l’azione individuale» (Blass, 2000, p. 194).

Una sorprendente corrispondenza quantitativa e qualitativa Ăš stata colta da Browning tra il comportamento delle guardie e quello dei riservisti del battaglione 101, specificatamente tra i sempre piĂč entusiasti assassini che si offrirono volontari nelle esecuzioni e nella caccia all’ebreo e le guardie dure e crudeli che inventavano nuove molestie

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godendosi il potere dell’arbitrio (circa 1/3), tra i poliziotti che parteciparono alle fucilazioni e alle evacuazioni dei ghetti, senza cercare altre occasioni per uccidere, astenendosi talvolta dagli ordini di uccidere e le guardie dure ma corrette che si attenevano al regolamento (circa 50%), tra i riservisti che si rifiutarono di uccidere nascondendosi e le due guardie passive che raramente esercitarono un controllo coercitivo sui detenuti (tra il 10% e il 20%) (Browning, 2004, p. 175).

Per Goldhagen i riservisti concordavano senza eccezioni sulla giustezza dell’impresa omicida. Il loro contatto con gli ebrei era mediato da una monumentale barriera cognitiva e psicologica che impediva loro di riconoscere l’umanitĂ  delle loro vittime. Essi si distinsero in sadici macellai, assassini zelanti ma indecisi, carnefici convinti ma poco propensi all’autocelebrazione e omicidi consenzienti ma rosi dall’incertezza e dai conflitti interiori (Goldhagen, 1996). Per Goldhagen diventare carnefici per questi uomini fu un fatto spontaneo, conseguente all’odio viscerale provato per gli ebrei. Secondo Browning, ben consapevole che ogni tentativo di spiegare un fenomeno cosĂŹ complesso puĂČ indulgere a una certa arroganza, diventare assassini richiese di scavalcare barriere morali a prima vista invalicabili, superare risentimento, rabbia, demoralizzazione, senso di orrore e di vergogna abusando di alcolici, maturando un senso di distacco derivato da certi accorgimenti logistici conformandosi al gruppo in un diluvio di propaganda razzista e antisemita.

I crimini dei milioni di “tedeschi comuni” della Wehrmacht vanno considerati rispetto al contesto bellico del fronte orientale. Una “guerra di sterminio” altamente ideologizzata tra due visioni del mondo incompatibili, quella ariano-nazista e quella giudeo-bolscevica, combattuta all’ultimo sangue per l’estirpazione del giudeo-bolscevismo e la conquista dello “spazio vitale” in spregio alle regole della legge marziale internazionale. Gli “ordini criminali” emanati dall’Alto comando della Wehrmacht (okw) e dall’Alto comando dell’esercito tedesco (okh) furono «la causa piĂč diretta per le azioni criminali dell’esercito tedesco ad Est» in un contesto di progressiva «barbarizzazione» del conflitto (Bartov, 2003, p. 106). Gli “ordini criminali”, una martellante propaganda che insisteva sull’equazione ebreo-partigiano (Heer, 1997) e una fede cieca nel FĂŒhrer convertirono un consenso antisemita giĂ  esistente tra i soldati regolari e una potenziale mentalitĂ  omicida in azione (Heer, Manoschek, Pollak, Wodak, 2008).

5. carnefici:
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L’evoluzione della dinamica delle uccisioni di ebrei, dal supporto passivo all’emanazione di ordini per prendere l’iniziativa, all’accettazione degli eccessi dei pogrom scatenati dai gruppi antisemiti locali fino alla routine quotidiana delle cacce all’ebreo-partigiano durante l’occupazione militare, fu legata a fattori situazionali quali la necessità di rispondere ai massacri perpetrati dai sovietici prima dell’occupazione tedesca, l’esigenza di vendicare le perdite subite sul campo di battaglia e di garantire la sicurezza dei luoghi in via di pacificazione sopprimendo ogni traccia di resistenza partigiana e le politiche di sistematico affamamento delle popolazioni locali adottate dall’amministrazione occupante.

5.3

Einsatzgruppen

Una significativa spinta in direzione della transizione al genocidio sul fronte orientale venne data dalle quattro unitĂ  di intervento mobili di massacro operanti in appoggio alla Wehrmacht agli ordini del rsha.

In Unione Sovietica l’impiego delle unitĂ  di intervento va collocato nel quadro normativo stabilito degli ordini criminali, nella fattispecie dall’ordine emanato il 2 luglio 1941 da Heydrich. Nelle unitĂ  mobili le posizioni di comando erano occupate da un particolare tipo di persona: «lo specialista, un uomo con una certa formazione teorica (spesso una laurea in legge) e un’esperienza pratica all’interno dell’apparato di polizia, dedito all’ideologia nazionalsocialista, un radicale che agisce di convinzione» (Longerich, 2010, p. 186). Il personale dirigente delle “unitĂ  operative” era «rappresentativo di un gruppo di giovani attivisti che dominano i quadri dirigenti del rsha» (Wildt, 2009, p. 273). Altamente istruiti, ferventi militanti di destra all’universitĂ  che aspirano a costruire un nuovo Reich, convinti della necessitĂ  della preservazione razziale del popolo tedesco, questi “intellettuali ss” che incarnavano una “generazione senza compromessi”, furono artefici di un discorso ideologico inflessibile le cui conseguenze ultime sfociarono nell’“azione a est”.

I primi massacri di ebrei, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1941, paiono rispondere a una logica difensiva e preventiva, in risposta a supposti attacchi civili alle unità tedesche in avanzamento e come

la shoah 64

rappresaglia per gli attacchi delle truppe sovietiche in ritirata. La scoperta dei cadaveri dei nazionalisti ucraini uccisi dai commissari sovietici scatena pogrom, tacitamente supportati dalle “unitĂ  operative” e giustifica massicce operazioni di rappresaglia contro gli ebrei. L’ordine di Heydrich diede carta bianca alle varie unitĂ  per assassinare gli ebrei e un certo margine di manovra ai comandanti delle unitĂ . Nelle prime settimane tre furono le ragioni che motivarono le fucilazioni di massa: rappresaglia, sciacallaggio, sostegno ai partigiani (Longerich, 2010, p. 204). Non tutti furono capaci di sparare, di sopportare il contatto diretto con le vittime, la vista dei corpi e del sangue, c’era chi restava fortemente scosso da ciĂČ che faceva (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il primo confronto con la fucilazione generava una sofferenza psichica, un effetto deprimente sui tiratori. Da qui il ricorso a espressioni eufemistiche quali “funzionari bolscevichi”, “simpatizzanti comunisti”, “agenti”. A contenimento di questa sofferenza intervennero i quadri delle unitĂ  mobili adottando strategie di spartizione delle fucilazioni.

A Norimberga Otto Ohlendorf, comandante del Einsatzgruppen D, dichiara sotto giuramento: «Nel gruppo D non ho mai autorizzato fucilazioni compiute da singole persone, anzi ho ordinato che a sparare fossero parecchie persone insieme, onde evitare una personale, diretta responsabilitĂ . I capi delle unitĂ  o persone designate dovevano scaricare l’ultima pallottola sulle vittime ancora vive» (cit. in Gigliotti, Lang, 2005, p. 182). Queste procedure erano finalizzate a distanziare la vittima dal carnefice, a collettivizzare il gesto di violenza e a deresponsabilizzare quest’ultimo per ciĂČ che faceva. Con il tempo certi eufemismi lasceranno spazio a un piĂč ampio ventaglio di motivi d’accusa per gli ebrei: incendio doloso, disseminazione di propaganda antitedesca, razzia, sabotaggio, rifiuto di lavorare, mercato nero, supporto ai partigiani, minaccia di epidemia. Si radicalizzano le interpretazioni degli ordini deliberatamente tenuti vaghi al momento della loro emanazione.

È l’inizio di un cambio di approccio delle unità operative: dal terrore antisemita volto a spegnere ogni tentativo di resistenza tra la popolazione maschile ebrea si passa a una politica di distruzione etnica generalizzata. Il cambiamento della scala dei massacri modifica il modus operandi dei commando. Vengono alterate le procedure di esecuzione: dal modello da Corte marziale per schiere, mantenuto da Ohlendorf, si passa a una razionale divisione dei compiti nelle uccisioni per impilamento dei corpi nelle fosse comuni. I massacri sono estesi a intere co-

5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario 65

munità, donne e bambini (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il presupposto di questa svolta paradigmatica sta in un cambio di percezione del problema ebraico legato a una modificazione delle condizioni sul campo: le fughe in massa degli ebrei verso est, il declino dei pogrom, la necessità di sfruttare la forza-lavoro abile ebraica, la carenza di derrate alimentari invalidano la politica securitaria (Longerich, 2010). Due ragioni principali favorirono la transizione al genocidio: l’armoniosa cooperazione tra unità operative e Wehrmacht durante le prime cinque settimane della campagna sovietica e la necessità di intensificare le misure di terrore sulla popolazione civile, in special modo nei confronti degli ebrei sovietici “pilastri del sistema giudeo-bolscevico” (Kay, 2013).

Il consenso al massacro degli uomini delle unitĂ  operative venne costruito sulla base dell’elaborazione, da parte dei quadri delle unitĂ , di un discorso di legittimazione della pratica genocidaria ottenuto dalla fusione di una linea argomentativa di ordine utopistico, che presentava il genocidio come la condizione sine qua non per la germanizzazione dei territori occupati, e una linea paranoico-difensiva che, presentando il genocidio come un’azione difensiva, mobilitava l’angoscia escatologica che opprimeva gli uomini al fronte facendo appello alla figura disumanizzata del nemico (Ingrao, 2012, p. 356). Questo consenso si incrinĂČ a causa dei traumi psichici ma non si infranse grazie all’attenuazione dei gesti della violenza, alla routinizzazione e all’assuefazione al crimine, all’appoggio di unitĂ  ausiliarie autoctone e all’uso dei camion a gas.

In questo generale consenso permasero forti differenze tra i capi delle unitĂ  operative: tra Erwin Schulz, «incapace di fare il salto da capo antibolscevico della Gestapo ad assassino razzista che uccide donne e bambini», Martin Sandberger, «studente modello dell’Ufficio centrale», Erich Ehrlinger, «perpetratore ideologico perduto nell’abisso del proprio compito» (Wildt, 2009, pp. 305-6).

5.4 Medici

Macchiandosi di orribili crimini, circa 350 medici tedeschi, sotto il Terzo Reich, deliberatamente violarono il principio fondamentale del codice deontologico, noto come giuramento di Ippocrate, che

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comanda «per prima cosa, non nuocere» (primum non nocere). Gli esperimenti medici e il programma di distruzione delle “vite indegne di essere vissute”, assieme alla legge sulla sterilizzazione e alle leggi di Norimberga, hanno fatto parte di un complessivo programma di pulizia razziale medicalizzata ispirato dall’adozione nazista delle misure di medicina preventiva per la preservazione del “plasma germinale tedesco” proposte dalla scienza dell’“igiene razziale” ampiamente radicata nella cultura scientifica tedesca prima del 1933 (Proctor, 1988).

Il ruolo attivo avuto dagli scienziati e dai medici nei vari programmi di pulizia razziale traeva fondamento dall’affinitĂ  ideologica tra medicina e nazismo venuta a crearsi con l’importazione della retorica eugenista della “degenerazione della razza” e della “selezione del piĂč adatto” nel nazionalsocialismo e con l’attrazione suscitata nei medici dall’importanza attribuita alla razza nella visione del mondo nazista e dallo sforzo di biologizzare e medicalizzare i problemi sociali (Annas, Grondin, 1992, p. 27).

Nel corso dell’operazione T4 medici e psichiatri lavorarono in speciali reparti d’ospedale per bambini e adulti disabili, selezionarono le vittime e le uccisero con overdose di medicinali comuni. Nei centri di sterminio, dove invece le uccisioni dei disabili avvenivano mediante camera a gas, i medici supervisionarono la registrazione delle vittime, controllarono le cartelle mediche, somministrarono il gas, dichiararono l’avvenuto decesso, parteciparono alla spoliazione dei corpi, fecero autopsie tenendo lezioni a giovani studenti, estrassero organi che inviarono a istituti di ricerca. In generale vennero impiegati medici molto giovani che raramente si rifiutarono di fare questo lavoro. Tra questi, una figura in continua ascesa fu quella dell’austriaco Irmfried Eberl, medico capo nei centri di Brandeburgo e Benburg, poi primo comandante del centro di Treblinka, la cui motivazione pare essere stata prima di tutto «ideologica, sebbene fosse anche un’importante opportunitĂ  di lavoro per il futuro» (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).

Ad Auschwitz, dove l’ufficio dei medici ss era responsabile dell’assistenza sanitaria del personale ss, della prevenzione delle epidemie e del servizio medico per gli internati, i medici ss furono complici nel crimine mantenendo condizioni igieniche al di sotto della norma, scarse razioni di cibo e atroci condizioni di lavoro. Sebbene non tutti, molti inflissero inumane punizioni corporali e praticarono iniezioni mortali agli insubordinati e ai malati. Gli ufficiali medici – medici,

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dentisti, farmacisti – parteciparono alla selezione sulla rampa di Birkenau all’arrivo dei convogli di ebrei. Auschwitz fu anche il principale laboratorio di sperimentazione umana. Due medici, il dott. Carl Clauberg e il dott. Horst Schumann rivaleggiarono per sterilizzare quante piĂč donne ebree possibile, l’uno praticando iniezioni intrauterine, l’altro attraverso radiazione ed esportazione dei genitali, metodi ugualmente mortali. Hermann Langbein, detenuto tedesco a Dachau e ad Auschwitz, segretario per due anni del capo medico di presidio, il maggiore ss Eduard Wirths, ha distinto tre tipi di medici ss: quelli che con riluttanza parteciparono alla macchina della distruzione, quelli che eseguirono gli ordini imperturbabilmente, quelli che di propria iniziativa andarono oltre gli ordini impartiti (Langbein, 1990, p. 334).

La piĂč impressionante personificazione del primo tipo Ăš il dott. Friedrich Entress il quale introdusse nell’infermeria iniezioni letali di fenolo, che portarono a un centinaio di morti al giorno, e iniettĂČ sangue infetto da tifo su pazienti sani per vederne le reazioni. L’altro caso paradigmatico Ăš quello del dott. Josef Mengele, scienziato dotato, ossessionato dalle questioni della razza, stacanovista, arrogante e ambizioso, che si distinse per la durezza con cui combattĂ© il tifo, la fermezza con cui condusse le selezioni sulla “rampa degli ebrei”, l’ardore con cui andava in cerca di gemelli ai quali, nella convinzione di poter migliorare la razza, cambiĂČ la pigmentazione degli occhi iniettando colori diversi. Mengele, che aderĂŹ all’ideologia razziale ed eugenica nazista «combinĂČ l’impegno ideologico all’avanzamento accademico» (Nicosia, Huener, 2002, p. 73).

Al terzo tipo appartiene il dott. Wirths che, a differenza della maggioranza dei medici ss, si lamentava spesso perchĂ© non riusciva a conciliare quanto richiesto negli ordini e la sua coscienza di medico. In confidenza rivelĂČ i suoi scrupoli rispetto all’intera operazione di sterminio degli ebrei e talvolta si oppose alle selezioni di pazienti affermando che non si trovava lĂŹ per fare selezioni ma per curare i malati. Influenzato dal movimento di resistenza politica interna al campo, Wirths assegnĂČ a medici detenuti posizioni chiave. Il dott. Wirths incarna il conflitto “guarigione-uccisione”, la dicotomia tra l’uomo onesto, corretto e l’organizzatore del sistema di morte (Lifton, 2003, pp. 384-408). Fu un “killer situazionale” che trovandosi ad Auschwitz non rifiutĂČ di fare il suo lavoro, partecipĂČ alle uccisioni piĂč per spirito di lealtĂ  alle ss che per ragioni ideologiche (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).

la shoah 68

È stato sostenuto che «la maggior parte di quelli che parteciparono lo fecero perché credevano che fosse la cosa giusta da fare» (Lafleur, Böhme, Shimazono, 2008, p. 65) e che «i medici agendo in queste situazioni non erano privi di valori. I loro valori erano chiari (supremazia nordica, misure estreme richieste dalla guerra totale, gli ebrei come parassiti ecc.) e agirono conformemente ad essi» (Annas, 1992, p. 26).

5.5

Diventare génocidaire: Adolf Eichmann, Rudolf Höss, Franz Stangl

Dopo la conferenza di Wannsee (gennaio 1942) Eichmann diventa funzionario competente per la soluzione finale. Dal suo ufficio in KurfĂŒstenstrasse 116 a Berlino, coadiuvato dagli uomini del suo staff, egli fa tutto quanto Ăš necessario per deportare gli ebrei dei vari paesi d’Europa nei centri di sterminio della Polonia. Paradigmatica personificazione del killer da scrivania, del burocrate moderno sine ira ac studio, Eichmann Ăš per Hannah Arendt l’incarnazione perfetta della «banalitĂ  del male», dell’incommensurabilitĂ  fra un crimine senza precedenti e l’insignificanza di chi lo commise. Una persona normale che con grande zelo e meticolositĂ  spedĂŹ milioni di persone verso la morte, del tutto privo di motivazioni eccetto quella di curarsi attentamente della sua carriera, un incosciente che, privo di immaginazione, mai comprese quel che stava facendo (Arendt, 2009). Secondo questa formula banale non Ăš il male – la deportazione e lo sterminio degli ebrei –, che fu anzi radicale, ma l’uomo che lo commise: ordinario, comune come le sue motivazioni. Con questa destabilizzante intuizione Arendt sottrae al male profonditĂ  demoniaca – non necessariamente chi fa il male prova odio, invidia, forti passioni – e getta luce su una strana interdipendenza espressa dall’individuo moderno, fra incoscienza, «scissione consapevole di se stesso» (Donaggio, 2013) e male. Arendt ci ricorda che «i perpetratori di genocidio e di omicidi di massa non sono fondamentalmente diversi da me e da te» (Waller, 2002, p. 106).

Se nella sua capacità di universalizzare il contrasto fra ordinarietà dei carnefici e straordinarietà del male il concetto di “banalità del

5. carnefici:
straordinario 69
uomini ordinari, male

male” appare difficilmente soppiantabile da un costrutto piĂč penetrante, esso appare inappropriato rispetto alle nuove evidenze storiche acquisite sulla figura di Eichmann. Ci fu poco di banale in Eichmann e nei suoi ausiliari: «Eichmann e i suoi colleghi sapevano molto bene cosa stavano facendo ed erano completamente consapevoli che le loro attivitĂ  sarebbero state considerate criminali dappertutto eccetto che nel proprio contesto politico. Le loro ragioni per partecipare all’omicidio dovevano essere state varie, ma era molto evidente che l’ideologia giocĂČ un ruolo centrale. Desideravano creare un nuovo ordine mondiale dove non vi fossero ebrei» (Aschheim, 2001, p. 222). In considerazione della sua biografia Eichmann «non era un folle, e nemmeno un mero esecutore di ordini. Venne addestrato al genocidio e decise di mettere in atto ciĂČ che aveva imparato» (Cesarani, 2006, p. 22). La chiave per comprendere Adolf Eichmann «non Ăš nell’uomo, ma nelle idee che lo possedevano, nella societĂ  in cui tali idee circolavano liberamente, nel sistema politico che le diffondeva e nelle circostanze che le resero possibili. CiĂČ che Eichmann fece fu reso possibile dalla disumanizzazione degli ebrei, dall’interiorizzazione del popolo ebraico come astratta minaccia biologico-razziale e nemico politico e dalla disattivazione di ogni inibizione nei confronti dell’omicidio. Chiunque fosse stato sottoposto a processi simili avrebbe potuto comportarsi allo stesso modo, in uno Stato totalitario o in una democrazia» (ivi, p. 250).

Nella sua autobiografia Rudolf Höss consegna ai posteri il suo ritratto di comandante di Auschwitz (Höss, 1997). Höss era un uomo mediamente capace che vestĂŹ per tre anni i panni dell’efficiente tecnocrate dello sterminio, facendo gassare piĂč di un milione di ebrei ad Auschwitz. Ecco un altro individuo ordinario capace di straordinari crimini. Come fu possibile? Höss non arrivĂČ a guidare Auschwitz per caso, ma dopo un lungo apprendistato di violenza prima nella Grande guerra dove sentĂŹ di essere diventato uomo (ivi, p. 18), poi nei “corpi liberi” nel Baltico dove si trovĂČ per la prima volta di fronte al raccapricciante spettacolo dei cadaveri carbonizzati o asfissiati di donne e bambini (ivi, p. 20) e nel Lager di Dachau dove imparĂČ che ogni traccia di pietĂ  verso i «nemici dello Stato», indegna di un ss che deve obbedire ciecamente a ogni ordine, Ăš un segno di debolezza (ivi, p. 48).

Le scelte che Höss fece lungo la sua carriera risultarono dall’interazione tra un’etica del controllo di sĂ© (Schroer, 2012) e della decenza

la shoah 70

(Welzer, 2004) e dall’adesione totale all’ideale nazionalsocialista e al cieco rispetto del principio d’autoritĂ . Rispetto alla soluzione finale, l’atteggiamento di Höss rivela un profilo composito sul piano motivazionale: convinto antisemita quando afferma che «questo sterminio degli ebrei era veramente necessario affinchĂ© la Germania, affinchĂ© i nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro nemici piĂč accaniti» (Höss, 1997, p. 135), banale e obbediente assassino quando, ricordando di aver ricevuto l’ordine di Himmler nell’estate del 1941 di allestire ad Auschwitz un campo di sterminio, scrive «non fui in grado minimamente di immaginarne la portata e gli effetti [...]. A quel tempo non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio dovere eseguirlo» (ivi, p. 127). Cercando di incarnare al meglio l’etica ss, sfoggiando un’ortodossia disarmante, Höss si rende prigioniero della sua stessa radicalitĂ  e delle sue scelte.

Questa la carriera genocidaria di Franz Stangl: dal novembre 1940 al febbraio del 1942 Ăš sovrintendente di polizia all’istituto di eutanasia del castello di Hartheim, dal marzo al settembre 1942 Ăš comandante di Sobibor, dal settembre 1942 all’agosto 1943 Ăš comandante di Treblinka. Stangl ammette quanto ha fatto, riconosce le sue colpe, tuttavia non se ne sente responsabile, vittima di un destino cieco e ineluttabile in cui Ăš stato strumento dei suoi superiori. Nel secondo giorno di intervista con la giornalista Gitta Sereny si sfoga, dicendo: «Li odio...Odio i tedeschi! [...] Sono loro che mi hanno spinto... Avrei dovuto suicidarmi nel 1938 [...]. Fu allora che cominciĂČ tutto, per me. Devo riconoscere la mia colpa» (Sereny, 2005, p. 52). Nei momenti cruciali – l’arrivo ad Hartheim, a Sobibor e a Treblinka – si coglie in Stangl una sequenza di shock, riluttanza, adattamento al male. Egli trova sempre nuove motivazioni, escogita stratagemmi per vincere il rifiuto di coscienza e fare un salto a un livello superiore di radicalizzazione e di accettazione dei crimini. All’apice della carriera, a Treblinka, Stangl compartimentalizza la sua coscienza tra azioni di cui si sente responsabile, come l’amministrazione dei beni confiscati agli ebrei, e azioni di cui non si sente responsabile perchĂ© non ha avuto la possibilitĂ  di sceglierle liberamente, le operazioni di sterminio, per esempio. Per estraniarsi da queste ultime disumanizza le vittime che vede come bestiame, considera l’arrivo dei convogli e le gasazioni come mera routine, sprofonda nel lavoro e nell’alcol tenendosi alla larga da tutte quelle aree in cui poteva esserci un contatto

5. carnefici:
71
uomini ordinari, male straordinario

con le vittime. Stangl si dissocia dall’ambiente circostante, cade in una sorta di autismo per preservare la sua integritĂ  morale (Welzer, 2004). Stangl diventa un gĂ©nocidaire per via della fatale fusione del suo carattere e delle circostanze, perchĂ© manca di coraggio e forza morale per tirarsi fuori dal crimine e si identifica completamente con il tratto piĂč spiccato del suo carattere, l’ambizione, che fa da ponte e spinta propulsiva verso il genocidio vincendo gli scrupoli morali (Kekes, 2005, pp. 47-64).

la shoah 72

Spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al

soccorso

Abbiamo un’infinita capacità di far bene e un’infinita capacità di far male. Siamo tutti schizofrenici.

6.1

Una realtĂ  di sfondo decisiva e dinamica

Le violenze sugli ebrei avvennero sotto gli occhi di 700 milioni di persone cadute sotto l’occupazione nazista che volenti o nolenti furono spettatori (dall’inglese bystanders) della sistematica distruzione degli ebrei. Sul piano individuale spettatori sono quelle «persone che assistono alle azioni dei perpetratori non subendone le conseguenze» (Staub, 1989, p. 86). Spettatori furono «coloro non “coinvolti” non disposti a far male alle vittime, non desiderosi a essere danneggiati dai perpetratori» (Hilberg, 1997, p. 5). Nello specifico «le agenzie e i governi neutrali, gli ebrei che vivevano in condizioni di relativa sicurezza, i paesi occupati, i tedeschi ordinari, e soprattutto i governi alleati» (Neufeld, Berenbaum, 2003). Sul piano etico lo spettatore Ăš «un individuo che passivamente osserva una vittima in una situazione disperata senza intervenire anche se ha l’opportunitĂ  di andare in suo aiuto» (Edgren, 2012, p. 68). Gli spettatori sono in grado di influenzare le azioni dei perpetratori e degli altri spettatori durante l’evolversi delle violenze attraverso azioni esplicite, petizioni o manifestazioni pubbliche, o nascoste, forme di aiuto e di resistenza non violenta o armata (Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218). Gli spettatori stimolano la risposta degli altri astanti verso l’empatia o l’indifferenza (Newman, Erber, 2002, p. 27) e rispondendo con oltraggio e condanna alle atrocitĂ  possono rafforzare le norme morali contro il comportamento criminale (Staub, 1989, p. 87). Gli spettatori non si presentano come un’entitĂ  a sĂ© stante, isolata e statica ma interrelata con vittime e carnefici nel quotidiano agire. Rispetto all’evolversi degli eventi essi reagiscono in modo dinamico, con comportamenti che oscillano fra gli estremi

73
6

della partecipazione diretta allo sterminio e del soccorso offerto alla vittima (Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218).

I confini fra spettatori, carnefici e vittime si confondono quando il soccorso e la complicitĂ  si distinguono a fatica dall’interesse privato e i valori di cura sono applicati selettivamente come nel generale caso del cittadino tedesco cattolico per cui il programma di eutanasia era immorale e la deportazione degli ebrei giusta. Durante la Shoah vi erano zone grigie, territori di indeterminatezza (Bajohr, 2006, p. 184) rispetto a cui la ricerca delle sfumature nello studio degli spettatori della Shoah Ăš preferibile alle distinzioni manicheistiche (Cesarani, Levine, 2002). Gli spettatori si distinsero in interni ed esterni1 (Cohen, 2002, pp. 199-228), tra soccorritori che aiutarono i loro vicini ebrei, profittatori che si attivarono per trarre benefici materiali dalla loro spoliazione e spettatori tout court che in numero incalcolabile restarono a guardare ciĂČ che accadeva (Hilberg, 1997, p. 205). A supporto diretto o indiretto del crimine nazista sono stati individuati dieci archetipi di spettatori della Shoah: l’opportunista, lo spettatore della strada, quello orientato ideologicamente, il carrierista, quello raziocinante istituzionalizzato, il professionista, il professionista illuminato, lo spettatore distaccato, il disprezzatore dell’“altro”, quello emotivamente coinvolto (Bar-On, 2001, pp. 139-43).

L’altra faccia della passivitĂ  di chi sta a guardare convinto o meno della giustezza del trattamento riservato agli ebrei Ăš il soccorso (dall’inglese rescue) alle vittime. PerchĂ© certe persone misero a rischio la propria vita, esposero le loro famiglie al pericolo della punizione delle autoritĂ  per salvare la vita di gente braccata, talvolta persino sconosciuta?

I significati delle categorie di soccorso e soccorritore sono stati influenzati dal titolo onorifico di Giusto tra le nazioni conferito dal memoriale ufficiale israeliano per le vittime ebree della Shoah Yad Vashem ai soccorritori non ebrei, a oggi 25.271 persone, in netta maggioranza polacchi e olandesi, rispettivamente 6.454 e 5.351. La Legge per il ricordo degli eroi e dei martiri (1953) che istituĂŹ il memoriale e la Commissione per la designazione dei giusti fece menzione dei «magnanimi gentili che rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei» ma non diede un’esatta definizione di chi Ăš degno di ricevere il titolo. Procedendo con la valutazione dei

1. Spettatori interni erano i tedeschi comuni e tutti coloro che erano a conoscenza di atrocitĂ  e sofferenze esperite nelle societĂ  in cui vivevano. Spettatori esterni erano gli alleati, i media americani e britannici, il Vaticano, la Croce Rossa, le organizzazioni ebraiche mondiali, la leadership sionista in Palestina che ne erano a conoscenza seppure a distanza.

la shoah 74

singoli casi la Commissione in seguito stabilĂŹ criteri di riferimento come «estendere l’aiuto per salvare una vita, mettere in pericolo la propria vita, assenza di ricompensa monetaria, considerazioni simili che elevino le gesta del soccorritore al di sopra dell’aiuto ordinario» (Gutman, Zuroff, 1977, p. 628). Questi criteri tengono fuori coloro che salvarono gli ebrei per denaro (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 102) o chi agĂŹ per interesse politico, economico o sessuale. Tutti i “giusti” sono stati soccorritori, sebbene non tutti i soccorritori siano da considerare “giusti”. Per soccorso si puĂČ intendere «una serie di atti, nascosti o meno, che mirano a celare legalmente o fisicamente l’identitĂ  di una persona ricercata e/o a organizzare la fuga verso un luogo sicuro» (ivi, p. 5).

Quattro sono state le forme principali di aiuto. Dare rifugio, dissimulare (attribuire al fuggitivo un’identitĂ  fittizia attraverso un nuovo nome, un’altra storia personale, un differente certificato di nascita, una diversa residenza o un certificato di battesimo, oppure registrandolo come lavoratore presso una fabbrica bellica o attribuendogli la cittadinanza di un paese amico della Germania), facilitare lo spostamento e la fuga da un luogo all’altro, soccorrere i bambini separandoli dai genitori naturali (Paldiel, 2011, pp. 8-12). A queste se ne aggiungono altre minori d’assistenza e di protezione passiva (Paulsson, 1998, p. 43). I soccorritori non ebrei, chiamati “persone di buona volontà” o “buoni samaritani” erano dotati di una personalitĂ  altruistica (Oliner, Oliner, 1988), erano autonomi dall’ambiente sociale di residenza, indipendenti nella scelta, impegnati nella lotta per i bisognosi, avevano esperienza nel compiere atti caritatevoli e una tendenza a percepire l’aiuto agli ebrei in termini pratici, non si vedono come eroi nĂ© pensano di compiere atti straordinari, erano impulsivi e concepivano gli ebrei in termini universalistici (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 105). Oltre agli altruisti vi erano i soccorritori pagati, quelli antisemiti, cattolici devoti che aiutarono gli ebrei perchĂ© si sentivano responsabili della loro persecuzione e gli ebrei che salvarono altri correligionari in pericolo (ivi, pp. 106-12).

6.2

Spiegazioni del comportamento di spettatori e soccorritori

Ha contatto piĂč la personalitĂ  o il contesto d’intervento nel comportamento di spettatori e soccorritori? Nello studio sui soccorritori vi Ăš una biforcazione metodologica tra un orientamento prevalentemen-

6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 75

te psicologico2 e uno storico di taglio socio-politico attento all’esame delle caratteristiche sociali e demografiche dei soccorritori, ai fattori situazionali e alle costrizioni esterne al soccorso. I due approcci esplicativi sono attraversati da un taglio sociopsicologico che fa interagire disposizioni personali e fattori situazionali.

Presupposto dell’approccio disposizionale e motivazionale Ăš il sĂ©, una personalitĂ  stabile nel tempo che presenta una caratteristica distintiva: l’altruismo. L’altruismo di cui dĂ  prova chi soccorre gli ebrei Ăš di una forma del tutto particolare perchĂ© Ăš «ad alto rischio per la vita di chi soccorre, offre un aiuto duraturo nel tempo, esteso verso un gruppo di pariah destinati alla morte in un contesto di disapprovazione o in un clima sociale ambivalente» (Oliner, Oliner, 1988, p. 10). Lo spettatore si trasforma in soccorritore attraverso un processo di consapevolezza. A partire da un intimo nocciolo di valori e principi morali emerge un sĂ© del soccorritore che tiene sotto controllo paure, pressioni e responsabilitĂ  e permette di fare tutto ciĂČ che Ăš necessario per salvare altre vite (Fogelman, 1994). L’apatia dello spettatore passivo Ăš invece legata ai fenomeni socio-psicologici della “diffusione di responsabilità” e dell’“effetto spettatore” (la probabilitĂ  che una persona si prenda la responsabilitĂ  di intervenire Ăš minore quanto piĂč alto Ăš il numero di spettatori presenti nella situazione d’emergenza) piĂč che alle deficienze empatiche della personalitĂ  (Darley, LatanĂ©, 1968). Lo spettatore sensibile al bisogno d’aiuto si impegna nel soccorso solo quando gli si prospetta un’opportunitĂ , una richiesta diretta d’aiuto e disponibilitĂ  di risorse (Fogelman, 1994; Oliner, Oliner, 1988). InclusivitĂ  e attaccamento sono i valori chiave dell’altruismo (Oliner, Oliner, 1988). Il soccorritore soffre di un’afasia argomentativa: alla domanda «perchĂ© l’hai fatto?» tipicamente risponde «era la cosa giusta da fare», «non avrei potuto vivere lasciando morire quelle persone» (de Benedittis, 2005). Vi sono stati soccorritori con motivi religiosi, umanitari, coinvolti nella resistenza, leali o pagati (Grunwald-Spier, 2010) e categorie

2. A sua volta distinto in approccio psicoeducativo, basato su psicologia, sociologia e scienze dell’educazione, che si focalizza sulle strutture di personalitĂ , sulle influenze della prima infanzia e sulle motivazioni e studi sperimentali di tipo sociopsicologico volti a individuare variabili critiche facilitanti il comportamento d’aiuto (Darley, LatanĂ©, 1968) dell’orientamento psicologico. Per quanto concerne il mancato intervento dello spettatore passivo alcune teorie sociopsicologiche aiutano a spiegarne le ragioni della sua preminenza.

la shoah 76

motivazionali quali moralità, giudeofilia, ideologia antinazista, professionalità che ci aiutano a capire l’elemento innescante l’iniziale sforzo individuale d’aiuto (Fogelman, 1994).

L’approccio motivazionale tuttavia Ăš debole perchĂ© non mette in discussione il legame tra motivazione e azione, tautologico poichĂ© presuppone che «i soccorritori si comportarono altruisticamente perchĂ© erano altruisti»; inoltre puntare tutto sulla ricerca della motivazione porta a sottovalutare i dilemmi pratici come “chi dovrei aiutare?” e “a chi dovrei chiedere aiuto?” ingenerati nel soccorritore e nella vittima (Varese, Yaish, 2000).

L’approccio situazionale d’orientamento storico e socio-politico indaga le forme di governo presenti nei paesi dell’Europa nazista e i differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista (Marrus, Paxton, 1982), i rapporti fra popolazione ebraica e non ebraica prima della persecuzione, la relazione fra antisemitismo e atteggiamento della popolazione locale verso gli ebrei durante l’occupazione nazista (Gutman, Zuroff, 1977, pp. 617-25), il grado di controllo diretto esercitato a livello regionale, distrettuale e comunale dai tedeschi sugli apparati esecutivi, quello di successo nel coordinare le varie strutture sociali nei paesi occupati. Il soccorso Ăš stato influenzato dalle culture locali, dalle tradizioni di lunga durata d’aiuto a vicini e ai viaggiatori in difficoltĂ  e di resistenza all’autoritĂ  dello Stato (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 265-79). La richiesta diretta d’aiuto Ăš decisiva per innescare il comportamento altruistico cosĂŹ come il ruolo dei mediatori tra le persone in stato di bisogno e i soccorritori (Varese, Yaish, 2000).

Nell’esperimento 13a dello studio di Milgram sull’obbedienza all’autorità i soggetti sperimentali, spettatori dell’invio di scosse agli “allievi”, si oppongono fisicamente o verbalmente al soggetto complice che veste i panni del “collega” zelante (Milgram, 2003, p. 93). La coesione tra gli astanti stimola l’aiuto e inverte il tipico effetto inibitorio causato dall’ampia dimensione di gruppo quando ù saliente una norma di responsabilità sociale che prescrive l’assistenza in caso d’emergenza (Rutkowski, Cruder, Romer, 1983).

Diversamente da quanto si Ăš pensato per lungo tempo, l’“effetto spettatore” non Ăš rafforzato dall’allargamento del gruppo d’astanti ma Ăš prodotto dall’assenza di un rapporto psicologico fra gli astanti mentre l’ampliamento del gruppo puĂČ inibire come incoraggiare l’intervento a seconda del modo in cui i membri del gruppo sono catego-

6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 77

rizzati socialmente (Levine, Crowther, 2008). Il ruolo dello spettatore passivo nel corso di atrocitĂ  di massa puĂČ essere inquadrato nella prospettiva del “cambiamento della norma” (Welzer, 2004) nella societĂ  in cui avvengono le violenze. Teorie sociopsicologiche sul “cambiamento della norma” e sul “mutamento d’atteggiamento” mostrano strategie di reazione psicologica alle atrocitĂ  da parte degli spettatori. Nel processo dinamico che spinge una societĂ  verso il genocidio gli spettatori sono persuasi a svalutare e a delegittimare le vittime sullo sfondo di una situazione di vita quotidiana difficile in ragione dell’appartenenza a un “mondo giusto” (Godfrey, Loewe, 1975). La “risocializzazione” dello spettatore puĂČ lenire i sentimenti di colpa che prova per le vittime generando conformitĂ  e inazione e incoraggiando i perpetratori a commettere ulteriori atrocitĂ  (Staub, 1999).

La dissonanza vicaria – tendenza a esperire una dissonanza cognitiva, vale a dire l’incoerenza tra una certa attitudine, valori e credenze tenuti da individui o gruppi e un comportamento incompatibile con essi, dopo aver assistito passivamente a un atto immorale commesso da membri del proprio gruppo di appartenenza (compagno di scuola, parente, collega di lavoro, connazionale) e la modificazione dell’attitudine al fine di ridurre il contrasto – descrive lo stato cognitivo dello spettatore inerte di atrocità collettive (Norton, Monin, Cooper, Hogg, 2003).

La giustificazione morale, l’etichettamento eufemistico, la comparazione vantaggiosa e il trasferimento di responsabilità verso un’autorità legittimano chi ha ordinato la condotta dannosa generando disimpegno morale (Bandura, 1999)3. Al fine di proteggere la propria integrità personale in momenti in cui il controllo sociale ù troppo severo si preferisce “farsi gli affari propri” (Bar-On, 2001, p. 127). La spirale di silenzio, la tendenza a evitare di dire la propria opinione su qualcosa quando ci si sente minoritari e minacciati di ritorsione o di isolamento dalla maggioranza (Noelle-Neumann, 2002) e l’ignoranza pluralistica, stato in cui il singolo privatamente pensa che gli atti criminali siano illegali mentre erroneamente suppone che per le altre persone siano accettabili, diffondendo la responsabilità e perpetuando una nuova norma anti-sociale (Prentice, Miller, 1993) favoriscono l’inazione dello spettatore. La relazione tra distanza sociale ed eterofobia, la sostituzio-

3. Quando sono compiute crudeltĂ  certi meccanismi psicologici auto-sanzionatori che di solito governano la condotta morale, facendoci astenere da atti immorali innescando preoccupazione anticipatoria e autocondanna, sono disattivati da tecniche che disimpegnano le persone dalle norme morali vigenti.

la shoah 78

ne della responsabilità morale con l’avversione verso soggetti umani una volta vicini, distanziati fisicamente e spiritualmente, trasformati in “altri” hanno portato milioni di persone a osservare l’assassinio degli ebrei senza protestare (Bauman, 2010a, p. 250). 6.3 Ritratti di nazioni, comunità, individui

Sotto il Terzo Reich l’opinione pubblica tedesca era divisa tra una ristretta minoranza di paranoici che odiavano spasmodicamente gli ebrei (“battaglioni d’assalto” – sa, attivisti di partito), un’ampia sezione della popolazione che approvava l’esclusione economica e l’ostracismo sociale degli ebrei, respingendo la disumanità di chi li odiava visceralmente e una minoranza che provava un profondo senso umanitario che si opponeva all’odio razziale (Kershaw, 1981, p. 286).

Le leggi di Norimberga furono accettate pienamente dalla gran parte della popolazione come possibile soluzione permanente alla segregazione biologica, accolte con insoddisfazione dagli attivisti nazisti, condannate dai religiosi, dalla sinistra marxista, dai liberali borghesi e dagli intellettuali, accolte senza reazioni dai piĂč che non presero posizione conservando un’attitudine passiva ed equanime nei confronti dell’ideologia e della politica del regime (Bankier, 2000, p. 273).

La reazione alla Notte dei cristalli fu largamente negativa. Silenzioso disgusto intervallato da invettive borbottate di condanna, vergogna e orrore contro la barbarie furono le piĂč tipiche reazioni. Rifiuto, assistenza e solidarietĂ  vennero da cattolici e protestanti. L’ampia risposta negativa al pogrom si tramutĂČ in largo consenso per un “antisemitismo razionale”.

Il decreto che impose la stella gialla agli ebrei (settembre 1941) fu accolto con favore dalla stragrande maggioranza della popolazione (Dov Kulka, JĂ€ckel, 2010, p. lxi). Isolati tributi di solidarietĂ  vennero da borghesi e cattolici. La maggior parte della popolazione non si accorse, nĂ© commentĂČ l’imposizione di questa misura (Kershaw, 1981, p. 283).

Quanto alle deportazioni di ebrei tedeschi “verso est” (ottobre 1941), l’auspicio generale Ăš che essi vengano allontanati dalla Germania (Dov Kulka, JĂ€ckel, 2010, p. lxi). Una minoranza calorosamente approva le deportazioni, la maggioranza Ăš decisamente piĂč riservata, mentre un’altra minoranza le contesta (Bajohr, 2006). Nonostante

6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 79

l’ampia diffusione di informazioni sulle fucilazioni di massa di ebrei “a est” la maggior parte dei tedeschi non ci pensa: gli ebrei oramai «sono lontano dagli occhi e dal cuore» (Kershaw, 1981, p. 284). Sulle gasazioni “a est” si sa poco, lo sterminio Ăš tenuto segreto dal regime: «l’omicidio di massa Ăš un punto di frattura nel piĂč vasto consenso della comunitĂ  di popolo» (Bajohr, 2006, p. 197). Negli ultimi due anni di guerra, mentre le bombe cadono sulle cittĂ  tedesche, fra la gente si insinua la convinzione che il modo in cui la questione ebraica Ăš stata risolta sia stato totalmente sbagliato. Il senso di colpa per molti si tramuta in disponibilitĂ  al soccorso dei 15.000 ebrei che nascosti nel 1944 ancora vivono in Germania.

Il fatto che poco meno di 3 milioni di ebrei polacchi siano stati uccisi, che solo il 3% sia scampato alla morte e la maggior parte dei Giusti tra le nazioni siano polacchi ha reso impellente la questione delle relazioni ebraico-polacche. L’antisemitismo, norma culturale in Polonia (condivisa persino dagli ebrei assimilati) spinse una minoranza di polacchi a intraprendere la strada della violenza e dell’omicidio, creĂČ un’atmosfera di terrore che inibĂŹ i tentativi di fuga degli ebrei dai ghetti (Paulsson, 1998, p. 36). Il fatto che l’aiuto agli ebrei era punito con l’impiccagione o la fucilazione sul posto e che tra i paesi occupati la Polonia fu l’unico a formare un’organizzazione clandestina d’assistenza agli ebrei, chiamata Zegota, resero peculiare il contesto polacco (Lukas, 1986). Tra l’essere accolto, l’essere consegnato ai nazisti e l’essere mandato via, la seconda reazione Ăš stata quella meno probabile quando un ebreo bussava alla porta del gentile in cerca d’aiuto (Paulsson, 1998, p. 40).

L’attiva partecipazione alla persecuzione della popolazione lituana spiega perchĂ© il 95% degli ebrei lituani perirono (NikĆŸentaitis, Schreiner, StaliĆ«nas, 2004, p. 108). Coloro che collaborarono con i tedeschi erano tuttavia una minoranza, la gran parte della popolazione rimase a guardare. Sin dal primo giorno dell’occupazione tedesca i locali nonebrei scatenarono pogrom nelle cittĂ  e nelle campagne. Battaglioni di volontari civili furono formati e inviati nelle stazioni cittadine per arrestare gli ebrei. Mentre ampie sezioni della popolazione, vedendo i tedeschi come liberatori, salutarono con approvazione le operazione di pulizia etnica, tanti lituani condannarono le violenze e distolsero lo sguardo dagli omicidi schierandosi a difesa degli ebrei, come nel caso di molti cattolici o del comitato per il soccorso degli ebrei fondato dalla bibliotecaria dell’universitĂ  di Vilnius, Ona Shimaite (Levin, 1990, p. 58).

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La Bulgaria fu l’unico paese satellite della Germania dove alla fine della guerra c’erano piĂč ebrei del periodo prebellico. Poco piĂč di 50.000 ebrei bulgari scamparono la deportazione grazie all’opposizione dell’opinione pubblica culminata nella dimostrazione congiunta di ebrei e non-ebrei del 24 maggio 1943 davanti al palazzo reale a Sofia (HĂĄlfdanarson, 2003). Queste le peculiaritĂ  della situazione bulgara: assenza di una tradizione antisemita, antisemitismo opportunistico della classe politica, mancata disumanizzazione degli ebrei, prevalenza di sentimenti di pietĂ  (Nissim, 2002). Il salvataggio degli ebrei bulgari

Ăš stato un «fenomeno di mobilitazione collettiva piĂč che un atto individuale di soccorso» (Reicher et al., 2006, p. 68) in cui re, uomini di coscienza, popolo, leader politici e religiosi costruirono un rapporto di interdipendenza e di sostegno reciproco (Todorov, 2001, p. 40).

Il salvataggio di 72.00 ebrei danesi grazie al rapido trasferimento via mare in Svezia il 1° ottobre 1943 fu reso possibile da un’operazione collettiva d’aiuto intrapresa dalla popolazione non ebrea. Nell’Europa nazista la Danimarca Ăš stata un’eccezione senza eguali: un protettorato modello che potĂ© conservare le istituzioni democratiche. L’imposizione della legge marziale (29 agosto 1943) aprĂŹ una fase di crisi in cui avanza l’ipotesi della deportazione tempestivamente contrastata dal soccorso di polizia e guardiacoste, giudici e autoritĂ  penitenziarie, medici, pescatori, studenti e giornalisti. Il fattore decisivo del salvataggio Ăš stato «il carattere speciale e la statura morale dei danesi e il loro amore per la democrazia e la libertà» (Yahil, 1969, p. xviii). Il ridotto numero di ebrei, la vicinanza del rifugio svedese, la disponibilitĂ  degli svedesi ad accogliere tutti gli ebrei e il fatto che il trasferimento avvenne in un momento di crescente opposizione al nazismo resero possibile l’operazione di soccorso (Marrus, Paxton, 1982, p. 710). L’episodio dell’operazione di soccorso in Danimarca resta un importante evento negli annali della Shoah (Gutman, Zuroff, 1977), un «simbolo di speranza e di luce nell’oscuritĂ  dell’Olocausto» (Kirchhoff, 1995, p. 477).

Tra i paesi neutrali, la Svezia ha mostrato una «neutralità complicata» (Friedman, 2011) in quanto Ú stata paradossalmente il principale soccorritore di ebrei in Europa e il maggiore fornitore di materiale bellico del regime nazista. La Svizzera si Ú trovata nella scomoda posizione di favoreggiatore della persecuzione ebraica per via del sostegno economico-finanziario dato al nazismo e di una restrittiva politica

6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 81

d’asilo che ha impedito a migliaia di profughi ebrei di rifugiarvisi. Le banche svizzere incassarono oro e beni sottratti agli ebrei sterminati, garantirono ai nazisti valuta contante, le imprese svedesi fornirono ai nazisti ferro e cuscinetti a sfera prolungando lo sterminio. Dal 1942 i due paesi disposero di informazioni dettagliate sullo sterminio ma reagirono alla catastrofe ebraica in modo diametralmente opposto: la Svezia passa dall’“indifferenza all’attivismo”, in Svizzera il rifiuto di accogliere gli ebrei si fece sempre piĂč ostinato. L’incrementarsi del flusso di informazioni attendibili giunte in Svezia dall’estate del 1942 e dalla “prerogativa nordica” favoriscono la svolta svedese (Friedman, 2011, p. 310; Edgren, 2012, p. 61). La politica svizzera fu ispirata da una neutralitĂ  integrale, dall’adattamento alle prevalenti circostanze politiche, da una chiara avversione a ogni ideologia e da un’ostilitĂ  nei confronti dello straniero, specie se ebreo. La sua politica d’asilo, il cui tratto di tolleranza passiva permise tuttavia di mettere in salvo circa 27.000 ebrei (Hilberg, 1997, p. 249), fu il prodotto di un’assenza di riferimento alla giustizia che impedĂŹ di riconoscere come tali i crimini nazisti, una mancanza di chiari standard umanitari e una paura irrazionale dell’immigrazione (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 231-44).

Il silenzio di Pio xii riassume la risposta alla Shoah del Vaticano. Il Papa non denunciĂČ pubblicamente la Shoah nĂ© condannĂČ il nazismo per i suoi crimini (Zuccotti, 2001, p. 1). Diversamente dal suo predecessore Pio xi che si schierĂČ contro leggi razziali e antisemitismo, Pio xii privilegiĂČ la diplomazia e il rispetto della legge canonica (Coppa, 2008, p. 556) mantenendo una posizione neutrale a difesa dell’indipendenza del Vaticano e della possibilitĂ  della mediazione per la pace fra contendenti. Nessuna protesta ebbe luogo il 16 ottobre 1943 in occasione del rastrellamento di 1.259 ebrei romani. I suoi detrattori spiegano questo silenzio con l’indifferenza alle sofferenze degli ebrei (Cornwell, 2000), l’antisemitismo (Goldhagen, 2003), l’avversione al bolscevismo e la stima di tutto ciĂČ che era tedesco (FriedlĂ€nder, 1965).

I suoi difensori sottolineano il rifugio dato ad alcune centinaia di ebrei romani (Lapide, 1967), il sostegno economico offerto alla comunitĂ  ebraica romana, le istruzioni date nel 1944 al nunzio apostolico in Ungheria Angelo Rotta che protestĂČ contro il governo ungherese, e spiegano il silenzio con la volontĂ  di salvaguardare e facilitare il lavoro dietro le quinte della diplomazia vaticana a favore del salvataggio di migliaia di ebrei (Rhodes, 1973). La prudenza politica di Pio xii Ăš ispi-

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rata dal calcolo, dalla volontĂ  di non esporre al pericolo di rappresaglia 40 milioni di cattolici tedeschi, gli abitanti di Roma e del Vaticano e di rendere fatali gli sforzi degli alleati. Rispetto al tipo di male incarnato dalla Shoah, la politica papale del male minore e del soccorso per via diplomatica appaiono inappropriate e moralmente discutibili.

La risposta degli alleati (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna) allo sterminio degli ebrei fu insufficiente perchĂ© la questione ebraica non rappresentĂČ mai una prioritĂ  (Hilberg, 1997, p. 240). Per via della loro inerzia in Mentre sei milioni morivano Stati Uniti e Gran Bretagna sono stati definiti «spettatori» (Morse, 1968). L’incapacitĂ  alleata di portare in salvo gli ebrei Ăš sfociata nell’autoaccusa: «i nazisti erano assassini, noi eravamo tutti complici passivi» (Wyman, 1984). C’ù chi pensa che «nessuno degli ebrei morti durante l’Olocausto avrebbe potuto essere salvato da qualsiasi azione che gli alleati avrebbero potuto intraprendere tenuto conto di ciĂČ che si sapeva al riguardo, di ciĂČ che venne effettivamente proposto e che era realisticamente possibile» (Rubinstein, 1997, p. x). La frase sbrigativa «il mondo non fece niente» Ăš una «mezza veritĂ  poichĂ© ignora che gli alleati fecero crollare il Terzo Reich» (Marrus, 2007, p. 2), ma va riconosciuto che «quel poco che si sarebbe potuto fare non Ăš stato fatto» (Bauer, 2013, p. 133).

Gli alleati sono stati accusati di non aver bombardato Auschwitz e le linee ferroviarie, di non aver negoziato coi nazisti il rilascio di ebrei, di non aver pubblicizzato efficacemente le informazioni sullo sterminio e di aver ritardato a creare il War Refugee Board (Commissione interdipartimentale fondata da Roosevelt nel gennaio 1944 che salvĂČ circa 200.000 ebrei) (Niewyk, Nicosia, 2000, p. 121).

A volte gli spettatori si trasformarono in carnefici come a Jedwabne, nella Polonia nord-orientale dove il 10 luglio 1941 i “vicini” non ebrei massacrarono la quasi totalità degli ebrei (tra i 400 e i 1.600).

I tedeschi stettero a guardare, fecero fotografie, mentre i locali non ebrei, istigati dai nazisti, brutalizzati dalla guerra e dalla repressione sovietica, motivati dal desiderio e dall’opportunitĂ  inaspettata di derubare gli ebrei una volta per tutte, li raccolsero nella piazza del mercato, li umiliarono ordinandoli in una parata diretta al cimitero, li spinsero dentro un grosso fienile dove li bruciarono vivi. La maggioranza della popolazione restĂČ passiva davanti al crimine; furono uccise circa 90 persone, solo la famiglia Wyrzykowski nascose i soli sette ebrei sopravvissuti (Gross, 2003).

6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 83

Altre volte intere comunitĂ  si trasformarono in terre di soccorso come a Le Chambon-sur-Lignon e Nieuwlande4. Esempi di riuscita azione politica morale (Gross, 1997), di «ordinarietĂ  del bene» (Modigliani, Rochat, 1995) e di collettiva resistenza civile non violenta all’occupazione nazista, le operazioni di soccorso furono possibili grazie all’ampia componente protestante (ugonotta a Le Chambon, calvinista a Nieuwlande), alla presenza di leader carismatici (il pastore AndrĂ© TrocmĂ© e la moglie Magda a Le Chambon, l’attivista resistente Arnold Douwes a Nieuwlande) e al sostegno delle reti organizzate di soccorso radicate localmente. Il soccorso agli ebrei e la resistenza all’autoritĂ  a Le Chambon venne sollecitata dal sermone del pastore TrocmĂ© il 23 giugno 1940, a Nieuwlande dalla predica del pastore Slomp nell’estate del 1942. Gli abitanti di Le Chambon, ugonotti d’origine, condivisero con gli ebrei una secolare tradizione di persecuzione in Francia, erano ispirati dalla parabola evangelica del buon samaritano e da una forte opposizione antigovernativa. Quelli di Nieuwlande identificarono gli ebrei con Israele, popolo eletto nel Vecchio Testamento dimostrando un forte senso di dovere morale. L’arresto dei leader, la minaccia delle perquisizioni e i conseguenti arresti indurirono la resistenza che divenne parte della quotidianitĂ  a Le Chambon (ibid.), la professionalizzazione della rete di resistenza civile con l’attribuzione alle donne e agli ebrei soccorsi di un ruolo decisivo e di una certa responsabilitĂ  e l’assistenza finanziaria del fondo nazionale garantirono a Nieuwlande il successo dell’impresa (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).

Il singolo soccorritore Ăš ben identificabile, ne conosciamo il nome, il volto, i dettagli della sua impresa. L’identitĂ  dello spettatore passivo scompare dietro uno pseudonimo o resta senza nome, si dilunga poco nel racconto di sĂ© e della sua esperienza durante la guerra soffermandosi su quanto dura fosse allora la vita (Oliner, Oliner, 1988). CzesƂaw Borowi, un contadino polacco che lavorava le sue terre intorno al Lager

4. A Le Chambon, comune di poco meno di 3.000 abitanti situato sull’altopiano

Vivarais-Lignon, in alta Loira tra il 1940 e il 1944 vengono salvate 5.000 persone di cui 3.500 ebrei dalla persecuzione nazista, principalmente bambini sottratti all’internamento nei campi di Gurs e Rivesaltes. A Nieuwlande, villaggio di 800 abitanti collocato a sud di Drenthe nel nord dell’Olanda, 250 ebrei, intere famiglie strappate ai treni ad Amsterdam diretti ad Auschwitz e portate in salvo in bicicletta sono nascoste da quasi tutte le famiglie del paese (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).

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di Treblinka disse «se io mi taglio un dito lui [un’altra persona] non sente male» (Lanzmann, 2007, p. 24). Beatrix (pseudonimo attribuito a una spettatrice olandese) ricordava: «Non si poteva fare niente. Avremmo potuto nasconderli, ma c’era un aiutante in casa e troppa gente intorno perchĂ© avevamo uno studio medico...» (Renwick Monroe, 2008, p. 718). Una spettatrice del ghetto di Varsavia ammetteva: «La mia colpa, che confina con la crudeltĂ , fu la mia indifferenza per il destino ebraico. Ero completamente indifferente agli esseri umani che stavano morendo nel ghetto. Loro erano “loro” e non “noi”» (Barnett, 1999, p. 112).

Oskar Schindler Ăš un imprenditore tedesco che riesce nell’impresa di mettere in salvo 1.100 ebrei con il pretesto di impiegarli in una fabbrica di oggetti smaltati a Cracovia. Interrogato sul perchĂ© lo fece rispose bizzarramente: «Se attraversando la strada vi fosse un cane in pericolo di essere investito da un’auto, non si dovrebbe provare ad aiutarlo?» (Wundheiler, 1986, p. 340). A Budapest il diplomatico svedese Raoul Wallenberg fra il luglio del 1944 e il gennaio del 1945 salvĂČ fino a 100.000 ebrei rilasciando passaporti svedesi protettivi (Bierman, 1981). Sempre a Budapest Giorgio Perlasca, commerciante di carni, si finse reggente della legazione spagnola fra il dicembre del 1944 e il gennaio del 1945 salvando piĂč di 5.000 ebrei. Alla domanda “perchĂ© lo fece?” Perlasca rispose: «PerchĂ© non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. PerchĂ© non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini» (Deaglio, 2003).

Jan Karski e Kurt Gerstein sono stati «messaggeri» che portarono al «mondo esterno» l’orribile notizia dello sterminio (Hilberg, 1997).

Queste parole pronunciate nel 1989 rivelavano con amarezza l’esito dell’encomiabile sforzo di Karski: «tutte quelle grandi personalitĂ , presidenti, ambasciatori, cardinali che dissero di essere sconvolti, mentivano. Sapevano o non volevano sapere. Questo mi scioccĂČ. Non volevo piĂč avervi a che fare. Dissi a me stesso: “Karski sei impotente. Chiudi con questa faccenda”» (Paldiel, 2011). Gerstein fu un attivista protestante della Chiesa confessionale che nel marzo del 1941 entrĂČ nelle Waffen ss per conoscere dall’interno i crimini nazisti. Nell’agosto del 1942 denunciĂČ l’uccisione di piĂč di 5.000 ebrei a BeĆ‚ĆŒec a cui assistette personalmente il segretario della legazione svedese a Berlino Göran Fredrik von Otter. Scrisse dozzine di lettere di denuncia a colleghi protestanti, amici e familiari mentre continuĂČ a rifornire di Zyk-

6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 85

lon B i Lager di Auschwitz e Oranienburg. Esempio dell’«ambiguitĂ  del bene» (FriedlĂ€nder, 2006), Gerstein tenta di bilanciare i doveri di ss con la personale resistenza al crimine di cui Ăš suo malgrado artefice (HebĂ©rt, 2006). Queste sono solo una goccia nel mare delle migliaia di storie di soccorso la cui conoscenza dovrebbe spingerci a chiederci: «Avrei potuto agire cosĂŹ in queste circostanze, avrei potuto tentare, avrei voluto fare cosĂŹ?» (Gilbert, 2007, p. 427).

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Lungi dal restare prigionieri del passato, dobbiamo metterlo al servizio del presente, così come la memoria – e l’oblio – dovrebbe essere utilizzato al servizio della giustizia.

Ad essere onesti l’Olocausto ci ha colti impreparati. Inaudito, inatteso esso necessita di parole o materiali che mai sono stati concepiti per rappresentare ciĂČ che Ăš accaduto qui. Questo Ăš un problema che riguarda tutti, compreso coloro che ne hanno fatto diretta esperienza.

L’educazione sull’Olocausto ha a che fare con la negazione del diritto umano fondamentale, il diritto alla vita, di un gruppo minacciato di annientamento.

7.1

Memoria, commemorazione e diritto di dimenticare

Nella cultura e nello spazio pubblico contemporanei la memoria della Shoah Ăš centrale. Auschwitz Ăš la «base della memoria collettiva del mondo occidentale» (Traverso, 2006, p. 13). Il suo ricordo, istituzionalizzato con la designazione della Giornata internazionale per la memoria delle vittime dell’Olocausto1 il 27 gennaio, ha dato luogo a una

1. La risoluzione 60/7 adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite afferma che «l’Olocausto, che ha provocato l’uccisione di un terzo del popolo ebraico, insieme a innumerevoli membri di altre minoranze, sarĂ  per sempre un monito per tutte le persone sui pericoli dell’odio, del fanatismo, del razzismo e dei pregiudizi»,

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7
Presente e futuro della Shoah: ricordare, rappresentare, educare

religione civile, fatta di rituali di pubblica commemorazione e di spazi di “culto”, memoriali e musei. La letteratura sulla memoria della Shoah mette l’accento sulla sua natura traumatica, sul difficile riemergere collettivamente, sull’antinomia fra storia, narrazione e scrittura del passato secondo le modalità e le regole del mestiere e la memoria, matrice della rappresentazione storica che, singolare e imperfetta, rifugge comparazioni e generalizzazioni (Traverso, 2006, p. 18), sugli abusi e l’ossessione commemorativa. Quando si sente parlare di memoria della Shoah, del “dovere della memoria” non ci si riferisce primariamente ai ricordi che i carnefici hanno della violenza inflitta, ma alla rievocazione dell’offesa subita dalle vittime.

Per i sopravvissuti la memoria dell’offesa Ăš qualcosa di intollerabile e doloroso. Si prova vergogna a ripensare al modo in cui si Ăš stati umiliati e degradati, si fa fatica a riaccogliere nella famiglia umana i propri aguzzini (Bensoussan, 2014, p. 3). Chi Ăš stato carnefice e prova un senso di colpa per ciĂČ che ha fatto preferisce ricacciare nel profondo il ricordo deformandolo e obliterandolo. Accomunati dal fatto che la memoria dell’esperienza estrema mal si accorda con il volto decente che le societĂ  post-genocidarie impongono, vittime e carnefici si trovano agli antipodi rispetto al dovere civico della trasmissione della memoria dell’offesa che preme in molte vittime, mentre Ăš assente nei carnefici che temono il castigo della legge (Krondorfer, 2008, p. 250).

Sul piano collettivo la rammemorazione della Shoah si ù dipanata secondo due regimi: alla repressione del ricordo avvenuta nell’immediato dopoguerra ù seguita l’ossessione commemorativa (Moyn, 1998). Seguendo questa traiettoria, dalla repressione all’ossessione, la memoria collettiva della Shoah, declinandosi differentemente nei vari contesti nazionali sotto vari stimoli ù venuta fuori lentamente. Nella metà degli anni Quaranta ha prevalso una reazione di ripugnanza ai crimini nazisti e una prima rielaborazione attraverso i processi di Norimberga del 1945-46. Dai tardi anni Quaranta ai tardi anni Cinquanta si era indifferenti ai crimini nazisti avvolti da un silenzio quasi totale eccezion fatta per il diario di Anna Frank (1947), la cui trasposizione teatrale (1955) e cinematografica (1959) fu accolta da un grande successo internazionale. Negli anni Sessanta si ù assistito a un primo riemergere

gli Stati membri onu sono sollecitati a sviluppare programmi educativi, a rifiutare i negazionismi, a preservare i luoghi della persecuzione, a condannare tutte le manifestazioni di molestia, incitamento e intolleranza religiosa.

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della Shoah come soggetto autonomo nel processo della memoria collettiva e della comprensione della storia grazie al processo Eichmann (1961), al cambio generazionale e alla guerra arabo-israeliana dei Sei giorni (1967) che per la prima volta ha evidenziato la minaccia alla sicurezza degli ebrei in Israele. Negli anni Settanta e Ottanta si Ăš diffusa su larga scala la consapevolezza che la Shoah sia un elemento nodale delle storie e delle memorie nazionali. Il preponderante mito della resistenza all’occupazione nazista Ăš infranto in Francia. Si riscopre il diffuso fenomeno del collaborazionismo sotto il regime di Vichy con l’uscita del film Le Chagrin et la pitiĂ© (1971). Nel 1984 gli esponenti della comunitĂ  ebraica francese polemizzano l’apertura nei pressi di Auschwitz di un convento di carmelitane, nel 1980 esce Le Journal d’Anne Frank est-il authentique? (1980) del negazionista Faurisson e nel 1985 il documentario Shoah, nel 1987 si tiene il processo al “boia di Lione” Klaus Barbie (1987). Fra il 1978 e il 1979 si afferma negli Stati Uniti e in Germania il termine Olocausto grazie alla trasmissione del film Holocaust, in Germania tra il 1986 e il 1989 si consuma la “disputa degli storici” (Historikerstreit) sul posto occupato da Auschwitz nella memoria tedesca e sul problema della singolaritĂ  e comparabilitĂ  della Shoah. Negli anni Novanta, a Guerra fredda conclusa, e nel primo decennio del 2000, la consapevolezza di massa sulla tragedia ebraica raggiunge il suo picco con la sua “americanizzazione” legata al successo mondiale di Schindler’s List e all’apertura dell’Holocaust Memorial Museum a Washington nel 1993 (Gordon, 2013, pp. 3-14).

Nell’era della “guerra al terrore” la Shoah resta un’ombra sull’Occidente ma Ăš anche vista come l’elemento unificante per una comune memoria europea (Diner, 2003), la sua memorializzazione Ăš posta alla base del processo di integrazione europea (Karner, Mertens, 2013, pp. 23-42). Quanto piĂč lo sterminio degli ebrei d’Europa ripiega nel passato, ritirandosi come esperienza vissuta, tanto piĂč si afferma nel presente come luogo della memoria (Nora, 1989). Per questioni anagrafiche oggi il ricordo di Auschwitz non Ăš quello spontaneo di chi ne Ăš stato vittima, carnefice o spettatore, ma Ăš costruito e mediato da molteplici modalitĂ  rappresentative. Questa memoria non Ăš piĂč, o non solo, Ăš legata ai luoghi della persecuzione. Essa Ăš cosmopolita, deterritorializzata e dislocata (negli Stati Uniti ci sono oltre 44 tra musei e memoriali, a Montevideo si trova il Memoriale dell’Olocausto del popolo ebraico, a Cape Town, Durban e Johannesburg Centri di ricerca

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sull’Olocausto, a Ottawa un Monumento nazionale dell’Olocausto), Ăš matrice della sensibilitĂ  per il rispetto dei diritti umani e della politica di intervento umanitario (Levy, Szainder, 2006). Nell’era della globalizzazione delle conoscenze, dei conflitti e delle economie, la Shoah Ăš diventata «paradigma o modello col quale altri genocidi e traumi storici sono spesso percepiti e presentati [...] ha fornito una lingua per la loro articolazione» (Assmann, 2006, p. 14).

PerchĂ© ricordare ancora la Shoah a quasi settant’anni di distanza? Questa domanda ne presuppone un’altra piĂč ampia: perchĂ© ricordiamo il passato? Ogni esistenza individuale Ăš collocata storicamente in rapporto a un passato che la precede e a un futuro che scalpita per emergere. AffinchĂ© questa esistenza possa strutturarsi ed elaborarsi necessita stabilire da dove proviene e verso dove Ăš diretta, facendo tesoro degli esempi della memoria collettiva e della storia. Oggi si sente il dovere di ricordare e di riflettere sulle lezioni della Shoah –sull’estrema degradazione e umiliazione a cui puĂČ dar luogo l’esclusione sociale e razziale legalizzata, sulla trasformazione di individui ordinari in straordinari criminali, sull’indifferenza degli spettatori e sul coraggio morale dei soccorritori – perchĂ© si Ăš convinti che esse possano evitarci di essere vittime, carnefici o spettatori a nostra volta. Nondimeno gli appelli al “dovere di ricordare”, al “mai dimenticare”, al “mai piĂč” – imperativi su cui il ricordo della Shoah da sempre si presenta come obbligo – suonano beffardi e retorici rispetto all’incessante rincorrersi della violenza di massa sui civili. Questa retorica dovrebbe farci aprire gli occhi sul fatto che la memoria Ăš sempre del presente, che l’appropriazione del passato avviene sempre in una dimensione socio-politica tutt’altro che neutra. Sia i contenuti sia le forme della memorializzazione sono determinati dall’interazione tra l’esperienza storica rappresentata, gli agenti che ne plasmano la memoria – committenti, finanziatori, creatori o fruitori del veicolo culturale adottato – e i paradigmi rappresentativi (Kansteiner, 2002).

Nella definizione del ricordo di un trauma collettivo si alternano contesa e consenso come hanno mostrato i dibattiti sull’edificazione del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa (Robin, 2005), del centro di documentazione Topografia del terrore nel cuore di Berlino (Hass, 2004) e del Museo canadese per i diritti umani (Laban Hinton, La Pointe, Irvin-Erickson, 2014, pp. 21-51). La memoria della Shoah non puĂČ essere uniforme perchĂ© l’esperienza del trauma e della sua

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rimozione ù stata diversa fra vittime, carnefici e spettatori, fra paesi dell’Europa occupata e neutrale, dell’est e dell’ovest, dove si ù stratificata localmente ed ù riemersa a diverse velocità (Assmann, 2006). In quanto matrice e posta in gioco delle identità familiari, comunitarie, nazionali la memoria ù costantemente esposta alla negazione, alla banalizzazione e alla sacralizzazione (Todorov, 1996; Pisanty, 2012). Un dovere della memoria della Shoah a corto di connessioni con il presente degenera in vuota ripetizione, il ricordo incessante dell’orrore privo di analisi e di riflessione invece di essere scelta contro il male e la violenza rafforza l’idea che il male sia ineluttabile (Bensoussan, 2014, pp. 18-27).

In Italia, dove a lungo la memoria delle vittime della Shoah Ăš stata relegata nell’ombra dalla rievocazione della resistenza al fascismo sta montando una certa stanchezza contro un Giorno della memoria (istituito dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000) sovrabbondante di “eventi”, affannato da voci, parole e immagini, solo postumo omaggio e risarcimento alle vittime, raramente occasione per riflettere sul presente della memoria, sugli italiani che sotto il fascismo hanno favorito la persecuzione ebraica e sulla reticenza a ricordare per decenni. Questo malumore finisce per invocare un unpolitically correct diritto di dimenticare (Loewenthal, 2014) generalmente bandito da un dovere della memoria che respinge ciĂČ che dopotutto accade fisiologicamente per qualsiasi ricordo del passato, la rielaborazione selettiva che escludendo di necessitĂ  manda qualcosa nel dimenticatoio. Non ci puĂČ essere memoria completa nĂ© perfetta, soprattutto di traumi individuali e collettivi come la Shoah.

7.2

Forme e limiti della rappresentazione

Non si puĂČ ricordare senza avere un’immagine del passato, senza rappresentarselo. La rappresentazione come condizione della rammemorazione Ăš ri-presentazione (dal latino representare, composto di re- e presentare “presentare”), contestualizzazione, selezione di contenuto, attribuzione di senso, forma e significato. È rappresentabile la distruzione di milioni di ebrei? Che la Shoah sia rappresentabile lo prova il fatto che sia stata e continui a essere rappresentata. Fino a oggi piĂč di un milione di fotografie principalmente scattate dai carnefici sono state archiviate. Dal 1944 si contano almeno 100.000 resoconti di

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sopravvissuti. Le opere di Primo Levi, Elie Wiesel, Charlotte Delbo, Ruth KlĂŒger, Jean AmĂ©ry compongono il “canone accademico” delle circa 6.000-10.000 memorie. Tra i diari scritti dalle vittime meritano una menzione speciale quelli di Anna Frank, di Viktor Klemperer e di Janusz Korczak. Tra i film la miniserie Holocaust (1978) di Marvin J. Chomsky, il documentario Shoah (1985) di Claude Lanzmann, Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg, la Vita Ăš bella (1997) di Roberto Benigni hanno lasciato un profondo segno nella consapevolezza collettiva e suscitato aspre reazioni. Significative sono poi la poesia Fuga di morte (1952) di Paul Celan, il fumetto Maus di Art Spiegelman (1989-92), tra i racconti storici di finzione Le benevole (2007) di Jonathan Littell. Fra gli artisti grande attenzione meritano l’opera di Anselm Kiefer, Christian Boltanski, le mostre Burnt Whole: Contemporary Artists Reflect on the Holocaust (1994), Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941-1944 (1995-1999), Mirroring Evil: Nazi Imagery/ Recent Art (2002). Fra i brani musicali ne ricordiamo uno, Il Carmelo di Echt (2008) di Franco Battiato (2008). Tra le centinaia di memoriali e musei i piĂč visitati sono il Museo nazionale di Auschwitz-Birkenau, Yad Vashem a Gerusalemme, Holocaust Memorial Museum a Washington, il Museo della storia degli ebrei polacchi a Varsavia, il Museo ebraico e il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino, il Centro di documentazione ebraica e il Memoriale della Shoah (binario 21) a Milano.

L’incessante rimodellamento estetico e semantico dello sterminio degli ebrei ha sollevato questioni sui limiti epistemologici ed etici della rappresentazione. PuĂČ l’esperienza della distruzione essere adeguatamente rappresentata, senza edulcorarne il carattere estremo? Si rischia di rappresentarla in modo inappropriato, irrispettosamente della sofferenza di vittime e parenti o inaccuratamente sul piano della ricostruzione storica? Le varie posizioni espresse rispetto a questi interrogativi possono essere contestualizzate nella distinzione all’interno degli Holocaust Studies (“studi sull’Olocausto”) tra un approccio realista e uno antirealista al genocidio (Rothberg, 2000)2. Sul pia-

2. Nell’antirealismo convergono la critica strutturalista al realismo letterario del semiologo francese Roland Barthes (Barthes, 1988), la critica modernista al realismo storico di Hayden White (White, 1999; 2006) e quella postmoderna alla strutture narrative del sapere occidentale di Jean-Francois Lyotard (Lyotard, 1981) e quella all’oggettività storica di Peter Novick (Novick, 1988).

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no epistemologico – dei fondamenti, della validitĂ  e dei limiti della conoscenza scientifica – per il realismo la Shoah Ăš conoscibile, per l’antirealismo non lo Ăš o al limite puĂČ essere conosciuta servendosi di regimi di conoscenza nuovi rispetto agli schemi rappresentativi tradizionali. L’approccio realista insiste per analizzare la Shoah secondo procedure “scientifiche” condivise e inscrivere gli eventi all’interno di schemi narrativi temporalmente lineari. Queste due prospettive si differenziano sostanzialmente rispetto al modo di intendere nella Shoah la relazione tra ordinario e straordinario, due tratti onnipresenti e compenetranti nell’esperienza e nella narrazione della Shoah. Quando rappresentano la Shoah i realisti si servono di termini come banalitĂ , ordinario, comune, modernitĂ  (come sappiamo Arendt parla di banalitĂ  del male, Browning di uomini ordinari, Goldhagen di tedeschi comuni, Bauman di modernitĂ ) e tendono a situarli in un continuum di ordinario e straordinario, facendoli collassare l’uno sull’altro. Gli antirealisti adottano vocaboli come barbarie, oscenitĂ , blasfemia, tremendum, dissenso3 e mantengono una cesura insanabile tra ordinarietĂ  e straordinarietĂ : la Shoah Ăš un evento inaccessibile, al di lĂ  del discorso e della conoscenza. Appartiene la Shoah a una classe speciale di eventi che ne limita la rappresentazione? La soluzione finale Ăš un «evento ai limiti» che mette alla prova le categorie rappresentative e concettuali tradizionali, «la piĂč radicale forma di genocidio della storia» rispetto a cui vi sono «limiti di rappresentazione che non dovrebbero essere ma sono facilmente trasgrediti» (FriedlĂ€nder, 1996, p. 3). Il genocidio degli ebrei Ăš un evento modernista paradigmatico della storia europea occidentale, che resiste alle convenzioni e alle categorie ereditate di assegnazione del significato agli eventi poichĂ© intacca «lo status dei fatti in relazione agli eventi e quello dell’evento in generale» (White, 1999, p. 70). Un’insufficienza linguistica impe-

3. Theodor W. Adorno: «scrivere una poesia dopo Auschwitz Ăš un atto di barbarie» (Adorno, 2001). CosĂŹ Claude Lanzmann: «perchĂ© gli ebrei sono stati uccisi? Questa domanda rivela subito la sua oscenitĂ . C’ù un’assoluta oscenitĂ  in ogni progetto di comprensione» (cit. in Caruth, 1995, p. 204). Per Elie Wiesel «un romanzo su Treblinka non Ăš un romanzo nĂ© riguarda Treblinka» (Lefkovitz, 1977, p. 7). Arthur Cohen parla di «tremendum che rende incommensurabile la riflessione sui campi di sterminio» (Cohen, 1981, p. 1). Jean-François Lyotard definisce il «dissidio» rispetto ad Auschwitz come «lo stato instabile, l’istante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter essere messo in frasi non puĂČ ancora esserlo» (Lyotard, 1985, p. 19).

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disce di significare l’esperienza concentrazionaria con efficacia. Primo Levi scriveva: «come questa nostra fame non Ăš la sensazione di chi ha saltato un pasto, cosĂŹ il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo “fame”, diciamo “stanchezza”, “paura” e “dolore”, diciamo “inverno”, e sono altre cose. Sono parole libere usate da uomini liberi che vivevano godendo e soffrendo, nelle loro case» (Levi, 1979, p. 110). Wiesel, per suo conto, ha scritto: «Che tipo di parole? [...] Il linguaggio Ăš stato corrotto sino al punto che deve essere inventato da zero e purificato. Stavolta scriviamo non con le parole ma contro le parole. Spesso diciamo meno cosĂŹ da rendere la veritĂ  piĂč credibile» (Wiesel, 1977, p. 8). La natura “ai limiti” dell’evento impedisce di trivializzarlo, ovvero di renderlo banale. Sempre Wiesel nota: «l’Olocausto non Ăš un soggetto come tutti gli altri. Esso impone certi limiti. Ci sono tecniche che non si possono utilizzare, anche se sono commercialmente efficaci. Per non tradire i morti e umiliare i vivi questo particolare argomento richiede una sensibilitĂ  speciale, un approccio diverso Ăš il rigore rafforzato dal rispetto e dalla riverenza, e soprattutto dalla fedeltĂ  alla memoria» (Wiesel, 1989).

La Shoah impedisce di trasgredire i limiti che essa stessa istituisce. Secondo Lanzmann «l’Olocausto Ăš unico in quanto si costruisce intorno ad esso un cerchio di fuoco, un limite non oltrepassabile per via di un certo orrore assoluto intrasmissibile: pretendere di farlo Ăš rendersi colpevoli della piĂč grave trasgressione» (Lanzmann, 1994).

Nell’articolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory comparso sul “New York Times” l’11 luglio 1989 Wiesel reputa volgari e Kitsch alcuni film come Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, Pasqualino Settebellezze (1976) di Lina Wertmuller, la miniserie Olocausto (1978) di Marvin J. Chomsky, La scelta di Sophie (1982) di Alan J. Pakula, la miniserie Ricordi di guerra (1988-89) di Dan Curtis, Gli assassini sono tra noi (1946) e lo spettacolo teatrale Ghetto (1984) di Joshua Sobol. In un articolo di Wolfgang Staudte dal titolo Une reprĂ©sentation impossible? uscito il 3 marzo 1994 su “Le Monde” Claude Lanzmann critica aspramente Schindler’s List (1994) di Steven Spielberg. Rispetto all’enormitĂ  morale della Shoah puĂČ essere mantenuta una fondamentale differenza tra rappresentazione e oggetto prima di essere ri-presentato, tra livello rappresentativo, figurativo e letterale, fattuale, non figurativo (Lang, 2000) oppure fondere queste dimensioni, renderle indistinguibili (FriedlĂ€nder, 1996; Kellner, 1994).

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Bisognerebbe poi riconoscere nel silenzio lasciato dalla distruzione il limite costitutivo rispetto al quale ogni rappresentazione si misura (Lang, 2000) e nel minimalismo – «arte dell’usare un minimo di parole per dire il massimo» – vedere una regola per la rappresentazione letteraria d’immaginazione (Lang, 1988), nel negazionismo storiografico una forma di rappresentazione inappropriata, inaccurata storicamente e moralmente oltraggiosa, nella feticizzazione dei simboli della superioritĂ  razziale nazista e nell’erotizzazione della relazione carnefice-vittima di alcuni film rappresentazioni discutibili e banalizzanti, forme del Kitsch (Pisanty, 2012, pp. 53-7), nel curiosare voyeuristico dallo spioncino della camera a gas una feticizzazione dell’orrore e un’incapacitĂ  a tenersi a una «giusta distanza» (Donaggio, Guzzi, 2010). Nel sostenere un privilegio nel diritto di produrre conoscenza4 da parte dei sopravvissuti Ăš riconoscibile un’appropriazione esclusiva della Shoah (KertĂ©sz, 2001) d’ostacolo al pluralismo interpretativo (Feinstein, 2005, p. 30) e un’insufficiente storicizzazione di quell’etica della rappresentazione del dopo Auschwitz il cui proibizionismo rispetto alla possibilitĂ  di trarre piacere estetico dalla rappresentazione della Shoah (Hayes, Roth, 2010) non regge piĂč nell’era della postmemoria (Hirsch, 2001).

7.3

Fatiche dell’insegnare e dell’apprendere

Il presente e il futuro della Shoah dipendono dall’educazione sullo sterminio degli ebrei che puĂČ essere rivolta primariamente agli studenti e potenzialmente a tutti quanti, come hanno per esempio dimostrato i programmi organizzati dall’Holocaust Memorial Museum per giudici, avvocati, poliziotti e militari (Fracapane, Hass, 2014, p. 169).

L’International Holocaust Remembrance Alliance – un corpo intergovernativo fondato nel 1998 con lo scopo di supportare leader politici e sociali rispetto alla necessità dell’educazione, del ricordo e della ricerca sulla Shoah a cui a oggi aderiscono 31 Stati membri (fra cui l’Italia),

4. Sempre nell’articolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory, Wiesel scrive: «Solo coloro che lo [Auschwitz] hanno vissuto nella loro carne e nelle loro menti possono possibilmente trasformare la loro esperienza in conoscenza. Gli altri, nonostante le buone intenzioni, non potranno mai farlo».

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diverse organizzazioni internazionali (onu, unesco, osce/odihr, Consiglio d’Europa) e quasi 876 organizzazioni da 44 paesi impegnate nell’educazione, nella memoria e nella ricerca5 – che promuove l’educazione, il ricordo e la ricerca sulla Shoah ha predisposto linee guida per un corretto approccio didattico in forma di risposte al perchĂ©, al cosa e al come insegnare la Shoah (Task Force, 2005).

Gli approcci didattici possono essere molteplici, definiti dal tipo di informazioni che si vuole trasmettere e dal loro inserimento entro una cornice interpretativa, dagli strumenti e dai materiali utilizzati, dagli scopi educativi perseguiti – tutti elementi modellati rispetto all’oggetto di studio e alle caratteristiche degli allievi e degli educatori coinvolti nel processo educativo. È meglio dare rilevanza alle specificitĂ  che ne definiscono la singolaritĂ  storica della Shoah come la dimensione numerica, l’estensione geografica, l’ideologia soggiacente secondo un approccio particolarista o sottolineare l’universalitĂ  di argomenti quali la distruzione della persona, la desacralizzazione della morte, la negazione dei diritti fondamentali e dei valori democratici secondo un approccio universalista? Chi insegna puĂČ adottare un modello di apprendimento mimetico volto alla trasmissione strumentale o riflessiva del sapere oppure uno esperienziale e trasformativo mirante a promuovere lo sviluppo caratteriale e morale degli allievi attraverso simulazioni e giochi di ruolo e viaggi nei luoghi della memoria. Possiamo pensare che l’educatore si interroghi se rispetto al tema della zona grigia sia meglio far leggere Sommersi e salvati di Primo Levi o far vedere La zona grigia di Tim Blake Nelson, se per trattare il tema dell’infanzia nel Lager sia piĂč opportuna la lettura di Qui non ci sono bambini di Thomas Geve o la visione de Il Bambino col pigiama a righe di Mark Herman e quello dell’ordinarietĂ  del male sia meglio proporre Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale di David Cesarani o Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno di Eyal Sivan. Si dovrebbe poi scegliere se contestualizzare lo studio della Shoah nell’ambito della storia dell’antisemitismo europeo, della Seconda guerra mondiale, della comparazione con le al-

5. A oggi sono 10 le organizzazioni italiane affiliate, tra cui aned (Roma), Associazione Olokaustos (Venezia), Figli della Shoah (Venezia), Fondazione cdec (Milano), Fondazione Museo della Shoah (Roma), Museo Monumento al deportato politico e razziale (Carpi), Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della LibertĂ  (Torino). Invitiamo a visitare questo indirizzo web: https://www.holocaustremembrance.com.

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tre violenze del xx secolo, della tradizione dei diritti umani e chiarirsi le idee sullo scopo educativo perseguito: stimolare la riflessione sugli abusi del potere, sulle responsabilità degli individui, far comprendere le ramificazioni del pregiudizio, del razzismo e dell’antisemitismo nelle società in cui viviamo, sottolineare i pericoli del silenzio e dell’indifferenza di fronte all’oppressione degli altri, educare alla tolleranza, alla solidarietà e alla giustizia.

La Shoah come oggetto di studio Ăš particolarmente ostico per via di una certa problematicitĂ  legata a un’intrinseca difficoltĂ  di dicibilitĂ  e di trasmissibilitĂ  della memoria tragica delle vittime, per la sua funzione simbolica nella nostra coscienza collettiva in quanto radicale rottura di civiltĂ  nella storia della societĂ  occidentale e perchĂ© ha infranto le barriere fra le discipline costringendole all’interdisciplinarietĂ  (Traverso, 1995, pp. 99, 33). La Shoah Ăš argomento talmente complesso a causa della densitĂ  del dodicennio hitleriano, dell’ampiezza geografia della persecuzione, della molteplicitĂ  degli attori coinvolti che puĂČ risultare scoraggiante trattarlo per chi insegna (Totten, Feinberg, 2001). Consiste inoltre di una certa diversitĂ  data dal fatto di essere «piĂč di un tipico evento storico che puĂČ essere studiato in termini di tempo, luogo, attivitĂ  e risultato», perciĂČ non esauribile in breve tempo, e in quanto «veicolo attraverso cui puĂČ essere esaminata l’essenza della condizione umana» racchiude un sapere storico ed etico poichĂ© offre l’opportunitĂ  di esaminare ogni possibile comportamento umano, da un massimo di male a un massimo di bene (Lindquist, 2011b). Il soggiacere alla “soluzione finale” di una complessitĂ  causale – razionalitĂ  strumentale moderna, antisemitismo redentivo, ossessione giudeo-bolscevica – Ăš d’ostacolo al capire, capacitĂ  che appare limitata rispetto allo spiegare (Traverso, 1995, p. 15): «piĂč conosco meno so e meno capisco» una volta ha detto Elie Wiesel (cit. in Lindquist, 2006). L’insegnamento della Shoah puĂČ avere un’enorme potenza trasformativa come nel caso di una ragazza diciassettenne statunitense che dopo una lezione sulla Shoah di Facing History and Ourselves ha affermato «pensiamo alla storia che impariamo. È importante imparare le parti scomode. È lĂŹ che possiamo trovare i conflitti che ci aiutano a capire noi stessi» (Fracapane, Hass, 2014, p. 159). PuĂČ altresĂŹ esporre al rischio di una “sovraidentificazione” con le vittime come Ăš accaduto a uno studente di una scuola media statunitense che, dopo una simulazione sulla Shoah chiamata Morire di fame. Una lezione sulla durezza del campo

7. presente e futuro della shoah 97

di concentramento (che prevedeva due settimane di “dieta Auschwitz” e la lettura di La notte di Wiesel), afferma: «l’unica cosa che ho scoperto oggi Ăš che io non voglio essere ebreo» (Lindquist, 2011a, p. 125). PuĂČ anche dar luogo a un’imbarazzante difficoltĂ  a comprendere la dinamica di totale squilibrio di forze tra internati e guardie vigente nel Lager, come nel caso del ragazzo che Alberto Cavaglion chiama l’“ultimo ascoltatore” di Levi, il quale dopo aver ascoltato il racconto del ex deportato interviene dicendo: «Tutto vero, tutto terribile quello che ci ha riferito; ma signor Levi, la prossima volta che Lei si troverĂ  in questa situazione si ricordi quello che Le dico, dia retta a me, si faccia dare la pistola al raggio verde, spezzi il reticolato ed esca fuori, dove un’astronave la raccoglierĂ  e in pochi secondi La restituirĂ  ai suoi Cari» (Traverso, 1995, p. 114). L’educatore dovrebbe essere in grado di far comprendere l’enormitĂ  morale di questa storia, non dovrebbe sovraesporre con immagini macabre e racconti dell’orrore la realtĂ  dello sterminio nĂ© sottoesporla minimizzandola, dovrebbe cercare di equilibrare conoscenza ed emozione, offrire una puntuale esposizione delle tappe principali della persecuzione antiebraica, evidenziarne processualitĂ , sistematicitĂ  e simultaneitĂ  e personalizzare la storia proponendo diari, memorie, testimonianze dal vivo e registrate, comparare la Shoah senza equiparare nĂ© gerarchizzare le sofferenze delle diverse violenze. Il presente dell’educazione sulla deportazione e lo sterminio Ăš indissolubilmente legato alle problematiche nazionali della memoria (Santerini, 2003) e alle traiettorie della commemorazione (Davis, Rubeinstein-Avila, 2013), come si puĂČ vedere nel caso del progetto Il ’900. I giovani e la memoria lanciato dal miur nel 1998 per commemorare il sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali e quello del concorso I giovani ricordano la Shoah istituito nel 2005 per il sessantesimo anno dalla liberazione di Auschwitz. Per rendere giustizia alla problematicitĂ  e alla complessitĂ  dell’esperienza dello sterminio, tenerne viva la memoria ed evitare di suscitare insofferenza e disinteresse facendo coincidere lo sforzo educativo con l’approssimarsi della celebrazione del Giorno della memoria, sarebbe necessario diluire negli anni l’apprendimento e attualizzare l’argomento per esempio in relazione al destino tragico delle decine di migliaia di migranti che muoiono in mare e di cui nessuno in Europa vuole farsi carico.

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Completiamo questo saggio riepilogando alcune delle principali conoscenze che abbiamo acquisito nel corso del testo. L’esposizione di una breve storia della “soluzione finale” ci ha permesso di mettere in luce il carattere processuale, non scontato e non ineluttabile della Shoah, prima politica antiebraica di esclusione e segregazione biologica e sociale, poi fallito progetto di “soluzione territoriale del problema ebraico” mediante emigrazione forzata e trasferimento di altre popolazioni e solo dalla metĂ  del 1941 sterminio di massa organizzato. La Shoah Ăš un fenomeno storico la cui complessitĂ , dovuta alla multidimensionalitĂ  temporale e geografica della persecuzione, all’ampio spettro degli attori coinvolti e alla varietĂ  dei loro comportamenti, puĂČ essere governata se viene scomposta in parti, rispetto agli attori, fra vittime, carnefici e spettatori. Nel capitolo sulle vittime abbiamo evidenziato la dimensione principalmente orientale dello sterminio, non solo per la concentrazione nell’Europa centro-orientale dei luoghi dello sterminio e perchĂ© fra Polonia, Ucraina, Bielorussia e Paesi Baltici le vittime sono state piĂč di 4 milioni ma anche per via del fatto che una cultura, un mondo, quello yiddish, Ăš stato irrimediabilmente spazzato via. Abbiamo dato rilevanza alla specificitĂ  dell’esperienza femminile e infantile della persecuzione per lungo tempo tenuta ai margini della storiografia, riconosciuto nella testimonianza di Primo Levi, Elie Wiesel e Jean AmĂ©ry un significato e un valore universali, evidenziato le difficoltĂ  dell’accoglimento della testimonianza del sopravvissuto tra le fonti nell’archivio dello storico e l’importanza del racconto dal cuore dello sterminio dei membri del Sonderkommando, “testimoni integrali” che con la loro esperienza diretta delle camere della morte ridimensionano un motivato scetticismo sulla capacitĂ  del superstite di testimoniare fino in fondo l’abisso di morte a cui Ăš scampato e levano il terreno da sotto i

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8 Conclusioni

piedi a chi nega l’esistenza delle camere a gas. Considerando carnefici e spettatori abbiamo alternato un regime espositivo e descrittivo a uno teorico ed esplicativo. Dall’analisi dei carnefici abbiamo appreso che l’ordinarietĂ  delle persone convive con la straordinarietĂ  dei crimini commessi e che non si nasce carnefici ma lo si diventa attraverso un’educazione alla violenza (come nel caso del comandante di Auschwitz Höss) e una carriera genocidaria (come nel caso del comandante di Sobibor e Treblinka Stangl). Questi due dati di base, che possono trovare facilmente conferma se si osserva quanto successo in Indonesia nel 1965, in Cambogia nel 1975-79 e in Ruanda nel 1994 dove altrettanti cittadini comuni si trasformarono in assassini, mandano un chiaro segnale d’allarme: lungi dal vedere nei carnefici delle figure patologiche lontane anni luce dalla nostra cara e comoda normalitĂ , dobbiamo essere consapevoli che ognuno di noi trovandosi in un contesto di violenza diffusa, organizzata e impunita puĂČ trasformarsi in un assassino. La dimensione degli spettatori Ăš piĂč composita ed Ăš stata piĂč importante di quanto si creda. Lungi dall’essere soggetti passivi, gli spettatori influenzano nel bene e nel male il processo di distruzione. La denuncia pubblica del programma di eutanasia in Germania ne ha sortito l’interruzione (solo ufficialmente purtroppo), cosĂŹ come la protesta di una larga parte dell’opinione pubblica in Bulgaria ha mandato all’aria la deportazione degli ebrei. Durante la guerra la generale indifferenza della popolazione tedesca rispetto alla questione ebraica ha favorito la deportazione e lo sterminio degli ebrei tedeschi. Tra gli spettatori vi furono individui, comunitĂ , nazioni e organizzazioni e comportamenti che oscillarono tra l’appoggio diretto ai carnefici, la resistenza ai nazisti e il soccorso alle vittime. CosĂŹ come per i carnefici, anche tra gli spettatori ci si domanda se i loro comportamenti siano dipesi piĂč dalla personalitĂ  o dal contesto in cui agirono. Vi Ăš una biforcazione metodologica fra le teorie della personalitĂ  e le teorie psicosociali e sociopolitiche. Da una parte, si dĂ  rilevanza ai tratti autoritari (perlopiĂč tralasciando il contesto d’azione) e a quelli altruistici (tenendo conto anche delle dinamiche contestuali) della personalitĂ . Dall’altra, si verificano sperimentalmente fenomeni sociopsicologici normali quali la conformitĂ  al gruppo, l’obbedienza all’autoritĂ , l’adattamento al ruolo, la diffusione di responsabilitĂ , la dissonanza cognitiva e il disimpegno morale o si vagliano fattori socio-politici come le probabilitĂ  di rischio insite nel soccorso, l’importanza della richiesta d’aiuto, le forme

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d’aiuto, le forme di governo presenti nei paesi dell’Europa nazista e i differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista, i rapporti fra popolazione ebraica e non ebraica prima della persecuzione ecc. Il quadro motivazionale di carnefici e spettatori Ăš complesso e talvolta imperscrutabile, specie tra questi ultimi. A differenza dei capitoli 1, 4, 5, 6, i capitoli 2, 3 e 7 non toccano direttamente la realtĂ  dello sterminio se non rispettivamente come tema per una riflessione sulle forme della crisi della coscienza europea, come soggetto della narrazione storica e oggetto di ricordo, rappresentazione ed educazione. In primo luogo, la crisi della coscienza nasce dalla cognizione del fatto che non vi Ăš giustizia e condanna che possa punire un crimine cosĂŹ insensato e inaudito e una colpa cosĂŹ diffusa. In secondo luogo, questa crisi Ăš provocata dalla percezione di una scandalosa inattualitĂ  del crimine nazista rispetto a un’immagine positiva e progressiva, libera dalla barbarie, della civilizzazione occidentale nel xx secolo. CiviltĂ  e barbarie convivono nelle nostre societĂ , la violenza tenuta sotto il controllo monopolistico dello Stato moderno riesplode laddove lo Stato ne abusa per fini politici. In terzo luogo, la crisi Ăš data dalla mancanza di un vocabolo che adeguatamente possa esprimere quello che Ăš percepito come un “crimine senza nome”. Il riempimento di questo vuoto dĂ  vita, sebbene non subito, a un campo di studi interdisciplinare, “gli studi sul genocidio” in cui la Shoah assume un ruolo paradigmatico nell’analisi comparativa dei genocidi, nuovo male politico del xxi secolo. L’idea portante di questo saggio, che la Shoah Ăš soggetta a una narrazione continua, a un’incessante assegnazione di nuovi significati (da qui i veti a certe forme della rappresentazione e le contese sulla singolaritĂ  della Shoah e sulla specificitĂ  ebraica tra i crimini nazisti) e a un’iscrizione entro nuove cornici di senso, trova posto sia nell’esposizione di alcuni paradigmi storiografici nel cap. 3, sia nel cap. 7 in considerazione della dimensione della rappresentazione come condizione preliminare e interdipendente del ricordo e dell’educazione della Shoah. Il prossimo futuro della Shoah Ăš certo e incerto a un tempo. Certo perchĂ© il suo significato verrĂ  sempre rinnovato come Ăš accaduto sinora e sempre piĂč deterritorializzato e globalizzato, incerto perchĂ© la scomparsa degli ultimi superstiti segnerĂ  la fine di un presidio sicuro sul buon uso della memoria della Shoah, a quel punto potenzialmente esposta alle narrazioni piĂč impensabili.

8. conclusioni 101

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