Narrazioni storiche della Shoah
3.1
Intenzionalismo vs funzionalismo
Quale ruolo va attribuito a Hitler nel processo decisionale sfociato nel sistematico sterminio degli ebrei d’Europa? Gli storici della Shoah si sono schierati secondo due orientamenti principali: intenzionalista e strutturalista-funzionalista. Mentre l’intenzionalismo storiografico ha posto l’accento sull’intenzione omicida e sulla preminenza dell’ideologia antisemita come fattore determinante gli esiti estremi della violenza nazista, sul ruolo preponderante avuto da Adolf Hitler, assertore di un antisemitismo radicale e primo motore dello sterminio sistematico, il funzionalismo si è concentrato sulla complessa struttura del potere nazista tutt’altro che ordinato sotto il controllo di un uomo solo al comando, frammentato e conteso tra le diverse istituzioni implicate nell’implementazione del processo di distruzione. Secondo la tesi intenzionalista la soluzione finale è stato il prevedibile risvolto di un’idea – quella di sterminare gli ebrei – espressa da Hitler già nel 1925 nella sua opera Mein Kampf (La mia battaglia) e riaffermata in un momento cruciale come nel discorso del 30 gennaio 1939 tenuto al Reichstag in cui prospettò l’eventualità dello sterminio degli ebrei. Per il funzionalismo la via che condusse ad Auschwitz fu “tortuosa” (Schleunes, 1990), l’esito di una “radicalizzazione cumulativa” (Mommsen, 2003) della soluzione della questione ebraica posta al centro della contesa e degli interessi di diversi centri di potere (sa vs ss, Himmler vs Göring/ Frank). Secondo Klaus Hildebrand, preminente esponente della scuola intenzionalista, «per il genocidio nazista, il dogma razziale di Hitler fu fondamentale [...] le idee programmatiche di Hitler sull’eliminazione degli ebrei e sulla supremazia razziale vanno ritenute causa primaria,
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motivo e fine, intenzione e punto di fuga della “politica ebraica” del Terzo Reich» (Kershaw, 1995, p. 127).
Per il funzionalista Martin Broszat, in assenza di un ordine generale e globale impartito dal Führer, «il “programma” dello sterminio degli ebrei conobbe uno sviluppo istituzionale graduale, e fu in pratica il frutto di iniziative individuali, fino al principio del 1942, acquisendo una fisionomia definita solo dopo la costruzione dei campi di sterminio in Polonia (tra il dicembre 1941 e il luglio 1942)» (ivi, p. 128).
Tale controversia storiografica raggiunse il suo culmine in una serie diconferenzeinternazionalitenuteaPariginel1982,aGerusalemmenel 1983 e a Stoccarda nel 1984. L’incapacità di sopportare separatamente il carico della successiva ricerca suscitata dall’apertura degli archivi sovietici dopo la fine della Guerra fredda ha richiesto l’integrazione dei due orientamenti. Il maggiore dei pregi dell’approccio intenzionalista è di avere stimolato la ricerca sul ruolo, anche indiretto, avuto da Hitler e sulle peculiarità dell’antisemitismo nazista. Tuttavia far discendere la soluzione finale direttamente dalle intenzioni programmatiche di Hitler rivela un vizio teleologico, un’attitudine a sottovalutare le contraddizioni e le difficoltà emerse nel corso dell’implementazione del programma di sterminio, oltre a sovrastimare l’importanza delle decisioni venute dalle alte sfere del potere e a sottostimare le iniziative locali nei luoghi dello sterminio alla periferia del Reich. Merito del funzionalismo è di aver dato il giusto rilievo alle spinte venute dal basso dagli attivisti del partito e dalla periferia, dai capi dei distretti dell’Europa orientale per l’implementazione del processo di distruzione e alla multidimensionale logica burocratica che ha strutturato a più livelli l’ampio coinvolgimento delle società genocidarie.
Vedere Hitler come un dittatore debole, incapace nei momenti cruciali di decidere non ha impedito di riconoscerne il ruolo centrale di guida morale e di fonte ultima della legge nel Terzo Reich, il potere carismatico-sanzionatorio di forte spinta nel processo di distruzione in direzione dello sterminio sistematico (Mommsen, 2003). Nondimeno, l’aver posto l’accento sul funzionamento complessivo della macchina dello sterminio, sui processi strutturali e sul gioco delle funzioni contrastanti ha fatto perdere di vista il problema dell’intenzione e allentato la stretta sulla responsabilità dei carnefici, talvolta visti più come ingranaggi di un meccanismo distruttivo che come soggetti consapevoli delle terribili implicazioni delle loro azioni.
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I sintetizzatori, che hanno cercato di fare sintesi delle due posizioni, inclinano verso i funzionalisti nel dubitare che Hitler pianificò la soluzione prematuramente situando la decisione sullo sterminio intorno all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, mentre inclinano verso gli intenzionalisti nel valutare il ruolo avuto da Hitler nell’evoluzione delle politiche antiebraiche prima del 1941, ritenendo probabile che Hitler stesso ordinò o autorizzò l’inizio delle uccisioni in massa nel giugno del 1941. Tra i sintetizzatori vi è disaccordo sul grado di personale coinvolgimento del Führer nel formulare le politiche anti-ebraiche e sul tipo di motivazione alla base della sua decisione nel momento di passaggio dal trasferimento forzato allo sterminio. Tra questi Saul Friedländer in La Germania nazista e gli ebrei (2004) ha arguito che Hitler ebbe sempre un piano per gli ebrei, di emigrazione e nuovo insediamento prima del 1941, dopo di cui uno di sterminio, e che nel periodo 1933-41 mantenne sempre il controllo sulle politiche antiebraiche indirizzandone l’evoluzione impartendo ordini verbali ai suoi luogotenenti. Richard Breitman, in Himmler. Il burocrate dello sterminio (1995), ha sostenuto che Hitler diede l’ordine di sterminio nel marzo del 1941 nel corso dei preparativi per l’Operazione Barbarossa. Christopher Browning, in Verso il genocidio (1999) e Le origini della soluzione finale (2008), ha sostenuto che il piano di sterminare gli ebrei d’Europa ebbe origine fra il luglio e l’ottobre del 1941, nell’euforia della vittoria. Altri sintetizzatori invece hanno affermato che Hitler fu motivato dalla rabbia per la sconfitta imminente e hanno collocato la sua decisione più tardi, come Philippe Burrin, in Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio (1994), alla fine di ottobre del 1941 e Arno J. Mayer, in Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, alla fine di settembre del 1941 come effetto collaterale della crociata anti-bolscevica, l’Operazione Barbarossa.
Modernità,
3.2
modernizzazione, modernismo: Zygmunt Bauman, Götz Aly, Jeffrey Herf
Il sociologo Zygmunt Bauman e gli storici Götz Aly e Jeffrey Herf si sono serviti rispettivamente delle categorie di “modernità”, “modernizzazione” e “modernismo” per far luce sul nazismo e sullo sterminio degli ebrei.
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Bauman ha inteso la Shoah come un importante test sulle possibilità occulte della modernità, esito tanto unico quanto normale della tendenza patologica della cultura burocratica moderna a considerare la società come un oggetto da amministrare secondo una logica strumentale che riduce gli esseri umani a mezzi nell’ottica di un grande progetto utopistico politico-ideologico. A suo avviso, la Shoah sarebbe un genocidio tipicamente moderno poiché mira a uno scopo, quello di edificare una società perfetta attraverso l’eliminazione di certi gruppi umani, come se si trattasse di curare un giardino, privandolo delle erbacce infestanti (Bauman, 2010b, p. 101)1 .
Dallo studio realizzato da Götz Aly a quattro mani con Susanne Heim sui precursori dello sterminio è emersa una lettura “economica” della soluzione finale basata sulle connessioni tra modernizzazione e sterminio. Secondo questa prospettiva interpretativa, lo sterminio degli ebrei rientrerebbe in una più ampia strategia di «politica negativa della popolazione» adottata dai pianificatori nazisti in applicazione di un modello concettuale di «economia demografica» in ragione del quale ogni problema sociale ed economico va commisurato al raggiungimento della «misura ottimale della popolazione» (Aly, Heim, 2002, p. 60). Agli occhi di questi tecnocrati, per giungere all’integrazione economica dei territori dell’Europa orientale nel grande Reich tedesco, è necessario razionalizzare i metodi di produzione, standardizzare i prodotti, introdurre una divisione continentale del lavoro, modernizzare e semplificare le strutture sociali riequilibrando il rapporto tra le quote di popolazione produttiva e improduttiva, rafforzando la classe media a garanzia di condizioni sociali stabili, facendo fiorire mercati interni locali, monitorando il sovrappopolamento con programmi di controllo e di promozione delle nascite, reinsediamento e sterminio. Modernizzazione, riforma del sistema psichiatrico e sterminio sono interconnessi nei programmi segreti centralizzati sotto il ministero degli Interni avviati dopo la sospensione ufficiale dell’operazione T4.
1. La visione baumaniana della cultura burocratica moderna come condizione necessaria ma non sufficiente della Shoah ha prestato il fianco alle aspre critiche dello storico Yehuda Bauer che giudica l’analisi di Bauman «insoddisfacente e contraddittoria» poiché manca di chiarezza nel definire il concetto di modernità e fa un uso improprio della categoria di genocidio. La lettura baumaniana della Shoah ha il punto di forza di mostrare come le conseguenze morali della razionalizzazione e della burocratizzazione della società moderna facilitino l’azione del criminale nazista, mentre è debole rispetto al fatto che la violenza calda delle Einsatzgruppen è solo in parte burocratizzata.
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Questa nuova fase di massacri istituzionali che coinvolse migliaia di tedeschi “improduttivi” era basata su un’attenta sistematizzazione, pianificazione e riforma del sistema psichiatrico di lungo periodo (Aly, Chroust, Pross, 1994). Dissentendo dalle posizioni ultra-funzionaliste di Aly (secondo cui non vi fu alcun piano complessivo, né alcuna decisione a livello centrale di uccidere gli ebrei, ma è stato il fallimento dei piani demografici dei tecnocrati nazisti a determinare la soluzione finale), lo storico statunitense Christopher Browning il quale sostiene che, lungi dall’esservi ampio consenso tra gli esperti pianificatori sull’omicidio di massa degli ebrei come soluzione estrema al fallimento della politica demografica in Europa orientale, la via verso il genocidio fu aperta dal frazionamento tra “produttivisti”, coloro che volendo sfruttare la manodopera ebraica tentarono di tenerla in vita, e “logoramentisti”, coloro per i quali l’impiego per l’economia di guerra era secondario. Browning sostiene che non fu tanto il progetto di un’integrazione economica dei territori orientali occupati nel Reich, né il calcolo economico il primo motore per la soluzione finale quanto l’illogicità economica, lo smantellamento dei ghetti polacchi, nonostante la crescente richiesta di lavoro ebraico e il rapido aumento della produttività (Browning, 1998, pp. 63-78). Alla critica di Browning va aggiunta quella di Bauer che reputa l’analisi di Aly carente perché considera solo gli esecutori, non fa cenno alle potenze straniere, né alle Chiese, non analizza il nazismo e tratta i polacchi, gli ebrei e i rom come vittime passive, non convince sulla pressione decisiva esercitata dai funzionari tedeschi di livello intermedio sui governanti di Berlino (Bauer, 2009, pp. 118-25).
Allo storico americano Jeffrey Herf, che pone al centro della sua ricerca le origini culturali del Terzo Reich, la soluzione finale appare come il momento culminante del «modernismo reazionario», un concetto che esprime il paradosso culturale della modernità tedesca: l’accettazione da parte di alcuni pensatori tedeschi (Spengler, Jünger, Sombart, Freyer, Schmitt, Heidegger) e del regime nazista della tecnologia moderna pur nel rifiuto della sua matrice, la ragione illuminista (Herf, 1998, p. 318). Questo poté accadere grazie all’integrazione della tecnologia nel simbolismo e nel “gergo dell’autenticità” della cultura nazista dove sangue, razza, anima, volontà, comunità divennero termini assoluti oltre la giustificazione razionale e per mezzo dell’estraniamento dalla sfera della civilizzazione, sede per i nazisti di ragione,
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internazionalismo, materialismo, finanza ed ebraismo. Facendo prevalere nel processo decisionale l’ideologia antiutilitarista sulla razionalità tecnica commisurante mezzi e fini, Hitler condusse il Terzo Reich alla catastrofe bellica. Secondo Herf, diversamente da Bauman, lo sterminio degli ebrei non ha rappresentato il destino del mondo moderno, né, in disaccordo con Horkheimer e Adorno, l’involuzione dialettica della ragione illuminista nel dominio; tutt’al più Auschwitz rimane «un monumento all’insufficienza e non all’eccesso di ragione nel Reich hitleriano» (ivi, p. 320). 3.3
Antisemitismo eliminazionista tedesco:
Daniele J. Goldhagen
Non c’è stato libro tanto controverso e discusso nella storia della storiografia sulla Shoah quanto I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, pubblicato dal politologo statunitense Daniele J. Goldhagen nel marzo del 1996. Con l’uscita della versione tedesca in Germania divenne un bestseller, facendo infuocare sui quotidiani tedeschi un’appassionata discussione tra storici e non. L’enorme ricezione di pubblico e di critica è dovuta alla sua tesi centrale: lo sterminio degli ebrei d’Europa è stato un progetto nazionale accolto e sostenuto dall’intera società tedesca dove un «antisemitismo eliminazionista» era il «senso comune» dell’epoca (Goldhagen, 1998). Goldhagen spiega perché lo sterminio avvenne rivolgendo l’attenzione non tanto al gruppo dirigente nazista né al processo decisionale quanto alle azioni dei «realizzatori» (ss, poliziotti, guardie dei campi) esempio di «tedeschi comuni». A Goldhagen gli agenti materiali dello sterminio appaiono «volonterosi carnefici» che parteciparono in piena coscienza, perfettamente in grado di intendere, giudicare e comprendere quel che stavano facendo, tutt’altro che neutrali e passivi, sulla base di un modello cognitivo-culturale secondo cui l’ebreo era diverso dal tedesco, l’opposto binario del tedesco, non un diverso innocuo, bensì maligno e pernicioso, pervasivo nella società tedesca sin dal xix secolo. La volontarietà – espressa nel libro per mezzo della forma grammaticale attiva – lo zelo e il sadismo con cui questi uomini agirono escludono il ricorso a interpretazioni “convenzionali”, come dire essi non uccisero perché costretti a farlo o per acritica obbedienza agli ordini, tantome-
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no per le pressioni sociali subite, né per favorire la propria promozione personale o perché, essendo parte della macchina burocratica dello sterminio, non erano nella posizione di cogliere nella globalità gli effetti delle singole azioni intraprese, ma esclusivamente perché erano animati da un antisemitismo demonologico che relegava gli ebrei fuori dalla famiglia umana. Pur avendo il merito di aver rimesso al centro dell’attenzione l’antisemitismo e la questione dell’intenzionalità del crimine sottovalutati dal funzionalismo, questa spiegazione monocausale, che sfida la pluralità delle motivazioni usualmente riconosciuta alla base delle azioni umane, appare circolare e deterministica sul piano logico, razzista e demonizzante nei confronti dei «tedeschi» osservati con l’occhio giudicante dell’antropologo che etnicizza l’adesione della società tedesca a un certo ordine di valori rispetto al quale lo sterminio degli ebrei appare ai tedeschi giusto. L’eccezionalità attribuita all’antisemitismo eliminazionista lo sottrae alla comparazione, mitologizzandolo. Il manicheismo moralista e la “via speciale” imboccata dalla Germania verso lo sterminio si trasforma in un’apologia del civile Occidente contrapposto ai cattivi “tedeschi” (Shandley, 1998; Bauer, 2009, pp. 126-48; Zamperini, 2001, pp. 6-7).
3.4
Processo di distruzione e triade vittime-carnefici-spettatori: Raul Hilberg
Il 1961 è un anno significativo per la ricerca sulla Shoah. Mentre a Gerusalemme si tiene il processo Eichmann, a New York è data alle stampe la prima edizione di La distruzione degli ebrei d’Europa, opera canonica sul genocidio degli ebrei. Il suo autore Raul Hilberg, viennese d’origine e statunitense d’adozione, considera la distruzione degli ebrei d’Europa come un avvenimento senza precedenti nella storia per dimensioni e tipo di organizzazione, il punto di arrivo dell’evoluzione ciclica di secolari politiche antiebraiche e l’esito dell’applicazione di una serie progressiva di misure amministrative (Hilberg, 1999, p. 6).
La distruzione degli ebrei d’Europa richiese l’impegno diretto e congiunto di quattro gerarchie distinte (burocrazia ministeriale, forze armate, apparato economico-finanziario, partito nazionalsocialista e ss, suo braccio armato) facenti capo al Führer. Hilberg ritiene che le migliaia di funzionari coinvolti non avrebbero potuto prevedere sin
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dall’inizio l’esito a cui si sarebbe giunti al termine del 1941. Questo processo che non corrispose a un piano prestabilito si articolò in fasi strettamente correlate e susseguenti: 1. definizione a mezzo decreto; 2. espropriazione e spoliazione economica; 3. trasferimento e concentrazione nelle grandi città, ghettizzazione e sfruttamento della forza lavoro; 4. annientamento fisico con i reparti mobili di massacro nei territori sovietici occupati, deportazione su scala continentale ed eliminazione sistematica nei centri di sterminio (ivi, p. 51).
Secondo Hilberg se si vuole «capire questa storia in tutta la sua ampiezza» è necessario guardarla dalla prospettiva dei comuni funzionari tedeschi (Hilberg, 1996, p. 61) chiamati a svolgere compiti straordinari per realizzare un’enorme impresa di distruzione in esecuzione delle leggi emanate e degli ordini impartiti dall’alto grazie a «una disposizione dello spirito», a una «consonanza» e a un «sincronismo» d’intenti (Hilberg, 1999, p. 53). I burocrati tedeschi esercitarono le loro competenze specifiche in un contesto d’azione segnato dall’ipertrofia legislativa, dalla moltiplicazione dei provvedimenti – le direttive scritte lasciarono via via posto ai provvedimenti verbali – e da una progressiva evanescenza della fonte ultima d’autorità del Führer. Questi uomini furono in grado di fronteggiare gli ostacoli amministrativi, economici e psicologici che ne gravarono l’azione perché percepirono questo sforzo come un evento esclusivo, un’esperienza vissuta provvedimento dopo provvedimento (ivi, pp. 1121-2). Con Carnefici, vittime e spettatori Hilberg allarga la prospettiva d’osservazione sulla Shoah. Dal piano politico-decisionale e organizzativo-amministrativo si sposta ai gruppi e agli individui secondo un diverso approccio metodologico. A prescindere dalla rilevanza politica i singoli sono inclusi nella narrazione storica. Il carnefice non si trova più al centro della scena, ora occupata dalla triade carnefici-vittime-spettatori (Hilberg, 1996, pp. 190-1). Nella Distruzione degli ebrei d’Europa, ispirandosi all’architettura musicale di Beethoven, l’artista-storico – così lui stesso si concepisce –, Hilberg ricostruisce il processo di distruzione nazista come una sinfonia i cui spartiti sono i documenti della burocrazia nazista (Hilberg, 1999, pp. 81-9). In Carnefici, vittime e spettatori, con una serie di brevi e incisivi ritratti, dà spazio alle testimonianze delle vittime dopo averle tenute nell’ombra per decenni dalla sua narrazione storica: solo fonti secondarie secondo un approccio radicalmente oggettivista (Amodio, De Maio, Lissa, 1998, pp. 6-13; Hilberg, 2001; Finchelstein, 2005, pp. 3-48).
3. narrazioni storiche della shoah 41
Storia memoriale e integrata: Saul Friedländer
Altra imprescindibile fonte di studio e riflessione sulla Shoah è l’opera pluridecennale di Saul Friedländer, praghese d’origine, cittadino israeliano e statunitense, di particolare interesse perché profondamente ispirata dalla sua storia personale di ebreo cosmopolita e sradicato, scampato alla persecuzione nazista da bambino (Friedländer, 1990). Punto di arrivo della sua ricerca sono i due volumi della Germania nazista e gli ebrei. Con il primo, Gli anni della persecuzione 1933-39 (1997), si sofferma sulla politica antiebraica nazista prima del conflitto mondiale, con il secondo, Gli anni dello sterminio 1939-45 (2007), si concentra sull’eliminazione degli ebrei. Con questo progetto, che lo ha impegnato dal 1990 al 2006, Friedländer propone una storia integrata, inglobante, totale, pluridimensionale e polifonica, integrando due contrastanti paradigmi storiografici: quello tedesco e anglosassone, centrato sui carnefici e sul processo politico-decisionale nazista, e quello ebraico-israeliano al cui centro stanno le vittime viste in chiave eroico-apologetica (Goldberg, 2009, pp. 220-37). Totalità di avvenimenti definita dalla convergenza di elementi distinti – politiche, provvedimenti e decisioni tedesche, reazioni del mondo circostante, opposizione delle vittime –, la Shoah è narrata alla luce della sua pluridimensionalità.
Nell’Europa occupata l’applicazione delle decisioni naziste dipese dalla disponibilità, dalla reticenza delle autorità e dei funzionari locali, dalle azioni individuali o collettive delle vittime. Traccia delle interazioni tra ebrei, nazisti e popolazioni non ebree dei paesi occupati è rimasta nelle testimonianze, nelle memorie, nei diari, nelle lettere delle vittime. Restituendo voce alle vittime Friedländer intende dare risalto all’esperienza della persecuzione vissuta «in tempo reale» per mantenere viva la memoria e comunicare al lettore quel misto di straniamento, incredulità, eccesso e ordinarietà, quel «senso primario di smarrimento» che di primo acchito la persecuzione suscitava nelle vittime (Friedländer, 1993, pp. 102-16). Il senso di disorientamento, di disperazione, di impotenza e catastrofe imminente sentito dalle vittime precede per Friedländer ogni sforzo di comprensione e spiegazione storica: prima viene la memoria, poi la storia. Le voci individuali delle vittime interrompono l’ossessivo inveire del discorso dell’antisemitismo «redentivo» (Friedländer, 2004, pp. 81-120; 2009, pp. 21-40) amplificato e propagandato nell’opinione pubblica europea per legittimare la soluzione finale.
la shoah 42
3.5
figura 3.1
Schema triangolare delle relazioni tra gli attori del genocidio
Partecipazione diretta
Saccheggio sanzionato/ non sanzionato governo
Aiuto indiretto genocidio
spettatore carnefice
Acquiescenza Coinvolgimento
Inibizione politica governo
Leadership e assassini
Fuga/ nascondersi Elementi del genocidio Soccorso/ resistenza
Lenta implementazione genocidio
Elusione/ Acquietamento
vittima
Veloce implementazione genocidio
Per Friedländer, Hitler e la propaganda di Stato sono stati i fattori decisivi che alimentarono il fervore ideologico antiebraico basato sul credito incondizionato dato a Hitler, padre provvidenziale del popolo, garante della purezza razziale della comunità, annientatore del bolscevismo e della plutocrazia ebraica. I tedeschi comuni parteciparono alla persecuzione perché interiorizzarono l’antisemitismo redentivo hitleriano. Nel più ampio contesto europeo la generale mancanza di solidarietà verso gli ebrei fu il terreno fertile sul quale questo ardore ideologico poté radicarsi, accomodando ostacoli e dinamiche strutturali della società moderna con interessi di partito, di classe, dell’industria e delle Chiese (Friedländer, 2004, pp. 16-8).
3. narrazioni storiche della shoah 43
Fonte: tratto da Ehrenreich, Cole (2005).
c b c' c''
Vittime:
testimonianza, memoria e storia
Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager.
Primo Levi
4.1
Ebraismo orientale, donne e bambini nel Lager, musulmani, sopravvissuti
La soluzione finale del problema ebraico ha causato quasi sei milioni di vittime (Benz, 1998). Due terzi della comunità ebraica continentale è scomparsa tra la fine del 1941 e la primavera del 1945. Questi dati numerici danno un’idea chiara della dimensione quantitativa del genocidio. Nei quattro angoli dell’Europa, famiglie e comunità intere furono spazzate via dalla furia nazista. Il principale teatro del massacro fu l’Europa orientale (Traverso, 2005, pp. 813-49). La Polonia, occupata e smembrata da russi e tedeschi, costituì il cuore dello sterminio sistematico: 2,7 milioni di ebrei polacchi vennero uccisi, i centri di sterminio di Auschwitz, Treblinka, Sobibór, Chełmno, Bełžec e Majdanek sorsero sul suolo polacco. Il computo delle vittime, complessivo o relativo ai diversi paesi coinvolti è indubbiamente necessario per cogliere la dimensione della Shoah (tab. 4.1). Tuttavia le cifre assolute o relative danno solo una comprensione parziale di quanto è accaduto. Dietro le grandi masse di morti ci sono singole individualità, vittime di diverse età, genere, nazionalità, istruzione, professione, pregresso politico e religioso, che differentemente resistettero alla privazione della libertà, alla perdita dei cari e dei compagni di prigionia – fucilati, gassati, affamati –, allo sfinimento fisico e psichico, alla minaccia diretta, continua e incombente della morte. Fortuna e virtù, il caso insieme alla prontezza ad approfittare di favorevoli quanto impreviste circostanze, permisero solo a una ristretta minoranza di detenuti di uscire miracolosamente vivi dall’inferno dei Lager, di evitare gli eccidi di massa o addirittura di riemergere
44
4
tabella 4.1
Numero degli ebrei uccisi nei vari paesi interessati dalla Shoah
Totale delle vittime*Percentuale sul totale dei residenti ebrei per paese
dalle fosse comuni, miracolosamente incolumi dopo le esecuzioni. I più dovettero arrendersi. Nella distinzione tra vita e morte, i “sommersi”, coloro che non ce la fecero, e i “salvati”, i superstiti, condivisero un’esperienza e una conoscenza del male e della violenza del tutto fuori dal comune, al limite della narrazione. Chi ne ha avuto la forza l’ha raccontata a voce o l’ha fissata sulla carta per sgravarsi da tanta sofferenza silenziosamente patita, tenere viva la memoria col trascorrere del tempo, dar voce a chi non ha potuto raccontare e mettere a tacere chi vigliaccamente nega che la Shoah è accaduta. A settant’anni dai fatti pochi, sempre di meno, sono i testimoni del disastro. Consultando i diari, le lettere,
4. vittime: testimonianza, memoria e storia 45
Austria
Belgio23.000 34% Bielorussia245.000 65% Danimarca 120 1,6% Francia77.00022% Germania 170.000 30% Grecia60.000 83% Italia 7.550 15% Iugoslavia 68.500 83% Lussemburgo 764 95% Norvegia 745 43% Olanda102.000 63% Paesi Baltici225.000 95% Polonia2.700.000 77% Slovacchia263.00073% Ucraina 1.200.00044% Ungheria606.000 70%
50.00026%
* Queste cifre tratte da diverse fonti sono approssimate in alcuni casi per eccesso, in altri per difetto.
le memorie, i biglietti gettati dai treni in corsa verso i Lager, i foglietti nascosti dove possibile e dissotterrati dopo tanto tempo, riacquistano tono le voci, spessore i vissuti, fisionomie i volti e ossigeno il pensiero di chi vuole comprendere il soverchiante orrore della distruzione.
La Shoah ha posto fine in Europa all’ebraismo orientale, ha sradicato l’yiddishkeit, quello stile di vita proprio del giudaismo ortodosso ashkenazita di cui erano parte la lingua yiddish e il dimorare in piccoli villaggi – shtetl. Un’indelebile testimonianza della cancellazione dell’yiddishkeit hanno lasciato queste pagine del Canto del popolo yiddish messo a morte scritte dall’ebreo bielorusso Itzhak Katzenelson:
Così ci hanno distrutto, dalla Grecia fino alla Norvegia, fino davanti Mosca, fino a sette milioni, senza il conto dei bambini yiddish dentro i grembi [...]. Non esistono più. Non chiedete laggiù voi d’oltremare, non chiedete più notizie di Kasrilevke, di Yehupetz, rinunciate. Non andate a cercare i Menahem Mendel, i Tevye lattivendoli, gli Shloime il ricco, i Motke furfanti, non cercate [...]. La voce della Torà non sarà più sentita uscire da una yeshivà, da una casa di studio, e giovanetti pallidi nobili di studio, approfonditi nella Ghemarà, assorti nei pensieri [...]. Estinti ormai, rabbini, capi di yeshivà, yidn studiosi, grandi sapienti magri, asciutti e fragili, ripieni di Talmud, commentatori, piccoli yidn con le grandi teste, elevate fronti, occhi limpidi, non esistono più né esisteranno. Nessuna madre cullerà un bambino, non morirà né nascerà nessuno tra gli yidn, non ci saranno canti commoventi di poeti yiddish, di valenti scrittori, è tutto già passato. Non ci saranno più teatri yiddish, non si riderà più in quei posti né scivolerà lenta una lacrima, e musicisti yiddish e pittori, i Bartchinski, non comporranno più tra il dolore e la gioia, cercando nuove strade [...]. Guai a me, ora non c’è nessuno. C’è stato un popolo, c’è stato, e non esiste più. C’è stato un popolo, c’è stato, e adesso niente (Katzenelson, 2009, pp. 106-10).
Un destino, quello della distruzione della cultura yiddish e dell’ebraismo orientale, che trovava nella scrittura e nella parola gli strumenti per resistere all’oblio completo a cui stava andando incontro. Sebbene larga parte degli scritti andò perduta a seguito della liquidazione del ghetto di Varsavia, non bisogna dimenticare quanto lo storico Emanuel Ringelblum diceva degli abitanti del ghetto: «scrivevano tutti... i giornalisti e gli scrittori, ma anche gli insegnanti, le persone in vista, i giovani e persino i bambini. La maggioranza di costoro teneva diari nei quali i tragici avvenimenti di ogni giorno si riflettevano attraverso il prisma dell’esperienza personale» (Wieviorka, 1999, p. 19). Fino a pochi istanti prima della morte, molti, non solo a Varsavia, scrisse-
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ro lettere di addio, indirizzate a parenti e amici. Da Williampola, nel ghetto di Kaunas (Lituania), il 19 ottobre 1943, un uomo di nome Elchanan scriveva ai figli: «Abbiamo scoperto che il nostro destino sarà deciso nei prossimi giorni: il ghetto in cui ci troviamo sarà smantellato e abbattuto. Solo Dio sa se ci uccideranno tutti o se qualcuno sopravvivrà» (Bacharach, 2011, p. 67). Una donna, di nome Mushiya, provata dalla sofferenza e terrorizzata dalla paura di morire scriveva da Ternopil (Ucraina) il 7 aprile 1943: «prima di andarmene da questo mondo vorrei lasciarti alcune parole. Se mai riceverai questa lettera, io e tutti noi qui non saremo più vivi. La nostra fine si avvicina. Lo sentiamo e lo sappiamo. Siamo tutti destinati a morire, come tutti gli ebrei innocenti che sono già stati liquidati [...]. È una cosa terribile ma è la pura verità» (ivi, p. 89). Dal ghetto di Šiauliai (Lituania), Shmuel Mintzberg annotava con estrema e gelida concisione: «Noi confermiamo che il 7 luglio 1944 è stato emesso l’ordine di evacuare il ghetto di Shavli. Vogliamo rendere noti i nostri nomi per le generazioni future [...]. Non sappiamo dove ci stanno portando. Nel ghetto duemila ebrei aspettano l’ordine di andare. Il destino è sconosciuto. Il clima è terrificante» (ivi, p. 100). Un progetto di sterminio totale come quello nazista non contemplava eccezioni: tutti andavano uccisi, dal lattante agli anziani, ogni presenza ebraica cancellata.
La differenza di genere tra le vittime ebree – debitamente considerata dagli studiosi solo a partire dagli anni Novanta – comportò una diversa esperienza della persecuzione, una specificità della deportazione femminile (Chiappano, 2009, p. 71). Complessivamente, tra le vittime, più della metà furono donne. Fino a prima dell’inizio delle deportazioni sistematiche verso i Lager, nei ghetti esse godettero di un certo privilegio rispetto agli uomini, i quali furono decimati rapidamente a causa di malattie, malnutrizione e sfruttamento del lavoro forzato. Con l’inizio delle evacuazioni dei ghetti la situazione si capovolse: lo scarso impiego delle donne al lavoro si tradusse nella deportazione immediata verso i centri di sterminio o di concentramento dove la selezione andò terribilmente a svantaggio di tutti coloro, donne comprese, che non erano considerati in grado di svolgere un lavoro dentro il Lager. Se ad Auschwitz solo un terzo dei sopravvissuti furono donne, nei campi di sterminio di Chełmno, Bełžec, Sobibór e Treblinka, dove i sopravvissuti furono pochissimi, quasi nessuna donna rimase in vita (Hilberg, 1997, pp. 126-8). Il Lager femminile di Ravensbrück e il settore bi di
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Auschwitz-Birkenau furono i luoghi principali della deportazione femminile. Una “ferita di genere” venne inflitta alle internate ebree (De Angelis, 2007, pp. 105-14). Nei Lager il corpo della donna era violato dalla completa rasatura iniziale, sottoposto a trattamenti sterilizzanti, lasciato nudo sotto gli occhi di ss compiaciute. Liliana Segre, deportata ad Auschwitz, della nudità vergognosamente patita racconta come mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile [...]. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta ad un oltraggio ancora maggiore [...] di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare su una carta geografica, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì intorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo nascosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude (Padoan, 2010).
Con l’interruzione del ciclo mestruale e il deperimento delle forme plastiche causate dalla malnutrizione, le internate perdono la più intima femminilità legata alla capacità generativa. È stato più volte sottolineato come, rispetto alla prevalente ostilità e indifferenza nei riguardi dell’altrui sofferenza o ai celati legami intessuti tra i compagni detenuti, le donne, sfidando l’individualismo imperante dettato dal costante stato di necessità, instaurarono rapporti di reciproco sostegno. Giuliana Tedeschi, deportata ad Auschwitz con il marito e la suocera, ha raccontato:
Nelle ore di abbandono ritornavano i richiami del mondo lasciato e insieme il bisogno di stringersi alle compagne, di piangere e di sperare con loro. Le cuccette delle italiane del convoglio di aprile erano tutte vicine: ottanta giovani donne erano entrate nel Lager [...]. Così sperimentai che cos’era la mano di Zilly, una piccola mano calda, modesta e paziente, che la sera tratteneva la mia, che mi aggiustava la coperta intorno alle spalle, mentre al mio orecchio una voce tranquilla e materna sussurrava: «Buona notte, cara; mia figlia ha la tua età!» [...]. Così trovai Olga un giorno e rimanemmo nascoste nell’angolo di un blocco. Sentì d’improvviso che avrei potuto parlare e che lei avrebbe potuto intendermi. Io parlai del senso dionisiaco della vita e lei parlò dello spirito e del corpo. Le mie pupille si persero nel bianco dei suoi occhi, non vedemmo più le baracche, dimenticammo i fili spinati, e la sconfinata libertà
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dello spirito ci inebriò al di sopra di ogni limite imposto dall’umana bestialità. Ci scegliemmo compagne (Tedeschi, 2004)1 .
E i bambini, soggetto a lungo marginalizzato nella storiografia sulla Shoah, come vissero la persecuzione, quali furono le reazioni alla progressiva privazione materiale e affettiva? Dei bambini ebrei che vivevano nell’Europa dell’occupazione nazista il 90%, circa un milione e mezzo, perì (Dwork, 2005, p. 12; Di Palma, 2014, p. 17). Se in larga misura dalla selezione per il lavoro all’ingresso ad Auschwitz essi risultavano inabili perché ancora troppo piccoli, molti si mostrarono abili fingendo di avere più anni di quanti in realtà ne avevano come fecero Elie Wiesel (Wiesel, 2010, p. 37) e Imre Kertész (Kertész, 2002). Una volta nel Lager si faceva in fretta a diventare adulti, non c’era scelta, la concorrenza per sopravvivere era spietata. Liliana Segre, che al momento della deportazione ad Auschwitz aveva 13 anni, ricorda: «imparai in fretta che cosa voleva dire Lager. Voleva dire morte-fame-freddo-botte-punizioni; voleva dire schiavitù, voleva dire umiliazioni-torture-esperimenti» (aa.vv., 1996, p. 57). La dodicenne viennese Ruth Klüger dimostrò un’immediata presa di coscienza della situazione in cui si trovava appena scesa sulla banchina degli orrori di Auschwitz: «avrei dovuto provare sollievo, e per qualche istante lo provai, avevo finito di crepare di caldo in quella scatola da sardine, respiravo aria fresca. Ma l’aria non era fresca, aveva un odore che non esiste altrove su questa terra. E io seppi d’istinto e subito che quello non era un luogo per piangere, per attirare l’attenzione su di sé. Affaticata, stravolta, esausta, inghiottii l’orrore che mi saliva in gola come vomito» (Klüger, 2005, p. 36).
Già molto prima della deportazione verso i Lager i bambini esperirono netti cambiamenti in famiglia e a scuola. Per il piccolo Jona Oberski, nato ad Amsterdam nel 1938, la memoria dell’offesa comincia nella sua città, con un torto fattogli da un bambino più grande che gli strappa il cappuccio dalla testa dicendogli «Ah! Ah! che sporca mantellina ebrea» (Oberski, 2010, pp. 16-7). L’esclusione dalla scuola, per via dell’emanazione nel 1938 delle leggi razziali fasciste, apparve ingiusta, un’ipoteca negativa sul proprio futuro, a Pietro Terracina che
1. Richiamiamo l’attenzione su alcune delle più importanti voci europee della testimonianza sulla deportazione femminile. Tra le detenute ebree L. Millu, Il fumo di Birkenau, Giuntina, Firenze 2008; E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990. Tra le politiche M. Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, il Mulino, Bologna 1994; C. Delbo, Un treno senza ritorno, Piemme, Milano 2002.
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allora aveva 8 anni: «mi stavano facendo un torto e io lo sentivo [...] pensavo che non avrei più potuto frequentare la scuola, che mi stavano togliendo la possibilità di riuscire nella vita» (Silvestri, 2007, p. 35), un momento di drammatica cesura – la fine dell’infanzia – a Liliana Segre: «quando mio papà mi spiegò che in quell’autunno non sarei più potuta andare alla mia scuola (pubblica) perché ero una bambina ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare la mia vita di prima. Quel momento, eravamo a tavola, è il momento che divide la mia infanzia tra il prima e il dopo» (aa.vv., 1996, p. 50).
Ancora prima delle deportazioni, tanti genitori, presentendo il peggio per i propri piccoli, a rischio di non rivederli mai più, nascosero i figli presso “famiglie adottive” di conoscenti o sconosciuti (Dwork, 2005, pp. 91-138), o in istituti infantili per ebrei o di religiosi cristiani, dove i bambini diventarono invisibili, tenuti sotto falso nome.
Tra le testimonianze coeve alla Shoah impressionano il diario scritto dalla quindicenne Mary Berg dal 10 ottobre 1939 al 5 marzo 1944, per la lucidità con cui fa la cronaca della distruzione del ghetto di Varsavia (Berg, 2009) e i settantanove disegni miniaturizzati, delle dimensioni di una cartolina, eseguiti nel blocco 29 del Lager di Buchenwald dall’allora sedicenne berlinese Thomas Geve che illustrano, con cura e semplicità, i vari aspetti della detenzione nei campi di Auschwitz, Gross-Rosen e Buchenwald (Geve, 2011). Questa penetrante capacità espressiva è sideralmente distante, quanto la vita del campo dal mondo fuori, dalla mancanza e dal bisogno della parola del «senza-nome», del piccolo «figlio di Auschwitz», Hurbinek, nato ad Auschwitz, a cui mai nessuno aveva insegnato a parlare, capace solo di articolare un’unica parola incomprensibile «mass-klo», «matisklo» (Levi, 1979, pp. 166-7).
Emblema della distruzione di ogni residuo di personalità nei detenuti nel Lager è il musulmano. Ridotto allo stremo, il musulmano è ultimo fra gli ultimi nel Lager, ormai incapace di lavorare, prigioniero dell’abisso incolmabile del suo stomaco che lo isola dall’infernale dinamica sociale del Lager, sbeffeggiato, picchiato e ignorato nella sua sofferenza dagli altri. Egli è un «cadavere ambulante, un fascio di reazioni, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia» (Améry, 2008, p. 39). Non più padrone del suo corpo, né capace di difendere la sua immediata prossimità fisica e di credere ancora nella sua salvazione, il musulmano sta in «un terzo regno tra la vita e la morte» (Sofsky, 1995, p. 294), vegeta nell’anticamera della morte, in quel «punto in
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cui, pur restando in apparenza uomo, l’uomo cessa di essere uomo» (Agamben, 1998, p. 50). Quasi tutti i musulmani morirono nel campo, alcuni scampando le selezioni che si facevano nelle baracche riuscirono a riacquistare il controllo delle loro vite e a sopravvivere. Feliksa Piekarska ha testimoniato della condizione estrema che ha patito: «Io sono personalmente stato per poco tempo un musulmano. Ricordo che dopo il trasporto nella baracca crollai completamente dal punto di vista psichico. Il crollo si manifestò in questo modo: fui sopraffatto da una generale apatia, nulla mi interessava, non reagivo più né agli stimoli esterni né a quelli interni, non mi lavavo più, e non solo per mancanza di acqua, ma anche quando ne avevo l’occasione; non sentivo più nemmeno la fame...» (ivi, p. 155).
Dopo la fine del Terzo Reich vi erano, tra gli ebrei, più di un milione di superstiti: coloro che non erano stati coinvolti nella fase finale del processo di distruzione perché i governi li risparmiarono o perché risiedevano in città ormai fuori dalla portata dei tedeschi, quei coraggiosi che avevano evitato il peggio nascondendosi, resistendo o camuffandosi in ogni modo e luogo utile, tutti quelli che erano rimasti prigionieri fino alla liberazione dei territori controllati dai nazisti. Tra questi ultimi, oltre agli ebrei dei campi di lavoro e dei ghetti non ancora completamente liquidati, vi erano i reduci dei Lager. Secondo Raul Hilberg «esiste una gerarchia inequivocabile tra gli ebrei che sopravvissero alla guerra nazista. In questa gerarchia i criteri decisivi sono l’esposizione ai pericoli e l’immensità della sofferenza. I membri delle comunità che non furono colpite o le persone che continuarono a vivere nella propria casa non sono considerati affatto dei sopravvissuti. All’estremità della scala, quelli che venivano dalle foreste o dai campi sono i sopravvissuti per eccellenza» (Hilberg, 1997, p. 182). I superstiti dei Lager sono portatori esclusivi di una conoscenza originale sulla riduzione dell’essere umano a una straordinaria condizione di privazione.
4.2
Universalità della testimonianza:
Primo Levi, Eli Wiesel, Jean Améry
Oggi, nell’«era del testimone» (Wieviorka, 1999) il valore universale della Shoah è legato alla narrazione del male estremo fatta dal sopravvissuto. Raccontando l’esperienza personale e più intima dell’offesa ricevu-
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ta, l’ex deportato riflette sul significato generale, universale di quanto gli è accaduto. Con Se questo è un uomo Primo Levi vuole «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» (Levi, 1979, p. 9), far luce sul grado di dignità umana dell’internato che ad Auschwitz è arrivato a toccare il fondo. Come un antropologo che studia dal suo interno una realtà e una condizione umana oltre la comune esperienza, Levi spinge chi legge a partecipare a una sorta di esperimento mentale (Bucciantini, 2011), a compiere uno sforzo di immaginazione:
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo (Levi, 1979, p. 23).
Attraverso e al di là di quella del detenuto 174517 – numero che Levi portava tatuato al braccio – è la possibilità di essere ancora umani nel progressivo trasmigrare nell’inumano a occupare lo spazio di una lucida narrazione. Ne La notte Elie Wiesel testimonia l’incrinatura della sua fede in Dio, l’aspro confronto nel suo animo con un Dio assente nei giorni dell’orrore ad Auschwitz. Credente e studioso della Torah, il giovane Elie, nel Lager, in occasione della preghiera per la celebrazione del Rosh Hashanah, ultimo giorno dell’anno ebraico, si rivolta contro Dio:
Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella tempesta. – Sia benedetto il Nome dell’Eterno! Ma perché, ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche della morte? Come avrei potuto dirGli: «Benedetto Tu sia o Signore, Re dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati al Tuo altare? (Wiesel, 2010, p. 69).
Lungi dal condurre alla morte della sua fede in Dio, l’esperienza di Auschwitz non placa la lotta di Wiesel con un Dio amico, per il quale si
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nutre più pietà per la sua intangibile solitudine che rabbia per l’imperscrutabile scelta dell’inazione al momento del bisogno (Wiesel, 2009, p. 197). A fronte delle conseguenze incalcolabili avute da Auschwitz sull’umanità, sulla sua storia, sulla percezione dell’uomo, sul significato di certe parole (per Wiesel notte è sinonimo di morte), sulla capacità di riconoscere i limiti e l’assenza di limiti riguardo alle persone (nell’essere buoni e cattivi) rispetto all’insanabilità della frattura fra creatura annientata e creatore silente, Wiesel si chiede: «Ma allora, che cosa ci resta? La speranza malgrado tutto, nostro malgrado? La disperazione forse? O la fede? Ci resta soltanto la domanda» (ivi, p. 19).
Tra le fila dei “colti laici” al pari di Levi e diverso dai “colti credenti” come Wiesel, è Jean Améry che testimonia nel suo Intellettuale ad Auschwitz della sua esperienza nel Lager da intellettuale scettico-umanista, agnostico, privo di credi, religiosi o politici, qual era. Raccontando di sé Améry pone al centro della sua riflessione l’intellettuale stretto nell’urto tra spirito e orrore, fra utilità e inopportunità della vita dello spirito ad Auschwitz. Rammentando quanto gli è accaduto, Améry risponde a questo interrogativo: «la cultura e il sostrato intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio al prigioniero del campo? L’hanno aiutato a resistere?» (Améry, 2008, p. 34). La sua risposta è negativa. Essere dotati di una ben sviluppata coscienza estetica e di un’attitudine al pensiero astratto si è rivelato svantaggioso perché i lavoratori dell’ingegno mancavano generalmente di agilità fisica e di coraggio, della capacità di reagire prontamente o di prevenire efficacemente i torti a cui erano regolarmente fatti beffe dai compagni di prigionia. L’intellettuale avvezzo alla frequentazione del tedesco letterario resta isolato poiché patisce l’incomunicabilità del Lager. Il pensiero analitico-razionale nel campo «conduceva direttamente verso una tragica dialettica di autodistruzione»: mettere in dubbio, come era uso per l’intellettuale, la realtà di qualcosa, in questo caso quella del Lager, risultava controproducente a fronte della ferrea illogicità della logica del campo, dove rispettare le regole era materialmente impossibile. I meno avvezzi alla riflessione si trovavano senza saperlo in vantaggio nella lotta per stare più a lungo possibile in vita, così come i detenuti politici e religiosi rispetto all’intellettuale Améry, agnostico e apolitico. Tuttavia quello spirito di cui ad Auschwitz ci si faceva poco, inservibile ai fini della sopravvivenza materiale, talvolta, al pari della fede per i credenti, aiutava l’intellettuale al superamento di sé.
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Un inatteso sollievo prova Levi, altro intellettuale ad Auschwitz, la cui laicità esce rafforzata dall’orrore del Lager, quando avverte la «voce di Dio» recitando al compagno di commando Pikolo alcuni versi danteschi superando il qui e ora che l’opprimeva: «per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono» (Levi, 1979, p. 102). Per Levi il Lager equivalse all’università poiché ricorda, «ci ha insegnato a guardarci intorno e a misurare gli uomini» (Levi, 2009, p. 1102). Per Améry c’è stata invece solo degradazione: «Ad Auschwitz non siamo diventati più saggi [...]. Neanche nel campo siamo diventati più profondi [...] ad Auschwitz non siamo nemmeno divenuti migliori, più umani, più benevoli nei confronti dell’uomo e più maturi moralmente» (Améry, 2008, p. 52).
4.3
Dovere della memoria, crisi della testimonianza e “testimoni integrali”
Primaria rilevanza, tra le altre fonti documentarie di cui si serve lo storico della Shoah per ricostruire la verità su quanto è accaduto, va attribuita alla memoria dei superstiti. In un’epoca come quella che viviamo in cui, mentre Auschwitz sta al centro della memoria collettiva occidentale, si avvicina l’ora dell’ultimo testimone (Bidussa, 2009), per i sopravvissuti dei Lager raccontare l’esperienza della deportazione è sempre più un dovere morale e civico in quanto far conoscere alle nuove generazioni quel terribile passato può aiutare a evitare che qualcosa di simile possa ripetersi.
Una duplice impellenza continua a spingere l’ex deportato a testimoniare: immediatamente dopo la liberazione dal Lager, quel bisogno violento ed elementare di “fare gli altri partecipi”: questo tormento spinse Primo Levi a partorire, «a scopo di liberazione interiore», Se questo è un uomo (Levi, 1979, p. 9)2; oggi, l’impellenza della fine: «semplicemente, con parole povere; ma bisogna parlare [...] perché siamo alla fine» (Semprún, Wiesel, 1996, p. 45)3 .
2. Ricordava Levi che durante la prigionia «la speranza di sopravvivere coincide insomma con la speranza ossessiva di far sapere agli altri, di sedere accanto al fuoco, attorno alla tavola, e raccontare» (Bravo, Jalla, 1986, p. 9).
3. Questa “impellenza della fine” è affermata anche da Primo Levi: «Noi superstiti siamo dei testimoni, ed ogni testimone è tenuto (anche per legge) a rispondere in
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Portare testimonianza di un’esperienza storica fondamentale del xx secolo è occasione di promozione sociale per l’ex deportato il quale ingaggia una lotta per la verità contro tutti gli “assassini della memoria” (Vidal-Naquet, 2008) – i nazisti che cercarono a ogni costo di nascondere e distruggere ogni traccia dello sterminio e i revisionisti che «dedicano pagine e pagine di acrobazie polemiche per dimostrare che noi non abbiamo visto quello che abbiamo visto, non vissuto quello che abbiamo vissuto» (Bravo, Jalla, 1986, p. 7).
Il testimone, mentre offre allo storico elementi qualitativi di conoscenza fattuale inaccessibili attraverso altre fonti, scompagina le sue carte, lo costringe a rivedere il suo metodo di lavoro (Traverso, 2006, p. 14). Prima di accoglierla nel suo archivio lo storico si chiede: fino a che punto la testimonianza dell’ex deportato è affidabile?
L’accoglimento delle testimonianze orali e scritte nell’archivio (deposito che cataloga le tracce del passato per consegnarle alla memoria futura) impone allo storico uno sforzo critico volto ad avvalorarne l’attendibilità.
Quello testimoniale è un materiale tanto prezioso quanto delicato, da accettare con riserva ed esaminare criticamente poiché proviene da una fonte sospetta, la memoria del deportato. Si sa i ricordi con il tempo si deteriorano, si fanno più sfocati e stilizzati. Tanto più se riguardano esperienze estreme, di violenze e offese subite. Esperire qualcosa nel dolore può falsare la percezione di una scena vissuta, la sua registrazione mnemonica fino a intaccarne la restituzione nel racconto4. Il resoconto del superstite è “debole” perché manca di una visione d’insieme del Lager – gli è stato infatti impossibile distanziarsi dagli avvenimenti di cui è stato vittima – e perché grava sul suo cuore un senso di vergogna per essere vivo al posto di un suo compagno. Lottando contro l’incredulità e la voglia di dimenticare, incapace di spogliarsi dell’inumanità che ha vissuto sulla propria pelle, di liberarsi dell’estraneità che ha generato l’orrore, il sopravvissuto incarna la «crisi della testimonianza dopo Auschwitz» (Ricouer, 2003, p. 250).
modo completo e veridico: ma si tratta per noi anche di un dovere morale, perché le nostre file, esigue da sempre, si stanno assottigliando» (Levi, 2009, p. 1352).
4. Quanto ai ricordi di esperienze estreme, Primo Levi nota come «il ricordo di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore» (ivi, p. 1007).
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Questa crisi si trasferisce nello spazio pubblico del confronto dove variano le reazioni rispetto ai limiti delle testimonianze dei sopravvissuti. Il negazionista, insofferente all’imprecisione testimoniale dice: «le camere a gas non sono mai esistite, non c’è mai stato lo sterminio» e va alla ricerca della matrice comune di tutti gli errori al fine di costruire «un edificio fatto di frammenti di testi e di congetture che si spacciano per verità assolute» (Pisanty, 1998, p. 170). Il filosofo postmoderno dice: «qui vi è un dissidio, un’impossibilità nel linguaggio stesso di articolare stabilmente qualcosa, come l’esistenza delle camere a gas, che sta al di fuori dell’esperienza comune» (Lyotard, 1985) e avverte: «non potendo testimoniare integralmente in vece del sommerso, il superstite sta testimoniando l’intestimoniabile» (Agamben, 1998). Contro il sospetto programmatico del negazionista e lo scetticismo del filosofo ricorda lo storico: «non scartare una testimonianza solo perché è problematica [...] se lo storico dovesse attendere la prova perfetta, probabilmente si scriverebbe molto poco di storia» (Browning, 2011c, p. xx) mentre riaffiorano le voci dei “testimoni integrali”, alcuni membri del “commando speciale” di Auschwitz, i quali parlando dall’epicentro dell’orrore, la camera a gas in cui hanno lavorato, strappano il velo gettato per coprire il più terribile dei segreti nazisti (Müller, 1999; Venezia, 2007; Saletti, 1999).
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Il male avanza pensosamente e sconsideratamente; pieno di significato e privo di senso; da solo e in compagnia; di proposito e in modo fortuito; misurato ed ebbro; con e senza compunzione. Incendia i confini nazionali, ma non sarà confinato dai caratteri nazionali. Si trova e viene insegnato. È monocausale e multicausale. Non sarà messo alle corde a lungo, in teoria o in pratica. Non sarà esaurito da alcuna delle sue espressioni. È di per sé la prova di quell’aspetto della vita umana da cui si ha più da temere che è l’aspetto dell’universalismo.
Leon Wieseltier
5.1
Propedeutica allo studio dei carnefici
Chi uccise gli ebrei? Perché lo fece? Perpetratore (dall’inglese perpetrator) è «chiunque ha partecipato a un attacco contro un civile con lo scopo di ucciderlo o di infliggerli gravi lesioni» (Strauss, 2004, p. 87), da solo o in forza a un gruppo.
Suddividiamo i carnefici in quattro categorie disomogenee: gli ideologi, come gli intellettuali ss in forza al sd e al rsha; i professionisti e gli esperti supposti apolitici che condivisero determinati obiettivi con il regime nazista; gli “uomini comuni” capaci di uccidere “faccia a faccia” civili inermi; i burocrati e i funzionari di basso e medio livello tenuti a distanza dalle conseguenze fisiche e morali delle loro azioni dalla divisione del lavoro (Browning, 2011b, pp. 1-3).
L’intrinseca complessità caratteriale, la varietà delle dinamiche collettive e dei contesti d’azione rendono vano pensare che vi sia stato un unico motivo, bensì diversi che si sovrapposero. Disposizione personale o fattori situazionali, cosa contò di più? La sintesi “interazionista” – terza via rispetto agli approcci situazionale e disposizionale (Blass,
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5
Carnefici: uomini ordinari, male straordinario
1993) – propone di integrare fattori endogeni ed esogeni, analisi dei tratti biografici e dei contesti di socializzazione ed esposizione diretta alla violenza estrema. Erano i carnefici “pazzi”, esecutori privi di coscienza di quanto facevano o estremamente lucidi e convinti di fare la cosa giusta? La ricerca sui colpevoli che si sforza di spiegare i comportamenti dei carnefici dovrebbe rifuggire dalla trappola della demonizzazione dei perpetratori. Così come si dovrebbe evitare di normalizzare i crimini e di esonerare i carnefici dalle loro responsabilità. Qualsivoglia tentativo di comprendere gli attori diretti del genocidio riposa sulla ricostruzione storica degli avvenimenti. Quanto più essa è minuziosa tanto più attentamente si discende nell’abisso di violenza che avviluppa il carnefice, nel «passaggio all’atto» (Sémelin, 2007).
La storia tuttavia non è sufficiente per comprendere. La psicologia della personalità che aiuta a capire il singolo e la psicologia sociale che studia i comportamenti delle persone nelle interazioni di gruppo, presupponendo che il male non sia un fenomeno eccezionale e demoniaco compiuto da persone per natura malvagie ma che trae origine da processi psicologici ordinari (Ravenna, 2004, p. 264), sono risorse preziose. Assassini difficilmente si nasce; con il tempo e una certa esperienza si diventa génocidaires (termine francese utilizzato presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda per qualificare i carnefici Hutu). La discesa nel crimine di massa non è qualcosa che avviene nottetempo, vi si arriva per radicalizzazioni progressive (Mann, 2005, p. 192) nel contesto in cui si agisce dove uccidere diventa la norma.
5.2
Uomini comuni: modelli esplicativi
La più cospicua quota di tedeschi ordinari (di ogni estrazione sociale, tra i 16 e i 55 anni) implicati in crimini di guerra e di genocidio è rappresentata dai 20 milioni di soldati che prestarono servizio nella Wehrmacht, dei quali 13 combatterono sul fronte orientale (Bartov, 2003, pp. xx)1. Il personale ss che gestiva i centri dell’“operazione Reinhard”
1. L’interesse storiografico per gli “uomini comuni” è stato stimolato dalla pubblicazione di Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia (1992) e per i “tedeschi comuni” da quella di I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto (1996). Il dibattito fra i due autori sugli uomini del battaglione di polizia 101 è culminato nel simposio dell’8 aprile 1996 tenuto all’us Holocaust Memorial Museum.
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era composto di «persone assolutamente ordinarie» prive di qualità o caratteristiche eccezionali (Arad, 1999, p. 198). Comune è un attributo che non possiede un significato univoco per chi lo usa: per Christopher Browning i riservisti del battaglione 101 sono «uomini comuni» alla luce delle loro caratteristiche socio-politiche, per Daniel J. Goldhagen gli esecutori sono «tedeschi comuni» perché rappresentano una vasta maggioranza nazionale di «volonterosi esecutori di Hitler» (Goldhagen, 1996). All’apparenza la composizione degli “uomini comuni” del battaglione di polizia d’ordine 101 di Amburgo non dava l’impressione di uomini capaci di uccidere 38.000 ebrei e di caricarne sui treni per Treblinka altri 45.000 come poi in effetti avvenne. Si trattava infatti di poliziotti semplici che appartenevano alle classi inferiori, troppo vecchi per l’esercito, di formazione sociale avvenuta in epoca prenazista, dei quali solo un quarto era iscritto al partito nazista. Come è stato possibile per questi uomini trasformarsi in assassini professionisti?
Quattro modelli teorico-sperimentali spiegano i crimini degli “uomini comuni”: obbligo di obbedire agli ordini superiori; personalità autoritaria; abnormità culturale tedesca; approccio sociopsicologico.
La prima spiegazione, utilizzata dagli imputati ai processi di Norimberga, così riassunta «sono stato costretto a uccidere in ottemperanza agli ordini dei miei superiori» è invalidata dalle testimonianze dirette dei perpetratori che dimostrano come ci si poteva sottrarre agli ordini senza essere puniti (Klee, Dressen, Riess, 1990).
Nel 1950 Adorno e colleghi proposero la personalità autoritaria, un modello teorico-sperimentale di sindrome di personalità “dormiente” che presentava i seguenti tratti: sottomissione all’autorità, rigidità di pensiero, tendenza alla superstizione, intolleranza all’ambiguità, moralità convenzionale, rifiuto della debolezza e dell’anticonformismo, ostilità verso l’estraneo e avversione all’introspezione; tratti che emergevano a seguito della repressione di un risentimento nutrito verso genitori rigidi e punitivi e che si attivavano grazie a processi di selezione e auto-selezione dei soggetti entro contesti in cui certe attitudini sociopolitiche e credenze risultavano coerenti con i leader, le politiche e i partiti anti-egualitari. Una scarsa considerazione dei fattori sovra-individuali ed extra-individuali (Levi Martin, 2001) ha viziato la costruzione del modello che sottovaluta il dato empirico che molti “uomini comuni” furono scelti casualmente ed educati alla violenza nell’appartenenza a un gruppo piuttosto che sulla base di caratteristiche persona-
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li (Browning, 2011b, p. 5). La conclusione di Bauman, «il nazismo fu crudele perché furono crudeli i nazisti, i nazisti furono crudeli perché le persone crudeli tendevano a diventare naziste» (Bauman, 2010a, p. 213) riassumendo quanto scoperto da Adorno e colleghi evidenzia come questo tipo di spiegazione abbia spiegato poco e confortato molto chi ha preferito tenere una distanza di sicurezza dal comportamento criminale dei nazisti senza considerare l’eventualità di comportamenti autoritari fra individui privi di quella personalità.
Il paradigma dell’abnormità culturale tedesca è stato declinato secondo la tesi della “via speciale” alla modernizzazione e alla democratizzazione seguita dalla Germania nel xix secolo e secondo quella dell’antisemitismo sterminazionista proposta da Goldhagen. Queste due prospettive esplicative hanno il difetto di fondarsi su un latente pregiudizio culturale riferito a un canone democratico e morale europeo-occidentale: la Germania e il nazismo sono corpi estranei, deviazioni dal giusto corso democratico-liberale. I collaborazionisti francesi, ucraini, lituani, ungheresi furono anch’essi guidati dall’ideale sterminazionista tedesco? La tesi di Goldhagen è «un ottimo tranquillante per le scosse coscienze democratiche del Novecento»
(Zamperini, 2001, p. 7). L’approccio sociopsicologico, che enfatizza i tratti universali del comportamento umano spostando l’attenzione dall’aberrazione individuale e culturale ai fattori situazionali, organizzativi, istituzionali operanti all’interno di una dinamica di gruppo, si è sviluppato a partire dagli esperimenti sulla conformità di gruppo, l’obbedienza all’autorità e l’adattamento al ruolo.
Lo psicologo Salomon Asch con l’esperimento sulla “conformità” (Asch, 1956) studiò l’influenza che può esercitare un gruppo di “soggetti complici” che formulano un giudizio contrario rispetto a quanto è esperibile con la vista, sul singolo “soggetto critico” nel valutare a quale di tre linee disegnate su un cartone corrisponde un’altra singola disegnata su un supporto distinto. Questa influenza incise sul 33% dei giudizi, in 25 dei 31 soggetti critici2. Tra le diverse motivazioni che Browning adduce per spiegare il comportamento dei riservisti del bat-
2. Vanno considerate le variabili situazionali del grado di influenza esercitata e di acquiescenza al gruppo come il rapporto numerico tra soggetto critico e complice (con 1:1 non vi è conformità, con 1:3 si raggiunge il massimo) e l’ingresso di soggetti dissenzienti, che esprimendo giudizi concordanti col soggetto critico, infrangevano l’unanimità di giudizio fra i complici.
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taglione 101 vi è la conformità verso il gruppo, nel suo gioco di reciproco rafforzamento con l’obbedienza all’autorità.
Stanley Milgram compie a Yale nel 1961 un esperimento sull’obbedienza all’autorità che più di ogni altro influenzerà l’approccio psicosociale alla Shoah (Milgram, 2003). Con questo esperimento, che coinvolse americani comuni di New Haven, suddivisi in “insegnante” (soggetto ignaro) e “allievo” (finta vittima), fatti accomodare in due stanze contigue, Milgram mirava a studiare le reazioni dell’insegnante, sotto la guida e il controllo dello “sperimentatore”, un uomo in camice bianco da medico che impersonava l’autorità scientifica. L’insegnante faceva le domande ed era incaricato di rilasciare a ogni errore una scossa elettrica (in realtà finta) di potenza progressiva (da 50 a 450 volt) sull’allievo a cui erano stati applicati degli elettrodi sul corpo. Nonostante le urla (fittizie, solo registrate) dell’allievo sofferente, due terzi degli insegnanti continuarono a punire l’allievo fino al massimo di scarica elettrica. Per Milgram, che attribuisce quest’abnegazione non a sadismo o a perversione, ma all’incapacità dell’insegnante di uscire dallo “stato eteronomico”, condizione di subalternità psicologica all’autorità scientifica impersonata dallo sperimentatore3, questo è il principale insegnamento da trarre: «gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e che non è motivata da nessuna particolare aggressività può da un momento all’altro rendersi complice di un processo di distruzione» (ivi, p. 7).
Per Browning «molte delle intuizioni di Milgram trovano conferma nel comportamento e nella testimonianza degli uomini del battaglione di polizia 101» (Browning, 2004, p. 179). Milgram vedeva all’opera un comune processo psicologico nel suo laboratorio e durante la Shoah, la caduta nello stato eteronomico, il fatto che gente normale smettesse di considerarsi un elemento responsabile nella catena degli avvenimenti che determinano la sofferenza di un individuo, altresì riconosceva anche le enormi differenze tra i due contesti (Milgram, 2003, p. 164): l’esperimento in laboratorio durava un’ora, i massacri di ebrei si protrassero dal 1941 al 1945, differenza questa che implicava
3. Bisogna aggiungere che la capacità di disobbedire allo sperimentatore, che incoraggia l’insegnante ad andare avanti con l’esercizio nonostante il conflitto interiore, varia con il modificarsi della relazione spaziale tra sperimentatore, insegnante e allievo: quanto più l’allievo è posto in prossimità dell’insegnante tanto più riesce a controbilanciare il potere d’ordine dello sperimentatore.
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una più profonda interiorizzazione dell’autorità col passare del tempo. Diversamente dalla Shoah, l’esperimento in laboratorio fu privo di conseguenze per le vittime. La percezione del male che si stava infliggendo era diversa: chi è coinvolto nello sterminio sa di uccidere o di dover uccidere ancora, all’insegnante viene garantito dallo sperimentatore che non infliggerà danni fisici permanenti all’allievo. Chi assume il ruolo di insegnante non ha bisogno di disumanizzare gli allievi che non considera non degni di appartenere all’umanità in quanto elementi nocivi da eliminare. Il travaglio interiore vissuto dai soggetti sperimentali, esperito anche da molti carnefici nazisti sul fronte orientale, contrasta fortemente con le ricorrenti esplosioni di sadismo durante la Shoah (Waller, 2002, p. 107).
Vi è un irriducibile divario morale e psicologico fra i soggetti sperimentali di Milgram e coloro che presero parte alle uccisioni di massa di ebrei. Questo tuttavia non impedisce di riconoscere che «Milgram ci ha insegnato qualcosa di profondamente rivelatore sulla natura umana – su noi stessi – che non sapevamo prima: quanto potente è la nostra propensione ad obbedire ai comandi di un’autorità anche quando questi comandi possono confliggere con i nostri principi morali» (Newman, Erber, 2002, p. 104).
Nel 1971 Philip Zimbardo effettuò un esperimento sull’adattamento al ruolo (Zimbardo, Haney, Banks, 1973) che coinvolse 24 studenti dell’università di Stanford (maschi, di ceto medio, tra i più equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti) divisi tra detenuti e guardie rinchiusi in una prigione. Per via degli evidenti sintomi di disgregazione individuale e di gruppo tra i detenuti causati dal comportamento vessatorio delle guardie, questo esperimento fu interrotto dopo una settimana a fronte delle due previste. Per Zimbardo, «il valore dell’esperimento della prigione di Stanford risiede nel dimostrare che il male che brave persone possono essere facilmente indotte a fare ad altre brave persone in un contesto di ruoli, regole e norme socialmente approvate con un’ideologia legittimante e un supporto istituzionale trascende l’azione individuale» (Blass, 2000, p. 194).
Una sorprendente corrispondenza quantitativa e qualitativa è stata colta da Browning tra il comportamento delle guardie e quello dei riservisti del battaglione 101, specificatamente tra i sempre più entusiasti assassini che si offrirono volontari nelle esecuzioni e nella caccia all’ebreo e le guardie dure e crudeli che inventavano nuove molestie
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godendosi il potere dell’arbitrio (circa 1/3), tra i poliziotti che parteciparono alle fucilazioni e alle evacuazioni dei ghetti, senza cercare altre occasioni per uccidere, astenendosi talvolta dagli ordini di uccidere e le guardie dure ma corrette che si attenevano al regolamento (circa 50%), tra i riservisti che si rifiutarono di uccidere nascondendosi e le due guardie passive che raramente esercitarono un controllo coercitivo sui detenuti (tra il 10% e il 20%) (Browning, 2004, p. 175).
Per Goldhagen i riservisti concordavano senza eccezioni sulla giustezza dell’impresa omicida. Il loro contatto con gli ebrei era mediato da una monumentale barriera cognitiva e psicologica che impediva loro di riconoscere l’umanità delle loro vittime. Essi si distinsero in sadici macellai, assassini zelanti ma indecisi, carnefici convinti ma poco propensi all’autocelebrazione e omicidi consenzienti ma rosi dall’incertezza e dai conflitti interiori (Goldhagen, 1996). Per Goldhagen diventare carnefici per questi uomini fu un fatto spontaneo, conseguente all’odio viscerale provato per gli ebrei. Secondo Browning, ben consapevole che ogni tentativo di spiegare un fenomeno così complesso può indulgere a una certa arroganza, diventare assassini richiese di scavalcare barriere morali a prima vista invalicabili, superare risentimento, rabbia, demoralizzazione, senso di orrore e di vergogna abusando di alcolici, maturando un senso di distacco derivato da certi accorgimenti logistici conformandosi al gruppo in un diluvio di propaganda razzista e antisemita.
I crimini dei milioni di “tedeschi comuni” della Wehrmacht vanno considerati rispetto al contesto bellico del fronte orientale. Una “guerra di sterminio” altamente ideologizzata tra due visioni del mondo incompatibili, quella ariano-nazista e quella giudeo-bolscevica, combattuta all’ultimo sangue per l’estirpazione del giudeo-bolscevismo e la conquista dello “spazio vitale” in spregio alle regole della legge marziale internazionale. Gli “ordini criminali” emanati dall’Alto comando della Wehrmacht (okw) e dall’Alto comando dell’esercito tedesco (okh) furono «la causa più diretta per le azioni criminali dell’esercito tedesco ad Est» in un contesto di progressiva «barbarizzazione» del conflitto (Bartov, 2003, p. 106). Gli “ordini criminali”, una martellante propaganda che insisteva sull’equazione ebreo-partigiano (Heer, 1997) e una fede cieca nel Führer convertirono un consenso antisemita già esistente tra i soldati regolari e una potenziale mentalità omicida in azione (Heer, Manoschek, Pollak, Wodak, 2008).
5. carnefici:
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L’evoluzione della dinamica delle uccisioni di ebrei, dal supporto passivo all’emanazione di ordini per prendere l’iniziativa, all’accettazione degli eccessi dei pogrom scatenati dai gruppi antisemiti locali fino alla routine quotidiana delle cacce all’ebreo-partigiano durante l’occupazione militare, fu legata a fattori situazionali quali la necessità di rispondere ai massacri perpetrati dai sovietici prima dell’occupazione tedesca, l’esigenza di vendicare le perdite subite sul campo di battaglia e di garantire la sicurezza dei luoghi in via di pacificazione sopprimendo ogni traccia di resistenza partigiana e le politiche di sistematico affamamento delle popolazioni locali adottate dall’amministrazione occupante.
5.3
Einsatzgruppen
e intellettuali ss
Una significativa spinta in direzione della transizione al genocidio sul fronte orientale venne data dalle quattro unità di intervento mobili di massacro operanti in appoggio alla Wehrmacht agli ordini del rsha.
In Unione Sovietica l’impiego delle unità di intervento va collocato nel quadro normativo stabilito degli ordini criminali, nella fattispecie dall’ordine emanato il 2 luglio 1941 da Heydrich. Nelle unità mobili le posizioni di comando erano occupate da un particolare tipo di persona: «lo specialista, un uomo con una certa formazione teorica (spesso una laurea in legge) e un’esperienza pratica all’interno dell’apparato di polizia, dedito all’ideologia nazionalsocialista, un radicale che agisce di convinzione» (Longerich, 2010, p. 186). Il personale dirigente delle “unità operative” era «rappresentativo di un gruppo di giovani attivisti che dominano i quadri dirigenti del rsha» (Wildt, 2009, p. 273). Altamente istruiti, ferventi militanti di destra all’università che aspirano a costruire un nuovo Reich, convinti della necessità della preservazione razziale del popolo tedesco, questi “intellettuali ss” che incarnavano una “generazione senza compromessi”, furono artefici di un discorso ideologico inflessibile le cui conseguenze ultime sfociarono nell’“azione a est”.
I primi massacri di ebrei, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1941, paiono rispondere a una logica difensiva e preventiva, in risposta a supposti attacchi civili alle unità tedesche in avanzamento e come
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rappresaglia per gli attacchi delle truppe sovietiche in ritirata. La scoperta dei cadaveri dei nazionalisti ucraini uccisi dai commissari sovietici scatena pogrom, tacitamente supportati dalle “unità operative” e giustifica massicce operazioni di rappresaglia contro gli ebrei. L’ordine di Heydrich diede carta bianca alle varie unità per assassinare gli ebrei e un certo margine di manovra ai comandanti delle unità. Nelle prime settimane tre furono le ragioni che motivarono le fucilazioni di massa: rappresaglia, sciacallaggio, sostegno ai partigiani (Longerich, 2010, p. 204). Non tutti furono capaci di sparare, di sopportare il contatto diretto con le vittime, la vista dei corpi e del sangue, c’era chi restava fortemente scosso da ciò che faceva (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il primo confronto con la fucilazione generava una sofferenza psichica, un effetto deprimente sui tiratori. Da qui il ricorso a espressioni eufemistiche quali “funzionari bolscevichi”, “simpatizzanti comunisti”, “agenti”. A contenimento di questa sofferenza intervennero i quadri delle unità mobili adottando strategie di spartizione delle fucilazioni.
A Norimberga Otto Ohlendorf, comandante del Einsatzgruppen D, dichiara sotto giuramento: «Nel gruppo D non ho mai autorizzato fucilazioni compiute da singole persone, anzi ho ordinato che a sparare fossero parecchie persone insieme, onde evitare una personale, diretta responsabilità. I capi delle unità o persone designate dovevano scaricare l’ultima pallottola sulle vittime ancora vive» (cit. in Gigliotti, Lang, 2005, p. 182). Queste procedure erano finalizzate a distanziare la vittima dal carnefice, a collettivizzare il gesto di violenza e a deresponsabilizzare quest’ultimo per ciò che faceva. Con il tempo certi eufemismi lasceranno spazio a un più ampio ventaglio di motivi d’accusa per gli ebrei: incendio doloso, disseminazione di propaganda antitedesca, razzia, sabotaggio, rifiuto di lavorare, mercato nero, supporto ai partigiani, minaccia di epidemia. Si radicalizzano le interpretazioni degli ordini deliberatamente tenuti vaghi al momento della loro emanazione.
È l’inizio di un cambio di approccio delle unità operative: dal terrore antisemita volto a spegnere ogni tentativo di resistenza tra la popolazione maschile ebrea si passa a una politica di distruzione etnica generalizzata. Il cambiamento della scala dei massacri modifica il modus operandi dei commando. Vengono alterate le procedure di esecuzione: dal modello da Corte marziale per schiere, mantenuto da Ohlendorf, si passa a una razionale divisione dei compiti nelle uccisioni per impilamento dei corpi nelle fosse comuni. I massacri sono estesi a intere co-
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munità, donne e bambini (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il presupposto di questa svolta paradigmatica sta in un cambio di percezione del problema ebraico legato a una modificazione delle condizioni sul campo: le fughe in massa degli ebrei verso est, il declino dei pogrom, la necessità di sfruttare la forza-lavoro abile ebraica, la carenza di derrate alimentari invalidano la politica securitaria (Longerich, 2010). Due ragioni principali favorirono la transizione al genocidio: l’armoniosa cooperazione tra unità operative e Wehrmacht durante le prime cinque settimane della campagna sovietica e la necessità di intensificare le misure di terrore sulla popolazione civile, in special modo nei confronti degli ebrei sovietici “pilastri del sistema giudeo-bolscevico” (Kay, 2013).
Il consenso al massacro degli uomini delle unità operative venne costruito sulla base dell’elaborazione, da parte dei quadri delle unità, di un discorso di legittimazione della pratica genocidaria ottenuto dalla fusione di una linea argomentativa di ordine utopistico, che presentava il genocidio come la condizione sine qua non per la germanizzazione dei territori occupati, e una linea paranoico-difensiva che, presentando il genocidio come un’azione difensiva, mobilitava l’angoscia escatologica che opprimeva gli uomini al fronte facendo appello alla figura disumanizzata del nemico (Ingrao, 2012, p. 356). Questo consenso si incrinò a causa dei traumi psichici ma non si infranse grazie all’attenuazione dei gesti della violenza, alla routinizzazione e all’assuefazione al crimine, all’appoggio di unità ausiliarie autoctone e all’uso dei camion a gas.
In questo generale consenso permasero forti differenze tra i capi delle unità operative: tra Erwin Schulz, «incapace di fare il salto da capo antibolscevico della Gestapo ad assassino razzista che uccide donne e bambini», Martin Sandberger, «studente modello dell’Ufficio centrale», Erich Ehrlinger, «perpetratore ideologico perduto nell’abisso del proprio compito» (Wildt, 2009, pp. 305-6).
5.4 Medici
Macchiandosi di orribili crimini, circa 350 medici tedeschi, sotto il Terzo Reich, deliberatamente violarono il principio fondamentale del codice deontologico, noto come giuramento di Ippocrate, che
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comanda «per prima cosa, non nuocere» (primum non nocere). Gli esperimenti medici e il programma di distruzione delle “vite indegne di essere vissute”, assieme alla legge sulla sterilizzazione e alle leggi di Norimberga, hanno fatto parte di un complessivo programma di pulizia razziale medicalizzata ispirato dall’adozione nazista delle misure di medicina preventiva per la preservazione del “plasma germinale tedesco” proposte dalla scienza dell’“igiene razziale” ampiamente radicata nella cultura scientifica tedesca prima del 1933 (Proctor, 1988).
Il ruolo attivo avuto dagli scienziati e dai medici nei vari programmi di pulizia razziale traeva fondamento dall’affinità ideologica tra medicina e nazismo venuta a crearsi con l’importazione della retorica eugenista della “degenerazione della razza” e della “selezione del più adatto” nel nazionalsocialismo e con l’attrazione suscitata nei medici dall’importanza attribuita alla razza nella visione del mondo nazista e dallo sforzo di biologizzare e medicalizzare i problemi sociali (Annas, Grondin, 1992, p. 27).
Nel corso dell’operazione T4 medici e psichiatri lavorarono in speciali reparti d’ospedale per bambini e adulti disabili, selezionarono le vittime e le uccisero con overdose di medicinali comuni. Nei centri di sterminio, dove invece le uccisioni dei disabili avvenivano mediante camera a gas, i medici supervisionarono la registrazione delle vittime, controllarono le cartelle mediche, somministrarono il gas, dichiararono l’avvenuto decesso, parteciparono alla spoliazione dei corpi, fecero autopsie tenendo lezioni a giovani studenti, estrassero organi che inviarono a istituti di ricerca. In generale vennero impiegati medici molto giovani che raramente si rifiutarono di fare questo lavoro. Tra questi, una figura in continua ascesa fu quella dell’austriaco Irmfried Eberl, medico capo nei centri di Brandeburgo e Benburg, poi primo comandante del centro di Treblinka, la cui motivazione pare essere stata prima di tutto «ideologica, sebbene fosse anche un’importante opportunità di lavoro per il futuro» (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).
Ad Auschwitz, dove l’ufficio dei medici ss era responsabile dell’assistenza sanitaria del personale ss, della prevenzione delle epidemie e del servizio medico per gli internati, i medici ss furono complici nel crimine mantenendo condizioni igieniche al di sotto della norma, scarse razioni di cibo e atroci condizioni di lavoro. Sebbene non tutti, molti inflissero inumane punizioni corporali e praticarono iniezioni mortali agli insubordinati e ai malati. Gli ufficiali medici – medici,
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dentisti, farmacisti – parteciparono alla selezione sulla rampa di Birkenau all’arrivo dei convogli di ebrei. Auschwitz fu anche il principale laboratorio di sperimentazione umana. Due medici, il dott. Carl Clauberg e il dott. Horst Schumann rivaleggiarono per sterilizzare quante più donne ebree possibile, l’uno praticando iniezioni intrauterine, l’altro attraverso radiazione ed esportazione dei genitali, metodi ugualmente mortali. Hermann Langbein, detenuto tedesco a Dachau e ad Auschwitz, segretario per due anni del capo medico di presidio, il maggiore ss Eduard Wirths, ha distinto tre tipi di medici ss: quelli che con riluttanza parteciparono alla macchina della distruzione, quelli che eseguirono gli ordini imperturbabilmente, quelli che di propria iniziativa andarono oltre gli ordini impartiti (Langbein, 1990, p. 334).
La più impressionante personificazione del primo tipo è il dott. Friedrich Entress il quale introdusse nell’infermeria iniezioni letali di fenolo, che portarono a un centinaio di morti al giorno, e iniettò sangue infetto da tifo su pazienti sani per vederne le reazioni. L’altro caso paradigmatico è quello del dott. Josef Mengele, scienziato dotato, ossessionato dalle questioni della razza, stacanovista, arrogante e ambizioso, che si distinse per la durezza con cui combatté il tifo, la fermezza con cui condusse le selezioni sulla “rampa degli ebrei”, l’ardore con cui andava in cerca di gemelli ai quali, nella convinzione di poter migliorare la razza, cambiò la pigmentazione degli occhi iniettando colori diversi. Mengele, che aderì all’ideologia razziale ed eugenica nazista «combinò l’impegno ideologico all’avanzamento accademico» (Nicosia, Huener, 2002, p. 73).
Al terzo tipo appartiene il dott. Wirths che, a differenza della maggioranza dei medici ss, si lamentava spesso perché non riusciva a conciliare quanto richiesto negli ordini e la sua coscienza di medico. In confidenza rivelò i suoi scrupoli rispetto all’intera operazione di sterminio degli ebrei e talvolta si oppose alle selezioni di pazienti affermando che non si trovava lì per fare selezioni ma per curare i malati. Influenzato dal movimento di resistenza politica interna al campo, Wirths assegnò a medici detenuti posizioni chiave. Il dott. Wirths incarna il conflitto “guarigione-uccisione”, la dicotomia tra l’uomo onesto, corretto e l’organizzatore del sistema di morte (Lifton, 2003, pp. 384-408). Fu un “killer situazionale” che trovandosi ad Auschwitz non rifiutò di fare il suo lavoro, partecipò alle uccisioni più per spirito di lealtà alle ss che per ragioni ideologiche (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).
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È stato sostenuto che «la maggior parte di quelli che parteciparono lo fecero perché credevano che fosse la cosa giusta da fare» (Lafleur, Böhme, Shimazono, 2008, p. 65) e che «i medici agendo in queste situazioni non erano privi di valori. I loro valori erano chiari (supremazia nordica, misure estreme richieste dalla guerra totale, gli ebrei come parassiti ecc.) e agirono conformemente ad essi» (Annas, 1992, p. 26).
5.5
Diventare génocidaire: Adolf Eichmann, Rudolf Höss, Franz Stangl
Dopo la conferenza di Wannsee (gennaio 1942) Eichmann diventa funzionario competente per la soluzione finale. Dal suo ufficio in Kurfüstenstrasse 116 a Berlino, coadiuvato dagli uomini del suo staff, egli fa tutto quanto è necessario per deportare gli ebrei dei vari paesi d’Europa nei centri di sterminio della Polonia. Paradigmatica personificazione del killer da scrivania, del burocrate moderno sine ira ac studio, Eichmann è per Hannah Arendt l’incarnazione perfetta della «banalità del male», dell’incommensurabilità fra un crimine senza precedenti e l’insignificanza di chi lo commise. Una persona normale che con grande zelo e meticolosità spedì milioni di persone verso la morte, del tutto privo di motivazioni eccetto quella di curarsi attentamente della sua carriera, un incosciente che, privo di immaginazione, mai comprese quel che stava facendo (Arendt, 2009). Secondo questa formula banale non è il male – la deportazione e lo sterminio degli ebrei –, che fu anzi radicale, ma l’uomo che lo commise: ordinario, comune come le sue motivazioni. Con questa destabilizzante intuizione Arendt sottrae al male profondità demoniaca – non necessariamente chi fa il male prova odio, invidia, forti passioni – e getta luce su una strana interdipendenza espressa dall’individuo moderno, fra incoscienza, «scissione consapevole di se stesso» (Donaggio, 2013) e male. Arendt ci ricorda che «i perpetratori di genocidio e di omicidi di massa non sono fondamentalmente diversi da me e da te» (Waller, 2002, p. 106).
Se nella sua capacità di universalizzare il contrasto fra ordinarietà dei carnefici e straordinarietà del male il concetto di “banalità del
5. carnefici:
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uomini ordinari, male
male” appare difficilmente soppiantabile da un costrutto più penetrante, esso appare inappropriato rispetto alle nuove evidenze storiche acquisite sulla figura di Eichmann. Ci fu poco di banale in Eichmann e nei suoi ausiliari: «Eichmann e i suoi colleghi sapevano molto bene cosa stavano facendo ed erano completamente consapevoli che le loro attività sarebbero state considerate criminali dappertutto eccetto che nel proprio contesto politico. Le loro ragioni per partecipare all’omicidio dovevano essere state varie, ma era molto evidente che l’ideologia giocò un ruolo centrale. Desideravano creare un nuovo ordine mondiale dove non vi fossero ebrei» (Aschheim, 2001, p. 222). In considerazione della sua biografia Eichmann «non era un folle, e nemmeno un mero esecutore di ordini. Venne addestrato al genocidio e decise di mettere in atto ciò che aveva imparato» (Cesarani, 2006, p. 22). La chiave per comprendere Adolf Eichmann «non è nell’uomo, ma nelle idee che lo possedevano, nella società in cui tali idee circolavano liberamente, nel sistema politico che le diffondeva e nelle circostanze che le resero possibili. Ciò che Eichmann fece fu reso possibile dalla disumanizzazione degli ebrei, dall’interiorizzazione del popolo ebraico come astratta minaccia biologico-razziale e nemico politico e dalla disattivazione di ogni inibizione nei confronti dell’omicidio. Chiunque fosse stato sottoposto a processi simili avrebbe potuto comportarsi allo stesso modo, in uno Stato totalitario o in una democrazia» (ivi, p. 250).
Nella sua autobiografia Rudolf Höss consegna ai posteri il suo ritratto di comandante di Auschwitz (Höss, 1997). Höss era un uomo mediamente capace che vestì per tre anni i panni dell’efficiente tecnocrate dello sterminio, facendo gassare più di un milione di ebrei ad Auschwitz. Ecco un altro individuo ordinario capace di straordinari crimini. Come fu possibile? Höss non arrivò a guidare Auschwitz per caso, ma dopo un lungo apprendistato di violenza prima nella Grande guerra dove sentì di essere diventato uomo (ivi, p. 18), poi nei “corpi liberi” nel Baltico dove si trovò per la prima volta di fronte al raccapricciante spettacolo dei cadaveri carbonizzati o asfissiati di donne e bambini (ivi, p. 20) e nel Lager di Dachau dove imparò che ogni traccia di pietà verso i «nemici dello Stato», indegna di un ss che deve obbedire ciecamente a ogni ordine, è un segno di debolezza (ivi, p. 48).
Le scelte che Höss fece lungo la sua carriera risultarono dall’interazione tra un’etica del controllo di sé (Schroer, 2012) e della decenza
la shoah 70
(Welzer, 2004) e dall’adesione totale all’ideale nazionalsocialista e al cieco rispetto del principio d’autorità. Rispetto alla soluzione finale, l’atteggiamento di Höss rivela un profilo composito sul piano motivazionale: convinto antisemita quando afferma che «questo sterminio degli ebrei era veramente necessario affinché la Germania, affinché i nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro nemici più accaniti» (Höss, 1997, p. 135), banale e obbediente assassino quando, ricordando di aver ricevuto l’ordine di Himmler nell’estate del 1941 di allestire ad Auschwitz un campo di sterminio, scrive «non fui in grado minimamente di immaginarne la portata e gli effetti [...]. A quel tempo non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio dovere eseguirlo» (ivi, p. 127). Cercando di incarnare al meglio l’etica ss, sfoggiando un’ortodossia disarmante, Höss si rende prigioniero della sua stessa radicalità e delle sue scelte.
Questa la carriera genocidaria di Franz Stangl: dal novembre 1940 al febbraio del 1942 è sovrintendente di polizia all’istituto di eutanasia del castello di Hartheim, dal marzo al settembre 1942 è comandante di Sobibor, dal settembre 1942 all’agosto 1943 è comandante di Treblinka. Stangl ammette quanto ha fatto, riconosce le sue colpe, tuttavia non se ne sente responsabile, vittima di un destino cieco e ineluttabile in cui è stato strumento dei suoi superiori. Nel secondo giorno di intervista con la giornalista Gitta Sereny si sfoga, dicendo: «Li odio...Odio i tedeschi! [...] Sono loro che mi hanno spinto... Avrei dovuto suicidarmi nel 1938 [...]. Fu allora che cominciò tutto, per me. Devo riconoscere la mia colpa» (Sereny, 2005, p. 52). Nei momenti cruciali – l’arrivo ad Hartheim, a Sobibor e a Treblinka – si coglie in Stangl una sequenza di shock, riluttanza, adattamento al male. Egli trova sempre nuove motivazioni, escogita stratagemmi per vincere il rifiuto di coscienza e fare un salto a un livello superiore di radicalizzazione e di accettazione dei crimini. All’apice della carriera, a Treblinka, Stangl compartimentalizza la sua coscienza tra azioni di cui si sente responsabile, come l’amministrazione dei beni confiscati agli ebrei, e azioni di cui non si sente responsabile perché non ha avuto la possibilità di sceglierle liberamente, le operazioni di sterminio, per esempio. Per estraniarsi da queste ultime disumanizza le vittime che vede come bestiame, considera l’arrivo dei convogli e le gasazioni come mera routine, sprofonda nel lavoro e nell’alcol tenendosi alla larga da tutte quelle aree in cui poteva esserci un contatto
5. carnefici:
71
uomini ordinari, male straordinario
con le vittime. Stangl si dissocia dall’ambiente circostante, cade in una sorta di autismo per preservare la sua integrità morale (Welzer, 2004). Stangl diventa un génocidaire per via della fatale fusione del suo carattere e delle circostanze, perché manca di coraggio e forza morale per tirarsi fuori dal crimine e si identifica completamente con il tratto più spiccato del suo carattere, l’ambizione, che fa da ponte e spinta propulsiva verso il genocidio vincendo gli scrupoli morali (Kekes, 2005, pp. 47-64).
la shoah 72
Spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al
soccorso
Abbiamo un’infinita capacità di far bene e un’infinita capacità di far male. Siamo tutti schizofrenici.
Jan Karski
6.1
Una realtà di sfondo decisiva e dinamica
Le violenze sugli ebrei avvennero sotto gli occhi di 700 milioni di persone cadute sotto l’occupazione nazista che volenti o nolenti furono spettatori (dall’inglese bystanders) della sistematica distruzione degli ebrei. Sul piano individuale spettatori sono quelle «persone che assistono alle azioni dei perpetratori non subendone le conseguenze» (Staub, 1989, p. 86). Spettatori furono «coloro non “coinvolti” non disposti a far male alle vittime, non desiderosi a essere danneggiati dai perpetratori» (Hilberg, 1997, p. 5). Nello specifico «le agenzie e i governi neutrali, gli ebrei che vivevano in condizioni di relativa sicurezza, i paesi occupati, i tedeschi ordinari, e soprattutto i governi alleati» (Neufeld, Berenbaum, 2003). Sul piano etico lo spettatore è «un individuo che passivamente osserva una vittima in una situazione disperata senza intervenire anche se ha l’opportunità di andare in suo aiuto» (Edgren, 2012, p. 68). Gli spettatori sono in grado di influenzare le azioni dei perpetratori e degli altri spettatori durante l’evolversi delle violenze attraverso azioni esplicite, petizioni o manifestazioni pubbliche, o nascoste, forme di aiuto e di resistenza non violenta o armata (Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218). Gli spettatori stimolano la risposta degli altri astanti verso l’empatia o l’indifferenza (Newman, Erber, 2002, p. 27) e rispondendo con oltraggio e condanna alle atrocità possono rafforzare le norme morali contro il comportamento criminale (Staub, 1989, p. 87). Gli spettatori non si presentano come un’entità a sé stante, isolata e statica ma interrelata con vittime e carnefici nel quotidiano agire. Rispetto all’evolversi degli eventi essi reagiscono in modo dinamico, con comportamenti che oscillano fra gli estremi
73
6
della partecipazione diretta allo sterminio e del soccorso offerto alla vittima (Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218).
I confini fra spettatori, carnefici e vittime si confondono quando il soccorso e la complicità si distinguono a fatica dall’interesse privato e i valori di cura sono applicati selettivamente come nel generale caso del cittadino tedesco cattolico per cui il programma di eutanasia era immorale e la deportazione degli ebrei giusta. Durante la Shoah vi erano zone grigie, territori di indeterminatezza (Bajohr, 2006, p. 184) rispetto a cui la ricerca delle sfumature nello studio degli spettatori della Shoah è preferibile alle distinzioni manicheistiche (Cesarani, Levine, 2002). Gli spettatori si distinsero in interni ed esterni1 (Cohen, 2002, pp. 199-228), tra soccorritori che aiutarono i loro vicini ebrei, profittatori che si attivarono per trarre benefici materiali dalla loro spoliazione e spettatori tout court che in numero incalcolabile restarono a guardare ciò che accadeva (Hilberg, 1997, p. 205). A supporto diretto o indiretto del crimine nazista sono stati individuati dieci archetipi di spettatori della Shoah: l’opportunista, lo spettatore della strada, quello orientato ideologicamente, il carrierista, quello raziocinante istituzionalizzato, il professionista, il professionista illuminato, lo spettatore distaccato, il disprezzatore dell’“altro”, quello emotivamente coinvolto (Bar-On, 2001, pp. 139-43).
L’altra faccia della passività di chi sta a guardare convinto o meno della giustezza del trattamento riservato agli ebrei è il soccorso (dall’inglese rescue) alle vittime. Perché certe persone misero a rischio la propria vita, esposero le loro famiglie al pericolo della punizione delle autorità per salvare la vita di gente braccata, talvolta persino sconosciuta?
I significati delle categorie di soccorso e soccorritore sono stati influenzati dal titolo onorifico di Giusto tra le nazioni conferito dal memoriale ufficiale israeliano per le vittime ebree della Shoah Yad Vashem ai soccorritori non ebrei, a oggi 25.271 persone, in netta maggioranza polacchi e olandesi, rispettivamente 6.454 e 5.351. La Legge per il ricordo degli eroi e dei martiri (1953) che istituì il memoriale e la Commissione per la designazione dei giusti fece menzione dei «magnanimi gentili che rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei» ma non diede un’esatta definizione di chi è degno di ricevere il titolo. Procedendo con la valutazione dei
1. Spettatori interni erano i tedeschi comuni e tutti coloro che erano a conoscenza di atrocità e sofferenze esperite nelle società in cui vivevano. Spettatori esterni erano gli alleati, i media americani e britannici, il Vaticano, la Croce Rossa, le organizzazioni ebraiche mondiali, la leadership sionista in Palestina che ne erano a conoscenza seppure a distanza.
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singoli casi la Commissione in seguito stabilì criteri di riferimento come «estendere l’aiuto per salvare una vita, mettere in pericolo la propria vita, assenza di ricompensa monetaria, considerazioni simili che elevino le gesta del soccorritore al di sopra dell’aiuto ordinario» (Gutman, Zuroff, 1977, p. 628). Questi criteri tengono fuori coloro che salvarono gli ebrei per denaro (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 102) o chi agì per interesse politico, economico o sessuale. Tutti i “giusti” sono stati soccorritori, sebbene non tutti i soccorritori siano da considerare “giusti”. Per soccorso si può intendere «una serie di atti, nascosti o meno, che mirano a celare legalmente o fisicamente l’identità di una persona ricercata e/o a organizzare la fuga verso un luogo sicuro» (ivi, p. 5).
Quattro sono state le forme principali di aiuto. Dare rifugio, dissimulare (attribuire al fuggitivo un’identità fittizia attraverso un nuovo nome, un’altra storia personale, un differente certificato di nascita, una diversa residenza o un certificato di battesimo, oppure registrandolo come lavoratore presso una fabbrica bellica o attribuendogli la cittadinanza di un paese amico della Germania), facilitare lo spostamento e la fuga da un luogo all’altro, soccorrere i bambini separandoli dai genitori naturali (Paldiel, 2011, pp. 8-12). A queste se ne aggiungono altre minori d’assistenza e di protezione passiva (Paulsson, 1998, p. 43). I soccorritori non ebrei, chiamati “persone di buona volontà” o “buoni samaritani” erano dotati di una personalità altruistica (Oliner, Oliner, 1988), erano autonomi dall’ambiente sociale di residenza, indipendenti nella scelta, impegnati nella lotta per i bisognosi, avevano esperienza nel compiere atti caritatevoli e una tendenza a percepire l’aiuto agli ebrei in termini pratici, non si vedono come eroi né pensano di compiere atti straordinari, erano impulsivi e concepivano gli ebrei in termini universalistici (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 105). Oltre agli altruisti vi erano i soccorritori pagati, quelli antisemiti, cattolici devoti che aiutarono gli ebrei perché si sentivano responsabili della loro persecuzione e gli ebrei che salvarono altri correligionari in pericolo (ivi, pp. 106-12).
6.2
Spiegazioni del comportamento di spettatori e soccorritori
Ha contatto più la personalità o il contesto d’intervento nel comportamento di spettatori e soccorritori? Nello studio sui soccorritori vi è una biforcazione metodologica tra un orientamento prevalentemen-
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 75
te psicologico2 e uno storico di taglio socio-politico attento all’esame delle caratteristiche sociali e demografiche dei soccorritori, ai fattori situazionali e alle costrizioni esterne al soccorso. I due approcci esplicativi sono attraversati da un taglio sociopsicologico che fa interagire disposizioni personali e fattori situazionali.
Presupposto dell’approccio disposizionale e motivazionale è il sé, una personalità stabile nel tempo che presenta una caratteristica distintiva: l’altruismo. L’altruismo di cui dà prova chi soccorre gli ebrei è di una forma del tutto particolare perché è «ad alto rischio per la vita di chi soccorre, offre un aiuto duraturo nel tempo, esteso verso un gruppo di pariah destinati alla morte in un contesto di disapprovazione o in un clima sociale ambivalente» (Oliner, Oliner, 1988, p. 10). Lo spettatore si trasforma in soccorritore attraverso un processo di consapevolezza. A partire da un intimo nocciolo di valori e principi morali emerge un sé del soccorritore che tiene sotto controllo paure, pressioni e responsabilità e permette di fare tutto ciò che è necessario per salvare altre vite (Fogelman, 1994). L’apatia dello spettatore passivo è invece legata ai fenomeni socio-psicologici della “diffusione di responsabilità” e dell’“effetto spettatore” (la probabilità che una persona si prenda la responsabilità di intervenire è minore quanto più alto è il numero di spettatori presenti nella situazione d’emergenza) più che alle deficienze empatiche della personalità (Darley, Latané, 1968). Lo spettatore sensibile al bisogno d’aiuto si impegna nel soccorso solo quando gli si prospetta un’opportunità, una richiesta diretta d’aiuto e disponibilità di risorse (Fogelman, 1994; Oliner, Oliner, 1988). Inclusività e attaccamento sono i valori chiave dell’altruismo (Oliner, Oliner, 1988). Il soccorritore soffre di un’afasia argomentativa: alla domanda «perché l’hai fatto?» tipicamente risponde «era la cosa giusta da fare», «non avrei potuto vivere lasciando morire quelle persone» (de Benedittis, 2005). Vi sono stati soccorritori con motivi religiosi, umanitari, coinvolti nella resistenza, leali o pagati (Grunwald-Spier, 2010) e categorie
2. A sua volta distinto in approccio psicoeducativo, basato su psicologia, sociologia e scienze dell’educazione, che si focalizza sulle strutture di personalità, sulle influenze della prima infanzia e sulle motivazioni e studi sperimentali di tipo sociopsicologico volti a individuare variabili critiche facilitanti il comportamento d’aiuto (Darley, Latané, 1968) dell’orientamento psicologico. Per quanto concerne il mancato intervento dello spettatore passivo alcune teorie sociopsicologiche aiutano a spiegarne le ragioni della sua preminenza.
la shoah 76
motivazionali quali moralità, giudeofilia, ideologia antinazista, professionalità che ci aiutano a capire l’elemento innescante l’iniziale sforzo individuale d’aiuto (Fogelman, 1994).
L’approccio motivazionale tuttavia è debole perché non mette in discussione il legame tra motivazione e azione, tautologico poiché presuppone che «i soccorritori si comportarono altruisticamente perché erano altruisti»; inoltre puntare tutto sulla ricerca della motivazione porta a sottovalutare i dilemmi pratici come “chi dovrei aiutare?” e “a chi dovrei chiedere aiuto?” ingenerati nel soccorritore e nella vittima (Varese, Yaish, 2000).
L’approccio situazionale d’orientamento storico e socio-politico indaga le forme di governo presenti nei paesi dell’Europa nazista e i differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista (Marrus, Paxton, 1982), i rapporti fra popolazione ebraica e non ebraica prima della persecuzione, la relazione fra antisemitismo e atteggiamento della popolazione locale verso gli ebrei durante l’occupazione nazista (Gutman, Zuroff, 1977, pp. 617-25), il grado di controllo diretto esercitato a livello regionale, distrettuale e comunale dai tedeschi sugli apparati esecutivi, quello di successo nel coordinare le varie strutture sociali nei paesi occupati. Il soccorso è stato influenzato dalle culture locali, dalle tradizioni di lunga durata d’aiuto a vicini e ai viaggiatori in difficoltà e di resistenza all’autorità dello Stato (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 265-79). La richiesta diretta d’aiuto è decisiva per innescare il comportamento altruistico così come il ruolo dei mediatori tra le persone in stato di bisogno e i soccorritori (Varese, Yaish, 2000).
Nell’esperimento 13a dello studio di Milgram sull’obbedienza all’autorità i soggetti sperimentali, spettatori dell’invio di scosse agli “allievi”, si oppongono fisicamente o verbalmente al soggetto complice che veste i panni del “collega” zelante (Milgram, 2003, p. 93). La coesione tra gli astanti stimola l’aiuto e inverte il tipico effetto inibitorio causato dall’ampia dimensione di gruppo quando è saliente una norma di responsabilità sociale che prescrive l’assistenza in caso d’emergenza (Rutkowski, Cruder, Romer, 1983).
Diversamente da quanto si è pensato per lungo tempo, l’“effetto spettatore” non è rafforzato dall’allargamento del gruppo d’astanti ma è prodotto dall’assenza di un rapporto psicologico fra gli astanti mentre l’ampliamento del gruppo può inibire come incoraggiare l’intervento a seconda del modo in cui i membri del gruppo sono catego-
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 77
rizzati socialmente (Levine, Crowther, 2008). Il ruolo dello spettatore passivo nel corso di atrocità di massa può essere inquadrato nella prospettiva del “cambiamento della norma” (Welzer, 2004) nella società in cui avvengono le violenze. Teorie sociopsicologiche sul “cambiamento della norma” e sul “mutamento d’atteggiamento” mostrano strategie di reazione psicologica alle atrocità da parte degli spettatori. Nel processo dinamico che spinge una società verso il genocidio gli spettatori sono persuasi a svalutare e a delegittimare le vittime sullo sfondo di una situazione di vita quotidiana difficile in ragione dell’appartenenza a un “mondo giusto” (Godfrey, Loewe, 1975). La “risocializzazione” dello spettatore può lenire i sentimenti di colpa che prova per le vittime generando conformità e inazione e incoraggiando i perpetratori a commettere ulteriori atrocità (Staub, 1999).
La dissonanza vicaria – tendenza a esperire una dissonanza cognitiva, vale a dire l’incoerenza tra una certa attitudine, valori e credenze tenuti da individui o gruppi e un comportamento incompatibile con essi, dopo aver assistito passivamente a un atto immorale commesso da membri del proprio gruppo di appartenenza (compagno di scuola, parente, collega di lavoro, connazionale) e la modificazione dell’attitudine al fine di ridurre il contrasto – descrive lo stato cognitivo dello spettatore inerte di atrocità collettive (Norton, Monin, Cooper, Hogg, 2003).
La giustificazione morale, l’etichettamento eufemistico, la comparazione vantaggiosa e il trasferimento di responsabilità verso un’autorità legittimano chi ha ordinato la condotta dannosa generando disimpegno morale (Bandura, 1999)3. Al fine di proteggere la propria integrità personale in momenti in cui il controllo sociale è troppo severo si preferisce “farsi gli affari propri” (Bar-On, 2001, p. 127). La spirale di silenzio, la tendenza a evitare di dire la propria opinione su qualcosa quando ci si sente minoritari e minacciati di ritorsione o di isolamento dalla maggioranza (Noelle-Neumann, 2002) e l’ignoranza pluralistica, stato in cui il singolo privatamente pensa che gli atti criminali siano illegali mentre erroneamente suppone che per le altre persone siano accettabili, diffondendo la responsabilità e perpetuando una nuova norma anti-sociale (Prentice, Miller, 1993) favoriscono l’inazione dello spettatore. La relazione tra distanza sociale ed eterofobia, la sostituzio-
3. Quando sono compiute crudeltà certi meccanismi psicologici auto-sanzionatori che di solito governano la condotta morale, facendoci astenere da atti immorali innescando preoccupazione anticipatoria e autocondanna, sono disattivati da tecniche che disimpegnano le persone dalle norme morali vigenti.
la shoah 78
ne della responsabilità morale con l’avversione verso soggetti umani una volta vicini, distanziati fisicamente e spiritualmente, trasformati in “altri” hanno portato milioni di persone a osservare l’assassinio degli ebrei senza protestare (Bauman, 2010a, p. 250). 6.3 Ritratti di nazioni, comunità, individui
Sotto il Terzo Reich l’opinione pubblica tedesca era divisa tra una ristretta minoranza di paranoici che odiavano spasmodicamente gli ebrei (“battaglioni d’assalto” – sa, attivisti di partito), un’ampia sezione della popolazione che approvava l’esclusione economica e l’ostracismo sociale degli ebrei, respingendo la disumanità di chi li odiava visceralmente e una minoranza che provava un profondo senso umanitario che si opponeva all’odio razziale (Kershaw, 1981, p. 286).
Le leggi di Norimberga furono accettate pienamente dalla gran parte della popolazione come possibile soluzione permanente alla segregazione biologica, accolte con insoddisfazione dagli attivisti nazisti, condannate dai religiosi, dalla sinistra marxista, dai liberali borghesi e dagli intellettuali, accolte senza reazioni dai più che non presero posizione conservando un’attitudine passiva ed equanime nei confronti dell’ideologia e della politica del regime (Bankier, 2000, p. 273).
La reazione alla Notte dei cristalli fu largamente negativa. Silenzioso disgusto intervallato da invettive borbottate di condanna, vergogna e orrore contro la barbarie furono le più tipiche reazioni. Rifiuto, assistenza e solidarietà vennero da cattolici e protestanti. L’ampia risposta negativa al pogrom si tramutò in largo consenso per un “antisemitismo razionale”.
Il decreto che impose la stella gialla agli ebrei (settembre 1941) fu accolto con favore dalla stragrande maggioranza della popolazione (Dov Kulka, Jäckel, 2010, p. lxi). Isolati tributi di solidarietà vennero da borghesi e cattolici. La maggior parte della popolazione non si accorse, né commentò l’imposizione di questa misura (Kershaw, 1981, p. 283).
Quanto alle deportazioni di ebrei tedeschi “verso est” (ottobre 1941), l’auspicio generale è che essi vengano allontanati dalla Germania (Dov Kulka, Jäckel, 2010, p. lxi). Una minoranza calorosamente approva le deportazioni, la maggioranza è decisamente più riservata, mentre un’altra minoranza le contesta (Bajohr, 2006). Nonostante
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 79
l’ampia diffusione di informazioni sulle fucilazioni di massa di ebrei “a est” la maggior parte dei tedeschi non ci pensa: gli ebrei oramai «sono lontano dagli occhi e dal cuore» (Kershaw, 1981, p. 284). Sulle gasazioni “a est” si sa poco, lo sterminio è tenuto segreto dal regime: «l’omicidio di massa è un punto di frattura nel più vasto consenso della comunità di popolo» (Bajohr, 2006, p. 197). Negli ultimi due anni di guerra, mentre le bombe cadono sulle città tedesche, fra la gente si insinua la convinzione che il modo in cui la questione ebraica è stata risolta sia stato totalmente sbagliato. Il senso di colpa per molti si tramuta in disponibilità al soccorso dei 15.000 ebrei che nascosti nel 1944 ancora vivono in Germania.
Il fatto che poco meno di 3 milioni di ebrei polacchi siano stati uccisi, che solo il 3% sia scampato alla morte e la maggior parte dei Giusti tra le nazioni siano polacchi ha reso impellente la questione delle relazioni ebraico-polacche. L’antisemitismo, norma culturale in Polonia (condivisa persino dagli ebrei assimilati) spinse una minoranza di polacchi a intraprendere la strada della violenza e dell’omicidio, creò un’atmosfera di terrore che inibì i tentativi di fuga degli ebrei dai ghetti (Paulsson, 1998, p. 36). Il fatto che l’aiuto agli ebrei era punito con l’impiccagione o la fucilazione sul posto e che tra i paesi occupati la Polonia fu l’unico a formare un’organizzazione clandestina d’assistenza agli ebrei, chiamata Zegota, resero peculiare il contesto polacco (Lukas, 1986). Tra l’essere accolto, l’essere consegnato ai nazisti e l’essere mandato via, la seconda reazione è stata quella meno probabile quando un ebreo bussava alla porta del gentile in cerca d’aiuto (Paulsson, 1998, p. 40).
L’attiva partecipazione alla persecuzione della popolazione lituana spiega perché il 95% degli ebrei lituani perirono (Nikžentaitis, Schreiner, Staliūnas, 2004, p. 108). Coloro che collaborarono con i tedeschi erano tuttavia una minoranza, la gran parte della popolazione rimase a guardare. Sin dal primo giorno dell’occupazione tedesca i locali nonebrei scatenarono pogrom nelle città e nelle campagne. Battaglioni di volontari civili furono formati e inviati nelle stazioni cittadine per arrestare gli ebrei. Mentre ampie sezioni della popolazione, vedendo i tedeschi come liberatori, salutarono con approvazione le operazione di pulizia etnica, tanti lituani condannarono le violenze e distolsero lo sguardo dagli omicidi schierandosi a difesa degli ebrei, come nel caso di molti cattolici o del comitato per il soccorso degli ebrei fondato dalla bibliotecaria dell’università di Vilnius, Ona Shimaite (Levin, 1990, p. 58).
la shoah 80
La Bulgaria fu l’unico paese satellite della Germania dove alla fine della guerra c’erano più ebrei del periodo prebellico. Poco più di 50.000 ebrei bulgari scamparono la deportazione grazie all’opposizione dell’opinione pubblica culminata nella dimostrazione congiunta di ebrei e non-ebrei del 24 maggio 1943 davanti al palazzo reale a Sofia (Hálfdanarson, 2003). Queste le peculiarità della situazione bulgara: assenza di una tradizione antisemita, antisemitismo opportunistico della classe politica, mancata disumanizzazione degli ebrei, prevalenza di sentimenti di pietà (Nissim, 2002). Il salvataggio degli ebrei bulgari
è stato un «fenomeno di mobilitazione collettiva più che un atto individuale di soccorso» (Reicher et al., 2006, p. 68) in cui re, uomini di coscienza, popolo, leader politici e religiosi costruirono un rapporto di interdipendenza e di sostegno reciproco (Todorov, 2001, p. 40).
Il salvataggio di 72.00 ebrei danesi grazie al rapido trasferimento via mare in Svezia il 1° ottobre 1943 fu reso possibile da un’operazione collettiva d’aiuto intrapresa dalla popolazione non ebrea. Nell’Europa nazista la Danimarca è stata un’eccezione senza eguali: un protettorato modello che poté conservare le istituzioni democratiche. L’imposizione della legge marziale (29 agosto 1943) aprì una fase di crisi in cui avanza l’ipotesi della deportazione tempestivamente contrastata dal soccorso di polizia e guardiacoste, giudici e autorità penitenziarie, medici, pescatori, studenti e giornalisti. Il fattore decisivo del salvataggio è stato «il carattere speciale e la statura morale dei danesi e il loro amore per la democrazia e la libertà» (Yahil, 1969, p. xviii). Il ridotto numero di ebrei, la vicinanza del rifugio svedese, la disponibilità degli svedesi ad accogliere tutti gli ebrei e il fatto che il trasferimento avvenne in un momento di crescente opposizione al nazismo resero possibile l’operazione di soccorso (Marrus, Paxton, 1982, p. 710). L’episodio dell’operazione di soccorso in Danimarca resta un importante evento negli annali della Shoah (Gutman, Zuroff, 1977), un «simbolo di speranza e di luce nell’oscurità dell’Olocausto» (Kirchhoff, 1995, p. 477).
Tra i paesi neutrali, la Svezia ha mostrato una «neutralità complicata» (Friedman, 2011) in quanto è stata paradossalmente il principale soccorritore di ebrei in Europa e il maggiore fornitore di materiale bellico del regime nazista. La Svizzera si è trovata nella scomoda posizione di favoreggiatore della persecuzione ebraica per via del sostegno economico-finanziario dato al nazismo e di una restrittiva politica
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 81
d’asilo che ha impedito a migliaia di profughi ebrei di rifugiarvisi. Le banche svizzere incassarono oro e beni sottratti agli ebrei sterminati, garantirono ai nazisti valuta contante, le imprese svedesi fornirono ai nazisti ferro e cuscinetti a sfera prolungando lo sterminio. Dal 1942 i due paesi disposero di informazioni dettagliate sullo sterminio ma reagirono alla catastrofe ebraica in modo diametralmente opposto: la Svezia passa dall’“indifferenza all’attivismo”, in Svizzera il rifiuto di accogliere gli ebrei si fece sempre più ostinato. L’incrementarsi del flusso di informazioni attendibili giunte in Svezia dall’estate del 1942 e dalla “prerogativa nordica” favoriscono la svolta svedese (Friedman, 2011, p. 310; Edgren, 2012, p. 61). La politica svizzera fu ispirata da una neutralità integrale, dall’adattamento alle prevalenti circostanze politiche, da una chiara avversione a ogni ideologia e da un’ostilità nei confronti dello straniero, specie se ebreo. La sua politica d’asilo, il cui tratto di tolleranza passiva permise tuttavia di mettere in salvo circa 27.000 ebrei (Hilberg, 1997, p. 249), fu il prodotto di un’assenza di riferimento alla giustizia che impedì di riconoscere come tali i crimini nazisti, una mancanza di chiari standard umanitari e una paura irrazionale dell’immigrazione (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 231-44).
Il silenzio di Pio xii riassume la risposta alla Shoah del Vaticano. Il Papa non denunciò pubblicamente la Shoah né condannò il nazismo per i suoi crimini (Zuccotti, 2001, p. 1). Diversamente dal suo predecessore Pio xi che si schierò contro leggi razziali e antisemitismo, Pio xii privilegiò la diplomazia e il rispetto della legge canonica (Coppa, 2008, p. 556) mantenendo una posizione neutrale a difesa dell’indipendenza del Vaticano e della possibilità della mediazione per la pace fra contendenti. Nessuna protesta ebbe luogo il 16 ottobre 1943 in occasione del rastrellamento di 1.259 ebrei romani. I suoi detrattori spiegano questo silenzio con l’indifferenza alle sofferenze degli ebrei (Cornwell, 2000), l’antisemitismo (Goldhagen, 2003), l’avversione al bolscevismo e la stima di tutto ciò che era tedesco (Friedländer, 1965).
I suoi difensori sottolineano il rifugio dato ad alcune centinaia di ebrei romani (Lapide, 1967), il sostegno economico offerto alla comunità ebraica romana, le istruzioni date nel 1944 al nunzio apostolico in Ungheria Angelo Rotta che protestò contro il governo ungherese, e spiegano il silenzio con la volontà di salvaguardare e facilitare il lavoro dietro le quinte della diplomazia vaticana a favore del salvataggio di migliaia di ebrei (Rhodes, 1973). La prudenza politica di Pio xii è ispi-
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rata dal calcolo, dalla volontà di non esporre al pericolo di rappresaglia 40 milioni di cattolici tedeschi, gli abitanti di Roma e del Vaticano e di rendere fatali gli sforzi degli alleati. Rispetto al tipo di male incarnato dalla Shoah, la politica papale del male minore e del soccorso per via diplomatica appaiono inappropriate e moralmente discutibili.
La risposta degli alleati (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna) allo sterminio degli ebrei fu insufficiente perché la questione ebraica non rappresentò mai una priorità (Hilberg, 1997, p. 240). Per via della loro inerzia in Mentre sei milioni morivano Stati Uniti e Gran Bretagna sono stati definiti «spettatori» (Morse, 1968). L’incapacità alleata di portare in salvo gli ebrei è sfociata nell’autoaccusa: «i nazisti erano assassini, noi eravamo tutti complici passivi» (Wyman, 1984). C’è chi pensa che «nessuno degli ebrei morti durante l’Olocausto avrebbe potuto essere salvato da qualsiasi azione che gli alleati avrebbero potuto intraprendere tenuto conto di ciò che si sapeva al riguardo, di ciò che venne effettivamente proposto e che era realisticamente possibile» (Rubinstein, 1997, p. x). La frase sbrigativa «il mondo non fece niente» è una «mezza verità poiché ignora che gli alleati fecero crollare il Terzo Reich» (Marrus, 2007, p. 2), ma va riconosciuto che «quel poco che si sarebbe potuto fare non è stato fatto» (Bauer, 2013, p. 133).
Gli alleati sono stati accusati di non aver bombardato Auschwitz e le linee ferroviarie, di non aver negoziato coi nazisti il rilascio di ebrei, di non aver pubblicizzato efficacemente le informazioni sullo sterminio e di aver ritardato a creare il War Refugee Board (Commissione interdipartimentale fondata da Roosevelt nel gennaio 1944 che salvò circa 200.000 ebrei) (Niewyk, Nicosia, 2000, p. 121).
A volte gli spettatori si trasformarono in carnefici come a Jedwabne, nella Polonia nord-orientale dove il 10 luglio 1941 i “vicini” non ebrei massacrarono la quasi totalità degli ebrei (tra i 400 e i 1.600).
I tedeschi stettero a guardare, fecero fotografie, mentre i locali non ebrei, istigati dai nazisti, brutalizzati dalla guerra e dalla repressione sovietica, motivati dal desiderio e dall’opportunità inaspettata di derubare gli ebrei una volta per tutte, li raccolsero nella piazza del mercato, li umiliarono ordinandoli in una parata diretta al cimitero, li spinsero dentro un grosso fienile dove li bruciarono vivi. La maggioranza della popolazione restò passiva davanti al crimine; furono uccise circa 90 persone, solo la famiglia Wyrzykowski nascose i soli sette ebrei sopravvissuti (Gross, 2003).
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Altre volte intere comunità si trasformarono in terre di soccorso come a Le Chambon-sur-Lignon e Nieuwlande4. Esempi di riuscita azione politica morale (Gross, 1997), di «ordinarietà del bene» (Modigliani, Rochat, 1995) e di collettiva resistenza civile non violenta all’occupazione nazista, le operazioni di soccorso furono possibili grazie all’ampia componente protestante (ugonotta a Le Chambon, calvinista a Nieuwlande), alla presenza di leader carismatici (il pastore André Trocmé e la moglie Magda a Le Chambon, l’attivista resistente Arnold Douwes a Nieuwlande) e al sostegno delle reti organizzate di soccorso radicate localmente. Il soccorso agli ebrei e la resistenza all’autorità a Le Chambon venne sollecitata dal sermone del pastore Trocmé il 23 giugno 1940, a Nieuwlande dalla predica del pastore Slomp nell’estate del 1942. Gli abitanti di Le Chambon, ugonotti d’origine, condivisero con gli ebrei una secolare tradizione di persecuzione in Francia, erano ispirati dalla parabola evangelica del buon samaritano e da una forte opposizione antigovernativa. Quelli di Nieuwlande identificarono gli ebrei con Israele, popolo eletto nel Vecchio Testamento dimostrando un forte senso di dovere morale. L’arresto dei leader, la minaccia delle perquisizioni e i conseguenti arresti indurirono la resistenza che divenne parte della quotidianità a Le Chambon (ibid.), la professionalizzazione della rete di resistenza civile con l’attribuzione alle donne e agli ebrei soccorsi di un ruolo decisivo e di una certa responsabilità e l’assistenza finanziaria del fondo nazionale garantirono a Nieuwlande il successo dell’impresa (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).
Il singolo soccorritore è ben identificabile, ne conosciamo il nome, il volto, i dettagli della sua impresa. L’identità dello spettatore passivo scompare dietro uno pseudonimo o resta senza nome, si dilunga poco nel racconto di sé e della sua esperienza durante la guerra soffermandosi su quanto dura fosse allora la vita (Oliner, Oliner, 1988). Czesław Borowi, un contadino polacco che lavorava le sue terre intorno al Lager
4. A Le Chambon, comune di poco meno di 3.000 abitanti situato sull’altopiano
Vivarais-Lignon, in alta Loira tra il 1940 e il 1944 vengono salvate 5.000 persone di cui 3.500 ebrei dalla persecuzione nazista, principalmente bambini sottratti all’internamento nei campi di Gurs e Rivesaltes. A Nieuwlande, villaggio di 800 abitanti collocato a sud di Drenthe nel nord dell’Olanda, 250 ebrei, intere famiglie strappate ai treni ad Amsterdam diretti ad Auschwitz e portate in salvo in bicicletta sono nascoste da quasi tutte le famiglie del paese (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).
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di Treblinka disse «se io mi taglio un dito lui [un’altra persona] non sente male» (Lanzmann, 2007, p. 24). Beatrix (pseudonimo attribuito a una spettatrice olandese) ricordava: «Non si poteva fare niente. Avremmo potuto nasconderli, ma c’era un aiutante in casa e troppa gente intorno perché avevamo uno studio medico...» (Renwick Monroe, 2008, p. 718). Una spettatrice del ghetto di Varsavia ammetteva: «La mia colpa, che confina con la crudeltà, fu la mia indifferenza per il destino ebraico. Ero completamente indifferente agli esseri umani che stavano morendo nel ghetto. Loro erano “loro” e non “noi”» (Barnett, 1999, p. 112).
Oskar Schindler è un imprenditore tedesco che riesce nell’impresa di mettere in salvo 1.100 ebrei con il pretesto di impiegarli in una fabbrica di oggetti smaltati a Cracovia. Interrogato sul perché lo fece rispose bizzarramente: «Se attraversando la strada vi fosse un cane in pericolo di essere investito da un’auto, non si dovrebbe provare ad aiutarlo?» (Wundheiler, 1986, p. 340). A Budapest il diplomatico svedese Raoul Wallenberg fra il luglio del 1944 e il gennaio del 1945 salvò fino a 100.000 ebrei rilasciando passaporti svedesi protettivi (Bierman, 1981). Sempre a Budapest Giorgio Perlasca, commerciante di carni, si finse reggente della legazione spagnola fra il dicembre del 1944 e il gennaio del 1945 salvando più di 5.000 ebrei. Alla domanda “perché lo fece?” Perlasca rispose: «Perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini» (Deaglio, 2003).
Jan Karski e Kurt Gerstein sono stati «messaggeri» che portarono al «mondo esterno» l’orribile notizia dello sterminio (Hilberg, 1997).
Queste parole pronunciate nel 1989 rivelavano con amarezza l’esito dell’encomiabile sforzo di Karski: «tutte quelle grandi personalità, presidenti, ambasciatori, cardinali che dissero di essere sconvolti, mentivano. Sapevano o non volevano sapere. Questo mi scioccò. Non volevo più avervi a che fare. Dissi a me stesso: “Karski sei impotente. Chiudi con questa faccenda”» (Paldiel, 2011). Gerstein fu un attivista protestante della Chiesa confessionale che nel marzo del 1941 entrò nelle Waffen ss per conoscere dall’interno i crimini nazisti. Nell’agosto del 1942 denunciò l’uccisione di più di 5.000 ebrei a Bełżec a cui assistette personalmente il segretario della legazione svedese a Berlino Göran Fredrik von Otter. Scrisse dozzine di lettere di denuncia a colleghi protestanti, amici e familiari mentre continuò a rifornire di Zyk-
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lon B i Lager di Auschwitz e Oranienburg. Esempio dell’«ambiguità del bene» (Friedländer, 2006), Gerstein tenta di bilanciare i doveri di ss con la personale resistenza al crimine di cui è suo malgrado artefice (Hebért, 2006). Queste sono solo una goccia nel mare delle migliaia di storie di soccorso la cui conoscenza dovrebbe spingerci a chiederci: «Avrei potuto agire così in queste circostanze, avrei potuto tentare, avrei voluto fare così?» (Gilbert, 2007, p. 427).
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Lungi dal restare prigionieri del passato, dobbiamo metterlo al servizio del presente, così come la memoria – e l’oblio – dovrebbe essere utilizzato al servizio della giustizia.
Tzvetan Todorov
Ad essere onesti l’Olocausto ci ha colti impreparati. Inaudito, inatteso esso necessita di parole o materiali che mai sono stati concepiti per rappresentare ciò che è accaduto qui. Questo è un problema che riguarda tutti, compreso coloro che ne hanno fatto diretta esperienza.
Raul Hilberg
L’educazione sull’Olocausto ha a che fare con la negazione del diritto umano fondamentale, il diritto alla vita, di un gruppo minacciato di annientamento.
Yehuda Bauer
7.1
Memoria, commemorazione e diritto di dimenticare
Nella cultura e nello spazio pubblico contemporanei la memoria della Shoah è centrale. Auschwitz è la «base della memoria collettiva del mondo occidentale» (Traverso, 2006, p. 13). Il suo ricordo, istituzionalizzato con la designazione della Giornata internazionale per la memoria delle vittime dell’Olocausto1 il 27 gennaio, ha dato luogo a una
1. La risoluzione 60/7 adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite afferma che «l’Olocausto, che ha provocato l’uccisione di un terzo del popolo ebraico, insieme a innumerevoli membri di altre minoranze, sarà per sempre un monito per tutte le persone sui pericoli dell’odio, del fanatismo, del razzismo e dei pregiudizi»,
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7
Presente e futuro della Shoah: ricordare, rappresentare, educare
religione civile, fatta di rituali di pubblica commemorazione e di spazi di “culto”, memoriali e musei. La letteratura sulla memoria della Shoah mette l’accento sulla sua natura traumatica, sul difficile riemergere collettivamente, sull’antinomia fra storia, narrazione e scrittura del passato secondo le modalità e le regole del mestiere e la memoria, matrice della rappresentazione storica che, singolare e imperfetta, rifugge comparazioni e generalizzazioni (Traverso, 2006, p. 18), sugli abusi e l’ossessione commemorativa. Quando si sente parlare di memoria della Shoah, del “dovere della memoria” non ci si riferisce primariamente ai ricordi che i carnefici hanno della violenza inflitta, ma alla rievocazione dell’offesa subita dalle vittime.
Per i sopravvissuti la memoria dell’offesa è qualcosa di intollerabile e doloroso. Si prova vergogna a ripensare al modo in cui si è stati umiliati e degradati, si fa fatica a riaccogliere nella famiglia umana i propri aguzzini (Bensoussan, 2014, p. 3). Chi è stato carnefice e prova un senso di colpa per ciò che ha fatto preferisce ricacciare nel profondo il ricordo deformandolo e obliterandolo. Accomunati dal fatto che la memoria dell’esperienza estrema mal si accorda con il volto decente che le società post-genocidarie impongono, vittime e carnefici si trovano agli antipodi rispetto al dovere civico della trasmissione della memoria dell’offesa che preme in molte vittime, mentre è assente nei carnefici che temono il castigo della legge (Krondorfer, 2008, p. 250).
Sul piano collettivo la rammemorazione della Shoah si è dipanata secondo due regimi: alla repressione del ricordo avvenuta nell’immediato dopoguerra è seguita l’ossessione commemorativa (Moyn, 1998). Seguendo questa traiettoria, dalla repressione all’ossessione, la memoria collettiva della Shoah, declinandosi differentemente nei vari contesti nazionali sotto vari stimoli è venuta fuori lentamente. Nella metà degli anni Quaranta ha prevalso una reazione di ripugnanza ai crimini nazisti e una prima rielaborazione attraverso i processi di Norimberga del 1945-46. Dai tardi anni Quaranta ai tardi anni Cinquanta si era indifferenti ai crimini nazisti avvolti da un silenzio quasi totale eccezion fatta per il diario di Anna Frank (1947), la cui trasposizione teatrale (1955) e cinematografica (1959) fu accolta da un grande successo internazionale. Negli anni Sessanta si è assistito a un primo riemergere
gli Stati membri onu sono sollecitati a sviluppare programmi educativi, a rifiutare i negazionismi, a preservare i luoghi della persecuzione, a condannare tutte le manifestazioni di molestia, incitamento e intolleranza religiosa.
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della Shoah come soggetto autonomo nel processo della memoria collettiva e della comprensione della storia grazie al processo Eichmann (1961), al cambio generazionale e alla guerra arabo-israeliana dei Sei giorni (1967) che per la prima volta ha evidenziato la minaccia alla sicurezza degli ebrei in Israele. Negli anni Settanta e Ottanta si è diffusa su larga scala la consapevolezza che la Shoah sia un elemento nodale delle storie e delle memorie nazionali. Il preponderante mito della resistenza all’occupazione nazista è infranto in Francia. Si riscopre il diffuso fenomeno del collaborazionismo sotto il regime di Vichy con l’uscita del film Le Chagrin et la pitié (1971). Nel 1984 gli esponenti della comunità ebraica francese polemizzano l’apertura nei pressi di Auschwitz di un convento di carmelitane, nel 1980 esce Le Journal d’Anne Frank est-il authentique? (1980) del negazionista Faurisson e nel 1985 il documentario Shoah, nel 1987 si tiene il processo al “boia di Lione” Klaus Barbie (1987). Fra il 1978 e il 1979 si afferma negli Stati Uniti e in Germania il termine Olocausto grazie alla trasmissione del film Holocaust, in Germania tra il 1986 e il 1989 si consuma la “disputa degli storici” (Historikerstreit) sul posto occupato da Auschwitz nella memoria tedesca e sul problema della singolarità e comparabilità della Shoah. Negli anni Novanta, a Guerra fredda conclusa, e nel primo decennio del 2000, la consapevolezza di massa sulla tragedia ebraica raggiunge il suo picco con la sua “americanizzazione” legata al successo mondiale di Schindler’s List e all’apertura dell’Holocaust Memorial Museum a Washington nel 1993 (Gordon, 2013, pp. 3-14).
Nell’era della “guerra al terrore” la Shoah resta un’ombra sull’Occidente ma è anche vista come l’elemento unificante per una comune memoria europea (Diner, 2003), la sua memorializzazione è posta alla base del processo di integrazione europea (Karner, Mertens, 2013, pp. 23-42). Quanto più lo sterminio degli ebrei d’Europa ripiega nel passato, ritirandosi come esperienza vissuta, tanto più si afferma nel presente come luogo della memoria (Nora, 1989). Per questioni anagrafiche oggi il ricordo di Auschwitz non è quello spontaneo di chi ne è stato vittima, carnefice o spettatore, ma è costruito e mediato da molteplici modalità rappresentative. Questa memoria non è più, o non solo, è legata ai luoghi della persecuzione. Essa è cosmopolita, deterritorializzata e dislocata (negli Stati Uniti ci sono oltre 44 tra musei e memoriali, a Montevideo si trova il Memoriale dell’Olocausto del popolo ebraico, a Cape Town, Durban e Johannesburg Centri di ricerca
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sull’Olocausto, a Ottawa un Monumento nazionale dell’Olocausto), è matrice della sensibilità per il rispetto dei diritti umani e della politica di intervento umanitario (Levy, Szainder, 2006). Nell’era della globalizzazione delle conoscenze, dei conflitti e delle economie, la Shoah è diventata «paradigma o modello col quale altri genocidi e traumi storici sono spesso percepiti e presentati [...] ha fornito una lingua per la loro articolazione» (Assmann, 2006, p. 14).
Perché ricordare ancora la Shoah a quasi settant’anni di distanza? Questa domanda ne presuppone un’altra più ampia: perché ricordiamo il passato? Ogni esistenza individuale è collocata storicamente in rapporto a un passato che la precede e a un futuro che scalpita per emergere. Affinché questa esistenza possa strutturarsi ed elaborarsi necessita stabilire da dove proviene e verso dove è diretta, facendo tesoro degli esempi della memoria collettiva e della storia. Oggi si sente il dovere di ricordare e di riflettere sulle lezioni della Shoah –sull’estrema degradazione e umiliazione a cui può dar luogo l’esclusione sociale e razziale legalizzata, sulla trasformazione di individui ordinari in straordinari criminali, sull’indifferenza degli spettatori e sul coraggio morale dei soccorritori – perché si è convinti che esse possano evitarci di essere vittime, carnefici o spettatori a nostra volta. Nondimeno gli appelli al “dovere di ricordare”, al “mai dimenticare”, al “mai più” – imperativi su cui il ricordo della Shoah da sempre si presenta come obbligo – suonano beffardi e retorici rispetto all’incessante rincorrersi della violenza di massa sui civili. Questa retorica dovrebbe farci aprire gli occhi sul fatto che la memoria è sempre del presente, che l’appropriazione del passato avviene sempre in una dimensione socio-politica tutt’altro che neutra. Sia i contenuti sia le forme della memorializzazione sono determinati dall’interazione tra l’esperienza storica rappresentata, gli agenti che ne plasmano la memoria – committenti, finanziatori, creatori o fruitori del veicolo culturale adottato – e i paradigmi rappresentativi (Kansteiner, 2002).
Nella definizione del ricordo di un trauma collettivo si alternano contesa e consenso come hanno mostrato i dibattiti sull’edificazione del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa (Robin, 2005), del centro di documentazione Topografia del terrore nel cuore di Berlino (Hass, 2004) e del Museo canadese per i diritti umani (Laban Hinton, La Pointe, Irvin-Erickson, 2014, pp. 21-51). La memoria della Shoah non può essere uniforme perché l’esperienza del trauma e della sua
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rimozione è stata diversa fra vittime, carnefici e spettatori, fra paesi dell’Europa occupata e neutrale, dell’est e dell’ovest, dove si è stratificata localmente ed è riemersa a diverse velocità (Assmann, 2006). In quanto matrice e posta in gioco delle identità familiari, comunitarie, nazionali la memoria è costantemente esposta alla negazione, alla banalizzazione e alla sacralizzazione (Todorov, 1996; Pisanty, 2012). Un dovere della memoria della Shoah a corto di connessioni con il presente degenera in vuota ripetizione, il ricordo incessante dell’orrore privo di analisi e di riflessione invece di essere scelta contro il male e la violenza rafforza l’idea che il male sia ineluttabile (Bensoussan, 2014, pp. 18-27).
In Italia, dove a lungo la memoria delle vittime della Shoah è stata relegata nell’ombra dalla rievocazione della resistenza al fascismo sta montando una certa stanchezza contro un Giorno della memoria (istituito dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000) sovrabbondante di “eventi”, affannato da voci, parole e immagini, solo postumo omaggio e risarcimento alle vittime, raramente occasione per riflettere sul presente della memoria, sugli italiani che sotto il fascismo hanno favorito la persecuzione ebraica e sulla reticenza a ricordare per decenni. Questo malumore finisce per invocare un unpolitically correct diritto di dimenticare (Loewenthal, 2014) generalmente bandito da un dovere della memoria che respinge ciò che dopotutto accade fisiologicamente per qualsiasi ricordo del passato, la rielaborazione selettiva che escludendo di necessità manda qualcosa nel dimenticatoio. Non ci può essere memoria completa né perfetta, soprattutto di traumi individuali e collettivi come la Shoah.
7.2
Forme e limiti della rappresentazione
Non si può ricordare senza avere un’immagine del passato, senza rappresentarselo. La rappresentazione come condizione della rammemorazione è ri-presentazione (dal latino representare, composto di re- e presentare “presentare”), contestualizzazione, selezione di contenuto, attribuzione di senso, forma e significato. È rappresentabile la distruzione di milioni di ebrei? Che la Shoah sia rappresentabile lo prova il fatto che sia stata e continui a essere rappresentata. Fino a oggi più di un milione di fotografie principalmente scattate dai carnefici sono state archiviate. Dal 1944 si contano almeno 100.000 resoconti di
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sopravvissuti. Le opere di Primo Levi, Elie Wiesel, Charlotte Delbo, Ruth Klüger, Jean Améry compongono il “canone accademico” delle circa 6.000-10.000 memorie. Tra i diari scritti dalle vittime meritano una menzione speciale quelli di Anna Frank, di Viktor Klemperer e di Janusz Korczak. Tra i film la miniserie Holocaust (1978) di Marvin J. Chomsky, il documentario Shoah (1985) di Claude Lanzmann, Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg, la Vita è bella (1997) di Roberto Benigni hanno lasciato un profondo segno nella consapevolezza collettiva e suscitato aspre reazioni. Significative sono poi la poesia Fuga di morte (1952) di Paul Celan, il fumetto Maus di Art Spiegelman (1989-92), tra i racconti storici di finzione Le benevole (2007) di Jonathan Littell. Fra gli artisti grande attenzione meritano l’opera di Anselm Kiefer, Christian Boltanski, le mostre Burnt Whole: Contemporary Artists Reflect on the Holocaust (1994), Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941-1944 (1995-1999), Mirroring Evil: Nazi Imagery/ Recent Art (2002). Fra i brani musicali ne ricordiamo uno, Il Carmelo di Echt (2008) di Franco Battiato (2008). Tra le centinaia di memoriali e musei i più visitati sono il Museo nazionale di Auschwitz-Birkenau, Yad Vashem a Gerusalemme, Holocaust Memorial Museum a Washington, il Museo della storia degli ebrei polacchi a Varsavia, il Museo ebraico e il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino, il Centro di documentazione ebraica e il Memoriale della Shoah (binario 21) a Milano.
L’incessante rimodellamento estetico e semantico dello sterminio degli ebrei ha sollevato questioni sui limiti epistemologici ed etici della rappresentazione. Può l’esperienza della distruzione essere adeguatamente rappresentata, senza edulcorarne il carattere estremo? Si rischia di rappresentarla in modo inappropriato, irrispettosamente della sofferenza di vittime e parenti o inaccuratamente sul piano della ricostruzione storica? Le varie posizioni espresse rispetto a questi interrogativi possono essere contestualizzate nella distinzione all’interno degli Holocaust Studies (“studi sull’Olocausto”) tra un approccio realista e uno antirealista al genocidio (Rothberg, 2000)2. Sul pia-
2. Nell’antirealismo convergono la critica strutturalista al realismo letterario del semiologo francese Roland Barthes (Barthes, 1988), la critica modernista al realismo storico di Hayden White (White, 1999; 2006) e quella postmoderna alla strutture narrative del sapere occidentale di Jean-Francois Lyotard (Lyotard, 1981) e quella all’oggettività storica di Peter Novick (Novick, 1988).
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no epistemologico – dei fondamenti, della validità e dei limiti della conoscenza scientifica – per il realismo la Shoah è conoscibile, per l’antirealismo non lo è o al limite può essere conosciuta servendosi di regimi di conoscenza nuovi rispetto agli schemi rappresentativi tradizionali. L’approccio realista insiste per analizzare la Shoah secondo procedure “scientifiche” condivise e inscrivere gli eventi all’interno di schemi narrativi temporalmente lineari. Queste due prospettive si differenziano sostanzialmente rispetto al modo di intendere nella Shoah la relazione tra ordinario e straordinario, due tratti onnipresenti e compenetranti nell’esperienza e nella narrazione della Shoah. Quando rappresentano la Shoah i realisti si servono di termini come banalità, ordinario, comune, modernità (come sappiamo Arendt parla di banalità del male, Browning di uomini ordinari, Goldhagen di tedeschi comuni, Bauman di modernità) e tendono a situarli in un continuum di ordinario e straordinario, facendoli collassare l’uno sull’altro. Gli antirealisti adottano vocaboli come barbarie, oscenità, blasfemia, tremendum, dissenso3 e mantengono una cesura insanabile tra ordinarietà e straordinarietà: la Shoah è un evento inaccessibile, al di là del discorso e della conoscenza. Appartiene la Shoah a una classe speciale di eventi che ne limita la rappresentazione? La soluzione finale è un «evento ai limiti» che mette alla prova le categorie rappresentative e concettuali tradizionali, «la più radicale forma di genocidio della storia» rispetto a cui vi sono «limiti di rappresentazione che non dovrebbero essere ma sono facilmente trasgrediti» (Friedländer, 1996, p. 3). Il genocidio degli ebrei è un evento modernista paradigmatico della storia europea occidentale, che resiste alle convenzioni e alle categorie ereditate di assegnazione del significato agli eventi poiché intacca «lo status dei fatti in relazione agli eventi e quello dell’evento in generale» (White, 1999, p. 70). Un’insufficienza linguistica impe-
3. Theodor W. Adorno: «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» (Adorno, 2001). Così Claude Lanzmann: «perché gli ebrei sono stati uccisi? Questa domanda rivela subito la sua oscenità. C’è un’assoluta oscenità in ogni progetto di comprensione» (cit. in Caruth, 1995, p. 204). Per Elie Wiesel «un romanzo su Treblinka non è un romanzo né riguarda Treblinka» (Lefkovitz, 1977, p. 7). Arthur Cohen parla di «tremendum che rende incommensurabile la riflessione sui campi di sterminio» (Cohen, 1981, p. 1). Jean-François Lyotard definisce il «dissidio» rispetto ad Auschwitz come «lo stato instabile, l’istante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter essere messo in frasi non può ancora esserlo» (Lyotard, 1985, p. 19).
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disce di significare l’esperienza concentrazionaria con efficacia. Primo Levi scriveva: «come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo “fame”, diciamo “stanchezza”, “paura” e “dolore”, diciamo “inverno”, e sono altre cose. Sono parole libere usate da uomini liberi che vivevano godendo e soffrendo, nelle loro case» (Levi, 1979, p. 110). Wiesel, per suo conto, ha scritto: «Che tipo di parole? [...] Il linguaggio è stato corrotto sino al punto che deve essere inventato da zero e purificato. Stavolta scriviamo non con le parole ma contro le parole. Spesso diciamo meno così da rendere la verità più credibile» (Wiesel, 1977, p. 8). La natura “ai limiti” dell’evento impedisce di trivializzarlo, ovvero di renderlo banale. Sempre Wiesel nota: «l’Olocausto non è un soggetto come tutti gli altri. Esso impone certi limiti. Ci sono tecniche che non si possono utilizzare, anche se sono commercialmente efficaci. Per non tradire i morti e umiliare i vivi questo particolare argomento richiede una sensibilità speciale, un approccio diverso è il rigore rafforzato dal rispetto e dalla riverenza, e soprattutto dalla fedeltà alla memoria» (Wiesel, 1989).
La Shoah impedisce di trasgredire i limiti che essa stessa istituisce. Secondo Lanzmann «l’Olocausto è unico in quanto si costruisce intorno ad esso un cerchio di fuoco, un limite non oltrepassabile per via di un certo orrore assoluto intrasmissibile: pretendere di farlo è rendersi colpevoli della più grave trasgressione» (Lanzmann, 1994).
Nell’articolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory comparso sul “New York Times” l’11 luglio 1989 Wiesel reputa volgari e Kitsch alcuni film come Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, Pasqualino Settebellezze (1976) di Lina Wertmuller, la miniserie Olocausto (1978) di Marvin J. Chomsky, La scelta di Sophie (1982) di Alan J. Pakula, la miniserie Ricordi di guerra (1988-89) di Dan Curtis, Gli assassini sono tra noi (1946) e lo spettacolo teatrale Ghetto (1984) di Joshua Sobol. In un articolo di Wolfgang Staudte dal titolo Une représentation impossible? uscito il 3 marzo 1994 su “Le Monde” Claude Lanzmann critica aspramente Schindler’s List (1994) di Steven Spielberg. Rispetto all’enormità morale della Shoah può essere mantenuta una fondamentale differenza tra rappresentazione e oggetto prima di essere ri-presentato, tra livello rappresentativo, figurativo e letterale, fattuale, non figurativo (Lang, 2000) oppure fondere queste dimensioni, renderle indistinguibili (Friedländer, 1996; Kellner, 1994).
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Bisognerebbe poi riconoscere nel silenzio lasciato dalla distruzione il limite costitutivo rispetto al quale ogni rappresentazione si misura (Lang, 2000) e nel minimalismo – «arte dell’usare un minimo di parole per dire il massimo» – vedere una regola per la rappresentazione letteraria d’immaginazione (Lang, 1988), nel negazionismo storiografico una forma di rappresentazione inappropriata, inaccurata storicamente e moralmente oltraggiosa, nella feticizzazione dei simboli della superiorità razziale nazista e nell’erotizzazione della relazione carnefice-vittima di alcuni film rappresentazioni discutibili e banalizzanti, forme del Kitsch (Pisanty, 2012, pp. 53-7), nel curiosare voyeuristico dallo spioncino della camera a gas una feticizzazione dell’orrore e un’incapacità a tenersi a una «giusta distanza» (Donaggio, Guzzi, 2010). Nel sostenere un privilegio nel diritto di produrre conoscenza4 da parte dei sopravvissuti è riconoscibile un’appropriazione esclusiva della Shoah (Kertész, 2001) d’ostacolo al pluralismo interpretativo (Feinstein, 2005, p. 30) e un’insufficiente storicizzazione di quell’etica della rappresentazione del dopo Auschwitz il cui proibizionismo rispetto alla possibilità di trarre piacere estetico dalla rappresentazione della Shoah (Hayes, Roth, 2010) non regge più nell’era della postmemoria (Hirsch, 2001).
7.3
Fatiche dell’insegnare e dell’apprendere
Il presente e il futuro della Shoah dipendono dall’educazione sullo sterminio degli ebrei che può essere rivolta primariamente agli studenti e potenzialmente a tutti quanti, come hanno per esempio dimostrato i programmi organizzati dall’Holocaust Memorial Museum per giudici, avvocati, poliziotti e militari (Fracapane, Hass, 2014, p. 169).
L’International Holocaust Remembrance Alliance – un corpo intergovernativo fondato nel 1998 con lo scopo di supportare leader politici e sociali rispetto alla necessità dell’educazione, del ricordo e della ricerca sulla Shoah a cui a oggi aderiscono 31 Stati membri (fra cui l’Italia),
4. Sempre nell’articolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory, Wiesel scrive: «Solo coloro che lo [Auschwitz] hanno vissuto nella loro carne e nelle loro menti possono possibilmente trasformare la loro esperienza in conoscenza. Gli altri, nonostante le buone intenzioni, non potranno mai farlo».
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diverse organizzazioni internazionali (onu, unesco, osce/odihr, Consiglio d’Europa) e quasi 876 organizzazioni da 44 paesi impegnate nell’educazione, nella memoria e nella ricerca5 – che promuove l’educazione, il ricordo e la ricerca sulla Shoah ha predisposto linee guida per un corretto approccio didattico in forma di risposte al perché, al cosa e al come insegnare la Shoah (Task Force, 2005).
Gli approcci didattici possono essere molteplici, definiti dal tipo di informazioni che si vuole trasmettere e dal loro inserimento entro una cornice interpretativa, dagli strumenti e dai materiali utilizzati, dagli scopi educativi perseguiti – tutti elementi modellati rispetto all’oggetto di studio e alle caratteristiche degli allievi e degli educatori coinvolti nel processo educativo. È meglio dare rilevanza alle specificità che ne definiscono la singolarità storica della Shoah come la dimensione numerica, l’estensione geografica, l’ideologia soggiacente secondo un approccio particolarista o sottolineare l’universalità di argomenti quali la distruzione della persona, la desacralizzazione della morte, la negazione dei diritti fondamentali e dei valori democratici secondo un approccio universalista? Chi insegna può adottare un modello di apprendimento mimetico volto alla trasmissione strumentale o riflessiva del sapere oppure uno esperienziale e trasformativo mirante a promuovere lo sviluppo caratteriale e morale degli allievi attraverso simulazioni e giochi di ruolo e viaggi nei luoghi della memoria. Possiamo pensare che l’educatore si interroghi se rispetto al tema della zona grigia sia meglio far leggere Sommersi e salvati di Primo Levi o far vedere La zona grigia di Tim Blake Nelson, se per trattare il tema dell’infanzia nel Lager sia più opportuna la lettura di Qui non ci sono bambini di Thomas Geve o la visione de Il Bambino col pigiama a righe di Mark Herman e quello dell’ordinarietà del male sia meglio proporre Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale di David Cesarani o Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno di Eyal Sivan. Si dovrebbe poi scegliere se contestualizzare lo studio della Shoah nell’ambito della storia dell’antisemitismo europeo, della Seconda guerra mondiale, della comparazione con le al-
5. A oggi sono 10 le organizzazioni italiane affiliate, tra cui aned (Roma), Associazione Olokaustos (Venezia), Figli della Shoah (Venezia), Fondazione cdec (Milano), Fondazione Museo della Shoah (Roma), Museo Monumento al deportato politico e razziale (Carpi), Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà (Torino). Invitiamo a visitare questo indirizzo web: https://www.holocaustremembrance.com.
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tre violenze del xx secolo, della tradizione dei diritti umani e chiarirsi le idee sullo scopo educativo perseguito: stimolare la riflessione sugli abusi del potere, sulle responsabilità degli individui, far comprendere le ramificazioni del pregiudizio, del razzismo e dell’antisemitismo nelle società in cui viviamo, sottolineare i pericoli del silenzio e dell’indifferenza di fronte all’oppressione degli altri, educare alla tolleranza, alla solidarietà e alla giustizia.
La Shoah come oggetto di studio è particolarmente ostico per via di una certa problematicità legata a un’intrinseca difficoltà di dicibilità e di trasmissibilità della memoria tragica delle vittime, per la sua funzione simbolica nella nostra coscienza collettiva in quanto radicale rottura di civiltà nella storia della società occidentale e perché ha infranto le barriere fra le discipline costringendole all’interdisciplinarietà (Traverso, 1995, pp. 99, 33). La Shoah è argomento talmente complesso a causa della densità del dodicennio hitleriano, dell’ampiezza geografia della persecuzione, della molteplicità degli attori coinvolti che può risultare scoraggiante trattarlo per chi insegna (Totten, Feinberg, 2001). Consiste inoltre di una certa diversità data dal fatto di essere «più di un tipico evento storico che può essere studiato in termini di tempo, luogo, attività e risultato», perciò non esauribile in breve tempo, e in quanto «veicolo attraverso cui può essere esaminata l’essenza della condizione umana» racchiude un sapere storico ed etico poiché offre l’opportunità di esaminare ogni possibile comportamento umano, da un massimo di male a un massimo di bene (Lindquist, 2011b). Il soggiacere alla “soluzione finale” di una complessità causale – razionalità strumentale moderna, antisemitismo redentivo, ossessione giudeo-bolscevica – è d’ostacolo al capire, capacità che appare limitata rispetto allo spiegare (Traverso, 1995, p. 15): «più conosco meno so e meno capisco» una volta ha detto Elie Wiesel (cit. in Lindquist, 2006). L’insegnamento della Shoah può avere un’enorme potenza trasformativa come nel caso di una ragazza diciassettenne statunitense che dopo una lezione sulla Shoah di Facing History and Ourselves ha affermato «pensiamo alla storia che impariamo. È importante imparare le parti scomode. È lì che possiamo trovare i conflitti che ci aiutano a capire noi stessi» (Fracapane, Hass, 2014, p. 159). Può altresì esporre al rischio di una “sovraidentificazione” con le vittime come è accaduto a uno studente di una scuola media statunitense che, dopo una simulazione sulla Shoah chiamata Morire di fame. Una lezione sulla durezza del campo
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di concentramento (che prevedeva due settimane di “dieta Auschwitz” e la lettura di La notte di Wiesel), afferma: «l’unica cosa che ho scoperto oggi è che io non voglio essere ebreo» (Lindquist, 2011a, p. 125). Può anche dar luogo a un’imbarazzante difficoltà a comprendere la dinamica di totale squilibrio di forze tra internati e guardie vigente nel Lager, come nel caso del ragazzo che Alberto Cavaglion chiama l’“ultimo ascoltatore” di Levi, il quale dopo aver ascoltato il racconto del ex deportato interviene dicendo: «Tutto vero, tutto terribile quello che ci ha riferito; ma signor Levi, la prossima volta che Lei si troverà in questa situazione si ricordi quello che Le dico, dia retta a me, si faccia dare la pistola al raggio verde, spezzi il reticolato ed esca fuori, dove un’astronave la raccoglierà e in pochi secondi La restituirà ai suoi Cari» (Traverso, 1995, p. 114). L’educatore dovrebbe essere in grado di far comprendere l’enormità morale di questa storia, non dovrebbe sovraesporre con immagini macabre e racconti dell’orrore la realtà dello sterminio né sottoesporla minimizzandola, dovrebbe cercare di equilibrare conoscenza ed emozione, offrire una puntuale esposizione delle tappe principali della persecuzione antiebraica, evidenziarne processualità, sistematicità e simultaneità e personalizzare la storia proponendo diari, memorie, testimonianze dal vivo e registrate, comparare la Shoah senza equiparare né gerarchizzare le sofferenze delle diverse violenze. Il presente dell’educazione sulla deportazione e lo sterminio è indissolubilmente legato alle problematiche nazionali della memoria (Santerini, 2003) e alle traiettorie della commemorazione (Davis, Rubeinstein-Avila, 2013), come si può vedere nel caso del progetto Il ’900. I giovani e la memoria lanciato dal miur nel 1998 per commemorare il sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali e quello del concorso I giovani ricordano la Shoah istituito nel 2005 per il sessantesimo anno dalla liberazione di Auschwitz. Per rendere giustizia alla problematicità e alla complessità dell’esperienza dello sterminio, tenerne viva la memoria ed evitare di suscitare insofferenza e disinteresse facendo coincidere lo sforzo educativo con l’approssimarsi della celebrazione del Giorno della memoria, sarebbe necessario diluire negli anni l’apprendimento e attualizzare l’argomento per esempio in relazione al destino tragico delle decine di migliaia di migranti che muoiono in mare e di cui nessuno in Europa vuole farsi carico.
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Completiamo questo saggio riepilogando alcune delle principali conoscenze che abbiamo acquisito nel corso del testo. L’esposizione di una breve storia della “soluzione finale” ci ha permesso di mettere in luce il carattere processuale, non scontato e non ineluttabile della Shoah, prima politica antiebraica di esclusione e segregazione biologica e sociale, poi fallito progetto di “soluzione territoriale del problema ebraico” mediante emigrazione forzata e trasferimento di altre popolazioni e solo dalla metà del 1941 sterminio di massa organizzato. La Shoah è un fenomeno storico la cui complessità, dovuta alla multidimensionalità temporale e geografica della persecuzione, all’ampio spettro degli attori coinvolti e alla varietà dei loro comportamenti, può essere governata se viene scomposta in parti, rispetto agli attori, fra vittime, carnefici e spettatori. Nel capitolo sulle vittime abbiamo evidenziato la dimensione principalmente orientale dello sterminio, non solo per la concentrazione nell’Europa centro-orientale dei luoghi dello sterminio e perché fra Polonia, Ucraina, Bielorussia e Paesi Baltici le vittime sono state più di 4 milioni ma anche per via del fatto che una cultura, un mondo, quello yiddish, è stato irrimediabilmente spazzato via. Abbiamo dato rilevanza alla specificità dell’esperienza femminile e infantile della persecuzione per lungo tempo tenuta ai margini della storiografia, riconosciuto nella testimonianza di Primo Levi, Elie Wiesel e Jean Améry un significato e un valore universali, evidenziato le difficoltà dell’accoglimento della testimonianza del sopravvissuto tra le fonti nell’archivio dello storico e l’importanza del racconto dal cuore dello sterminio dei membri del Sonderkommando, “testimoni integrali” che con la loro esperienza diretta delle camere della morte ridimensionano un motivato scetticismo sulla capacità del superstite di testimoniare fino in fondo l’abisso di morte a cui è scampato e levano il terreno da sotto i
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piedi a chi nega l’esistenza delle camere a gas. Considerando carnefici e spettatori abbiamo alternato un regime espositivo e descrittivo a uno teorico ed esplicativo. Dall’analisi dei carnefici abbiamo appreso che l’ordinarietà delle persone convive con la straordinarietà dei crimini commessi e che non si nasce carnefici ma lo si diventa attraverso un’educazione alla violenza (come nel caso del comandante di Auschwitz Höss) e una carriera genocidaria (come nel caso del comandante di Sobibor e Treblinka Stangl). Questi due dati di base, che possono trovare facilmente conferma se si osserva quanto successo in Indonesia nel 1965, in Cambogia nel 1975-79 e in Ruanda nel 1994 dove altrettanti cittadini comuni si trasformarono in assassini, mandano un chiaro segnale d’allarme: lungi dal vedere nei carnefici delle figure patologiche lontane anni luce dalla nostra cara e comoda normalità, dobbiamo essere consapevoli che ognuno di noi trovandosi in un contesto di violenza diffusa, organizzata e impunita può trasformarsi in un assassino. La dimensione degli spettatori è più composita ed è stata più importante di quanto si creda. Lungi dall’essere soggetti passivi, gli spettatori influenzano nel bene e nel male il processo di distruzione. La denuncia pubblica del programma di eutanasia in Germania ne ha sortito l’interruzione (solo ufficialmente purtroppo), così come la protesta di una larga parte dell’opinione pubblica in Bulgaria ha mandato all’aria la deportazione degli ebrei. Durante la guerra la generale indifferenza della popolazione tedesca rispetto alla questione ebraica ha favorito la deportazione e lo sterminio degli ebrei tedeschi. Tra gli spettatori vi furono individui, comunità, nazioni e organizzazioni e comportamenti che oscillarono tra l’appoggio diretto ai carnefici, la resistenza ai nazisti e il soccorso alle vittime. Così come per i carnefici, anche tra gli spettatori ci si domanda se i loro comportamenti siano dipesi più dalla personalità o dal contesto in cui agirono. Vi è una biforcazione metodologica fra le teorie della personalità e le teorie psicosociali e sociopolitiche. Da una parte, si dà rilevanza ai tratti autoritari (perlopiù tralasciando il contesto d’azione) e a quelli altruistici (tenendo conto anche delle dinamiche contestuali) della personalità. Dall’altra, si verificano sperimentalmente fenomeni sociopsicologici normali quali la conformità al gruppo, l’obbedienza all’autorità, l’adattamento al ruolo, la diffusione di responsabilità, la dissonanza cognitiva e il disimpegno morale o si vagliano fattori socio-politici come le probabilità di rischio insite nel soccorso, l’importanza della richiesta d’aiuto, le forme
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d’aiuto, le forme di governo presenti nei paesi dell’Europa nazista e i differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista, i rapporti fra popolazione ebraica e non ebraica prima della persecuzione ecc. Il quadro motivazionale di carnefici e spettatori è complesso e talvolta imperscrutabile, specie tra questi ultimi. A differenza dei capitoli 1, 4, 5, 6, i capitoli 2, 3 e 7 non toccano direttamente la realtà dello sterminio se non rispettivamente come tema per una riflessione sulle forme della crisi della coscienza europea, come soggetto della narrazione storica e oggetto di ricordo, rappresentazione ed educazione. In primo luogo, la crisi della coscienza nasce dalla cognizione del fatto che non vi è giustizia e condanna che possa punire un crimine così insensato e inaudito e una colpa così diffusa. In secondo luogo, questa crisi è provocata dalla percezione di una scandalosa inattualità del crimine nazista rispetto a un’immagine positiva e progressiva, libera dalla barbarie, della civilizzazione occidentale nel xx secolo. Civiltà e barbarie convivono nelle nostre società, la violenza tenuta sotto il controllo monopolistico dello Stato moderno riesplode laddove lo Stato ne abusa per fini politici. In terzo luogo, la crisi è data dalla mancanza di un vocabolo che adeguatamente possa esprimere quello che è percepito come un “crimine senza nome”. Il riempimento di questo vuoto dà vita, sebbene non subito, a un campo di studi interdisciplinare, “gli studi sul genocidio” in cui la Shoah assume un ruolo paradigmatico nell’analisi comparativa dei genocidi, nuovo male politico del xxi secolo. L’idea portante di questo saggio, che la Shoah è soggetta a una narrazione continua, a un’incessante assegnazione di nuovi significati (da qui i veti a certe forme della rappresentazione e le contese sulla singolarità della Shoah e sulla specificità ebraica tra i crimini nazisti) e a un’iscrizione entro nuove cornici di senso, trova posto sia nell’esposizione di alcuni paradigmi storiografici nel cap. 3, sia nel cap. 7 in considerazione della dimensione della rappresentazione come condizione preliminare e interdipendente del ricordo e dell’educazione della Shoah. Il prossimo futuro della Shoah è certo e incerto a un tempo. Certo perché il suo significato verrà sempre rinnovato come è accaduto sinora e sempre più deterritorializzato e globalizzato, incerto perché la scomparsa degli ultimi superstiti segnerà la fine di un presidio sicuro sul buon uso della memoria della Shoah, a quel punto potenzialmente esposta alle narrazioni più impensabili.
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