TimeRiders 3 - Codice Apocalisse

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Dicono di TimeRiders:

«Un thriller ricco di effetti spettacolari» - Guardian «Emozionante ai limiti della follia, roba da cardiopalma» Independent on Sunday «Un romanzo che crea dipendenza, come un videogioco» Waterstone’s Books Quarterly «Un libro che promette di diventare un grande successo» Irish News «Un’avventura mozzafiato che sfreccia a rotta di collo attraverso lo spazio e il tempo» - Lovereading4kids.co.ok «Azione a ritmo serrato... Un romanzo che si legge davvero tutto d’un fiato» - WriteAway.org.uk «Una lettura fantastica, avvincente sia per i ragazzi sia per le ragazze... Un libro che dà assuefazione!» - redhouse.co.uk «In lizza come miglior libro di fantascienza dell’anno... Per noi il vincitore assoluto» - Flipside


c o d i c e a p o c a l i ss e A L E X

S C A R R O W

Traduzione di

Francesca Sassi

ReNoir


ALEX SCARROW lavorava come grafico, poi ha scelto di progettare videogiochi. Alla fine è cresciuto ed è diventato un autore. Ha scritto una serie di thriller di successo e diverse sceneggiature, ma sono i libri di fantascienza per ragazzi che gli hanno consentito di divertirsi davvero con tutte le idee che gli giravano in testa quando faceva il progettista. Vive a Norwich con suo figlio, Jacob, sua moglie, Frances, e due ratti molto grossi.

Traduzione Francesca Sassi Editing Chiara Ferla Lodigiani Impaginazione e grafica Studio ReNoir Copyright © 2011 Alex Scarrow. Tutti i diritti riservati. Copyright © 2013 ReNoir Sas per l’edizione italiana Titolo originale: TIME RIDERS - the doomsday code è assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questo libro, così come l’inserimento in circuiti informatici, la trasmissione sotto qualsiasi forma e con qualunque mezzo elettronico, meccanico, attraverso fotocopie, registrazione o altri metodi, senza il permesso scritto dei titolari del copyright.

ISBN: 978-88-6567-066-8 ReNoir Sas Corso Monforte 45 · 20122 Milano tel 02 76011641 · fax 02 76009718 info@renoircomics.it www.renoircomics.it


Ai miei nipoti e alle mie nipoti... Un bel respiro e... pronti, via (in ordine di etĂ ): Leona, James, Nathan, Abigail, Tom, Aaron, Naomi, Joe, Nick e Connor. Futuri TimeRiders?



PROLOGO 2O44, Chicago

«Signore e signori,» annunciò l’uomo, «ecco ciò che tutti voi siete venuti ad ammirare. Tra un istante entrerò in quella gabbia di Faraday e sparirò.» Oh, benone, ecco l’ennesimo svitato. Anna Lopez scosse la testa. Ci mancava. I suoi occhi incrociarono uno o due degli altri membri dello scarso pubblico, giornalisti come lei. Riconobbe alcuni volti: un reporter che si occupava di scienza e ambiente per una delle emittenti digitali di Euro News; il redattore scientifico di una rivista di tecnologia online con sede a Stamford. La settimana prima, avevano tutti ricevuto il piccolo invito color vaniglia, con poche parole di spiegazione. L’invito a recarsi in un posto chiamato Larkham’s Gallery “per assistere alla dimostrazione pratica di una tecnologia che cambierà la vita di ogni uomo, donna e bambino su questo tormentato pianeta”. Anna Lopez sospirò. Certo, il mondo avrebbe avuto bisogno di un po’ di buone notizie. Il nome Larkham’s Gallery prometteva bene. Faceva pensare a una di quelle piccole e graziose boutique in cui si spera di trovare qua e là vassoi d’argento carichi di calici di vino e stuzzichini appetitosi. Invece se ne stavano seduti su tre file di scomode sedie di plastica in un tetro magazzino, con un neon crepitante sopra la testa e il sonoro plin plin plin dell’acqua piovana che gocciolava attraverso non si sa bene cosa. «Sarà la gabbia stessa ad assorbire l’energia e a ridistribuirla 7


uniformemente intorno a me, creando uno spazio abbastanza grande da farmi...» «Farla cosa? Scomparire?» gridò qualcuno dalla fila dietro. «Lo sa fare anche mio figlio questo giochetto, con il suo vecchio kit da mago Chuckle Cheese.» Qualcuno sogghignò, sputando il caffè nel bicchiere di polistirolo. «No» rispose l’uomo sul palco. Anna aveva dimenticato di nuovo il suo nome. Diede un’occhiata agli appunti scarabocchiati sul suo T-Pad. Waldstein. Persino il nome aveva un che di scontato. «No!» esclamò bruscamente, zittendo il mormorio di risate. «Non è un trucco per bambini!» Anna alzò la mano. «Signor Waldstein?» «Ehm... Sì?» «Sta dicendo che svanirà?» Waldstein annuì. «Sarò trasportato altrove per non più di un minuto.» «A-ah, trasportato.» Annuì lei. «E dove, esattamente?» L’uomo fece un ampio sorriso, togliendosi dalla fronte ciocche di capelli crespi brizzolati e rivelando occhi grandi da bambino dietro le lenti luccicanti. «In un altro momento del tempo» annunciò, teatrale. La giornalista sentì una sedia strisciare sul freddo pavimento di calcestruzzo alle sue spalle e udì qualcuno borbottare “Idiota”, poi dei passi che si allontanavano ticchettando. Vide anche gli altri giornalisti a fianco a lei muoversi imbarazzati. Tempo? Sembrava che quel vecchio sciocco stesse parlando di viaggiare nel tempo, povero illuso. Anna concluse che a quel tipo serviva senza dubbio qualche sorta d’aiuto; forse aveva bisogno di starsene chiuso in una stanza con le pareti imbottite verde menta e una musica rilassante. Altre sedie cominciarono a stridere 8


rumorosamente per terra. Sembrava che la piccola, patetica farsa di quel pazzo fosse già giunta al termine. Quasi gli dispiaceva per lui. «Non ve ne andate!» urlò Waldstein. «Per favore! Fermatevi!» I passi si arrestarono. «Ve lo dimostrerò subito!» Anna lo guardò rannicchiarsi sopra un tavolino da picnic traballante sul palco improvvisato, fatto di pallet di legno accatastati. Picchiettava sui tasti di un vecchio portatile logoro e ammaccato. Sotto al tavolo c’era qualcosa di simile a una caldaia in rame, cavi serpeggianti che entravano da un’estremità e uscivano dall’altra dirigendosi verso un’alta gabbia di filo metallico. La giornalista sentì il ronzio sommesso della carica all’interno del dispositivo di rame che aumentava progressivamente, e le luci del magazzino cominciarono ad abbassarsi. Fu allora che capì che il piccolo congegno di quel pazzoide stava risucchiando l’energia dalla rete elettrica. Oh, mio Dio, finirà per arrostirsi. Proprio qui. Davanti ai nostri occhi! Waldstein scavalcò svelto i cavi e aprì la porta della gabbia metallica. «E ora, osservate!» Anna si alzò. «Signor Waldstein, credo che dovrebbe...» L’uomo entrò e sbatté la porta della gabbia, che si chiuse fragorosamente echeggiando nel magazzino. Il ronzio continuava a crescere. «Signore e signori!» La voce di Waldstein sovrastò il rumore. «State per assistere al primo viaggio attraverso il tempo!» «Signor Waldstein.» Anna fece un passo avanti. «Per favore! Si fermi!» Si accorse che uno dei giornalisti delle emittenti digitali si era fatto strada tra le sedie e stava riprendendo la gabbia con la sua videocamera palmare. Scosse la testa, disgustata. Di sicuro quello psicopatico sperava di filmare l’intera scena, filmare quel povero illuso friggersi come una patatina. 9


Santo Cielo... Waldstein le sorrise, calmo, attraverso la rete metallica. «Non si preoccupi, mia cara, andrà tutto bene!» gridò sopra il ronzio dell’energia che si accumulava in attesa di scaricarsi. «La prego!» strillò Anna, sorpresa dalla sfumatura di panico nella sua voce. «La prego! Esca di lì!» Il sorriso di Waldstein era quasi rassicurante. «Andrà tutto bene, mia cara. Li rivedrò di nuovo. Li rivedrò, li toccherò ancora una volta...» «Li rivedrà? Chi? Di cosa sta parlando?» urlò lei, ma le sue parole si persero nel rumore sempre più assordante. All’improvviso, lungo i fili metallici della gabbia cominciarono a danzare delle scintille. «Indietro!» gridò qualcuno. Anna realizzò che la carica elettrica poteva facilmente creare un arco voltaico attraverso lo spazio, fino a raggiungerli. D’istinto indietreggiò di qualche passo, inciampando su una sedia vuota e sbucciandosi dolorosamente la caviglia. Le sedie erano vuote ora: erano tutti in piedi. Sentì qualcuno chiamare la polizia. Nessuno dei presenti si era recato lì quella sera per vedere un uomo arrostirsi intenzionalmente, foss’anche un pazzo. E di quei tempi, là fuori, di pazzi ce n’erano già abbastanza. Dalla gabbia una pioggia di scintille schizzò sul pavimento. I neon sul soffitto del magazzino crepitarono, scoppiettarono e si spensero, lasciandoli immersi in un’oscurità illuminata solo dal lampo stroboscopico dello spettacolo elettrico di Waldstein. Anna riusciva ancora a vedere la sua sagoma là dentro, perfettamente immobile, dietro a un sipario di scintille. Ferma, calma... non certo quella marionetta agitata in preda alle convulsioni che si era aspettata di vedere. Poi con un leggero schiocco – non uno scoppio, uno schiocco – e un lieve sbuffo d’aria smossa, tutto si fermò. Le scintille, il 10


ronzio, il crepitio e lo sfrigolio di energia elettrica pura. Tutto si fece tranquillo e silenzioso. Nel buio più completo, Anna udì il respiro irregolare degli altri che la circondavano. «È meglio che qualcuno chiami un’ambulanza!» esclamò un uomo. Si accese una torcia e il fascio di luce oscillò intorno alla gabbia. «Santo cielo! Dov’è finito?» Era vuota. Proprio come aveva assicurato lui. Era sparito. Anna avvertì un’ondata di sollievo. Si ritrovò a ridere, stordita. «Sarò trasp...» Scosse la testa. «Be’, è così che ha detto, giusto?» Nessuno pareva altrettanto sollevato e divertito da quello spettacolo. «Non sono venuto qui stasera solo per vedere uno show di magia! Ho degli articoli da inviare, sapete? Lavoro vero, non questo genere di follie gross...» All’improvviso, una pioggia di scintille guizzò lungo i fili metallici della gabbia. «Fermi tutti! State indietro! È ancora in tensione!» Anna si aspettava di veder cominciare un’altra performance come quella di prima, per nascondere il “ritorno” di Waldstein nella gabbia. Fumo e specchi, ecco come la chiamano i maghi: l’arte della distrazione. Invece, tra le maglie della rete metallica intravide un tenue, spettrale baluginio; all’inizio solo un puntino, un foro di spillo, che però si estese ben presto sino a raggiungere un diametro di diverse decine di centimetri, scintillanti e ondeggianti come acqua. Quel che immaginava fosse l’aspetto degli ectoplasmi, se quel genere di assurdità sovrannaturali fosse esistito davvero. «Cos’è quello?» domandò qualcuno. La torcia si spostò in fretta, permettendo loro di osservare più chiaramente l’etereo barlume. Anna scosse la testa nell’oscurità, come se la domanda fosse diretta a lei personalmente. 11


«Non ne ho idea» rispose. Nella fioca luce fluttuante le parve di distinguere una sagoma vagamente umana. Forse delle sagome, al plurale. C’era qualcosa lì dentro, qualcuno. Delle persone. Uno dei profili si fece via via più nitido, come se si stesse avvicinando. Anna aveva la netta impressione che quel tenue baluginio si trovasse da un’altra parte. Quasi – non fosse per la rete metallica lì in mezzo – avesse potuto farsi avanti e allungare la mano... e toccare un altro luogo. Come se si trattasse di una porta scintillante e ondeggiante verso un’altra... Si riprese. Cosa? Davvero? Parli sul serio? «È una follia» sussurrò tra sé e sé. Quella forma nitida era umana. Ora la distingueva chiaramente. Sembrava trascinarsi verso di lei, cominciando a bloccare la luce fluttuante “dell’altro luogo”. Poi all’improvviso il baluginio spettrale scomparve. Buio pesto. Nell’oscurità Anna avvertì uno sbuffo d’aria sul viso, che le mandò una ciocca di capelli nell’occhio. Lo tolse con la mano. C’era qualcosa dentro la gabbia. Lo sentiva respirare, ansimare in modo affannoso e irregolare attraverso la rete metallica. «Ehilà?» sussurrò. «Waldstein? È... È lei lì dentro?» Il respiro rimase inalterato. «Chi ha la torcia?» sentì dire alle sue spalle. «Puntatela sulla gabbia.» Udì qualcuno trafficare con qualcosa, imprecare mentre cercava tentoni un interruttore, suo malgrado, troppo piccolo. «Waldstein?» sussurrò Anna. «Tutto bene?» Il respiro tentennò e si fermò a mo’ di risposta. «Accendete la torcia!» «Ci sto provando! Non riesco a trovare il... Dov’è?» Il pover’uomo nella gabbia cominciò a dire qualcosa, piano. Anna si chinò in avanti, finalmente abbastanza audace da schiacciarsi contro la rete metallica. Era ancora calda per il 12


passaggio della carica elettrica, ma non rovente. E, per fortuna, non sotto tensione. «Va tutto bene lì dentro?» «L’... L’ho... v-vista...» «È tutto okay. La tireremo fuori di lì... e poi chiameremo un’ambulanza.» «L’... L’ho vista» ribatté Waldstein con voce stridula. Poi, dietro di lei, la torcia si riaccese e le ombre danzarono in tutte le direzioni. «È sotto shock» disse la giornalista. «Puntate la luce su di lui.» Il fascio luminoso oscillò oltre la sua spalla gettando nel magazzino tutt’intorno una rete di ombre danzanti. Attraverso il filo metallico Anna riuscì a distinguere l’uomo che aveva visto pochi istanti prima: l’uomo che credeva bisognoso di cure e di una comoda cella imbottita in cui vivere la sua illusione. Non una carcassa umana carbonizzata. Era un sollievo. Ma il suo viso... il suo viso... Quegli occhi sotto i capelli crespi da svitato, dietro le lenti da nerd, erano ancora grandi e tondi, ma non spalancati, come prima, da una meraviglia ed eccitazione infantili. Non più. Quello era terrore. Terrore puro. Lo sguardo di una mente chiusa in se stessa per proteggersi dalla follia. In quel momento Anna capì che quella sera non avevano assistito a un trucchetto magico da quattro soldi. Quell’uomo non era un illusionista da palcoscenico in cerca di spettatori o pubblicità. È stato da qualche parte. È davvero stato da qualche parte. E per qualche motivo aveva la sensazione che fosse stato via ben più di un minuto. «Cosa?» domandò Anna Lopez dolcemente. «Cos’è successo?» Lo sguardo di Waldstein, distante, forse ancora puntato altrove, parve gradualmente ritornare, raggiungere pian piano il resto del suo corpo rientrato a Chicago. I suoi occhi si focalizzarono su di lei, nella progressiva consapevolezza che non era solo, che c’era 13


qualcuno appena oltre la rete metallica. «Ho...» Aprì la bocca, le labbra secche e crepate. «Ho... Ho v-visto... la fine.» Anna udì qualcuno telefonare alle sue spalle. Chiamare un’ambulanza. Forse qualcuno l’aveva sentito. Si accorse che lo psicopatico con la telecamera stava ancora filmando. Forse era deluso di non avere un cadavere fumante da mostrare al suo editore. Forse l’assurdo balbettio di quell’uomo avrebbe prodotto una storia ancora migliore. «Waldstein?» mormorò Anna. «Cosa vuol dire... la fine?» Si rese conto che l’uomo stava piangendo. Una lacrima gli scivolò lungo la guancia e si perse tra i peli della barba. Lo sguardo lontano, perduto era scomparso. I suoi occhi erano concentrati su di lei. Di colpo guardò la gabbia che aveva intorno. «Mio Dio! Tutto questo... Tutto questo deve sparire!» «Cosa? Sta parlando della sua macchina?» Waldstein sbatté un palmo contro la rete metallica, che sferragliò echeggiando nel magazzino. «TUTTO QUESTO! Viaggiare nel tempo! Finirà... Finirà per distruggerci!»

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Capitolo 1 2001, New York Sola, Maddy osservava un gruppetto di gabbiani piluccare tra i rifiuti sparsi sulla bassa sponda limacciosa dell’East River. Sopra di loro, il traffico scorreva ritmicamente lungo il ponte di Williamsburg: era l’ora di punta per la calca di lavoratori metropolitani che, a fine giornata, ritornava da Manhattan a Brooklyn. Gettò un pezzetto di macadam nell’acqua e guardò i gabbiani disperdersi, allarmati dal tonfo improvviso. Mio Dio. Al solo pensiero le girava ancora la testa. Mio Dio, Liam è Foster? Era quello che aveva detto il vecchio, giusto? Che lui e Liam erano la stessa persona; che lui, un tempo, era Liam. E ora che gliel’aveva svelato, Maddy capiva che aveva ragione. Notava la somiglianza tra i loro visi, nel modo di fare, persino in quello di parlare. «È stato viaggiare nel tempo che mi ha ridotto così. Viaggiare nel tempo mi ha fatto invecchiare, Maddy» aveva detto. Il fatto che Liam fosse destinato a diventare quel povero vecchio... Ecco un’altra notizia che avrebbe dovuto tenere per sé, finché non l’avesse ritenuto pronto ad accettarla. Custodire segreti del genere la faceva sentire così sola; la separava dagli altri due. Le sembrava sbagliato. Dopotutto, erano stati reclutati insieme: lei, Liam, Sal... Tutti e tre scelti da epoche diverse, strappati dagli ultimissimi secondi di vita da Foster. Avrebbero dovuto essere una squadra. Non sarebbero dovuti esserci segreti tra loro. Non 15


di quel tipo, almeno. «Sei tu che comandi ora,» le aveva detto Foster, «sta a te decidere come e quando dirlo a Liam.» Vide i gabbiani tornare cauti a beccare le buste di plastica sul limo. «Fantastico» mormorò tra sé e sé. Qualcos’altro su cui rimuginare, qualcos’altro che l’avrebbe tenuta sveglia la notte. Perché non era solo la questione Foster-è-Liam, vero? Oh, no. C’era anche quell’altra cosa, quel messaggio scarabocchiato che aveva trovato nel loro punto di rifornimento... Quelle parole rivolte solo a lei. Maddy, attenta a “Pandora”, ci resta poco tempo ormai. Sta’ in guardia e non parlarne con nessuno. Si chiedeva cosa diamine avrebbe dovuto farsene. Non aveva alcun senso per lei. “Pandora”: che cos’era, a parte uno stupidissimo nome femminile? «Ma perché è toccata proprio a me?» Quel suo tono sommesso spinse un gabbiano che avanzava impettito lì vicino a fermarsi e inclinare la testa verso di lei. «Non sto parlando con te, stupido uccello.» Il gabbiano riprese a frugare tra i rifiuti, con la perlina nera dell’occhio ancora fissa su di lei, diffidente. Maddy vide le luci di Manhattan accendersi sfarfallando, mentre il sole cominciava a tramontare dietro i due alti pilastri del World Trade Center. Foster ti ha reclutato per una ragione. Foster ha messo te al comando per una ragione. Perché sa che sei abbastanza sveglia da capire le cose, Maddy. Sospirò. Le sarebbe davvero piaciuto crederci... Credere che il suo destino fosse essere un buon capo, una buona TimeRider. Ma in qualche modo, per come erano andate le cose sinora, sembrava solo che stesse... improvvisando, resistendo per il rotto della cuffia. Era felice di non essere morta, o di non aver causato la 16


morte di Liam e Sal. Felice di non aver mandato all’aria la linea temporale. Felice di non aver distrutto il mondo. Un po’ troppo stress da sopportare per una ragazzina di soli diciott’anni. «Già, maledizione» borbottò. «Un po’ troppo.»

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Capitolo 2 2001, New York Lunedì (ciclo temporale 57) In questo momento lo sto guardando mentre galleggia nel tubo pieno di sbobba densa e appiccicosa. È Bob, ma non è proprio Bob, non ancora, se capite cosa intendo. Anzi, è un ragazzo. Completamente glabro e raggomitolato come un bimbo. Senza dubbio dalla faccia si capisce che è lui, anche se non è ancora sviluppato; quell’ossatura pesante e quell’aria da tonto... Sulla testa non gli è ancora cresciuta la pelle. È tutto fibre muscolari rosso acceso e denti, e due bulbi oculari che, senza le palpebre, sembrano enormi. A volte pare che si muovano, a scatti, come se ti stessero fissando. Ma so che non è così. La sua mente infantile è sprofondata nel sonno ora, intenta a sognare qualsiasi cosa sogni il cervello di un bambino. Sul corpo gli è cresciuto un primo leggero strato di pelle, ma si vedono ancora delle chiazze scoperte. C’è un punto in cui si riesce a guardare attraverso, proprio sotto il braccio sinistro, dove si vedono ancora le costole, e lì dentro credo ci sia un organo. Sarà il cuore, o una roba del genere? Si muove. Come un animale in gabbia. A dire il vero, mi fa venire il voltastomaco. Penso che andrò a sdraiarmi. A proposito di vomito, Liam sta svuotando il gabinetto in questo momento. Abbiamo preso uno di quei WC da campeggio qualche giorno fa. Nell’arcata c’è già un piccolo bagno con una porta di legno scricchiolante e una tazza del water rotta e senza asse. Una vera pinchudda! E comunque non è collegata. È per questo che abbiamo bisogno del WC chimico. Bisogna svuotarlo ogni due o tre giorni perché fa puzzare tutta la stan18


za: quando si estrae quella specie di serbatoio di plastica, la parte posteriore del gabinetto viene fuori e tutta la “roba” che c’è dentro si riversa in giro. Shadd-yah. La prossima volta è il mio turno. Comunque... Presto faremo un viaggetto. In un posto speciale. Volete sapere dove? Allora ve lo dico. Domani torneremo a “domenica”! Esatto, usciremo dalla nostra bolla temporale e torneremo alla domenica precedente. Sarà il mio primo viaggio nel tempo. Be’, no... Suppongo che il primo sia stato quando Foster mi ha prelevato da casa e mi ha portato qui ma, mentre stava succedendo, non lo sapevo mica. E, ovviamente, ogni volta che la bolla si riazzera, è come se viaggiassi indietro di quarantotto ore, giusto? Ma farlo così... Entrando nel portale, è farlo per davvero. È essere davvero una crononauta. Metterò piede in un varco spazio-temporale, in un punto del caos. Liam dice che è strano, tutto bianco come il latte e nebbioso, e che dentro c’è qualcosa che si muove, strisciando, e non riesci a capire cos’è. Ma dice che succede tutto così in fretta che ti ritrovi subito dall’altra parte senza neanche accorgertene. Perciò non c’è da preoccuparsi. Fantastico. Grazie per avermi raccontato di quegli affari che strisciano, Liam. Be’, sono un po’ nervosa. Ma anche eccitata, perché andremo a vedere questo gruppo rock, gli “Ess-Zed”. Maddy dice che sono scomparsi dopo l’11 settembre. Svaniti nel nulla! E che è un po’ come se fossero diventati famosi proprio per questo, o una cosa così. Quindi, anche se non lo sanno, questo è il loro ultimo concerto. Maddy pensa che mi piaceranno un sacco. Ha messo su un po’ della loro musica con il computer. È roba pesante. Dice che Liam, probabilmente, li odierà e si lamenterà che quella non è vera musica ma solo baccano. Non sono certo le “canzoncine” a cui è abituato lui. LOL. 19


“Istruzione”. “Uscita didattica”, la chiama lei. Utile per Becks, per farle fare un po’ più di esperienza nel fingere d’essere umana. Ne ha bisogno. È troppo seria e robotizzata. Bob era uno stupido, quindi potevi far finta che fosse semplicemente un idiota. Invece Becks, beh, lei è troppo “fredda”. Fa un po’ paura quando ti fissa. È come se ti stesse guardando e intanto stesse pensando ai tre modi più rapidi per farti fuori usando un solo dito. Mi sa che preferivo Bob.

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