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Confini fluidi

Parlando qualche settimana fa con Telmo Pievani, celebre filosofo della biologia, evoluzionista, saggista, autore televisivo e teatrale, sono emersi temi che riguardano molto da vicino un discorso che, data la sua importanza, sento la necessità di anticipare. Il tema riguarda il nostro rapporto con il mondo che ci circonda e la capacità degli architetti di interpretarlo. L’umanità ha vissuto per secoli, forse per millenni in una grande illusione. Ci siamo sempre ritenuti qualcosa di differente, se non di superiore, rispetto all’ambiente non modificato artificialmente che chiamiamo ‘natura’. È un concetto, potremmo chiamarlo un racconto collettivo, che per un po’ ha funzionato a meraviglia ma che oggi, data la pressione alla quale stiamo sottoponendo l’ambiente, viene messo ovviamente in dubbio. Ed è per questo che secondo Pievani anche la scienza ha bisogno più che mai di poeti, scrittori, artisti, musicisti e, ovviamente, architetti che, toccando le corde più profonde delle nostre emozioni, possano dare forma a questo nuovo nuovo racconto. Partendo da questi presupposti, la ricerca di scienziati come Stefano Mancuso e Stephan Harding, di biologi, antropologi e fotografi come Cristina Mittermeier, rivela l’emergere della consapevolezza che condividiamo questo mondo con decine di milioni di altre specie, del tutto inesistente fino a venti o trent’anni fa. E questo rappresenta un fattore fortemente destabilizzante e portatore di cambiamento rispetto all’immagine del mondo che vede il genere umano al centro dell’universo, profondamente radicata nella nostra cultura e non priva di ricadute sulla teoria e sulla pratica dell’architettura. Tanto che studiosi come Marianne Krogh hanno inquadrato teoricamente un principio di riconnessione a livello ambientale che lei chiama Connectedness e che ha tradotto in architettura nel padiglione della Danimarca all’ultima Biennale di Architettura di Venezia, di cui è curatrice, opera degli architetti Lungaard&Tranberg. O artisti come Wolfgang Buttress, autore del Padiglione del Regno Unito a Expo Milano 2015. O infine nell’opera, notevolissima e incredibilmente identificata nell’ambito di questa nuova dimensione poetica, di Junya Ishigami. Una nuova consapevolezza del nostro rapporto con l’ambiente coincide con un cambiamento nel nostro modo di vedere e rappresentare il mondo: una trasformazione densa di ricadute sull’architettura.

Junya Ishigami

Enfant prodige dell’architettura giapponese e Leone d’Oro alla 12. Biennale di Architettura di Venezia (2010), insegna in Giappone e dal 2014 è Design Critic presso la Harvard Gsd. IoArch 84/2019 - https://bit.ly/3MAWCac

Stefano Mancuso

Botanico, accademico e autore di saggi divulgativi, è uno massimi studiosi e pionieri degli studi relativi al comportamento delle piante. IoArch 81/2019 - bit.ly/3xEgGV1

Paola Antonelli

Architetto e Senior curator del MoMa di New York. è stata curatrice dell’esposizione Broken Nature alla Triennale di Milano. IoArch 81/2019 - bit.ly/3xFlWI0

Wolfgang Buttress

Alla guida del team di progettazione di The Hive, il padiglione del Regno Unito a Expo Milano 2015, l’artista inglese realizza opere che traggono ispirazione dalla natura e dalla scienza per stabilire connessioni con ciò che di elementare e di eterno vi è nel mondo e nelle esperienze individuali. Tra le sue opere ricordiamo Una (Canberra, 2013), scultura che cattura il microcosmo del cielo notturno, Space (Tokyo), con cui nel 2014 vinse il Kajima Sculpture Gold Award, e Lucent (Chicago, 2015). IoArch 63/2016 - bit.ly/3aTKbJq

Stephan Harding

Titolare con James Lovelock della Arne Naess Chair all’Università di Oslo, è l’autore di Animate Earth: Science, Intuition and Gaia. IoArch 86/2020 - bit.ly/3Q73orf

Quale opera di architettura pensi che rappresenti meglio lo spirito del tempo?

“Il Victoria and Albert Dundee di Kengo Kuma. Un architetto il cui percorso si è evoluto negli anni verso la sostenibilità, il rispetto per la natura, per il sito, per la storia”

Wolfgang Buttress

Vista la predilezione di Wolfgang Butteress per strutture stupende, eteree, evanescenti, composte da materia dematerializzata e rese possibili grazie a una comprensione di incredibile finezza tecnica delle qualità dei materiali, la sua nomina nei confronti dell’opera di Kengo Kuma non mi meraviglia. Kuma è pura arte del costruire, è colui che conosce le leggi di funzionamento della materia per violarle sistematicamente, scatenando meraviglia. È colui che parte dai materiali low-tech, il più vicino possibile allo stato della materia prima, e li compone grazie ai più evoluti strumenti di disegno parametrico. Ma soprattutto Kuma parte da noi e dal nostro rapporto con i luoghi. Come Buttress ho ammirato a lungo il suo progetto per la sede scozzese del Victoria & Albert Museum. Realizzato con una tecnica simile ad un blockbau, e modellato come una scogliera, recuperando insieme al rapporto l’acqua, le sorprese e le aspettative che normalmente ricorrono in un paesaggio naturale. Una massa compatta e, riprendendo un’idea ispirata ai templi shintoisti, un vuoto, attraverso il quale passa l’infinito. Se è vero che ogni nuovo racconto collettivo ha bisogno di opere che lo rappresentino, questa architettura riesce a esprimere una consapevolezza differente nel nostro modo di vedere il mondo che ci circonda.

Marianne Krogh

Laureata in storia dell’arte e PhD in Architettura, è stata la curatrice del Padiglione della Danimarca alla 23a Biennale di Architettura di Venezia. IoArch 95/2021 - bit.ly/3mxSqxp

Kengo Kuma, Victoria & Albert Museum Dundee, Scozia. 2018 (ph. ©Danica O. Kus, courtesy Duravit).

CONFINI FLUIDI

Victoria & Albert Museum Dundee Kengo Kuma (2018)

Kengo Kuma, Victoria & Albert Museum Dundee, sulla riva del Firth of Tay (ph. ©Danica O. Kus, courtesy Duravit).