Rem 3 (2011)

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Anno II, n. 3 del 01 Dicembre 2011

- â‚Ź 5.00

I cinquant’anni del Museo tra Archeologia, Antiquaria e Architettura

9 772038 342001

A come Adria

In questo numero: Natalino Balasso Micol Barbierato Edoardo Cacciatori Andrea Fantinati Gabbris Ferrari Francesca Maria Forte Massimiliano Furini Giovanna Gambacurta Sergio Garbato Bruna Giovanna Pineda Ivo Prandin Riccardo Rubello Giulia Sattin Devi Sacchetto Richard Skinner Sergio Sottovia Monica Stefani Serena Turri Caterina Vernile


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SOMMARIO RUBRICHE

Taccuino futile - Natalino Balasso.....................................................................................7 Visti da lontano - Micol Barbierato...................................................................................9 Flash & News - Sergio Sottovia......................................................................................11 Visti da vicino - Caterina Vernile....................................................................................13 EDITORIALE

Darsi una voce............................................................................................................15

ATTUALITA’

www.remweb.it Anno II, n. 3 del 01 Dicembre 2011 Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010

A come Adria - Giovanna Gambacurta..........................................................................16 Piccoli lettori non crescono - Sandro Marchioro...........................................................22 Vicinanze e lontananze nella nebbia polesana - Devi Sacchetto.............................26

Direttore Responsabile: Sandro Marchioro

STORIE

Coordinamento Editoriale: Cristiana Cobianco, Monica Scarpari, Paolo Spinello

Erminia Fuà - Bruna Giovanna Pineda..............................................................................29

I PIONIERI DEL DELTA Berto Boscolo - Sandro Marchioro..................................................................................34 Marino Cacciatori - Edoardo Cacciatori........................................................................38 LUOGHI Il Castello risvegliato - Ivo Prandin................................................................................42

Il progetto di restauro conservativo della Casa natale del pittore Benvenuto Tisi detto "Il Garofolo" - Massimiliano Furini...........................46 PALCOSCENICO

Maria Paiato - Sergio Garbato.......................................................................................52 Lorella Doni - Intervista di Monica Scarpari......................................................................56 SUONI

Renato Cecchetto - Una voce nel buio - Intervista di Cristiana Cobianco.....................62

FORME

Christian Patracchini - Richard Skinner.........................................................................66 Simone Berti - Francesca Maria Forte..............................................................................72 IMMAGINI

Davide Rossi - Intervista di Andrea Fantinati.....................................................................76 Quarantacinque anni di Foto Club Adria - Intervista a Gianfranco Cordella...............82 COLORI

Laura Gioso - Serena Turri...............................................................................................86 PERSONAGGI

Libertà come arte - Attilio Penzo a Villa Papadopoli - Gabbris Ferrari....................90 Franco Monti - Sergio Sottovia.......................................................................................94

SAPORI E SAPERI Il cibo - Monica Stefani....................................................................................................98 STRISCE L'origine dell'ambra - Il gorgo della sposa - Riccardo Rubello e Giulia Sattin...........100 Aveva condiviso con noi l'organizzazione della mostra che abbiamo dedicato nel dicembre 2010 ad Elia, il fratello morto prematuramente qualche anno prima, accettando di mettere a disposizione i suoi quadri e le sue sculture. Ed era stato con noi anche all'incontro conclusivo del 26 dicembre, che più che un'occasione conviviale era diventata un momento di nuove progettualità, attorno all'idea di un nuovo catalogo delle opere e per l'aggiornamento del sito online dedicato ad Elia. Avrebbe collaborato con entusiasmo ancora, se un male di quelli che non perdonano non l'avesse portato via qualche settimana fa. Nel ricordo di Mario Greggio, REM abbraccia i suoi cari e porge loro le più sentite condoglianze per la perdita di un amico di cui abbiamo apprezzato le doti di serietà, sobrietà e compostezza. 5

Editore: Apogeo Editore

Grafica e Impaginazione: Michele Beltramini Stampa: Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (Ro) Tel. 0426.45900 Blog e Social Network: Sabrina Donegà Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Apogeo Editore di Paolo Spinello - Corso Vittorio Emanuele II, 147 45011 ADRIA RO, Tel.0426 21500, Fax 0426 945487, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03. Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010 Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze. REM ringrazia il Foto Club Adria per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo GRATUITO per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore. Numero chiuso in redazione il 11/11/2011 ISSN 2038-3428 Il QR Code memorizza al suo interno indirizzi e URL facilmente raggiungibili con una semplice fotografia scattata dal proprio cellulare munito di apposito software. Ci trovi su:

Foto di copertina: Adria. Museo Archeologico Nazionale. La vetrina dei vetri di epoca romana dalla collezione Bocchi.


In allegato a questo numero trovate

TERRACQUA 2012 L’em ozio ne del colo re nel Delt a del Po

ROBERTO CONTI

Con le voci di 13 poeti che hanno dedicato un loro verso alle

CALENDARIO

immagini di Roberto Conti

"Ti lascio libertà, occhio del mio pensiero, di percorrere lento il confine tra acqua e cielo, non v’è onda che sia aspra, non v’è silenzio che ti menta, chè rea d’indefinito scorre qui la vita". Danilo Trombin

GENNAIO

FEBBRAIO

MARZO

APRILE

MAGGIO

GIUGNO

LUGLIO

AGOSTO

SETTEMBRE

OTTOBRE

NOVEMBRE

DICEMBRE


RUBRICA

Taccuino futile

Le bietole e la felicità di Natalino Balasso Foto di Nicola Boschetti

nemmeno fecero caso (o finsero) a quel gol, dall’alto dei loro 8-9 anni. Ma lui fece il giro del campo gridando con in corpo una felicità che rividi solo in Marco Tardelli nella finale dei mondiali dell’82. Forse l’ebbrezza della felicità non si può condividere. Ma forse non è del tutto vero. Non so qual’è il fatto che mi ha iniziato all’idea che la felicità abbia a che fare con la fatica. Insomma, in fin dei conti tutti quei sentimenti che descriviamo come si trattasse di un archivio a cui si attinge ogni tanto, se si è fortunati, forse non stanno fuori ma dentro di noi, ma solo lì. Forse non c’è l’amore, ma solo la donna innamorata e, in subordine, l’uomo innamorato. Sì, perché in genere mentre la donna innamorata, a parte un po’ di sbadataggine, ha uno sguardo languido e intenso che la migliora, l’uomo innamorato ha per lo più una faccia da mona decisamente poco dignitosa. Fatica e felicità, si diceva. Un’immagine antica: il rampino da barbabietole (el rampin) con la sua mano metallica, brinca la bietola che sembrava precipitare nel ventre della terra dal buco che l’ha nutrita. Poi la posa a dormire, in fila dietro altre centinaia di bietole, ciascuna accanto al suo buco-vulva, ciascuna venuta al mondo senza futuro. Dietro all’attrezzo arrivano mani veloci che recano una falce (el messoròlo) e si muovono rapide. Appartengono, le mani, a donne infagottate nonostante il caldo, senza più forme femmine.

Il messoròlo azzanna la bietola dormiente per portarla alla mano sanca, la quale l’afferra per estrarre la lama dalla carne zuccherina. La lama si avventa rapida poi a ghigliottinare la bietola, privandola della verde capigliatura e gettandola insieme ad altre decollate in una sorta di mucchio di cadaveri color della terra. Passerà un forcone irto di denti e dalla forma di gabbia, un pesante forcon da bietole nelle mani di un uomo forte che getterà le decapitate a mucchi nel rimorchio del trattore (el motore) o nel casson del camio o, talvolta, nel camiorimorchio. Se ne va, il rimorchio, col suo culo traballante incontro al sole infuocato del delta, solcando sentieri da secoli solcati con in mezzo il loro ciuffo d’erba come fiche terrigne sdraiate ad ascoltare il mondo. Quando alla fine il crepuscolo confonde le forme le donne riprendono forma. Sono ragazze dai vestiti corti e dai fagotti escono anche ragazzi e quando le biciclette sulla strada ghiaiata s-ciccano i sassolini contro i raggi e i petti affaticati sospingono i pedali, si può leggere sul volto di quei giovani una inspiegabile felicità. Passano le ruote davanti alle finestre dell’osteria illuminate di giallo, dalle quali s’intravvedono giocatori di carte antichi e indifferenti, annebbiati dal fumo delle Nazionali senza filtro, con gli occhi umidi persi in un altro tempo, a ricordare vagamente di altre fatiche e di vecchie felicità.

Non so qual’è

il fatto che mi ha iniziato all’idea che la felicità

abbia a che fare con la fatica

O

ggi ho visto un uomo felice. Non so dire perché lo fosse. Ha digitato sulla tastiera qualcosa, poi ha guardato lo schermo senza aspettarsi nulla. E invece qualcosa è arrivato. Ha esclamato: “Diobon!” ed era felice. Un suo collega, soppesando lo schermo con gli occhi ha chiosato: “Te capirè che fadiga!”. Ho pensato che la felicità è cosa rara da condividere. Ho l’immagine nitida di mio fratello a cinque anni che a Ca’ Venier, in un campo improvvisato, con le porte che rischiavano di cadere a terra da un momento all’altro, segnò un gol in una partitella di “grandi”. Gli altri

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Foto di Roberto Conti

di Adria, Nel centro storico servizio! o tu l a i z o g e n 0 pi첫 di 10


RUBRICA

Visti da lontano

Lontana

di Micol Barbierato

Q

uando Cristiana mi ha chiesto di scrivere un articolo per la rubrica “Visti da lontano”, ho cominciato subito a buttare giù un testo infiammato di rabbia e vergogna per le notizie sconvolgenti che arrivano ogni giorno dall’Italia. L’articolo doveva intitolarsi “Ai confini della realtà”, perché è proprio così che mi appare la situazione italiana vista da lontano, il soggetto per una serie di fantascienza. Nel racconto la protagonista attraversa per sbaglio (è sempre distratta e sogna ad occhi aperti) una porta a un universo parallelo, e si ritrova in Misfalia, una distopia� dove tutto funziona al contrario. In Misfalia le persone raggiungono il potere in base ai loro misfatti invece che per i loro meriti, a capo del governo regna imperturba-

to il partito Forza Gnocca, e i politici pensano solo a scambiarsi favori e a fare baldoria con droghe e donnine mentre il paese è al bordo di una catastrofe economica e sociale. Ma poi Cristiana mi ha spiegato con infinita pazienza (e per la quarta volta , quando mi infiammo non capisco più niente) che l’articolo doveva trattare del mio rapporto con la mia terra, il Polesine, e la mia città, Adria. La notizia mi ha gettato subito nello sconforto perché, ad essere onesta, è da quando ho lasciato l’Italia nel 2001 che non penso né al Polesine né ad Adria. Che cosa scrivere allora? In preda all’angoscia e in cerca di ispirazione, ho cominciato a sfogliare gli articoli contenuti nella rubrica “Visti da vicino”. Volevo sapere come vivono ad Adria e in Polesine tutte quelle persone che, come me, hanno lasciato tutto alla ricerca di una possibilità di iniziare una nuova vita. Pensavo che forse avrei potuto trovare qualche spunto positivo per parlare bene della mia città, ma purtroppo quello che ho letto non mi è piaciuto affatto, e sono riaffiorati alla memoria tutti i motivi per cui mi sento lontana, estranea alla mia terra. Perché, a parte la mia infanzia, i ricordi che ho della mia vita ad Adria non sono belli e nemmeno tanto felici. Se sei diverso e non accetti compromessi, ma soprattutto se sei diverso, vivere e crescere ad Adria può essere un’esperienza difficile e dolorosa. Niente (o poco) cambia ad Adria, dove strutture e organizzazioni si impegnano a mantenere uno status quo dove non c’è spazio per la creatività, il nuovo e l’originale. Io ho avuto la fortuna di conoscere molte persone belle e straordinarie, persone a cui penso 9

spesso e a cui vorrò sempre bene, ma in generale posso dire che il Polesine è una terra chiusa, bigotta e ostile verso tutto ciò che è nuovo e differente. Insomma, a conti fatti, Adria come città non è poi così diversa dalla nazione Misfalia, e rappresenta un modello negativo da non seguire e dove non vorrei tornare a vivere anche se ne avessi la possibilità. E tutto ciò mi porta a fare un’ulteriore (l’ultima per fortuna!) riflessione. Che cosa può e deve cambiare ad Adria e negli adriesi? La lista delle cose da cambiare è decisamente lunga, quasi infinita, ma per motivi di spazio enumererò solo pochi aspetti fondamentali e forse un po’ sconclusionati, che decisamente renderebbero Adria un posto migliore dove vivere. Prima di tutto vorrei che venisse dato più spazio ai giovani e alle loro necessità. L’arte, la cultura e la musica sono fondamentali per lo sviluppo della personalità e la crescita interiore, anche se capisco che poco o nulla interessano ai nostri politici. Vorrei quindi che venisse dato più spazio alla cultura, e che la cultura fosse sempre libera e non strumentalizzata. Vorrei anche che la gente di Adria smettesse di pensare tanto alle apparenze e si preoccupasse di essere più buona nei fatti e non solamente andando in chiesa. Vorrei anche che i miei concittadini fossero più generosi e aperti verso tutti coloro che provengono da una cultura o una realtà differente. Infine, vorrei che venisse protetto e curato di più il territorio, straordinario e meraviglioso, ricco di specie animali e vegetali uniche al mondo. Se i miei desideri fossero esauditi, allora forse potrei ritrovare l’amore perduto per la mia terra e sentirmi meno lontana.


Vie E. Filiberto, 30 - ADRIA (RO) info@adriautosnc.com - 0426.900455

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RUBRICA

Flash & News

Marta Menegatti “Miss Europa beach volley” Prenotando con la Cicolari le Olimpiadi di Londra 2012 di Sergio Sottovia

E

ra una ragazzina, Marta Menegatti da Ariano nel Polesine. Una teenager fino a due anni fa, ma carattere tanto. Una storia nella pallavolo, base di lancio la Virtus Taglio di Po di Luciano Zanella, il talent scout per antonomasia, visto che da lì avevano già spiccato il volo Vigor Bovolenta ed Elena Gabrieli. Poi mamma Cinzia ha portato la sua Marta a Jolanda e alla Teodora di Ravenna, perché… aveva la pallavolo nel sangue e sognava la Serie A. Poi tutto è cambiato in una estate al mare. Marta sui lidi ravennati/ ferraresi incontrò il suo beach volley ed è stato amore a prima vista. Tant’è che sono arrivati sempre più velocemente i suoi successi in campo nazionale e, tre anni fa, anche in campo internazionale. Prego leggere il suo “curriculum” autocertificato nel 2009 dalla stessa Marta Menegatti, per il Concorso pub-

blico, in qualità di atleta e per titoli, per l’accesso al Centro sportivo dell’aeronautica militare di 15 volontari in ferma quadriennale. Nel 2006: “5° posto Mondiali U19 (Bermuda)”. Nel 2007: ”2° posto Mondiali U19 (Myslowice, medaglia argento ai campionati mondiali)”. Nel 2008: “5° posto Europeo U20 (The Hague); 9° posto Mondiali U21 (Brighton). Quindi lo straordinario/strepitoso 2009 con: “1° posto Finale Campionato italiano U21 (Jesolo, vincitrice di campionato di categoria); 2° posto Torneo satellite (Zagabria), 3° posto Torneo Challenger (Cipro); 3° posto Torneo satellite (Laredo); 3° posto Torneo satellite (Vaduz); 1° posto Europeo U20 (Kos, Grecia, medaglia d’oro); 13° posto Torneo World Tour (Barcellona); 2° posto tappa Campionato italiano (Pescara) 1° posto tappa campionato italiano (Termoli); 1° posto Finale Campionato Italiano (Vasto, medaglia d’oro); 13° posto Torneo World Tour (Phuket – Thailandia); 4° posto Torneo World Tour (Sanya – Cina).” Davvero tanti titoli di merito, ma quanti sacrifici per Marta e la sua famiglia, perché oltretutto… girare il mondo costa. Poi a ‘quella domanda di Marta’ c’è stata la risposta dell’ Aeronautica Militare, con relativa ‘assunzione’ insieme a Greta Cicolari. Con la possibilità di far parte del team Italia e partecipare a tutte le tappe del World Tour 2010. Il che voleva dire ‘puntare’ alle Olimpiadi di Londra 2012. Un sogno che la coppia Menegatti-Cicolari ha messo a frutto negli allenamenti a Falconara Marittima avvicinandosi sempre più al podio nelle varie tappe del World Tour. Quando poi si infortunò l’amica Greta, per Marta il mondo-volley non si fermò affatto, tanto che in coppia con Valeria Rosso, nell’ultima tappa 2010, a Phuket in Thailandia, la Menegatti regalò all’Italia addirittura una storica medaglia d’argento. Quanto valeva? Tanto, 11

ma soprattutto una straordinaria iniezione di fiducia, per Marta Menegatti e per tutto il team azzurro, che all’inizio di questa stagione si è trasferito a Rio de Janeiro, sulla spiaggia di Copacabana, per preparare al meglio il World Tour 2011. E il sottoscritto? Quest’anno a gennaio scrissi che Marta era la nostra best beacher e che per la ‘seconda metà del cielo azzurro’ toccava alle altre meritarsi... l’altra faccia della medaglia olimpica. Sta di fatto che il CT Lissandro scelse Greta Cicolari per ballare con Marta sulla sabbia del World Tour 2011. 16 tappe attraverso 13 paesi diversi e sei Grand Slam (Norvegia, Svizzera, Russia, Polonia, Austria e Cina). Com’è andata? La coppia ha scalato il ranking mondiale andando più volte sul podio, conquistando medaglie di bronzo (Gstaad) e d’argento (Myslowice), ma soprattutto lo strepitoso oro con relativo titolo europeo griffato Marta & Greta, datato agosto 2011, location Kristiansand in Norvegia. Per un ‘happy birthday to’ Marta Menegatti grazie anche al sesto posto nel seeding mondiale, prenotando Londra 2012 per realizzare il sogno Olimpiadi.


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Disponibile presso la Libreria Apogeo, in alcune edicole di Adria, presso le Librerie Mondadori - C.C. La Fattoria e Ubik Spazio libri di Rovigo e online su www.libreria-apogeo.it

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Romano Beltramini SIORA ADRIA, ME CAVO EL CAPÈLO

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328 pagine a colori, foto di copertina di Sabrina Degrandis Euro 20,00

ISBN: 978-88-88786-83-4 Con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Adria


RUBRICA

Visti da vicino

La Murgia e il Polesine, due paesaggi dell’anima di Caterina Vernile

P

ercorrendo in macchina il Polesine incontro fiumi, canali, corsi d’acqua che scorrono lentamente davanti ai miei occhi, come accade ormai da anni. Un senso di malinconia, quasi di pigrizia mi invade, anche se questo contrasta con la laboriosità della gente, che con anni di attento lavoro è riuscita a domare le sue acque. La quiete, il silenzio, avvolgono il lento scorrere delle acque lungo il Delta del Po. Canneti appaiono ai miei occhi come lance scure pronte a difenderti, mentre aironi si sollevano pigramente lungo i canali. La barca scivola lentamente e ovunque volgi lo sguardo scopri piante mai viste prima, dalle sfumature verdi e color oro. Tutto brilla sotto la luce infuocata del sole, mentre i miei occhi mirano a cercare la linea di confine tra fiume e mare. Le foci del Grande Fiume, già nella più remota antichità, furono meta di approdi e luogo di transito di genti post-

micenee, che trasmigrando dall’Asia d’Oriente”, secondo la definizione pominore e dalle isole dell’Egeo e dall’Illietica di Eugenio Montale, ti entra nel ria costruirono su queste sponde le loro cuore e nella mente. Anche il cinema fortune mercantili ed espressero quelle è rimasto incantato dalla sua bellezza forme elevate di civiltà e di cultura che e il paesaggio è apparso nel film “Osi reperti archeologici di Adria mirabilsessione” di Visconti o in “Paisà” di mente attestano. Il Delta è presente nel Rossellini, fino a “Il grido” di Antonioni mito di Fetonte, nella leggenda di Egie i più recenti film di Carlo Mazzacurade e nella grande saga degli Argonauti. Vai lungo i suoi canali per ammirare ti (le isole Elettridi adombrerebbero i i colori e respirare i profumi di questa dossi emergenti in questa parte dell’Alterra. Dagli argini e dai ponti osservo to Adriatico). Non posso non ripensail corso maestoso e solenne del grande re al paesaggio così arso e brullo della fiume, il palpitare tremulo dei pioppi mia terra natia. Sono qui da tanti anni, lungo le rive e nelle ampie golene, i eppure l’atmosfera mi tramonti sull’acqua. Il colpisce ancora. I cieli vento si mescola con bigi, la nebbiolina che il verso di mille uccelli, appare anche negli stanziali e migratori, Il Delta è presente volteggianti e acquatafosi giorni d’agosto mi avvolgono in una tati tra i fitti steli nelle nel mito di Fetonte, barene; melodioso è emozione sempre viva. Gli ulivi sono lontani il canto degli usignonella leggenda di come la mia famiglia, li di fiume, aspro e ma le risa e i sorrisi dei Egide e nella grande gracidante il richiamo ragazzi che ho incondelle cannaiole e delle trato qui mi scaldano saga degli Argonauti cannariccione, tenue il cuore. Con loro ho quello del migliarino trascorso giorni sereni di palude. E, quando e da loro ho imparato scende la notte, si difla lingua veneta, che fonde il grido rauco comunica allegria e gioia di vivere. I dei tarabusi. All’improvviso ti assale viottoli di campagna che seguono le l’odore secco della canna e un sentore anse dei fiumi sono tanto diversi dai di salmastro. Vorresti condividere con tratturi costeggiati da muretti a seci tuoi cari questo paesaggio così dolce co. La Murgia, ombreggiata solo da e tenero, con quel faro che si staglia distese di ulivi dai tronchi contorti che in lontananza per illuminare, di notte, sembrano quasi sculture e il Polesine, la via del mare. Eppure entrambi handove lo sguardo si confonde tra cieno in comune la laboriosità della prolo e acqua. Viene voglia di dipingepria gente, sempre pronta a coltivare re ad acquarello questi due paesaggi e raccogliere il frutto del suo lavoro. dell’anima. L’uno solare e forte, l’altro Un cammino diverso eppure uguale languido e quieto. Da una parte i canell’immutabilità del tempo. soni ancora visibili, un tempo alloggio dei pescatori e ripostiglio per gli attrezzi da pesca, dall’altra i trulli che a stento si sottraggono alla voracità dei In foto: cratere etrusco a campana a figure rosse - da Chiusi (Si), Pittore degli Argonauti (375-50 turisti. Eppure il Delta, dove “un’antia.C.). ca vita si screzia in una dolce ansietà

“ “

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60 anni fa l'Alluvione, che ferì profondamente la nostra terra e le nostre genti. Un bel libro, pubblicato da Utet libreria, arriva in questi giorni a parlarne ancora: poche le immagini - relegate in fondo al volume di quasi 300 pagine - fitto e denso di particolari il documentato racconto degli autori, Paolo Sorcinelli e Mihran Tchaprassian. Il ricordo di quegli avvenimenti, fatali per le tragiche conseguenze che ne derivarono, comincia così: "Fu un '51 davvero particolare; per tutto l'anno piogge, straripamenti, inondazioni, frane si erano susseguiti con una cadenza impressionante dal nord al sud, da gennaio a novembre, tanto che ormai tutta l'Italia vantava un repertorio di 'acque cattive' i cui resoconti assomigliavano ai bollettini di guerra di recente memoria. Ma in realtà i primi segnali non si erano avuti al sud, per spostarsi poi al nord. Tutto era iniziato al nord e qui tutto si sarebbe concluso e nella maniera più drammatica e impressionante". 60 anni dopo, mentre la furia dei fiumi che esondano semina ancora morte e distruzione in altre parti d'Italia, il Polesine ricorda con dolore quelli che Sante Tugnolo, allora giovane Sindaco di Adria, definì "i giorni dell'acqua".


EDITORIALE

Darsi una voce

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icono che i libri stiano per morire. Può essere. Anzi, sicuramente accadrà. Muteranno le forme, varieranno i supporti, li chiameremo in un altro modo, ma quello che non morirà mai sarà l’idea che la scrittura possa coccolare la nostra fantasia, alimentare la nostra fiducia, far crescere la nostra speranza. Sta accadendo anche oggi, sotto i nostri occhi: mentre gli editori lamentano crisi epocali un piccolo libro (piccolo davvero: 64 pagine, 5 euro, Add editore: praticamente semisconosciuto) ha messo in moto un movimento che si è diffuso in tutto il mondo. Il libro si intitola “Indignatevi”, non lo ha scritto un giovane autore fighetto che galoppa per salotti televisivi, ma un ex partigiano di 94 anni che, a parte in Francia, nessuno conosceva. Sicuramente neanche adesso lo conoscono tutti coloro che partecipano al movimento degli “indignati”, che da quel libro prende il nome. Eppure, mistero e fascino della cultura, le idee di quel piccolo libro hanno scosso rabbiosamente milioni di persone, per lo più giovani, intercettando un malcontento che evidentemente serpeggiava ma che non riusciva a prendere una forma, a darsi una voce, a sintetizzarsi in alcuni concetti chiave. Si può essere d’accordo o meno con le tesi di quel libro: ovunque c’è chi lo acclama e chi lo stronca (esemplare, tra questi ultimi, il pezzo di Giorgio Israel su “Il Foglio” di martedì 18 ottobre 2011). Ma ciò che conta davvero, ciò che ci deve far riflettere è che nella stagione dei social network, nell’epoca del feticcio dell’immagine, in una realtà in cui vecchi e giovani non hanno più niente da dirsi, un signore di 94 anni vende tre milioni di copie e soprattutto riaccende la rabbia, la speranza e i sogni di diversi milioni di persone, per lo più giovani e giovanissimi. Non sono, ovviamente, quelli che hanno messo a ferro e a fuoco Roma sabato 15 ottobre: quelli non sanno leggere nè capire; sono quelli che nelle altre 900 città del globo, lo stesso giorno, chiedevano un mondo diverso da quello in cui una certa finanza governa un’economia paranazista, che semina ingiustizie e sofferenze e spegne i sogni delle generazioni future. Noi siamo una piccola rivista che si occupa di cultura locale. Tra noi, rispetto al movimento degli “indignati”, c’è chi condivide e chi no. Tutti, però, siamo piacevolmente stupiti e assolutamente contenti del fatto che a cambiare il mondo ci stiano provando dei ragazzi che hanno letto un libro. Anche noi, con questa piccola rivista, vorremmo contribuire a cambiare un poco il nostro territorio. Più ci guardiamo intorno più sentiamo che ce n’è un gran bisogno.

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ATTUALITA’

A come Adria

(tra Archeologia, Antiquaria e Architettura) Il Museo Archeologico Nazionale di Adria celebra i suoi 50 anni di Giovanna Gambacurta

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l terreno di Adria, sottile e umido o, in certi luoghi, sabbioso e asciutto, ha restituito nel tempo i resti della sua storia, a rappresentare un richiamo dal passato, una voce per tutti quelli che sanno ascoltarla. Erano gli inizi del ‘700 quando i primi resti, come frammenti inarticolati di frasi, si sono fatti sentire ed hanno trovato l’attenzione di Ottavio Bocchi; attraverso tutto il secolo successivo i suoi discendenti, in particolare Francesco Girolamo e Francesco Antonio, seppero ‘ascoltare’ queste voci e cercarono di ricostruire, con costanza, acribìa e passione, i frammenti di un passato lontano, ma già inquadrato nella ‘cornice’ etrusca, cultura tra le più misteriose e affascinanti dell’Italia antica. L’oggetto delle loro ricerche fu ostinatamente circoscritto su Adria, in contrasto con l’apertura nazionale ed internazionale dei loro rapporti di studio, che li misero in contatto con i più illustri studiosi dell’epoca, dall’Accademia Etrusca di Cortona, precocemente interpellata da Ottavio, fino a Mommsen e a Schöne, suscitando anche l’attenzione della casa imperiale austriaca. L’illustre città antica usciva così dal suo sotterraneo isolamento e attorno al suo nome, in palese rapporto con il mare, si accrescevano l’interesse e lo stupore. Alla morte di Francesco Antonio, nel 1888, la famiglia iniziò a sentire il peso e la responsabilità della collezione, ormai superiore ai 6000 reperti; non restava che prendere contatti con Enti ed Istituzioni per alienarne la proprietà. Come le grandi scoperte archeologiche sono spesso frutto del convergere di circostanze favorevoli, così può accadere per le collezioni. Se, infatti, la collezione Bocchi non andò smembrata e dispersa in quel delicato momento, quando l’interesse dei proprietari

appariva indebolito, questo si verificò grazie ad un personaggio di grande rilievo nell’archeologia nazionale, che vantava origini polesane, Gherardo Ghirardini. Ghirardini, primo Soprintendente alle Antichità delle Venezie, portò la sua autorevolezza e il profondo legame con la terra delle sue origini, a tutela delle sorti di questa raccolta archeologica e dei preziosi documenti che ne avevano accompagnato la formazione. Egli si fece mediatore tra la famiglia e il Comune di Adria, affinché il patrimonio rimanesse alla città cui apparteneva di diritto. La transazione, conclusa con l’inaugurazione del Museo Civico nel 1904, innescò un meccanismo virtuoso, dando il via a donazioni ed acquisti di preziosi reperti dalle famiglie della città e dei dintorni, nuovi tasselli per ricomporre un unico panorama. Lo spazio destinato al Museo, sistemato nelle scuole elementari, si rivelò ben presto inadeguato. Ancora la città antica bussava alla porta di quella moderna, la richiamava alla responsabilità del suo passato. La considerazione e l’affetto che gli adriesi nutrivano per quel patrimonio spinsero Giuseppe Cordella ad offrire al Comune il suo palazzo nel pieno centro cittadino, per accogliere il nuovo Museo. Era il 1927 e le operazioni di restauro e adeguamento dell’immobile, fino al trasloco, durarono sette anni, ma alla fine il Museo ebbe una sede idonea. Gli eventi della storia, però, non conoscono sosta; un unico filo rosso unì gli antichi abitanti della città e quelli che, su impulso del Regime, diedero il via all’impresa dell’inalveazione del Canal Bianco in un ramo esterno alla città e di maggior portata, tra il 1938 e il 1940, sulla scorta di una politica nazionale di opere idrauliche e di bonifiche che cambiò 16


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profondamente il volto di alcuni territori italiani, come ricordato di recente nel romanzo “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi. Ed erano il lamento funebre, canti e preghiere levati sulle sepolture dei propri cari, le voci che emergevano dallo scavo del canale e che trovarono in Giovanni Battista Scarpari l’attento ascoltatore. L’architetto adriese seguì con passione il rinvenimento delle centinaia di sepolture che occupavano il settore privilegiato della ‘città dei morti’, lasciando appunti, foto e schizzi a documentare i momenti salienti dello scavo. La tomba della biga, recuperata con il suo blocco di terra, ché non sarebbe stato possibile altrimenti, e trainata a forza di buoi lungo le sponde del canale, testimonia ancora oggi il coraggio pionieristico di quegli scavatori. All’interno di Palazzo Cordella, la collezione Bocchi e le altre collezioni civiche cominciarono a soffrire per l’abbondanza dei molti reperti dagli scavi nel pubblico giardino e nell’area dell’Ospedale, ma l’arrivo dei 400 corredi tombali del Canal Bianco e della ingombrante Tomba della Biga portò la situazione di affastellamento delle raccolte allo stremo; i molti reperti erano come frasi mescolate e confuse e non riuscivano più a comporre con chiarezza il racconto del passato. Ci si avvicinava però in quegli anni alla guerra, e il problema di una adeguata sistemazione per i materiali di Adria antica non poteva ritenersi prioritario. Dovette passare non solo la guerra, ma anche la rovinosa alluvione del ‘51, perché la questione della sistemazione del patrimonio archeologico tornasse in auge. Nell’alluvione i reperti non ebbero a subire danni significativi, ma il rischio corso riportò all’attenzione la situazione di emergenza in cui si trovava il materiale, di cui ormai anche la fruibilità risultava fortemente limitata. Sul finire degli anni ‘50 si delineò la soluzione, facendo risalire in superficie quel sentimento di considerazione, di affetto e di appartenenza che ha legato gli adriesi ai loro antichi predecessori. La delibera con cui il Comune offrì in dono allo Stato il proprio ‘Pubblico Giardino’ per edificare il Museo, è un provvedimento di grande significato, sia in senso istituzionale, sia in quanto espressione di una volontà condivisa. Si optò per un Museo nuovo, non più la sistemazione in un edificio riattato, ma qualcosa di specificamente progettato e destinato all’esposizione dei reperti e alla loro valorizzazione, come si direbbe oggi. Non è un caso che questi passi siano stati compiuti quando nelle Istituzioni si trovavano personalità di eccezione, dall’architetto adriese Giovanni Battista Scarpari al Soprintendente ai Beni Architettonici Ferdinando Forlati, che andava

Adria, Palazzo Cordella. Il Museo Civico tra gli anni ’30 e gli anni ’50 del ‘900

Adria, il Museo Archeologico all’epoca della inaugurazione nel 1961

La facciata del Museo Archeologico Nazionale oggi (50° anniversario - 17 settembre 1961). Foto di Andrea Fantinati 17


ATTUALITA’

Adria. Museo Archeologico Nazionale. Anfora di produzione attica a figure nere del Pittore Affettato (540-530 a.C.). Foto di Andrea Fantinati

il 17 settembre 1961, vedeva un Museo dall’architettura in linea con le istanze del tempo, in una stagione in cui l’idea del contenitore Museo come edificio progettato ad hoc si delineava sulla scena della architettura museale nazionale. L’allestimento interno, lo spazio destinato alla sala conferenze, agli uffici e ai laboratori, si affacciavano su di un giardino che non aveva perduto, allora come ora, la sua connotazione di ‘Giardino Pubblico’, spazio verde in cui il passato e il presente sono chiamati al dialogo. Nel nuovo Museo i reperti trovarono una sistemazione che consentiva loro di riannodare i fili del discorso, di riprendere a narrare la storia, in un percorso che faceva capo ad una quinta di marmo rosso, sfondo ai preziosi gioielli dell’oreficeria etrusca e ai più belli dei vetri romani, esposti in una vetrina ottagonale. Il Museo, divenuto Nazionale, intraprese la strada non facile del rapporto con il territorio, con lo scopo di diventare un riferimento per la tutela delle ricchezze storico

progettando in quegli anni i Musei di Altino, Oderzo e Aquileia, alla Soprintendente per le Antichità, Bruna Forlati Tamaro. Le pratiche burocratiche che portarono il Museo Civico ad acquisire lo statuto di Nazionale durarono a lungo, fino al 1972 (!), ed il risultato è stato esito dell’ostinazione di due donne di straordinaria personalità, Bruna Forlati e Giulia Fogolari, che caparbiamente non si sono arrese di fronte alle mille pastoie e ai cavilli che hanno più volte bloccato questo percorso, come testimoniano lettere accorate e a volte irritate. Il cantiere edile, invece, terminò molto prima, sulla scia della necessità di lavoro che in Polesine era particolarmente pressante dopo l’alluvione. L’opera pubblica rappresentò un’occasione di rinascita, la volontà di ‘ricostruire’ partendo proprio dalle radici più antiche. Il cantiere, diretto da Giovanni Battista Scarpari fu ‘scuola’ di manovalanza, per formare una nuova generazione destinata alla ricostruzione. L’inaugurazione, 18


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ricordare Michele Tombolani, acuto interprete dei reperti di bronzo, non ultimo il prestigioso e misterioso Eracle da Contarina. Il Museo è passato alla Direzione di Simonetta Bonomi nel 1989, giungendo nelle mani di chi aveva già lungamente collaborato alla sua crescita negli anni precedenti. Si deve a lei l’idea di un progetto apparentemente irrealizzabile, quello di un ampliamento, indispensabile a rendere nuovamente possibile il dispiegarsi dell’ala narrativa, ripiegata sotto il peso della quantità dei nuovi rinvenimenti che andavano occupando spazi espositivi ormai trasformati in magazzini. Il museo invecchiava, infatti, sentendo il peso millenario dei troppi reperti cui non poteva più dare voce. La necessità di un ampliamento e, nel contempo, di un allestimento in linea con le nuove esigenze della comunicazione e della museografia, trovava riscontro nella sinergia tra Simonetta Bonomi e Loretta Zega, architetto della Soprintendenza Archeologica, che è riuscita a dare corpo alle istanze dell’archeologia senza tradire le soluzioni architettoniche precedenti, ma innescando con esse un rapporto di proficuo confronto. Gli anni che vanno dal 2000 al 2009 hanno visto il Museo svuotato, con i reperti ancora una volta imballati e muti in attesa di tornare a far sentire la loro voce, e quindi ampliato e progressivamente riallestito; il completamento delle varie sezioni è stato accompagnato da mostre temporanee anche di grande entità, come nel caso di Balkani, nel 2007, operazione che ha portato il Museo di Adria sulla scena internazionale. Completato il riallestimento nel 2009, il Museo è stato affidato a chi scrive sullo scorcio dello stesso anno, un po’ ancora frastornato dall’eco della grande mostra Balkani che lo

Adria. Museo Archeologico Nazionale. Oreficeria etrusca di età ellenistica (III sec. a.C.)

archeologiche dell’area del delta. A Giulia Fogolari, Soprintendente, e a Bianca Maria Scarfì, Direttore del Museo, si deve la prima e, fino ad ora, l’unica monografia: “Adria antica” edita nel 1970, corredata da bellissime fotografie a colori. Sono anche gli anni in cui il magistero di Giulia Fogolari all’Università di Padova formava giovani che avevano a cuore il racconto della antica città e desideravano ascoltarlo e decifrarlo, fra questi Umberto Dalle Mulle cui si devono non solo scavi e resoconti di grande interesse, ma i primi tentativi di organizzare mostre pubbliche, di portare cioè il ‘racconto’ dell’antico fuori dalla cerchia degli specialisti, alle orecchie di tutti i cittadini. Le scoperte e gli scavi di San Basilio di Ariano Polesine e di Corte Cavanella di Loreo, fra gli anni ‘70 e ‘80, con la direzione di Maurizia De Min, Elisabetta Mangani e Lucia Sanesi, indicavano che le antichità di Adria non erano da considerare come una sola voce narrante, ma piuttosto come la voce solista di un coro. Maurizia De Min, in particolare, faceva parte di quel nucleo di allievi di Giulia Fogolari che allora popolavano la Soprintendenza Archeologica del Veneto e che, a vario titolo, si occupavano di Adria; con lei è giusto

Adria. Museo Archeologico Nazionale. Il nuovo allestimento del lapidario 19


ATTUALITA’

aveva sommerso di visitatori, quasi alla soglia della sua potenzialità ricettiva. Dopo quella ondata di notorietà... un silenzio assordante, le voci dei reperti rischiavano di rimanere da sole o di spegnersi. Bisognava ricostituire un rapporto con il territorio, tessere la tela della narrazione e della fiducia tra il patrimonio e i cittadini, tra Museo e Comune, tra Adria e il suo paesaggio antico, determinato dal fiume e dal mare. È questa la sfida di oggi ed è l’augurio che si condivide con il personale tutto del Museo, sempre pronto ad aderire alle iniziative proposte, in particolare a quelle dedicate alla celebrazione del cinquantenario, che si possono riassumere brevemente

nelle tre A sottolineate nel titolo “Archeologia, Antiquaria, Architettura”: due mostre per far parlare le immagini che ci giungono dal tempo remoto dell’Adria greca ed etrusca, un convegno su tematiche architettoniche per guardare al futuro. Sono le sfide che mirano a ricostruire per Adria un ‘nome’, a far risaltare la valenza nazionale ed internazionale del Museo, dei suoi reperti, del suo nuovo allestimento, mentre il suolo della città, proprio in questi ultimi mesi, ha ricominciato a bussare alla nostra porta di cittadini del terzo millennio, con nuove storie di straordinaria ed inaspettata bellezza. Ma questo è un nuovo capitolo...

Le iniziative per la celebrazione dei 50 anni 17 settembre 2011 - 16 giugno 2012 “Trame d’Arte” di Leda Guerra Mostra di arte contemporanea. L’artista ha voluto dedicare alcune opere alla valorizzazione del patrimonio archeologico adriese, proprio in occasione del cinquantesimo anniversario. Leda Guerra ha trovato ispirazione nei reperti di ceramica greca del museo, rendendo vive e vitali le immagini con raffinate interpretazioni in tessuto, gettando un ponte tra passato e futuro e costituendo nel contempo ‘il vestito della festa’ che il rinnovato museo si concede per questa occasione.

Trame d’Arte La mostra “Trame d’Arte” apre le celebrazioni del cinquantesimo anniversario della inaugurazione del Museo Archeologico Nazionale di Adria e ne costituirà il leit-motiv fino a giugno 2012. Uno dei nuclei centrali del patrimonio del museo è, infatti, la ricca collezione di ceramica attica a figure nere e rosse che gli Etruschi adriati hanno importato copiosa da Atene tra il VI e il V secolo a.C. per arricchire le loro mense. Le raffinate decorazioni di questi vasi restituiscono le immagini della vita quotidiana accanto a quelle dei più famosi miti che ruotano attorno a dei ed eroi del mondo greco. La consuetudine di Leda Guerra a confrontarsi con le iconografie del mondo classico, rielaborando liberamente ma fedelmente le immagini in raffinate realizzazioni in tessuto, rende le sue opere artistiche particolarmente pregnanti per la valorizzazione del patrimonio adriese, costituendo un legame ricco di vitalità tra passato e presente.

Fine gennaio-inizi febbraio 2012 Convegno nazionale per riflettere sulle soluzioni architettoniche che da oggi in poi si prospettano per i musei archeologici che vogliano trovare una sintonia tra un’antichità frammentaria, a volte ritenuta statica, e un passato sempre più veloce e dinamico.

Maggio 2012 Mostra dedicata ai documenti e ai disegni dei primi ricercatori, i rappresentanti della famiglia Bocchi; il restauro del materiale cartaceo, oggi in parte in precario stato di conservazione, sarà finalizzato ad una esposizione, per non dimenticare le origini di questa avventura della conoscenza.

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Andrea Zanzotto Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011

Femene che le lava Tute le femene le va do’ al lavador: no l’è ‘n mistier ‘sto qua ma l’è ‘n destin, cofà l’amor o ‘n fiol, o la só ora co la vien. La va dó l’ora e la lava co l’aqua che la fila via, l’aqua che anca de ‘sta vita e non sol de ‘ste poche nostre robe la ne fa pulizhia.

Donne che lavano Tutte le donne si recano al lavatoio: non è un lavoro questo, è un destino, come l’amore o un figlio, o come l’ora nostra quando viene. Va giú l’ora e lava con l’acqua che fila via, l’acqua che anche di questa vita e non solo di questi nostri pochi panni fa pulizia.


ATTUALITA’

Piccoli lettori non crescono di Sandro Marchioro

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on ci sono più le mezze stagioni. Non ci sono più i sapori di una volta. I giovani non leggono. Le tre frasi che avete appena letto vengono definite luoghi comuni e non sono altro che dei concetti sintetici e semplici con cui tutti noi cerchiamo di spiegarci i cambiamenti che accompagnano le nostre vite. I giornali spesso le accompagnano con dati statistici: Istat, Censis, Ipsos cercano di confermare con i numeri una tendenza in atto. Per quanto riguarda i giovani e la lettura i dati sono una caterva e portano quasi tutti verso la conferma dell’affermazione: 22

i giovani leggono poco. Eppure, nessuna statistica risponde a quesiti ben più importanti: cosa leggono i giovani? Cosa si fa per stimolare la loro voglia di leggere? E’ evidente che le due realtà in cui si forma un lettore sono la famiglia e la scuola. Soprattutto la seconda, ha spesso un’idea limitata di lettore: è lettore chi legge gli autori che si studiano a scuola, tutto il resto non conta. Per cercare di capire cosa si fa per stimolare la voglia di leggere dei ragazzi nelle scuole del nostro territorio abbiamo sentito alcuni insegnanti le cui risposte delineano un quadro ben


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più complesso di quello dipinto dalle indagini statistiche. Primo dato: non è del tutto vero che i giovani non leggono. “L’esperienza quotidiana mi dice che i ragazzi leggono molto più di una volta – dice Antonio Lodo, dirigente scolastico del Liceo “Bocchi” e del Liceo “Galilei” di Adria (oltre che appassionato lettore e raffinato studioso), “il problema è che non leggono quello che noi insegnanti e che noi adulti in genere riteniamo letture importanti. Del resto la scuola non fa molto per creare lettori: basti pensare alla mancanza pressochè assoluta di spazi scolastici dedicati alla lettura: le biblioteche scolastiche spesso sono poco più che magazzini, non abbiamo risorse per creare vere e proprie biblioteche nè possiamo permetterci personale che segua tecnicamente una eventuale biblioteca scolastica. Non mi risulta nemmeno ci siano progetti specifici ed istituzionalizzati per stimolare alla lettura. In un contesto come questo, dove regna più che altro la filosofia del taglio delle risorse, come si fa a fare qualcosa di concreto per creare dei lettori?”. A creare dei lettori, come dice Lodo, ci devono pensare per lo più gli insegnanti nella loro pratica quotidiana. Ma anche qui, come vedremo, ci sono molte riflessioni da fare. “Ho l’impressione che tutto sia lasciato alla sensibilità del singolo docente – dice Patrizia Zenato – docente di lettere all’istituto “Maddalena” di Adria – non si riesce ad insegnare a leggere, piuttosto si deve sedurre, affascinare, far capire ai ragazzi che la lettura di un libro è un viaggio interessante alla fine del quale ci si ritrova diversi da quando si è partiti. Nella mia scuola, in passato, abbiamo cercato di raggiungere questo risultato facendo incontrare i ragazzi con alcuni autori importanti (sono venuti nella nostra scuola Da-

cia Maraini, Pino Cacucci, Vincenzo Consolo). Oggi esperienze come quelle sono più difficili: per carenza di fondi ma anche per un generale clima di mortificazione che circola nelle nostre scuole”. Sul ruolo fondamentale dell’insegnante nel “creare lettori” è d’accordo anche Paolo Biscaro, docente all’Istituto professionale Colombo ed all’Alberghiero di Adria: “Il docente continua a giocare un ruolo cruciale - dice Biscaro - l’alunno percepisce subito quell’antico entusiasmo presente nell’animo dell’adulto, anche quando può risultare intaccato dalla frenesia della vita scolastica. E da quella fascinazione si lascia coinvolgere”. Certo, è difficile, per gli insegnanti, trovare il tempo ed il modo di incentivare alla lettura dovendo seguire il percorso (ed i tempi) dettati da quelli che una volta si chiamavano i programmi e che oggi si chiamano curricoli. Viziata, tra l’altro, è l’idea che a far venire la passione della lettura siano soltanto gli insegnanti di lettere, che devono oltre tutto lavorare 23

con quell’immenso patrimonio culturale che è la storia della letteratura, non sempre adatta a far venire la voglia di leggere, soprattutto quando la si connette a testi complessi, sui quali poi bisogna fare un lavoro di analisi. Dice ancora Patrizia Zenato: “L’antologia rimane comunque un testo fondamentale per leggere soprattutto i classici e cominciare a conoscerli, ma tutto l’apparato storico e culturale che ci sta attorno, per non parlare degli esercizi di analisi del testo che stanno ormai in tutti i manuali a ‘coronamento’ della lettura di un testo, scoraggiano, allontanano, distraggono”. Acuto anche il punto di vista di Cesare Lamantea, docente di filosofia al Liceo “Bocchi” di Adria: “I classici della letteratura devono essere un punto di arrivo, non quello di partenza. Se vuoi creare un lettore devi partire anche da altro, da qualcosa che sia più vicino agli interessi del ragazzo. Fermo restando che non possiamo lasciar perdere il lavoro da fare sui classici della letteratura: dovremmo piuttosto cercare


ATTUALITA’

prospettive diverse per avvicinare i ragazzi ai classici: ad esempio, cercando con i ragazzi dentro ad alcuni classici degli argomenti e dei temi che sono molto vicini alla loro vita. E’ un metodo che funziona, e che tra l’altro permette all’allievo di fare delle vere e proprie scoperte e di vedere quindi il classico in maniera diversa da come, scolasticamente, lo si è sempre visto”. Che sia comunque alle superiori che un ragazzo diventa definitivamente lettore, poi, è condiviso pressoché da tutti gli intervistati: “Se si deve per forza pensare alla scuola come luogo in cui si forma il lettore adulto, sono d’accordo nel ritenere le superiori, per la fascia d’età che coinvolgono, un momento cruciale del percorso; anche perché lì la lettura si intreccia alla costituzione di rapporti stabili e proficui tra coetanei”, dice Chiara Bartolozzi, che insegna al Liceo Statale “Celio - Roccati” di Rovigo. Non bisogna dimenticare, poi, che i ragazzi di oggi vivono immersi in una dimensione comunicativa molto più ricca e complessa di qualche anno fa: i nuovi media costituiscono occasioni di lettura anomala, che spesso si contrappone a quella proposta dalla scuola. E’ opinione comune che si debba cercare di integrare questi due mondi, sfruttando le occasioni che i nuovi media propongono piuttosto che contrapporre un sistema ad un altro. Dice Paolo Biscaro: “I nuovi media moltiplicano codici, linguaggi, messaggi. Tendenzialmente riducono i tempi della comunicazione e rendono, forse, più difficile recuperare i tempi dilatati della lettura. Ma una volta trovati, ri-trovati, o scoperti rappresentano una acquisizione irrinunciabile”. Qualche esperienza di stimolo alla lettura che non si svolge solo all’interno della scuola o classe, comunque, nel nostro territorio esiste, Chiara Bartolozzi: “Cosa fa la

mia scuola per trasmettere la passione per la lettura è cosa diversa da quel che faccio io come docente nelle mie classi. Ma per rispondere alla domanda, nel mio Istituto anche quest’anno abbiamo aderito ad una proposta della Biblioteca dell’Accademia dei Concordi di Rovigo in collaborazione con la fondazione Banca del Monte e la Regione Veneto finalizzata alla promozione della lettura nel quadriennio delle superiori, dal titolo “Percorsi del sentire: in cerca di eroi”. Qualcosa si muove, quindi, nella nostra scuola. Ma è interessante, in chiusura, la prospettiva suggerita da Lodo: “Non credo sia per forza indispensabile che esistano “progetti” istituzionalizzati per stimolare i giovani alla lettura. Mi parrebbe molto più importante che in ciascuna scuola venissero creati i presupposti, le condizioni per lavorare in maniera produttiva sul desiderio di leggere dei ragazzi, sulla necessità di far capire che il libro è uno strumento che può portare alla loro vita non solo sapere, 24

ma anche e soprattutto piacere. Un piacere costruttivo ed utile, che chi si appassiona alla lettura sente, alla fine, come indispensabile”.

I dieci comandamenti del lettore 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

Il diritto di non leggere Il diritto di saltare le pagine Il diritto di non finire un libro Il diritto di rileggere Il diritto di leggere qualsiasi cosa Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa) Il diritto di leggere ovunque Il diritto di spizzicare Il diritto di leggere a voce alta Il diritto di tacere

(da: Daniel Pennac, “Come un romanzo”, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 116)


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ATTUALITA’

Vicinanze e lontananze nella nebbia polesana

di Devi Sacchetto

foto di Sandro Marchioro

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no dei ricordi che ancora mi porto appresso della mia infanzia è l’esperienza con i miei cugini di secondo grado che di ritorno dalla Riviera romagnola si fermavano per qualche giorno a trovare i miei nonni nella campagna intorno ad Adria per poi riprendere la loro strada verso Milano. Il mio dialetto locale naufragava contro il loro italiano imparato in città, nonostante che dalla mia ci fosse una conoscenza precisa dell’ambiente

circostante, che si trattasse di animali o strumenti da lavoro o frutta o verdura. La storia dei miei cugini la ritrovai molti anni dopo quando lessi il volume di Franco Alasia e Danilo Montaldi, “Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo»”: la storia dell’immigrazione meridionale e veneta verso il capoluogo lombardo, di cui essi erano figli/e; un’emigrazione che non aveva risparmiato mia madre, sebbene solo per qualche mese. Il volume di 26


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Alasia e Montaldi pubblicato la prima volta nel 1960 è stato recentemente riproposto dalla casa editrice Donzelli (2010) nel cinquantesimo anniversario della sua prima edizione. Nella sua preziosa postfazione Jeff Quiligotti riporta una lettera in cui i due autori si scambiano qualche idea in vista di un’edizione aggiornata da pubblicare a metà degli anni Settanta. Scrive Montaldi ad Alasia: “Due biografie di meridionali le hai già raccolte o le stai mettendo assieme; perché non provi, poi, con un veneto o con un polesano?” (corsivo mio). Dopo aver verificato che non si tratta di un errore di battitura, si può pensare che sia una semplice svista. In realtà la distinzione tra polesani e veneti viene operata lungo tutta l’opera a partire dalle 35 interviste dove, ad esclusione di quanti non hanno un riferimento del luogo di origine (11), i più rappresentati sono proprio i polesani (5, di cui 3 donne), mentre i veneti sono solamente 2, di cui 1 di Cavarzere. A quale specificità stanno pensando Montaldi e Alasia? L’emigrazione polesana e veneta verso Milano è consistente nell’immediato secondo dopoguerra e verrà rimpinguata dalle disgrazie seguite all’alluvione nel 1951, vero diluvio biblico per quanti risiedono nella terra dei grandi fiumi. In un decennio (1951-1961) la popolazione polesana si riduce di quasi un quarto. Un’emorragia di popolazione e di energie che non si fermerà neppure negli anni successivi e che, seppur in modo strisciante, continua ancora. E’ noto che la mancata riforma della struttura agraria nel secondo dopoguerra e i processi di meccanizzazione favorirono l’espulsione dalle terre di una popolazione bracciantile poco lesta magari a far di conto, ma molto propensa all’aggregazione collettiva contro i soprusi e le ingiustizie sociali. Maria, vicentina di nascita, ma polesana d’adozione, dall’alto dei suoi 55 anni quando viene intervistata da Franco Alasia sottolinea come le polesane “preferiscono proprio la campagna, non si adattano a venire a fare la cameriera… perché non vogliono portare il nome di serva, servitora… Piuttosto stanno lì con i vestiti rotti ma non andavano” (2010, p. 182). Le lotte contadine contro i grandi proprietari terrieri che dalla fine dell’Ottocento si protraggono fino almeno agli anni Cinquanta del Novecento, caratterizzano socialmente e politicamente il Polesine, finendo per segnare con forza le differenze tra le due “classi”. La violenza che sul finire della seconda guerra mondiale nel Polesine assunse i tratti di una vera e propria guerra civile, spaventò enormemente la popolazione. Forse questo percorso lacerante, insieme con la disgraziata situazione economica, contribuirono a rendere i processi di differenziazione sociale meno estesi che in altre aree del Veneto e i figli di quello scontro socia-

le poterono, almeno nei paesi, confrontarsi pacificamente nelle scuole e nella politica. Rimane comunque una minore attenzione ai meri risultati economici; una risposta forse indiretta a quanti da decenni lamentano, direi anche in modo ormai insopportabile, una scarsa propensione all’imprenditorialità tra i polesani, cioè al salto della quaglia. D’altra parte nel Polesine lo status degli insegnanti e più in generale l’attenzione alla “cultura” umanistica e scientifica è rimasto un valore importante più a lungo, rispetto alle aree poste immediatamente a nord. Certo, anche qui oggi si manifestano fenomeni simili di degradazione del sapere, a vantaggio dell’elemento materiale, costituito dal denaro e dall’acquisizione di beni fruibili, e apparentemente in grado di garantire immediate soddisfazioni. Ma ancora oggi il polesano è sinonimo di un figlio di un Dio minore tra i veneti e i settentrionali: “i terroni del Nord”, come qualche buontempone razzista ci ricorda. Uno stigma che, non potendo combatterlo, né volendo nasconderlo ho cercato scherzosamente di ribaltare facendo ricorso alla storia: figli di civiltà etrusca, non certo di barbari celtici. Una risposta banale, se si vuole, ma che intende sottolineare un modo diverso di incontrare quanti arrivano da lontano e un’apertura alla relazione sociale finalizzata allo scambio non monetario piuttosto che al commercio di beni. Di fronte alla violenza dell’egoismo proprietario, ormai preponderante in ampie aree del nord Italia, ho spesso percepito dalle mie parti un senso di comunanza dei destini che non riguarda il Polesine o il Veneto, ma che presta attenzione a quanti, vicini e lontani, cercano di guidare la loro esistenza in un porto riparato. Il Polesine che ricordo è quello di una scarsa densità abitativa che permette di ritrovare forme di isolamento nella campagna o lungo gli argini dei numerosi fiumi e canali, preferibilmente in quelle giornate di caligo. L’elemento della solitudine, come dimensione ricercata nella quale ascoltare se stessi, in una civiltà moderna dove le luci della città attraggono i campagnoli, è raramente preso in considerazione. Eppure ancor oggi mi capita di ritornare nella mia città natale, Adria, e andarmene verso qualche argine, elemento imprescindibile del mio sentire. E’ bene però sottolineare che sono ormai diversi anni che vivo e lavoro fuori dal Polesine e, come quasi tutti gli emigrati, è probabile che porti con me qualche stereotipo della terra in cui sono cresciuto. Nonostante abiti poco lontano, non riesco a vivere la quotidianità; che è come dire non essere presenti. E forse gli emigrati rimangono incollati a un’idea fantasiosa, a volte ingenua dei loro luoghi di origine. O magari l’ingenuità è soltanto, come la nebbiolina, un sottile velo protettivo. 27



STORIA

Invisibili ma indispensabili: le donne che hanno fatto l’Italia

Erminia Fuà

(Rovigo 1834 - Roma 1876)

Una patriota armata di carta, penna e calamaio di Bruna Giovanna Pineda

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uando a Rovigo si passeggia per il viale Fuà Fusinato, quello tangente all’antica Caserma Silvestri, a pochi sovviene che tale toponimo si riferisce ad una donna, Ermina Fuà, patriota e poeta polesana, moglie del più famoso Arnaldo Fusinato, reso immortale dai versi “Il vento infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca” (Ode a Venezia, 1849). Ma leggendo le opere scritte dalla sua quasi sconosciuta consorte, si svela a noi un personaggio non meno degno di egual fama e notorietà. E’ ormai risaputo che la storia con noi donne è spesso avara, anche perché a scriverla sono quasi sempre storici di sesso maschile. Oggi, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, vogliamo rendere giustizia ad una nostra grande concittadina dimenticata, che pur diede tanto alla storia del nostro Paese, sia come patriota che come poeta che 29

come donna, con la speranza di seminare il germe della curiosità per un personaggio tanto sconosciuto quanto intrigante e non scevro di sorprese. Erminia Fuà nacque da una famiglia benestante di religione ebraica a Rovigo il 5 ottobre del 1834, ma quasi subito si trasferì a Padova, dove fu amorevolmente educata ed istruita dallo zio Benedetto, ingegnere ferroviario, cosa assai comune per le giovani di quel tempo. Fin da bambina fu evidente la sua naturale predisposizione per la poesia e fu proprio questa sua innata passione che fece scattare poi la scintilla tra lei, appena diciottenne, e il patriota-poeta Fusinato. La famiglia si oppose subito al matrimonio non solo per motivi religiosi (lei ebrea e lui cattolico) ma anche perché Arnaldo, da poco vedovo e di molti anni più vecchio, aveva una pessima fama d’avventuriero. Nonostante tutto, la caparbietà di Erminia ebbe


STORIA

la meglio. I due innamorati fuggirono a Venezia e in gran segreto, con la complicità di uno zio, si sposarono nella chiesa di San Salvador. Già da questo episodio si capisce il carattere di Erminia: una donna molto anticonformista per i suoi tempi, che non accettava le imposizioni che riteneva ingiuste, ma che anzi faceva di tutto per cambiarle, così nella vita privata come nella vita pubblica. Erminia donna poeta e patriota Dopo il matrimonio con Arnaldo, la nostra Erminia iniziò una vita di continui spostamenti e fughe, dovute principalmente all’attivismo antiasburgico e risorgimentale del marito, spirito del tutto condiviso dalla nostra poeta, tanto che fu lei stessa a tenere i rapporti con gli altri attivisti, prima in Veneto a Castelfranco, e poi quando furono costretti a emigrare anche a Firenze e a Roma. Durante tutta la sua tribolata vita, la poesia e le lettere ebbero un ruolo fondamentale, tanto che lo stesso Molmenti, primo biografo della Fuà, riporta “Ciò che non si poteva, che la sospettosa polizia austriaca non permetteva di scrivere in prosa, lo si scriveva in versi”1…e ancora “il nostro risorgimento è dovuto alle lettere: tanto che le armi non vinsero, ma trionfò il concetto.”2 Il ruolo di Erminia fu basilare per lo stesso attivismo patriottico del marito e per tutta la storia del risorgimento italiano. Mentre il marito sviava le indagini della polizia austriaca, lei tesseva i contatti con i diversi comitati veneti e amministrava anche i pochi fondi che questi avevano a disposizione. “Erminia chiusa nella sua stanza scriveva le occulte corrispondenze, suggellava i pacchi, dava ai fidi agenti i gelosi incarichi, e amministrava le modeste rendite della pattriotica azienda”3. Non mancarono nella sua vita episodi in cui fu

Lapide in memoria di Erminia Fuà Fusinato a Rovigo.

messa sul serio in pericolo la sua incolumità e quella dei suoi cari, ma lo stesso “…la fama di patriota ardente e coraggiosa era tale che in paese le popolane la chiamavano, per antonomasia, il quarantotto.”4 Una vera “giardiniera” la nostra Erminia (così chiamate le seguaci femminili della carboneria): conversatrice apparentemente disimpegnata nei salotti, in realtà vera fucina d’idee e progetti insurrezionali, realizzatrice di coccarde tricolori e di scritti e opuscoli cospirativi contro “l’asservimento dello straniero”, per i quali rischiava il carcere o la tortura: cosciente di essere più utile alla causa patriottica in quanto donna e quindi meno sospettabile. Quando 30

fu costretta, sempre per motivi politici ad andare esule a Firenze, frequentò i più grandi letterati e politici del momento, come N. Tommaseo, G. Capponi, A. Maffei, e curò personalmente la pubblicazione postuma di “Confessioni di un ottuagenario”5 dell’amico Ippolito Nievo, morto nella spedizione dei Mille. Descrisse le loro gesta e pensieri sia con la poesia, come in “Versi di Erminia Fuà Fusinato” del 1874, che con la prosa, come nel diario e nelle lettere che il Molmenti fedelmente raccoglie nell’opera “Erminia Fuà Fusinato e i suoi ricordi”, 1877, opere fondamentali per capire Erminia, sia come donna che come poeta. La poesia fu per Ermina il filo


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conduttore di tutta la sua coraggiosa vita: con essa riuscì a trasmettere il suo profondo sentimento per l’Italia, la tanto sognata agognata patria, ma con la stessa foga e impegno riuscì anche a descrivere il suo amore per la famiglia, gli affetti e i personaggi nobili d’animo che ebbe la fortuna di incontrare, sia maschili che femminili. Quindi accanto a poesie prettamente patriottiche come “Viva l’Italia”6 o nostalgiche come “Venezia”7, vi sono anche poesie che rievocano scene familiari e domestiche, come altre che invece elogiano le gesta di uomini illustri, eroi del suo tempo come Tommaseo, Nievo e Pellico, ma anche quelle di donne straordinarie, scoperte come eroine proprio nella loro mesta quotidianità – …spesso, intenta ai doveri oblia, più che la gloria la virtù le è cara; Paga se le diran dopo la bara “Ella fu buona e pia!”– (tratto da “Poesia della donna” in Versi di E. Fuà Fusinato). La poesia diventa come uno strumento di riscatto sociale rendendo un po’ di onore e gloria a quelle figure femminili spesso marginali o inesistenti nei libri, messe in ombra dalla luce della fama dei propri illustri compagni per i quali sono state invisibile sostegno, come ad esempio Gemma Donati, la moglie di Dante, o le mogli o le madri dei martiri della patria a cui lei spesso dedica i propri versi come alla madre del Cairoli, o alle donne fondatrici di istituti e scuole come Gesualda Malenchini Nei Pozzolini, fino alla donna operaia; donne prototipo che però costituiscono la regola, che sono le vere colonne portanti della famiglia e della società, di supporto all’uomo, al padre al figlio e al patriota. L’eroismo della donna Erminia Fuà lo vedeva e lo scriveva nella sua quotidianità. Sia ben chiaro che Erminia non fu proprio una femminista, anzi si dissociava da certe posizioni troppo progressiste, pur scrivendo su importanti riviste femminili all’avanguardia come “La Donna” di G. A. Beccari; e criticava certi filoni di pensiero che parlavano già di emancipazione femminile e attivismo politico delle donne: “La donna deve valersi in tutto e sempre della bontà, della grazia e dell’affetto; solo con tali armi potrà conquistare degnamente dei diritti che ottenuti in modo diverso gliene farebbero perdere altri, di cui non sempre sa apprezzare l’importanza”. Alla donna competeva l’educazione del cuore sfruttando intuito e sentimento mentre la politica, fredda e pragmatica, era meglio (per il momento) lasciarla agli uomini.

Dopo l’unità, fatta l’Italia, come dice la celebre frase di Massimo D’Azeglio, ora bisognava però fare le Italiane! Ed Erminia questo intento lo ebbe sul serio vista la sua passione e tenacia nel voler liberare le donne italiane, dopo l’invasore straniero, dall’ignoranza. Nell’Italia post unitaria parlare di educazione femminile voleva dire principalmente parlare di buon comportamento ed economia domestica per ambire al ruolo di brava moglie e madre, e tutto ciò si compiva per le giovani donne principalmente in istituti privati e religiosi fino all’età adolescenziale (per la maggior parte di esse l’educazione scolastica si concludeva con le scuole elementari); questo modello di angelo del focolare ottocentesco per Erminia non era in contrasto con quello di donna colta e di scienza, che istruita poteva anche trovare un’occupazione per contribuire al bilancio famigliare (e lei stessa, visti i continui dissesti finanziari del marito, ne aveva ben donde), oppure se nubile per non essere costretta a sposarsi per convenienza. Il lavoro ideale per la donna era l’insegnamento, dove poteva mettere a frutto la propria vocazione naturale di madre. Rivendicava quindi per la donna il diritto all’istruzione ed una conseguente e impagabile funzione di educatrice. Mancava però lo strumento principe per questa nuova e necessaria liberazione: la scuola pubblica femminile superiore. L’occasione le fu offerta dal ministro della Pubblica istruzione, Cesare Correnti, che le affidò l’incarico d’ispettrice scolastica per le scuole femminili dell’Umbria e successivamente per quelle di Napoli, perlopiù gestite da ordini religiosi. Come risposta nella sua relazione Erminia chiese che fosse dato più tempo agli studi letterari piuttosto che ai lavori manuali e che le religiose fossero sostituite da insegnanti laiche. Seguirono poi una serie d’incarichi negli istituti femminili nella neo capitale romana, finché non venne eletta direttrice del primo Istituto Superiore Femminile dalla Giunta comunale di Roma. Ma dirigere e tenere in piedi una tra le prime scuole pubbliche superiori femminili nella seconda metà dell’ottocento non era impresa facile, dato che la maggior parte delle scuole erano private e molti ancora non vedevano l’utilità dell’istruzione pubblica superiore delle donne. Lo testimonia, oltre al diario, la fitta attività epistolare tra lei e il marito, dove Erminia rendeva esplicite le difficoltà ma anche la consapevolezza dell’innovazione e dell’importanza sociale di questa sua sfida che, anche se ormai consumata dalla malattia, doveva portare avanti ad ogni costo: “19 luglio 1873 – vengo ora dal Campidoglio dove ho fatto la mia visita al Sindaco – ...Disse che questo istituto superiore (che dovrebbe essere un ginnasio femminile e in seguito un Liceo) venne come idea accettata dalla

Erminia e l’emancipazione culturale “Per me l’usata e pomposa frase emancipazione della donna non può ragionevolmente significare se non che emanciparle dalla miseria e dall’ignoranza, le due fonti perenni e quasi uniche d’ogni suo più grave sconforto”. 31


STORIA

Giunta – che si troveranno degli ostacoli non ultimo dei quali sarà certo il locale – che spera di superarli… Ad ogni modo mi piace dire tra me e me: tutta questa gente la mossi io; questa idea in Roma sorse per me e forse altrimenti per più anni non se ne sarebbe parlato. Il governo che desidera tanto tali Istituti dovrebbe essermene grato!”8 L’Istituto sotto la sua guida e il suo insegnamento di Morale, ebbe un grande successo presso la borghesia laica della neo capitale: più di cento allieve si iscrissero, ricorda la stessa Erminia. Merito fu sicuramente anche il sostegno indiretto e la stima che le dava un’altra donna, la regina Margherita, allora ancora principessa del Piemonte che forse aveva intuito la vera portata rivoluzionaria di Erminia; “Sarà una regina che farà onore agli italiani”9 scrisse Erminia nel suo diario dopo un’udienza concessale in Quirinale. Nel giugno 1874 venne eletta Presidente della Società per l’Istruzione Superiore della Donna, associazione culturale di sole donne da lei stessa fondata che: “E’ la prima di donne italiane che si costituisce da sé, senza chiedere norme che a se stessa. Finora le donne si radunavano o nelle sale da ballo o nelle chiese… che abbiano ora pure un centro dove l’attiri il desiderio d’imparare, di sviluppare le

loro attività di mente e di cuore.”10 Una vera associazione culturale di donne per le donne nata per fare convegni e conferenze, che “non saranno sufficienti a dare completa l’idea di una scienza, ma se bastano ad ispirarne l’amore, a farne sentire il desiderio, a mostrare il modo di studiare, d’imparare anche da sé, non faranno un gran bene?”11 Consumata dalla tubercolosi, morì a Roma, il 30 settembre 1876, a soli quarantadue anni. L’Istituto prese il suo nome e lo conservò anche quando diventò Istituto magistrale. L’11 maggio 1882 fu inaugurato il monumento sepolcrale nel Cimitero del Verano a Roma. Nell’anno del centenario della sua nascita a Rovigo, sua città natale, le fu dedicata una lapide commemorativa sulla facciata di palazzo Montalti, ora sede dell’istituto per Geometri, in suo ricordo. Una vita breve ma intensa quella di Erminia Fuà, una donna polesana che lasciò il segno se non con il suo nome almeno con il suo attivismo patriottico e per il suo nuovo concetto di diritto all’istruzione, che permise a noi donne di accedere agli studi superiori e universitari, prima quasi esclusiva dei soli uomini, passo fondamentale per la parità e l’emancipazione non solo nel nostro paese, ma nel mondo.

Note: 1, 2, 3, 4, 8, 9, 10, 11 sono tutte citazioni tratte da “Erminia Fuà Fusinato e i suoi ricordi”, raccolti e pubblicati da P.G. Molmenti, Fratelli Treves Editori, Milano, 1877. Scaricabile gratuitamente da http://books.google.com 5. “Le confessioni di un italiano” scritto da Ippolito Nevio tra il dicembre 1857 e il 16 agosto 1858, il romanzo fu pubblicato postumo da Erminia Fuà Fusinato, nel 1867, con il titolo “Le Confessioni di un Ottuagenario” (per timore di censura). 6, 7 entrambe le poesie si trovano in “Versi” di Ermina Fuà Fusinato, successori Le Monnier, Firenze 1874. Scaricabile gratuitamente da http://books.google.com

Bibliografia 264-269 - Le stanze ritrovate, a cura di A. Arslan, A. Chemello, G. Pizzamiglio, Venezia, Eidos, 1991,pp. 207-218 - Laura Billi - Manuela Bruni, Le giardiniere del cuore. Una lettura di scritti femminili della seconda metà dell’Ottocento, Ferrara, Luciana Tufani, 1999 - Leuzzi, M. C., Erminia Fuà Fusinato. Una vita in altro modo, Roma, Anicia 2008 Sul web: Trame femminili nel processo di indipendenza italiano, da Donne e conoscenza storica - Le donne e il Risorgimento, da Camicia Rossa - Il Risorgimento invisibile. Presenze femminili nell’Ottocento meridionale dal sito dell’Università Federico II di Napoli - La poesia al femminile nell’Italia del Risorgimento Chi dice donna dice Risorgimento, di Gaetano Afeltra da Il Corriere della Sera del 30 giugno 2003 - Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota filmato didattico prodotto dalla Provincia di Livorno - Il sito di Esperienza Italia Il sito nazionale dell’anniversario dell’Unità italiana.

Scritti di Erminia Fuà: Scritti educativi, Firenze, Felice Paggi, 1873; poi a cura di G. Ghivizzani, Milano, Libreria di educazione e d’istruzione di Paolo Carrara, 1880 - Versi, Firenze, Le Monnier, 1874; poi Milano, Libreria di educazione e d’istruzione di Paolo Carrara, 1879; poi Spoleto, Arti grafiche Panetto & Petrelli, 1924 - Scritti letterari, a cura di G. Ghivizzani, Milano, Libreria di educazione e d’istruzione di Paolo Carrara, 1883; poi Roma- Foligno, Franco Campitelli, 1931-32, 2 voll. - Le peripezie editoriali del capolavoro di Ippolito Nievo. Lettere inedite con una notizia di L.E. Checchi, in «Nuova Antologia», XC, n. 492, fasc. 1965 (settembre 1964), pp. 87-101 - La pubblicazione del romanzo “Le confessioni di un ottuagenario”. Lettere, a cura di A.Civeri, Udine, Società filologica friulana, 1967. Saggistica: P. G. Molmenti, Erminia Fuà Fusinato e i suoi ricordi, Milano, Treves, 1877 - Sordina, E., La donna che lavora: E. Fuà Fusinato, in Comune di Padova (a cura di), Il bambino e la sua cultura nella Padova dell’Ottocento, Padova, 1981, pp. 32


I Pionieri del Delta Berto Boscolo e Marino Cacciatori Le storie di due uomini che hanno fatto scoprire le bellezze del Delta del Po


I PIONIERI DEL DELTA

Berto Boscolo

di Sandro Marchioro

Ho amato subito Berto Boscolo perchè è un chiaro esempio di come la poesia non stia solo nella testa di uomini culturalmente molto preparati e saputi, ma anche (e forse soprattutto) nel fondo del cuore di ogni uomo semplice. Questa che ho appena scritto è una frase che non mi piace ma che non posso fare a meno di scrivere. Tutti i giorni, da decenni ormai, mi occupo di filologia e di critica letteraria, di analisi del testo e, in particolare, della struttura del testo poetico. Mi piace molto, non è diventata una professione ma è una passione potente e totalizzante. Tocco in profondità il lavoro di uomini strepitosi da molti punti di vista: da D’Annunzio a Montale, da Penna a Caproni, da Pasolini a Zanzotto. Eppure, quando ho letto per la prima volta i testi di Berto Boscolo, ho sentito subito che dentro quelle righe (un poco corrette nell’ortografia da una sua amica maestra elementare), c’era la poesia nonostante tutto: nonostante i limiti culturali, nonostante l’ortografia, nonostante la sintassi. E non ho potuto pensare a mio padre. Anche lui (che a scuola non ha potuto andare oltre la seconda elementare e che poi è diventato un muratore bravissimo) senza farsi vedere, su piccoli fogli di carta, con le mani grosse e nodose che abbracciavano la penna con difficoltà, scriveva delle righe, dei brevi testi pieni di poesia. Sono riuscito, nel tempo, ad intercettarne alcuni di nascosto: parlavano della giovinezza passata, della malinconia di diventare vecchi, di me che diventavo grande, della paura di non fare abbastanza per la sua famiglia. Erano parole semplici, righe che qualche volta cercavano e trovavano una misura ed un ritmo: qua e là una rima, una metafora, qualche apparato fonosimbolico. In me destavano una grande impressione ed anche un po’ di vergogna perchè mi pareva di spiare una parte troppo intima di mio padre, che sarebbe stato meglio non vedessi. Mi ricorda molto mio padre, Berto Boscolo. Le strutture linguistiche che crea sono molto simili, sia timbricamente che nella gestione e distribuzione dei contenuti. Come se fossero prodotte non da una cultura, ma da una sorta di vissuto profondo condiviso da tutti noi che fluttuiamo in questo incidente del Non Essere che è la nostra esistenza. Questo affetto istintivo e immediato nei confronti di Berto mi ha portato a cercare di capire qualcosa di più dell’uomo e della sua vita. Ho incontrato i suoi figli: mi hanno aiutato moltissimo (in particolare Stella e l’indimenticato Lilio), a ricostruire una storia e a rimettere insieme delle parole. Da quella esperienza nel 2004 è nato un libricino: “Berto Boscolo, Il poeta pescatore”, Promomedia Editore, che conteneva una introduzione che qui riproduco con alcune modifiche. Spero possa servire a non dimenticare uno dei pionieri del Delta, un uomo che ha usato la parola per scoprire se stesso e per contribuire a far scoprire agli altri il territorio splendido in cui ha avuto la fortuna di abitare. Insomma, un poeta. 34


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o conosciuto Berto Boscolo attraverso il busto di bronzo che sta riparato sotto un gruppetto di pini marittimi nella sua Marina 70, a due passi dalla riva della Sacca di Scardovari. In quella posizione la Sacca ti esplode davanti e regala uno degli scorci più belli di tutto il Delta. In quel periodo questi posti li giravo in bicicletta, assieme ad una donna che allora amavo molto, e ricordo che quel busto ci stupì perché, pur non sapendo nulla della persona che raccontava, riusciva a comunicare una forza indefinita, come se quel vecchio scolpito nel metallo fosse capace ancora di muovere qualcosa, di suggerire un messaggio che avrebbe dovuto perpetuarsi e durare. Qualche tempo più tardi inciampai in un articolo di Gianni Mura, il giornalista de “La Repubblica” che in un suo pezzo sul Po racconta di aver visto Berto Boscolo cantare di fronte al pubblico dei suoi clienti battendo con un mestolo su alcune padelle; capii allora che di Berto Boscolo bisognava riparlare. Scoprendo, tra l’altro, che nonostante fossero passati vent’anni esatti dalla sua morte, molti, moltissimi lo ricordavano ancora. E lo ricordavano perché Berto Boscolo aveva un vezzo, una passione nata chissà in quali circostanze: quella di scrivere poesie. Ne scrisse tante (quelle che ci sono rimaste sono forse soltanto una piccola parte) e sono quasi tutte dedicate alla sua terra, alla fatica di viverci giorno dopo giorno, alla voglia di inventarsi qualcosa per sbarcare il lunario e per dar da mangiare ai propri figli. Detta così sembra una storia come tante: oggi le case editrici, piccole o grandi che siano, sono intasate di manoscritti di persone che hanno voglia di dirsi “poeta” e di pubblicare i loro testi più o meno dignitosi. Sembra basti scrivere senza arrivare in fondo alla

riga per fare poesia, condendo il tutto con qualche parola oscura, con frasi vagamente melense, con qualche giro sintattico azzardato ed il gioco è fatto. E’ il frutto della scolarizzazione di massa. E’ giusto sia così, anche se sappiamo tutti benissimo che la poesia, quella che resta, è cosa rarissima e difficile. Ma nel caso di Berto Boscolo stiamo parlando di tutt’altra cosa. Era nato nel 1915 a Goro e quando già da ragazzo si trasferì a Scardovari, per rimanerci poi tutta la vita, Berto non aveva certo fatto studi regolari ed aveva tantomeno seguito un percorso che lo portasse a conoscere gli strumenti fondamentali del fare poesia, i ferri del mestiere per così dire. Ha sempre fatto il pescatore, che in quegli anni significava lottare con le unghie per un pezzo di pane, rischiando davvero la vita tutti i giorni; tanto più che si trovò a capo di una famiglia numerosa (sette figli, sette bocche da sfamare), come allora si usava. Ma Berto aveva una caratteristica: si guardava attorno, era dotato di una sensibilità naturale che gli faceva guardare il mondo, il suo mondo, con gli occhi di uno che gusta tutto e che ne trattiene le polpa, il senso ultimo, la magia che la vita gli regala. Fu essenzialmente stregato dal paesaggio in cui viveva e con esso incominciò ad ingaggiare un rapporto di passione e conflitto che sviluppò in lui la voglia di fissare in qualche modo la bellezza e la fatica, lo stupore e la rabbia, la meraviglia e la dannazione che giorno dopo giorno gli regalavano il suo mare, le sacche, gli scani, i bonelli, le valli. Era un grande affabulatore, Berto Boscolo, ed il modo che scelse per fotografare il suo mondo fu quello apparentemente più lontano dalla sua storia e dal suo percorso: quello della scrittura poetica. E’ probabile che l’idea dei versi l’avesse travasata, in 35

qualche modo, dalla canzone, arte di cui era appassionato ascoltatore: cosa che deve avere prodotto una sorta di processo imitativo che poi l’ha portato a cercare di esprimersi in versi. Del resto è noto quanto gli piacesse cantare e tutti quelli che l’hanno conosciuto sanno che molte delle sue stesse composizioni lui amava cantarle in pubblico. Ma dobbiamo considerare un altro aspetto determinante. C’è una perfetta sintonia tra la sua attività di promotore ante litteram del territorio del Delta e quella di “poeta”. Ad un certo punto della sua vita capì che le bellezze che aveva intorno, e che condivano ogni giorno della sua vita, non potevano rimanere proprietà di pochi. Dovevano essere comunicate, diffuse, propagandate, fatte conoscere per quello che erano: un paradiso naturale, ritoccato e plasmato qua e là dalla fatica di uomini come lui, che poteva regalare emozioni uniche a tutti coloro che di qui passavano. In effetti, oltre alle poesie che ci ha lasciato, credo non si possa non ricordare che Berto è stato uno dei primi a credere nelle potenzialità turistiche di questo territorio; ed è tangibile sia nei suoi versi che nelle molteplici avventure imprenditoriali in cui si è buttato che lui è stato tra i primi a comprendere che le bellezze di questo territorio potevano essere anche una risorsa economica. Berto era cosciente di questo, tant’è che spesso, in calce alle sue composizioni, si firma “Il pioniere del Delta”, “Il pioniere del Bastimento”, e così via. L’impresa dell’Isola del Bastimento, ed in seguito quella di Marina ‘70 (i due ristoranti che lui fondò), hanno qualcosa di mitico, che riempie di entusiasmo (ed a volte di delusione e preoccupazione) molte sue poesie. Il Bastimento era allora uno scano abbandonato sul quale qualche sperduto turista si av-


I PIONIERI DEL DELTA

Il busto in bronzo che ricorda Berto Boscolo a “Marina ‘70”

Berto Boscolo a “Marina ‘70” poco dopo l’apertura del nuovo locale

venturava per prendere il sole, probabilmente per sfuggire alle già accalcate spiagge di altre località turistiche vicine. L’idea che scattò nella mente di Berto Boscolo era semplice: costruire un ristoro per quei pochi turisti. Un’idea che crebbe pian piano, dato che il ristoro (una sorta di capanna minimamente organizzata) nel giro di poco tempo si trasformò in un luogo in cui si mangiava buon pesce e funse da richiamo per altri visitatori. Ma a raccontare il personaggio Berto non è tanto la sua intuizione imprenditoriale, quanto il modo in cui accoglieva i turisti (e forse, in una fase come quella che sta passando il sistema turismo, qualcosa da imparare da lui ce l’abbiamo): per lui erano “ospiti” ed a loro regalava il suo modo di essere (canzoni, vere e proprie recite, come quella a cui assistette Gianni Mura) che era tutt’uno con il suo paesaggio: come se avesse capito che al visitatore, per conquistarlo, bisogna donare bellezza e serenità. Mi sto allungando su questo aspetto “imprenditoriale” perché sono convinto che esso nasca dallo stesso humus delle parole che Berto si sforza di mettere in versi; anche perché, ed il dato non è trascurabile, Berto comincia ad usare carta e penna proprio nello stesso periodo in cui comincia ad avere a che fare con dei clienti, con degli ospiti. Come se lo scrivere alcuni versi (che poi spesso regalava agli stessi ospiti) fosse il tentativo di comunicare un valore aggiunto del territorio. Quando ci prese gusto, Berto cominciò ad inviare i suoi componimenti a molti concorsi poetici, non solo locali. Ed in molti casi vinse o gli venne dato un qualche riconoscimento. Molti lo chiamarono poeta naif, che forse ancora oggi è la definizione più corretta: un’abilità naturale nel comunicare emozioni e sentimenti e nel creare immagini e 36

raccontare microstorie, un’abilità che sguscia fuori in qualche modo miracoloso anche quando non si conoscono gli strumenti di base dell’arte che si vuole usare, siano essi la geometria, i pennelli ed i colori (pensiamo al pittore Ligabue), o la versificazione, le figure retoriche e la stessa grammatica. C’è una caratteristica ricorrente nella personalità di Berto che mi ha colpito e che riempie i suoi versi: il rispetto. Non c’è amore per il proprio territorio (ma anche per quanto attiene alle cose umane) che non parta dal rispetto. Ma lo stesso rispetto assume un senso se viene tramandato, insegnato, comunicato. E’ forse quella la cosa che mi è parsa più bella di quest’uomo buono, dal volto scavato dal sole e dal salso fino a diventare quasi un’icona vivente della fatica di vivere il Delta; ed è la cosa che mi ha fatto innamorare di questi vasti spazi che ti chiedono il silenzio e la pacatezza e ti regalano la serenità. Tra le foto che alleghiamo al testo la più bella di tutte è quella di copertina, regalata alla famiglia dal fotografo Mario Rebeschini, che ritrae Berto chino sulle sue carte mentre, con attenzione severa, ricopia in bella alcuni suoi componimenti; attorno a lui stanno tre bambini, che guardano stupiti il vecchio pescatore faticare in un lavoro per lui inusuale. E’ il ritratto di un amore che si tramanda: quello per le parole e per i valori che possono contenere. Un esempio che, mi pare, è sempre più attuale e per questo utile e che, proprio per questo, non possiamo dissipare.


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La vita Una spiaggia tradita. Io parto e vado via fra i granelli di sabbia rimane l’anima mia e vado all’isola alla penisola, un fiume di lacrime che cammina. La spiaggia del Bastimento ho abbandonato ove per tanti anni ho lavorato con tanto sacrificio e tanto amore ma lassù rimane a fondo la radice del mio cuore.

La vita in risara

Passai con i miei figli cari tanti bei giorni, giorni di gioia e di calore, ma passai anche tante notti di tristezza e terrore. Portotollesi tutti e forestieri vi chiedo scusa se ho lasciato il mare, ma chi mi vuol bene ancora mi può trovare: basta girare attorno agli argini della grande Sacca di Scardovari e si potrà passare giorni molto belli di vacanza basta fermarsi a “Marina 70”.

Quanta fadiga, quanta tera c’ò voltà col sapon su e zo per el sandon a l’ò sgualivà, scariolà, e quante secie pine d’riso c’ò somnà tute a man in meso a l’aqua e al paltan. A tornavo a cà tutto infangà, a-m’lavavà al fosso con aqua e saon, e a tolevo la scala par andar sul stabià, a ciapavo pileta e pilon e po in tél casson a pilavo fin ca-iera ora d’magnare, alora a sentiva ciamare: - Upà, upà l’è mezdì e po i me diseva i me fiò - vieni a magnar i riso e fasò. -

Se cammino aiutatemi e se mi fermo abbandonatemi.

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I PIONIERI DEL DELTA

Marino Cacciatori di Edoardo Cacciatori

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’immagine dei pesci che nuotano più in alto rispetto a dove volano gli uccelli è forse la più famosa di quelle create da Marino Cacciatori per raccontare a chi saliva in barca con lui il suo Delta. Un Delta che veniva amato immediatamente da tutti, grazie alla passione che emanava per il Territorio, la cui valorizzazione è stata il filo conduttore della sua intera esistenza. Caparìn, soprannome ereditato dalla bisnonna, raccoglitrice di “cape”, nasce nel 1938 a Porto Tolle, e a 12 anni inizia a lavorare sul traghetto del padre, attività che continuerà per quarant’anni. Con il suo spirito curioso, che lo porta ad essere quasi un avventuriero, nel 1958 salta in motocicletta alla volta di Bruxelles, dove è premiato per


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essere il più giovane partecipante all’Expo. Nello stesso anno ricevette, assieme ai suoi soci, un attestato di benemerenza dal Ministero dell’Interno per i servizi svolti durante l’alluvione dell’Isola di Ariano. La sua indole indomita condizionerà sia la sua vita che la sua attività lavorativa. Non era in grado di resistere alla tentazione di un viaggio, spinto da una smania di conoscere, ad esempio, l’America, che gli arrivava attraverso i dischi rock and roll e country degli anni ’50. Allo stesso modo gli era impossibile resistere a una possibile variante all’itinerario durante una gita in barca, o restare un momento senza pensare a come poter sviluppare il lavoro di traghettatore, a nuove imbarcazioni, a come far conoscere il Delta, dando così inizio al turismo fluviale nelle nostre zone. Negli anni ’60 Marino subentra al padre nella gestione del traghetto, e con i figli dei suoi soci fonda la società CAM, dalle iniziali Cacciatori, Azzalin e Marchesini. La nuova generazione introduce tra Ca’ Tiepolo e Ca’ Venier uno dei primi traghetti con il pontile idraulico

della zona, sostituendo i vecchi mezzi a corda. Dopo la tragica alluvione che nel ’66 colpì l’Isola della Donzella, durante la quale Marino si prodigò nel soccorso alle zone colpite, i progetti di Caparìn non hanno sosta. Infatti porta un traghetto sulla Busa del Bastimento, una foce del Po di Tolle, per consentire l’accesso alla spiaggia del Bastimento, altrimenti irraggiungibile, aprendola così al turismo. Marino passa le estati dal ’70 al ’77 con la moglie Graziana e i 3 figli come un Caronte che trasporta ilari bagnanti al posto di sconsolati dannati, fino a che una mareggiata rende impraticabile la spiaggia del Bastimento. La sua lungimiranza, però, lo aveva portato a costruire un ponte in barche sulla foce principale del Po di Tolle, per collegare alla terraferma la spiaggia di Barricata. Questa vocazione al turismo e alla valorizzazione di zone del Delta poco conosciute e poco considerate si fa più evidente quando iniziano i lavori di costruzione della centrale di Polesine Camerini. Marino, che tra l’altro aveva varie barche impiegate nei sopralluoghi, accompa39

gna infatti le famiglie degli addetti ai lavori in escursioni alla scoperta delle foci del Po. Negli stessi anni in cui costruisce i ponti in barche di Santa Giulia e Gorino e partecipa alle campagne saccarifere degli zuccherifici di Ca’ Tiepolo e Polesella con i traghetti, che intanto sono diventati quattro, inizia a vedere il suo futuro nel turismo. Nel 1984 affianca alle barche che utilizzava per le escursioni, tra cui un taxi veneziano, il vecchio vaporetto “Marte”, che gli permette di poter iniziare a lavorare con gruppi abbastanza consistenti. Marino inizia a promuovere il turismo fluviale e nel 1987 decide di dedicarsi completamente ad esso: in quell’anno, infatti, fa costruire la motonave “Venere”, in grado di trasportare fino a 150 persone. Salendo a bordo della “Venere”, che ancora oggi è l’ammiraglia della flotta dei Caparìn, si può osservare un cartello, che Marino ha appeso alla parete dopo il varo. Vi sono riportati i dati tecnici dell’imbarcazione, il costo e una scritta: “aiuti economici: nessuno”. Questo a dimostrare la sua indipendenza, che lo portò, con


I PIONIERI DEL DELTA

grandi sacrifici, a terminare il suo progetto nonostante varie promesse di sostegno finanziario non mantenute. Negli anni ’90 fa costruire le barche a fondo piatto “Scano Boa”, studiate per la navigazione tra i bassi fondali delle lagune. Nel 1994, poi, volendo navigare anche sul Po di Maistra, il ramo più piccolo e incontaminato del Grande Fiume, non potendo superare il ponte di Ca’ Pisani con la “Venere”, vara la motonave ”Lino Beccati”. Il nome è un omaggio ad un compaesano di Marino, eroe della II guerra mondiale: Beccati aveva affondato con un barchino due incrociatori inglesi nella battaglia di Suda. L’imbarcazione, 15 metri con portata di 70 persone, viene alimentata a batterie, ma l’esperimento ecologico è destinato a fallire. Le sue richieste alle Istituzioni di avere la corrente elettrica necessaria per ricaricare le batterie direttamente sul

pontile rimangono inascoltate. Molti rappresentanti delle istituzioni hanno navigato con Cacciatori. Lui, però, fin da subito ci teneva a mettere in chiaro le cose, con la ormai celere frase: “Voi credete di portarmi in barca, ma qui sono io a portare in barca voi”. Tra le personalità che Marino ha portato in barca è da ricordare Carlo Azeglio Ciampi, che durante la sua visita del 10 ottobre 2003 stupì tutti ricordando un’altra escursione con Marino ai tempi della Banca d’Italia. Non solo politici però: moltissimi sportivi, musicisti, registi e scrittori hanno conosciuto il Delta, per poi farlo conoscere, grazie a Marino. L’ultima escursione di Caparìn risale all’undici novembre 2004. Nel giro di un mese, quell’uomo che non si era fatto domare da niente e da nessuno, e che aveva vinto le paure e le problematiche create dalla curiosità, dall’irruenza, 40

dalla fantasia, dallo spirito d’avventura, dalla bonaria imprevedibilità che lo contraddistinguevano, è stato vinto dalla malattia, che lo accompagnava da tre anni. La malattia però non è riuscita a togliergli, almeno nel mio ricordo di nipote allora undicenne, il sorriso sdentato, la vitalità e l‘entusiasmo, tanto che stava pensando ad una nuova imbarcazione. Ora che il testimone è passato alla moglie Graziana e ai figli Sandro, Stefano e Simone, sarei curioso di sapere cosa penserebbe mio nonno Marino vedendo i risultati che sono derivati dalla sua stessa tenacia nel realizzare un sogno. Oggi le imbarcazioni della flotta Caparìn solcano tutti i rami del Delta del Po fino a spingersi nella Laguna di Venezia e i figli continuano l’opera paterna di promozione e diffusione delle meraviglie del Parco del Delta del Po.


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LUOGHI

Il Castello risvegliato di Ivo Prandin Foto di Renzo Gambato

Ad Arquà Polesine, una dimora antica è stata vissuta da diverse nobiltà e modificata nel tempo con successive metamorfosi che l’hanno trasformata in “luogo democratico” dove la vita di oggi si esprime nelle istituzioni e nella cultura

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el nostro Polesine, che amiamo pensare come un arioso arazzo di campagne e di paesi abbracciato amorevolmente dalle correnti del Po e dell’Adige e dal mare Adriatico, è nato – e crescerà un nuovo fulcro culturale che ha il pregio di aderire a una struttura antica mentre si misura sul futuro prossimo: in effetti, la nostra epoca – da qualunque punto di vista la si consideri - sta in bilico fra due millenni, uno che ormai sta lentamente svanendo alle spalle diventando ricordo e storia, l’altro che si va assestando per un domani che già ci attira a sé con prepotenza. Questo recente “motore” di pubblica utilità di cui parleremo è il Castello estense di Arquà, ridonato al paese e al territorio dal Comune con il contributo determinante della Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici e diventato luogo aperto, casa di tutti. Il recupero statico e estetico ha “risvegliato” il castello rivelandoci così la bellezza di un patrimonio che per secoli è appartenuto alla sfera del privilegio (di origine medievale) e cioè proprietà di famiglie nobili fino all’anno 1987, quando è diventato pubblico e dunque dell’intera comunità. Anche il Fai (benemerito Fondo Ambiente Italiano) gli ha dedicato una giornata di visite, a conferma che certe presenze forti di un territorio coinvolgono enti diversi che agiscono ben oltre i confini di un paese o di una provincia. Il salvataggio culturale dell’antica dimora fortificata, unica nello spazio fisico della provincia con le sue caratteristiche architettoniche e ambientali, ha regalato al Polesine un bene che era progressivamente decaduto. Basti pensare che nei saloni affrescati per anni ha funzionato una rumorosa falegnameria; che un’ala del palazzo-castello era stata occupata da una famiglia disagiata; che in fondo al lungo porticato

c’era il mattatoio comunale; che l’immenso granaio della grande barchessa serviva all’ammasso del frumento e da magazzino comunale, e due terzi dell’area erano terreno agricolo; nel secondo dopoguerra, poi, durante l’estate si andava al cinema all’aperto. Tutto questo è stato coraggiosamente archiviato, inaugurando in pratica una vita nuova e recuperando al 43

castello la sua centralità nel paese e nel suo territorio. Il “risveglio” del maniero è una operazione che merita la nostra attenzione e il nostro augurio poiché, proprio nell’attuale fase storica, gli eventi culturali che ne scandiscono le stagioni possono diventare l’humus, anzi il lievito di una nuova promozione umana e sociale. E questo è possibile realizzarlo anche in un


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“piccolo mondo” di tremila abitanti. Per Arquà stiamo parlando di una rinascita del castello, luogo raro – dicevamo - nella geografia polesana a causa della fossa circolare che ancora lo circonda e per la torre che domina da un millennio la campagna circostante. Ora, la sua singolarità può diventare il simbolo della vita nuova che lo anima. Questa dimora medievale

con innesti tardo-rinascimentali, solida testimone dei secoli, è stata trasformata in prestigiosa sede del Municipio e nell’ampia corte interna si svolge da cinquant’anni il Maggio arquatese con le sue giocose manifestazioni popolari che attirano a ogni primavera migliaia di visitatori. Quella che è stata la piccola reggia – citiamo i proprietari più noti - dei Marchesella, degli Estensi, 44

dei veneziani Diedo e dei padovani Treves de’ Bonfigli è diventata con il tempo, e cioè con i rivolgimenti storici e dei costumi, una parte “qualunque” del paese, addirittura ingombrante (a che serve un castello nel ventesimo secolo?), buona per le cartoline. Finché non è scattato il “Che fare?” dei pubblici amministratori. E sono venute le risposte operative. Ora, dopo che c’è stato questo l’importante adattamento del castello alle esigenze amministrative del Comune che vi ha concentrato i suoi servizi essenziali, una cospicua parte del complesso è stata destinata – cioè pensata e progettata - come sede di un Museo: e questa è la finestra aperta sul futuro o, se si preferisce, l’anello di congiunzione fra il passato e il divenire. Il nuovo innesto di attività culturali comporta una rivalutazione di questo monumento storico, che ci viene da un passato ormai millenario e – come si diceva - lo nutre di ossigeno, lo libera con tutte le sue potenzialità. In veloce sintesi, ecco alcune manifestazioni: la già citata grande kermesse del Maggio; gli spettacoli teatrali della compagnia locale Proposta Teatro Collettivo (dal 1975) e di teatranti ospiti; il premio Raìse di poesia nei dialetti veneti (inclusi gli autori legati all’emigrazione); mostre d’arte ecc. E in questa rinascita si può vedere una convergenza di spinte: i restauri hanno liberato gli edifici del complesso monumentale dalle loro originali destinazioni militaresche e ne hanno permesso l’uso nel presente dopo essere passato anche per una fase di produzione agricola. Nella sua azione di recupero, la pubblica amministrazione arquatese ha potuto contare in partenza su una base sicura, cioè lo stato di conservazione del maniero: non c’era, infatti, un cumulo di ruderi, come spesso si vede in diverse regioni d’Italia, ma uno spazio ben strutturato


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e vissuto (un gastaldo e la sua famiglia vi hanno abitato fino agli anni 70 del Novecento). La seconda spinta al risveglio del castello verrà dal Museo, dicevamo, che arricchirà l’offerta culturale del Polesine ed è destinato a far memoria della nostra identità così come si è venuta formando lungo la filiera della Storia. La nostra terra polesana ha già interessanti vestigia del passato – addirittura dalla preistoria - e un bel museo narrante nel monastero olivetano di Rovigo, oltre al Museo etrusco di Adria; ma adesso il poter disporre di un intero castello aperto al pubblico dei cittadini e dei turisti è qualcosa che può vitalizzare la cultura del territorio perché “il nutrimento solido che ci viene dal passato” come è stato scritto con tanta convinzione, “ è buono anche per il futuro”. Insomma, ci sono semi del tempo andato, che “passano” nel nostro tempo e da qui nel futuro se trovano il terreno adatto. Un motivo di attrazione – diciamo per il turismo culturale – è il castello in sé, che va considerato come un’autentica opera d’arte: l’architettura trasfigurata da militare in residenziale, e le pitture che ne decorano le sale ingentilendo tutto l’ambiente, ne fanno sicuramente un esempio di bene culturale e storico degno di rispetto e di una visita: il modo più semplice, quest’ultimo, più immediato ed efficace di trasmettere la bellezza avuta in eredità. Il vasto ciclo di affreschi è un’attrazione singolare, diciamo pure una rarità per la coerenza stilistica e per la ampia superficie dipinta: così come il castello, gli affreschi sono un unicum nella provincia di Rovigo e forse nel Veneto. C’è di che suscitare almeno la curiosità di chi, oggi, nell’assedio delle immagini virtuali della realtà si vede offerta la realtà vera, concreta e materiale, incrostata di storia.

Memorie di una terra Il Museo arquatese ha già un nome programmato: “Memorie della terra”, il che significa storia del paesaggio tra Adige e Po, con un percorso espositivo curato da Gabbris Ferrari, Raffaele Peretto, Sandra Bedetti, Rosella Ruzza e Stefano Turolla. Il progetto: prima sezione “Acque terre e mito”; seconda sezione “Il fertile limo di antichi fiumi”; terza sezione “Le terre contese”; quarta sezione “Le terre bonificate”; quinta sezione “La campagna luogo di delizie”; sesta sezione “Centro di documentazione: storia del paesaggio agrario”. 45


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Il progetto di restauro conservativo della Casa natale del pittore Benvenuto Tisi detto “Il Garofolo” di Massimiliano Furini

Prima dell’inizio dei lavori di restauro della Casa Polesana nota per avere dato i natali al pittore Benvenuto Tisi da Garofolo, presentiamo le linee guida che hanno caratterizzato la fase progettuale per il suo recupero strutturale e funzionale. Un progetto che nasce da lontano trovando, a cavallo delle due successive Amministrazioni Comunali di Canaro, la forza di intraprendere la fase di progettazione e di recepire le capacità finanziarie per dare inizio all’opera. Nella pagina seguente una introduzione storica del già Sindaco del Comune rivierasco Claudio Garbellini, cultore della storia e della cultura Polesana, che ci ha consentito di individuare gli argomenti e le motivazioni caratterizzanti le fasi progettuali curate dal mio Studio di Architettura. Il progetto di restauro La tipologia costruttiva Sobria nelle sue forme, essenziale nella sua composizione distributiva interna, semplice ma pur sempre studiata nella sua dimensione strutturale, la casa rurale acquista un’importanza principale per il territorio rispecchiando e valorizzando l’anima del mondo agricolo e della sua esistenza. “Lo spreco non è di casa”. I materiali impiegati nelle costruzioni rientrano in quella categoria che oggi chiamiamo “povera”. Mattoni di argilla il più delle volte non cotta, legati con malte magre ricche di terra utilizzata come inerte al posto della sabbia, strutture orizzontali o inclinate, quali i solai di piano e di copertura, realizzate con travi in legno appoggiate sui muri perimetrali che, solo nelle grandi volumetrie quali i fienili e le barchesse, trovano una composizione articolata a capriate. I pavimenti in cotto posati su letti di sabbia o di terra, trovavano nel loro utilizzo di finitura dei solai, l’unico metodo pavimentale capace di soddisfare, oltre all’uso di tavolato, le esigenze statiche di flessione delle travi in legno. Prospetticamente lineare quasi seriale, l’abitazione si inserisce omogeneamente all’interno del contesto territoriale prettamente caratterizzato da un profilo che si discosta raramente dal piano di campagna. “Alla mancanza di articolazioni e di qualsiasi risalto decorativo della scatola muraria.....sembra soccorrere unicamente la soluzione assegnata al tema del camino che....viene trasfigurato in tema architettonico per eccellenza”1. La loro pronunciata verticalità, che si innalza a volte oltre la linea di colmo, e il loro costrutto aggettante rispetto alle pareti prettamente intonacate cercano, nella spinta verso l’alto, una via di fuga nell’intento di slanciare una situazione rigorosamente piatta. 1 - da Alfonso Acocella, “Le costruzioni rurali nel Polesine” in “Limina” - Quaderni dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Rovigo -, n° 4 giugno 1998. 46

Benvenuto Tisi è uno dei pittori più importanti dell’umanesimo basso padano. E’ universalmente conosciuto come il “Garofolo” perchè nacque proprio in quella che oggi è una frazione di Canaro. La sua casa è rimasta nei secoli un punto di riferimento per mantenere viva la memoria dell’artista, ma anche un luogo da cui far nascere cultura per il territorio circostante. Per questo motivo l’edificio fu più volte restaurato, dapprima poco dopo la metà dell’Ottocento; più tardi, nel 1937. Ma il tempo è impietoso, e nel corso degli anni la struttura ha subito diversi danneggiamenti tornando ad essere rudere cadente e chiedendo un ulteriore, importante intervento di restauro. Nelle pagine seguenti proponiamo alcune parti della relazione tecnica preparata per i lavori di consolidamento della struttura e per una sua rivalutazione in chiave sociale e culturale. Lo riteniamo un documento importante nella speranza che si realizzi, quanto prima, tutto ciò che nella relazione viene auspicato e che è certamente atteso da tutto il territorio. Tutto questo proprio mentre le promesse fatte da diverse amministrazioni sembrano realizzarsi.


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La casa natale di Benvenuto Tisi a Garofolo

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sicuramente l’edificio più antico del paese questa casa di campagna, nazionale), il fabbricato venne restaurato ed inaugurato alla presenza di a due passi dal Po, nella quale la famiglia Tisi abitava fin dal 1300. tutte le autorità amministrative e culturali di Ferrara, di quelle di Rovigo e Più antica anche della chiesa di Santa Sofia, il cui nucleo originario di personalità di Padova e Venezia. Il busto del Garofolo venne collocato pare risalga intorno al 1440, ricostruita per volere del vescovo di Ferrara, il nella stanza centrale del fabbricato, mentre sulla facciata esterna il conte beato Giovanni Tavelli da Tossignano, a seguito Gherardo Prosperi, presidente della Società di della sconsolante visita pastorale del 1436, ma Belle Arti di Ferrara, fece apporre una targa ampliata e ristrutturata fino ad assumere la forcommemorativa della manifestazione celebratima attuale nei primi decenni del 1700. La casa va. Nel 1937 la casa, che nel 1923 era stata dei Tisi, probabilmente con la stessa struttura ardichiarata monumento nazionale e sottoposta al chitettonica attuale, dato che le ripetute sistemavincolo della Sovrintendenza alle Belle Arti, fu zioni di cui si ha notizia non ne hanno mutato la oggetto di un nuovo restauro, finanziato dal Cofisionomia, c’era da prima e il nonno del pittore, mune di Canaro, dall’Accademia dei Concordi che si chiamava Benvenuto, era un esperto vidi Rovigo e dall’Amministrazione Provinciale di ticoltore, tanto che alla fine del ‘300 risultava Rovigo. Un intervento congiunto, di cui rimane tra i fornitori di vino delle cantine del duca di il ricordo nella lapide affissa alla parete della Ferrara. L’importanza storica non sta, ovviamenstanza dedicata al Tisi, che significava l’importe, nel fabbricato, che non ha alcun particolatanza attribuita al fabbricato per la memoria che re pregio costruttivo od architettonico, ma nel custodiva, così come quello eseguito nel 1954 a “valore immateriale” della memoria storica che cura dell’Ente Provinciale del Turismo di Rovigo porta con sé per aver dato i natali al “Raffaello (con il contributo del Comune) per rimediare ai estense”, come veniva chiamato Benvenuto Tisi, danni dell’alluvione. In questa casa, abitata anuno dei principali artisti del cinquecento ferrareche dal medico condotto di Canaro e deputato se. La nascita del Garofolo, questo “terrazzano socialista Galileo Beghi, amico di Badaloni e schifiltoso” come lo ha definito Roberto Longhi Matteotti, c’è molta parte della memoria storica per le sue origini campagnole, alcuni anni fa di Garofolo e di Canaro, per cui il Comune, è stata retrodatata dal 1481 (anno mai messo accogliendo l’appello di Giannantonio Cibotin discussione fino ad allora dagli storici, dal to di restituire il Garofolo alla sua casa, si è Vasari in poi) al 1476 per un documento del fatto carico di acquistarla e di procedere per 1502 che lo vede in causa per la riscossione di crediti, ma gli studi recenti a il suo recupero, per il quale occorrono ingenti risorse che il Comune, da corredo della splendida mostra al castello estense del 2008 hanno ritenuto solo, non può affrontare. Servono le sinergie che hanno permesso le passaattendibile il 1481 quale anno di nascita di “Benvegnù” in quella casa a Gate ristrutturazioni ed è auspicabile che non manchino i contributi necessari rofolo, dalla quale molto probabilmente la famiglia Tisi emigrò a Ferrara per per finanziare l’intervento. Sarebbe il modo migliore per celebrare il 450° sfuggire alle scorrerie e alle devastazioni della anniversario della morte del Garofolo. In questi guerra del 1482-1484 fra Estensi e Veneziani. ultimi anni alcuni progetti di restauro non sono In questa sede non è tanto la data di nascita che andati in porto per i rilievi della Sovrintendenza ci interessa, ma il luogo, quell’appezzamento di Verona, che, approvando nei mesi scorsi il di terra denominato “Brolo e Lovara” dove la progetto di restauro conservativo, ha aperto la campagna si dipana dal Po e dove sorge quelstrada al recupero dell’immobile destinato ad la casa di Garofolo che ha visto nascere il nouno spazio polifunzionale culturale per esposistro artista. Il parere di Napoleone Cittadella, zioni permanenti e temporanee, per incontri ed storico e bibliotecario ferrarese dell’ottocento, eventi mirati a promuovere, oltre alla memoria secondo il quale Benvenuto sarebbe nato a Ferdell’artista, il territorio e le sue prospettive di svirara perché lo zio paterno aveva una casa in luppo. In questo senso il progetto di recupero si città da diversi anni, differisce da quelli degli inquadra perfettamente nel progetto di valorizaltri storici (dal Vasari in poi) e comunque non zazione della “sinistra Po”, arricchendolo tanto è finora stato confermato da alcun documento da proporsi quale riferimento caratterizzante e d’archivio,, ma in ogni caso la figura di Benqualificante di quel percorso paesaggistico, A venuto Tisi, per le origini della famiglia e per ambientale, turistico e quindi anche economico Benvenuto Tisi quel suo soprannome di “Garofolo” con cui è costruito sulla fruibilità dell’argine del fiume, delda Garofolo conosciuto in tutto il mondo dell’arte, rimane le sue splendide golene, degli spazi di sosta e Principe della Pittura Ferrarese indissolubilmente legata a questo borgo dell’ex dei possibili attracchi fluviali. La casa del Tisi la Società di Belle Arti Transpadana ferrarese. Nel 1843 i Tisi livellarocon il suo borgo sotto l’argine del grande fiume no la casa alla famiglia Beghi, riservandosi di si integra nel “sistema sinistra Po” che sta per esin Ferrara porvi un busto del loro celebre antenato, e nel sere realizzato, e il recupero dell’antico edificio che ne solennizzava la ricorrenza 1872, in occasione della celebrazione del 3° ne diviene elemento essenziale. il XXVI maggio MDCCCLXIII centenario della morte (rinviato per le vicende poneva della terza guerra d’indipendenza e dell’unità Canaro, luglio 2009 Claudio Garbellini 47


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Lo stato dei luoghi L’edificio si presenta in uno stato di abbandono alle soglie dell’irreversibile. Il suo disuso, l’incuria del tempo e la vegetazione infestante ne deturpano la materia. Sono tangibili i cedimenti della struttura lignea di copertura, che in più punti è crollata, provocando insistenti infiltrazioni di acqua meteorica a causa delle quali sono degradate le sottostanti strutture lignee del solaio di interpiano. In tali punti la vegetazione ha iniziato a crescere rigogliosa all’interno del fabbricato. L’assenza di canali di gronda, lo scivolamento e la manomissione dei coppi sulle cornici provocano numerose infiltrazioni per percolamento, con conseguente danneggiamento delle murature in laterizio, dove sono presenti evidenti concentrazioni saline, causa la polverizzazione ed esfoliazione dei mattoni. Tutti ciò ha messo in serio pericolo le teste delle travi costituenti la struttura primaria della copertura nord. L’assenza di chiusure delle finestre, per deterioramento degli scuri in legno e per il vandalismo, ha causato ulteriori infiltrazioni nelle giornate di pioggia. A tutto questo si aggiunge l’umidità del sottosuolo che attraverso le esili fondazioni in mattoni di laterizio e la sabbia di posa delle “povere” pavimentazioni trasporta e fissa sui materiali numerose quantità di sali igroscopici, che cristallizzando causano lo “scoppio” degli stessi. Le strutture lignee, gli intonaci, i pavimenti sono gravati pertanto da una continua presenza di umidità che arreca pregiudizio alla materia compromettendo la funzione statica, di protezione, di fruizione a cui è stata pensata e destinata la struttura edificatoria. Esternamente all’edificio una insistente vegetazione infestante e arrampicante aggrava ancor di più le patologie riscontrate. L’assenza di manutenzione ha provocato il distacco in più punti degli intonaci di calce, lasciando scoperti i setti murari. Piccoli cedimenti del terreno hanno provocato in più punti fessurazioni importanti nelle murature. Le cause sono da attribuirsi al dilavamento del terreno medesimo, che dalla quota di costruzione della casa, posta più in alto delle adiacenti proprietà, scivola verso gli estremi più bassi nonchè al movimento delle radici delle numerose “Rubinie” e nella loro continua ricerca di acqua nei periodi di grande siccità. La proposta di intervento Premessa La proposta di progetto prende a riferimento al Parere rilasciato dagli Uffici competenti della Soprintendenza per i BB.AA. e per il Paesaggio di Verona del 4 febbraio 2008 prot. 1504, dal quale si evince “l’immagine evocativa di quella che era inizialmente una modesta casa di campa48


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gna ora fortemente connotata da valori immateriali”. Essa si snoda nell’intento di confermare e consolidare l’immagine della memoria della Casa nativa del Garofolo, riproponendo per i restanti ambienti una funzione culturale che elevi, e nel contesto venga elevata, dal ricordo della figura del Pittore della Ferrara Estense. Tale obiettivo ci ha portato ad abbandonare completamente l’idea che era stata formulata nella fase Preliminare, la quale relegava la memoria storica dell’evento della nascita ai soli ambienti già valorizzati dal precedente intervento del 1937 a firma dell’ing. Tullio Silvestri. Nella nuova proposta progettuale l’edificio viene considerato in senso unitario e inscindibile al ricordo dell’artista se pur ricostruito probabilmente nell’Ottocento (come si legge dall’analisi storica dei materiali costitutivi le murature mediante l’analisi mineralogica – petrografica eseguita). Se pur rimane ben poco da potere valorizzare, come descritto nello “stato dei luoghi”, si è rafforzata l’idea di creare uno spazio “polifunzionale culturale”, al fine di fare rivivere attraverso una memoria ormai lontana, una nuova stagione d’arte, costume e società legata al territorio interessato e ai territori limitrofi. Uno spazio destinato a esposizione permanente e temporanea, a incontri ed eventi di qualsiasi natura, con lo scopo di mettere in risalto il Territorio un tempo ferrarese ed ora polesano. Una nuova veste funzionale che pur mantenendo le dimensioni interne degli ambienti, senza snaturarne la loro visione complessiva, trova nuovi spazi atti al “riuso” del complesso secondo le nuove esigenze distributive e sempre in conformità alle normative igienico sanitarie e sull’abbattimento delle barriere architettoniche. Trovano così collocazione nella porzione di edificio posta sul retro i locali per gli impianti tecnologici per il condizionamento invernale ed estivo degli ambienti, una piccola stanza per potere approntare eventuali rinfreschi, i servizi igienici, la nuova scala di collegamento tra i piani e l’ascensore (elevatore pneumatico) per l’abbattimento delle barriere ar-

Estratto dalla "Mappa e Catasto della Presa Superiore di Garofolo" redatta dal perito Agrimensore Gaetano Frizzi nel 1808: è evidente la conformazione articolata dell'edificio indicata in rosso scuro sulla planimetria di sinistra; a destra il tratteggio rosso indica l'attuale conformazione del fabbricato. In basso viene riportato l'estratto relativo alla proprietà del mappale n. 70, si legge: "Tisi Benvenuto di Bortolo, fondo detto Lovara".

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chitettoniche. Considerando la sovrapposizione del sedime attuale dell’edifico (in tratteggio rosso) rispetto all’estratto della “Mappa e Catasto della Presa Superiore di Garofolo” redatta da Gaetano Frizzi nel 1808, si evince che l’ultimo corpo di fabbrica opposto alla casa del Tisi, destinato a ricovero degli attrezzi con soprastante fienile, è di edificazione successiva e pertanto estraneo alla memoria. Proprio in tale volume viene riproposta, nei due livelli, l’esposizione permanente di copie di alcune opere del Tisi. Per “staccare” visibilmente l’ultimo volume dell’edificio da quello restante, sono impiegati tecnologie e materiali contemporanei. Proprio il contrasto tra le opere del cinquecento e l’ingegneria contemporanea valorizzerà tale connubio.

delle travi portanti per i solai con un successivo irrigidimento degli stesi con solette in calcestruzzo armate collaboranti, restituiranno stabilità e coesione alla scatola muraria. Un’attenta cucitura finale delle murature mediante la tecnica del cuci – scuci, sostituendo attentamente i mattoni rovinati o lesionati con altri simili sia per consistenza materica, dimensione e periodo storico (normalmente recuperati mediante demolizioni parziali in cantiere o provenienti da altri) ne completerà radicalmente l’intervento di consolidamento. L’adeguamento funzionale e le finiture La frammentazione funzionale della casa ha portato nel tempo alla realizzazione di tre piccole scale in legno e cemento preconfezionato per l’accesso ai piani superiori. Sia per la loro dislocazione decentrata rispetto agli ambienti sia per la loro natura dimensionale e strutturale nessuna di esse è risultata idonea alla nuova destinazione d’uso anche per problemi normativi. Liberando le piante delle stanze mediante la loro demolizione il nuovo corpo scale è stato previsto nell’appendice edificatoria sul retro dell’edificio all’interno di setti murali già esistenti. Mantenendo l’idea di leggerezza delle scale in legno esistenti, che quasi appoggiavano delicatamente sulle strutture senza appesantirle, si è pensato alla realizzazione di una scala dimensionata con cosciali in lamine di acciaio verniciato con appoggi esili a terra, a marcapiano e a solaio. Vaschette in ferro contenenti lastre di marmo bianco costituiranno le pedate scandite da una semplice ringhiera costituita da montanti metallici verniciati, pensata senza la presunzione di volere forzare con disegni estranei il contesto edificatorio originario. Un elevatore pneumatico, inserito nell’ambito dei vicini servizi igienici, accontenterà l’abbattimento delle barriere architettoniche. Per quanto riguarda le opere di finiture verranno rispettate e riproposte quelle tipicamente tradizionali del Polesine. In particolare pavimenti in cotto, marmo e legno, distinti per le diverse destinazioni d’uso degli ambienti, definiranno e disegneranno a terra gli spazi espositivi. Intonaci a calce e mattoni a faccia a vista costituiranno la pelle esterna ed interna della casa, mantenendo e valorizzando le finiture già proposte durante l’intervento del 1937. Un ampio spazio esterno ridisegnato in parte a parcheggio e giardino, accoglierà i futuri fruitori di quello che è auspicabile diventi un punto di sosta e scambio culturale sull’asse viario che collega non solo le due Città di Rovigo e Ferrara ma anche due culture, quella Veneta e quella Emiliana - Romagnola legate da una storia comune che, sulle rive del Po, ha visto per tanti anni penetrazioni e fusioni culturali uniche.

Il consolidamento delle strutture Per la verifica della consistenza delle strutture murarie e dei solai lignei e la relativa proposta di intervento progettuale, nel rispetto della nuova destinazione d’uso degli ambienti, sono state valutate e prese in considerazione le “Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale” così come formulate dal Gruppo di Lavoro ai sensi dell’art. 3 dell’Ordinanza P. C. M. 3431/2005 istituito con Decreto Interministeriale del 23 maggio 2005. Queste costituiscono il testo emandato e allegato al parere n° 66 dell’Assemblea generale del Consiglio Superiore dei LL. PP. della seduta del 21 luglio 2006 (da: Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per i Beni Architettonici e Paesaggio, Edizione Gangemi Editore – Roma – luglio 2007). Premesso questo, il progetto di consolidamento ricomprende tutte quelle opere necessarie e indispensabile a ristabilire un equilibrio statico delle strutture. Dopo avere provveduto ad effettuare le prove di resistenza e portata del terreno circostante, si è proceduto al rilievo della consistenza e delle dimensioni delle fondazioni mediante operazioni dirette previo lo scavo, per punti di campione, del terreno adiacente alle medesime. Si è potuto in tale modo riscontrare che il sistema fondale esistente, costituito principalmente da pochi corsi di mattoni appoggiati su di un letto di cocci di coppo, era insufficiente a portare i nuovi carichi di progetto dettati dalla nuova destinazione d’uso e dalla normativa antisismica sotto il cui vigore ricade l’ambito territoriale. Tale valutazione è stata eseguita anche per i solai in legno costituiti per la maggiore da travi risultate insufficienti per dimensione e quantità e da orditure secondarie e terziarie sottodimensionate a soddisfare le esigenze del progetto di riuso. L’allargamento della base delle fondazioni, mediante cordoli in calcestruzzo armato collegato alle murature mediante conettori in ferro inghisati con resine, e l’aumento del numero 50


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Ritratto di un’attrice

Maria Paiato, ovvero la veritĂ in ogni gesto e in ogni parola di Sergio Garbato

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’attrice Maria Paiato da qualche anno, dopo lunga gavetta, letteralmente spopola e si porta via un premio dietro l’altro: il Borgo Verezzi, il Flaiano, la Maschera d’oro, l’Eleonora Duse, gli Olimpici del Teatro e soprattutto due «Ubu», che nel mondo del teatro sono il massimo. E, ogni volta, si stupisce, con la voce che incede a ringraziamenti che vengono dal cuore e una luce gioiosa d’infanzia nello sguardo. Successo meritato il suo, che ha fra i suoi pronubi nomi eminenti del teatro e della cultura, oltre che i deliri del pubblico e questo fa di lei una delle interpreti di punta della scena contemporanea, prediletta dai grandi registi, ma non per questo meno disponibile a lavorare con i giovani che meritano. Maria sa, però, che la bravura e l’intelligenza non bastano da sole, perché ci vuole fortuna e la vita gira un po’ come vuole. Piace in Maria Paiato, subito, al primo approccio, la spontaneità che diventa immediatezza, la modestia di chi non ha tagliato (né intende farlo mai) il cordone ombelicale con le proprie origini, che nel suo caso sono le nebbie e una terra aspra ma generosa sotto gli argini del grande fiume. Ma questo è solo un primo livello, perché Maria ha i suoi tormenti intimi, le sue storie segrete di cui non fa parola, ma che tornano fuori nelle parole e negli sguardi di un personaggio. E molti dei personaggi che interpreta, a dispetto di un lungo periodo giovanile dedicato per lo più al teatro brillante, sono figure con il volto impietrito e scavato dalle lacrime, dimenticate nelle penombre di una stanza, percorse da una tragicità che non è mai consapevole di se stessa, ma radicata nelle profondità dell’essere. In oltre venticinque anni di carriera, tra il cinema e il teatro, Maria ha dato vita ed espressione a personaggi che si sono impressi nel cuore e nella memoria di di tanti spettatori, senza mai montarsi la testa, scegliendo

sempre e senza esitazioni la modestia e il riserbo. «Sono polesana da sette generazioni, dice, ho un rapporto fortissimo con la mia terra. Sono nata a Stienta, ma la mia famiglia si è trasferita quasi subito ad Occhiobello, dove sono rimasta fino a vent’anni e dove torno appena posso». E a casa si fa viva almeno un paio di giorni al mese, per stare un poco con i genitori amatissimi che sono ormai anziani e che l’aspettano con dolce pazienza. Lei è fatta proprio così, ama e rispetta d’istinto e non delude mai. Così è anche con i suoi personaggi, con la Maria Zanella, in particolare, che dieci e più anni fa le aveva dato celebrità e verità. Certi incontri, infatti, non sono casuali, ma preordinati dai disegni di un destino che si diletta a sovrapporre volti e sentimenti. Tanto più se si tratta di un’attrice come Maria Paiato, che ai suoi personaggi offre comprensione e dedizione, fino a dimenticare la propria identità. Ecco, allora, la stralunata Maria Zanella, nata nelle pieghe del cinquantenario della grande alluvione del Po e subito riconosciuta in ogni sospiro e in ogni espressione, negli sguardi che girano a vuoto e nel dondolio alienante di una sedia. Talmente intensa e profonda l’identificazione con la Maria Zanella, che i critici erano corsi a teatro vederla, restando letteralmente sbalorditi. Uno sbalordimento che si era tradotto nel primo dei suoi due premi Ubu per la migliore attrice. «Sì, un personaggio che mi ha dato tanto e che ha finito per riempire alcuni anni della mia presenza in palcoscenico. Tanto è vero che ho intenzione di riprenderla, oh, una volta sola o poco più, ma sono impaziente e curiosa. So già che la farò in maniera diversa, perché nel frattempo sono maturata e anche un po’ cambiata. Ma lei, la Maria Zanella, è sempre quella. Chissà che non riesca a portarla di nuovo anche dalle parti di casa mia, in Polesine, dove è nata e dove vorrà 53

tornare! Questo monologo era nato su sollecitazione del vicesindaco del mio paese, che voleva qualcosa per ricordare l’alluvione del ’51, teatro di narrazione, alla Paolini. Mi sono rivolta a un giovane drammaturgo amico, Sergio Pierattini, che ha scritto questo piccolo capolavoro». Il secondo Ubu glielo aveva fruttato l’incontro con Miriam Mafai, ritrovata sul palcoscenico de «Il silenzio dei comunisti» con la regia di un mostro sacro come Ronconi. Anche in questo caso, Maria Paiato aveva trovato, per istinto e per intelligenza, la corda giusta, perché l’identificazione era avvenuta non in assoluto, ma nel relativo di una situazione, una specie di correlativo oggettivo. L’identificazione nel profondo, totalizzante e straordinaria, era arrivata con un romanzo di Dolores Prato prestato al monologo e diversamente da quanto era avvenuto con la Maria Zanella, l’attrice poteva dare sfogo, negli squarci della disperazione, a quel gusto per il comico e per il paradosso che le erano sempre frullati dentro e che colorano le cose quando è la memoria a parlare. Difficile pensare che un’attrice simile avesse qualche attinenza con l’allucinata istitutrice di «Giro di vite» di James... e invece... Meglio ancora quella Félicité che non fa storia ma infinita tenerezza e compassione umana e che Flaubert ha eletto a protagonista di «Un cuore semplice». Un’interpretazione che riesce a dare verità a questa «vita senza importanza», destinata fin dall’inizio a non lasciare traccia. Ed è appunto la capacità di tradurre in verità ogni gesto e ogni parola la cifra di Maria Paiato, così che i suoi personaggi trovano una sorta di postumo riconoscimento, quasi un riscatto dall’indifferenza che ha infagottato quasi ogni giorno della loro esistenza. Ma l’attrice si spinge su un terreno ancora più difficile e insidioso, che è quello di suggerire, ma solo con uno sguardo perduto o un’improvvisa incri-


PERSONAGGI

natura della voce, che oltre la verità del personaggio, c’è ancora qualcos’altro, forse un fondo amaro del cuore che non verrà mai in superficie, perché il pudore, quando non si nasconde nella timidezza, sceglie l’ottusità. In questo fingere di non capire o non sapere, divagando nelle frange di gioie approssimative e dolori contenuti, Maria Paiato è maestra. E Félicité le ha portato il Premio Olimpico. In giorni più recenti c’è stata Erodiade, quella di Testori, nella prima versione, difficile e magmatica. «La mia Erodiade, spiega, è una donna arrabbiata di oggi, una regina rifiutata nel suo bisogno di dare e avere amore, e la rendo senza declamazione e classicità. È nera perché a lei è stato preferito Dio. Lei rivive nello spazio della coscienza e della confessione: uno spazio senza tempo con plexiglass, acciaio e luci stroboscopiche». Uno spazio che trema si sfilaccia nell’interminabile monologo, tra recriminazioni e minacce, confessioni e ritrattazioni, soprattutto nella valanga di parole che urtano contro il silenzio di Dio e l’abiezione del desiderio frustrato e precipitano nel baratro della perdizione. Per Maria Paiato il teatro è arrivato abbastanza presto, ai tempi della scuola. Si era conquistata una parte in uno spettacolo studentesco facendo il verso a Franca Rame. Poi, era entrata in una compagnia amatoriale di Ferrara. Ma la folgorazione era arrivata ascoltando Edmonda Aldini alla radio che raccontava dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. «Ho capito che quella era la mia strada. Ho mollato il mio posto di ragioniera e sono corsa a Roma per l’esame di ammissione. Avevo promesso a mio padre che se non mi avessero preso al primo colpo avrei rinunciato. Mi hanno preso

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e ho trovato maestri straordinari: Aldo Trionfo, prima di tutti, poi Mario Ferrero, Lorenzo Salveti, Paolo Panelli, Luca Ronconi, Marisa Fabbri, Gastone Moschin e perfino Andrea Camilleri. La mia vita era cambiata dal giorno alla notte. Al momento di uscire dall’Accademia, avevo già trovato una cooperativa di ex allievi, diretta da Quartullo e per quattro anni ho fatto di tutto, soprattutto parti da caratterista. Insomma la gavetta e l’esperienza, tanto che dopo non ho neppure avuto più bisogno di fare provini: mi avevano già vista. Poi sono diventata una free lance e ho cominciato a fare cose più importanti e anche a vincere qualche premio». Ma non è una favola, perché Maria ha sgobbato e lavorato sodo, guadagnandosi giorno dopo giorno anche i ruoli più modesti, mantenendosi con particine nei film di serie B, ma soprattutto affinando le sue doti fino a portarle ai livelli più alti dell’espressione. È anche per questo che un regista come Luca Ronconi («Ho fatto le bave per vent’anni per lavorare con lui e adesso mi pare un sogno») la vuole in scena ogni volta che si accosta a testi e personaggi che hanno bisogno di qualcosa in più, dal «Silenzio dei comunisti» alla «Modestia» di Rafael Spregelburd che ha debuttato a Spoleto quest’estate e sarà ripreso al Piccolo di Milano. Ma, in genere, Maria collabora volentieri con i registi di nuova generazione, che in più di un caso sono amici della prima ora, come Valerio Binasco («L’intervista» di Natalia Ginzburg), Valter Malosti («Quattro atti profani» di Antonio Tarantino), PierPaolo Sepe (la citata «Erodiade» di Giovanni Testori), Cristina Pezzoli («Precarie età» di Maurizio Donadoni).

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PALCOSCENICO

Lorella Doni Quando i sogni si avverano intervista di Monica Scarpari

Prove della stagione areniana 1993 56


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“Shéhérazade” Coreografia: M. Fokine Musica: N. Rimski-Korsakov, Landestheater Salzburg 1990

“L’opera da tre soldi” Coreografia: M. Piazza Musica: K. Weil Teatro Filarmonico Verona 2010

orella Doni è nata ad Adria e dopo aver frequentato la scuola di danza guidata dai maestri Vjera Markoviç e Alfredo Köllner, ha iniziato una fortunata carriera di ballerina professionista che l’ha portata a calcare i palcoscenici di tutto il mondo, a lavorare a fianco di grandi stelle della danza e con importanti coreografi e registi del nostro tempo. Una carriera che dura da più di venticinque anni e che è ancora in evoluzione. A Lorella abbiamo rivolto alcune domande sul suo lavoro e sul suo rapporto con la sua terra d’origine. Com‘è nata la tua passione per la danza? Raccontami degli inizi, di come si diventa danzatori professionisti. Dacché io ricordi ho sempre voluto diventare ballerina, che è sicuramente il sogno di tante bambine e, qualche volta, i sogni si avverano… Questo sogno però, sarebbe rimasto nel cassetto, se la passione e la voglia d‘imparare non fossero state aiutate dall‘incontro con due bravissimi maestri: Vjera Markoviç e Alfredo Köllner, chiamati ad insegnare proprio qui ad Adria per l‘apertura della nuova scuola di danza dal professor Sergio Trombini. L‘apertura della scuola di danza ad Adria fu un grande avvenimento e contò immediatamente moltissimi iscritti. All‘epoca, l‘unico modo per avvicinarsi a questa disciplina era recarsi a Rovigo, ed io lì avevo frequentato per un paio di anni per poi dover rinunciare a causa delle difficoltà di spostamento. La nuova scuola di danza di Adria rappresentò per me, e per molti giovani di tutto il Basso Polesine, la possibilità di poter apprendere quest‘arte meravigliosa che è la danza in maniera seria e, proprio grazie all‘altissimo livello d‘insegnamento, garantì a me, ma anche ad altri allievi della scuola, una formazione professionale. Finalmente dopo anni di lezioni quotidiane di danza classica, di carattere, di punte, di repertorio e di danza moderna, nel 1985 vincevo l‘audizione per entrare nel corpo di ballo del Teatro Comunale G. Verdi di Trieste. Considero il 1985 l‘anno ufficiale del mio ingresso nel mondo del lavoro, anche se avevo avuto già qualche esperienza lavorativa precedentemente. Entrare per la prima volta in un teatro d‘opera importante che aveva orchestra, coro e corpo di ballo stabile fu un‘esperienza indimenticabile. Quando andavo a dormire non vedevo l‘ora di svegliarmi per rimettere i piedi in teatro e ricominciare la lezione e le prove. Mi sembrava di entrare in un luogo magico e misterioso, dove dal niente poteva accadere di tutto. Mi sentivo onorata e privilegiata perché la musa della danza, Tersicore, aveva scelto proprio me tra i suoi discepoli e mi offriva un piccolo spazio, su quelle assi di legno che in teatro chiamano palcoscenico, su cui esibirmi. Oggi, dopo tanti anni di palcoscenico, mi sento ancora così. E poi? Dopo Trieste? Com‘è proseguita la carriera? Rimasi a Trieste per tre stagioni consecutive ricoprendo soprattutto ruoli da solista, ma anche da prima ballerina. Nel frattempo ero entrata nel corpo di ballo estivo dell‘Arena di Verona. Ma la voglia di fare nuove esperienze mi portò all‘estero e per cinque anni lavorai al teatro dell‘Opera di Salisburgo in Austria e poi ancora un anno con il Wiener Ballet Theater di Vienna, una compagnia di balletto che faceva tournée in tutta Europa. L‘esperienza delle tournée è sicuramente bellissima: si vedono nuove città, nuovi teatri, paesi diversi per cultura e tradizione, ma vi posso assicurare che è un‘esperienza 57


PALCOSCENICO

massacrante. Ricordo che nel periodo natalizio avevamo danzato quarantuno spettacoli dello Schiaccianoci consecutivi, senza un giorno di riposo e con spostamenti di città in città quasi quotidiani. I miei maestri dicevano che bisognava fare i chilometri in palcoscenico per fare veramente esperienza, acquisire sicurezza e migliorare come ballerini. Ebbene quell‘anno ne feci tanti di chilometri, in tutti sensi, e ovviamente i miei maestri avevano ragione!! Certamente lavorare in Europa aveva molti vantaggi, ma come dire... „casa dolce casa“ e decisi di tornare in Italia, dove potei ottenere un contratto a tempo indeterminato come ballerina solista nel corpo di ballo dell‘Arena di Verona.

“Seconda pelle” Coreografia: H. Vancol Musica: M. Audisso Teatro Filarmonico Verona 2009

“Dylan Dog” Coreografia: D. Parker Musica: M. Tutino Teatro Filarmonico Verona 1999

Cos’altro potresti dire della tua carriera? Più di venticinque anni sulle punte sono molti... Guardandomi indietro non mi par vero che siano già passati. Quando iniziai, pensavo che avrei ballato una decina d‘anni, poi divennero quindici, poi venti.... e ancora sono in ballo! Con certezza posso dire d‘essere veramente soddisfatta e di aver avuto una bellissima carriera. Ho danzato a fianco di grandissimi artisti, dall‘intramontabile Carla Fracci a Roberto Bolle, da Oriella Dorella a Eleonora Abbagnato. Ho eseguito ogni genere di coreografia dalla più classica alla più contemporanea, rivestito tutti i tipi di ruoli da prima ballerina a... comparsa. Ho lavorato con coreografi di fama internazionale, con acclamati registi, dal raffinato Franco Zeffirelli al trasgressivo Graham Vick e con attori d‘eccezione come ad esempio Ferruccio Soleri. Ho sperimentato inoltre l‘ebbrezza del canto nel rivestire il duplice ruolo di ballerina e cantante ne L‘Opera da tre soldi di B. Brecht e non solo in quella occasione. Le rarissime volte che ho guardato in TV “Amici“ mi sono stupita, perché conoscevo tutti quelli della giuria, proprio tutti! Poi ho iniziato a considerare tutte le occasioni e le produzioni nelle quali avevo avuto modo di incontrarli e avevamo lavorato assieme, allora capivo il perché. Certo in tutto questo tempo! Ma in tutti questi anni hai sempre e solo danzato o ti sei interessata o dedicata anche ad altre attività, hai coltivato altri ”sogni”? L‘attività più naturale per un ballerino che ancora danzi o che abbia smesso di danzare è sicuramente l‘insegnamento. E‘ un‘attivita che mi appassiona moltissimo e che già da diversi anni coltivo, una naturale continuazione dell‘esperienza accumulata in tanti anni di studio e lavoro. E‘ bellissimo veder crescere dei giovani ed insegnar loro con pazienza e dedizione: per mia grande soddisfazione qualche anno fa una mia allieva è stata ammessa alla Scala di Milano e un‘altra all‘Accademia Nazionale di Danza. Ma non insegno solo danza classica, mi dedico anche all‘insegnamento della danza moderna e contemporanea che mi piacciono moltissimo e sono molto importanti per la formazione del ballerino. Il vantaggio di aver lavorato in tutti questi anni anche con moltissimi coreografi contemporanei, mi ha offerto la possibilità di conoscere diverse tecniche e stili che ho anche approfondito trascorrendo un periodo di studio e di lavoro a New York in prestigiose scuole, 58


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templi della Modern e Post-Modern Dance. Oltre all‘insegnamento mi dedico anche alla coreografia. Ho già coreografato per le scene danzate di opere e operette, ma anche per compagnie di danza sia in Italia che all‘estero. Ho formato un mio gruppo, Percorsi Alternativi, col quale ho messo in scena degli spettacoli, l‘ultimo dei quali Dogana in Danza, memorie di un luogo in continua trasformazione, è sulla storia di un antico edificio di Lazise. Con questo gruppo creiamo anche situazioni danzate in spazi alternativi al teatro, ma soprattutto attraverso una mia ricerca sul movimento cerco di dare una forma ed uno stile personali alle mie coreografie. La prossima estate per una compagnia messicana metterò in scena un balletto sul personaggio mitico di Medea, che tra l‘altro era stato il soggetto della mia tesi di laurea. Un‘altra cosa interessante che sto facendo, e che mi sta entusiasmando molto, è di collaborare con il coro A. Li.Ve di Verona, un coro giovanile diretto dal M° Paolo Facincani, per il quale creo delle coreografie che possano essere eseguite mentre si canta, un po‘ come nel musical. Con il coro A. Li.Ve sono appena stata a Roma in diretta TV dal Quirinale per l‘inaugurazione dell‘anno accademico, invitati dal Presidente della Repubblica che aveva visto il coro esibirsi a Verona con un brano sulla Costituzione. Un‘altra bella emozione. Cosa più ti coinvolge di quest‘arte e del tuo lavoro? Parlami delle sensazioni e delle emozioni, dell’anima della danza. Per un danzatore il proprio strumento di lavoro è il luogo che abita, ossia

Lorella Doni a 18 anni 59


PALCOSCENICO

La danza ti dà la possibilità di parlare di te, dei tuoi sentimenti, della tua visione del mondo come ballerino e/o come coreografo, attraverso il linguaggio del corpo, attraverso il movimento che diventa arte, ti dà la possibilità di confrontarti con te stesso e magari di essere anche molto critico, ma può aiutarti a trovare dentro di te nuove risorse, nuove ispirazioni, sicuramente qualcosa d‘inesplorato. Quest‘arte che mi ha coivolta fin da piccola esprime sicuramente il mio modo di essere: la voglia costante di migliorarmi, di esplorare i miei potenziali, di avere sempre nuovi obiettivi e di vivere la vita con passione ed entusiasmo, ma sempre con una particolare attenzione al rapporto con gli altri, alle persone che mi circondano, alle persone che fanno parte della mia vita e che mi sono state vicine nel mio cammino e che anche grazie a loro sono quella che sono. Forse quello che più mi ha dato la danza in tutti questi anni è la capacità di vedere il mondo e me stessa sempre con occhi nuovi, pronta ad affrontare qualsiasi cambiamento che la vita mi propone e a rimettermi in gioco, se necessario. L‘aver fatto di un‘arte come la danza la mia professione mi fa sentire comunque privilegiata, perché, in realtà, ancora non mi sono svegliata dal mio sogno...

il suo corpo. Quello che più stupisce quando si inizia a studiare danza è come il corpo si “pieghi“ alla tecnica, tanto da rendere facile e naturale ciò che facile e naturale spesso non è. Questo appassiona fortemente soprattutto quando si vede come, con pazienza ed allenamento, si possano fare cose incredibili. Raggiunto un buon livello tecnico si cerca di eseguire sempre meglio ciò che si è imparato, tendendo verso l’impossibile ma tanto ricercata perfezione. Si comprende poi che il tecnicismo e la perfezione non sono sufficienti, occorre cercare anche la qualità del movimento che si esegue e, soprattutto, stanare le emozioni che sottendono al movimento, emozioni che appartengono al nostro vissuto e che il nostro corpo racconta meglio delle parole. Ci sono inoltre i cambiamenti che il nostro corpo subisce, sia per il passare del tempo, sia per l‘attività fisica intensa cui esso è sottoposto. Sarà allora l‘esperienza che aiuterà ad apprendere come ottenere col minimo sforzo il massimo risultato. Ma quando finalmente si riesce a capire che si può comunque mettere tutto se stessi in quello che si fa, sia fisicamente che emotivamente, si capisce anche che si può trasformare qualcosa di “atletico“ in qualcosa di artistico.

“Un ballo in maschera”, Coreografia: M. G. Garofoli, Musica: G. Verdi, Teatro Filarmonico Verona 2002 60


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SUONI

Renato Cecchetto

Una voce nel buio intervista di Cristiana Cobianco

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’è un signore che, nato e cresciuto a Baricetta, sentiamo spesso nelle voci di famosi personaggi dei Cartoon. Nemmeno io sapevo che Shrek avesse i suoi natali italiani in quel di Adria. Renato Cecchetto, regista teatrale e radiofonico, adattatore dei dialoghi, doppiatore di successo e direttore di doppiaggio, racconta a REM la sua esperienza e i suoi progetti futuri. L’ho incontrato a inizio estate ed è subito stato chiaro che, di fronte a me, c’era un uomo di una non comune profondità interiore, che porta con sé un bagaglio d’esperienze professionali di estremo interesse. Ho avuto il piacere di conversare con Cecchetto il tempo di uno spritz, e quindi molte domande sono rimaste in sospeso. Ma il resoconto di quell’incontro, che qui presentiamo, credo riesca comunque a dare compiutamente la densità del personaggio.

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SUONI

Foto di scena dello spettacolo teatrale “Cartoline” scritto e diretto da Renato Cecchetto.

Da Baricetta, nelle compagnie amatoriali, al doppiaggio di Shrek, passando per film importanti e radio; Renato, ci racconti il tuo percorso?

settore sono diventato direttore del doppiaggio; che si può considerare, nei film stranieri, la regia della voce, chiaramente sempre subordinata alla volontà del regista del film. E’ questa attualmente la mia attività principale insieme a quella di sceneggiatore e regista teatrale.

Fondamentale è stata la scelta di fare l’attore e di farlo seriamente frequentando l’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Ho fatto tanto teatro e radio, anche come regista, partecipato a più di 80 film con registi come Mario Monicelli, Steno, Marco Ferreri, Damiano Damiani, Florestano Vancini, Francesco Laudadio, Neri Parenti, Bruno Cortini, Bruno Gaburro, Aurelio Grimaldi. Ho fatto molta commedia all’italiana, mi chiamavano spesso a fare la spalla a Jerry Calà, perché ero l’unico che riusciva ad inserirsi nelle sue pause. Poi negli anni ottanta con l’avvento delle tivù private che compravano serie televisive americane e film di seconda categoria si è aperto un enorme mercato per il doppiaggio. Tanto che alla fine gli attori non bastavano più e a fare il doppiaggio erano chiamati anche postini, casalinghe, portinaie con risultati naturalmente pessimi. Maturando esperienza nel

Hai prestato la voce ad almeno un personaggio in ogni film Pixar: come si arriva a doppiare i cartoon? Ci si arriva principalmente per divertimento. Cosa consiglieresti ad un giovane con una bella voce, che volesse intraprendere la carriera di doppiatore? Gli direi che una bella voce non basta, può eventualmente essere un punto di partenza, ma prima della scuola di doppiaggio è necessaria una buona scuola di recitazione al fine di poter affrontare con professionalità i moduli interpretativi che ogni parte richiede. Bisogna sempre 64


REM

Renato Cecchetto in una foto di scena.

contributo personale alle riprese.

tenere presente che il doppiaggio è una specializzazione del mestiere dell’attore.

Che legame hai ancora con il nostro territorio?

Hai lavorato con Mario Monicelli, che recentemente la cultura italiana ha perso; raccontaci un po’ di lui.

Ti rispondo parlandoti del mio ultimo progetto che parte proprio da Baricetta. Sto infatti lavorando ad una sceneggiatura che prende a pretesto una mia personale vicenda familiare per intrecciare una storia che dal piccolo paesino polesano andrà a svolgersi in Australia. Un uomo, prigioniero in Africa durante la seconda guerra mondiale, tornerà al paese solo nel ’47 affermando che non sapeva che la guerra fosse finita; da qui e dal sospetto che nascondesse qualcosa inizia la storia che nella seconda parte si svolgerà in Australia durante i suoi funerali e vedrà protagonista suo figlio. E’ un film che probabilmente verrà prodotto in Australia dove si dà maggior valore alla cultura ed essendo un film d’epoca richiede un notevole sforzo economico per poter ricreare gli ambienti originari, ma spero di riuscire a girare anche a Baricetta, dove mi piacerebbe ritrovare l’atmosfera del fiume tra le due guerre, il vento, i suoni e i rumori.

Ho lavorato con Monicelli in due suoi film: l’indimenticabile “Amici miei” e in “Parenti serpenti”. Famoso per essere un uomo burbero con cui era difficile rapportarsi, ho di lui il ricordo dei suoi occhi, così profondi che potevano essere solo di un uomo buono. Occhi rimasti così, vivi fino alla fine. “Amici miei” è stata un’esperienza notevolissima, ero pieno d’emozione, ero giovane e lavoravo a fianco di mostri sacri come Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Renzo Montagnani e Adolfo Celi. Naturalmente mi sono anche divertito moltissimo. In “Parenti serpenti” ricordo che lo stesso Monicelli era rimasto spiazzato dal modus operandi che si teneva sul set. Essendo un film corale, si era creato un clima da compagnia teatrale e ci muovevamo tutti come in un’orda dando un notevole 65


FORME

Christian Patracchini di Richard Skinner

“La noia è profonda e misteriosa” Erik Satie

“Self as never future enough” è un lavoro fotografico che costruisce un dialogo tra la tradizione pittorica, fotografica e letteraria. Si vuole sostenere la tensione tra il sensuale ed il grottesco, spingendo e stravolgendo nozioni di individualità, sessualità ed identità. Serie completa su www.christianpatracchini.com 66


REM

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o conosciuto Christian nel 1999 quando era appena arrivato dall’Italia: da allora siamo diventati amici, incontrandoci regolarmente per scambiare impressioni e parlare dei nostri lavori. Si parla spesso del fatto che nell’ arte non si può scendere a compromessi. Christian sa cogliere le occasioni che gli vengono presentate da gallerie, teatri ed istituzioni, ma è sempre attento ad accettare solo progetti che siano collegati direttamente alla sua linea di pensiero. È ovvio che come artista vuole che il pubblico apprezzi i suoi lavori, ma senza mai cercare il riconoscimento o la remunerazione come fine. Infatti è l’opposto, principalmente quello che cerca è la possibilità di creare opere che, detto con parole sue, gli consentono di “porgere il fianco”, ovvero di svelare la vulnerabilità del lato umano. Poi, c’è la questione dell’arte in se stessa; minimalismo o altro? Attori o spettatori? Questi sono punti dove ci troviamo spesso d’accordo. In generale condividiamo le stesse sensibilità ed attitudini. Gli artisti che piacciono ad entrambi (tra questi John Cage ed Erik Satie) sono quelli che credono nella semplicità e nel silenzio. Discutiamo del fatto che un’opera d’arte, dovrebbe essere sempre tesa verso l’essenziale, e che è molto meglio usare poche parole, gesti o immagini per comunicare delle idee, piuttosto che il contrario. Nei suoi lavori c’è la ricerca costante della riduzione piuttosto che dell’espansione e questo criterio per quanto gli riguarda, va sempre di pari passo con la convinzione che l’essenza di un opera artistica è nella durata e perché no, anche nella noia. Christian attraverso movimenti minimi ed un dialogo non verbale crea delle performance che sono una ricerca sottile del nostro “Io”, esplorando le connessioni tra il personale, il sociale ed il quotidiano. Spingendosi attraverso diverse aree culturali e teoretiche,

Clickz Un giradischi… Quando la seta nera si strappa, fa uno strano rumore simile al suono della carta quando brucia. (Sonetto e performance ispirato dal pezzo musicale di Petri Kuljuntausta‘Clickz’)

When L’effetto di ciò che ci tocca e quello che risiede tra una risposta emotiva e quello che ci si aspetta un evento produca. ‘When’ è un evento che si mette in relazione a quello che il pubblico si aspetta lo tocchi, funzionando fuori da una logica narrativa e di rappresentazione. L’obiettivo è di ‘toccare’ non attraverso tecniche di recita movimenti o comunicazione verbale ma inserendo il proprio corpo in uno stato instintivo in un contesto di contenimento, ed incertezza.

Untitled Un’esplorazione del bordo poroso che risiede tra quello che siamo e quello che ci circonda Cosa permettiamo e assorbiamo? Cosa sfidiamo? Cosa rivolge attorno a noi per via delle nostre azioni o non-azioni? Cosa lasciamo andare? 67


FORME

Space Cretinism:

cronaca di una performance di Richard Skinner

al muro della galleria. Lo spazio è stretto Il pubblico sta aspettando, ci sono circa 60 persone appoggiate attorno da un po’. In mezzo alla stanza c’è solo un e la performance ‘Space Cretinism’ dovrebbe essere iniziata già a qualcosa. Con il passare dei minuti, aspettare bicchiere di latte sul pavimento. Stiamo tutti aspettando che succed scomodo. C’è silenzio, tensione ed un po’ di in questa posizione, appiccicati ad altre persone diventa sempre più solo un paio di mutandoni lunghi, e cammina disagio. Ad un certo punto Christian fa la sua entrata, addosso ha do con la materia viscosa e l’effetto sonoro all’indietro tenendo tra le mani delle trippe. Si muove lentamente giocan pavimento, si avvicina al bicchiere di latte e lo che ne esce è piuttosto insinuante. Dopo aver posato le trippe sul e colare sul corpo. Non si sa bene come, ma porta alla bocca, ma invece di berlo lo lascia scendere dalle labbra io a forma ovale in un angolo della galleria, senza che il pubblico se ne accorga Christian ha piazzato uno specch che in questo specchio ha intagliato una si china a raccoglierlo e alzandosi se lo porta alla faccia. Si può notare ad uno spettatore, guardando attraverso questa fessura dove si può intravedere il suo sguardo. Mentre si avvicina ere osservato a quel modo. Si intuisce che lo ‘maschera’, provo ad immaginare come ci si possa sentire nell’ess più grande a mano a mano che lui si avvicina, spettatore che sta di fronte può vedere la propria faccia diventare ma quelli dell’artista. L’esperienza sembra un con la differenza che gli occhi riflessi dallo specchio non sono i suoi, e il prescelto è un’altro. Dopo aver fissato per po’ intimidatoria e spero che non si avvicini a me, ma fortunatament altrettanto con la persona che gli sta accanto. In qualche attimo lo spettatore, attraverso lo specchio, lo invita a fare . Sguardi titubanti e un po’ sorpresi vengono questo modo la maschera inizia lentamente a fare il giro della galleria lentamente. scambiati dal pubblico attraverso l’oggetto, mentre Christian si defila e finita. Il pubblico applaude mentre si diance perform la che chiaro Dopo un paio di minuti di silenzio, diventa e partecipato. sperde, un po’ stranito, ma accattivato da quello a cui ha assistito

Space Cretinism Mickail Bakhtin osserva che il “terrore cosmico è l’eredità dell’antica impotenza dell’uomo nei confronti della natura”, in altre parole, la topografia della paura e inscritta nella relazione fisica tra il corpo umano ed il suo ambiente. In Space Cretinism, lo spettatore è coinvolto in una coreografia che accentua la manipolazione degli oggetti di ogni giorno e prova a presentare una realtà alternativa fisica e dello spazio

Biografia Vive e lavora come creativo a Londra. Le sue performances sono state rappresentate in Gran Bretagna e all’estero, tra cui il BIOS festival 2009 ad Atene ed il PAE Festival 2010 a Rotterdam. Recentemente ha partecipato al 60x60 festival di Londra. La sua attuale ricerca esplora la relazione culturale tra L’Europa e L’Argentina. 68


REM

Means Without an End “Means Without an End” è una performance interattiva, con un partecipante del pubblico e l’artista che si incontrano in uno spazio e come unico modo di comunicazione hanno a disposizione solo un mazzo di carte e l’unicità del contatto tra parti del corpo. L’ evento è un tentativo di capire la struttura e la possibilità di dialogo non verbale, esplorando distanze, personali e sociali, in una circostanza che improvvisa un con-tatto, mirato a porre domande sulla nostra vulnerabilià, le nostre convenzioni ed i nostri limiti. “Means Without an End” è una performance continua che fino ad ora è stata tenuta in diverse città europee tra cui Londra, Amsterdam e Atene. Maggiori informazioni su www.christianpatracchini.com

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il suo obiettivo è quello di permeare la linea fragile posta tra quello che si sente e pensa e quello che risiede al di là del nostro controllo. Ho visto tanta preparazione ed analisi entrare nei suoi lavori prima di portarli in scena, e a volte Christian finisce in vicoli ciechi che lo portano a cambiare radicalmente o addirittura ad accantonare un’idea, anche quando impiega molto tempo ad elaborarne il pensiero. Questo richiede tanto coraggio, ma alla fine la sua tendenza a fare luce sulle parti più fragili dell’aspetto umano, rivela sempre le nozioni che per lui veramente valgono. Come artista è sempre determinato a trovare percorsi indipendenti, che arricchiscano la sua vita, prima ancora della sua arte (nonostante queste siano direttamente correlate) ed è sempre propenso a scoprire nuove idee e forme d’espressione, senza troppo curarsi della direzione a cui queste portano. Significativo in proposito il viaggio che ha fatto recentemente a Buenos Aires, per una ricerca sulle madri dei ‘Desaparecidos’, e sul periodo di dittatura militare che ha coinvolto il paese dal 1976 al 1983. Come creativo è molto dedito al suo lavoro; ma non penso affatto sia scontato che segua per sempre questa linea d’espressione. Infatti, non sarei sorpreso se un giorno decidesse di abbandonare definitivamente il “mondo dell’arte”, per concentrare i suoi sforzi in altri tipi di ricerca. Mi piace la sua diffidenza in un mondo in cui il commercio tende a snaturare gli artisti. Il modo in cui lavora è molto organico ed incline a scelte che alcuni troverebbero forse un po’ troppo idealiste o addirittura testarde, ma che, alla fine, si dimostrano sempre appropriate e concrete. Questo da solo è motivo di plauso.


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’associazione Artalide Centro - Studi - Danza - Arte Movimento è stata fondata nel 2010 ad Adria, grazie al meraviglioso incontro di alcune persone appassionate alla danza, all’arte e alla cultura, che si sono conosciute in ambito professionale e nel tempo hanno maturato un reciproco interesse verso i diversi talenti e competenze. Visti gli stessi intenti e ambizioni, che mirano alla valorizzazione del potenziale artistico come risorsa fondamentale per la crescita evolutiva, culturale e sociale dell’essere umano, il gruppo fondatore si è proposto di creare un Centro che funge da contenitore per la realizzazione di progetti, attività e idee innovative, che possano stimolare interesse, curiosità e passione alla popolazione presente su tutto il territorio del Polesine. I progetti e le idee del Centro Artalide sono quindi atti a promuovere e favorire la divulgazione di discipline artistiche legate all’espressione corporea, come la danza, le arti complementari ad essa (musica, teatro, arti figurative) e le discipline bio-naturali che mirano la loro attenzione alla cura e al benessere della persona dal punto di vista fisico, emotivo e spirituale. Tale intento si concretizzerà non solo attraverso l’apprendimento e la pratica delle diverse attività proposte, ma anche tramite la realizzazione di eventi di vario genere, come spettacoli di danza e performance di contaminazione tra le arti, inaugurazioni di mostre dedicate ad artisti locali o provenienti da diversi paesi, conferenze, seminari, laboratori e manifestazioni di vario genere, legate quindi alla cultura, all’arte e al benessere, come possibilità di scoperta, scambio e crescita per i soci dell’associazione, l’equipe degli operatori e il mondo circostante. Le attività proposte dall’equipe didattica rivolgono la loro attenzione a un’utenza di bambini ed adulti, amatori e professionisti, che desiderano occupare il loro tempo libero scegliendo di aderire ad iniziative adeguate alla loro fascia d’età e al loro interesse, con il supporto di operatori e di insegnanti competenti, in grado di garantire la massima serietà e professionalità.

Foto di Nicola Boschetti

La compagnia ARTALIDE-creazioni per la danza, è diretta da Francesca Franzoso (danzatrice contemporanea, coreografa ed insegnante) e da Giulia Troni (danzatrice, coreografa ed insegnante), direttrici artistiche del Centro-Studi-DanzaArtalide di Adria. L’intento della compagnia è quello di realizzare, attraverso il linguaggio artistico ed espressivo della danza e della contaminazione tra le arti (teatro, musica, canto, arti figurative, video…) la creazione di performance e spettacoli professionali ispirati a temi di natura artistica, culturale, sociale, antropologica, ed educativa. Quali temi urgono oggi d’essere trattati? Ma soprattutto come? Come raggiungere, raccontare, muovere gli animi, i pensieri e il sentire comune attraverso il linguaggio artistico? In risposta a questi interrogativi, l’artista mette a disposizione il suo talento, apre i propri canali espressivi e utilizza la potenza comunicativa dell’arte. Attraverso momenti d’incontro, scambio e progettazione, ogni singolo artista mette a disposizione la sua competenza e il suo linguaggio espressivo, al fine di realizzare un progetto comune; il frutto di questa esperienza, che attraverso l’interazione apre gli orizzonti delle singole discipline, dà forma all’ideale artistico.



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di Francesca Maria Forte

Simone Berti Ipotesi di concentrato d’artista

Senza titolo, 2008, grafite e sanguigna su carta foderata, cm 220x150 – Collezione privata. Courtesy Collezione Rosa Sandretto.

(Nel ventre dell’alce) 72


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Certi Berti soppalchi sono retti da curiosi pilastri che puntellano bassorilievi di metallo e velluto. Le pareti sono tele enormi che si sfogliano con un dito, come una sorta di “erbario delle Architetture e Strumentazioni”, nel quale gigli carnosi fluttuano su massicci contrafforti e ciminiere esauste; coi loro petali spalancati, separati, m’ama o non m’ama, esplodono plasticamente tra tubi che non veicolano niente. O forse lo spazio. Illimitato. O forse il tempo: perduto? Ritrovato? Sprecato? Quello che trovano... Tutto è slacciato. Inutile e importante, senza parametri o termini di paragone, in nessuna direzione. Gli oggetti fluttuano e basta, in uno spazio talmente vuoto, che se ne finisce per percepire una fine; come una immensa piazza con al centro un qualche tipo di formazione monumentale. Monumenti: anche le creature viventi. Il rinoceronte si fa immortalare con le sue zeppe. Nessuna menomazione, nessuna anomalia, non sono steccate quelle zampe: sono zeppe... Nessun bisogno di sapere dove stia andando. Solo spessore e massa e pelle coriacea. L’alce pare aver ingoiato una stanza, con quella sua pancia enorme e gravida di spigoli, che tocca il suolo invisibile, talmente concreto però, da sentirne la presenza sotto i piedi. Mandrie di “bestiacce” dignitosissime, concentrati di storia densi, sovradimensionati, eterni. E quindi, sorprendentemente, eterei, leggeri come il tempo stesso. Un esercito di paradossi viventi che ruminano, che si librano mastodontici nei loro “Espositori per Pesce-Spada”, così cristallini nel relazionarsi a quello stesso tempo, del quale sono testimoni ignari, portatori di memoria

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che si ripete da secoli in ogni piega di quella pelle che è corazza. Allo stesso modo i fiori e le “strutture”, edilizie, idrauliche, organiche sono unità di misura di uno spazio sconfinato; metro arbitrario eppure saldo di un luogo che potenzialmente non ha proporzione né dimensione, ma nel quale ogni cosa ne assume una propria e ne conferisce un’altra al resto. Sono tessere nitide di un mosaico del quale presagiamo d’aver avuto conoscenza, ma che non riusciamo a collocare temporalmente, né a completare visivamente. Un déjà vu che, in verità, abbiamo vissuto. E poi gli uomini. Esseri umani che, invece, superiori per intelligenza e quindi consapevoli della propria caducità, sono soli. Esseri umani per i quali i rapporti di legame, siano di parentela o altro, o gettoni di presenza per aver partecipato alla storia dell’umanità, devono necessariamente essere sottolineati. Non si vedrebbero altrimenti? Esisterebbero davvero? E allora eccoli sorridere, tra linee, strutture di metallo che li contengono, come un albero genealogico fatto solo dei presenti. L’ennesimo paradosso. Eccoli in posa su piedistalli lignei, che ne evidenziano tutta la piccolezza. Non c’è per loro una collocazione in questo ventre “bertiano”: possono vagare incerti su trampoli, come uccelli acquatici incapaci di migrare; possono provare ad “annusare matematica” con leonardesche strumentazioni. Possono solo attendere, seduti in poltrone di fango, di essere ricordati. Dunque, accomodiamoci pure. Questo Berti Il fiume, e per “Fiume” nel Nord Italia se ne intende uno solo, a certe ore del giorno, crea una fusione tra 73

Senza titolo, 2008, grafite e sanguigna su carta foderata, cm 190x150 – Collezione privata. Courtesy l’artista.

Senza titolo, 1996, alchidico su tela, cm 120x150 – Collezione privata. Courtesy l’artista.

Senza titolo, 1999, alchidico su tela, cm 285x295 – Collezione privata. Courtesy Fondazione Teseco, Siena.

In basso a sx: Senza titolo, 2001, stampa lambda su d-bond, cm 110x85 – Collezione privata. Courtesy Collezione Traversi, Bergamo


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acqua e cielo nella quale è difficile orientarsi. Si perdono le proporzioni delle cose... Le vecchie industrie dismesse, gli zuccherifici che s’incontrano lungo le sue rive hanno comignoli e pareti che, stagliati sul fondale di atmosfere fuse, parrebbero modellini ma anche massicci edificati da giganti. Stimare delle dimensioni diventa complicato. Ci si affida come unico metro all’esperienza, alle conoscenze acquisite in momenti in cui i parametri di raffronto sono palesi. La natura è tutta intorno, contiene questi manufatti. Eppure ne è slegata. Non offre le sue leggendarie braccia nemmeno per fornirci qualche piccolo indizio di realtà. Solo a noi capire cosa intendere per essa. In questi momenti, con la luce

del giorno che svanisce e filma di una patina il paesaggio, l’ambiente naturale non è più un insieme, ma diventa dettaglio. Non è più la boscaglia o la pianta, ma il fiore e addirittura il petalo a diventare evidenza. I tronchi degli alberi appaiono come intrichi di radici; le ali di una farfalla decorazioni minuziose e particolareggiate. Simone Berti è cresciuto qui. Nelle golene di questo fiume ha imparato a nuotare, anni prima che i suoi “Pesci-Spada-Trofeo” entrassero nei salotti di emeriti collezionisti. Di questa natura e immagini è stato nutrito, prima di celebrarle nella sua opera, nella quale, con grande talento, è riuscito a rendere collettivo, e quindi immortale, un momento della sua vita che diventa infanzia di tutti,

che viene condiviso senza che ce se ne renda bene conto. Come dire che tutti ci siamo arrampicati sugli alberi, ma Calvino col “Barone Rampante” ha reso quest’atto ricordo di un’intera umanità; come dire che l’emozione di un passato vissuto riemerge spontaneamente davanti all’album di famiglia, ma che l’esperienza di una storia che c’è stata, il suo peso, la commozione per il tempo che passa, difficilmente si trova nelle Corderie dell’Arsenale alla 52^ Biennale di Venezia. A volte la chiave di lettura è proprio quella di casa. Altre volte, per bere una birra, bisogna inseguire il bancone, che rotola lungo un pontile infinito.

Senza titolo, 1997, video SuperVHS trasferito in Betacam, min’ 7 – Collezione privata. Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

Senza titolo, 1998, legno, laminato, acciaio, cm 200x200x400 – S.M.A.K. Stedelijk Museum voor Actuele Kunst. Gand – BE. Courtesy S.M.A.K.

Senza titolo, 2000, alchidico su tela, cm 200x400 Collezione privata. Courtesy Collezione Giulio Di Gropello, Roma

Biografia Simone Berti, nato ad Adria nel 1966. Vive e lavora tra Milano e Berlino. Ha esposto il suo lavoro in gallerie, musei ed esposizioni internazionali tra cui: Italiens, junge Kunst in der Botschaft, 2010, all’Ambasciata Italiana di Berlino; nel 2009, Fare Mondi/Making Worlds, 52^ Biennale Internazionale d’Arte di Venezia; Italics, al MOCA Museum of Contemporary Art, Chicago; El tiempo del Arte, Fundacion PROA, Buenos Aires, sempre nel 2009; Apocalittici Integrati al MAXXI, Roma 2007; Young Italian Artists At The Turn Of The Millennium, Galleria Continua, Pechino nel 2006; Domicile: Privè/Public, Musee d’Art Moderne, Saint Etienne – FR; ancora in Francia nel 2002, Polyphonix 40, Centre Georges Pompidou, Paris; nel 2001 Egofugal - 7^ Biennale di Istanbul, Istanbul; Borderline Syndrome: Energies of Defence, Manifesta 3, Ljubljana, 2000; Examining Pictures, 1999, Whitechapel Art Gallery, London/Museum Of Contemporary Art, Chicago/A. Hammer Museum - UCLA, Los Angeles... Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private, SMAK Stedelijk Museum voor Actuele Kunst, Gand – BE; MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; MAMBO, Bologna; ALT Arte Lavoro Territorio, Bergamo; Museo del 900, Milano; Istituto Nazionale per la Grafica, Roma. 74


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Senza titolo, 2000, alchidico su tela, cm 285x295 – Collezione privata. Courtesy Collezione Rosa Sandretto. 75


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Davide Rossi

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utto è nato tre anni fa, quando un gruppo di amici del Foto Club Adria hanno conosciuto Davide Rossi ad una sua “performance” a Rovigo; come Club lo abbiamo voluto al nostro circolo di fotografia per illustrarci i sui lavori, le sue idee ed i suoi progetti. E’ stato un sasso lanciato in uno stagno, anzi, un vero e proprio macigno! Grazie anche a lui abbiamo sperimentato sia la camera oscura che le antiche forma di stampa, utilizzando fotocamere a medio formato e anche il banco ottico, il “non plus ultra” della tecnica fotografica. Tre anni che sono sfociati in una mostra del gruppo di lavoro intitolata “Sperimentazioni, Fotografie Alternative e...” incentrata su temi fotografici ben definiti e sulla tecnica di stampa del cianotipo, sviluppata durante il “Cyanotype Day“ svolto presso il suo atelier a Polesella. Abbiamo chiesto a Davide Rossi di parlarci del suo lavoro e della sua esperienza. 76

intervista di Andrea Fantinati


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Ne è nata questa intervista che proponiamo ai lettori e che, ne siamo convinti, potrà dire qualcosa anche ai non appassionati di fotografia: Per prima cosa, chi è Davide Rossi? Davide Rossi è un fotografo professionista, ma prima ancora è una persona come tante che non può fare a meno di seguire ed inseguire la propria passione prevalente, quella della fotografia. Ci tengo in particolare alla parola “professionista”, un termine importante che stabilisce competenze e comportamenti e soprattutto nel campo specifico, una cultura dell’immagine ed una sensibilità di “coglierla” che non si deve confondere con il semplice “esercizio” del fare delle foto... Cosa significa fare il fotografo nel 2011? Proprio una bella domanda, a volte me lo chiedo anch’io... Al contrario di come la società oramai sembra credere, il fotografo non è “colui che ha la macchina fotografica”, l’era degli automatismi e della fotografia facile, rende a volte umiliante la pratica di una professione che viene svenduta al minor offerente proprio a causa di questa logica di mercato. Il vero fotografo professionista è una persona preparata in grado di utilizzare qualsiasi mezzo necessario alla realizzazione del proprio compito lavorativo, capace di cogliere immagini con contenuti, inquadrature, atmosfere, che vanno ben aldilà delle possibilità che offre l’oggetto che porta al collo. Ma chiunque, anche se non professionista, ha diritto ad un compenso per il proprio lavoro se ben fatto, chiunque ha diritto di chiederlo ogni qualvolta vengono richieste e utilizzate le proprie immagini. La cessione delle foto in cambio del nome pubblicato o cose del genere è assolutamente da rifiutare proprio come concetto. Spero di essere letto da tanti... Quali sono le specialità di cui ti occupi nel campo della fotografia? Più di tutto amo il ritratto, un universo da cui estrarre una piccola galassia, una stessa persona può apparire sempre diversa in base ai momenti, poi mi occupo di tutto quello che racchiude emozioni come cerimonie, matrimoni e oramai lavoro anche con la grafica e i siti web. Fino al 2003 ho lavorato a Milano nell’editoria, per riviste tra cui “THE GROOVE”, “CUSTOM”, “FREEWAY”, ma il settore è oramai defunto, poi per una etichetta discografica per la quale facevo dei book per i musicisti, collaboro ancora anche se solo saltuariamente per alcune agenzie di pubblicità, ma la mia più grande aspirazione è quella di portare, come docente di fotografia, la stessa nelle scuole. Ho poi un piccolo laboratorio di sviluppo e stampa in cui mi occupo di FineArt ed ogni tipo 78


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di “cosa fotografica” specializzata, il FineArtLabo. Tengo corsi di base e workshop, corsi per ragazzi dai 12 ai 16 anni, corsi di camera oscura, sulla fotografia in studio, sulle tecniche alternative di stampa, ma insegno anche in un asilo di Rovigo, che è per me una esperienza straordinaria. La fotografia oramai è un tuttuno con la nostra contemporaneità, non conoscerla a fondo nella storia e nella tecnica, significa restare indietro e questo vale per tutti, non solo per chi ha la passione. Ma DavideRossi fotografo è nato “solo” nel 1995? Magari... Non avevo progettato di fare il fotografo, ma le cose sono poi andate così. Dovevo ascoltare mia mamma e fare l’avvocato... Nei primi anni novanta fotografavo giusto per gioco e avevo intenzione di studiare regista, andai all’estero per un po’ di tempo, ma non riuscii nell’impresa, troppe difficoltà esterne, troppo complicata la vita... Così feci il lavoro dell’assistente e post-produzione video ai tempi dei nastri, solo nella fine degli anni novanta mi furono chiare le cose grazie a dei maestri della fotografia che incontrai e frequentai per un po’ di tempo, assorbendo da loro alcune filosofie tecniche e di vita. Cosa rappresenta per te la “mitica” Polaroid? Polaroid è un’avventura, è un modo per esprimersi, un mezzo complice che ti permette di interagire e vivere una storia dal finale a sorpresa. Ecco il bello è proprio questo, ognuno è in grado di ottenere un finale personalizzato grazie ad alcune azioni che si possono intraprendere o non intraprendere nel momento dello sviluppo immediato o nei passi successivi. Purtroppo l’industria Polaroid ha chiuso i battenti nell’anno 2008 dopo dichiarazioni contraddittorie da parte dei responsabili sui motivi di tale scelta, soprattutto perchè Polaroid dismetteva la produzione di un prodotto di cui era leader assoluta in un mercato mondiale che ancora ne faceva richiesta, per darsi ai microonde, LCD, frigoriferi ed altre ferraglie... Adesso c’è IMPOSSIBLE PROJECT, ma la produzione è assai ristretta. La fotografia come forma d’arte visuale, le tecniche che usi sono fine a se stesse o, con gli anni e la tecnologia che avanza, hanno subito una contaminazione ed una reinterpretazione? La prima fotografia nota risale al 1826 e si intitola “Le Gras”, da allora non è cambiato nulla e non cambierà nei secoli futuri. Fotografare significa scrivere con la luce, non sono i mezzi che contano, ma la luce e giustamente, chi la scrive.

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talmente varia, che ognuno di noi può riscriverne il libro. Ma alla fine, non conta solo il risultato finale? cioè quello che “esponiamo” ? Quello che conta è il momento dello scatto in primo luogo. Quello che noi vediamo, le emozioni che noi proviamo, tutto quello che genera la nostra personale visione, viene metabolizzato e tradotto attraverso, inquadratura, obiettivi, esposizione, attrezzature varie, giochetti e calcoli, previsualizzazioni e consigli ricevuti, il risultato finale dovrà essere la coronazione della nostra visione, questo è quello che fa la differenza in una foto. Fotografare secondo il caso e correggere o stravolgere col senno del poi è da dilettanti! Perchè questa passione per il Cianotipo? Il cianotipo è la tecnica di stampa più antica, rientra a tutti gli effetti tra le stampe d’arte ed è un metodo alla portata di tutti, veramente facile. Permette di dare un valore alle nostre foto, in quanto il lavoro che vi è nella fase di stampa la rende ogni volta unica, non solo, ma chi opera è protagonista e artigiano, un lavoro che accende una luce negli occhi di chi lo prova, il grande riscontro avuto nella giornata nazionale sulla fotografia alternativa che io ho organizzato insieme al Foto Club Adria, il “CYANOTYPE DAY”, ne è stata la prova. Poi in realtà a me piacciono tutte le antiche tecniche, così come anche gli antichi oggetti fotografici che ancora uso per il mio lavoro.

La fotografia alternativa: cosa significa per te? Significa uscire da una stanza stretta e dall’aria viziata, vuol dire guardare in alto e vedere il cielo, semplicemente perchè non vi sono ostacoli per liberare la voglia di sperimentazione, di scoperta, la volontà di condivisione grazie alle infinite sfumature che ognuno è in grado di colorare. Le tecniche alternative permettono di unire mondi e periodi diversi, e di offrire ad ognuno un proprio percorso, un proprio stile e condividerlo con altre esperienze, permette di ravvivare la fiamma della scoperta ogni giorno. In pratica la fotografia è

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? E perchè no, un bel palazzo della cultura con la fotografia a traino dell’idea, con a disposizione sale creative e per workshop o convegni, possibilità di vitto e alloggio per chi viene da fuori e con una galleria espositiva... Sogni appunto, ma se qualche buon finanziatore è all’ascolto, io sono qua! 80


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Atelier della Fotografia di Davide Rossi via De Paoli 1000, 45038 Polesella, Rovigo. tel. 347.2794432 www.atelierdellafotografia.it www.flickr.com/photos/drossi_photographer 81


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Alcuni soci fondatori Foto Club Adria Da sinistra: Giuseppe Mazzetto, Antenore Ceccotto, Giovanni Maistro, Giovanni Zen

Quarantacinque anni di Foto Club Adria Intervista a Gianfranco Cordella a cura della redazione

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uasi mezzo secolo di vita passato sempre in primo piano: il Fotoclub di Adria festeggia quest’anno i suoi primi 45 anni di vita, passati costantemente in prima fila in diverse attività, tutte a dimostrare che l’associazione ha sempre regalato linfa alla vita della città e, più in generale, al territorio del Basso Polesine. Di questa somma di attività, di questo fervore

culturale di cui il Fotoclub di Adria continua a farsi portatore, parliamo con Gianfranco Cordella, attuale Presidente dell’associazione. Il Foto Club Adria è una realtà consolidata nella nostra cittadina da 45 anni. Quali sono stati i suoi albori? E’ vero, il Foto Club prendeva vita nel Settembre del 1966 per volontà di 82

Antenore Ceccotto, Giovanni Maistro, Giuseppe Mazzetto, Lino Vianello e il dott. Giovanni Zen, primo Presidente. Pieni di entusiasmo, i soci fondatori iniziarono ad accogliere gli adriesi simpatizzanti della fotografia, che dovevano essere parecchi se alla prima collettiva, alla Sala Cordella, le opere esposte risultarono ben 107. Era Mazzetto che mieteva premi in Italia ed all’estero con foto (da lui


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Foto di Andrea Fantinati - NOTTE A VENEZIA

stampate) rigorosamente in bianco e nero. Attualmente qual è l’attività dell’associazione? Si fanno solo concorsi e mostre? No di certo. Il foto club presta attenzione anche al territorio. Il 1976 lo vede impegnato nel 25° della grande alluvione. L’anno successivo nella mostra fotografica “Adria di un tempo”. Per i giovani vengono indetti quattro concorsi per avvicinarli all’arte fotografica. L’utilizzo delle diapositive permetterà poi una più incisiva divulgazione dell’immagine

fotografica, con proiezioni pubbliche di forte impatto e la realizzazione di servizi fotografici didattici riservati alle scuole. Il Foto Club opera solo a livello locale? Dalla costituzione il Foto Club ha aderito alla F.I.A.F., Federazione Italiana Associazioni Fotografiche. Grazie ad essa si sono potuti realizzare ad Adria corsi ed incontri di fotografia con esperti di livello nazionale. L’Amministrazione comunale ha poi ospitato la mostra F.I.A.F. “ Il Ritratto - dal Dagherrotipo al Digitale” 83

(2001), costituita da 150 immagini, con diversi originali della seconda metà dell’800. Molti dei fotografi di fama nazionale ed internazionale, che sono stati ospitati alla Sala Cordella, sono autori F.I.A.F. Di questi ricordiamo Mario Lasalandra (Este), Lino Ghidoni (Vigarano MainardaFE), Roberto Rossi (Bibbiena - AR), Vanni Calanca (Mirandola-MO), Remo Dolci (Bergamo), Fabio Cammi (Piacenza), Luciano Bitelli (CentoFE), Claudio Calvani (San MiniatoPI), Mario Cattaneo (Milano), Dario Ciampini (Firenze), Andrea Zaccarelli (Venezia), Nando Casellati (Padova),


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Foto di Ildo Mauro Biolcati - AIRONI

Foto di Sante Crepaldi

Foto di Giancarlo Avanzo

Foto di Germano Benizzi

Foto di Andrea Fantinati - FENICOTTERI

Giulio Veggi (Vercelli), Lella Beretta (Vercelli), Giorgio Rigon (PordenoneUD), Cristina Garzone (Firenze). Nel 2000 la F.I.A.F. ha conferito al F.C. Adria l’onorificenza B.F.I. (Benemerito della Fotografia Italiana) per l’attività svolta. Due soci, Giancarlo Avanzo e Bruno Grotto, grazie alle numerose affermazioni in campo internazionale e nazionale possono fregiarsi del riconoscimento A.F.I.(Artista Fotografo Italiano) mentre Antonio Gnan sia dell’A.F.I. che dell’ A.F.I.A.P. (Artiste de la Federation International de l’Art photographique).

Esistono momenti di scambio con altri circoli fotografici? Il Foto Club Adria, oltre all’interscambio culturale con altri foto club, partecipa con successo al concorso interprovinciale “Giro Foto File” , che vede protagonisti circoli fotografici delle Province di Padova, Rovigo, Ferrara, Modena, Bologna. Proprio quest’anno con il club “Chiaro Scuro” di Piove di Sacco abbiamo realizzato una proiezione di audiovisivi alla Sala Europa di Taglio di Po. C’è

un

rapporto 84

Foto di Giancarlo Avanzo

stretto

e

proficuo con l’Amministrazione Comunale e con altre istituzioni del territorio? Con l’Amministrazione Comunale di Adria vi è sempre stata un’attiva collaborazione, dal gemellaggio con Rovigno (1981) alla documentazione delle attività teatrali di questi anni. Ricordo il coinvolgimento del Club nella ricorrenza del 70° della Croce Verde (1981), nel 100° della Corale Adriese (1984) e in manifestazioni di tante altra associazioni locali tra cui la Pro Loco, il C.A.I., il Coro Soldanella e più recentemente Adria Shopping. Da ultimo la realizzazione della


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Foto di Giancarlo Avanzo

Foto di Matteo Barbon - FILIPPO

Foto di Giancarlo Avanzo

Foto di Toni Gnan

Foto di Giancarlo Avanzo

mostra “Gocce d’ambra” con foto scattate nel nostro Museo nazionale e la proiezione “Adria, come eravamo” nel 150° dell’Unità d’Italia. Con l’Ente Parco Regione Veneto Delta del Po abbiamo realizzato “Raduno fotografico nel Delta”, giunto alla terza edizione, a cui hanno aderito fotografi provenienti dalle province di Milano, Brescia, Verona, Bolzano, Venezia, Padova, Ferrara, Firenze. Ed oggi quali sono i propositi dell’associazione, quali sono le principali attività che svolgete?

A 45 anni dalla costituzione, il Club continua a promuovere la fotografia (nel dettato dell’art.1 dell’atto costitutivo) con corsi, incontri, manifestazioni che constatiamo coinvolgono un pubblico sempre maggiore. Grazie al digitale sono ora possibili manifestazioni come “Ritratto in piazza” con set fotografici professionali. Al Foto Club Adria, però, si può utilizzare ancora la camera oscura per le stampe in bianco e nero e ciò non per nostalgia del passato ma come base di conoscenza della luce nella fotografia. Detto ciò va ribadito che sono i Soci i primi 85

destinatari delle attività del Club. La loro crescita fotografica è il primo degli obiettivi da perseguire. I nostri soci provengono, oltre che da Adria, da un’area che abbraccia il Basso Polesine, Rovigo e Chioggia ed hanno una precisa richiesta: affinare le proprie attitudini fotografiche. La sfida è proprio qui.

Le foto in queste pagine sono scelte dal Foto Club Adria tra le migliori prodotte in questi anni


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Uno sguardo su Laura di Serena Turri

Babilonia, 2010 (acquerello 50x40 cm)

Improvviso, 2010 (acrilico 80x90 cm)

Architteture poetiche, 2010 (acquerello 50x50 cm)

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orrei parlare di Laura Gioso (il cui lavoro può essere visto anche tramite il sito: http://www. lauragioso.com/lang/it/) provando a presentare il suo lavoro da una posizione in parte privilegiata: quella di chi può contare su elementi di conoscenza acquisiti attraverso un’amicizia e una frequentazione pluriennale. Alla descrizione operata nei termini indicati affiancherò estrapolazioni da presentazioni declinate da insegnanti di liceo, di Accademia, di storici e critici d’arte che l’hanno conosciuta talvolta come studentessa talaltra come artista; una breve sintesi biografica; un elenco di luoghi in cui sono conservate le sue opere. Conosco Laura come persona versatile ed eclettica che si esprime con immediatezza ed efficacia in molteplici campi, partecipi di una stessa condizione: l’indiscussa sua capacità di operare sul piano materiale. La sua energia creativa si concretizza nella pittura, nella fotografia, nella scultura; le piace anche cimentarsi in cucina e in sartoria conseguendo risultati gradevoli. È in questi ambiti che Laura libera le proprie emozioni, rispondendo al bisogno di sentirsi in uno stato di benessere e armonia. È attraverso l’arte nelle diverse declinazioni che stabilisce legami con gli altri e apprende. Il bisogno di conoscere la personale vera identità, unito al desiderio di avere una visione della natura umana, la rendono una viaggiatrice instancabile, affamata 86

di vita. In una recente conversazione mi ha confidato che fin da piccola aveva chiaro il suo percorso di vita, avendo già focalizzato la propria inclinazione. Da sempre, dunque, l’azione a livello materiale è stata improntata alla sua vocazione: dipingere. E alla pittura ha affidato e affida la sua reputazione, potendo attingere a potenti energie nascoste. Sollecitazioni inconsce la rendono donna ad un tempo battagliera, introversa, sensibile. Si dice legata alla sua terra d’origine, che definisce «terra senza storia né antenati ingombranti». Per meglio chiarire il concetto indica Firenze, la città per antonomasia, in cui lo sguardo e il movimento sono orientati, vincolati a priori da palazzi, da edifici e architetture. Si sente figlia di un territorio in continuo movimento, sgombro da impedimenti fisici o architettonici ostacolanti lo sguardo e conseguentemente l’espressione. Da qui le deriva la propensione a guardare oltre, superando ogni forma di limitazione, dando voce e soddisfazione al suo spirito nomade e all’inclinazione per l’astrattismo che attraverso forme, linee e colori permette di magnificare la sfera individuale degli affetti e delle emozioni. Predilige l’acquarello probabilmente per la rapidità della tecnica, che è tutt’ altro che semplice giacché abbisogna di una modalità esecutiva assai raffinata, dato che gli errori di esecuzione non possono essere corretti. Ma ottiene opere seducenti


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Il mio amato Polesine, 2009 (acrilico 60x60 cm)

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quanto coinvolgenti anche con altre tecniche. Dice di aver tralasciato di coltivare la scultura per i gravosi tempi e i costi collegati alla fase della cottura. In quest’ arte si è cimentata fin da piccola quando, modellando a mano un impasto di argilla, riproduceva gli animaletti che popolavano il suo spazio, imitando lo scultore Virgilio Milani che, di ritorno da scuola, si fermava ad osservare mentre egli lavorava. Nella sala di casa sua è visibile, per la delizia degli amici, raccolti in occasione di gustose cene che frequentemente organizza provando diletto nello stare in compagnia, uno dei numerosi busti modellati con le sue mani. Con la crescita e l’autonomia dei figli, sollevata dagli impegni familiari, Laura ha potuto rispondere a un suo bisogno, incominciando a viaggiare, nutrendo la sua curiosità nei confronti del territorio, degli spazi, dei paesaggi, dei colori, della luce e proponendosi come interprete di un rapporto dialettico con la natura. Ha documentato una varietà di ambienti cogliendone e catturandone il fascino tramite tecnica fotografica tradizionale e/o digitale. Sta maturando il proposito di rendere pubblico, attraverso mostre e/o cataloghi, il risultato dei suoi clic. Attendiamo.

Le stelle, 2008 (acrilico 100x100 cm)

Biografia Laura Gioso, Rosalinda per l’anagrafe (Rovigo 26 febbraio 1956), ha studiato presso il liceo artistico di Padova e conseguito la laurea all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Ha seguito corsi di fotografia e di cinema che ha scelto come arte o tecnica per la sua tesi di laurea. Conservano le sue opere - il Museo Ca’ Pesaro di Venezia - il Museo d’Arte Moderna di Nizza - la Fondazione G. Agnelli di Torino - lo Young Museum Revere (Mantova) - l'Accademia dei Concordi di Rovigo

Il bagatto, 2007 (acrilico 100x100 cm)

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Polesine, 2008 (acquerello 45x45 cm)


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Hanno scritto di lei Finzi 1981 Laura Gioso, giovanissima pittrice alla sua prima presentazione pubblica, ha tutta l’ansia, l’attesa, l’emozione che compete sia all’età che all’evento. Ella sa quanto sia lungo e difficile il percorso, irto e a volte di esili promesse ma, soprattutto, costellato di problemi estetici, essenziali che conducono a depressioni e a delusioni. E saranno comunque e soltanto questi stati a cementare la sola condizione che è quella morale, quella vera dell’esigenza interiore. […] Dotata di sicura istintualità, sa scavare con forza la ragione segreta di un segno, di un colore, la pregnanza evocativa di un timbro. Lacera lo spazio con incursioni cromatiche violente: dai vermigli grondanti ai blu intensi, fondi, per poi placare in sonorità estenuante, in biancori ambigui. Da uno scandaglio simbolista - Redon - il suo percorso aggancia il trauma psicologico di bacon, visto però per tramite e non per coinvolgimento strettamente linguistico, per sciogliersi, successivamente nell’aria liberatoria di un espressionismo astratto, dialettizzante tra forma e contenuto. Il travaso è sapiente, liricamente intenso, morfologicamente corretto.

Venturoli 1987 [...] Ciò che è certo è la sua vitalità, che strappa il colore il suo segno, la capacità a far subito grande e centrato il quadro di cavalletto, la ricchezza delle notazioni che entrano nello spazio delle tele per accumulo e si bloccano a tempo, per evitare l’asfissia.[...] Laura Gioso opera con uno slancio verso l’immagine da conquistare che, se non è certezza di una cattura, è senza dubbio una bella fiducia; non sa mai fino in fondo che cosa deve dire, ma, sempre e subito, che cosa non vuol dire. [...] Insomma l’artista è giovane, ma non direi che sia immatura; si cerca, ma non direi proprio che non abbia già trovato la via giusta del canto, la presa più appassionata e convincente con l’immagine dell’anima sua.

Bartolatto 1989 […] L’operazione di Laura Gioso sulla materia organica quale oscura volontà di primordio è il suo modo inconscio di porsi incominciando tutto da capo. Come se volesse dare immagine, per determinazione calma e disperata, ai misteriosi percorsi del processo attraverso i quali l’opera si forma. […] Il modo con cui dipinge, la tecnica pittorica, l’invenzione formale soggiaciono al colore, materia destinata ad esprimere liricamente certe doti della vita intellettuale. Il colore quindi fonte di problemi e soggetto di esperienza più che espressione del piacere, del diletto, dell’appagamento. Lusinga o ebbrezza sono una conseguenza non determinata perché per l’artista il colore ha un destino: è indirizzato a un’azione psichica derivata da una ispirazione superiore. […] La tecnica ora si attarda a definire liricamente la tensione tra il movimento e lo spazio, ora è rapida e diretta per determinare il senso e la portata dell’azione. Il risultato non è una pittura in superficie; pur senza modellazione ci sono prospettive in profondità ottenute con velature o con attacchi improvvisi del gesto quando è latore di emozioni. Fonti dell’immaginazione sono la musica (non casualmente in famiglia i giovani figli sono votati al violino e al clarinetto) e la natura che viene osservata attraverso una visione astratta corrispondente a suoni della terra, dell’acqua, mare e fiumi, e alla luce del sole attraverso foschie, albe, tramonti e nebbie della grande pianura nella quale la Gioso vive. [...]

Vlado Busancic 1996 La nostra amica Laura si presenta nella Galleria ZILIK con una trentina d’opere dai nomi molto interessanti e misteriosi – quali riflessi della sua valente, singolare pittoricità…Voglio farvele conoscere, queste opere, prima di tutto per la loro criptogrammia poetica, essendo essa l’essenza dei suoi quadri. […] Si tratta, senz’eccezione di una sincera pittura da conoscitore, dalle romantiche complessità narrative. Si, Laura Gioso è un’istruita artista accademica, importante e confermata, ispirata da Dio. […] È nata nel Veneto, dove ha vissuto, è cresciuta ed ha studiato, dove ha passato molte tempeste d’enfasi, stupori e passioni della vita incarnita però […] nel Veneto e nel suo Polesine … Tutte queste cause, ereditate o acquisite, più o meno insieme, hanno dato l’impulso alle sue irrequietudini espressive, hanno infiammato il suo volere artistico, costruendo la sua concezione del mondo (Weltanschauung). Questo suo vedere, il mondo, le cose è una parte importantissima della sua sensibilità, delle sue decisioni. Perciò, per lei è difficilissimo “dividere” i suoi ideali “d’ogni giorno” da quelli creativi, spirituali pittorici ed artistici. Con le sue esperienze non facili ed essendo sempre in cerca di Laura è riuscita a svelare, direi a donare, a se stessa i suoi programmi pittorici, più che cambiare al meglio “lo stato delle cose” nella sua realtà culturale e sociale. Per fortuna, questa “dissonanza” e uno dei privilegi degli artisti e dei fantasiosi di tutti i tipi.[...] Nella sua polarizzazione vitale e creativa, Laura si presenta a Karlovac con una splendida pittura di sublime liricità, cioè un’autentica poesis. [...]

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Libertà come arte Attilio Penzo a villa Papadopoli di Gabbris Ferrari foto di Danilo Sartoni

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'atelier di Villa Papadopoli apre alle 5 del mattino, anche per il pubblico, per coloro che vogliono dare un’occhiata all’opera di Attilio Penzo. Poi succede che quasi senza rendersene conto, come è capitato al sottoscritto, il visitatore si fa coinvolgere prima di tutto fisicamente, dal momento che ci vogliono attenzione e cautele infinite per muoversi dentro quello strano universo, ma è sul versante emotivo che ti senti davvero colto di sorpresa e la “creatura” che abita quella casa ti emoziona e ti affascina. In verità sarebbe più giusto dire che la villa quegli orari non li rispetta più. L’inquilino precario, il pittore Attilio Penzo, in un pomeriggio di fine estate, pensa bene di chiudere il portone per l’ultima volta. L’artista che per molti anni ha lavorato in quell’edificio disabitato e un po’ malinconico trasformandolo in un luogo unico, si arrende alle spinte che gli arrivano da più parti e si convince, finalmente, che lui in quella casa non ci può più stare. Deve abbandonarla al più presto ma non prima di aver dato una “ripulita in giro” e smantellato gran parte di quello che contiene. “E tutto il lavoro fatto?” - chiedo io in un giorno di luglio - “Via anche quello”, dice Attilio, “del resto ogni cosa che nasce deve finire e le opere d’arte non fanno eccezione, specialmente opere effimere come questa, creata giorno per 90


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giorno, in uno spazio improprio e destinata a deteriorarsi e a sparire per sempre. In ogni caso,ormai, è solo una questione di tempo, se c’è qualcuno che vuol portarsi a casa alcuni lavori non ha che da chiederlo. E poi, diciamo la verità, ci sono troppi rischi con questa quantità di materiale infiammabile, senza contare le interferenze o le giuste perplessità dei proprietari della villa”. In effetti i proprietari, senza alcun dubbio molto ospitali e generosi con Attilio, forse si aspettavano ben altro da questo artista quando decisero di affidare l’edificio al suo estro. Chissà: bei dipinti, paesaggi, nature morte, ritratti realistici e somiglianti. Avevano conosciuto l’artista quando ancora praticava un realismo oggettivo, classicheggiante. In fondo si trattava dello stesso pittore che aveva dipinto quella bella Deposizione di Cristo per la “Madonna della Navicella”, una chiesetta nei pressi di Chioggia. Adesso era tutto così lontano da quell’opera e ciò che si vedeva in quelle visite saltuarie, era il lento procedere di una cosa che con metodica regolarità si insinuava dovunque negli spazi della villa e cresceva a dismisura. Ogni giorno si arricchiva di una quantità di oggetti, di disegni, di scritture e di mille altre cose. Difficile da comprendere un cambiamento così macroscopico. In verità si trattava di un tracciato poetico orientato in tutte le direzioni dello spazio disponibile, ottenuto con i materiali più diversi, nobilitati e resi organici all’insieme dagli interventi diretti dello stesso artista. Certo un lavoro grande e faticoso che alla dolcezza e alla grazia, talvolta ingenua, di momenti privati alternava, con mezzi molto poveri, contenuti civili di forte impatto critico. Del resto, bastava una semplice occhiata in giro, uno sguardo a certi dettagli come, ad esempio, quella stanza lette-

ralmente stipata di barchette di carta dalle quali affiorava, se viste dalla giusta angolazione piccole bandiere Italiane, per intuire quale fosse la strada intrapresa da Attilio, il senso della sua ricerca e si comprendeva facilmente che, arrivato a quel punto, sarebbe stato molto improbabile il suo ritorno verso approdi più tranquilli, convenzionali. A rendere ancor più difficile la permanenza dell’artista in quella casa si era aggiunto, da qualche tempo, il disagio per alcune visite non particolarmente gradevoli dei tutori dell’ordine le quali, anche se rare, lasciavano l’artista in preda ad una forte inquietudine. Non è facile spiegare a persone inclini, per mestiere, alla evidenza dei fatti e alla concreta osservazione della realtà che quanto si poteva vedere intorno non era affatto una “discarica” o la raccolta indifferenziata degli oggetti più impensati. Ciò che si vedeva era semplicemente una grande, complessa installazione, un complicato, intelligente accumulo di “materiali” assemblati. In sostanza quel tortuoso labirinto che occupava gli spazi del vetusto maniero dei Papadopoli, altro non era che un’opera d’arte, almeno nelle intenzioni di chi l’aveva concepita e inoltre, la domanda più imbarazzante era: “ma si vende questa roba?” La risposta Non poteva essere che una e cioè che l’opera non era pensata per la vendita, né intera né a pezzi e infine che quel particolare tipo di artista, cioè lui, Attilio Penzo, non aveva il minimo interesse per il mercato dell’arte o per il denaro in generale visto che, di abitudine, vive con un litro di latte al giorno e “na ciopa de pan”. Anche solo il sospetto di essere coinvolto in qualche avvenimento mondano lo fa scappare a gambe levate. Infatti Penzo rinuncia da tempo a qualsiasi proposta di mostra personale ed evita di partecipare 91

a rassegne, anche importanti. Chi scrive ricorda la fatica e le strategie messe in atto per convincere Penzo a partecipare nel 2009 ad una mostra di alcuni artisti veneti, dal titolo “Gravità” allestita nelle sale dell’Accademia dei Concordi di Rovigo. In quella occasione solo il pressante accerchiamento e la pazienza dei suoi amici ebbero la meglio e Penzo, se pure con riluttanza, allestì in quella occasione una propria sala improvvisando, a suo modo, un’opera molto intensa della quale rimane testimonianza nel catalogo della mostra. In sostanza, i motivi determinanti che indussero l’artista a chiudere l’esperienza “Papadopoli” e smantellare (fino ad oggi solo parzialmente) quella straordinaria installazione furono dunque, da un lato, alcune serie preoccupazioni dei proprietari; dall’altro, le spinte di estimatori e di amici in apprensione per i possibili incidenti: “… non ci sta più nulla qui dentro…, gli spazi sono saturi…, è pericoloso, almeno togli la carta…, e adesso da che parte ti muovi?... Come pensi di procedere?” Queste le obbiezioni più frequenti, purtroppo oggettive e chiunque, mosso dalla curiosità o dalla passione per le “bizzarrie” dell’arte contemporanea, abbia avuto contatti con quell’opera non potrà che trovarsi d’accordo con quei saggi suggerimenti condivisi, del resto, anche se un po’ a malincuore, dallo stesso artista. E così la straordinaria esperienza creativa di Attilio Penzo nella settecentesca villa padronale di “Papadopoli” che sembra andare a braccetto con il piccolo Oratorio di San Faustino, si conclude d’incanto, con dolcezza, come era cominciata otto anni prima. Al principio la coraggiosa avventura ebbe inizio come un’esigenza dell’artista di sperimentare nuovi linguaggi e nuovi materiali, al-


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lontanarsi da una pittura convenzionale e trovare un mondo espressivo nuovo e più autentico. Alcune coincidenze furono determinanti per accelerare la metamorfosi, in particolare una fortuita serie di incontri ai quali Attilio attribuisce un valore di fatale trascendenza: “Cosa ho a che fare io con i motori e le corse? Niente!” puntualizza: “eppure chi mi ha veramente dato l’opportunità di creare la mia opera in villa, sostenendomi in vari modi e, lasciandomi tranquillo tutti questi anni è stato Giuliano Altoè, il patron di un autodromo, ...sì, dove corrono le macchine, a poca distanza dalla stessa villa Papadopoli, gli sarò riconoscente per tutta la vita. Un’altra coincidenza “fatale”, dice Attilio, “fu l’incontro con Gianpaolo Berto il quale mi insegnò che un artista può esprimersi con qualsiasi mezzo e allargare il campo della propria azione creativa anche riutilizzando le cose più umili, più banali, raccolte per strada. Berto è innamorato dei Ready made di Duchamp e ha ragione. E poi sono riconoscente a Dario Ballarin per l’amicizia che mi dimostra e per la paziente discrezione con la quale segue da sempre il mio lavoro e mi dà buoni consigli. C’è un altro incontro che considero “speciale” prosegue: “quello con il pittore Giorgio Mazzon, lui ha fatto vedere il mio atelier aperto a parecchia gente, con lui ho conosciuto persone libere e intelligenti, come Danilo Sartoni, ad esempio: il fotografo ravennate. Danilo ama quello che faccio e per anni ha fotografato con pazienza il mio lavoro a Papadopoli seguendone passo passo gli sviluppi. Le sue foto sono ciò che resterà di quell’opera effimera. In quelle immagini si leggono dettagli che ho curato moltissimo ma che sfuggono facilmente allo sguardo. Nelle foto di Sartoni si percepisce anche la durezza di 92

quell’ambiente che in taluni momenti sentivo pauroso e ostile e dal quale avrei voluto fuggire mille volte. Era la volontà a trattenermi, il timore di deludere coloro che mi davano aiuto e avevano creduto in me”. Attilio nel suo lavoro d’artista, così come nella vita, applica metodi rigorosi e una disciplina quasi monastica, atteggiamento che mantiene anche verso il mondo che lo circonda. È vero che la sua opera nasce con una componente ludica, ma solo fino a quando si tratta di raccogliere i materiali che servono, cercandoli nei luoghi più disparati. Nel momento in cui materiali si assemblano per trovare una loro funzione espressiva ecco che l’insieme si carica di un serio ragionamento, di un forte e dolente impegno civile, di una pulsante attualità. “Il mio lavoro” dice spesso Attilio Penzo, “nasce da un profondo disagio, dal malessere che mi dà l’ipocrisia e la disonestà”. Il disagio, ci permettiamo di aggiungere che egli prova verso un modello di società che in gran parte non condivide e con il quale non intende scendere a compromessi. In verità un po’ sorprende associare la figura di questo artista, incline alla meditazione e alla invidiabile pratica del silenzio, con l’impegno che si riscontra in certe sue intelligenti metafore “politiche” o con le feroci allusioni che riesce a inventare rispetto ai vizi più diffusi della contemporaneità. Eppure Attilio rifugge da ogni banale indignazione di facciata, e non è mai un noioso moralista. La sua opera è sempre leggera e intrisa di libertà. Ciò lo si ricava anche dall’uso che egli fa, nella sua opera, di certi interventi scritti i quali assumono quasi sempre il ruolo di misteriosi codici Segreti. Questo delle scritture inserite nel multiplo è forse uno degli aspetti più interessanti dell’insieme, siano essi gli scritti che


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l’artista porta dall’esterno: vecchi manifesti, libri consunti, cartoline, lettere di chissà chi, immaginette, giornali, riviste di ogni genere, scelte con cura, cose selezionate, oppure, siano invece, quelli vergati dallo stesso artista: intere cartelle rigonfie di fogli consunti, lunghe scritture manuali sigillate in rotoli, talvolta annotazioni rapide su carte già usate e inserite perfettamente al loro posto. Inserimento sempre giusto, del resto. Fa pensare ai surrealisti e alla costante pertinenza della “scrittura automatica”. Spesso gli amici di Attilio, in particolare, quelli che condividono più di altri il suo mondo poetico, vogliono partecipare più da vicino e collaborano, di tanto in tanto, con lunghe discussioni e qualche oggetto che, a loro giudizio, potrebbe essere utilizzato e inserito nel lavoro di Attilio. Anche questo è un modo efficace di partecipare al divenire dell’opera e stabilire un contatto più profondo con la filosofia di questo eccentrico artista. Anche i bambini andavano a trovarlo alla villa, sempre accolti con molta serietà e dolcezza. “Quell’uomo così magro, con i capelli bianchi e la lunga barba, assomiglia ad uno di quei santi che si vedono nei quadri dorati del medioevo”, così diceva una ragazza ad un suo amichetto un po’ intimidito. Ho visto io stesso alcuni bambini arrivare con dei vecchi giocattoli, lasciarli nelle mani di Attilio e nei giorni successivi tornare fino a quando il loro oggetto non avesse trovato la giusta collocazione nell’organismo composito della grande accumulazione. Credo non sia mai accaduto che un bambino se ne andasse deluso. Tutto bene, a patto però che ogni cosa avvenisse nelle ore canoniche, a cominciare dal primo mattino. Più o meno questa era la giornata di Attilio con qualunque tempo, così come potrebbe essere quella di 93

un anziano prete di campagna quando apre la sua chiesa e inizia il rituale quotidiano. Un’ora se ne va con la preparazione del the: rito che si svolge scrupolosamente dal momento che, come dice Attilio: “il trattamento delle erbe richiede il tempo che ci vuole perché il te sia buono”. Poi, un po’ di ascolto di radio Maria, l’apparecchio è sintonizzato per tutto il giorno su quel canale. C’è la musica, da un’altra parte: sceltissima, e quindi si può ricominciare il lavoro che riprende esattamente dal punto in cui si è interrotto il giorno prima. Alle tre del pomeriggio chiusura. Attilio alle cinque va a dormire, a meno che non vi sia qualche ospite o degli amici che chiedono all’ultimo momento di dare un’occhiata o semplicemente visitare la villa, in ogni caso non c’è differenza fra le due richieste. Come si è detto, Attilio, di recente ha lasciato la casa con tutto il suo contenuto, certe cose le ha tenute con sè, per conservarle o regalarle agli amici, tra queste alcune di deliziose che risalgono agli inizi del suo viaggio, ai primi momenti che documentano le riflessioni profonde, intuizioni che si concentrano sul semplice gesto del raccogliere: l’azione primaria, elementare e antichissima che si oppone, anche idealmente, a quella del gettare via. Ora Attilio vive a Chioggia la sua città, qualche stanza a mezza scala, niente battenti alle porte, praticamente nessun mobile, sopra un piccolo tavolo la bottiglia del latte e il pane in un sacchetto di carta. Le stanze si stanno animando lentamente, sono già ingombre di oggetti appesi al soffitto, disegni, cornici, fogli scritti e fra essi il poster di quella deposizione dipinta molti anni addietro. In un angolo ci sta una rete da letto ripiegata. Attilio mi dice: “l’apro all’imbrunire e alla mattina dopo la richiudo".


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Insegnante, allenatore, educatore Questo è stato Franco Monti, il professore coi baffi di Sergio Sottovia Il cartellino Figc di Franco Monti, giovane giocatore della Spes Necchi Adria

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Bruno Piva e tutto il suo staff. Una storia, un esempio, un prototipo, una incompiuta, quella di Franco Monti, che perciò vale la pena di far uscire ‘in toto’ dalle pagine del mio Polesine Gol, perché magari possano essere completati quei progetti che il ‘professore coi baffi’, negli albori del Terzo Millennio, aveva già abbozzato e avviato. Quante volte ci siamo incontrati con Franco Monti, ad Adria, suo habitat naturale. Come giocatore e come allenatore, Monti (classe 1944) ha viaggiato nel Parco del Delta, con sole due escursioni esterne, per le confidenze calcistiche. E’ stato sul finire della stagione 98/99 che mi ha cantato la ‘canzone-storia’. Mi ha raccontato il suo calcio, un venerdì, alla sede dell’Adriese, dopo una telefonata col segretario granata Carlo Bonafé. C’era anche la signora Alda Maria Schiavi, moglie del presidente Graziano Símoni a fare gli onori di casa per la riunione organizzativa di un torneo giovanile. Per questo c’erano Bertucci della Tagliolese, Piero Cavallari ds dell’Arianese, Ignazio Sattin presidente del San Martino, Dino Gotti responsabile giovanili del Cavarzere col presidente Domenico Salvagnin. Franco Monti era ‘naturalmente’ tranquillo. Siamo a cinque giornate dal termine. L’Adriese in CND è la reginetta delle polesane, dopo che in settimana, con la vittoria in esterno per 1 a 0 ha inguaiato il Monselice dell’ex granata Massimo Albiero. Brutti pensieri invece per le altre due, il Rovigo e il Porto Viro alla vigilia di un derby da brivido retrocessione. Allora la classifica consentiva a Franco tranquillità serafica. La sua Adriese, con la miglior difesa del campionato, a quota 43 e playoff a portata di mano,

ranco Monti e la sua ‘meglio gioventù’, tra Loreo, Carpano, Tagliolese, Papozze, Adriese, Porto Viro, Scardovari”. Questo avevo scritto, titolando l’incipit della Franco Monti Story nel mio primo libro della trilogia Polesine Gol. Un Personaggio che peraltro aveva vissuto il suo ‘mondo’ mixando Sport & Vita, visti gli anni vissuti da Insegnante Isef e da vice-preside all’Istituto Alberghiero di Adria e da “Campione & Signore” per tante estati dentro e intorno la piscina e il Centro Sportivo di Albarella. Lo conoscevo bene, si dice spesso. Ma devo dire che l’ho conosciuto ‘meglio’ dopo i diversi incontri/approfondimenti per la citata sua Monti Story. E perché Franco si raccontava sempre più sulle motivazioni del suo ‘fare nel passato’ e sia perché Franco voleva ‘ancora fare nel futuro’. E perché del suo ‘essere’ me ne parlavano in tanti, specie quelli che lo agganciavano per averlo ‘vicino e amico’ come attore principale dei loro progetti. Da Adria a Scardovari, da Albarella a Rovigo, puntando sulla sua progettualità, sulla sua capacità organizzativa, puntando sulla formazione di tutto il team. Per questo, quel giorno ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, a piangere Franco Monti nella Cattedrale di Adria, erano davvero in tanti a salutarlo e abbracciare la sua famiglia. Tantissimi adriesi, ma tanti ‘suoi ragazzi’ di Scuola e di Sport, e giocatori e dirigenti di società. E che struggente quella sciarpa sulla bara! La sciarpa dello Scardovari che oltre ad essere stata la sua ultima squadra allenata era stata anche la sua ‘seconda casa’. Senza contare tutta la “Giunta del Coni - Rovigo” col presidente 94


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Isola di Albarella, intitolazione della piscina de "I Fiordi" a Franco Monti alla presenza della famiglia e di Emma Marcegaglia

Isola di Albarella, uno dei figli di Franco Monti di fronte alla targa di intitolazione

gli ha dato quanto richiesto. Da allora la sua storia calcistica si è integrata con le panchine vissute a Porto Viro e Scardovari, per un calcio che è sempre lo stesso ma che è sempre diverso. Come le domande dirette di allora e i ragionamenti di adesso. E l’allenatore, deve adattarsi lui ai giocatori o sono i giocatori a doversi adattare all’allenatore? Più che attuali le risposte di allora, partendo dal suo ‘primo’ Scardovari: “Deve essere l’allenatore a portare il gruppo, ad adattarsi. Là c’erano i due Maistrello, Trombin e Pavanati, giocatori eclettici, tecnicamente di qualità e primattori”. Diremmo noi: cavalli da briglia sciolta. Avesse imposto uno schematismo statico, Monti con loro avrebbe rotto. Invece ha tenuto conto dell’ambiente per portare poi il gruppo sulle sue idee. “A campionato finito - ricorda Monti - mi hanno detto che se li avessi voluti con me, dove fossi andato, loro sarebbero venuti”. Parte da lontano, la mentalità di Franco Monti, professore Isef. Classe 1944, Monti giovane ha giocato nella Spes Adria, per due anni nel Contarina dei tempi d’oro, poi al Loreo allenato da Costante Mantoan in Promozione, infine sempre in Promozione all’Adriese. Purtroppo per l’attaccante Monti c’è stato lo stop causato da un’infortunio. E così il calcio ha cominciato a scrivere il suo curriculum di allenatore. I suoi primi due anni sono stati al Carpano, poi alle giovanili di Adria, quindi ritorno al Carpano per salire di categoria, dalla Prima alla Promozione. E’ nel 75/76 che Franco Monti va fuori provincia, alla Berretti del Carpi, chiamato da Piovanelli che aveva allenato l’Adriese l’anno prima. Nel 77/78 e per due anni Monti è alla Tagliolese in Prima

Categoria. Quindi in Seconda a Papozze diversi anni, in un rapporto d’oro col presidente Cavallari, ma non vinse perché c’era una super Portotollese con Passarella e Baccaglini, poi ancora un super San Martino del presidente Sattin e di mister Rodighiero. Ricordo di aver visto gli allenamenti di Monti a Papozze, la sua cura alla preparazione atletica, le corse a traino di Gilioli e Carravieri con i copertoni. Poi Monti farà 3 anni in Serie D col Contarina del presidente Mario Bovolenta. Nel 90/91 Franco Monti é alle giovanili del Rovigo. Per 3 anni, c ‘é anche il figlio Fabio. Per Franco il tempo speso per le giovanili non è mai tempo sprecato, semmai per la sua natura di professore è tempo investito nell’insegnamento. Dopo Rovigo, va allo Scardovari in Promozione, poi l’allenatore-professore sposa le giovanili dell’Adriese. In punta di piedi, in sintonia col presidente Graziano Simoni, anche quando è chiamato a sostituire Albiero, per l’Adriese in CND, ritornando alle giovanili quando l’anno dopo il ds Longato chiama Toni Scabin. Nella stagione 98/99 Franco Monti accetta l’incarico da Simoni: “Senza voler stare in paradiso a dispetto dei santi - precisa Monti - disposto sempre a lasciare il campo se fosse servito per il bene dell’Adriese. A Natale avevamo pagato troppe assenze per infortunio ed eravamo in credito con la fortuna. La squadra valeva più di quello che aveva ottenuto. Ne era convinto anche presidente Simoni. Basti pensare che alla 17^ giornata avevamo 16 punti, adesso ne abbiamo 43.” Di chi il merito? Monti tesse l’elogio dei ragazzi, del feeling, della grande carica, della mentalità di squadra. 95


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Franco Monti (col pallone tra le mani) nel Loreo 1965

La squadra della Tagliolese nel campionato di Promozione 1977-78 con Monti allenatore (a dx)

Uno spogliatoio che ha fatto crescere la qualità di gioco dell’Adriese. Adesso Monti fa il 4-4-2 e l’Adriese è la miglior difesa del campionato. “Gioca più alta l’Adriese, sta più addosso agli avversari a metà campo e anche sulla trequarti, costringe gli altri all’errore. Siamo cresciuti, stiamo facendo solo errori dovuti, facciamo meno errori voluti. Applichiamo gli schemi con una certa metodicità disserta Monti - ma c’è spazio per la libertà, l’inventiva personale, che mai bisogna spegnere finché non va a scapito della funzionalità del gioco.” E poi: “All’inizio siamo partiti col 3 - 4 - 3, dovevamo assemblarci ancora al meglio. Fino ad un certo livello si può giocare con i piedi, poi occorre la testa. Ho atteso la crescita di Jannello e Androvandi, giocatori di categoria superiore ma che non avevano nelle gambe e nella testa il ritmo di un campionato giocato in continuità”. Per questo Monti negli allenamenti andava avanti provando e riprovando, prima con la difesa e i movimenti sincronizzati dalle bandierine, poi col centrocampo e col movimento degli ‘assieme’. Finché poi Fusconi e l’ex laziale Baroni hanno diretto con sicurezza la difesa, a partire dallo scontro col Meda all’andata. Ma in un calcio più studiato, bisognava stare al passo, variare anche il modulo. E Monti: “Tivelli e Coltro mi visionano gli avversari. Per questo, col Reggiolo che gioca a rombo, oltre alle contromisure abbiamo pressato col 4 - 3 - 3 il loro gioco alla fonte, sul loro playmaker davanti alla loro difesa, con Fabio”. Fabio é suo figlio, quello che il posto in squadra se lo è guadagnato senza regali. Bisognerebbe scrivere un trattato sulle problematiche dei rapporti tra allenatore padre e giocatore figlio. Con tanta meno psicologia e tanta

più realtà, Fabio Monti è partito dalla panchina, quando ha giocato all’inizio è stato per necessità. Quando è maturato, qualcuno dalla tribuna ha urlato al mister: “Metti dentro Fabio”. Così Fabio fu titolare, sapendo che papà Franco non faceva sconti. E nell’Adriese di Monti ci fu spazio anche per 5 ragazzi dell’80: Renesto, Florindo, Sattin, Pezzolato e Bresciani. Era un calcio che per Monti andava avanti: “L’organizzazione è migliore, anche nei Dilettanti. Sono migliorate le professionalità, quella del presidente, degli allenatori e dei giocatori, per cui occorre più attenzione psicologica, occorre più… adrenalina”. Andando a ritroso mister Monti ricordava Gigliati presidente patriarca della Carpano, poi Cavallari il generoso del Papozze, Maggi il semplice del Taglio di Po. Chiesi a Franco se …Monti poteva fare l’allenatore distante da casa? “Dopo il supercorso a Coverciano un procuratore mi propose di allenare in Sardegna, in Serie C. Però ho preferito la Carpano, a due passi da casa. Adesso ho più esperienza”, mentre con la sua bicicletta lasciava il Bettinazzi di Adria, verso casa. La stagione 1999/2000 è l’Adriese di Simoni-Monti-Vianello (ds ex Donada e Porto Viro). La tifoseria si aspettava qualcosa in più dei cugini del Rovigo dell’ex tandem granata Longato - Scabin. Purtroppo per l’Adriese, girone appenninico, fu partenza rallenty e per Franco ci fu l’amarezza dell’esonero: sulla panchina granata Graziano Simoni chiamò il carismatico Cina Pezzato (ex Spal e Padova). Poi Monti è stato al Porto Viro (subentrando ad Augusti) e da due stagioni al suo ‘secondo’ Scardovari, sempre in Promozione. “Sono sicuro di poter centrare i play off”, ha detto Franco. Se gli arrivano rinforzi 96


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Adria Calcio 2008: nasce la nuova società “Adria Calcio 2008”, da sx Levisaro, Frizzarin, Lodo, Monti, Sartori

Sala Cordella, Adria 2008: Campioni adriesi nel cerimoniale della presentazione del libro "POLESINE GOL 3"

a colmare le assenze per infortuni, lo Scardovari gestione storica Mario & Andrea Rosestolato può far contento Monti …e mare Adriatico. FRANCO MONTI STORY / IL SUO SOGNO GIOVANE É FOREVER. Sappiamo tutti che quella dello Scardovari 2007/08 dei ‘presidenti signori’ Mario & Andrea Rosestolato è stata poi per Franco Monti la sua ‘ultima stagione da mister in panchina’. Ma ciò che conta è, al di là dei risultati del campo, che il professor Monti era considerato un ‘maestro di vita’ oltre che in casa Adriese & Scardovari anche nel Polesine e dintorni. Purtroppo nel frattempo le insidie della vita hanno cominciato a minare la salute di Franco Monti, anche se la sua ‘passione per l’educazione attraverso lo sport’ non veniva affatto scalfita. Così l’ho visto catalizzatore della nascita del ‘settore giovanile unificato adriese’. Ne abbiamo parlato a lungo: era un piacere ragionare di sport e valori, fino ad assistere alla nascita della nuova società “Adria Calcio 2008” con relativa presentazione a giugno in municipio all’epoca del sindaco Antonio Lodo, e dei presidenti Olivo Frizzarin per l’Adriese e Valentino Sartori per la San Vigilio. Una fusione storica di cui Franco ‘professor’ Monti era il Responsabile Tecnico di un progetto di alto profilo, che purtroppo per lui e per la città di Adria rimase una incompiuta. Colpa di quella malattia che lascerà orfani innanzitutto la sua famiglia, ma che ci lascerà orfani tutti, noi del mondo sportivo, noi che abbiamo avuto il piacere della sua amicizia. Un personaggio, Franco Monti, che ha continuato a ‘pensare per gli altri’, per i giovani e per chi era stato sfortunato. Su questa linea è stato determinante anche nei miei confronti, quando mi ha sollecitato ad inserire la

‘storia’ di Gino Bertuzzi tra i personaggi del mio ‘allora prossimo’ terzo libro “Polesine Gol”. Ebbene insieme ce l’abbiamo fatta perché se sono stati determinanti gli approfondimenti storici adriesi (tra cui quelli con Piero Cavallari, Frigato, Rossi), ancor più significative sono state le ‘confidenze dell’amico Franco’, indispensabili per onorare la memoria di quel ‘Gran Portiere’ che è stato la saracinesca Gino Bertuzzi. Come è stata significativa la sua presenza nella Giunta del Coni del neo presidente Bruno Piva, in rappresentanza del Bassopolesine. Anche perché il professor Monti, prima ancora di essere un “Allenatore da prima squadra” era stato l’insegnante di educazione fisica (e non solo) per gli studenti dell’Istituto Alberghiero di cui era stato altresì vice-preside. Sarebbe stato il collante giusto Franco Monti, tra sport e scuola, per la sua capacità di relazionarsi col mondo sportivo e di sintonizzarsi con ‘la gente’, come quella che ha avuto modo di ‘istruire’ anche ad Albarella dove nel periodo estivo tra piscina e Centro Sportivo è stato per tanti anni insegnante di nuoto e fratello maggiore per tanti giovani turisti. Per tutto questo, quando Franco ci ha lasciato, non ci ha abbandonato del tutto, ma ci ha lasciato alcuni valori profondi, il rispetto delle regole e delle persone, ma soprattutto la voglia di meritarci un futuro migliore. Come ha sottolineato recentemente anche Emma Marcegaglia quando ha voluto esserci ad Albarella per ‘ricordare l’amico Franco’ con una targa apposta nella piscina del Centro Sportivo. Perché, alla fine della ruota della vita, per tutti noi Franco Monti resta un progetto da completare, oltre che un insegnante, un allenatore, un educatore. 97


SAPORI E SAPERI

Il cibo Elemento carico di significati psicologici, mistici, simbolici, rituali di Monica Stefani

B

asterebbe avere la pazienza di dedicarsi, nel corso di una giornata, allo zapping televisivo, per accorgersi di quanto sia lo spazio occupato da programmi che trattano di cibo: una vera abbuffata. Dire genericamente “programmi di cucina” mi parrebbe riduttivo poichè è evidente come l’elemento indispensabile per la nostra vita, il cibo appunto, venga declinato da prospettive molteplici: la scelta degli ingredienti sempre più orientata alla qualità ed alla tipicità dei prodotti; la cura dell’estetica del piatto che diviene elemento determinante a volte ancor più dell’effettivo carattere della pietanza; le tenzoni culinarie tra squadre di cuochi gallonati o tra semplici amanti dei fornelli; le disquisizioni dotte su che cosa vada o non vada fatto in cucina. Ma non basta, moltissimi sono i format, i reality, che si occupano dei problemi psicologici che al cibo si legano: anoressia, bulimia, obesità, o che propongono, come panacea all’eterno assillo del verdetto della bilancia, l’ultima dieta che arriva, ma guarda un po’, dall’America. Che il nostro tempo sia, per un verso o per un altro, ossessionato dal cibo? Vi è chi lo sostiene. Personalmente credo sia più sensato asserire che come da sempre è stato, il nostro nutrimento sia un “termometro” efficace per monitorare la società, un sensibile segnalatore dei suoi orientamenti, del benessere o dei disagi che in essa si manifestano o sono sopiti, e questo perché il cibo, che ce ne rendiamo conto o no, è elemento, come pochi altri carico di significati psicologici, mistici, simbolici, rituali. Basti pensare

al legame tra gli alimenti e aldilà che ci viene restituito intatto dai rituali funerari dell’antichità e che ancora in molte culture permane, o al dato incontrovertibile che segnala come in tutte le religioni, dalle più elementari alle più strutturate, sia presente il forte nesso tra divino e cibo umano. Il nostro vincolo sociale ed individuale con ciò che mangiamo arriva dunque da lontano, da una distanza siderale che spesso ci rende incapaci di riconoscere come parte integrante della nostra e delle altre culture quell’universo di suggestioni, scaramanzie, credenze, rituali, che strettamente sono connessi con le vivande. Quello che ha ossessionato da sempre l’uomo e che per sempre l’ossessionerà non è ciò di cui si ciba, ma la coscienza che nonostante il nutrimento che lo fa vivere egli è condannato all’inesorabile caducità che il tempo scandisce, alla mortalità. Un timore presente e atavico che ha alimentato il desiderio di individuare nel ciclo vitale della

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natura, che costantemente si rigenera e rinasce, la possibilità di perpetuare la vita allontanando la morte, annullando il tempo trascorso. Da qui inizia la trasfigurazione simbolica e rituale che accompagna il cibo che viene definito come legato “alla tradizione” e del quale oggi magari ancora ci nutriamo in determinati momenti dell’anno, senza tuttavia riconoscere i significati che cela, ormai sbiaditi dal tempo e da consuetudini sociali lontanissime dal legame concreto e pregnante che legava, nella civiltà agricola, l’uomo alla Madre Terra, alla Natura, al Cosmo e al loro ciclo scandito da solstizi ed equinozi. Immaginiamo invece, per un attimo, che il tempo che contiene l’esistenza non abbia l’andamento lineare che noi gli attribuiamo bensì circolare, un anello, un serpente che morde la propria coda e che così si rinnova e che nel suo andamento ha molteplici snodi di passaggio, di ri-creazione. Ecco la prima simbologia che diviene cibo:


REM

quel serpente si trasforma in esse, fugassa, brasadela… i dolci che si trovavano come protagonisti in tutti quei momenti dell’anno che indicavano un passaggio, una ri-generazione. Ma dove sta il capo di questo serpente? Dove la coda? Per noi certamente il primo di gennaio e il 31 dicembre, come codifica il nostro calendario civile, ma non è sempre stato così. L’anno agricolo ad esempio iniziava in prossimità del “giorno dei Morti” e i Defunti si commemoravano anche con un desinare ben preciso, che poteva tuttavia avere ovvie varianti familiari: fasoi in potacin, polenta infasolà o con le fave, costignole de maiale, suca al forno, o aggiunta nell’impasto del pane, pinsa de patate americane, fave dei morti. I legumi ed in particolare la fava sono da tempi antichissimi considerati legati al mondo dell’oltretomba, rifugio delle anime dei morti e tramite, grazie al loro fusto cavo, tra la vita visibile e quella nascosta sotto terra; prendendo la forma di piccoli dolci (le fave dei morti) simboleggiano anche i doni che i Defunti portano ai loro cari in questo giorno di ricongiungimento. Anche la zucca porta con sé questa simbologia, che varrebbe la pena di far conoscere ai nostri bambini che ormai la associano solo all’importata e commerciale notte di Halloween.

Poi il maiale, l’animale fonte inesauribile di sostentamento, simbolo di fertilità e di ricchezza; ecco quindi che quel desinare diviene propiziatorio e rituale: in quel giorno chi ci ha preceduto nel mistero della vita ultraterrena torna per ristabilire un contatto, per rinsaldare il legame, per favorire abbondanza e prosperità. Tutto il periodo che comprendeva il Natale, il Capodanno e l’Epifania, coincidente con il solstizio d’inverno, nelle nostre campagne era pregno di pratiche divinatorie e scaramantiche delle quali ovviamente il cibo era parte integrante, ma vorrei qui solo soffermarmi su quel dolce esclusivamente adriese che è la bissola e che si lega alla Befana; non dico Epifania poiché questo termine rimanda esclusivamente alla celebrazione cristiana della festa, dalla quale la vecchia brutta e misteriosa, che vola su di una scopa come una strega, è lontana anni luce, incarnando sicuramente una figura arcaica e pagana che sempre ha a che vedere con il passaggio di un ciclo ad un altro; infatti la si brucia per sancire la fine di ciò che è vecchio e passato e propiziare il nuovo. I Romani in questo particolare periodo dell’anno usavano scambiarsi doni beneauguranti ed ai bambini venivano regalati piccoli dolci che avevano forma umana… chissà se le

nostre bissole non siano un riverbero di questa pratica, certo il nome che appare quantomeno originale e oscuro rimanda ancora una volta a quel serpente, a quella “bissa”, che è sinonimo di perpetuo rinnovarsi. Febbraio è il mese purificatorio, che nella Roma antica seguiva i Saturnali, era questo il mese del passaggio tra l’anno vecchio e il nuovo, un periodo di rimescolamento e non a caso anche in quei giorni si onoravano i Defunti e le divinità protettrici della fecondità rurale alle quali si offrivano “frictilia”, dolci fritti nel grasso di maiale. Fra i tanti riti praticati vi erano i Lupercali durante i quali la pelle delle capre sacrificate veniva tagliata in strisce, con queste si colpivano le donne per assicurare loro la fertilità. I crostoli, che a Venezia si chiamano galani e quindi nastri, strisce, altro non sono che questo appunto, strisce di pasta dolce fritte nello strutto che noi oggi ritroviamo come dolce tipico del carnevale accanto, guarda caso, ai “favi” o “favette”. Il cibo può quindi avere il potere di scandire e sottolineare il tempo facendo riaffiorare usanze che ci appartengono più di quanto crediamo poiché fanno parte della nostra cultura remota; il cibo, quel determinato cibo, rende particolare il giorno in cui lo si consuma, lo caratterizza e diviene quindi parte essenziale del rito. A questo punto vorrei fosse la volpe filosofa del piccolo Principe ad avere l’ultima parola su questo argomento, perché come al solito le sue parole sono essenziali ed illuminanti: "Qu’est ce qu’un rite?" Dit le petit prince. "C’est aussi quelque chose de trop oublié" dit le renard "C’est ce qui fait qu’un jour est different des autres jours, une heure des autres heures". Antoine De Saint Exupery ,“Le Petit Prince”

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Strisce





I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO Natalino Balasso è nato a Porto Tolle nel 1960. è autore e attore di teatro, cinema, radio e televisione, ha debuttato in teatro nel 1991, in televisione a fine anni novanta, in cinema nel 2007 e ha scritto alcuni libri di successo. Micol Barbierato è nata e cresciuta ad Adria, la curiosità per le altre culture e il suo spirito libero la portano a frequentare l’Università di Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Padova, dove studia lo spagnolo e l’inglese. Dal 2001 Micol vive a Madrid per nove anni, durante i quali fa un po’ di tutto; nel 2010, in seguito alla dura crisi economica che colpisce il paese, lascia la Spagna e si trasferisce a Berlino dove lavora come traduttrice di videogiochi. Nel gennaio 2011 si trasferisce a Cork in Irlanda e attualmente lavora come traduttrice presso Apple Computers Inc. Edoardo Cacciatori è nato ad Adria nel 1993 e risiede a Porto Tolle. Frequenta il liceo "G. Galilei" di Adria e studia clarinetto al conservatorio "A. Buzzolla"; con il fratello e i cugini è la terza generazione a bordo della flotta della compagnia fondata dal nonno Marino. Andrea Fantinati è nato ad Adria nel 1978, architetto, si appassiona alla fotografia nel 1995, prima attraverso l’uso di una compatta digitale, successivamente aumentando l’interesse e la passione per l’immagine, approfondendo gli aspetti tecnici attraverso un corso di fotografia, proposto dal foto club di Adria. Attualmente collabora con alcune agenzie di organizzazione di eventi, attraverso la realizzazione di servizi e reportage, in Italia e all’estero. Per il Foto Club Adria svolge la mansione di Vice-Presidente, programmando e coordinando le varie attività. Per lui la fotografia è quello che Henri Cartier-Bresson ha espresso in una sua famosa frase: “Il tempo corre e fluisce e solo la nostra morte riesce ad afferrarlo. La fotografia è una mannaia che coglie nell’eternità l’istante che l’ha abbagliata”. Gabbris Ferrari è nato a Rovigo dove tuttora vive e lavora. Ha svolto i suoi studi presso l’Istituto d’Arte di Modena, successivamente e per breve tempo all’Accademia di Belle Arti di Bologna e quindi a Venezia. Per molti anni ha sviluppato un’intensa attività di pittore e successivamente scenografo e regista. Ha tenuto per molti anni la cattedra di scenografia, come docente presso le Accademie di Belle Arti di Urbino e Venezia, svolgendo un intenso lavoro didattico. Francesca Maria Forte ha studiato Conservazione dei Beni Culturali all’Università di Bologna; dopo una permanenza a Ravenna, periodo in cui ha lavorato per il MAR, Museo d’Arte della Città di Ravenna, si è trasferita a Mila-

no, dove collabora come free lance con alcune gallerie e riviste. Francesca Franzoso è Direttrice Artistica del Centro Studi Danza Artalide. È artista, coreografa, performer e insegnante di danza contemporanea, danzatrice contemporanea e di teatro danza, segue la creazione artistica e la contaminazione fra le arti. Massimiliano Furini, laureato in Architettura con indirizzo Storico e Restauro allo I.A.U.V. di Venezia nel 1995, libero professionista, assistente universitario per diversi anni presso la F.A.F. di Ferrara, docente di progetto per il restauro in numerosi corsi per la formazione di operatori nell’ambito del restauro dei Beni Culturali. Dal 1993 collabora con L’associazione Scientifica Palazzo Cappello, Centro Internazionale per la Ricerca e il restauro degli apparati decorativi barocchi e neoclassici di Venezia. E’ esperto in restauro e consolidamento statico di Edifici religiosi e civili ed è uno dei consulenti e collaboratori esterni della Curia di Adria e Rovigo. Attualmente è impegnato come Consulente esterno della Regione del Veneto – Direzione Pianificazione e Parchi presso la Soprintendenza Archeologica del Veneto per la Redazione del Piano Paesaggistico Regionale. Giovanna Gambacurta si è laureata a Padova in etruscologia e Antichità italiche nel 1983, ha conseguito la Specializzazione in Archeologia presso l'Università di Bologna e un Master di II Livello in diritto ed Economia dei Beni Culturali ed Ambientali presso l'Università di Padova. Si è occupata principalmente di Veneti antichi, con particolare riferimento alle tematiche dell'archeologia del culto e dei rituali funerari. È membro corrispondente dell'Istituto di Studi Etruschi ed Italici sezione dell'Italia Settentrionale. Lavora presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto ed è Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Adria dal 2009. Sergio Garbato laureato in lingue e letterature straniere, ha insegnato nelle scuole superiori. È socio dell’Accademia dei Concordi. Collabora con articoli e saggi a riviste e periodici, cura programmi di sala e presentazioni di mostre d’arte. Da trent’anni è collaboratore de “Il Resto del Carlino” e per l'edizione di Rovigo si occupa quotidianamente della pagina dedicata alla cultura e agli spettacoli. Ha curato mostre ed esposizioni e pubblicato numerosi saggi su teatro, arte, musica, storia e alcuni volumi dedicati a Rovigo e al Polesine. Bruna Giovanna Pineda è nata a Rovigo nel 1967. Da sempre attenta alle tematiche sociali, aderisce alla rete nazionale antirazzista e partecipa a varie iniziative contro le deportazioni dei migranti e contro i Cpt, oggi Cie. Aderisce al Social Forum Polesano e fonda con

altri a Rovigo l’associazione Migro-diritti senza confini. Nel 2003 costituisce con altre donne un gruppo di auto-aiuto “Amiche per la pelle”, per venire in soccorso alle donne che vivono vicino a noi ma che vengono da lontano. Nel 2006 viene eletta Assessora alle Pari Opportunità e all’immigrazione del Comune di Rovigo. Durante il suo mandato istituisce il Centro Donna Interculturale, Il Centro Antiviolenza e avvia il progetto per la Casa Rifugio Mamma e Bambino a indirizzo segreto. Ivo Prandin giornalista e scrittore, nato in provincia di Rovigo nel 1935, ha diretto la rivista di cultura e turismo “Leo” ed è stato responsabile della Redazione cultura dello storico quotidiano veneto “Il Gazzettino”. Per lo stesso giornale ha fatto l’inviato speciale e ha scritto due feuilleton: “Il barone della Luna”, 1980, e “Luoghi profondi”, 1987. Suoi racconti sono pubblicati in due antologie ed ha inoltre pubblicato alcuni romanzi. Ha scritto i testi di vari fotolibri di Fulvio Roiter, Lou Embo, Fernando Bertuzzi, Clive Handerson e profili di artisti. Ha curato numerosi volumi, tra i quali “Venezia Acqua Alta” (2007). Al Polesine ha dedicato il testo per il fotolibro di Federico Meneghetti “Terra a volo di gabbiano” edito da Italia turistica (2002). Riccardo Rubello è nato a Padova nel 1991, Giulia Sattin è nata a Piove di Sacco nel 1990. Dopo aver conseguito la maturità artistica, oggi studiano alla "Scuola Internazionale di Comics" di Padova. Devi Sacchetto è nato ad Adria nel 1965 dove è cresciuto. Ricercatore di Sociologia del lavoro all’Università di Padova, si occupa di trasformazioni del lavoro con particolare attenzione ai fenomeni migratori e di rilocalizzazione della produzione. Tra i suoi lavori recenti: "Ai margini dell’Unione Europea. Spostamenti e insediamenti a Oriente" (a cura di, Carocci 2011) e "Fabbriche galleggianti. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai" (Jaca Book 2009). Richard Skinner scrittore autore de "La Femme Fatale e i suoi amanti" pubblicato da Faber nel 2001, libro tradotto in sette lingue. Il suo secondo romanzo "The Velvet Gentlemen" è stato pubblicato in Francia nel 2008 ed è stato selezionato per il premio Prix Livres & Musiques. Le sue poesie e saggi sono stati pubblicati in vari mensili tra cui First Pressing, Writers Hub e Staple. È direttore del corso di scrittura creativa alla Faber Academy di Londra. Sergio Sottovia è nato a Crespino nel 1946. Pubblicista dal 1990, ha respirato l’aria sportiva dei campi di calcio, come giocatore dirigente della Fulgor Crespino. Benemerenza sportiva della Figc, del Coni e della Provincia di Rovigo, è stato cronista e cantastorie per il Resto del Carlino e per Areasport Rovi-

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go. Tuttora collabora con Delta Radio e con alcune testate venete. Ha pubblicato la trilogia “Polesine gol” (circa 100 personaggi del calcio polesano) e la storia degli “Olimpionici & Gentlemen” nel libro edito per i “50 anni del Panathlon Rovigo”. Monica Stefani è nata ad Adria e da 35 insegna nella scuola primaria, le piace il suo lavoro ed il rapporto con i bambini, soprattuttto i più piccoli, perchè mantengono intatta quella dote essenziale per vivere che è la fantasia. Con alcuni amici nel 1986 ha dato vita alla compagnia di teatro amatoriale "Senzapretese", poi "Il carro", che per un decennio ha allestito lavori teatrali di autori dialettali veneti per passare poi anche a pièce in lingua italiana. Dopo lo scioglimento della Compagnia ha continuato a modo suo a coltivare questa passione animando e ideando momenti di intrattenimento, i più disparati, e collaborando con diverse associazioni cittadine. Le interessa tutto ciò che ha a che fare con la storia della sua città e la sua tradizione perchè è convinta che conoscere la matrice della nostra cultura sia fondamentale per capire e spiegare il presente e riconoscere quei dati universali che ci accomunano, non ci dividono, da tutti gli altri uomini. Giulia Troni è Direttrice Artistica del Centro Studi Danza Artalide. È danzatrice, coreografa e insegnante di danza classica. Insegnante di Consapevolezza attraverso il movimento (Metodo Feldenkrais). Serena Turri ha conseguito la laurea in Pedagogia presso l’Università degli studi di Bologna nel marzo 1973. Dal 1974 al 2007 ha insegnato materie letterarie presso la scuola secondaria di primo grado, collaborando alla realizzazione di numerosi progetti, svolgendo incarichi di supporto all’organizzazione scolastica. È un’immigrata e vissuta digitale che, dopo trentasette anni di insegnamento nella scuola secondaria di primo grado, ha deciso di rassegnare le dimissioni volontarie per dedicarsi a qualcosa che fosse in grado di restituire la soddisfazione e l’appagamento conosciuti in molti anni di lavoro e che col tempo si erano dissolti. Recentemente ha partecipato al Corso di Perfezionamento proposto dal Politecnico di Milano in Diploma online per esperti di didattica assistita dalle nuove tecnologie (biennio 2006-2008) e ha conseguito il Master universitario di primo livello “Metodi e tecnologie per l’e-learning”. Nella primavera 2011 ha partecipato a CCK11, Connectivism and Connective Knowledge, an open online course, MOOC. Caterina Vernile è nata a Bari e vive a Cavarzere da dodici anni. Ha insegnato lettere nelle scuole medie di Chioggia e Cavarzere.


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