Narrazioni storiche della Shoah
3.1
Intenzionalismo vs funzionalismo
Quale ruolo va attribuito a Hitler nel processo decisionale sfociato nel sistematico sterminio degli ebrei dâEuropa? Gli storici della Shoah si sono schierati secondo due orientamenti principali: intenzionalista e strutturalista-funzionalista. Mentre lâintenzionalismo storiografico ha posto lâaccento sullâintenzione omicida e sulla preminenza dellâideologia antisemita come fattore determinante gli esiti estremi della violenza nazista, sul ruolo preponderante avuto da Adolf Hitler, assertore di un antisemitismo radicale e primo motore dello sterminio sistematico, il funzionalismo si Ăš concentrato sulla complessa struttura del potere nazista tuttâaltro che ordinato sotto il controllo di un uomo solo al comando, frammentato e conteso tra le diverse istituzioni implicate nellâimplementazione del processo di distruzione. Secondo la tesi intenzionalista la soluzione finale Ăš stato il prevedibile risvolto di unâidea â quella di sterminare gli ebrei â espressa da Hitler giĂ nel 1925 nella sua opera Mein Kampf (La mia battaglia) e riaffermata in un momento cruciale come nel discorso del 30 gennaio 1939 tenuto al Reichstag in cui prospettĂČ lâeventualitĂ dello sterminio degli ebrei. Per il funzionalismo la via che condusse ad Auschwitz fu âtortuosaâ (Schleunes, 1990), lâesito di una âradicalizzazione cumulativaâ (Mommsen, 2003) della soluzione della questione ebraica posta al centro della contesa e degli interessi di diversi centri di potere (sa vs ss, Himmler vs Göring/ Frank). Secondo Klaus Hildebrand, preminente esponente della scuola intenzionalista, «per il genocidio nazista, il dogma razziale di Hitler fu fondamentale [...] le idee programmatiche di Hitler sullâeliminazione degli ebrei e sulla supremazia razziale vanno ritenute causa primaria,
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3
motivo e fine, intenzione e punto di fuga della âpolitica ebraicaâ del Terzo Reich» (Kershaw, 1995, p. 127).
Per il funzionalista Martin Broszat, in assenza di un ordine generale e globale impartito dal FĂŒhrer, «il âprogrammaâ dello sterminio degli ebrei conobbe uno sviluppo istituzionale graduale, e fu in pratica il frutto di iniziative individuali, fino al principio del 1942, acquisendo una fisionomia definita solo dopo la costruzione dei campi di sterminio in Polonia (tra il dicembre 1941 e il luglio 1942)» (ivi, p. 128).
Tale controversia storiografica raggiunse il suo culmine in una serie diconferenzeinternazionalitenuteaPariginel1982,aGerusalemmenel 1983 e a Stoccarda nel 1984. LâincapacitĂ di sopportare separatamente il carico della successiva ricerca suscitata dallâapertura degli archivi sovietici dopo la fine della Guerra fredda ha richiesto lâintegrazione dei due orientamenti. Il maggiore dei pregi dellâapproccio intenzionalista Ăš di avere stimolato la ricerca sul ruolo, anche indiretto, avuto da Hitler e sulle peculiaritĂ dellâantisemitismo nazista. Tuttavia far discendere la soluzione finale direttamente dalle intenzioni programmatiche di Hitler rivela un vizio teleologico, unâattitudine a sottovalutare le contraddizioni e le difficoltĂ emerse nel corso dellâimplementazione del programma di sterminio, oltre a sovrastimare lâimportanza delle decisioni venute dalle alte sfere del potere e a sottostimare le iniziative locali nei luoghi dello sterminio alla periferia del Reich. Merito del funzionalismo Ăš di aver dato il giusto rilievo alle spinte venute dal basso dagli attivisti del partito e dalla periferia, dai capi dei distretti dellâEuropa orientale per lâimplementazione del processo di distruzione e alla multidimensionale logica burocratica che ha strutturato a piĂč livelli lâampio coinvolgimento delle societĂ genocidarie.
Vedere Hitler come un dittatore debole, incapace nei momenti cruciali di decidere non ha impedito di riconoscerne il ruolo centrale di guida morale e di fonte ultima della legge nel Terzo Reich, il potere carismatico-sanzionatorio di forte spinta nel processo di distruzione in direzione dello sterminio sistematico (Mommsen, 2003). Nondimeno, lâaver posto lâaccento sul funzionamento complessivo della macchina dello sterminio, sui processi strutturali e sul gioco delle funzioni contrastanti ha fatto perdere di vista il problema dellâintenzione e allentato la stretta sulla responsabilitĂ dei carnefici, talvolta visti piĂč come ingranaggi di un meccanismo distruttivo che come soggetti consapevoli delle terribili implicazioni delle loro azioni.
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I sintetizzatori, che hanno cercato di fare sintesi delle due posizioni, inclinano verso i funzionalisti nel dubitare che Hitler pianificĂČ la soluzione prematuramente situando la decisione sullo sterminio intorno allâattacco tedesco allâUnione Sovietica, mentre inclinano verso gli intenzionalisti nel valutare il ruolo avuto da Hitler nellâevoluzione delle politiche antiebraiche prima del 1941, ritenendo probabile che Hitler stesso ordinĂČ o autorizzĂČ lâinizio delle uccisioni in massa nel giugno del 1941. Tra i sintetizzatori vi Ăš disaccordo sul grado di personale coinvolgimento del FĂŒhrer nel formulare le politiche anti-ebraiche e sul tipo di motivazione alla base della sua decisione nel momento di passaggio dal trasferimento forzato allo sterminio. Tra questi Saul FriedlĂ€nder in La Germania nazista e gli ebrei (2004) ha arguito che Hitler ebbe sempre un piano per gli ebrei, di emigrazione e nuovo insediamento prima del 1941, dopo di cui uno di sterminio, e che nel periodo 1933-41 mantenne sempre il controllo sulle politiche antiebraiche indirizzandone lâevoluzione impartendo ordini verbali ai suoi luogotenenti. Richard Breitman, in Himmler. Il burocrate dello sterminio (1995), ha sostenuto che Hitler diede lâordine di sterminio nel marzo del 1941 nel corso dei preparativi per lâOperazione Barbarossa. Christopher Browning, in Verso il genocidio (1999) e Le origini della soluzione finale (2008), ha sostenuto che il piano di sterminare gli ebrei dâEuropa ebbe origine fra il luglio e lâottobre del 1941, nellâeuforia della vittoria. Altri sintetizzatori invece hanno affermato che Hitler fu motivato dalla rabbia per la sconfitta imminente e hanno collocato la sua decisione piĂč tardi, come Philippe Burrin, in Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio (1994), alla fine di ottobre del 1941 e Arno J. Mayer, in Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, alla fine di settembre del 1941 come effetto collaterale della crociata anti-bolscevica, lâOperazione Barbarossa.
ModernitĂ ,
3.2
modernizzazione, modernismo: Zygmunt Bauman, Götz Aly, Jeffrey Herf
Il sociologo Zygmunt Bauman e gli storici Götz Aly e Jeffrey Herf si sono serviti rispettivamente delle categorie di âmodernitĂ â, âmodernizzazioneâ e âmodernismoâ per far luce sul nazismo e sullo sterminio degli ebrei.
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Bauman ha inteso la Shoah come un importante test sulle possibilitĂ occulte della modernitĂ , esito tanto unico quanto normale della tendenza patologica della cultura burocratica moderna a considerare la societĂ come un oggetto da amministrare secondo una logica strumentale che riduce gli esseri umani a mezzi nellâottica di un grande progetto utopistico politico-ideologico. A suo avviso, la Shoah sarebbe un genocidio tipicamente moderno poichĂ© mira a uno scopo, quello di edificare una societĂ perfetta attraverso lâeliminazione di certi gruppi umani, come se si trattasse di curare un giardino, privandolo delle erbacce infestanti (Bauman, 2010b, p. 101)1 .
Dallo studio realizzato da Götz Aly a quattro mani con Susanne Heim sui precursori dello sterminio Ăš emersa una lettura âeconomicaâ della soluzione finale basata sulle connessioni tra modernizzazione e sterminio. Secondo questa prospettiva interpretativa, lo sterminio degli ebrei rientrerebbe in una piĂč ampia strategia di «politica negativa della popolazione» adottata dai pianificatori nazisti in applicazione di un modello concettuale di «economia demografica» in ragione del quale ogni problema sociale ed economico va commisurato al raggiungimento della «misura ottimale della popolazione» (Aly, Heim, 2002, p. 60). Agli occhi di questi tecnocrati, per giungere allâintegrazione economica dei territori dellâEuropa orientale nel grande Reich tedesco, Ăš necessario razionalizzare i metodi di produzione, standardizzare i prodotti, introdurre una divisione continentale del lavoro, modernizzare e semplificare le strutture sociali riequilibrando il rapporto tra le quote di popolazione produttiva e improduttiva, rafforzando la classe media a garanzia di condizioni sociali stabili, facendo fiorire mercati interni locali, monitorando il sovrappopolamento con programmi di controllo e di promozione delle nascite, reinsediamento e sterminio. Modernizzazione, riforma del sistema psichiatrico e sterminio sono interconnessi nei programmi segreti centralizzati sotto il ministero degli Interni avviati dopo la sospensione ufficiale dellâoperazione T4.
1. La visione baumaniana della cultura burocratica moderna come condizione necessaria ma non sufficiente della Shoah ha prestato il fianco alle aspre critiche dello storico Yehuda Bauer che giudica lâanalisi di Bauman «insoddisfacente e contraddittoria» poichĂ© manca di chiarezza nel definire il concetto di modernitĂ e fa un uso improprio della categoria di genocidio. La lettura baumaniana della Shoah ha il punto di forza di mostrare come le conseguenze morali della razionalizzazione e della burocratizzazione della societĂ moderna facilitino lâazione del criminale nazista, mentre Ăš debole rispetto al fatto che la violenza calda delle Einsatzgruppen Ăš solo in parte burocratizzata.
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Questa nuova fase di massacri istituzionali che coinvolse migliaia di tedeschi âimproduttiviâ era basata su unâattenta sistematizzazione, pianificazione e riforma del sistema psichiatrico di lungo periodo (Aly, Chroust, Pross, 1994). Dissentendo dalle posizioni ultra-funzionaliste di Aly (secondo cui non vi fu alcun piano complessivo, nĂ© alcuna decisione a livello centrale di uccidere gli ebrei, ma Ăš stato il fallimento dei piani demografici dei tecnocrati nazisti a determinare la soluzione finale), lo storico statunitense Christopher Browning il quale sostiene che, lungi dallâesservi ampio consenso tra gli esperti pianificatori sullâomicidio di massa degli ebrei come soluzione estrema al fallimento della politica demografica in Europa orientale, la via verso il genocidio fu aperta dal frazionamento tra âproduttivistiâ, coloro che volendo sfruttare la manodopera ebraica tentarono di tenerla in vita, e âlogoramentistiâ, coloro per i quali lâimpiego per lâeconomia di guerra era secondario. Browning sostiene che non fu tanto il progetto di unâintegrazione economica dei territori orientali occupati nel Reich, nĂ© il calcolo economico il primo motore per la soluzione finale quanto lâillogicitĂ economica, lo smantellamento dei ghetti polacchi, nonostante la crescente richiesta di lavoro ebraico e il rapido aumento della produttivitĂ (Browning, 1998, pp. 63-78). Alla critica di Browning va aggiunta quella di Bauer che reputa lâanalisi di Aly carente perchĂ© considera solo gli esecutori, non fa cenno alle potenze straniere, nĂ© alle Chiese, non analizza il nazismo e tratta i polacchi, gli ebrei e i rom come vittime passive, non convince sulla pressione decisiva esercitata dai funzionari tedeschi di livello intermedio sui governanti di Berlino (Bauer, 2009, pp. 118-25).
Allo storico americano Jeffrey Herf, che pone al centro della sua ricerca le origini culturali del Terzo Reich, la soluzione finale appare come il momento culminante del «modernismo reazionario», un concetto che esprime il paradosso culturale della modernitĂ tedesca: lâaccettazione da parte di alcuni pensatori tedeschi (Spengler, JĂŒnger, Sombart, Freyer, Schmitt, Heidegger) e del regime nazista della tecnologia moderna pur nel rifiuto della sua matrice, la ragione illuminista (Herf, 1998, p. 318). Questo potĂ© accadere grazie allâintegrazione della tecnologia nel simbolismo e nel âgergo dellâautenticitĂ â della cultura nazista dove sangue, razza, anima, volontĂ , comunitĂ divennero termini assoluti oltre la giustificazione razionale e per mezzo dellâestraniamento dalla sfera della civilizzazione, sede per i nazisti di ragione,
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internazionalismo, materialismo, finanza ed ebraismo. Facendo prevalere nel processo decisionale lâideologia antiutilitarista sulla razionalitĂ tecnica commisurante mezzi e fini, Hitler condusse il Terzo Reich alla catastrofe bellica. Secondo Herf, diversamente da Bauman, lo sterminio degli ebrei non ha rappresentato il destino del mondo moderno, nĂ©, in disaccordo con Horkheimer e Adorno, lâinvoluzione dialettica della ragione illuminista nel dominio; tuttâal piĂč Auschwitz rimane «un monumento allâinsufficienza e non allâeccesso di ragione nel Reich hitleriano» (ivi, p. 320). 3.3
Antisemitismo eliminazionista tedesco:
Daniele J. Goldhagen
Non câĂš stato libro tanto controverso e discusso nella storia della storiografia sulla Shoah quanto I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e lâOlocausto, pubblicato dal politologo statunitense Daniele J. Goldhagen nel marzo del 1996. Con lâuscita della versione tedesca in Germania divenne un bestseller, facendo infuocare sui quotidiani tedeschi unâappassionata discussione tra storici e non. Lâenorme ricezione di pubblico e di critica Ăš dovuta alla sua tesi centrale: lo sterminio degli ebrei dâEuropa Ăš stato un progetto nazionale accolto e sostenuto dallâintera societĂ tedesca dove un «antisemitismo eliminazionista» era il «senso comune» dellâepoca (Goldhagen, 1998). Goldhagen spiega perchĂ© lo sterminio avvenne rivolgendo lâattenzione non tanto al gruppo dirigente nazista nĂ© al processo decisionale quanto alle azioni dei «realizzatori» (ss, poliziotti, guardie dei campi) esempio di «tedeschi comuni». A Goldhagen gli agenti materiali dello sterminio appaiono «volonterosi carnefici» che parteciparono in piena coscienza, perfettamente in grado di intendere, giudicare e comprendere quel che stavano facendo, tuttâaltro che neutrali e passivi, sulla base di un modello cognitivo-culturale secondo cui lâebreo era diverso dal tedesco, lâopposto binario del tedesco, non un diverso innocuo, bensĂŹ maligno e pernicioso, pervasivo nella societĂ tedesca sin dal xix secolo. La volontarietĂ â espressa nel libro per mezzo della forma grammaticale attiva â lo zelo e il sadismo con cui questi uomini agirono escludono il ricorso a interpretazioni âconvenzionaliâ, come dire essi non uccisero perchĂ© costretti a farlo o per acritica obbedienza agli ordini, tantome-
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no per le pressioni sociali subite, nĂ© per favorire la propria promozione personale o perchĂ©, essendo parte della macchina burocratica dello sterminio, non erano nella posizione di cogliere nella globalitĂ gli effetti delle singole azioni intraprese, ma esclusivamente perchĂ© erano animati da un antisemitismo demonologico che relegava gli ebrei fuori dalla famiglia umana. Pur avendo il merito di aver rimesso al centro dellâattenzione lâantisemitismo e la questione dellâintenzionalitĂ del crimine sottovalutati dal funzionalismo, questa spiegazione monocausale, che sfida la pluralitĂ delle motivazioni usualmente riconosciuta alla base delle azioni umane, appare circolare e deterministica sul piano logico, razzista e demonizzante nei confronti dei «tedeschi» osservati con lâocchio giudicante dellâantropologo che etnicizza lâadesione della societĂ tedesca a un certo ordine di valori rispetto al quale lo sterminio degli ebrei appare ai tedeschi giusto. LâeccezionalitĂ attribuita allâantisemitismo eliminazionista lo sottrae alla comparazione, mitologizzandolo. Il manicheismo moralista e la âvia specialeâ imboccata dalla Germania verso lo sterminio si trasforma in unâapologia del civile Occidente contrapposto ai cattivi âtedeschiâ (Shandley, 1998; Bauer, 2009, pp. 126-48; Zamperini, 2001, pp. 6-7).
3.4
Processo di distruzione e triade vittime-carnefici-spettatori: Raul Hilberg
Il 1961 Ăš un anno significativo per la ricerca sulla Shoah. Mentre a Gerusalemme si tiene il processo Eichmann, a New York Ăš data alle stampe la prima edizione di La distruzione degli ebrei dâEuropa, opera canonica sul genocidio degli ebrei. Il suo autore Raul Hilberg, viennese dâorigine e statunitense dâadozione, considera la distruzione degli ebrei dâEuropa come un avvenimento senza precedenti nella storia per dimensioni e tipo di organizzazione, il punto di arrivo dellâevoluzione ciclica di secolari politiche antiebraiche e lâesito dellâapplicazione di una serie progressiva di misure amministrative (Hilberg, 1999, p. 6).
La distruzione degli ebrei dâEuropa richiese lâimpegno diretto e congiunto di quattro gerarchie distinte (burocrazia ministeriale, forze armate, apparato economico-finanziario, partito nazionalsocialista e ss, suo braccio armato) facenti capo al FĂŒhrer. Hilberg ritiene che le migliaia di funzionari coinvolti non avrebbero potuto prevedere sin
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dallâinizio lâesito a cui si sarebbe giunti al termine del 1941. Questo processo che non corrispose a un piano prestabilito si articolĂČ in fasi strettamente correlate e susseguenti: 1. definizione a mezzo decreto; 2. espropriazione e spoliazione economica; 3. trasferimento e concentrazione nelle grandi cittĂ , ghettizzazione e sfruttamento della forza lavoro; 4. annientamento fisico con i reparti mobili di massacro nei territori sovietici occupati, deportazione su scala continentale ed eliminazione sistematica nei centri di sterminio (ivi, p. 51).
Secondo Hilberg se si vuole «capire questa storia in tutta la sua ampiezza» Ăš necessario guardarla dalla prospettiva dei comuni funzionari tedeschi (Hilberg, 1996, p. 61) chiamati a svolgere compiti straordinari per realizzare unâenorme impresa di distruzione in esecuzione delle leggi emanate e degli ordini impartiti dallâalto grazie a «una disposizione dello spirito», a una «consonanza» e a un «sincronismo» dâintenti (Hilberg, 1999, p. 53). I burocrati tedeschi esercitarono le loro competenze specifiche in un contesto dâazione segnato dallâipertrofia legislativa, dalla moltiplicazione dei provvedimenti â le direttive scritte lasciarono via via posto ai provvedimenti verbali â e da una progressiva evanescenza della fonte ultima dâautoritĂ del FĂŒhrer. Questi uomini furono in grado di fronteggiare gli ostacoli amministrativi, economici e psicologici che ne gravarono lâazione perchĂ© percepirono questo sforzo come un evento esclusivo, unâesperienza vissuta provvedimento dopo provvedimento (ivi, pp. 1121-2). Con Carnefici, vittime e spettatori Hilberg allarga la prospettiva dâosservazione sulla Shoah. Dal piano politico-decisionale e organizzativo-amministrativo si sposta ai gruppi e agli individui secondo un diverso approccio metodologico. A prescindere dalla rilevanza politica i singoli sono inclusi nella narrazione storica. Il carnefice non si trova piĂč al centro della scena, ora occupata dalla triade carnefici-vittime-spettatori (Hilberg, 1996, pp. 190-1). Nella Distruzione degli ebrei dâEuropa, ispirandosi allâarchitettura musicale di Beethoven, lâartista-storico â cosĂŹ lui stesso si concepisce â, Hilberg ricostruisce il processo di distruzione nazista come una sinfonia i cui spartiti sono i documenti della burocrazia nazista (Hilberg, 1999, pp. 81-9). In Carnefici, vittime e spettatori, con una serie di brevi e incisivi ritratti, dĂ spazio alle testimonianze delle vittime dopo averle tenute nellâombra per decenni dalla sua narrazione storica: solo fonti secondarie secondo un approccio radicalmente oggettivista (Amodio, De Maio, Lissa, 1998, pp. 6-13; Hilberg, 2001; Finchelstein, 2005, pp. 3-48).
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Storia memoriale e integrata: Saul FriedlÀnder
Altra imprescindibile fonte di studio e riflessione sulla Shoah Ăš lâopera pluridecennale di Saul FriedlĂ€nder, praghese dâorigine, cittadino israeliano e statunitense, di particolare interesse perchĂ© profondamente ispirata dalla sua storia personale di ebreo cosmopolita e sradicato, scampato alla persecuzione nazista da bambino (FriedlĂ€nder, 1990). Punto di arrivo della sua ricerca sono i due volumi della Germania nazista e gli ebrei. Con il primo, Gli anni della persecuzione 1933-39 (1997), si sofferma sulla politica antiebraica nazista prima del conflitto mondiale, con il secondo, Gli anni dello sterminio 1939-45 (2007), si concentra sullâeliminazione degli ebrei. Con questo progetto, che lo ha impegnato dal 1990 al 2006, FriedlĂ€nder propone una storia integrata, inglobante, totale, pluridimensionale e polifonica, integrando due contrastanti paradigmi storiografici: quello tedesco e anglosassone, centrato sui carnefici e sul processo politico-decisionale nazista, e quello ebraico-israeliano al cui centro stanno le vittime viste in chiave eroico-apologetica (Goldberg, 2009, pp. 220-37). TotalitĂ di avvenimenti definita dalla convergenza di elementi distinti â politiche, provvedimenti e decisioni tedesche, reazioni del mondo circostante, opposizione delle vittime â, la Shoah Ăš narrata alla luce della sua pluridimensionalitĂ .
NellâEuropa occupata lâapplicazione delle decisioni naziste dipese dalla disponibilitĂ , dalla reticenza delle autoritĂ e dei funzionari locali, dalle azioni individuali o collettive delle vittime. Traccia delle interazioni tra ebrei, nazisti e popolazioni non ebree dei paesi occupati Ăš rimasta nelle testimonianze, nelle memorie, nei diari, nelle lettere delle vittime. Restituendo voce alle vittime FriedlĂ€nder intende dare risalto allâesperienza della persecuzione vissuta «in tempo reale» per mantenere viva la memoria e comunicare al lettore quel misto di straniamento, incredulitĂ , eccesso e ordinarietĂ , quel «senso primario di smarrimento» che di primo acchito la persecuzione suscitava nelle vittime (FriedlĂ€nder, 1993, pp. 102-16). Il senso di disorientamento, di disperazione, di impotenza e catastrofe imminente sentito dalle vittime precede per FriedlĂ€nder ogni sforzo di comprensione e spiegazione storica: prima viene la memoria, poi la storia. Le voci individuali delle vittime interrompono lâossessivo inveire del discorso dellâantisemitismo «redentivo» (FriedlĂ€nder, 2004, pp. 81-120; 2009, pp. 21-40) amplificato e propagandato nellâopinione pubblica europea per legittimare la soluzione finale.
la shoah 42
3.5
figura 3.1
Schema triangolare delle relazioni tra gli attori del genocidio
Partecipazione diretta
Saccheggio sanzionato/ non sanzionato governo
Aiuto indiretto genocidio
spettatore carnefice
Acquiescenza Coinvolgimento
Inibizione politica governo
Leadership e assassini
Fuga/ nascondersi Elementi del genocidio Soccorso/ resistenza
Lenta implementazione genocidio
Elusione/ Acquietamento
vittima
Veloce implementazione genocidio
Per FriedlĂ€nder, Hitler e la propaganda di Stato sono stati i fattori decisivi che alimentarono il fervore ideologico antiebraico basato sul credito incondizionato dato a Hitler, padre provvidenziale del popolo, garante della purezza razziale della comunitĂ , annientatore del bolscevismo e della plutocrazia ebraica. I tedeschi comuni parteciparono alla persecuzione perchĂ© interiorizzarono lâantisemitismo redentivo hitleriano. Nel piĂč ampio contesto europeo la generale mancanza di solidarietĂ verso gli ebrei fu il terreno fertile sul quale questo ardore ideologico potĂ© radicarsi, accomodando ostacoli e dinamiche strutturali della societĂ moderna con interessi di partito, di classe, dellâindustria e delle Chiese (FriedlĂ€nder, 2004, pp. 16-8).
3. narrazioni storiche della shoah 43
Fonte: tratto da Ehrenreich, Cole (2005).
c b c' c''
Vittime:
testimonianza, memoria e storia
Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager.
Primo Levi
4.1
Ebraismo orientale, donne e bambini nel Lager, musulmani, sopravvissuti
La soluzione finale del problema ebraico ha causato quasi sei milioni di vittime (Benz, 1998). Due terzi della comunitĂ ebraica continentale Ăš scomparsa tra la fine del 1941 e la primavera del 1945. Questi dati numerici danno unâidea chiara della dimensione quantitativa del genocidio. Nei quattro angoli dellâEuropa, famiglie e comunitĂ intere furono spazzate via dalla furia nazista. Il principale teatro del massacro fu lâEuropa orientale (Traverso, 2005, pp. 813-49). La Polonia, occupata e smembrata da russi e tedeschi, costituĂŹ il cuore dello sterminio sistematico: 2,7 milioni di ebrei polacchi vennero uccisi, i centri di sterminio di Auschwitz, Treblinka, SobibĂłr, CheĆmno, BeĆĆŸec e Majdanek sorsero sul suolo polacco. Il computo delle vittime, complessivo o relativo ai diversi paesi coinvolti Ăš indubbiamente necessario per cogliere la dimensione della Shoah (tab. 4.1). Tuttavia le cifre assolute o relative danno solo una comprensione parziale di quanto Ăš accaduto. Dietro le grandi masse di morti ci sono singole individualitĂ , vittime di diverse etĂ , genere, nazionalitĂ , istruzione, professione, pregresso politico e religioso, che differentemente resistettero alla privazione della libertĂ , alla perdita dei cari e dei compagni di prigionia â fucilati, gassati, affamati â, allo sfinimento fisico e psichico, alla minaccia diretta, continua e incombente della morte. Fortuna e virtĂč, il caso insieme alla prontezza ad approfittare di favorevoli quanto impreviste circostanze, permisero solo a una ristretta minoranza di detenuti di uscire miracolosamente vivi dallâinferno dei Lager, di evitare gli eccidi di massa o addirittura di riemergere
44
4
tabella 4.1
Numero degli ebrei uccisi nei vari paesi interessati dalla Shoah
Totale delle vittime*Percentuale sul totale dei residenti ebrei per paese
dalle fosse comuni, miracolosamente incolumi dopo le esecuzioni. I piĂč dovettero arrendersi. Nella distinzione tra vita e morte, i âsommersiâ, coloro che non ce la fecero, e i âsalvatiâ, i superstiti, condivisero unâesperienza e una conoscenza del male e della violenza del tutto fuori dal comune, al limite della narrazione. Chi ne ha avuto la forza lâha raccontata a voce o lâha fissata sulla carta per sgravarsi da tanta sofferenza silenziosamente patita, tenere viva la memoria col trascorrere del tempo, dar voce a chi non ha potuto raccontare e mettere a tacere chi vigliaccamente nega che la Shoah Ăš accaduta. A settantâanni dai fatti pochi, sempre di meno, sono i testimoni del disastro. Consultando i diari, le lettere,
4. vittime: testimonianza, memoria e storia 45
Austria
Belgio23.000 34% Bielorussia245.000 65% Danimarca 120 1,6% Francia77.00022% Germania 170.000 30% Grecia60.000 83% Italia 7.550 15% Iugoslavia 68.500 83% Lussemburgo 764 95% Norvegia 745 43% Olanda102.000 63% Paesi Baltici225.000 95% Polonia2.700.000 77% Slovacchia263.00073% Ucraina 1.200.00044% Ungheria606.000 70%
50.00026%
* Queste cifre tratte da diverse fonti sono approssimate in alcuni casi per eccesso, in altri per difetto.
le memorie, i biglietti gettati dai treni in corsa verso i Lager, i foglietti nascosti dove possibile e dissotterrati dopo tanto tempo, riacquistano tono le voci, spessore i vissuti, fisionomie i volti e ossigeno il pensiero di chi vuole comprendere il soverchiante orrore della distruzione.
La Shoah ha posto fine in Europa allâebraismo orientale, ha sradicato lâyiddishkeit, quello stile di vita proprio del giudaismo ortodosso ashkenazita di cui erano parte la lingua yiddish e il dimorare in piccoli villaggi â shtetl. Unâindelebile testimonianza della cancellazione dellâyiddishkeit hanno lasciato queste pagine del Canto del popolo yiddish messo a morte scritte dallâebreo bielorusso Itzhak Katzenelson:
CosĂŹ ci hanno distrutto, dalla Grecia fino alla Norvegia, fino davanti Mosca, fino a sette milioni, senza il conto dei bambini yiddish dentro i grembi [...]. Non esistono piĂč. Non chiedete laggiĂč voi dâoltremare, non chiedete piĂč notizie di Kasrilevke, di Yehupetz, rinunciate. Non andate a cercare i Menahem Mendel, i Tevye lattivendoli, gli Shloime il ricco, i Motke furfanti, non cercate [...]. La voce della TorĂ non sarĂ piĂč sentita uscire da una yeshivĂ , da una casa di studio, e giovanetti pallidi nobili di studio, approfonditi nella GhemarĂ , assorti nei pensieri [...]. Estinti ormai, rabbini, capi di yeshivĂ , yidn studiosi, grandi sapienti magri, asciutti e fragili, ripieni di Talmud, commentatori, piccoli yidn con le grandi teste, elevate fronti, occhi limpidi, non esistono piĂč nĂ© esisteranno. Nessuna madre cullerĂ un bambino, non morirĂ nĂ© nascerĂ nessuno tra gli yidn, non ci saranno canti commoventi di poeti yiddish, di valenti scrittori, Ăš tutto giĂ passato. Non ci saranno piĂč teatri yiddish, non si riderĂ piĂč in quei posti nĂ© scivolerĂ lenta una lacrima, e musicisti yiddish e pittori, i Bartchinski, non comporranno piĂč tra il dolore e la gioia, cercando nuove strade [...]. Guai a me, ora non câĂš nessuno. CâĂš stato un popolo, câĂš stato, e non esiste piĂč. CâĂš stato un popolo, câĂš stato, e adesso niente (Katzenelson, 2009, pp. 106-10).
Un destino, quello della distruzione della cultura yiddish e dellâebraismo orientale, che trovava nella scrittura e nella parola gli strumenti per resistere allâoblio completo a cui stava andando incontro. Sebbene larga parte degli scritti andĂČ perduta a seguito della liquidazione del ghetto di Varsavia, non bisogna dimenticare quanto lo storico Emanuel Ringelblum diceva degli abitanti del ghetto: «scrivevano tutti... i giornalisti e gli scrittori, ma anche gli insegnanti, le persone in vista, i giovani e persino i bambini. La maggioranza di costoro teneva diari nei quali i tragici avvenimenti di ogni giorno si riflettevano attraverso il prisma dellâesperienza personale» (Wieviorka, 1999, p. 19). Fino a pochi istanti prima della morte, molti, non solo a Varsavia, scrisse-
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ro lettere di addio, indirizzate a parenti e amici. Da Williampola, nel ghetto di Kaunas (Lituania), il 19 ottobre 1943, un uomo di nome Elchanan scriveva ai figli: «Abbiamo scoperto che il nostro destino sarĂ deciso nei prossimi giorni: il ghetto in cui ci troviamo sarĂ smantellato e abbattuto. Solo Dio sa se ci uccideranno tutti o se qualcuno sopravvivrà » (Bacharach, 2011, p. 67). Una donna, di nome Mushiya, provata dalla sofferenza e terrorizzata dalla paura di morire scriveva da Ternopil (Ucraina) il 7 aprile 1943: «prima di andarmene da questo mondo vorrei lasciarti alcune parole. Se mai riceverai questa lettera, io e tutti noi qui non saremo piĂč vivi. La nostra fine si avvicina. Lo sentiamo e lo sappiamo. Siamo tutti destinati a morire, come tutti gli ebrei innocenti che sono giĂ stati liquidati [...]. Ă una cosa terribile ma Ăš la pura verità » (ivi, p. 89). Dal ghetto di Ć iauliai (Lituania), Shmuel Mintzberg annotava con estrema e gelida concisione: «Noi confermiamo che il 7 luglio 1944 Ăš stato emesso lâordine di evacuare il ghetto di Shavli. Vogliamo rendere noti i nostri nomi per le generazioni future [...]. Non sappiamo dove ci stanno portando. Nel ghetto duemila ebrei aspettano lâordine di andare. Il destino Ăš sconosciuto. Il clima Ăš terrificante» (ivi, p. 100). Un progetto di sterminio totale come quello nazista non contemplava eccezioni: tutti andavano uccisi, dal lattante agli anziani, ogni presenza ebraica cancellata.
La differenza di genere tra le vittime ebree â debitamente considerata dagli studiosi solo a partire dagli anni Novanta â comportĂČ una diversa esperienza della persecuzione, una specificitĂ della deportazione femminile (Chiappano, 2009, p. 71). Complessivamente, tra le vittime, piĂč della metĂ furono donne. Fino a prima dellâinizio delle deportazioni sistematiche verso i Lager, nei ghetti esse godettero di un certo privilegio rispetto agli uomini, i quali furono decimati rapidamente a causa di malattie, malnutrizione e sfruttamento del lavoro forzato. Con lâinizio delle evacuazioni dei ghetti la situazione si capovolse: lo scarso impiego delle donne al lavoro si tradusse nella deportazione immediata verso i centri di sterminio o di concentramento dove la selezione andĂČ terribilmente a svantaggio di tutti coloro, donne comprese, che non erano considerati in grado di svolgere un lavoro dentro il Lager. Se ad Auschwitz solo un terzo dei sopravvissuti furono donne, nei campi di sterminio di CheĆmno, BeĆĆŸec, SobibĂłr e Treblinka, dove i sopravvissuti furono pochissimi, quasi nessuna donna rimase in vita (Hilberg, 1997, pp. 126-8). Il Lager femminile di RavensbrĂŒck e il settore bi di
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Auschwitz-Birkenau furono i luoghi principali della deportazione femminile. Una âferita di genereâ venne inflitta alle internate ebree (De Angelis, 2007, pp. 105-14). Nei Lager il corpo della donna era violato dalla completa rasatura iniziale, sottoposto a trattamenti sterilizzanti, lasciato nudo sotto gli occhi di ss compiaciute. Liliana Segre, deportata ad Auschwitz, della nuditĂ vergognosamente patita racconta come mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo Ăš senzâaltro una cosa umiliante e terribile [...]. Eppure mi pare che la donna nuda davanti allâuomo armato sia sottoposta ad un oltraggio ancora maggiore [...] di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare su una carta geografica, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non câĂš nulla, lĂŹ intorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo nascosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, giĂ umiliate, torturate per il solo fatto di essere lĂŹ, nude (Padoan, 2010).
Con lâinterruzione del ciclo mestruale e il deperimento delle forme plastiche causate dalla malnutrizione, le internate perdono la piĂč intima femminilitĂ legata alla capacitĂ generativa. Ă stato piĂč volte sottolineato come, rispetto alla prevalente ostilitĂ e indifferenza nei riguardi dellâaltrui sofferenza o ai celati legami intessuti tra i compagni detenuti, le donne, sfidando lâindividualismo imperante dettato dal costante stato di necessitĂ , instaurarono rapporti di reciproco sostegno. Giuliana Tedeschi, deportata ad Auschwitz con il marito e la suocera, ha raccontato:
Nelle ore di abbandono ritornavano i richiami del mondo lasciato e insieme il bisogno di stringersi alle compagne, di piangere e di sperare con loro. Le cuccette delle italiane del convoglio di aprile erano tutte vicine: ottanta giovani donne erano entrate nel Lager [...]. CosĂŹ sperimentai che cosâera la mano di Zilly, una piccola mano calda, modesta e paziente, che la sera tratteneva la mia, che mi aggiustava la coperta intorno alle spalle, mentre al mio orecchio una voce tranquilla e materna sussurrava: «Buona notte, cara; mia figlia ha la tua etĂ !» [...]. CosĂŹ trovai Olga un giorno e rimanemmo nascoste nellâangolo di un blocco. SentĂŹ dâimprovviso che avrei potuto parlare e che lei avrebbe potuto intendermi. Io parlai del senso dionisiaco della vita e lei parlĂČ dello spirito e del corpo. Le mie pupille si persero nel bianco dei suoi occhi, non vedemmo piĂč le baracche, dimenticammo i fili spinati, e la sconfinata libertĂ
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dello spirito ci inebriĂČ al di sopra di ogni limite imposto dallâumana bestialitĂ . Ci scegliemmo compagne (Tedeschi, 2004)1 .
E i bambini, soggetto a lungo marginalizzato nella storiografia sulla Shoah, come vissero la persecuzione, quali furono le reazioni alla progressiva privazione materiale e affettiva? Dei bambini ebrei che vivevano nellâEuropa dellâoccupazione nazista il 90%, circa un milione e mezzo, perĂŹ (Dwork, 2005, p. 12; Di Palma, 2014, p. 17). Se in larga misura dalla selezione per il lavoro allâingresso ad Auschwitz essi risultavano inabili perchĂ© ancora troppo piccoli, molti si mostrarono abili fingendo di avere piĂč anni di quanti in realtĂ ne avevano come fecero Elie Wiesel (Wiesel, 2010, p. 37) e Imre KertĂ©sz (KertĂ©sz, 2002). Una volta nel Lager si faceva in fretta a diventare adulti, non câera scelta, la concorrenza per sopravvivere era spietata. Liliana Segre, che al momento della deportazione ad Auschwitz aveva 13 anni, ricorda: «imparai in fretta che cosa voleva dire Lager. Voleva dire morte-fame-freddo-botte-punizioni; voleva dire schiavitĂč, voleva dire umiliazioni-torture-esperimenti» (aa.vv., 1996, p. 57). La dodicenne viennese Ruth KlĂŒger dimostrĂČ unâimmediata presa di coscienza della situazione in cui si trovava appena scesa sulla banchina degli orrori di Auschwitz: «avrei dovuto provare sollievo, e per qualche istante lo provai, avevo finito di crepare di caldo in quella scatola da sardine, respiravo aria fresca. Ma lâaria non era fresca, aveva un odore che non esiste altrove su questa terra. E io seppi dâistinto e subito che quello non era un luogo per piangere, per attirare lâattenzione su di sĂ©. Affaticata, stravolta, esausta, inghiottii lâorrore che mi saliva in gola come vomito» (KlĂŒger, 2005, p. 36).
GiĂ molto prima della deportazione verso i Lager i bambini esperirono netti cambiamenti in famiglia e a scuola. Per il piccolo Jona Oberski, nato ad Amsterdam nel 1938, la memoria dellâoffesa comincia nella sua cittĂ , con un torto fattogli da un bambino piĂč grande che gli strappa il cappuccio dalla testa dicendogli «Ah! Ah! che sporca mantellina ebrea» (Oberski, 2010, pp. 16-7). Lâesclusione dalla scuola, per via dellâemanazione nel 1938 delle leggi razziali fasciste, apparve ingiusta, unâipoteca negativa sul proprio futuro, a Pietro Terracina che
1. Richiamiamo lâattenzione su alcune delle piĂč importanti voci europee della testimonianza sulla deportazione femminile. Tra le detenute ebree L. Millu, Il fumo di Birkenau, Giuntina, Firenze 2008; E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990. Tra le politiche M. Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, il Mulino, Bologna 1994; C. Delbo, Un treno senza ritorno, Piemme, Milano 2002.
4. vittime: testimonianza, memoria e storia 49
allora aveva 8 anni: «mi stavano facendo un torto e io lo sentivo [...] pensavo che non avrei piĂč potuto frequentare la scuola, che mi stavano togliendo la possibilitĂ di riuscire nella vita» (Silvestri, 2007, p. 35), un momento di drammatica cesura â la fine dellâinfanzia â a Liliana Segre: «quando mio papĂ mi spiegĂČ che in quellâautunno non sarei piĂč potuta andare alla mia scuola (pubblica) perchĂ© ero una bambina ebrea e câerano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare la mia vita di prima. Quel momento, eravamo a tavola, Ăš il momento che divide la mia infanzia tra il prima e il dopo» (aa.vv., 1996, p. 50).
Ancora prima delle deportazioni, tanti genitori, presentendo il peggio per i propri piccoli, a rischio di non rivederli mai piĂč, nascosero i figli presso âfamiglie adottiveâ di conoscenti o sconosciuti (Dwork, 2005, pp. 91-138), o in istituti infantili per ebrei o di religiosi cristiani, dove i bambini diventarono invisibili, tenuti sotto falso nome.
Tra le testimonianze coeve alla Shoah impressionano il diario scritto dalla quindicenne Mary Berg dal 10 ottobre 1939 al 5 marzo 1944, per la luciditĂ con cui fa la cronaca della distruzione del ghetto di Varsavia (Berg, 2009) e i settantanove disegni miniaturizzati, delle dimensioni di una cartolina, eseguiti nel blocco 29 del Lager di Buchenwald dallâallora sedicenne berlinese Thomas Geve che illustrano, con cura e semplicitĂ , i vari aspetti della detenzione nei campi di Auschwitz, Gross-Rosen e Buchenwald (Geve, 2011). Questa penetrante capacitĂ espressiva Ăš sideralmente distante, quanto la vita del campo dal mondo fuori, dalla mancanza e dal bisogno della parola del «senza-nome», del piccolo «figlio di Auschwitz», Hurbinek, nato ad Auschwitz, a cui mai nessuno aveva insegnato a parlare, capace solo di articolare unâunica parola incomprensibile «mass-klo», «matisklo» (Levi, 1979, pp. 166-7).
Emblema della distruzione di ogni residuo di personalitĂ nei detenuti nel Lager Ăš il musulmano. Ridotto allo stremo, il musulmano Ăš ultimo fra gli ultimi nel Lager, ormai incapace di lavorare, prigioniero dellâabisso incolmabile del suo stomaco che lo isola dallâinfernale dinamica sociale del Lager, sbeffeggiato, picchiato e ignorato nella sua sofferenza dagli altri. Egli Ăš un «cadavere ambulante, un fascio di reazioni, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia» (AmĂ©ry, 2008, p. 39). Non piĂč padrone del suo corpo, nĂ© capace di difendere la sua immediata prossimitĂ fisica e di credere ancora nella sua salvazione, il musulmano sta in «un terzo regno tra la vita e la morte» (Sofsky, 1995, p. 294), vegeta nellâanticamera della morte, in quel «punto in
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cui, pur restando in apparenza uomo, lâuomo cessa di essere uomo» (Agamben, 1998, p. 50). Quasi tutti i musulmani morirono nel campo, alcuni scampando le selezioni che si facevano nelle baracche riuscirono a riacquistare il controllo delle loro vite e a sopravvivere. Feliksa Piekarska ha testimoniato della condizione estrema che ha patito: «Io sono personalmente stato per poco tempo un musulmano. Ricordo che dopo il trasporto nella baracca crollai completamente dal punto di vista psichico. Il crollo si manifestĂČ in questo modo: fui sopraffatto da una generale apatia, nulla mi interessava, non reagivo piĂč nĂ© agli stimoli esterni nĂ© a quelli interni, non mi lavavo piĂč, e non solo per mancanza di acqua, ma anche quando ne avevo lâoccasione; non sentivo piĂč nemmeno la fame...» (ivi, p. 155).
Dopo la fine del Terzo Reich vi erano, tra gli ebrei, piĂč di un milione di superstiti: coloro che non erano stati coinvolti nella fase finale del processo di distruzione perchĂ© i governi li risparmiarono o perchĂ© risiedevano in cittĂ ormai fuori dalla portata dei tedeschi, quei coraggiosi che avevano evitato il peggio nascondendosi, resistendo o camuffandosi in ogni modo e luogo utile, tutti quelli che erano rimasti prigionieri fino alla liberazione dei territori controllati dai nazisti. Tra questi ultimi, oltre agli ebrei dei campi di lavoro e dei ghetti non ancora completamente liquidati, vi erano i reduci dei Lager. Secondo Raul Hilberg «esiste una gerarchia inequivocabile tra gli ebrei che sopravvissero alla guerra nazista. In questa gerarchia i criteri decisivi sono lâesposizione ai pericoli e lâimmensitĂ della sofferenza. I membri delle comunitĂ che non furono colpite o le persone che continuarono a vivere nella propria casa non sono considerati affatto dei sopravvissuti. AllâestremitĂ della scala, quelli che venivano dalle foreste o dai campi sono i sopravvissuti per eccellenza» (Hilberg, 1997, p. 182). I superstiti dei Lager sono portatori esclusivi di una conoscenza originale sulla riduzione dellâessere umano a una straordinaria condizione di privazione.
4.2
UniversalitĂ della testimonianza:
Primo Levi, Eli Wiesel, Jean Améry
Oggi, nellâ«era del testimone» (Wieviorka, 1999) il valore universale della Shoah Ăš legato alla narrazione del male estremo fatta dal sopravvissuto. Raccontando lâesperienza personale e piĂč intima dellâoffesa ricevu-
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ta, lâex deportato riflette sul significato generale, universale di quanto gli Ăš accaduto. Con Se questo Ăš un uomo Primo Levi vuole «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dellâanimo umano» (Levi, 1979, p. 9), far luce sul grado di dignitĂ umana dellâinternato che ad Auschwitz Ăš arrivato a toccare il fondo. Come un antropologo che studia dal suo interno una realtĂ e una condizione umana oltre la comune esperienza, Levi spinge chi legge a partecipare a una sorta di esperimento mentale (Bucciantini, 2011), a compiere uno sforzo di immaginazione:
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarĂ un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignitĂ e discernimento poichĂ© accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrĂ a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinitĂ umana; nel caso piĂč fortunato in base ad un puro giudizio di utilitĂ . Si comprenderĂ allora il duplice significato del termine âCampo di annientamentoâ, e sarĂ chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo (Levi, 1979, p. 23).
Attraverso e al di lĂ di quella del detenuto 174517 â numero che Levi portava tatuato al braccio â Ăš la possibilitĂ di essere ancora umani nel progressivo trasmigrare nellâinumano a occupare lo spazio di una lucida narrazione. Ne La notte Elie Wiesel testimonia lâincrinatura della sua fede in Dio, lâaspro confronto nel suo animo con un Dio assente nei giorni dellâorrore ad Auschwitz. Credente e studioso della Torah, il giovane Elie, nel Lager, in occasione della preghiera per la celebrazione del Rosh Hashanah, ultimo giorno dellâanno ebraico, si rivolta contro Dio:
Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella tempesta. â Sia benedetto il Nome dellâEterno! Ma perchĂ©, ma perchĂ© benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche della morte? Come avrei potuto dirGli: «Benedetto Tu sia o Signore, Re dellâUniverso, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati al Tuo altare? (Wiesel, 2010, p. 69).
Lungi dal condurre alla morte della sua fede in Dio, lâesperienza di Auschwitz non placa la lotta di Wiesel con un Dio amico, per il quale si
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nutre piĂč pietĂ per la sua intangibile solitudine che rabbia per lâimperscrutabile scelta dellâinazione al momento del bisogno (Wiesel, 2009, p. 197). A fronte delle conseguenze incalcolabili avute da Auschwitz sullâumanitĂ , sulla sua storia, sulla percezione dellâuomo, sul significato di certe parole (per Wiesel notte Ăš sinonimo di morte), sulla capacitĂ di riconoscere i limiti e lâassenza di limiti riguardo alle persone (nellâessere buoni e cattivi) rispetto allâinsanabilitĂ della frattura fra creatura annientata e creatore silente, Wiesel si chiede: «Ma allora, che cosa ci resta? La speranza malgrado tutto, nostro malgrado? La disperazione forse? O la fede? Ci resta soltanto la domanda» (ivi, p. 19).
Tra le fila dei âcolti laiciâ al pari di Levi e diverso dai âcolti credentiâ come Wiesel, Ăš Jean AmĂ©ry che testimonia nel suo Intellettuale ad Auschwitz della sua esperienza nel Lager da intellettuale scettico-umanista, agnostico, privo di credi, religiosi o politici, qual era. Raccontando di sĂ© AmĂ©ry pone al centro della sua riflessione lâintellettuale stretto nellâurto tra spirito e orrore, fra utilitĂ e inopportunitĂ della vita dello spirito ad Auschwitz. Rammentando quanto gli Ăš accaduto, AmĂ©ry risponde a questo interrogativo: «la cultura e il sostrato intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio al prigioniero del campo? Lâhanno aiutato a resistere?» (AmĂ©ry, 2008, p. 34). La sua risposta Ăš negativa. Essere dotati di una ben sviluppata coscienza estetica e di unâattitudine al pensiero astratto si Ăš rivelato svantaggioso perchĂ© i lavoratori dellâingegno mancavano generalmente di agilitĂ fisica e di coraggio, della capacitĂ di reagire prontamente o di prevenire efficacemente i torti a cui erano regolarmente fatti beffe dai compagni di prigionia. Lâintellettuale avvezzo alla frequentazione del tedesco letterario resta isolato poichĂ© patisce lâincomunicabilitĂ del Lager. Il pensiero analitico-razionale nel campo «conduceva direttamente verso una tragica dialettica di autodistruzione»: mettere in dubbio, come era uso per lâintellettuale, la realtĂ di qualcosa, in questo caso quella del Lager, risultava controproducente a fronte della ferrea illogicitĂ della logica del campo, dove rispettare le regole era materialmente impossibile. I meno avvezzi alla riflessione si trovavano senza saperlo in vantaggio nella lotta per stare piĂč a lungo possibile in vita, cosĂŹ come i detenuti politici e religiosi rispetto allâintellettuale AmĂ©ry, agnostico e apolitico. Tuttavia quello spirito di cui ad Auschwitz ci si faceva poco, inservibile ai fini della sopravvivenza materiale, talvolta, al pari della fede per i credenti, aiutava lâintellettuale al superamento di sĂ©.
4. vittime: testimonianza, memoria e storia 53
Un inatteso sollievo prova Levi, altro intellettuale ad Auschwitz, la cui laicitĂ esce rafforzata dallâorrore del Lager, quando avverte la «voce di Dio» recitando al compagno di commando Pikolo alcuni versi danteschi superando il qui e ora che lâopprimeva: «per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono» (Levi, 1979, p. 102). Per Levi il Lager equivalse allâuniversitĂ poichĂ© ricorda, «ci ha insegnato a guardarci intorno e a misurare gli uomini» (Levi, 2009, p. 1102). Per AmĂ©ry câĂš stata invece solo degradazione: «Ad Auschwitz non siamo diventati piĂč saggi [...]. Neanche nel campo siamo diventati piĂč profondi [...] ad Auschwitz non siamo nemmeno divenuti migliori, piĂč umani, piĂč benevoli nei confronti dellâuomo e piĂč maturi moralmente» (AmĂ©ry, 2008, p. 52).
4.3
Dovere della memoria, crisi della testimonianza e âtestimoni integraliâ
Primaria rilevanza, tra le altre fonti documentarie di cui si serve lo storico della Shoah per ricostruire la veritĂ su quanto Ăš accaduto, va attribuita alla memoria dei superstiti. In unâepoca come quella che viviamo in cui, mentre Auschwitz sta al centro della memoria collettiva occidentale, si avvicina lâora dellâultimo testimone (Bidussa, 2009), per i sopravvissuti dei Lager raccontare lâesperienza della deportazione Ăš sempre piĂč un dovere morale e civico in quanto far conoscere alle nuove generazioni quel terribile passato puĂČ aiutare a evitare che qualcosa di simile possa ripetersi.
Una duplice impellenza continua a spingere lâex deportato a testimoniare: immediatamente dopo la liberazione dal Lager, quel bisogno violento ed elementare di âfare gli altri partecipiâ: questo tormento spinse Primo Levi a partorire, «a scopo di liberazione interiore», Se questo Ăš un uomo (Levi, 1979, p. 9)2; oggi, lâimpellenza della fine: «semplicemente, con parole povere; ma bisogna parlare [...] perchĂ© siamo alla fine» (SemprĂșn, Wiesel, 1996, p. 45)3 .
2. Ricordava Levi che durante la prigionia «la speranza di sopravvivere coincide insomma con la speranza ossessiva di far sapere agli altri, di sedere accanto al fuoco, attorno alla tavola, e raccontare» (Bravo, Jalla, 1986, p. 9).
3. Questa âimpellenza della fineâ Ăš affermata anche da Primo Levi: «Noi superstiti siamo dei testimoni, ed ogni testimone Ăš tenuto (anche per legge) a rispondere in
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Portare testimonianza di unâesperienza storica fondamentale del xx secolo Ăš occasione di promozione sociale per lâex deportato il quale ingaggia una lotta per la veritĂ contro tutti gli âassassini della memoriaâ (Vidal-Naquet, 2008) â i nazisti che cercarono a ogni costo di nascondere e distruggere ogni traccia dello sterminio e i revisionisti che «dedicano pagine e pagine di acrobazie polemiche per dimostrare che noi non abbiamo visto quello che abbiamo visto, non vissuto quello che abbiamo vissuto» (Bravo, Jalla, 1986, p. 7).
Il testimone, mentre offre allo storico elementi qualitativi di conoscenza fattuale inaccessibili attraverso altre fonti, scompagina le sue carte, lo costringe a rivedere il suo metodo di lavoro (Traverso, 2006, p. 14). Prima di accoglierla nel suo archivio lo storico si chiede: fino a che punto la testimonianza dellâex deportato Ăš affidabile?
Lâaccoglimento delle testimonianze orali e scritte nellâarchivio (deposito che cataloga le tracce del passato per consegnarle alla memoria futura) impone allo storico uno sforzo critico volto ad avvalorarne lâattendibilitĂ .
Quello testimoniale Ăš un materiale tanto prezioso quanto delicato, da accettare con riserva ed esaminare criticamente poichĂ© proviene da una fonte sospetta, la memoria del deportato. Si sa i ricordi con il tempo si deteriorano, si fanno piĂč sfocati e stilizzati. Tanto piĂč se riguardano esperienze estreme, di violenze e offese subite. Esperire qualcosa nel dolore puĂČ falsare la percezione di una scena vissuta, la sua registrazione mnemonica fino a intaccarne la restituzione nel racconto4. Il resoconto del superstite Ăš âdeboleâ perchĂ© manca di una visione dâinsieme del Lager â gli Ăš stato infatti impossibile distanziarsi dagli avvenimenti di cui Ăš stato vittima â e perchĂ© grava sul suo cuore un senso di vergogna per essere vivo al posto di un suo compagno. Lottando contro lâincredulitĂ e la voglia di dimenticare, incapace di spogliarsi dellâinumanitĂ che ha vissuto sulla propria pelle, di liberarsi dellâestraneitĂ che ha generato lâorrore, il sopravvissuto incarna la «crisi della testimonianza dopo Auschwitz» (Ricouer, 2003, p. 250).
modo completo e veridico: ma si tratta per noi anche di un dovere morale, perché le nostre file, esigue da sempre, si stanno assottigliando» (Levi, 2009, p. 1352).
4. Quanto ai ricordi di esperienze estreme, Primo Levi nota come «il ricordo di un trauma, patito o inflitto, Ú esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi Ú stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore» (ivi, p. 1007).
4. vittime: testimonianza, memoria e storia 55
Questa crisi si trasferisce nello spazio pubblico del confronto dove variano le reazioni rispetto ai limiti delle testimonianze dei sopravvissuti. Il negazionista, insofferente allâimprecisione testimoniale dice: «le camere a gas non sono mai esistite, non câĂš mai stato lo sterminio» e va alla ricerca della matrice comune di tutti gli errori al fine di costruire «un edificio fatto di frammenti di testi e di congetture che si spacciano per veritĂ assolute» (Pisanty, 1998, p. 170). Il filosofo postmoderno dice: «qui vi Ăš un dissidio, unâimpossibilitĂ nel linguaggio stesso di articolare stabilmente qualcosa, come lâesistenza delle camere a gas, che sta al di fuori dellâesperienza comune» (Lyotard, 1985) e avverte: «non potendo testimoniare integralmente in vece del sommerso, il superstite sta testimoniando lâintestimoniabile» (Agamben, 1998). Contro il sospetto programmatico del negazionista e lo scetticismo del filosofo ricorda lo storico: «non scartare una testimonianza solo perchĂ© Ăš problematica [...] se lo storico dovesse attendere la prova perfetta, probabilmente si scriverebbe molto poco di storia» (Browning, 2011c, p. xx) mentre riaffiorano le voci dei âtestimoni integraliâ, alcuni membri del âcommando specialeâ di Auschwitz, i quali parlando dallâepicentro dellâorrore, la camera a gas in cui hanno lavorato, strappano il velo gettato per coprire il piĂč terribile dei segreti nazisti (MĂŒller, 1999; Venezia, 2007; Saletti, 1999).
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Il male avanza pensosamente e sconsideratamente; pieno di significato e privo di senso; da solo e in compagnia; di proposito e in modo fortuito; misurato ed ebbro; con e senza compunzione. Incendia i confini nazionali, ma non sarĂ confinato dai caratteri nazionali. Si trova e viene insegnato. Ă monocausale e multicausale. Non sarĂ messo alle corde a lungo, in teoria o in pratica. Non sarĂ esaurito da alcuna delle sue espressioni. Ă di per sĂ© la prova di quellâaspetto della vita umana da cui si ha piĂč da temere che Ăš lâaspetto dellâuniversalismo.
Leon Wieseltier
5.1
Propedeutica allo studio dei carnefici
Chi uccise gli ebrei? PerchĂ© lo fece? Perpetratore (dallâinglese perpetrator) Ăš «chiunque ha partecipato a un attacco contro un civile con lo scopo di ucciderlo o di infliggerli gravi lesioni» (Strauss, 2004, p. 87), da solo o in forza a un gruppo.
Suddividiamo i carnefici in quattro categorie disomogenee: gli ideologi, come gli intellettuali ss in forza al sd e al rsha; i professionisti e gli esperti supposti apolitici che condivisero determinati obiettivi con il regime nazista; gli âuomini comuniâ capaci di uccidere âfaccia a facciaâ civili inermi; i burocrati e i funzionari di basso e medio livello tenuti a distanza dalle conseguenze fisiche e morali delle loro azioni dalla divisione del lavoro (Browning, 2011b, pp. 1-3).
Lâintrinseca complessitĂ caratteriale, la varietĂ delle dinamiche collettive e dei contesti dâazione rendono vano pensare che vi sia stato un unico motivo, bensĂŹ diversi che si sovrapposero. Disposizione personale o fattori situazionali, cosa contĂČ di piĂč? La sintesi âinterazionistaâ â terza via rispetto agli approcci situazionale e disposizionale (Blass,
57
5
Carnefici: uomini ordinari, male straordinario
1993) â propone di integrare fattori endogeni ed esogeni, analisi dei tratti biografici e dei contesti di socializzazione ed esposizione diretta alla violenza estrema. Erano i carnefici âpazziâ, esecutori privi di coscienza di quanto facevano o estremamente lucidi e convinti di fare la cosa giusta? La ricerca sui colpevoli che si sforza di spiegare i comportamenti dei carnefici dovrebbe rifuggire dalla trappola della demonizzazione dei perpetratori. CosĂŹ come si dovrebbe evitare di normalizzare i crimini e di esonerare i carnefici dalle loro responsabilitĂ . Qualsivoglia tentativo di comprendere gli attori diretti del genocidio riposa sulla ricostruzione storica degli avvenimenti. Quanto piĂč essa Ăš minuziosa tanto piĂč attentamente si discende nellâabisso di violenza che avviluppa il carnefice, nel «passaggio allâatto» (SĂ©melin, 2007).
La storia tuttavia non Ú sufficiente per comprendere. La psicologia della personalità che aiuta a capire il singolo e la psicologia sociale che studia i comportamenti delle persone nelle interazioni di gruppo, presupponendo che il male non sia un fenomeno eccezionale e demoniaco compiuto da persone per natura malvagie ma che trae origine da processi psicologici ordinari (Ravenna, 2004, p. 264), sono risorse preziose. Assassini difficilmente si nasce; con il tempo e una certa esperienza si diventa génocidaires (termine francese utilizzato presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda per qualificare i carnefici Hutu). La discesa nel crimine di massa non Ú qualcosa che avviene nottetempo, vi si arriva per radicalizzazioni progressive (Mann, 2005, p. 192) nel contesto in cui si agisce dove uccidere diventa la norma.
5.2
Uomini comuni: modelli esplicativi
La piĂč cospicua quota di tedeschi ordinari (di ogni estrazione sociale, tra i 16 e i 55 anni) implicati in crimini di guerra e di genocidio Ăš rappresentata dai 20 milioni di soldati che prestarono servizio nella Wehrmacht, dei quali 13 combatterono sul fronte orientale (Bartov, 2003, pp. xx)1. Il personale ss che gestiva i centri dellââoperazione Reinhardâ
1. Lâinteresse storiografico per gli âuomini comuniâ Ăš stato stimolato dalla pubblicazione di Uomini comuni. Polizia tedesca e âsoluzione finaleâ in Polonia (1992) e per i âtedeschi comuniâ da quella di I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e lâOlocausto (1996). Il dibattito fra i due autori sugli uomini del battaglione di polizia 101 Ăš culminato nel simposio dellâ8 aprile 1996 tenuto allâus Holocaust Memorial Museum.
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era composto di «persone assolutamente ordinarie» prive di qualitĂ o caratteristiche eccezionali (Arad, 1999, p. 198). Comune Ăš un attributo che non possiede un significato univoco per chi lo usa: per Christopher Browning i riservisti del battaglione 101 sono «uomini comuni» alla luce delle loro caratteristiche socio-politiche, per Daniel J. Goldhagen gli esecutori sono «tedeschi comuni» perchĂ© rappresentano una vasta maggioranza nazionale di «volonterosi esecutori di Hitler» (Goldhagen, 1996). Allâapparenza la composizione degli âuomini comuniâ del battaglione di polizia dâordine 101 di Amburgo non dava lâimpressione di uomini capaci di uccidere 38.000 ebrei e di caricarne sui treni per Treblinka altri 45.000 come poi in effetti avvenne. Si trattava infatti di poliziotti semplici che appartenevano alle classi inferiori, troppo vecchi per lâesercito, di formazione sociale avvenuta in epoca prenazista, dei quali solo un quarto era iscritto al partito nazista. Come Ăš stato possibile per questi uomini trasformarsi in assassini professionisti?
Quattro modelli teorico-sperimentali spiegano i crimini degli âuomini comuniâ: obbligo di obbedire agli ordini superiori; personalitĂ autoritaria; abnormitĂ culturale tedesca; approccio sociopsicologico.
La prima spiegazione, utilizzata dagli imputati ai processi di Norimberga, cosÏ riassunta «sono stato costretto a uccidere in ottemperanza agli ordini dei miei superiori» Ú invalidata dalle testimonianze dirette dei perpetratori che dimostrano come ci si poteva sottrarre agli ordini senza essere puniti (Klee, Dressen, Riess, 1990).
Nel 1950 Adorno e colleghi proposero la personalitĂ autoritaria, un modello teorico-sperimentale di sindrome di personalitĂ âdormienteâ che presentava i seguenti tratti: sottomissione allâautoritĂ , rigiditĂ di pensiero, tendenza alla superstizione, intolleranza allâambiguitĂ , moralitĂ convenzionale, rifiuto della debolezza e dellâanticonformismo, ostilitĂ verso lâestraneo e avversione allâintrospezione; tratti che emergevano a seguito della repressione di un risentimento nutrito verso genitori rigidi e punitivi e che si attivavano grazie a processi di selezione e auto-selezione dei soggetti entro contesti in cui certe attitudini sociopolitiche e credenze risultavano coerenti con i leader, le politiche e i partiti anti-egualitari. Una scarsa considerazione dei fattori sovra-individuali ed extra-individuali (Levi Martin, 2001) ha viziato la costruzione del modello che sottovaluta il dato empirico che molti âuomini comuniâ furono scelti casualmente ed educati alla violenza nellâappartenenza a un gruppo piuttosto che sulla base di caratteristiche persona-
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li (Browning, 2011b, p. 5). La conclusione di Bauman, «il nazismo fu crudele perchĂ© furono crudeli i nazisti, i nazisti furono crudeli perchĂ© le persone crudeli tendevano a diventare naziste» (Bauman, 2010a, p. 213) riassumendo quanto scoperto da Adorno e colleghi evidenzia come questo tipo di spiegazione abbia spiegato poco e confortato molto chi ha preferito tenere una distanza di sicurezza dal comportamento criminale dei nazisti senza considerare lâeventualitĂ di comportamenti autoritari fra individui privi di quella personalitĂ .
Il paradigma dellâabnormitĂ culturale tedesca Ăš stato declinato secondo la tesi della âvia specialeâ alla modernizzazione e alla democratizzazione seguita dalla Germania nel xix secolo e secondo quella dellâantisemitismo sterminazionista proposta da Goldhagen. Queste due prospettive esplicative hanno il difetto di fondarsi su un latente pregiudizio culturale riferito a un canone democratico e morale europeo-occidentale: la Germania e il nazismo sono corpi estranei, deviazioni dal giusto corso democratico-liberale. I collaborazionisti francesi, ucraini, lituani, ungheresi furono anchâessi guidati dallâideale sterminazionista tedesco? La tesi di Goldhagen Ăš «un ottimo tranquillante per le scosse coscienze democratiche del Novecento»
(Zamperini, 2001, p. 7). Lâapproccio sociopsicologico, che enfatizza i tratti universali del comportamento umano spostando lâattenzione dallâaberrazione individuale e culturale ai fattori situazionali, organizzativi, istituzionali operanti allâinterno di una dinamica di gruppo, si Ăš sviluppato a partire dagli esperimenti sulla conformitĂ di gruppo, lâobbedienza allâautoritĂ e lâadattamento al ruolo.
Lo psicologo Salomon Asch con lâesperimento sulla âconformitĂ â (Asch, 1956) studiĂČ lâinfluenza che puĂČ esercitare un gruppo di âsoggetti compliciâ che formulano un giudizio contrario rispetto a quanto Ăš esperibile con la vista, sul singolo âsoggetto criticoâ nel valutare a quale di tre linee disegnate su un cartone corrisponde unâaltra singola disegnata su un supporto distinto. Questa influenza incise sul 33% dei giudizi, in 25 dei 31 soggetti critici2. Tra le diverse motivazioni che Browning adduce per spiegare il comportamento dei riservisti del bat-
2. Vanno considerate le variabili situazionali del grado di influenza esercitata e di acquiescenza al gruppo come il rapporto numerico tra soggetto critico e complice (con 1:1 non vi Ăš conformitĂ , con 1:3 si raggiunge il massimo) e lâingresso di soggetti dissenzienti, che esprimendo giudizi concordanti col soggetto critico, infrangevano lâunanimitĂ di giudizio fra i complici.
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taglione 101 vi Ăš la conformitĂ verso il gruppo, nel suo gioco di reciproco rafforzamento con lâobbedienza allâautoritĂ .
Stanley Milgram compie a Yale nel 1961 un esperimento sullâobbedienza allâautoritĂ che piĂč di ogni altro influenzerĂ lâapproccio psicosociale alla Shoah (Milgram, 2003). Con questo esperimento, che coinvolse americani comuni di New Haven, suddivisi in âinsegnanteâ (soggetto ignaro) e âallievoâ (finta vittima), fatti accomodare in due stanze contigue, Milgram mirava a studiare le reazioni dellâinsegnante, sotto la guida e il controllo dello âsperimentatoreâ, un uomo in camice bianco da medico che impersonava lâautoritĂ scientifica. Lâinsegnante faceva le domande ed era incaricato di rilasciare a ogni errore una scossa elettrica (in realtĂ finta) di potenza progressiva (da 50 a 450 volt) sullâallievo a cui erano stati applicati degli elettrodi sul corpo. Nonostante le urla (fittizie, solo registrate) dellâallievo sofferente, due terzi degli insegnanti continuarono a punire lâallievo fino al massimo di scarica elettrica. Per Milgram, che attribuisce questâabnegazione non a sadismo o a perversione, ma allâincapacitĂ dellâinsegnante di uscire dallo âstato eteronomicoâ, condizione di subalternitĂ psicologica allâautoritĂ scientifica impersonata dallo sperimentatore3, questo Ăš il principale insegnamento da trarre: «gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e che non Ăš motivata da nessuna particolare aggressivitĂ puĂČ da un momento allâaltro rendersi complice di un processo di distruzione» (ivi, p. 7).
Per Browning «molte delle intuizioni di Milgram trovano conferma nel comportamento e nella testimonianza degli uomini del battaglione di polizia 101» (Browning, 2004, p. 179). Milgram vedeva allâopera un comune processo psicologico nel suo laboratorio e durante la Shoah, la caduta nello stato eteronomico, il fatto che gente normale smettesse di considerarsi un elemento responsabile nella catena degli avvenimenti che determinano la sofferenza di un individuo, altresĂŹ riconosceva anche le enormi differenze tra i due contesti (Milgram, 2003, p. 164): lâesperimento in laboratorio durava unâora, i massacri di ebrei si protrassero dal 1941 al 1945, differenza questa che implicava
3. Bisogna aggiungere che la capacitĂ di disobbedire allo sperimentatore, che incoraggia lâinsegnante ad andare avanti con lâesercizio nonostante il conflitto interiore, varia con il modificarsi della relazione spaziale tra sperimentatore, insegnante e allievo: quanto piĂč lâallievo Ăš posto in prossimitĂ dellâinsegnante tanto piĂč riesce a controbilanciare il potere dâordine dello sperimentatore.
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una piĂč profonda interiorizzazione dellâautoritĂ col passare del tempo. Diversamente dalla Shoah, lâesperimento in laboratorio fu privo di conseguenze per le vittime. La percezione del male che si stava infliggendo era diversa: chi Ăš coinvolto nello sterminio sa di uccidere o di dover uccidere ancora, allâinsegnante viene garantito dallo sperimentatore che non infliggerĂ danni fisici permanenti allâallievo. Chi assume il ruolo di insegnante non ha bisogno di disumanizzare gli allievi che non considera non degni di appartenere allâumanitĂ in quanto elementi nocivi da eliminare. Il travaglio interiore vissuto dai soggetti sperimentali, esperito anche da molti carnefici nazisti sul fronte orientale, contrasta fortemente con le ricorrenti esplosioni di sadismo durante la Shoah (Waller, 2002, p. 107).
Vi Ăš un irriducibile divario morale e psicologico fra i soggetti sperimentali di Milgram e coloro che presero parte alle uccisioni di massa di ebrei. Questo tuttavia non impedisce di riconoscere che «Milgram ci ha insegnato qualcosa di profondamente rivelatore sulla natura umana â su noi stessi â che non sapevamo prima: quanto potente Ăš la nostra propensione ad obbedire ai comandi di unâautoritĂ anche quando questi comandi possono confliggere con i nostri principi morali» (Newman, Erber, 2002, p. 104).
Nel 1971 Philip Zimbardo effettuĂČ un esperimento sullâadattamento al ruolo (Zimbardo, Haney, Banks, 1973) che coinvolse 24 studenti dellâuniversitĂ di Stanford (maschi, di ceto medio, tra i piĂč equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti) divisi tra detenuti e guardie rinchiusi in una prigione. Per via degli evidenti sintomi di disgregazione individuale e di gruppo tra i detenuti causati dal comportamento vessatorio delle guardie, questo esperimento fu interrotto dopo una settimana a fronte delle due previste. Per Zimbardo, «il valore dellâesperimento della prigione di Stanford risiede nel dimostrare che il male che brave persone possono essere facilmente indotte a fare ad altre brave persone in un contesto di ruoli, regole e norme socialmente approvate con unâideologia legittimante e un supporto istituzionale trascende lâazione individuale» (Blass, 2000, p. 194).
Una sorprendente corrispondenza quantitativa e qualitativa Ăš stata colta da Browning tra il comportamento delle guardie e quello dei riservisti del battaglione 101, specificatamente tra i sempre piĂč entusiasti assassini che si offrirono volontari nelle esecuzioni e nella caccia allâebreo e le guardie dure e crudeli che inventavano nuove molestie
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godendosi il potere dellâarbitrio (circa 1/3), tra i poliziotti che parteciparono alle fucilazioni e alle evacuazioni dei ghetti, senza cercare altre occasioni per uccidere, astenendosi talvolta dagli ordini di uccidere e le guardie dure ma corrette che si attenevano al regolamento (circa 50%), tra i riservisti che si rifiutarono di uccidere nascondendosi e le due guardie passive che raramente esercitarono un controllo coercitivo sui detenuti (tra il 10% e il 20%) (Browning, 2004, p. 175).
Per Goldhagen i riservisti concordavano senza eccezioni sulla giustezza dellâimpresa omicida. Il loro contatto con gli ebrei era mediato da una monumentale barriera cognitiva e psicologica che impediva loro di riconoscere lâumanitĂ delle loro vittime. Essi si distinsero in sadici macellai, assassini zelanti ma indecisi, carnefici convinti ma poco propensi allâautocelebrazione e omicidi consenzienti ma rosi dallâincertezza e dai conflitti interiori (Goldhagen, 1996). Per Goldhagen diventare carnefici per questi uomini fu un fatto spontaneo, conseguente allâodio viscerale provato per gli ebrei. Secondo Browning, ben consapevole che ogni tentativo di spiegare un fenomeno cosĂŹ complesso puĂČ indulgere a una certa arroganza, diventare assassini richiese di scavalcare barriere morali a prima vista invalicabili, superare risentimento, rabbia, demoralizzazione, senso di orrore e di vergogna abusando di alcolici, maturando un senso di distacco derivato da certi accorgimenti logistici conformandosi al gruppo in un diluvio di propaganda razzista e antisemita.
I crimini dei milioni di âtedeschi comuniâ della Wehrmacht vanno considerati rispetto al contesto bellico del fronte orientale. Una âguerra di sterminioâ altamente ideologizzata tra due visioni del mondo incompatibili, quella ariano-nazista e quella giudeo-bolscevica, combattuta allâultimo sangue per lâestirpazione del giudeo-bolscevismo e la conquista dello âspazio vitaleâ in spregio alle regole della legge marziale internazionale. Gli âordini criminaliâ emanati dallâAlto comando della Wehrmacht (okw) e dallâAlto comando dellâesercito tedesco (okh) furono «la causa piĂč diretta per le azioni criminali dellâesercito tedesco ad Est» in un contesto di progressiva «barbarizzazione» del conflitto (Bartov, 2003, p. 106). Gli âordini criminaliâ, una martellante propaganda che insisteva sullâequazione ebreo-partigiano (Heer, 1997) e una fede cieca nel FĂŒhrer convertirono un consenso antisemita giĂ esistente tra i soldati regolari e una potenziale mentalitĂ omicida in azione (Heer, Manoschek, Pollak, Wodak, 2008).
5. carnefici:
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Lâevoluzione della dinamica delle uccisioni di ebrei, dal supporto passivo allâemanazione di ordini per prendere lâiniziativa, allâaccettazione degli eccessi dei pogrom scatenati dai gruppi antisemiti locali fino alla routine quotidiana delle cacce allâebreo-partigiano durante lâoccupazione militare, fu legata a fattori situazionali quali la necessitĂ di rispondere ai massacri perpetrati dai sovietici prima dellâoccupazione tedesca, lâesigenza di vendicare le perdite subite sul campo di battaglia e di garantire la sicurezza dei luoghi in via di pacificazione sopprimendo ogni traccia di resistenza partigiana e le politiche di sistematico affamamento delle popolazioni locali adottate dallâamministrazione occupante.
5.3
Einsatzgruppen
e intellettuali ss
Una significativa spinta in direzione della transizione al genocidio sul fronte orientale venne data dalle quattro unitĂ di intervento mobili di massacro operanti in appoggio alla Wehrmacht agli ordini del rsha.
In Unione Sovietica lâimpiego delle unitĂ di intervento va collocato nel quadro normativo stabilito degli ordini criminali, nella fattispecie dallâordine emanato il 2 luglio 1941 da Heydrich. Nelle unitĂ mobili le posizioni di comando erano occupate da un particolare tipo di persona: «lo specialista, un uomo con una certa formazione teorica (spesso una laurea in legge) e unâesperienza pratica allâinterno dellâapparato di polizia, dedito allâideologia nazionalsocialista, un radicale che agisce di convinzione» (Longerich, 2010, p. 186). Il personale dirigente delle âunitĂ operativeâ era «rappresentativo di un gruppo di giovani attivisti che dominano i quadri dirigenti del rsha» (Wildt, 2009, p. 273). Altamente istruiti, ferventi militanti di destra allâuniversitĂ che aspirano a costruire un nuovo Reich, convinti della necessitĂ della preservazione razziale del popolo tedesco, questi âintellettuali ssâ che incarnavano una âgenerazione senza compromessiâ, furono artefici di un discorso ideologico inflessibile le cui conseguenze ultime sfociarono nellââazione a estâ.
I primi massacri di ebrei, tra la fine di giugno e lâinizio di luglio del 1941, paiono rispondere a una logica difensiva e preventiva, in risposta a supposti attacchi civili alle unitĂ tedesche in avanzamento e come
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rappresaglia per gli attacchi delle truppe sovietiche in ritirata. La scoperta dei cadaveri dei nazionalisti ucraini uccisi dai commissari sovietici scatena pogrom, tacitamente supportati dalle âunitĂ operativeâ e giustifica massicce operazioni di rappresaglia contro gli ebrei. Lâordine di Heydrich diede carta bianca alle varie unitĂ per assassinare gli ebrei e un certo margine di manovra ai comandanti delle unitĂ . Nelle prime settimane tre furono le ragioni che motivarono le fucilazioni di massa: rappresaglia, sciacallaggio, sostegno ai partigiani (Longerich, 2010, p. 204). Non tutti furono capaci di sparare, di sopportare il contatto diretto con le vittime, la vista dei corpi e del sangue, câera chi restava fortemente scosso da ciĂČ che faceva (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il primo confronto con la fucilazione generava una sofferenza psichica, un effetto deprimente sui tiratori. Da qui il ricorso a espressioni eufemistiche quali âfunzionari bolscevichiâ, âsimpatizzanti comunistiâ, âagentiâ. A contenimento di questa sofferenza intervennero i quadri delle unitĂ mobili adottando strategie di spartizione delle fucilazioni.
A Norimberga Otto Ohlendorf, comandante del Einsatzgruppen D, dichiara sotto giuramento: «Nel gruppo D non ho mai autorizzato fucilazioni compiute da singole persone, anzi ho ordinato che a sparare fossero parecchie persone insieme, onde evitare una personale, diretta responsabilitĂ . I capi delle unitĂ o persone designate dovevano scaricare lâultima pallottola sulle vittime ancora vive» (cit. in Gigliotti, Lang, 2005, p. 182). Queste procedure erano finalizzate a distanziare la vittima dal carnefice, a collettivizzare il gesto di violenza e a deresponsabilizzare questâultimo per ciĂČ che faceva. Con il tempo certi eufemismi lasceranno spazio a un piĂč ampio ventaglio di motivi dâaccusa per gli ebrei: incendio doloso, disseminazione di propaganda antitedesca, razzia, sabotaggio, rifiuto di lavorare, mercato nero, supporto ai partigiani, minaccia di epidemia. Si radicalizzano le interpretazioni degli ordini deliberatamente tenuti vaghi al momento della loro emanazione.
Ă lâinizio di un cambio di approccio delle unitĂ operative: dal terrore antisemita volto a spegnere ogni tentativo di resistenza tra la popolazione maschile ebrea si passa a una politica di distruzione etnica generalizzata. Il cambiamento della scala dei massacri modifica il modus operandi dei commando. Vengono alterate le procedure di esecuzione: dal modello da Corte marziale per schiere, mantenuto da Ohlendorf, si passa a una razionale divisione dei compiti nelle uccisioni per impilamento dei corpi nelle fosse comuni. I massacri sono estesi a intere co-
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario 65
munitĂ , donne e bambini (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il presupposto di questa svolta paradigmatica sta in un cambio di percezione del problema ebraico legato a una modificazione delle condizioni sul campo: le fughe in massa degli ebrei verso est, il declino dei pogrom, la necessitĂ di sfruttare la forza-lavoro abile ebraica, la carenza di derrate alimentari invalidano la politica securitaria (Longerich, 2010). Due ragioni principali favorirono la transizione al genocidio: lâarmoniosa cooperazione tra unitĂ operative e Wehrmacht durante le prime cinque settimane della campagna sovietica e la necessitĂ di intensificare le misure di terrore sulla popolazione civile, in special modo nei confronti degli ebrei sovietici âpilastri del sistema giudeo-bolscevicoâ (Kay, 2013).
Il consenso al massacro degli uomini delle unitĂ operative venne costruito sulla base dellâelaborazione, da parte dei quadri delle unitĂ , di un discorso di legittimazione della pratica genocidaria ottenuto dalla fusione di una linea argomentativa di ordine utopistico, che presentava il genocidio come la condizione sine qua non per la germanizzazione dei territori occupati, e una linea paranoico-difensiva che, presentando il genocidio come unâazione difensiva, mobilitava lâangoscia escatologica che opprimeva gli uomini al fronte facendo appello alla figura disumanizzata del nemico (Ingrao, 2012, p. 356). Questo consenso si incrinĂČ a causa dei traumi psichici ma non si infranse grazie allâattenuazione dei gesti della violenza, alla routinizzazione e allâassuefazione al crimine, allâappoggio di unitĂ ausiliarie autoctone e allâuso dei camion a gas.
In questo generale consenso permasero forti differenze tra i capi delle unitĂ operative: tra Erwin Schulz, «incapace di fare il salto da capo antibolscevico della Gestapo ad assassino razzista che uccide donne e bambini», Martin Sandberger, «studente modello dellâUfficio centrale», Erich Ehrlinger, «perpetratore ideologico perduto nellâabisso del proprio compito» (Wildt, 2009, pp. 305-6).
5.4 Medici
Macchiandosi di orribili crimini, circa 350 medici tedeschi, sotto il Terzo Reich, deliberatamente violarono il principio fondamentale del codice deontologico, noto come giuramento di Ippocrate, che
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comanda «per prima cosa, non nuocere» (primum non nocere). Gli esperimenti medici e il programma di distruzione delle âvite indegne di essere vissuteâ, assieme alla legge sulla sterilizzazione e alle leggi di Norimberga, hanno fatto parte di un complessivo programma di pulizia razziale medicalizzata ispirato dallâadozione nazista delle misure di medicina preventiva per la preservazione del âplasma germinale tedescoâ proposte dalla scienza dellââigiene razzialeâ ampiamente radicata nella cultura scientifica tedesca prima del 1933 (Proctor, 1988).
Il ruolo attivo avuto dagli scienziati e dai medici nei vari programmi di pulizia razziale traeva fondamento dallâaffinitĂ ideologica tra medicina e nazismo venuta a crearsi con lâimportazione della retorica eugenista della âdegenerazione della razzaâ e della âselezione del piĂč adattoâ nel nazionalsocialismo e con lâattrazione suscitata nei medici dallâimportanza attribuita alla razza nella visione del mondo nazista e dallo sforzo di biologizzare e medicalizzare i problemi sociali (Annas, Grondin, 1992, p. 27).
Nel corso dellâoperazione T4 medici e psichiatri lavorarono in speciali reparti dâospedale per bambini e adulti disabili, selezionarono le vittime e le uccisero con overdose di medicinali comuni. Nei centri di sterminio, dove invece le uccisioni dei disabili avvenivano mediante camera a gas, i medici supervisionarono la registrazione delle vittime, controllarono le cartelle mediche, somministrarono il gas, dichiararono lâavvenuto decesso, parteciparono alla spoliazione dei corpi, fecero autopsie tenendo lezioni a giovani studenti, estrassero organi che inviarono a istituti di ricerca. In generale vennero impiegati medici molto giovani che raramente si rifiutarono di fare questo lavoro. Tra questi, una figura in continua ascesa fu quella dellâaustriaco Irmfried Eberl, medico capo nei centri di Brandeburgo e Benburg, poi primo comandante del centro di Treblinka, la cui motivazione pare essere stata prima di tutto «ideologica, sebbene fosse anche unâimportante opportunitĂ di lavoro per il futuro» (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).
Ad Auschwitz, dove lâufficio dei medici ss era responsabile dellâassistenza sanitaria del personale ss, della prevenzione delle epidemie e del servizio medico per gli internati, i medici ss furono complici nel crimine mantenendo condizioni igieniche al di sotto della norma, scarse razioni di cibo e atroci condizioni di lavoro. Sebbene non tutti, molti inflissero inumane punizioni corporali e praticarono iniezioni mortali agli insubordinati e ai malati. Gli ufficiali medici â medici,
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dentisti, farmacisti â parteciparono alla selezione sulla rampa di Birkenau allâarrivo dei convogli di ebrei. Auschwitz fu anche il principale laboratorio di sperimentazione umana. Due medici, il dott. Carl Clauberg e il dott. Horst Schumann rivaleggiarono per sterilizzare quante piĂč donne ebree possibile, lâuno praticando iniezioni intrauterine, lâaltro attraverso radiazione ed esportazione dei genitali, metodi ugualmente mortali. Hermann Langbein, detenuto tedesco a Dachau e ad Auschwitz, segretario per due anni del capo medico di presidio, il maggiore ss Eduard Wirths, ha distinto tre tipi di medici ss: quelli che con riluttanza parteciparono alla macchina della distruzione, quelli che eseguirono gli ordini imperturbabilmente, quelli che di propria iniziativa andarono oltre gli ordini impartiti (Langbein, 1990, p. 334).
La piĂč impressionante personificazione del primo tipo Ăš il dott. Friedrich Entress il quale introdusse nellâinfermeria iniezioni letali di fenolo, che portarono a un centinaio di morti al giorno, e iniettĂČ sangue infetto da tifo su pazienti sani per vederne le reazioni. Lâaltro caso paradigmatico Ăš quello del dott. Josef Mengele, scienziato dotato, ossessionato dalle questioni della razza, stacanovista, arrogante e ambizioso, che si distinse per la durezza con cui combattĂ© il tifo, la fermezza con cui condusse le selezioni sulla ârampa degli ebreiâ, lâardore con cui andava in cerca di gemelli ai quali, nella convinzione di poter migliorare la razza, cambiĂČ la pigmentazione degli occhi iniettando colori diversi. Mengele, che aderĂŹ allâideologia razziale ed eugenica nazista «combinĂČ lâimpegno ideologico allâavanzamento accademico» (Nicosia, Huener, 2002, p. 73).
Al terzo tipo appartiene il dott. Wirths che, a differenza della maggioranza dei medici ss, si lamentava spesso perchĂ© non riusciva a conciliare quanto richiesto negli ordini e la sua coscienza di medico. In confidenza rivelĂČ i suoi scrupoli rispetto allâintera operazione di sterminio degli ebrei e talvolta si oppose alle selezioni di pazienti affermando che non si trovava lĂŹ per fare selezioni ma per curare i malati. Influenzato dal movimento di resistenza politica interna al campo, Wirths assegnĂČ a medici detenuti posizioni chiave. Il dott. Wirths incarna il conflitto âguarigione-uccisioneâ, la dicotomia tra lâuomo onesto, corretto e lâorganizzatore del sistema di morte (Lifton, 2003, pp. 384-408). Fu un âkiller situazionaleâ che trovandosi ad Auschwitz non rifiutĂČ di fare il suo lavoro, partecipĂČ alle uccisioni piĂč per spirito di lealtĂ alle ss che per ragioni ideologiche (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).
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à stato sostenuto che «la maggior parte di quelli che parteciparono lo fecero perché credevano che fosse la cosa giusta da fare» (Lafleur, Böhme, Shimazono, 2008, p. 65) e che «i medici agendo in queste situazioni non erano privi di valori. I loro valori erano chiari (supremazia nordica, misure estreme richieste dalla guerra totale, gli ebrei come parassiti ecc.) e agirono conformemente ad essi» (Annas, 1992, p. 26).
5.5
Diventare génocidaire: Adolf Eichmann, Rudolf Höss, Franz Stangl
Dopo la conferenza di Wannsee (gennaio 1942) Eichmann diventa funzionario competente per la soluzione finale. Dal suo ufficio in KurfĂŒstenstrasse 116 a Berlino, coadiuvato dagli uomini del suo staff, egli fa tutto quanto Ăš necessario per deportare gli ebrei dei vari paesi dâEuropa nei centri di sterminio della Polonia. Paradigmatica personificazione del killer da scrivania, del burocrate moderno sine ira ac studio, Eichmann Ăš per Hannah Arendt lâincarnazione perfetta della «banalitĂ del male», dellâincommensurabilitĂ fra un crimine senza precedenti e lâinsignificanza di chi lo commise. Una persona normale che con grande zelo e meticolositĂ spedĂŹ milioni di persone verso la morte, del tutto privo di motivazioni eccetto quella di curarsi attentamente della sua carriera, un incosciente che, privo di immaginazione, mai comprese quel che stava facendo (Arendt, 2009). Secondo questa formula banale non Ăš il male â la deportazione e lo sterminio degli ebrei â, che fu anzi radicale, ma lâuomo che lo commise: ordinario, comune come le sue motivazioni. Con questa destabilizzante intuizione Arendt sottrae al male profonditĂ demoniaca â non necessariamente chi fa il male prova odio, invidia, forti passioni â e getta luce su una strana interdipendenza espressa dallâindividuo moderno, fra incoscienza, «scissione consapevole di se stesso» (Donaggio, 2013) e male. Arendt ci ricorda che «i perpetratori di genocidio e di omicidi di massa non sono fondamentalmente diversi da me e da te» (Waller, 2002, p. 106).
Se nella sua capacitĂ di universalizzare il contrasto fra ordinarietĂ dei carnefici e straordinarietĂ del male il concetto di âbanalitĂ del
5. carnefici:
straordinario 69
uomini ordinari, male
maleâ appare difficilmente soppiantabile da un costrutto piĂč penetrante, esso appare inappropriato rispetto alle nuove evidenze storiche acquisite sulla figura di Eichmann. Ci fu poco di banale in Eichmann e nei suoi ausiliari: «Eichmann e i suoi colleghi sapevano molto bene cosa stavano facendo ed erano completamente consapevoli che le loro attivitĂ sarebbero state considerate criminali dappertutto eccetto che nel proprio contesto politico. Le loro ragioni per partecipare allâomicidio dovevano essere state varie, ma era molto evidente che lâideologia giocĂČ un ruolo centrale. Desideravano creare un nuovo ordine mondiale dove non vi fossero ebrei» (Aschheim, 2001, p. 222). In considerazione della sua biografia Eichmann «non era un folle, e nemmeno un mero esecutore di ordini. Venne addestrato al genocidio e decise di mettere in atto ciĂČ che aveva imparato» (Cesarani, 2006, p. 22). La chiave per comprendere Adolf Eichmann «non Ăš nellâuomo, ma nelle idee che lo possedevano, nella societĂ in cui tali idee circolavano liberamente, nel sistema politico che le diffondeva e nelle circostanze che le resero possibili. CiĂČ che Eichmann fece fu reso possibile dalla disumanizzazione degli ebrei, dallâinteriorizzazione del popolo ebraico come astratta minaccia biologico-razziale e nemico politico e dalla disattivazione di ogni inibizione nei confronti dellâomicidio. Chiunque fosse stato sottoposto a processi simili avrebbe potuto comportarsi allo stesso modo, in uno Stato totalitario o in una democrazia» (ivi, p. 250).
Nella sua autobiografia Rudolf Höss consegna ai posteri il suo ritratto di comandante di Auschwitz (Höss, 1997). Höss era un uomo mediamente capace che vestĂŹ per tre anni i panni dellâefficiente tecnocrate dello sterminio, facendo gassare piĂč di un milione di ebrei ad Auschwitz. Ecco un altro individuo ordinario capace di straordinari crimini. Come fu possibile? Höss non arrivĂČ a guidare Auschwitz per caso, ma dopo un lungo apprendistato di violenza prima nella Grande guerra dove sentĂŹ di essere diventato uomo (ivi, p. 18), poi nei âcorpi liberiâ nel Baltico dove si trovĂČ per la prima volta di fronte al raccapricciante spettacolo dei cadaveri carbonizzati o asfissiati di donne e bambini (ivi, p. 20) e nel Lager di Dachau dove imparĂČ che ogni traccia di pietĂ verso i «nemici dello Stato», indegna di un ss che deve obbedire ciecamente a ogni ordine, Ăš un segno di debolezza (ivi, p. 48).
Le scelte che Höss fece lungo la sua carriera risultarono dallâinterazione tra unâetica del controllo di sĂ© (Schroer, 2012) e della decenza
la shoah 70
(Welzer, 2004) e dallâadesione totale allâideale nazionalsocialista e al cieco rispetto del principio dâautoritĂ . Rispetto alla soluzione finale, lâatteggiamento di Höss rivela un profilo composito sul piano motivazionale: convinto antisemita quando afferma che «questo sterminio degli ebrei era veramente necessario affinchĂ© la Germania, affinchĂ© i nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro nemici piĂč accaniti» (Höss, 1997, p. 135), banale e obbediente assassino quando, ricordando di aver ricevuto lâordine di Himmler nellâestate del 1941 di allestire ad Auschwitz un campo di sterminio, scrive «non fui in grado minimamente di immaginarne la portata e gli effetti [...]. A quel tempo non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio dovere eseguirlo» (ivi, p. 127). Cercando di incarnare al meglio lâetica ss, sfoggiando unâortodossia disarmante, Höss si rende prigioniero della sua stessa radicalitĂ e delle sue scelte.
Questa la carriera genocidaria di Franz Stangl: dal novembre 1940 al febbraio del 1942 Ăš sovrintendente di polizia allâistituto di eutanasia del castello di Hartheim, dal marzo al settembre 1942 Ăš comandante di Sobibor, dal settembre 1942 allâagosto 1943 Ăš comandante di Treblinka. Stangl ammette quanto ha fatto, riconosce le sue colpe, tuttavia non se ne sente responsabile, vittima di un destino cieco e ineluttabile in cui Ăš stato strumento dei suoi superiori. Nel secondo giorno di intervista con la giornalista Gitta Sereny si sfoga, dicendo: «Li odio...Odio i tedeschi! [...] Sono loro che mi hanno spinto... Avrei dovuto suicidarmi nel 1938 [...]. Fu allora che cominciĂČ tutto, per me. Devo riconoscere la mia colpa» (Sereny, 2005, p. 52). Nei momenti cruciali â lâarrivo ad Hartheim, a Sobibor e a Treblinka â si coglie in Stangl una sequenza di shock, riluttanza, adattamento al male. Egli trova sempre nuove motivazioni, escogita stratagemmi per vincere il rifiuto di coscienza e fare un salto a un livello superiore di radicalizzazione e di accettazione dei crimini. Allâapice della carriera, a Treblinka, Stangl compartimentalizza la sua coscienza tra azioni di cui si sente responsabile, come lâamministrazione dei beni confiscati agli ebrei, e azioni di cui non si sente responsabile perchĂ© non ha avuto la possibilitĂ di sceglierle liberamente, le operazioni di sterminio, per esempio. Per estraniarsi da queste ultime disumanizza le vittime che vede come bestiame, considera lâarrivo dei convogli e le gasazioni come mera routine, sprofonda nel lavoro e nellâalcol tenendosi alla larga da tutte quelle aree in cui poteva esserci un contatto
5. carnefici:
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uomini ordinari, male straordinario
con le vittime. Stangl si dissocia dallâambiente circostante, cade in una sorta di autismo per preservare la sua integritĂ morale (Welzer, 2004). Stangl diventa un gĂ©nocidaire per via della fatale fusione del suo carattere e delle circostanze, perchĂ© manca di coraggio e forza morale per tirarsi fuori dal crimine e si identifica completamente con il tratto piĂč spiccato del suo carattere, lâambizione, che fa da ponte e spinta propulsiva verso il genocidio vincendo gli scrupoli morali (Kekes, 2005, pp. 47-64).
la shoah 72
Spettatori e soccorritori: dallâindifferenza al
soccorso
Abbiamo unâinfinita capacitĂ di far bene e unâinfinita capacitĂ di far male. Siamo tutti schizofrenici.
Jan Karski
6.1
Una realtĂ di sfondo decisiva e dinamica
Le violenze sugli ebrei avvennero sotto gli occhi di 700 milioni di persone cadute sotto lâoccupazione nazista che volenti o nolenti furono spettatori (dallâinglese bystanders) della sistematica distruzione degli ebrei. Sul piano individuale spettatori sono quelle «persone che assistono alle azioni dei perpetratori non subendone le conseguenze» (Staub, 1989, p. 86). Spettatori furono «coloro non âcoinvoltiâ non disposti a far male alle vittime, non desiderosi a essere danneggiati dai perpetratori» (Hilberg, 1997, p. 5). Nello specifico «le agenzie e i governi neutrali, gli ebrei che vivevano in condizioni di relativa sicurezza, i paesi occupati, i tedeschi ordinari, e soprattutto i governi alleati» (Neufeld, Berenbaum, 2003). Sul piano etico lo spettatore Ăš «un individuo che passivamente osserva una vittima in una situazione disperata senza intervenire anche se ha lâopportunitĂ di andare in suo aiuto» (Edgren, 2012, p. 68). Gli spettatori sono in grado di influenzare le azioni dei perpetratori e degli altri spettatori durante lâevolversi delle violenze attraverso azioni esplicite, petizioni o manifestazioni pubbliche, o nascoste, forme di aiuto e di resistenza non violenta o armata (Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218). Gli spettatori stimolano la risposta degli altri astanti verso lâempatia o lâindifferenza (Newman, Erber, 2002, p. 27) e rispondendo con oltraggio e condanna alle atrocitĂ possono rafforzare le norme morali contro il comportamento criminale (Staub, 1989, p. 87). Gli spettatori non si presentano come unâentitĂ a sĂ© stante, isolata e statica ma interrelata con vittime e carnefici nel quotidiano agire. Rispetto allâevolversi degli eventi essi reagiscono in modo dinamico, con comportamenti che oscillano fra gli estremi
73
6
della partecipazione diretta allo sterminio e del soccorso offerto alla vittima (Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218).
I confini fra spettatori, carnefici e vittime si confondono quando il soccorso e la complicitĂ si distinguono a fatica dallâinteresse privato e i valori di cura sono applicati selettivamente come nel generale caso del cittadino tedesco cattolico per cui il programma di eutanasia era immorale e la deportazione degli ebrei giusta. Durante la Shoah vi erano zone grigie, territori di indeterminatezza (Bajohr, 2006, p. 184) rispetto a cui la ricerca delle sfumature nello studio degli spettatori della Shoah Ăš preferibile alle distinzioni manicheistiche (Cesarani, Levine, 2002). Gli spettatori si distinsero in interni ed esterni1 (Cohen, 2002, pp. 199-228), tra soccorritori che aiutarono i loro vicini ebrei, profittatori che si attivarono per trarre benefici materiali dalla loro spoliazione e spettatori tout court che in numero incalcolabile restarono a guardare ciĂČ che accadeva (Hilberg, 1997, p. 205). A supporto diretto o indiretto del crimine nazista sono stati individuati dieci archetipi di spettatori della Shoah: lâopportunista, lo spettatore della strada, quello orientato ideologicamente, il carrierista, quello raziocinante istituzionalizzato, il professionista, il professionista illuminato, lo spettatore distaccato, il disprezzatore dellââaltroâ, quello emotivamente coinvolto (Bar-On, 2001, pp. 139-43).
Lâaltra faccia della passivitĂ di chi sta a guardare convinto o meno della giustezza del trattamento riservato agli ebrei Ăš il soccorso (dallâinglese rescue) alle vittime. PerchĂ© certe persone misero a rischio la propria vita, esposero le loro famiglie al pericolo della punizione delle autoritĂ per salvare la vita di gente braccata, talvolta persino sconosciuta?
I significati delle categorie di soccorso e soccorritore sono stati influenzati dal titolo onorifico di Giusto tra le nazioni conferito dal memoriale ufficiale israeliano per le vittime ebree della Shoah Yad Vashem ai soccorritori non ebrei, a oggi 25.271 persone, in netta maggioranza polacchi e olandesi, rispettivamente 6.454 e 5.351. La Legge per il ricordo degli eroi e dei martiri (1953) che istituĂŹ il memoriale e la Commissione per la designazione dei giusti fece menzione dei «magnanimi gentili che rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei» ma non diede unâesatta definizione di chi Ăš degno di ricevere il titolo. Procedendo con la valutazione dei
1. Spettatori interni erano i tedeschi comuni e tutti coloro che erano a conoscenza di atrocitĂ e sofferenze esperite nelle societĂ in cui vivevano. Spettatori esterni erano gli alleati, i media americani e britannici, il Vaticano, la Croce Rossa, le organizzazioni ebraiche mondiali, la leadership sionista in Palestina che ne erano a conoscenza seppure a distanza.
la shoah 74
singoli casi la Commissione in seguito stabilĂŹ criteri di riferimento come «estendere lâaiuto per salvare una vita, mettere in pericolo la propria vita, assenza di ricompensa monetaria, considerazioni simili che elevino le gesta del soccorritore al di sopra dellâaiuto ordinario» (Gutman, Zuroff, 1977, p. 628). Questi criteri tengono fuori coloro che salvarono gli ebrei per denaro (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 102) o chi agĂŹ per interesse politico, economico o sessuale. Tutti i âgiustiâ sono stati soccorritori, sebbene non tutti i soccorritori siano da considerare âgiustiâ. Per soccorso si puĂČ intendere «una serie di atti, nascosti o meno, che mirano a celare legalmente o fisicamente lâidentitĂ di una persona ricercata e/o a organizzare la fuga verso un luogo sicuro» (ivi, p. 5).
Quattro sono state le forme principali di aiuto. Dare rifugio, dissimulare (attribuire al fuggitivo unâidentitĂ fittizia attraverso un nuovo nome, unâaltra storia personale, un differente certificato di nascita, una diversa residenza o un certificato di battesimo, oppure registrandolo come lavoratore presso una fabbrica bellica o attribuendogli la cittadinanza di un paese amico della Germania), facilitare lo spostamento e la fuga da un luogo allâaltro, soccorrere i bambini separandoli dai genitori naturali (Paldiel, 2011, pp. 8-12). A queste se ne aggiungono altre minori dâassistenza e di protezione passiva (Paulsson, 1998, p. 43). I soccorritori non ebrei, chiamati âpersone di buona volontĂ â o âbuoni samaritaniâ erano dotati di una personalitĂ altruistica (Oliner, Oliner, 1988), erano autonomi dallâambiente sociale di residenza, indipendenti nella scelta, impegnati nella lotta per i bisognosi, avevano esperienza nel compiere atti caritatevoli e una tendenza a percepire lâaiuto agli ebrei in termini pratici, non si vedono come eroi nĂ© pensano di compiere atti straordinari, erano impulsivi e concepivano gli ebrei in termini universalistici (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 105). Oltre agli altruisti vi erano i soccorritori pagati, quelli antisemiti, cattolici devoti che aiutarono gli ebrei perchĂ© si sentivano responsabili della loro persecuzione e gli ebrei che salvarono altri correligionari in pericolo (ivi, pp. 106-12).
6.2
Spiegazioni del comportamento di spettatori e soccorritori
Ha contatto piĂč la personalitĂ o il contesto dâintervento nel comportamento di spettatori e soccorritori? Nello studio sui soccorritori vi Ăš una biforcazione metodologica tra un orientamento prevalentemen-
6. spettatori e soccorritori: dallâindifferenza al soccorso 75
te psicologico2 e uno storico di taglio socio-politico attento allâesame delle caratteristiche sociali e demografiche dei soccorritori, ai fattori situazionali e alle costrizioni esterne al soccorso. I due approcci esplicativi sono attraversati da un taglio sociopsicologico che fa interagire disposizioni personali e fattori situazionali.
Presupposto dellâapproccio disposizionale e motivazionale Ăš il sĂ©, una personalitĂ stabile nel tempo che presenta una caratteristica distintiva: lâaltruismo. Lâaltruismo di cui dĂ prova chi soccorre gli ebrei Ăš di una forma del tutto particolare perchĂ© Ăš «ad alto rischio per la vita di chi soccorre, offre un aiuto duraturo nel tempo, esteso verso un gruppo di pariah destinati alla morte in un contesto di disapprovazione o in un clima sociale ambivalente» (Oliner, Oliner, 1988, p. 10). Lo spettatore si trasforma in soccorritore attraverso un processo di consapevolezza. A partire da un intimo nocciolo di valori e principi morali emerge un sĂ© del soccorritore che tiene sotto controllo paure, pressioni e responsabilitĂ e permette di fare tutto ciĂČ che Ăš necessario per salvare altre vite (Fogelman, 1994). Lâapatia dello spettatore passivo Ăš invece legata ai fenomeni socio-psicologici della âdiffusione di responsabilitĂ â e dellââeffetto spettatoreâ (la probabilitĂ che una persona si prenda la responsabilitĂ di intervenire Ăš minore quanto piĂč alto Ăš il numero di spettatori presenti nella situazione dâemergenza) piĂč che alle deficienze empatiche della personalitĂ (Darley, LatanĂ©, 1968). Lo spettatore sensibile al bisogno dâaiuto si impegna nel soccorso solo quando gli si prospetta unâopportunitĂ , una richiesta diretta dâaiuto e disponibilitĂ di risorse (Fogelman, 1994; Oliner, Oliner, 1988). InclusivitĂ e attaccamento sono i valori chiave dellâaltruismo (Oliner, Oliner, 1988). Il soccorritore soffre di unâafasia argomentativa: alla domanda «perchĂ© lâhai fatto?» tipicamente risponde «era la cosa giusta da fare», «non avrei potuto vivere lasciando morire quelle persone» (de Benedittis, 2005). Vi sono stati soccorritori con motivi religiosi, umanitari, coinvolti nella resistenza, leali o pagati (Grunwald-Spier, 2010) e categorie
2. A sua volta distinto in approccio psicoeducativo, basato su psicologia, sociologia e scienze dellâeducazione, che si focalizza sulle strutture di personalitĂ , sulle influenze della prima infanzia e sulle motivazioni e studi sperimentali di tipo sociopsicologico volti a individuare variabili critiche facilitanti il comportamento dâaiuto (Darley, LatanĂ©, 1968) dellâorientamento psicologico. Per quanto concerne il mancato intervento dello spettatore passivo alcune teorie sociopsicologiche aiutano a spiegarne le ragioni della sua preminenza.
la shoah 76
motivazionali quali moralitĂ , giudeofilia, ideologia antinazista, professionalitĂ che ci aiutano a capire lâelemento innescante lâiniziale sforzo individuale dâaiuto (Fogelman, 1994).
Lâapproccio motivazionale tuttavia Ăš debole perchĂ© non mette in discussione il legame tra motivazione e azione, tautologico poichĂ© presuppone che «i soccorritori si comportarono altruisticamente perchĂ© erano altruisti»; inoltre puntare tutto sulla ricerca della motivazione porta a sottovalutare i dilemmi pratici come âchi dovrei aiutare?â e âa chi dovrei chiedere aiuto?â ingenerati nel soccorritore e nella vittima (Varese, Yaish, 2000).
Lâapproccio situazionale dâorientamento storico e socio-politico indaga le forme di governo presenti nei paesi dellâEuropa nazista e i differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista (Marrus, Paxton, 1982), i rapporti fra popolazione ebraica e non ebraica prima della persecuzione, la relazione fra antisemitismo e atteggiamento della popolazione locale verso gli ebrei durante lâoccupazione nazista (Gutman, Zuroff, 1977, pp. 617-25), il grado di controllo diretto esercitato a livello regionale, distrettuale e comunale dai tedeschi sugli apparati esecutivi, quello di successo nel coordinare le varie strutture sociali nei paesi occupati. Il soccorso Ăš stato influenzato dalle culture locali, dalle tradizioni di lunga durata dâaiuto a vicini e ai viaggiatori in difficoltĂ e di resistenza allâautoritĂ dello Stato (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 265-79). La richiesta diretta dâaiuto Ăš decisiva per innescare il comportamento altruistico cosĂŹ come il ruolo dei mediatori tra le persone in stato di bisogno e i soccorritori (Varese, Yaish, 2000).
Nellâesperimento 13a dello studio di Milgram sullâobbedienza allâautoritĂ i soggetti sperimentali, spettatori dellâinvio di scosse agli âallieviâ, si oppongono fisicamente o verbalmente al soggetto complice che veste i panni del âcollegaâ zelante (Milgram, 2003, p. 93). La coesione tra gli astanti stimola lâaiuto e inverte il tipico effetto inibitorio causato dallâampia dimensione di gruppo quando Ăš saliente una norma di responsabilitĂ sociale che prescrive lâassistenza in caso dâemergenza (Rutkowski, Cruder, Romer, 1983).
Diversamente da quanto si Ăš pensato per lungo tempo, lââeffetto spettatoreâ non Ăš rafforzato dallâallargamento del gruppo dâastanti ma Ăš prodotto dallâassenza di un rapporto psicologico fra gli astanti mentre lâampliamento del gruppo puĂČ inibire come incoraggiare lâintervento a seconda del modo in cui i membri del gruppo sono catego-
6. spettatori e soccorritori: dallâindifferenza al soccorso 77
rizzati socialmente (Levine, Crowther, 2008). Il ruolo dello spettatore passivo nel corso di atrocitĂ di massa puĂČ essere inquadrato nella prospettiva del âcambiamento della normaâ (Welzer, 2004) nella societĂ in cui avvengono le violenze. Teorie sociopsicologiche sul âcambiamento della normaâ e sul âmutamento dâatteggiamentoâ mostrano strategie di reazione psicologica alle atrocitĂ da parte degli spettatori. Nel processo dinamico che spinge una societĂ verso il genocidio gli spettatori sono persuasi a svalutare e a delegittimare le vittime sullo sfondo di una situazione di vita quotidiana difficile in ragione dellâappartenenza a un âmondo giustoâ (Godfrey, Loewe, 1975). La ârisocializzazioneâ dello spettatore puĂČ lenire i sentimenti di colpa che prova per le vittime generando conformitĂ e inazione e incoraggiando i perpetratori a commettere ulteriori atrocitĂ (Staub, 1999).
La dissonanza vicaria â tendenza a esperire una dissonanza cognitiva, vale a dire lâincoerenza tra una certa attitudine, valori e credenze tenuti da individui o gruppi e un comportamento incompatibile con essi, dopo aver assistito passivamente a un atto immorale commesso da membri del proprio gruppo di appartenenza (compagno di scuola, parente, collega di lavoro, connazionale) e la modificazione dellâattitudine al fine di ridurre il contrasto â descrive lo stato cognitivo dello spettatore inerte di atrocitĂ collettive (Norton, Monin, Cooper, Hogg, 2003).
La giustificazione morale, lâetichettamento eufemistico, la comparazione vantaggiosa e il trasferimento di responsabilitĂ verso unâautoritĂ legittimano chi ha ordinato la condotta dannosa generando disimpegno morale (Bandura, 1999)3. Al fine di proteggere la propria integritĂ personale in momenti in cui il controllo sociale Ăš troppo severo si preferisce âfarsi gli affari propriâ (Bar-On, 2001, p. 127). La spirale di silenzio, la tendenza a evitare di dire la propria opinione su qualcosa quando ci si sente minoritari e minacciati di ritorsione o di isolamento dalla maggioranza (Noelle-Neumann, 2002) e lâignoranza pluralistica, stato in cui il singolo privatamente pensa che gli atti criminali siano illegali mentre erroneamente suppone che per le altre persone siano accettabili, diffondendo la responsabilitĂ e perpetuando una nuova norma anti-sociale (Prentice, Miller, 1993) favoriscono lâinazione dello spettatore. La relazione tra distanza sociale ed eterofobia, la sostituzio-
3. Quando sono compiute crudeltĂ certi meccanismi psicologici auto-sanzionatori che di solito governano la condotta morale, facendoci astenere da atti immorali innescando preoccupazione anticipatoria e autocondanna, sono disattivati da tecniche che disimpegnano le persone dalle norme morali vigenti.
la shoah 78
ne della responsabilitĂ morale con lâavversione verso soggetti umani una volta vicini, distanziati fisicamente e spiritualmente, trasformati in âaltriâ hanno portato milioni di persone a osservare lâassassinio degli ebrei senza protestare (Bauman, 2010a, p. 250). 6.3 Ritratti di nazioni, comunitĂ , individui
Sotto il Terzo Reich lâopinione pubblica tedesca era divisa tra una ristretta minoranza di paranoici che odiavano spasmodicamente gli ebrei (âbattaglioni dâassaltoâ â sa, attivisti di partito), unâampia sezione della popolazione che approvava lâesclusione economica e lâostracismo sociale degli ebrei, respingendo la disumanitĂ di chi li odiava visceralmente e una minoranza che provava un profondo senso umanitario che si opponeva allâodio razziale (Kershaw, 1981, p. 286).
Le leggi di Norimberga furono accettate pienamente dalla gran parte della popolazione come possibile soluzione permanente alla segregazione biologica, accolte con insoddisfazione dagli attivisti nazisti, condannate dai religiosi, dalla sinistra marxista, dai liberali borghesi e dagli intellettuali, accolte senza reazioni dai piĂč che non presero posizione conservando unâattitudine passiva ed equanime nei confronti dellâideologia e della politica del regime (Bankier, 2000, p. 273).
La reazione alla Notte dei cristalli fu largamente negativa. Silenzioso disgusto intervallato da invettive borbottate di condanna, vergogna e orrore contro la barbarie furono le piĂč tipiche reazioni. Rifiuto, assistenza e solidarietĂ vennero da cattolici e protestanti. Lâampia risposta negativa al pogrom si tramutĂČ in largo consenso per un âantisemitismo razionaleâ.
Il decreto che impose la stella gialla agli ebrei (settembre 1941) fu accolto con favore dalla stragrande maggioranza della popolazione (Dov Kulka, JĂ€ckel, 2010, p. lxi). Isolati tributi di solidarietĂ vennero da borghesi e cattolici. La maggior parte della popolazione non si accorse, nĂ© commentĂČ lâimposizione di questa misura (Kershaw, 1981, p. 283).
Quanto alle deportazioni di ebrei tedeschi âverso estâ (ottobre 1941), lâauspicio generale Ăš che essi vengano allontanati dalla Germania (Dov Kulka, JĂ€ckel, 2010, p. lxi). Una minoranza calorosamente approva le deportazioni, la maggioranza Ăš decisamente piĂč riservata, mentre unâaltra minoranza le contesta (Bajohr, 2006). Nonostante
6. spettatori e soccorritori: dallâindifferenza al soccorso 79
lâampia diffusione di informazioni sulle fucilazioni di massa di ebrei âa estâ la maggior parte dei tedeschi non ci pensa: gli ebrei oramai «sono lontano dagli occhi e dal cuore» (Kershaw, 1981, p. 284). Sulle gasazioni âa estâ si sa poco, lo sterminio Ăš tenuto segreto dal regime: «lâomicidio di massa Ăš un punto di frattura nel piĂč vasto consenso della comunitĂ di popolo» (Bajohr, 2006, p. 197). Negli ultimi due anni di guerra, mentre le bombe cadono sulle cittĂ tedesche, fra la gente si insinua la convinzione che il modo in cui la questione ebraica Ăš stata risolta sia stato totalmente sbagliato. Il senso di colpa per molti si tramuta in disponibilitĂ al soccorso dei 15.000 ebrei che nascosti nel 1944 ancora vivono in Germania.
Il fatto che poco meno di 3 milioni di ebrei polacchi siano stati uccisi, che solo il 3% sia scampato alla morte e la maggior parte dei Giusti tra le nazioni siano polacchi ha reso impellente la questione delle relazioni ebraico-polacche. Lâantisemitismo, norma culturale in Polonia (condivisa persino dagli ebrei assimilati) spinse una minoranza di polacchi a intraprendere la strada della violenza e dellâomicidio, creĂČ unâatmosfera di terrore che inibĂŹ i tentativi di fuga degli ebrei dai ghetti (Paulsson, 1998, p. 36). Il fatto che lâaiuto agli ebrei era punito con lâimpiccagione o la fucilazione sul posto e che tra i paesi occupati la Polonia fu lâunico a formare unâorganizzazione clandestina dâassistenza agli ebrei, chiamata Zegota, resero peculiare il contesto polacco (Lukas, 1986). Tra lâessere accolto, lâessere consegnato ai nazisti e lâessere mandato via, la seconda reazione Ăš stata quella meno probabile quando un ebreo bussava alla porta del gentile in cerca dâaiuto (Paulsson, 1998, p. 40).
Lâattiva partecipazione alla persecuzione della popolazione lituana spiega perchĂ© il 95% degli ebrei lituani perirono (NikĆŸentaitis, Schreiner, StaliĆ«nas, 2004, p. 108). Coloro che collaborarono con i tedeschi erano tuttavia una minoranza, la gran parte della popolazione rimase a guardare. Sin dal primo giorno dellâoccupazione tedesca i locali nonebrei scatenarono pogrom nelle cittĂ e nelle campagne. Battaglioni di volontari civili furono formati e inviati nelle stazioni cittadine per arrestare gli ebrei. Mentre ampie sezioni della popolazione, vedendo i tedeschi come liberatori, salutarono con approvazione le operazione di pulizia etnica, tanti lituani condannarono le violenze e distolsero lo sguardo dagli omicidi schierandosi a difesa degli ebrei, come nel caso di molti cattolici o del comitato per il soccorso degli ebrei fondato dalla bibliotecaria dellâuniversitĂ di Vilnius, Ona Shimaite (Levin, 1990, p. 58).
la shoah 80
La Bulgaria fu lâunico paese satellite della Germania dove alla fine della guerra câerano piĂč ebrei del periodo prebellico. Poco piĂč di 50.000 ebrei bulgari scamparono la deportazione grazie allâopposizione dellâopinione pubblica culminata nella dimostrazione congiunta di ebrei e non-ebrei del 24 maggio 1943 davanti al palazzo reale a Sofia (HĂĄlfdanarson, 2003). Queste le peculiaritĂ della situazione bulgara: assenza di una tradizione antisemita, antisemitismo opportunistico della classe politica, mancata disumanizzazione degli ebrei, prevalenza di sentimenti di pietĂ (Nissim, 2002). Il salvataggio degli ebrei bulgari
Ăš stato un «fenomeno di mobilitazione collettiva piĂč che un atto individuale di soccorso» (Reicher et al., 2006, p. 68) in cui re, uomini di coscienza, popolo, leader politici e religiosi costruirono un rapporto di interdipendenza e di sostegno reciproco (Todorov, 2001, p. 40).
Il salvataggio di 72.00 ebrei danesi grazie al rapido trasferimento via mare in Svezia il 1° ottobre 1943 fu reso possibile da unâoperazione collettiva dâaiuto intrapresa dalla popolazione non ebrea. NellâEuropa nazista la Danimarca Ăš stata unâeccezione senza eguali: un protettorato modello che potĂ© conservare le istituzioni democratiche. Lâimposizione della legge marziale (29 agosto 1943) aprĂŹ una fase di crisi in cui avanza lâipotesi della deportazione tempestivamente contrastata dal soccorso di polizia e guardiacoste, giudici e autoritĂ penitenziarie, medici, pescatori, studenti e giornalisti. Il fattore decisivo del salvataggio Ăš stato «il carattere speciale e la statura morale dei danesi e il loro amore per la democrazia e la libertà » (Yahil, 1969, p. xviii). Il ridotto numero di ebrei, la vicinanza del rifugio svedese, la disponibilitĂ degli svedesi ad accogliere tutti gli ebrei e il fatto che il trasferimento avvenne in un momento di crescente opposizione al nazismo resero possibile lâoperazione di soccorso (Marrus, Paxton, 1982, p. 710). Lâepisodio dellâoperazione di soccorso in Danimarca resta un importante evento negli annali della Shoah (Gutman, Zuroff, 1977), un «simbolo di speranza e di luce nellâoscuritĂ dellâOlocausto» (Kirchhoff, 1995, p. 477).
Tra i paesi neutrali, la Svezia ha mostrato una «neutralità complicata» (Friedman, 2011) in quanto Ú stata paradossalmente il principale soccorritore di ebrei in Europa e il maggiore fornitore di materiale bellico del regime nazista. La Svizzera si Ú trovata nella scomoda posizione di favoreggiatore della persecuzione ebraica per via del sostegno economico-finanziario dato al nazismo e di una restrittiva politica
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dâasilo che ha impedito a migliaia di profughi ebrei di rifugiarvisi. Le banche svizzere incassarono oro e beni sottratti agli ebrei sterminati, garantirono ai nazisti valuta contante, le imprese svedesi fornirono ai nazisti ferro e cuscinetti a sfera prolungando lo sterminio. Dal 1942 i due paesi disposero di informazioni dettagliate sullo sterminio ma reagirono alla catastrofe ebraica in modo diametralmente opposto: la Svezia passa dallââindifferenza allâattivismoâ, in Svizzera il rifiuto di accogliere gli ebrei si fece sempre piĂč ostinato. Lâincrementarsi del flusso di informazioni attendibili giunte in Svezia dallâestate del 1942 e dalla âprerogativa nordicaâ favoriscono la svolta svedese (Friedman, 2011, p. 310; Edgren, 2012, p. 61). La politica svizzera fu ispirata da una neutralitĂ integrale, dallâadattamento alle prevalenti circostanze politiche, da una chiara avversione a ogni ideologia e da unâostilitĂ nei confronti dello straniero, specie se ebreo. La sua politica dâasilo, il cui tratto di tolleranza passiva permise tuttavia di mettere in salvo circa 27.000 ebrei (Hilberg, 1997, p. 249), fu il prodotto di unâassenza di riferimento alla giustizia che impedĂŹ di riconoscere come tali i crimini nazisti, una mancanza di chiari standard umanitari e una paura irrazionale dellâimmigrazione (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 231-44).
Il silenzio di Pio xii riassume la risposta alla Shoah del Vaticano. Il Papa non denunciĂČ pubblicamente la Shoah nĂ© condannĂČ il nazismo per i suoi crimini (Zuccotti, 2001, p. 1). Diversamente dal suo predecessore Pio xi che si schierĂČ contro leggi razziali e antisemitismo, Pio xii privilegiĂČ la diplomazia e il rispetto della legge canonica (Coppa, 2008, p. 556) mantenendo una posizione neutrale a difesa dellâindipendenza del Vaticano e della possibilitĂ della mediazione per la pace fra contendenti. Nessuna protesta ebbe luogo il 16 ottobre 1943 in occasione del rastrellamento di 1.259 ebrei romani. I suoi detrattori spiegano questo silenzio con lâindifferenza alle sofferenze degli ebrei (Cornwell, 2000), lâantisemitismo (Goldhagen, 2003), lâavversione al bolscevismo e la stima di tutto ciĂČ che era tedesco (FriedlĂ€nder, 1965).
I suoi difensori sottolineano il rifugio dato ad alcune centinaia di ebrei romani (Lapide, 1967), il sostegno economico offerto alla comunitĂ ebraica romana, le istruzioni date nel 1944 al nunzio apostolico in Ungheria Angelo Rotta che protestĂČ contro il governo ungherese, e spiegano il silenzio con la volontĂ di salvaguardare e facilitare il lavoro dietro le quinte della diplomazia vaticana a favore del salvataggio di migliaia di ebrei (Rhodes, 1973). La prudenza politica di Pio xii Ăš ispi-
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rata dal calcolo, dalla volontĂ di non esporre al pericolo di rappresaglia 40 milioni di cattolici tedeschi, gli abitanti di Roma e del Vaticano e di rendere fatali gli sforzi degli alleati. Rispetto al tipo di male incarnato dalla Shoah, la politica papale del male minore e del soccorso per via diplomatica appaiono inappropriate e moralmente discutibili.
La risposta degli alleati (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna) allo sterminio degli ebrei fu insufficiente perchĂ© la questione ebraica non rappresentĂČ mai una prioritĂ (Hilberg, 1997, p. 240). Per via della loro inerzia in Mentre sei milioni morivano Stati Uniti e Gran Bretagna sono stati definiti «spettatori» (Morse, 1968). LâincapacitĂ alleata di portare in salvo gli ebrei Ăš sfociata nellâautoaccusa: «i nazisti erano assassini, noi eravamo tutti complici passivi» (Wyman, 1984). CâĂš chi pensa che «nessuno degli ebrei morti durante lâOlocausto avrebbe potuto essere salvato da qualsiasi azione che gli alleati avrebbero potuto intraprendere tenuto conto di ciĂČ che si sapeva al riguardo, di ciĂČ che venne effettivamente proposto e che era realisticamente possibile» (Rubinstein, 1997, p. x). La frase sbrigativa «il mondo non fece niente» Ăš una «mezza veritĂ poichĂ© ignora che gli alleati fecero crollare il Terzo Reich» (Marrus, 2007, p. 2), ma va riconosciuto che «quel poco che si sarebbe potuto fare non Ăš stato fatto» (Bauer, 2013, p. 133).
Gli alleati sono stati accusati di non aver bombardato Auschwitz e le linee ferroviarie, di non aver negoziato coi nazisti il rilascio di ebrei, di non aver pubblicizzato efficacemente le informazioni sullo sterminio e di aver ritardato a creare il War Refugee Board (Commissione interdipartimentale fondata da Roosevelt nel gennaio 1944 che salvĂČ circa 200.000 ebrei) (Niewyk, Nicosia, 2000, p. 121).
A volte gli spettatori si trasformarono in carnefici come a Jedwabne, nella Polonia nord-orientale dove il 10 luglio 1941 i âviciniâ non ebrei massacrarono la quasi totalitĂ degli ebrei (tra i 400 e i 1.600).
I tedeschi stettero a guardare, fecero fotografie, mentre i locali non ebrei, istigati dai nazisti, brutalizzati dalla guerra e dalla repressione sovietica, motivati dal desiderio e dallâopportunitĂ inaspettata di derubare gli ebrei una volta per tutte, li raccolsero nella piazza del mercato, li umiliarono ordinandoli in una parata diretta al cimitero, li spinsero dentro un grosso fienile dove li bruciarono vivi. La maggioranza della popolazione restĂČ passiva davanti al crimine; furono uccise circa 90 persone, solo la famiglia Wyrzykowski nascose i soli sette ebrei sopravvissuti (Gross, 2003).
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Altre volte intere comunitĂ si trasformarono in terre di soccorso come a Le Chambon-sur-Lignon e Nieuwlande4. Esempi di riuscita azione politica morale (Gross, 1997), di «ordinarietĂ del bene» (Modigliani, Rochat, 1995) e di collettiva resistenza civile non violenta allâoccupazione nazista, le operazioni di soccorso furono possibili grazie allâampia componente protestante (ugonotta a Le Chambon, calvinista a Nieuwlande), alla presenza di leader carismatici (il pastore AndrĂ© TrocmĂ© e la moglie Magda a Le Chambon, lâattivista resistente Arnold Douwes a Nieuwlande) e al sostegno delle reti organizzate di soccorso radicate localmente. Il soccorso agli ebrei e la resistenza allâautoritĂ a Le Chambon venne sollecitata dal sermone del pastore TrocmĂ© il 23 giugno 1940, a Nieuwlande dalla predica del pastore Slomp nellâestate del 1942. Gli abitanti di Le Chambon, ugonotti dâorigine, condivisero con gli ebrei una secolare tradizione di persecuzione in Francia, erano ispirati dalla parabola evangelica del buon samaritano e da una forte opposizione antigovernativa. Quelli di Nieuwlande identificarono gli ebrei con Israele, popolo eletto nel Vecchio Testamento dimostrando un forte senso di dovere morale. Lâarresto dei leader, la minaccia delle perquisizioni e i conseguenti arresti indurirono la resistenza che divenne parte della quotidianitĂ a Le Chambon (ibid.), la professionalizzazione della rete di resistenza civile con lâattribuzione alle donne e agli ebrei soccorsi di un ruolo decisivo e di una certa responsabilitĂ e lâassistenza finanziaria del fondo nazionale garantirono a Nieuwlande il successo dellâimpresa (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).
Il singolo soccorritore Ăš ben identificabile, ne conosciamo il nome, il volto, i dettagli della sua impresa. LâidentitĂ dello spettatore passivo scompare dietro uno pseudonimo o resta senza nome, si dilunga poco nel racconto di sĂ© e della sua esperienza durante la guerra soffermandosi su quanto dura fosse allora la vita (Oliner, Oliner, 1988). CzesĆaw Borowi, un contadino polacco che lavorava le sue terre intorno al Lager
4. A Le Chambon, comune di poco meno di 3.000 abitanti situato sullâaltopiano
Vivarais-Lignon, in alta Loira tra il 1940 e il 1944 vengono salvate 5.000 persone di cui 3.500 ebrei dalla persecuzione nazista, principalmente bambini sottratti allâinternamento nei campi di Gurs e Rivesaltes. A Nieuwlande, villaggio di 800 abitanti collocato a sud di Drenthe nel nord dellâOlanda, 250 ebrei, intere famiglie strappate ai treni ad Amsterdam diretti ad Auschwitz e portate in salvo in bicicletta sono nascoste da quasi tutte le famiglie del paese (SĂ©melin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).
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di Treblinka disse «se io mi taglio un dito lui [unâaltra persona] non sente male» (Lanzmann, 2007, p. 24). Beatrix (pseudonimo attribuito a una spettatrice olandese) ricordava: «Non si poteva fare niente. Avremmo potuto nasconderli, ma câera un aiutante in casa e troppa gente intorno perchĂ© avevamo uno studio medico...» (Renwick Monroe, 2008, p. 718). Una spettatrice del ghetto di Varsavia ammetteva: «La mia colpa, che confina con la crudeltĂ , fu la mia indifferenza per il destino ebraico. Ero completamente indifferente agli esseri umani che stavano morendo nel ghetto. Loro erano âloroâ e non ânoiâ» (Barnett, 1999, p. 112).
Oskar Schindler Ăš un imprenditore tedesco che riesce nellâimpresa di mettere in salvo 1.100 ebrei con il pretesto di impiegarli in una fabbrica di oggetti smaltati a Cracovia. Interrogato sul perchĂ© lo fece rispose bizzarramente: «Se attraversando la strada vi fosse un cane in pericolo di essere investito da unâauto, non si dovrebbe provare ad aiutarlo?» (Wundheiler, 1986, p. 340). A Budapest il diplomatico svedese Raoul Wallenberg fra il luglio del 1944 e il gennaio del 1945 salvĂČ fino a 100.000 ebrei rilasciando passaporti svedesi protettivi (Bierman, 1981). Sempre a Budapest Giorgio Perlasca, commerciante di carni, si finse reggente della legazione spagnola fra il dicembre del 1944 e il gennaio del 1945 salvando piĂč di 5.000 ebrei. Alla domanda âperchĂ© lo fece?â Perlasca rispose: «PerchĂ© non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. PerchĂ© non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini» (Deaglio, 2003).
Jan Karski e Kurt Gerstein sono stati «messaggeri» che portarono al «mondo esterno» lâorribile notizia dello sterminio (Hilberg, 1997).
Queste parole pronunciate nel 1989 rivelavano con amarezza lâesito dellâencomiabile sforzo di Karski: «tutte quelle grandi personalitĂ , presidenti, ambasciatori, cardinali che dissero di essere sconvolti, mentivano. Sapevano o non volevano sapere. Questo mi scioccĂČ. Non volevo piĂč avervi a che fare. Dissi a me stesso: âKarski sei impotente. Chiudi con questa faccendaâ» (Paldiel, 2011). Gerstein fu un attivista protestante della Chiesa confessionale che nel marzo del 1941 entrĂČ nelle Waffen ss per conoscere dallâinterno i crimini nazisti. Nellâagosto del 1942 denunciĂČ lâuccisione di piĂč di 5.000 ebrei a BeĆĆŒec a cui assistette personalmente il segretario della legazione svedese a Berlino Göran Fredrik von Otter. Scrisse dozzine di lettere di denuncia a colleghi protestanti, amici e familiari mentre continuĂČ a rifornire di Zyk-
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lon B i Lager di Auschwitz e Oranienburg. Esempio dellâ«ambiguitĂ del bene» (FriedlĂ€nder, 2006), Gerstein tenta di bilanciare i doveri di ss con la personale resistenza al crimine di cui Ăš suo malgrado artefice (HebĂ©rt, 2006). Queste sono solo una goccia nel mare delle migliaia di storie di soccorso la cui conoscenza dovrebbe spingerci a chiederci: «Avrei potuto agire cosĂŹ in queste circostanze, avrei potuto tentare, avrei voluto fare cosĂŹ?» (Gilbert, 2007, p. 427).
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Lungi dal restare prigionieri del passato, dobbiamo metterlo al servizio del presente, cosĂŹ come la memoria â e lâoblio â dovrebbe essere utilizzato al servizio della giustizia.
Tzvetan Todorov
Ad essere onesti lâOlocausto ci ha colti impreparati. Inaudito, inatteso esso necessita di parole o materiali che mai sono stati concepiti per rappresentare ciĂČ che Ăš accaduto qui. Questo Ăš un problema che riguarda tutti, compreso coloro che ne hanno fatto diretta esperienza.
Raul Hilberg
Lâeducazione sullâOlocausto ha a che fare con la negazione del diritto umano fondamentale, il diritto alla vita, di un gruppo minacciato di annientamento.
Yehuda Bauer
7.1
Memoria, commemorazione e diritto di dimenticare
Nella cultura e nello spazio pubblico contemporanei la memoria della Shoah Ăš centrale. Auschwitz Ăš la «base della memoria collettiva del mondo occidentale» (Traverso, 2006, p. 13). Il suo ricordo, istituzionalizzato con la designazione della Giornata internazionale per la memoria delle vittime dellâOlocausto1 il 27 gennaio, ha dato luogo a una
1. La risoluzione 60/7 adottata dallâAssemblea generale delle Nazioni Unite afferma che «lâOlocausto, che ha provocato lâuccisione di un terzo del popolo ebraico, insieme a innumerevoli membri di altre minoranze, sarĂ per sempre un monito per tutte le persone sui pericoli dellâodio, del fanatismo, del razzismo e dei pregiudizi»,
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7
Presente e futuro della Shoah: ricordare, rappresentare, educare
religione civile, fatta di rituali di pubblica commemorazione e di spazi di âcultoâ, memoriali e musei. La letteratura sulla memoria della Shoah mette lâaccento sulla sua natura traumatica, sul difficile riemergere collettivamente, sullâantinomia fra storia, narrazione e scrittura del passato secondo le modalitĂ e le regole del mestiere e la memoria, matrice della rappresentazione storica che, singolare e imperfetta, rifugge comparazioni e generalizzazioni (Traverso, 2006, p. 18), sugli abusi e lâossessione commemorativa. Quando si sente parlare di memoria della Shoah, del âdovere della memoriaâ non ci si riferisce primariamente ai ricordi che i carnefici hanno della violenza inflitta, ma alla rievocazione dellâoffesa subita dalle vittime.
Per i sopravvissuti la memoria dellâoffesa Ăš qualcosa di intollerabile e doloroso. Si prova vergogna a ripensare al modo in cui si Ăš stati umiliati e degradati, si fa fatica a riaccogliere nella famiglia umana i propri aguzzini (Bensoussan, 2014, p. 3). Chi Ăš stato carnefice e prova un senso di colpa per ciĂČ che ha fatto preferisce ricacciare nel profondo il ricordo deformandolo e obliterandolo. Accomunati dal fatto che la memoria dellâesperienza estrema mal si accorda con il volto decente che le societĂ post-genocidarie impongono, vittime e carnefici si trovano agli antipodi rispetto al dovere civico della trasmissione della memoria dellâoffesa che preme in molte vittime, mentre Ăš assente nei carnefici che temono il castigo della legge (Krondorfer, 2008, p. 250).
Sul piano collettivo la rammemorazione della Shoah si Ăš dipanata secondo due regimi: alla repressione del ricordo avvenuta nellâimmediato dopoguerra Ăš seguita lâossessione commemorativa (Moyn, 1998). Seguendo questa traiettoria, dalla repressione allâossessione, la memoria collettiva della Shoah, declinandosi differentemente nei vari contesti nazionali sotto vari stimoli Ăš venuta fuori lentamente. Nella metĂ degli anni Quaranta ha prevalso una reazione di ripugnanza ai crimini nazisti e una prima rielaborazione attraverso i processi di Norimberga del 1945-46. Dai tardi anni Quaranta ai tardi anni Cinquanta si era indifferenti ai crimini nazisti avvolti da un silenzio quasi totale eccezion fatta per il diario di Anna Frank (1947), la cui trasposizione teatrale (1955) e cinematografica (1959) fu accolta da un grande successo internazionale. Negli anni Sessanta si Ăš assistito a un primo riemergere
gli Stati membri onu sono sollecitati a sviluppare programmi educativi, a rifiutare i negazionismi, a preservare i luoghi della persecuzione, a condannare tutte le manifestazioni di molestia, incitamento e intolleranza religiosa.
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della Shoah come soggetto autonomo nel processo della memoria collettiva e della comprensione della storia grazie al processo Eichmann (1961), al cambio generazionale e alla guerra arabo-israeliana dei Sei giorni (1967) che per la prima volta ha evidenziato la minaccia alla sicurezza degli ebrei in Israele. Negli anni Settanta e Ottanta si Ăš diffusa su larga scala la consapevolezza che la Shoah sia un elemento nodale delle storie e delle memorie nazionali. Il preponderante mito della resistenza allâoccupazione nazista Ăš infranto in Francia. Si riscopre il diffuso fenomeno del collaborazionismo sotto il regime di Vichy con lâuscita del film Le Chagrin et la pitiĂ© (1971). Nel 1984 gli esponenti della comunitĂ ebraica francese polemizzano lâapertura nei pressi di Auschwitz di un convento di carmelitane, nel 1980 esce Le Journal dâAnne Frank est-il authentique? (1980) del negazionista Faurisson e nel 1985 il documentario Shoah, nel 1987 si tiene il processo al âboia di Lioneâ Klaus Barbie (1987). Fra il 1978 e il 1979 si afferma negli Stati Uniti e in Germania il termine Olocausto grazie alla trasmissione del film Holocaust, in Germania tra il 1986 e il 1989 si consuma la âdisputa degli storiciâ (Historikerstreit) sul posto occupato da Auschwitz nella memoria tedesca e sul problema della singolaritĂ e comparabilitĂ della Shoah. Negli anni Novanta, a Guerra fredda conclusa, e nel primo decennio del 2000, la consapevolezza di massa sulla tragedia ebraica raggiunge il suo picco con la sua âamericanizzazioneâ legata al successo mondiale di Schindlerâs List e allâapertura dellâHolocaust Memorial Museum a Washington nel 1993 (Gordon, 2013, pp. 3-14).
Nellâera della âguerra al terroreâ la Shoah resta unâombra sullâOccidente ma Ăš anche vista come lâelemento unificante per una comune memoria europea (Diner, 2003), la sua memorializzazione Ăš posta alla base del processo di integrazione europea (Karner, Mertens, 2013, pp. 23-42). Quanto piĂč lo sterminio degli ebrei dâEuropa ripiega nel passato, ritirandosi come esperienza vissuta, tanto piĂč si afferma nel presente come luogo della memoria (Nora, 1989). Per questioni anagrafiche oggi il ricordo di Auschwitz non Ăš quello spontaneo di chi ne Ăš stato vittima, carnefice o spettatore, ma Ăš costruito e mediato da molteplici modalitĂ rappresentative. Questa memoria non Ăš piĂč, o non solo, Ăš legata ai luoghi della persecuzione. Essa Ăš cosmopolita, deterritorializzata e dislocata (negli Stati Uniti ci sono oltre 44 tra musei e memoriali, a Montevideo si trova il Memoriale dellâOlocausto del popolo ebraico, a Cape Town, Durban e Johannesburg Centri di ricerca
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sullâOlocausto, a Ottawa un Monumento nazionale dellâOlocausto), Ăš matrice della sensibilitĂ per il rispetto dei diritti umani e della politica di intervento umanitario (Levy, Szainder, 2006). Nellâera della globalizzazione delle conoscenze, dei conflitti e delle economie, la Shoah Ăš diventata «paradigma o modello col quale altri genocidi e traumi storici sono spesso percepiti e presentati [...] ha fornito una lingua per la loro articolazione» (Assmann, 2006, p. 14).
PerchĂ© ricordare ancora la Shoah a quasi settantâanni di distanza? Questa domanda ne presuppone unâaltra piĂč ampia: perchĂ© ricordiamo il passato? Ogni esistenza individuale Ăš collocata storicamente in rapporto a un passato che la precede e a un futuro che scalpita per emergere. AffinchĂ© questa esistenza possa strutturarsi ed elaborarsi necessita stabilire da dove proviene e verso dove Ăš diretta, facendo tesoro degli esempi della memoria collettiva e della storia. Oggi si sente il dovere di ricordare e di riflettere sulle lezioni della Shoah âsullâestrema degradazione e umiliazione a cui puĂČ dar luogo lâesclusione sociale e razziale legalizzata, sulla trasformazione di individui ordinari in straordinari criminali, sullâindifferenza degli spettatori e sul coraggio morale dei soccorritori â perchĂ© si Ăš convinti che esse possano evitarci di essere vittime, carnefici o spettatori a nostra volta. Nondimeno gli appelli al âdovere di ricordareâ, al âmai dimenticareâ, al âmai piĂčâ â imperativi su cui il ricordo della Shoah da sempre si presenta come obbligo â suonano beffardi e retorici rispetto allâincessante rincorrersi della violenza di massa sui civili. Questa retorica dovrebbe farci aprire gli occhi sul fatto che la memoria Ăš sempre del presente, che lâappropriazione del passato avviene sempre in una dimensione socio-politica tuttâaltro che neutra. Sia i contenuti sia le forme della memorializzazione sono determinati dallâinterazione tra lâesperienza storica rappresentata, gli agenti che ne plasmano la memoria â committenti, finanziatori, creatori o fruitori del veicolo culturale adottato â e i paradigmi rappresentativi (Kansteiner, 2002).
Nella definizione del ricordo di un trauma collettivo si alternano contesa e consenso come hanno mostrato i dibattiti sullâedificazione del Memoriale per gli ebrei assassinati dâEuropa (Robin, 2005), del centro di documentazione Topografia del terrore nel cuore di Berlino (Hass, 2004) e del Museo canadese per i diritti umani (Laban Hinton, La Pointe, Irvin-Erickson, 2014, pp. 21-51). La memoria della Shoah non puĂČ essere uniforme perchĂ© lâesperienza del trauma e della sua
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rimozione Ăš stata diversa fra vittime, carnefici e spettatori, fra paesi dellâEuropa occupata e neutrale, dellâest e dellâovest, dove si Ăš stratificata localmente ed Ăš riemersa a diverse velocitĂ (Assmann, 2006). In quanto matrice e posta in gioco delle identitĂ familiari, comunitarie, nazionali la memoria Ăš costantemente esposta alla negazione, alla banalizzazione e alla sacralizzazione (Todorov, 1996; Pisanty, 2012). Un dovere della memoria della Shoah a corto di connessioni con il presente degenera in vuota ripetizione, il ricordo incessante dellâorrore privo di analisi e di riflessione invece di essere scelta contro il male e la violenza rafforza lâidea che il male sia ineluttabile (Bensoussan, 2014, pp. 18-27).
In Italia, dove a lungo la memoria delle vittime della Shoah Ăš stata relegata nellâombra dalla rievocazione della resistenza al fascismo sta montando una certa stanchezza contro un Giorno della memoria (istituito dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000) sovrabbondante di âeventiâ, affannato da voci, parole e immagini, solo postumo omaggio e risarcimento alle vittime, raramente occasione per riflettere sul presente della memoria, sugli italiani che sotto il fascismo hanno favorito la persecuzione ebraica e sulla reticenza a ricordare per decenni. Questo malumore finisce per invocare un unpolitically correct diritto di dimenticare (Loewenthal, 2014) generalmente bandito da un dovere della memoria che respinge ciĂČ che dopotutto accade fisiologicamente per qualsiasi ricordo del passato, la rielaborazione selettiva che escludendo di necessitĂ manda qualcosa nel dimenticatoio. Non ci puĂČ essere memoria completa nĂ© perfetta, soprattutto di traumi individuali e collettivi come la Shoah.
7.2
Forme e limiti della rappresentazione
Non si puĂČ ricordare senza avere unâimmagine del passato, senza rappresentarselo. La rappresentazione come condizione della rammemorazione Ăš ri-presentazione (dal latino representare, composto di re- e presentare âpresentareâ), contestualizzazione, selezione di contenuto, attribuzione di senso, forma e significato. Ă rappresentabile la distruzione di milioni di ebrei? Che la Shoah sia rappresentabile lo prova il fatto che sia stata e continui a essere rappresentata. Fino a oggi piĂč di un milione di fotografie principalmente scattate dai carnefici sono state archiviate. Dal 1944 si contano almeno 100.000 resoconti di
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sopravvissuti. Le opere di Primo Levi, Elie Wiesel, Charlotte Delbo, Ruth KlĂŒger, Jean AmĂ©ry compongono il âcanone accademicoâ delle circa 6.000-10.000 memorie. Tra i diari scritti dalle vittime meritano una menzione speciale quelli di Anna Frank, di Viktor Klemperer e di Janusz Korczak. Tra i film la miniserie Holocaust (1978) di Marvin J. Chomsky, il documentario Shoah (1985) di Claude Lanzmann, Schindlerâs List (1993) di Steven Spielberg, la Vita Ăš bella (1997) di Roberto Benigni hanno lasciato un profondo segno nella consapevolezza collettiva e suscitato aspre reazioni. Significative sono poi la poesia Fuga di morte (1952) di Paul Celan, il fumetto Maus di Art Spiegelman (1989-92), tra i racconti storici di finzione Le benevole (2007) di Jonathan Littell. Fra gli artisti grande attenzione meritano lâopera di Anselm Kiefer, Christian Boltanski, le mostre Burnt Whole: Contemporary Artists Reflect on the Holocaust (1994), Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941-1944 (1995-1999), Mirroring Evil: Nazi Imagery/ Recent Art (2002). Fra i brani musicali ne ricordiamo uno, Il Carmelo di Echt (2008) di Franco Battiato (2008). Tra le centinaia di memoriali e musei i piĂč visitati sono il Museo nazionale di Auschwitz-Birkenau, Yad Vashem a Gerusalemme, Holocaust Memorial Museum a Washington, il Museo della storia degli ebrei polacchi a Varsavia, il Museo ebraico e il Memoriale per gli ebrei assassinati dâEuropa a Berlino, il Centro di documentazione ebraica e il Memoriale della Shoah (binario 21) a Milano.
Lâincessante rimodellamento estetico e semantico dello sterminio degli ebrei ha sollevato questioni sui limiti epistemologici ed etici della rappresentazione. PuĂČ lâesperienza della distruzione essere adeguatamente rappresentata, senza edulcorarne il carattere estremo? Si rischia di rappresentarla in modo inappropriato, irrispettosamente della sofferenza di vittime e parenti o inaccuratamente sul piano della ricostruzione storica? Le varie posizioni espresse rispetto a questi interrogativi possono essere contestualizzate nella distinzione allâinterno degli Holocaust Studies (âstudi sullâOlocaustoâ) tra un approccio realista e uno antirealista al genocidio (Rothberg, 2000)2. Sul pia-
2. Nellâantirealismo convergono la critica strutturalista al realismo letterario del semiologo francese Roland Barthes (Barthes, 1988), la critica modernista al realismo storico di Hayden White (White, 1999; 2006) e quella postmoderna alla strutture narrative del sapere occidentale di Jean-Francois Lyotard (Lyotard, 1981) e quella allâoggettivitĂ storica di Peter Novick (Novick, 1988).
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no epistemologico â dei fondamenti, della validitĂ e dei limiti della conoscenza scientifica â per il realismo la Shoah Ăš conoscibile, per lâantirealismo non lo Ăš o al limite puĂČ essere conosciuta servendosi di regimi di conoscenza nuovi rispetto agli schemi rappresentativi tradizionali. Lâapproccio realista insiste per analizzare la Shoah secondo procedure âscientificheâ condivise e inscrivere gli eventi allâinterno di schemi narrativi temporalmente lineari. Queste due prospettive si differenziano sostanzialmente rispetto al modo di intendere nella Shoah la relazione tra ordinario e straordinario, due tratti onnipresenti e compenetranti nellâesperienza e nella narrazione della Shoah. Quando rappresentano la Shoah i realisti si servono di termini come banalitĂ , ordinario, comune, modernitĂ (come sappiamo Arendt parla di banalitĂ del male, Browning di uomini ordinari, Goldhagen di tedeschi comuni, Bauman di modernitĂ ) e tendono a situarli in un continuum di ordinario e straordinario, facendoli collassare lâuno sullâaltro. Gli antirealisti adottano vocaboli come barbarie, oscenitĂ , blasfemia, tremendum, dissenso3 e mantengono una cesura insanabile tra ordinarietĂ e straordinarietĂ : la Shoah Ăš un evento inaccessibile, al di lĂ del discorso e della conoscenza. Appartiene la Shoah a una classe speciale di eventi che ne limita la rappresentazione? La soluzione finale Ăš un «evento ai limiti» che mette alla prova le categorie rappresentative e concettuali tradizionali, «la piĂč radicale forma di genocidio della storia» rispetto a cui vi sono «limiti di rappresentazione che non dovrebbero essere ma sono facilmente trasgrediti» (FriedlĂ€nder, 1996, p. 3). Il genocidio degli ebrei Ăš un evento modernista paradigmatico della storia europea occidentale, che resiste alle convenzioni e alle categorie ereditate di assegnazione del significato agli eventi poichĂ© intacca «lo status dei fatti in relazione agli eventi e quello dellâevento in generale» (White, 1999, p. 70). Unâinsufficienza linguistica impe-
3. Theodor W. Adorno: «scrivere una poesia dopo Auschwitz Ăš un atto di barbarie» (Adorno, 2001). CosĂŹ Claude Lanzmann: «perchĂ© gli ebrei sono stati uccisi? Questa domanda rivela subito la sua oscenitĂ . CâĂš unâassoluta oscenitĂ in ogni progetto di comprensione» (cit. in Caruth, 1995, p. 204). Per Elie Wiesel «un romanzo su Treblinka non Ăš un romanzo nĂ© riguarda Treblinka» (Lefkovitz, 1977, p. 7). Arthur Cohen parla di «tremendum che rende incommensurabile la riflessione sui campi di sterminio» (Cohen, 1981, p. 1). Jean-François Lyotard definisce il «dissidio» rispetto ad Auschwitz come «lo stato instabile, lâistante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter essere messo in frasi non puĂČ ancora esserlo» (Lyotard, 1985, p. 19).
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disce di significare lâesperienza concentrazionaria con efficacia. Primo Levi scriveva: «come questa nostra fame non Ăš la sensazione di chi ha saltato un pasto, cosĂŹ il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo âfameâ, diciamo âstanchezzaâ, âpauraâ e âdoloreâ, diciamo âinvernoâ, e sono altre cose. Sono parole libere usate da uomini liberi che vivevano godendo e soffrendo, nelle loro case» (Levi, 1979, p. 110). Wiesel, per suo conto, ha scritto: «Che tipo di parole? [...] Il linguaggio Ăš stato corrotto sino al punto che deve essere inventato da zero e purificato. Stavolta scriviamo non con le parole ma contro le parole. Spesso diciamo meno cosĂŹ da rendere la veritĂ piĂč credibile» (Wiesel, 1977, p. 8). La natura âai limitiâ dellâevento impedisce di trivializzarlo, ovvero di renderlo banale. Sempre Wiesel nota: «lâOlocausto non Ăš un soggetto come tutti gli altri. Esso impone certi limiti. Ci sono tecniche che non si possono utilizzare, anche se sono commercialmente efficaci. Per non tradire i morti e umiliare i vivi questo particolare argomento richiede una sensibilitĂ speciale, un approccio diverso Ăš il rigore rafforzato dal rispetto e dalla riverenza, e soprattutto dalla fedeltĂ alla memoria» (Wiesel, 1989).
La Shoah impedisce di trasgredire i limiti che essa stessa istituisce. Secondo Lanzmann «lâOlocausto Ăš unico in quanto si costruisce intorno ad esso un cerchio di fuoco, un limite non oltrepassabile per via di un certo orrore assoluto intrasmissibile: pretendere di farlo Ăš rendersi colpevoli della piĂč grave trasgressione» (Lanzmann, 1994).
Nellâarticolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory comparso sul âNew York Timesâ lâ11 luglio 1989 Wiesel reputa volgari e Kitsch alcuni film come Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, Pasqualino Settebellezze (1976) di Lina Wertmuller, la miniserie Olocausto (1978) di Marvin J. Chomsky, La scelta di Sophie (1982) di Alan J. Pakula, la miniserie Ricordi di guerra (1988-89) di Dan Curtis, Gli assassini sono tra noi (1946) e lo spettacolo teatrale Ghetto (1984) di Joshua Sobol. In un articolo di Wolfgang Staudte dal titolo Une reprĂ©sentation impossible? uscito il 3 marzo 1994 su âLe Mondeâ Claude Lanzmann critica aspramente Schindlerâs List (1994) di Steven Spielberg. Rispetto allâenormitĂ morale della Shoah puĂČ essere mantenuta una fondamentale differenza tra rappresentazione e oggetto prima di essere ri-presentato, tra livello rappresentativo, figurativo e letterale, fattuale, non figurativo (Lang, 2000) oppure fondere queste dimensioni, renderle indistinguibili (FriedlĂ€nder, 1996; Kellner, 1994).
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Bisognerebbe poi riconoscere nel silenzio lasciato dalla distruzione il limite costitutivo rispetto al quale ogni rappresentazione si misura (Lang, 2000) e nel minimalismo â «arte dellâusare un minimo di parole per dire il massimo» â vedere una regola per la rappresentazione letteraria dâimmaginazione (Lang, 1988), nel negazionismo storiografico una forma di rappresentazione inappropriata, inaccurata storicamente e moralmente oltraggiosa, nella feticizzazione dei simboli della superioritĂ razziale nazista e nellâerotizzazione della relazione carnefice-vittima di alcuni film rappresentazioni discutibili e banalizzanti, forme del Kitsch (Pisanty, 2012, pp. 53-7), nel curiosare voyeuristico dallo spioncino della camera a gas una feticizzazione dellâorrore e unâincapacitĂ a tenersi a una «giusta distanza» (Donaggio, Guzzi, 2010). Nel sostenere un privilegio nel diritto di produrre conoscenza4 da parte dei sopravvissuti Ăš riconoscibile unâappropriazione esclusiva della Shoah (KertĂ©sz, 2001) dâostacolo al pluralismo interpretativo (Feinstein, 2005, p. 30) e unâinsufficiente storicizzazione di quellâetica della rappresentazione del dopo Auschwitz il cui proibizionismo rispetto alla possibilitĂ di trarre piacere estetico dalla rappresentazione della Shoah (Hayes, Roth, 2010) non regge piĂč nellâera della postmemoria (Hirsch, 2001).
7.3
Fatiche dellâinsegnare e dellâapprendere
Il presente e il futuro della Shoah dipendono dallâeducazione sullo sterminio degli ebrei che puĂČ essere rivolta primariamente agli studenti e potenzialmente a tutti quanti, come hanno per esempio dimostrato i programmi organizzati dallâHolocaust Memorial Museum per giudici, avvocati, poliziotti e militari (Fracapane, Hass, 2014, p. 169).
LâInternational Holocaust Remembrance Alliance â un corpo intergovernativo fondato nel 1998 con lo scopo di supportare leader politici e sociali rispetto alla necessitĂ dellâeducazione, del ricordo e della ricerca sulla Shoah a cui a oggi aderiscono 31 Stati membri (fra cui lâItalia),
4. Sempre nellâarticolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory, Wiesel scrive: «Solo coloro che lo [Auschwitz] hanno vissuto nella loro carne e nelle loro menti possono possibilmente trasformare la loro esperienza in conoscenza. Gli altri, nonostante le buone intenzioni, non potranno mai farlo».
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diverse organizzazioni internazionali (onu, unesco, osce/odihr, Consiglio dâEuropa) e quasi 876 organizzazioni da 44 paesi impegnate nellâeducazione, nella memoria e nella ricerca5 â che promuove lâeducazione, il ricordo e la ricerca sulla Shoah ha predisposto linee guida per un corretto approccio didattico in forma di risposte al perchĂ©, al cosa e al come insegnare la Shoah (Task Force, 2005).
Gli approcci didattici possono essere molteplici, definiti dal tipo di informazioni che si vuole trasmettere e dal loro inserimento entro una cornice interpretativa, dagli strumenti e dai materiali utilizzati, dagli scopi educativi perseguiti â tutti elementi modellati rispetto allâoggetto di studio e alle caratteristiche degli allievi e degli educatori coinvolti nel processo educativo. Ă meglio dare rilevanza alle specificitĂ che ne definiscono la singolaritĂ storica della Shoah come la dimensione numerica, lâestensione geografica, lâideologia soggiacente secondo un approccio particolarista o sottolineare lâuniversalitĂ di argomenti quali la distruzione della persona, la desacralizzazione della morte, la negazione dei diritti fondamentali e dei valori democratici secondo un approccio universalista? Chi insegna puĂČ adottare un modello di apprendimento mimetico volto alla trasmissione strumentale o riflessiva del sapere oppure uno esperienziale e trasformativo mirante a promuovere lo sviluppo caratteriale e morale degli allievi attraverso simulazioni e giochi di ruolo e viaggi nei luoghi della memoria. Possiamo pensare che lâeducatore si interroghi se rispetto al tema della zona grigia sia meglio far leggere Sommersi e salvati di Primo Levi o far vedere La zona grigia di Tim Blake Nelson, se per trattare il tema dellâinfanzia nel Lager sia piĂč opportuna la lettura di Qui non ci sono bambini di Thomas Geve o la visione de Il Bambino col pigiama a righe di Mark Herman e quello dellâordinarietĂ del male sia meglio proporre Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale di David Cesarani o Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno di Eyal Sivan. Si dovrebbe poi scegliere se contestualizzare lo studio della Shoah nellâambito della storia dellâantisemitismo europeo, della Seconda guerra mondiale, della comparazione con le al-
5. A oggi sono 10 le organizzazioni italiane affiliate, tra cui aned (Roma), Associazione Olokaustos (Venezia), Figli della Shoah (Venezia), Fondazione cdec (Milano), Fondazione Museo della Shoah (Roma), Museo Monumento al deportato politico e razziale (Carpi), Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della LibertĂ (Torino). Invitiamo a visitare questo indirizzo web: https://www.holocaustremembrance.com.
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tre violenze del xx secolo, della tradizione dei diritti umani e chiarirsi le idee sullo scopo educativo perseguito: stimolare la riflessione sugli abusi del potere, sulle responsabilitĂ degli individui, far comprendere le ramificazioni del pregiudizio, del razzismo e dellâantisemitismo nelle societĂ in cui viviamo, sottolineare i pericoli del silenzio e dellâindifferenza di fronte allâoppressione degli altri, educare alla tolleranza, alla solidarietĂ e alla giustizia.
La Shoah come oggetto di studio Ăš particolarmente ostico per via di una certa problematicitĂ legata a unâintrinseca difficoltĂ di dicibilitĂ e di trasmissibilitĂ della memoria tragica delle vittime, per la sua funzione simbolica nella nostra coscienza collettiva in quanto radicale rottura di civiltĂ nella storia della societĂ occidentale e perchĂ© ha infranto le barriere fra le discipline costringendole allâinterdisciplinarietĂ (Traverso, 1995, pp. 99, 33). La Shoah Ăš argomento talmente complesso a causa della densitĂ del dodicennio hitleriano, dellâampiezza geografia della persecuzione, della molteplicitĂ degli attori coinvolti che puĂČ risultare scoraggiante trattarlo per chi insegna (Totten, Feinberg, 2001). Consiste inoltre di una certa diversitĂ data dal fatto di essere «piĂč di un tipico evento storico che puĂČ essere studiato in termini di tempo, luogo, attivitĂ e risultato», perciĂČ non esauribile in breve tempo, e in quanto «veicolo attraverso cui puĂČ essere esaminata lâessenza della condizione umana» racchiude un sapere storico ed etico poichĂ© offre lâopportunitĂ di esaminare ogni possibile comportamento umano, da un massimo di male a un massimo di bene (Lindquist, 2011b). Il soggiacere alla âsoluzione finaleâ di una complessitĂ causale â razionalitĂ strumentale moderna, antisemitismo redentivo, ossessione giudeo-bolscevica â Ăš dâostacolo al capire, capacitĂ che appare limitata rispetto allo spiegare (Traverso, 1995, p. 15): «piĂč conosco meno so e meno capisco» una volta ha detto Elie Wiesel (cit. in Lindquist, 2006). Lâinsegnamento della Shoah puĂČ avere unâenorme potenza trasformativa come nel caso di una ragazza diciassettenne statunitense che dopo una lezione sulla Shoah di Facing History and Ourselves ha affermato «pensiamo alla storia che impariamo. Ă importante imparare le parti scomode. Ă lĂŹ che possiamo trovare i conflitti che ci aiutano a capire noi stessi» (Fracapane, Hass, 2014, p. 159). PuĂČ altresĂŹ esporre al rischio di una âsovraidentificazioneâ con le vittime come Ăš accaduto a uno studente di una scuola media statunitense che, dopo una simulazione sulla Shoah chiamata Morire di fame. Una lezione sulla durezza del campo
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di concentramento (che prevedeva due settimane di âdieta Auschwitzâ e la lettura di La notte di Wiesel), afferma: «lâunica cosa che ho scoperto oggi Ăš che io non voglio essere ebreo» (Lindquist, 2011a, p. 125). PuĂČ anche dar luogo a unâimbarazzante difficoltĂ a comprendere la dinamica di totale squilibrio di forze tra internati e guardie vigente nel Lager, come nel caso del ragazzo che Alberto Cavaglion chiama lââultimo ascoltatoreâ di Levi, il quale dopo aver ascoltato il racconto del ex deportato interviene dicendo: «Tutto vero, tutto terribile quello che ci ha riferito; ma signor Levi, la prossima volta che Lei si troverĂ in questa situazione si ricordi quello che Le dico, dia retta a me, si faccia dare la pistola al raggio verde, spezzi il reticolato ed esca fuori, dove unâastronave la raccoglierĂ e in pochi secondi La restituirĂ ai suoi Cari» (Traverso, 1995, p. 114). Lâeducatore dovrebbe essere in grado di far comprendere lâenormitĂ morale di questa storia, non dovrebbe sovraesporre con immagini macabre e racconti dellâorrore la realtĂ dello sterminio nĂ© sottoesporla minimizzandola, dovrebbe cercare di equilibrare conoscenza ed emozione, offrire una puntuale esposizione delle tappe principali della persecuzione antiebraica, evidenziarne processualitĂ , sistematicitĂ e simultaneitĂ e personalizzare la storia proponendo diari, memorie, testimonianze dal vivo e registrate, comparare la Shoah senza equiparare nĂ© gerarchizzare le sofferenze delle diverse violenze. Il presente dellâeducazione sulla deportazione e lo sterminio Ăš indissolubilmente legato alle problematiche nazionali della memoria (Santerini, 2003) e alle traiettorie della commemorazione (Davis, Rubeinstein-Avila, 2013), come si puĂČ vedere nel caso del progetto Il â900. I giovani e la memoria lanciato dal miur nel 1998 per commemorare il sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali e quello del concorso I giovani ricordano la Shoah istituito nel 2005 per il sessantesimo anno dalla liberazione di Auschwitz. Per rendere giustizia alla problematicitĂ e alla complessitĂ dellâesperienza dello sterminio, tenerne viva la memoria ed evitare di suscitare insofferenza e disinteresse facendo coincidere lo sforzo educativo con lâapprossimarsi della celebrazione del Giorno della memoria, sarebbe necessario diluire negli anni lâapprendimento e attualizzare lâargomento per esempio in relazione al destino tragico delle decine di migliaia di migranti che muoiono in mare e di cui nessuno in Europa vuole farsi carico.
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Completiamo questo saggio riepilogando alcune delle principali conoscenze che abbiamo acquisito nel corso del testo. Lâesposizione di una breve storia della âsoluzione finaleâ ci ha permesso di mettere in luce il carattere processuale, non scontato e non ineluttabile della Shoah, prima politica antiebraica di esclusione e segregazione biologica e sociale, poi fallito progetto di âsoluzione territoriale del problema ebraicoâ mediante emigrazione forzata e trasferimento di altre popolazioni e solo dalla metĂ del 1941 sterminio di massa organizzato. La Shoah Ăš un fenomeno storico la cui complessitĂ , dovuta alla multidimensionalitĂ temporale e geografica della persecuzione, allâampio spettro degli attori coinvolti e alla varietĂ dei loro comportamenti, puĂČ essere governata se viene scomposta in parti, rispetto agli attori, fra vittime, carnefici e spettatori. Nel capitolo sulle vittime abbiamo evidenziato la dimensione principalmente orientale dello sterminio, non solo per la concentrazione nellâEuropa centro-orientale dei luoghi dello sterminio e perchĂ© fra Polonia, Ucraina, Bielorussia e Paesi Baltici le vittime sono state piĂč di 4 milioni ma anche per via del fatto che una cultura, un mondo, quello yiddish, Ăš stato irrimediabilmente spazzato via. Abbiamo dato rilevanza alla specificitĂ dellâesperienza femminile e infantile della persecuzione per lungo tempo tenuta ai margini della storiografia, riconosciuto nella testimonianza di Primo Levi, Elie Wiesel e Jean AmĂ©ry un significato e un valore universali, evidenziato le difficoltĂ dellâaccoglimento della testimonianza del sopravvissuto tra le fonti nellâarchivio dello storico e lâimportanza del racconto dal cuore dello sterminio dei membri del Sonderkommando, âtestimoni integraliâ che con la loro esperienza diretta delle camere della morte ridimensionano un motivato scetticismo sulla capacitĂ del superstite di testimoniare fino in fondo lâabisso di morte a cui Ăš scampato e levano il terreno da sotto i
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8 Conclusioni
piedi a chi nega lâesistenza delle camere a gas. Considerando carnefici e spettatori abbiamo alternato un regime espositivo e descrittivo a uno teorico ed esplicativo. Dallâanalisi dei carnefici abbiamo appreso che lâordinarietĂ delle persone convive con la straordinarietĂ dei crimini commessi e che non si nasce carnefici ma lo si diventa attraverso unâeducazione alla violenza (come nel caso del comandante di Auschwitz Höss) e una carriera genocidaria (come nel caso del comandante di Sobibor e Treblinka Stangl). Questi due dati di base, che possono trovare facilmente conferma se si osserva quanto successo in Indonesia nel 1965, in Cambogia nel 1975-79 e in Ruanda nel 1994 dove altrettanti cittadini comuni si trasformarono in assassini, mandano un chiaro segnale dâallarme: lungi dal vedere nei carnefici delle figure patologiche lontane anni luce dalla nostra cara e comoda normalitĂ , dobbiamo essere consapevoli che ognuno di noi trovandosi in un contesto di violenza diffusa, organizzata e impunita puĂČ trasformarsi in un assassino. La dimensione degli spettatori Ăš piĂč composita ed Ăš stata piĂč importante di quanto si creda. Lungi dallâessere soggetti passivi, gli spettatori influenzano nel bene e nel male il processo di distruzione. La denuncia pubblica del programma di eutanasia in Germania ne ha sortito lâinterruzione (solo ufficialmente purtroppo), cosĂŹ come la protesta di una larga parte dellâopinione pubblica in Bulgaria ha mandato allâaria la deportazione degli ebrei. Durante la guerra la generale indifferenza della popolazione tedesca rispetto alla questione ebraica ha favorito la deportazione e lo sterminio degli ebrei tedeschi. Tra gli spettatori vi furono individui, comunitĂ , nazioni e organizzazioni e comportamenti che oscillarono tra lâappoggio diretto ai carnefici, la resistenza ai nazisti e il soccorso alle vittime. CosĂŹ come per i carnefici, anche tra gli spettatori ci si domanda se i loro comportamenti siano dipesi piĂč dalla personalitĂ o dal contesto in cui agirono. Vi Ăš una biforcazione metodologica fra le teorie della personalitĂ e le teorie psicosociali e sociopolitiche. Da una parte, si dĂ rilevanza ai tratti autoritari (perlopiĂč tralasciando il contesto dâazione) e a quelli altruistici (tenendo conto anche delle dinamiche contestuali) della personalitĂ . Dallâaltra, si verificano sperimentalmente fenomeni sociopsicologici normali quali la conformitĂ al gruppo, lâobbedienza allâautoritĂ , lâadattamento al ruolo, la diffusione di responsabilitĂ , la dissonanza cognitiva e il disimpegno morale o si vagliano fattori socio-politici come le probabilitĂ di rischio insite nel soccorso, lâimportanza della richiesta dâaiuto, le forme
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dâaiuto, le forme di governo presenti nei paesi dellâEuropa nazista e i differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista, i rapporti fra popolazione ebraica e non ebraica prima della persecuzione ecc. Il quadro motivazionale di carnefici e spettatori Ăš complesso e talvolta imperscrutabile, specie tra questi ultimi. A differenza dei capitoli 1, 4, 5, 6, i capitoli 2, 3 e 7 non toccano direttamente la realtĂ dello sterminio se non rispettivamente come tema per una riflessione sulle forme della crisi della coscienza europea, come soggetto della narrazione storica e oggetto di ricordo, rappresentazione ed educazione. In primo luogo, la crisi della coscienza nasce dalla cognizione del fatto che non vi Ăš giustizia e condanna che possa punire un crimine cosĂŹ insensato e inaudito e una colpa cosĂŹ diffusa. In secondo luogo, questa crisi Ăš provocata dalla percezione di una scandalosa inattualitĂ del crimine nazista rispetto a unâimmagine positiva e progressiva, libera dalla barbarie, della civilizzazione occidentale nel xx secolo. CiviltĂ e barbarie convivono nelle nostre societĂ , la violenza tenuta sotto il controllo monopolistico dello Stato moderno riesplode laddove lo Stato ne abusa per fini politici. In terzo luogo, la crisi Ăš data dalla mancanza di un vocabolo che adeguatamente possa esprimere quello che Ăš percepito come un âcrimine senza nomeâ. Il riempimento di questo vuoto dĂ vita, sebbene non subito, a un campo di studi interdisciplinare, âgli studi sul genocidioâ in cui la Shoah assume un ruolo paradigmatico nellâanalisi comparativa dei genocidi, nuovo male politico del xxi secolo. Lâidea portante di questo saggio, che la Shoah Ăš soggetta a una narrazione continua, a unâincessante assegnazione di nuovi significati (da qui i veti a certe forme della rappresentazione e le contese sulla singolaritĂ della Shoah e sulla specificitĂ ebraica tra i crimini nazisti) e a unâiscrizione entro nuove cornici di senso, trova posto sia nellâesposizione di alcuni paradigmi storiografici nel cap. 3, sia nel cap. 7 in considerazione della dimensione della rappresentazione come condizione preliminare e interdipendente del ricordo e dellâeducazione della Shoah. Il prossimo futuro della Shoah Ăš certo e incerto a un tempo. Certo perchĂ© il suo significato verrĂ sempre rinnovato come Ăš accaduto sinora e sempre piĂč deterritorializzato e globalizzato, incerto perchĂ© la scomparsa degli ultimi superstiti segnerĂ la fine di un presidio sicuro sul buon uso della memoria della Shoah, a quel punto potenzialmente esposta alle narrazioni piĂč impensabili.
8. conclusioni 101
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