Pietre di Fede

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drigo, e per conseguenza del suo viaggio, davanti a quell’osteriaccia dovrà passare Lucia, rapita dal Nibbio, terrorizzata, e poi ancora, con non minor terrore («fargli la festa a quel prete?» gli pareva volessero dire gli occhiacci dei bravi), il povero don Abbondio inviato dal Cardinale Federigo a liberare Lucia: «Siam qui per condurvi via. Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a cavallo…». Un festoso scampanio aveva fatto nascere nell’“innominato”, dopo una notte tormentata, il desiderio di andare a sentire il Cardinale Federigo; ci andò, infatti, «come portato per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno». «Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov’era il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una lunga passeggiata». Il Romanzo naturalmente non nomina nemmeno il “paese”, che pure nella prima stesura era stato indicato in Chiuso, l’ultimo borgo di Lecco, al confine con la terra bergamasca, appartenente alla diocesi di Milano ma allora non anche alla pieve lecchese («M’ha da sentire la signora Perpetua - è il soliloquio di don Abbondio - d’avermi cacciato qui per forza, fuor della mia pieve»). Il luogo della conversione, a buon conto, è rimasto Chiuso: c’è giusto una «passeggiata» per arrivare alla rocca di Somasca. A Chiuso, ovviamente, c’è la casa della buona donna, «una donna di cuore e di testa», chiesta dal Cardinale al curato per andare a prender Lucia al castello, e del sarto suo marito, «un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d’una volta il Leggendario de’ Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza». Alla «casa dov’era ricoverata Lucia» volle essere condotto il Cardinale Federigo, intendendo «con quella visita rendere onore alla sventura, all’innocenza, all’ospitalità e al suo proprio

ministero in un tempo». «Arrivarono alla casa, e c’entrarono: la folla rimase ammontata al di fuori. Ma nella folla si trovava anche il sarto, il quale era andato dietro come gli altri, con gli occhi fissi e la bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe. Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con che strepito, gridando e rigridando: “lasciate passare chi ha da passare”; e entrò». La «compiacenza del grand’onore ricevuto» con la visita del Cardinale sarà guastata, al povero sarto sapiente, dalla «rimembranza importuna» di aver saputo trovare come sola risposta all’illustre ospite «quell’insulso si figuri!». Ma potrà rifarsi mostrando la stampa «che teneva attaccata a un battente dell’uscio, in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacché lui aveva potuto esaminar da vicino e con comodo il cardinale in persona, in quella medesima stanza». Per completare il quadro di Chiuso e della sua parrocchia occorre fare un cenno all’oratorio di San Giovanni Battista, posto appena fuori paese: un autentico gioiello artistico, costruito al tempo degli Sforza, con pregiati affreschi a lungo attribuiti a Pietro da Cemmo e alla sua scuola. Per molti anni, tramontato l’uso di cappella cimiteriale cui era stato destinato, fu adibito ad usi profani: San Carlo lo trovò, nel 1566, ingombro di immondizie, bivacco dei militari di passaggio. La chiesetta era consacrata e dedicata al martirio di San Giovanni Battista. Al tempo di don Serafino Morazzone era stata ripristinata al culto, ma poverissima di arredi e trascurata sotto l’aspetto artistico. Il cimitero adiacente alla chiesa aveva sostituito l’antico, posto dietro la chiesa parrocchiale. Dal 1856, quando la salma di don Serafino vi fu traslata, la chiesa è divenuta meta di pellegrinaggi e grazie ai sistematici restauri (l’ultimo proprio in quest’anno 2009) ha ritrovato il suo pristino splendore che la fa annoverare fra i capolavori dell’arte sacra di Lecco.

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