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n. 82 MAGGIO 2013 TROVACASA PREMIUM.

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RAVENNA n. 82 maggio

2013

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SCATENA LA PASSIONE 1

contenuti

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casa bella casa

topografia e storia

città e tempo

lo stato dell’arte

pentole e provette

città e società

abitare l’habitat

L’attento restauro di una casa in centro a Faenza firmato Cossa e Minardi di Paolo Bolzani

Pialassa Baiona, il racconto e le immagini fra cielo, acque e pineta di Pietro Barberini

Se l’arte diventa gnomonica e si sposa all’armonia della meccanica celeste di Mario Arnaldi

Cosa è la qualità urbana? Le risposte progettuali dello Studio Lelli e Associati di Domenico Mollura

L’aristocratico asparago, eccellenza dellorto secondo lo chef Faccini

Pratica della “sorellanza”. Dialogo con Paola Pattuelli a partire da Hannah Arendt di Marina Mannucci

Resilienza urbana: il cambiamanto sociale come occasione positiva di Marco Turchetti

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Controcopertina «In una casa del centro di Faenza si è lavorato sull’architettura esistente, in questo caso anche molto antica, ridefinendone la storia e rispettando i segni della costruzione nello scorrere del tempo per inserire, al contempo, soluzioni di carattere più contemporaneo. Queste scelte ed attenzioni rivelano quanta modernità ci possa essere nel restauro, nel momento in cui questo si qualifica come scoperta o come occasione per sperimentare una capacità narrativa latente finora inespressa».

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Linda Landi, Marina Mannucci, Luca Manservisi, Domenico Mollura, Serena Simoni. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Referenze fotografiche: Maurizio Montanari, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani Redazione: tel. 0544.271068 redazione@trovacasa.ra.it

Editore: Reclam Edizioni e Comunicazione srl viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Tiber spa - Brescia - www.tiber.it

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La casa di Gianluca Soddu e Roberta Zoncheddu in centro a Faenza

Il restauro degli architetti Maria Concetta Cossa e Michela Minardi come scoperta della storia e occasione per il nuovo

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di Paolo Bolzani

Faenza, via S. Ippolito n. 4. Questo l’indirizzo della casa di Gianluca Soddu e Roberta Zoncheddu nel centro storico, quasi in angolo con l’asse viario costituito dalle vie Sarti e Giangrandi e non lontano dall’argine sinistro del Lamone, allorché fiancheggia da est la città manfreda. Davanti a noi si erge il fronte di una casa a schiera, tipica del tessuto urbano consolidato, di estensione limitata in larghezza e sviluppata in profondità lungo il proprio insediativo, solitamente detto gotico, che si spinge all’interno dell’isolato verso nord-ovest. Il fronte strada della casa si articola su tre piani, eretti sopra la grande cantina dell’interrato, e si connota per la presenza di pochi elementi connotativi: uno zoccolo al piano terra in intonaco lavorato con canne palustri e severo portone in legno lunettato, caratterizzato dal vano a perimetro leggermente strombato e sovrastato, in chiave, dall’iscrizione devozionale con trigramma cristologico, monogramma mariano e i tre chiodi della croce, già ideogramma di una matura matrice “politica” guelfa e poi gesuitica. Dal portone si accede ad un androne che conduce ad una bella corte centrale, articolata a sua volta da una loggia a due livelli in cui, a suo tempo, è stata creata una scala che consentisse di raggiungere direttamente il primo piano. Qui hanno inizio gli ambienti abitativi della famiglia Zoddu-Zoncheddu. Nel 2008 i proprietari incaricano gli architetti Maria Concetta Cossa e Michela Minardi del restauro della casa e vi prendono possesso nel 2010. Le scelte di progetto sono precise, condivisibili per la concezione del recupero in un’ottica sostanzialmente di

Nelle foto, alcuni scorci dell’ingresso in via S. Ippolito, e dell’androne da cui si accede alla casa nel centro di Faenza restaurata dagli architetti Cossa e Minardi. Nella pagina a destra, particolari e immagini degli interni dell’appartamento.

CASA BELLA CASA


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Il fronte strada della casa si articola su tre piani, eretti sopra la grande cantina dell’interrato, e si connota per la presenza di pochi elementi connotativi: uno zoccolo al piano terra in intonaco lavorato con canne palustri e severo portone in legno lunettato, caratterizzato dal vano a perimetro leggermente strombato e sovrastato, in chiave, dall’iscrizione devozionale con trigramma cristologico, monogramma mariano e i tre chiodi della croce

conservazione che non si sottrae alla sfida della modernità e conducono ad un esito non scontato e piacevole. «La prima esigenza che volevamo soddisfare – spiegano Cossa e Minardi – era quella di far entrare in casa molta luce naturale, liberando gli spazi da vecchie pareti divisorie e creando coni ottici che lasciassero traguardare lo sguardo attraverso gli ambienti in sequenza. In sostanza si è cercato di realizzare una casa “circolare” nella sua percezione, nella sua percorribilità in tutte le direzioni, e con molta luce». E in effetti, fin dallo sbarco della scala al primo piano dove la loggia della corte si accosta al fabbricato rivolto alla strada, si percepisce la volontà di creare un unico grande asse di distribuzione dei percorsi nella zona giorno. Un breve corridoo – trattato in faccia a vista per consentire di leggere la trama storica delle tessiture murarie – affianca in sequenza la cucina abitabile e il vano

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«La prima esigenza che volevamo soddisfare – spiegano Cossa e Minardi – era quella di far entrare in casa molta luce naturale, liberando gli spazi da vecchie pareti divisorie e creando coni ottici che lasciassero traguardare lo sguardo attraverso gli ambienti in sequenza. In sostanza si è cercato di realizzare una casa “circolare” nella sua percezione, nella sua percorribilità in tutte le direzioni, e con molta luce».

Nelle foto, alcuni particolari dei vani e delle scale di accesso ai piani dell’abitazione.

CASA BELLA CASA

scala-disimpegno centrale, dal quale si può raggiungere il bagno della zona giorno. Già in questo breve tragitto, così come nel nuovo vasto spazio del soggiorno che si affaccia sulla strada e a cui l’asse di percorrenza conduce, e forse ancor più nei piani superiori, si rivela una duplice attenzione: «lavorare sull’architettura esistente, in questo caso anche molto antica, ridefinendone la storia del manufatto architettonico e rispettando i segni della costruzione nello scorrere del tempo» (Cossa) ed inserire al contempo soluzioni di carattere più contemporaneo. Nel soggiorno sono chiari gli intenti dell’idea progettuale del restauro, allorché al termine dell’intervento sulle pareti rimangono in evidenza i lacerti di decori e antiche tinteggiature, con le tracce della loro vetustà, così come l’ordito del solaio in legno ricondotto a vista o il vano del riscoperto camino ora ricondotto a nicchia. D’altro canto la scelta delle finiture non esita a denunciarsi in tema di modernità, come il pavimento realizzato in resina grigia, così come la convivenza, nei nuovi spazi recuperati, di mobili dal design d’autore o gesti dallo stile contemporaneo, come la composizione di lampadine appese nel varco tra vano scala e soggiorno o l’esplosione plastico-cromatica del rivestimento in piastrelle ceramiche giallo “mostarda” del bagno (formato 10x40, designer Gianluca Soddu, dal nome Progetto L14 Ceramiche Lea Decoro Spy). La cifra moderna del progetto ha modo di evidenziarsi in particolare al secondo piano, destinato alla zona notte, nel soppalco creato in occasione dei lavori e nel gioco di affacci e di rimandi che si viene a creare nel vano scala centrale, pronto a trasformarsi da semplice snodo di percorsi verticali in un momento di conduzione della luce naturale proveniente dal lucernario; da qui la luce si diffonde lungo le pareti perimetrali per mezzo di un antico raccordo tronco piramidale la cui struttura venne realizzata in canna e gesso. Un felice dialogo


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In soggiorno la scelta delle finiture non esita a denunciarsi in tema di modernità, come il pavimento realizzato in resina grigia, così come la convivenza, nei nuovi spazi recuperati, di mobili dal design d’autore o gesti dallo stile contemporaneo, come la composizione di lampadine appese nel varco tra vano scala e soggiorno o l’esplosione plastico-cromatica del rivestimento in piastrelle ceramiche giallo “mostarda” del bagno.

viene a crearsi tra la nuova scala in ferro dipinta di bianco, ornata dagli scalini in legno naturale, e il superiore piccolo soppalco in cui appare esposta una elegante e preziosa selezione di vasi in ceramica d’autore. Il dialogo si estende in realtà anche all’altro lato del vano scala, dove è stato creato un balconcino che collega, a tale livello, la stanza destinata a studio con la zona notte. Questi dialoghi conferiscono alla piccola raccolta composizione architettonica anche un’ulteriore timbro espositivo che si spinge anche negli ambiti degli spazi di tipo teatrale. Queste scelte ed attenzioni rivelano quanta modernità ci possa essere nel restauro, nel momento in cui questo si qualifica come scoperta o come occasione per sperimentare una capacità narrativa latente finora inespressa. Varie le scoperte messe a segno nel corso dei lavori. «Il primo elemento utile alla scoperta di un pezzo della storia della casa – racconta l’architetto Cossa – è collegato alla canna del camino, che ci ha permesso di scoprire come il fabbricato sia stato sopraelevato verso la fine del XIX secolo, per recuperarne un piano in più. Un altro interessante fatto è legato al rinvenimento di decorazioni rinascimentali ed altre di periodo più tardo presenti all’intradosso dei solai in legno al piano primo e secondo; la presenza di controsoffitti e fodere in “arellato” le rendeva invisibili. Nel corso dei lavori sono poi venute alla luce tracce di archi ogivali all’interno della facciata su strada, che hanno reso il racconto della storia della casa ancora più articolato ed entusiasmante. Infine, dal confronto tra le mappe catastali e dall’osservazione del sito, si può argomentare come verosimilmente il fabbricato potesse in origine essere aperto sul fianco meridionale, il ché significa come la casa d’angolo attuale di via Sarti in origine non esistesse e si potrebbe ipotizzare che la strada costituita dalle vie Sarti e Giangrandi avesse in origine un sedime di maggiore larghezza».

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Pialassa Baiona

Come uno specchio scheggiato, riflette gli umori del cielo e sugli azzurri confini, a far da corona, il nereggiar dei pini di Pietro Barberini La pialassa della Baiona è al centro di contrastati e precari ambienti, ai confini fra terra e mare: stretta fra il secentesco porto della Fossina e la storica pineta abbaziale di San Vitale, la grande laguna salmastra suggerisce l’escavazione del nuovo canale Naviglio. I periti idraulici e i matematici pontifici, sotto la “frusta” dell’indomito Cardinale Legato Giulio Alberoni, sfruttano la gran massa d’acqua, influenzata dalle maree, per trovare un tracciato utile all’escavazione di un nuovo canale portuale che congiungesse la bocca della Fossina alla città di Ravenna. “Gran laguna fa buon porto” dicevano i veneziani, molto abili nella tecnica marinara e nella costruzione di approdi. Seguendo tali principi, i lavori proseguirono, sfruttando anche il tracciato dello scolo della città e, nel 1745, i primi velieri ormeggiarono in vista delle mura orientali, in località “i fenili” dove è ubicata l’odierna darsena di città. Da quel tempo il Canale Corsini fu subito ribattezzato Candiano, e’ Cangiàn e si pose a divisione di

TOPOGRAFIA E STORIA


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quelle indistinte acque interne, che “prendevano e lasciavano” fluire la marea quattro volte al giorno. “Pi-lassa”, forse è la descrizione dialettale di questo fenomeno che sarà poi sfruttato per tenere “officiosa” l’imboccatura del canale e il suo tratto iniziale, a Porto Corsini. Fino all’inizio del XIX Sec. questa località è isolata, “spersa sulla limosa spiaggia marina”: come la descrive Pietro Ferroni, perito del governo pontificio dopo un sopralluogo, iniziato sotto positivi auspici. “Mancano presidi di sanità marittima, edifici di servizio e una strada carreggiabile che la congiunga a Ravenna…” osserva la relazione del Ferroni. Terminato il nuovo inalveamento dei Fiumi Uniti, la vecchia foce, abbandonata all’erosione con il disfacimento della sua cuspide fociale, favorì la “chiusura” dell’ampia laguna che scambiava le sue acque col mare solo attraverso il canale Naviglio Corsini. Quest’ultimo aveva già separato le due lagune costiere: da una parte la pialassa del Piombone e dall’altra la Baiona, che anche nel nome, appare vasta e maestosa con la sua corona di pini sulla sponda occidentale. Linea di spiaggia, quest’ultima, consolidatasi fin dall’epoca teodoriciana. Il “Pirotolo” dove ora sguazzano i cigni, non è altro che il relitto del “Porto Lione”, poi “Portiglione”, che metteva in comunicazione con il mare il canale

Nella foto in basso a sinistra, un ritratto di Carlo Zingaretti e del fotografo Enzo Pezzi, in barca nella valle Baiona. Sono gli autori del volume sulla pialassa ravennate edito dal Girasole nel 2011, a cui si riferisce questo servizio. Tutte le foto sono di Enzo Pezzi.

La valle, mon amour: non solo foto suggestive ma una dichiarazione d’amore e d’intenti Enzo Pezzi e Carlo Zingaretti hanno girato tutta la pialassa, eleggendola a loro dimora, prendendo nota di ogni cosa: dalle loro indagini, approfondite e meticolose è uscita una pubblicazione che attraverso la fotografia (non si può dire che gli obiettivi non siano tali!) diventa appassionante e viva documentazione. Nasce così “La pialassa della Baiona” (2011, edizioni Il Girasole, Ravenna): il volume è firmato dagli autori e dal loro “blog”, “Ravennadomani” e reca un sottotitolo di “lavoro” per la laguna stessa: “Com’è e come potrebbe essere”. Zingaretti e Pezzi scrivono “lontano da luoghi comuni” e senza sentimentalismi di parte. Sono innamorati maturi e consapevoli, distanti quanto basta senza essere freddi. Conoscono i luoghi e ne indagano la complessità senza retorica, dando voce e spessore a vicende, spesso controverse, senza “ismi” manichei: illustrando e fotografando la Baiona nelle sue dimensioni spaziali e temporali.

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Nelle foto in alto: il capanno dell’isola degli Spinaroni, com’era (a sinistra) e com’è oggi. Rifugio dei partigiani durante l’ultimo conflitto per tutta l’estate e l’autunno del 1944, il luogo presentava caratteristiche diverse che ne favorirono la funzione di punto strategico e nascondiglio: la minor salinità delle acque aveva da tempo agevolato lo sviluppo di folti canneti. Anche il Capanno Garibaldi (foto qui a sinistra), nel corso del tempo, è stato ristrutturato e modificato. Nella foto in basso: Un esempio non edificante di “rifacimento” in muratura dei tipici capanni da pesca vallivi. Un facile acceso via terra in alcune zone della Baiona ha consentito a qualcuno di “abusare“ del privilegio di affacciarsi sulla valle realizzando una pseudo-villetta.

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Dalla nota dell’editore: «…un ambiente vicino ma lontanissimo nel tempo stesso, magico e sospeso fra terra e acqua…» «Non è il solito libro di belle fotografie sull’ambiente ravennate. Ci sono anche quelle, belle e tante, ma c’è dell’altro. Non è la solita dotta trattazione dei temi naturalistici ed ambientali delle nostre pinete e valli. No. Il libro focalizza la sua attenzione solo su di un luogo emblematico: la pialassa Baiona, che si estende fra Marina Romea, Porto Corsini e la pineta San Vitale. Mostra la Baiona bella ma mostra anche il livello di degrado a cui lì si è giunti per ignoranza o per non aver impedito certe degenerazioni. Cerca infine di spiegare cos’è una pialassa, perché è così importante, come “funziona”, come può essere rivitalizzata. Un libro un po’ fuori dagli schemi, per le persone che vogliono conoscere un ambiente vicino ma lontanissimo al tempo stesso, magico e sospeso fra terra e acqua. Il libro farà forse storcere il naso a qualche “esperto”. A noi è piaciuto proporvelo così, immaginando come quell’ambiente potrebbe essere salvato».

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Badareno, trasformato dagli eventi in lunga bassura valliva. Un approdo, le cui dimensioni sono tuttora valutabili durante una passeggiata. I luoghi sono ricchi di citazioni e memorie, ancora visibili, come “l’orma” del Badareno o “Padoreno” nelle cui pescosissime acque esercitavano il loro mestiere i membri della millenaria corporazione della Casa Matha. Con il consolidarsi di nuovi assetti geomorfologici, la pialassa della Baiona diventa uno straordinario ambiente naturale, favorevole alla riproduzione di quelle specie ittiche che amano acque salmastre e tranquille, influenzate da correnti di marea eppure calde e ricche di abbondante cibo. Anche l’avifauna, in particolar modo le anatre tuffatrici, come le folaghe e quelle di superficie, come il germano reale, è abbondante e colonizza i settori più o meno profondi e dal diverso livello di salinità. Ai confini del grande “Pineto abbaziale” di San Vitale, dove, per lunghi periodi, vige lo “jus pascendi et lignandi”, la pialassa della Baiona rappresenta un’estensione acquidosa del più antico, boschivo bene comune. I cacciatori trovano “terreni” assai diversi dalle abituali larghe “da lepri e fagiani”, mentre per chi reputa troppo vasto il mare, la laguna si offre ad una pesca “da posta” al riparo in un capanno raggiungibile da terra… È la cultura contadina che “colonizza” la Baiona: se ne percepisce perfino l’odore di salsiccia e braciole, quando la rete, ondeggiando malinconica, non restituisce nemmeno un po’ di acquadelle per la frittura. Un luogo vissuto (e regimato) dall’uomo, che scava canali rettilinei, utile se non indispensabile sistema vascolare di quella che fino alla fine degli anni Cinquanta, ha costituito l’apparato fociale del fiume Lamone. Una volta condotto a mare, fra Marina Romea e Ca-

Lo sguardo e gli interessi della comunità locale nelle parole del primo cittadino Il sindaco di Ravenna, Matteucci, scrive nella sua presentazione al volume: «La pialassa Baiona, con i suoi 1.100 ettari di estensione, costituisce un importantissimo patrimonio naturalistico classificato come zona umida di importanza internazionale, connotato da una valenza non solo naturalisticoambientale, ma anche socio-economica. Questa sua intrinseca duplicità di funzioni è anche plasticamente rappresentata dalla articolazione dei suoi confini: se nei lati nord ed ovest la pialassa confina con ambienti naturali quali il fiume Lamone e soprattutto il suggestivo scenario della pineta San Vitale, ad est confina con un insediamento urbano e, a sud, con l’area industriale-portuale. Si può anche affermare che la “naturale” configurazione della pialassa Baiona, come del resto della confinante Piomboni, è da sempre condizionata dalla presenza di un canale portuale, che costituisce anche l’unica via per il ricambio idrico con l’acqua di mare».

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L’autorevole parere scientifico dell’esperto di scienze ambientali Usi plurimi e complessità ambientale della pialassa, che sono al centro della prefazione del professore Giovanni Gabbianelli, ordinario di Geologia della Facoltà di Scienze Ambientali dell’Università di Bologna, sede di Ravenna. «Sin dalle prime battute mi sono trovato a leggere ed interpretare questo libro non solo per la bellezza delle sue immagini ma come una vera e propria riflessione di un “sistema ambientale complesso”, quale quello della Pialassa Baiona. Un sistema che, per varie e diverse ragioni, è riuscito a giungere sino a noi quale indiscusso patrimonio naturalistico, oltre che storicoculturale. Un libro in grado di sollecitare il lettore, attraverso la forza e la poesia delle immagini unite a poche, ma chiare e precise indicazioni, anche nel tentativo di proiettare verso il futuro l’obbligatoria salvaguardia di un territorio che mantiene ancora numerose peculiarità, caratteri distintivi, valori naturalistici e, non ultimo, diffuse suggestioni paesaggistiche».

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salborsetti, il fiume “che si perdeva nelle valli” dell’omonima Cassa di Colmata, i canali via Cerba, Fossatone e Taglio vengono regolati e collegati alla rete drenante. Lo stesso accade per quelli più antichi, citati fin dal XIV secolo, come gli scoli via Cupa, Valtorto e Canala, che dalla località “tre ponti” arrivano rettilinei in quella parte triangolare della pialassa, il “Pontazzo”, dove è situato il capanno Garibaldi. Non è difficile da qui immaginare lo sguardo dell’eroe dei due mondi che non aveva ancora abbandonato l’idea di raggiungere Venezia nell’agosto del 1849: uno specchio scheggiato che riflette gli umori del cielo, incorniciato dal nereggiare dei pini. Al di là di qualsiasi, pur accattivante e romantica visione, la Baiona ha le caratteristiche di un “non luogo”, la cui appartenenza socio-economica appare spezzettata e incisa dalle ferite cicatrizzate dello sviluppo infrastrutturale e industriale, della seconda metà del ‘900. Come un gigantesco “Giano bifronte” un ambiente lacustre appare, quasi protetto da un “muro” costituito da una strada, via Baiona, sovrastata da una sorta di filo spinato: l’elettrodotto che allunga i suoi grossi cavi verso la civiltà, un traliccio dopo l’altro. Questo macro-contrasto non isola la laguna, togliendola da quella ragnatela antropica maggiormente evidente al suo interno, negli angoli allo sbocco dei canali, dove pali e lamiere sostengono strutture, tanto decontestualizzate quanto fatiscenti e abbandonate. Le aggressioni non derivano soltanto dalle cattive abitudini di alcuni frequentatori della pialassa, altri problemi vengono dalle campagne a nord-ovest di Ravenna. I canali portano acque contenenti sostanze azotate, provenienti dal dilavamento dei terreni coltivati, apportando sostanze chimiche, residui di fitofarmaci e colifecali. Eppure, nonostante tutto, la Baiona resiste e rifiorisce un anno dopo l’altro, misteriosa eppure sotto gli occhi di tutti, lontana da grandi folle e luccicante dietro le case di Marina Romea. Fra il prato barenicolo e i capanni del Taglio, sull’argine che segue il “chiaro del Comune” o sbucando all’improvviso dalla Buca del Cavedone (e dalla Storia) si può scoprire un senso di pace al quale è piacevole abbandonarsi con dolcezza.


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Quando l’arte diventa

gnomonica

Ogni realizzazione gnomonica, dalla più semplice meridiana fino al più complesso orologio solare, racchiude in sé un fascino artistico già intrinseco nell’armonia del tracciato geometrico che è generato dalla meccanica celeste. Questa sottile eleganza ha da sempre attratto molti artisti che si sono cimentati nella decorazione, ma a volte anche nella realizzazione, di un’opera sul tempo.

di Mario Arnaldi

Uno degli orologi solari di Monclassico, in Val di Sole. L’opera è stata eseguita sull’Hotel Holiday dall’artista francese Yives Brodà (foto: S. De Manincor).

CITTÀ E TEMPO

Gli esempi sono numerosi già dall’antichità – pensiamo solo al ravennate Ercole Orario – ma anche nel Medio Evo ci furono artisti ignoti che vollero arricchire il semplice orologio solare con un intervento artistico che non potesse passare inosservato. Gli esempi sono numerosi: basti pensare al bellissimo Adolescent au cadran solaire o al Homme de la Tour, o a l’Astrologue au cadran solaire, tutti sulla cattedrale di Strasburgo, o all’angelo della cattedrale di Amiens o, ancora più vicino a noi, al “portatore di orologio solare” sulla cattedrale di Piacenza. Famosissimi artisti, come Abrecht Dürer o Leonardo da Vinci, addirittura studiarono la gnomonica; Dürer, per esempio, dedicò un capitolo del suo libro Alle Bücher des weitberühmbten und Kün streichen Mathematici und Mahlers… alla co-


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struzione degli orologi solari, mentre Leonardo compose uno dei motti più antichi che conosciamo: «Sol per te le mie ore son generate». Nel Cinquecento molti artisti misero il loro talento al servizio della gnomonica; voglio qui mostrarne solo alcuni. Un esempio molto bello è il complesso di orologi solari dipinto da Francesco Cugiano di Chieri sulla casa della famiglia Cavassa (oggi Casa Piano) a Carmagnola (To) nel 1557. Tre sono gli orologi dipinti sulla casa per altrettanti sistemi orari: le hore italiane, le hore di Babilonia o vero dal levar [del sole] e le hore di Francia. Trenta anni dopo l’architetto bolognese Ottaviano Mascherino costruì la Torre dei Venti in Vaticano, dove Egnazio Danti, domenicano e uno dei principali promotori della riforma gregoriana del calendario, tracciò una linea meridiana che in seguito impose il nome alla sala stessa. Lo scopo principale era quello di mostrare al Papa l’errore ormai evidente del calendario giuliano. A tal proposito ricordo che la meridiana non segna tutte le ore, come fa invece l’orologio solare, ma solo il passaggio del Sole al meridiano locale (cioè il vero mezzogiorno). Una meridiana come quella che il Danti costruì all’interno della sala nella Torre dei Venti oggi è detta

Insequenza dall’alto a sinistra: L’Adolescent au cadran solaire, su un contrafforte della cattedrale di Strasburgo (foto P. Ransom). La figura acefala con l’orologio solare, posta su una lesena del lato sud della cattedrale di Piacenza (foto M. Arnaldi). Il piccolo disegno di un orologio solare fatto da Leonardo da Vinci con il motto «Sol per te le mie ore son generate». (ms. Windsor 19106). Il grande complesso gnomonico di Carmagnola (To), dipinto nel 1557 da Francesco Cugiano. (foto F. Garnero). Affresco eseguito da Matteo Bril nel 1587 nella Torre dei Venti, in Vaticano. Il foro gnomonico è stato inserito nella bocca di Austro, vento del Sud (foto G. Paltrinieri). L’orologio solare disegnato da Salvador Dalì in rue St Jacques a Parigi.

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“a camera oscura”, proprio perché, come in una camera stenopeica, un raggio di sole penetra attraverso un foro praticato nella muratura andando a colpire la linea del mezzogiorno con un disco di luce. In molti casi attorno al foro, cosiddetto “gnomonico”, si dipingeva un Sole raggiante (vedi, per esempio la grande meridiana in San Petronio a Bologna), ma nel nostro caso il foro diventa parte integrante di un bell’affresco di Matteo Bril, un fiammingo che assieme a Nicolò Circignani (detto il Pomarancio) e a Matteino da Siena decorò gli ambienti di quella sala. Il raggio di sole entra nella stanza attraverso la bocca di Austro, il vento del Sud che nella scena raffigurata porta in salvo la barca di San Pietro sbattuta dalle onde agitate dal vento di Tramontana, tradendo una nemmeno tanto velata allusione alla Controriforma avviata in quegli anni come risposta alla Riforma Protestante Nord-Europea. Anche gli aspetti filosofici del tempo hanno coinvolto numerosi artisti: in epoche più vicine a noi, un esempio fra i più noti è quello di Salvador Dalì (i suoi orologi li-

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Sotto: The Cicle of Life, bellissima sfera armillare realizzata da Paul Manship per il campus della Phillips Academy di Andover, Massachusetts. (foto R. Koolish). A destra: Grande orologio solare equatoriale realizzato da Henry Moore per l’Adler Planetarium e Museo Astronomico di Chicago, Illinois.


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quefatti sono lì a testimoniarlo). E da lì il passo verso la costruzione di un orologio solare è breve. Nel 1966, il maestro ne realizzò uno a Parigi, per alcuni amici che avevano un piccolo negozio al numero 27 di Rue Saint Jacques. L’orologio è inciso in una lastra di marmo chiaro e murato sulla parete della casa ad angolo. Un volto disegnato all’interno di una forma a conchiglia ricorda il nome della strada e commemora il cammino di tanti pellegrini in viaggio verso San Giacomo di Compostela. Nello stesso anno in cui Dalì realizzava il suo orologio solare parigino, moriva lo scultore americano Paul Manship, autore di numerose sculture molto legate alla filosofia del tempo e alla gnomonica vera e propria. Fra queste opere ricordo la bellissima The Cicle of Life, una sfera armillare realizzata per il campus della Phillips Academy di Andover, Massachusetts, o il Time and the Fates Sundial del 1939-1940, o ancora lo gnomone dello scaphe in Central Park a New York. Anche lo scultore Henry Moore realizzò una serie di orologi solari equatoriali di varie dimensioni, alcuni veramente monumentali come quello esposto nel piazzale antistante l’Adler Planetarium & Museo astronomico di Chicago, Illinois. Così scriveva Henry Moore

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in una lettera a Harry Brooks di Wildenstein & Co, il 7 gennaio 1970 spiegando come nacque l’idea di fare un orologio solare: «mi fu chiesta una scultura da mettere di fronte ad un nuovo edificio a Londra dove il giornale The Times aveva i suoi quartieri generali. Ci pensai su, ma decisi che il Times faceva così tanto parte dell’Establishment inglese che una tipica scultura di Henry Moore non ci sarebbe stata bene, qualcosa di più particolare avrebbe fatto migliore figura. Ne discussi con i proprietari del giornale e con l’architetto della nuova struttura, e loro furono d’accordo con me, che un orologio solare sarebbe stato più appropriato. Fortunatamente la zona dove doveva essere collocata la scultura era esposta a sud, il che rendeva l’orologio solare in grado di mostrare il tempo e in più manteneva una connessione con il nome The Times. L’architetto m’inviò un libro sugli orologi solari e sui principi del loro funzionamento … Ci sono innumerevoli tipi di orologi solari, ma il più semplice è quello detto “ad arco” (l’equatoriale) e questo fu quello che scegliemmo». Sebbene i committenti di un orologio solare siano spesso privati cittadini, in alcuni casi è l’intera comunità, magari attraverso l’impegno di un singolo, a richiederne la realizzazione. Questo è il caso di quei paesi che da un po’ di tempo si fregiano del titolo di “Paese delle meridiane” proprio perché arricchiscono costantemente i muri e le piazze cittadine di sempre nuove realizzazioni gnomoniche. Di località simili ce ne sono diverse, ma il piccolo villaggio medievale di Coaraze, in Provenza, ha un primato tutto suo: quello di aver saputo coinvolgere, già dai primi anni Sessanta del secolo appena trascorso, grandi personalità di tutte le arti nella realizzazione dei suoi numerosi orologi solari ceramici. Scultori, pittori, registi, musicisti, poeti, ecc. si sono adoperati in prima persona per adornare i muri dell’intero borgo. Ecco quindi che Jean Cocteau, Mona Cristie, Georges Douking, Gilbert Valentin, Angel Ponce de Léon, Henri Goetz, Sacha Sosno e altri ancora hanno progettato e costruito una bella serie di orologi solari vivacissimi e molto personali. Anche in Italia esiste un paese che ha fatto suo, sebbene con più modestia, l’esempio di Coaraze: è Monclassico, in Val di Sole, nel Trentino. Dal 2003, l’associazione culturale “Le Meridiane” di Monclassico ha promosso ogni anno la costruzione di un certo numero di orologi solari, il cui calcolo

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è stato delegato ad uno gnomonista esperto (fino a poco tempo fa era incombenza dello scomparso Don Alberto Cintio di Fermo, che fu anche uno dei primi promotori di questa bella iniziativa), mentre la realizzazione pittorica o scultorea è stata affidata esclusivamente ad artisti, più o meno noti. Il risultato non si manifesta soltanto nell’abbellimento delle case del paese con opere che il continuo spostamento dell’ombra dello stilo sulla raggiera oraria rende costantemente vive, ma anche in un arricchimento culturale e in un’importante attrattiva turistica. Un’operazione simile, ma non uguale, fu fatta nel 1990 anche Pennabilli (Rn). Tonino Guerra, di ritorno da un viaggio in Russia, essendo rimasto affascinato da un piccolo e vecchio orologio solare in Georgia, decise di proporre al paese di Pennabilli la costruzione di sette orologi solari. L’idea iniziale non aveva grandi pretese grafiche, si accontentava della poesia che simili manufatti emanano

Nella pagina a sinistra: in alto a sinistra: orologio solare con lucertola realizzato per il paese di Coaraze (Provenza) da Jean Cocteau (foto K. Salvesen). In alto a destra: orologio solare di Tonino Guerra a Pennabilli (Rn), dipinto da Mario Arnaldi (foto M. Arnaldi). Al centro: orologio solare ceramico realizzato per il paese di Coaraze (Provenza) da Henri Goetz (foto K. Salvesen). In basso: orologio solare ceramico realizzato per il paese di Coaraze (Provenza) da Sosno (foto K. Salvesen). In questa pagina: in alto a sinistra: orologio solare dell’artista e gnomonista Lucio Maria Morra a Centallo (foto L. M. Morra). In alto a destra: orologio solare della gioielleria Ponzi a Bagnacavallo (Ra), progettato da Giovanni Paltrinieri e arricchito graficamente dall’artista Remo Brindisi (foto G. Paltrinieri). In basso: gigantesca costruzione gnomonica di David Boeno nel Parco di Beauregard a Rennes (foto D. Boeno).

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ma, dopo un breve consulto, l’idea mutò in meglio: si decise di cercare opere di noti artisti e di utilizzarle nella realizzazione dei vari orologi. L’incarico di calcolarli fu affidato a Giovanni Paltrinieri, gnomonista di Bologna, e allo scrivente quello di dipingerli. Uno dei sette orologi fu ideato dallo stesso Tonino Guerra che mi affidò l’incarico di eseguirlo sia nel calcolo sia nella pittura. Quello è l’unico orologio solare del paese che può entrare a pieno titolo fra gli orologi solari cui questo breve articolo è dedicato. Per gli altri, infatti, il concetto cambia, perché non si tratta di orologi solari fatti o decorati da artisti ma di reinterpretazioni o citazioni di opere che non erano nate con l’intenzione di essere inserite in un orologio solare. L’attrazione verso la gnomonica è grande e continua a contagiare altri artisti che sempre più spesso collaborano con gli gnomonisti. Nel 1991 Remo Brindisi accetta di arricchire con un suo disegno l’orologio solare a ore oltramontane e babilonesi tracciato da Giovanni Paltrinieri di Bologna (gpaltri@tin.it) per la gioielleria Ponzi a Bagnacavallo (Ra), e nel 1994 il ceramista Elio Schiavon, sempre per Paltrinieri, decora le due facce dello gnomone del grande orologio monumentale di Piazza della Pace in Abano Terme. In alcuni rari casi l’artista stesso è anche gnomonista, come Lucio Maria Morra (info@luciomariamorra.com) di Fossano che con grande maestria traccia i suoi orologi solari sui muri delle case piemontesi. Anche se l’elenco sarebbe certamente ancora lungo, vorrei concludere con le opere di altri due artisti che hanno trovato nelle leggi della gnomonica un terreno fertile per i loro elaborati artistici: Kate Pond e David Boeno. Katherine (Kate) Pond vive nel Vermont (www.katepond.com). Spesso coadiuvata dallo gnomonista Bill Gottesman, è autrice di numerose sculture gnomoniche di grande essenzialità. Alcune fra queste (Zigzag, Come Light – Visit me o Skywatch) mi affascinano in particolar modo. David Boeno (www.davidboeno.org), fotografo e artista poliedrico di Parigi, invece, ama giocare con la luce che, con l’ausilio di grandi prismi, converte in coloratissimi bagliori che mutano tonalità e luogo secondo l’incidenza dei raggi solari. L’effetto della luce rifratta sembra essere un must nelle sue opere; quella che mi affascina in particolar modo è stata realizzata fra gli anni 2001 e 2005 nel Parco di Beauregard a Rennes. Arte, quindi, ma anche architettura, monumento e arredo urbano. La gnomonica si dimostra essere una scienza dalle mille sfaccettature, capace di coinvolgere aspetti scientifici e artistici più disparati per fonderli in un’unica opera finale, capace sempre di stupire. marnaldi@libero.it

In alto: lo gnomone del grande orologio solare monumentale di Giovanni Paltrinieri ad Abano Terme, decorato dal ceramista Elio Schiavon (foto G. Paltrinieri). In basso: scultura gnomonica di Katerine Pond dal titolo “Skywatch” (foto K. Pond).

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MAGGIO

2013


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La rassegna ideata da Emilio Il ruolo dell’Architettura Rambelli contemporanea: prosegue il 18 di aprile

ospiti delle conferenze nelle cantine di Palazzo con l’esposizione deiRava progetti

e delle idee dello studio faentino, guidato dall’architetto Gabriele Lelli

gli architetti dell'Estudio [SIC] di Madrid Prosegue la serie di conferenze promosse e organizzate dal questa rivista e dal Gruppo Ravimm, con il patrocinio del Comune di Ravenna e Ravenna 2019, curate dall’architetto Emilio Rambelli di Nuovostudio. Giovedì 16 maggio, alle 21, nelle Cantine di Palazzo Rava ((via di Roma 117, a Ravenna) è in programma il quarto appuntamento del ciclo con gli architetti spagnoli Esaù Acosta, Miguel Jaenicke e l'italiano Alfredo Borghi che parleranno dei progetti dello Estudio [Sic] di Madrid. Si tratta di uno studio professionale che si occupa di innovazione dell’architettura, della città e del territorio, tramite una piattaforma trasversale, proattiva e impegnata. Concentra la sua attività nella ricerca e sviluppo di problematiche relative a processi dinamici dell’architettura e del paesaggio, incorporando al processo la collaborazione

LO STATO DELLʼARTE

trasversale tra diverse discipline interessate alla città e alle sue attuali necessità urbane. Esplora un’architettura basata sulla creazione e valorizzazione dell’identità architettonica e urbana; trasferimento allo spazio pubblico per il recupero e sostenibilità nel tempo; la comunicazione metropolitana e la mobilità territoriale, cercando una gestione e partecipazione più efficace. Nasce dalla collaborazione dei suoi soci fondatori: Esaú Acosta Pérez, Mauro Gil-Fournier Esquerra e Miguel Jaenicke Fontao, architetti laureati presso la Escuela Técnica Superior de Arquitectura de Madrid, che lavorano insieme dal 2002. Alfredo Borghi si è laureato presso l’università di Ferrara nel 2006 con la tesi di Laurea “Paesaggi culturali perduti, le mura nazarí e gli orti dell’alberzana di Granada” sviluppata in collaborazione con la Escuela de arquitectura superior de Granada.


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Quarto incontro, il 16 maggio, per la rassegna ideata da Emilio Rambelli e promossa dalla nostra rivista, dedicata alla progettazione italiana ed europea di qualità. Protagonisti gli spagnoli Esaù Acosta e Miguel Jaenicke. Con la partecipazione di Alfredo Borghi, professionista italiano che ha collaborato con Estudio [SIC] e da anni lavora in Spagna

Ha ricevuto due borse di studio internazionali, la prima nel 2003 in ambito accademico (progetto Socrate Erasmus) presso la Escuela de arquitectura superior de La Coruña e la seconda nel 2008 in ambito professionale (progetto Leonardo da Vinci) presso estudio FAM (Madrid). La costante crescita professionale è dovuta alla ricerca personale e alle collaborazioni con Hermanitos verdes (It) 2007, BBstudio (It) 2007, estudio FAM (Es) 2008-2009, estudio [SIC] (Es) (con cui collabora dal 2009), che vantano premi e pubblicazioni in ambito architettonico e urbanistico internazionale. Attualmente vive e lavora a Madrid. La serie di conferenze è resa possibile grazie al fondamentale sostegno del gruppo bancario Banca Mediolanum e delle aziende ravennati Tozzi Industries, Ciicai, Tavar, Copre e Nadep-Ovest. Gli appuntamenti proseguiranno poi giovedì 20 giugno, sempre alle 21 alle cantine di Palazzo Rava, con l’urbanista faentino Ennio Nonni che parlerà di “Una nuova urbanistica è possibile”?

Alcune foto e modelli di progetti ideati e realizzati da Estudio [SIC] di Madrid, di cui si parlerà in occasione della conferenza del 16 maggio alle cantine di Palazzo Rava a Ravenna.

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Cosa è in questo momento la qualità urbana? Le risposte progettuali dello Studio Lelli e Associati di Faenza a proposito di «abitare nella città normale»

di Domenico Mollura Il terzo appuntamento dell'iniziativa "Il ruolo dell’Architettura contemporanea" è stato focalizzato sull'esperienza progettuale di uno studio italiano, romagnolo per la precisione. Si è trattato del racconto per immagini dell’attività dell'architetto Gabriele Lelli, nella "continuità di ricerca" inaugurata con Davide Cristofani e proseguito con gli attuali soci dello Studio Lelli e Associati Architettura: Roberta Bandini e Andrea Luccaroni. La serie di incontri presso le cantine di Palazzo Rava, promossa dalla nostra rivista con il Gruppo Ravimm e curata da Emilio Rambelli, torna in Italia per mostrare come un'esperienza “locale” possa essere interessante allo stesso modo degli studi di progettazione esteri presentati nelle prime due occasioni. Basterebbe un rapido sguardo all'elenco dei premi e delle pubblicazioni che hanno per protagonista l'attività dello studio faentino per comprendere la sua posizione di rilievo nel panorama dell’architettura contemporanea italiana. L’architetto Lelli e l’architetto Bandini hanno voluto dare all’incontro il titolo "Abitare nella città normale" e come sottotitolo il quesito: «cosa è in questo momento la qualità urbana?». La risposta si ritrova nell’architettura “costruita” seguendo alcuni principi guida elencati dallo stesso Lelli:

Sopra: clinica Villa Azzurra a Riolo Terme (foto Ciampi). A lato: villaggio Fornace del Bersaglio a Faenza (foto Alberto Muciaccia)

LO STATO DELLʼARTE


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Comune di Ravenna

Il ruolo dell’Architettura contemporanea Panbianco

Ciclo di conferenze organizzate e promosse dal Gruppo Ravimm - Le Cantine di Palazzo Rava in collaborazione con la rivista dell’abitare TrovaCasa Premium (edizioni Reclam), con il patrocinio del Comune di Ravenna e Ravenna 2019 Coordinatore Emilio Rambelli

Tarroni

Calendario 2013 Tutti gli incontri si terranno presso Le Cantine di Palazzo Rava Via di Roma 117 - Ravenna. Inizio alle ore 21

Giovedì 21 febbraio

Filippo Pambianco parlerà di Studio G.V. Consuegra - Siviglia

Giovedì 21 marzo

Michele Tarroni parlerà di Studio Stanton Williams - Londra

Giovedì 18 aprile

Gabriele Lelli parlerà di Studio Lelli e Associati - Faenza

Lelli

Borghi

Nonni

Giovedì 16 maggio

Alfredo Borghi parlerà di Studio Estudio Sic - Madrid

Giovedì 20 giugno

Ennio Nonni parlerà di Una nuova urbanistica è possibile? Bonini

Giovedì 3 ottobre

Gianluca Bonini parlerà di Nuovostudio - Ravenna

Giovedì 31 ottobre

Antonella Ranaldi parlerà di Restauro contemporaneo

Giovedì 21 novembre

Ranaldi

Daniela Moderini parlerà di Paesaggio Urbano - Venezia

Info: Ilaria Siboni - siboni.ilaria@gmail.com - Cell. 338 1584910

Moderini

TROVACASA PREMIUM TROVACASA PREMIUM


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Sopra: residenze in via Padovani a Imola (foto Alberto Muciaccia). In basso: la lampada Zeta. Nella pagina a fianco a sinistra: residenze in via Cesarolo- Testi a Faenza (foto Pietro Savorelli); a destra: casa Carlo Lucarelli, progetto allestito alla Biennale di Venezia nel 2002.

«…bellezza, sostenibilità, identità, green, smart, low cost, km zero, essenzialità, durevolezza, trasparenza, responsabilità». Lelli precisa che "l'innovazione" – specie in architettura – non si traduce (o meglio non dovrebbe tradursi) nella strenua ricerca dell'inedito, della cosa strana. Piuttosto dovrebbe essere il frutto di un preciso percorso di ricerca basato sull’attenta lettura di una realtà complessa come la città paragonata ad una raccolta di modi diversi "di stare insieme". Il racconto si snoda a cavallo della via Emilia e si concentra su temi ben definiti: l’architettura sanitaria, la residenza, l’edifico a torre, il teatro all’aperto. Clinica Villa Azzurra (Riolo Terme, 19962000) è una clinica privata nella quale occorreva stabilire la giusta distanza dalla domesticità, evitando la freddezza indifferente di un tradizionale luogo di cura ma garantendo al contempo tutti i requisiti sanitari e di sicurezza della persona indispensabili per tale struttura. La soluzione – dichiara Lelli – è stata declinare nel caso specifico il modello del grande albergo, ovvero di un luogo ricettivo pensato per degli ospiti e non dei semplici degenti. A ciò si arriva con forme e volumi diversi, con l’autenticità dei materiali, la semplicità dei percorsi, la facilità di comprensione delle diverse parti principale componente essenziale della serenità dell'edificio. Per tale motivo le camere a destinazione ospedaliera sono protette e dotate di aperture tradizionali, mentre gli spazi di soggiorno, aperti verso la vallata sono contenuti in un edificio trasparente all'esterno del quale prevale l'archetipo del trilite che regge un'ampia copertura aggettante. Per il tema della residenza è stata presentata un’ampia casistica: per ragioni di spazio se ne citeranno solo alcuni esempi. Le Residenze via Padovani (Imola, 2005-2008) sono costituite da 4 corpi di fabbrica paralleli e uniti a coppie, posti sul lotto in modo trasversale al fine di garantire la permeabilità (funzionale e visiva) tra il parco retrostante e la strada principale. Il “taglio” dei singoli appartamenti permette l’affaccio di una loggia (rivestita in multistrato marino) verso il verde. Inoltre il disimpe-

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gno che distribuisce le diverse unità si proietta sul medesimo parco grazie alla grande finestra posta alla sua estremità. La gabbia strutturale è stata pensata per alleggerire ulteriormente la costruzione di questi “edifici grafici” attraverso l’assenza di elementi portanti in vista, la traforazione dei piani verticali con pieni e vuoti disallineati e la copertura ridotta ad una esile linea orizzontale a marcare in alto il volume dei corpi di fabbrica edifici grafici. Il lavoro artigiano (per la recinzione e i cancelli di ingresso), ricorrente anche in altre opere, rende davvero uniche le costruzioni liberandole dalla logica dei dettagli unicamente standard. Il recupero a fini residenziali di un’area industriale dismessa (un’ex cava di argilla divenuta poi fornace per la produzione di mattoni) pone la questione di come abitare oggi in campagna. La soluzione – definita dai progettisti come “condominio di campagna” – prevede un villaggio composto da 34 case a patio ad una sola elevazione fuori terra in muratura portante, separate da percorsi pedonali privati. Nella Fornace del Bersaglio (Faenza, 2012) l’ampiezza del lotto e il numero delle abitazioni permette di variare notevolmente il “taglio” delle residenze che si presentano tutte diverse ma unificate dall’uso delle invarianti di progetto e dal recinto che le “protegge”. Nel primo caso si ritrova la ripetizione per ogni villa di elementi come il patio, il portico (che danno sempre agli interni un doppio affaccio esterno) e il tetto giardino; nel secondo caso il tema del muro di cinta viene declinato trasformando un tipico elemento edilizio in un segno distintivo, dalla linea frastagliata che innalza o attenua l’orizzonte del patio in funzione dell’effetto da ottenere (apertura o chiusura verso il contesto). I contenuti tecnici fanno di questa “proposta di abitare collettivo” un insediamento sostenibile tanto da meritare il “Premio Innovazione Amica dell’Ambiente” 2012 di Legambiente. In questi primi due casi i progettisti hanno anche curato il design degli interni, votato prevalentemente al decoro e all’eleganza a basso costo con attenzione alla flessibilità di spazi con superficie limitate. Residenze di via Cesarolo-Testi (Faenza, 2008): 13 diversi corpi di fabbrica strutturano un’area a margine del centro urbano, in un’ampia area al confine con il tessuto rurale. Per tale motivo lo schema netto, tanto degli edifici che del loro reciproco rapportarsi dei due casi precedenti, lascia spazio ad un andamento più organico che dalla pianta passa senza esitazioni anche agli alzati. Gli schemi poligonali si alternano a quelli “amebici”, torna (per alcuni dei blocchi) il tema del trilite a formare l’ossatura della copertura a sbalzo sorretta da esili pilastri a formare un portico a tutt’altezza. I fronti bianchi, lisci (ove non “costruiti” con pannelli lignei alternati) sono erosi dalle logge, le cui tinte richiamano i colori delle tovaglie romagnole, utilizzate per creare spazi in cui ci si rapporta con l’intorno pur conservando i canoni della riservatezza, in una giusta dimensione dello spazio privato. L’economicità delle co-

struzioni, il loro posizionamento semiperiferico, lo sfruttamento degli apporti solari, la presenza di percorsi pubblici pedonali – in una parola la “ricerca architettonica” che sorregge il progetto – ne fanno una sorta di piccola romagnola Siedlung (Quartiere residenziale diffuso in particolare in Germania nei primi decenni del ‘900, nel quale confluivano gli esiti delle sperimentazioni razionaliste nel campo dell’architettura e dell’urbanistica, nda). La Torre per uffici Top Code (Imola, 2006) è costruzione iconica, posta lungo un’arteria che non permette attenzioni sui dettagli principali. Per tale motivo il volume stereometrico diventa segno con la gradazione delle trasparenze che richiamano un codice a barre. I ricorsi orizzontali mediano l’altezza (51 metri per 14 livelli) e celano una struttura portante articolata. La tipologia dell’edifico a torre viene rivista spostando il blocco “servizi” in cemento armato dal centro su uno dei lati (quello Sud) mentre la rimanente ossatura in telai in acciaio e sostegno puntiformi arretra rispetto ai fili esterni per garantire la “pulizia” (e la libertà, secondo una delle regole auree del Razionalismo) dei fronti. Il blocco servizi, grazie alla sua “massa”, protegge gli interni dell’irraggiamento diretto, mentre il lato opposto è schermato da una doppia vetrata strutturale con un sistema di circolazione dell’aria. Entrambe le soluzioni contribuiscono a regolare il microclima di questo parallelepipedo “grafico” (il bianco e il nero) che fa da contrappunto all’orizzontalità della strada e della grande pianura che attraversa. Il Teatro Spada (Brisighella, 2005-2009) è un anfiteatro progettato dal gruppo Baldisserri-Sarti-Aymonino negli anni ’70 rimasto, tuttavia, incompiuto. Per l’adeguamento normativo e il completamento della struttura teatrale con la realizzazione dei locali ancora mancanti (camerini, regia, servizi igienici) i progettisti scelgono ancora una volta il legno. I nuovi volumi, che esaltano il complesso con il loro colore caldo, chiudono la platea dell’anfiteatro, per definizione lasciata indifesa alle intemperie, come un abbraccio che pare proteggere la gradinata (in un ipotetico “interno urbano”), chiedendo al contesto naturale e storicizzato di accoglierli come parte del tutto. Da segnalare, infine, all’interno del percorso di ricerca dello Studio Lelli e Associati Architettura: l’allestimento “Architettura dello spazio primario” per la 8° Biennale di Venezia (2002) in cui è stato immaginato uno spazio minimo (e introverso) per il giallista Carlo Lucarelli come una sorta di osservatorio protetto verso “…il mistero, il sospetto, la normalità presunta”, dimensioni che si traducono in storie da scrivere; la lampada Zeta (2005), ottenuta piegando una striscia rettangolare di cartone preforato nel quale poter alloggiare lampada e portalampada (oggetto elegante di design e soluzione per corpi illuminanti provvisori); gli allestimenti urbani, essenziali e discreti, in occasione del Festival dell’Arte Contemporanea di Faenza (2008-2011)

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Aristocratico e senza tempo: Alla scoperta delle eccellenze dell’orto. Ecco i consigli dello chef Faccini per conoscere ingredienti, cotture, attrezzature, caratteristiche degli alimenti e vivere appieno uno dei momenti più appaganti dell’abitare In cucina come in altri spazi dell’abitare la primavera ha portato colore, fragranze e sapori dell’orto. Fiori recisi, piante ornamentali in vaso, tenere coltivazioni di aromatiche da balcone sono elementi che rinnovano gli spazi di casa, mentre in cucina ancora una volta lo chef Stefano Faccini smette i panni di consulente di ristoranti, alberghi, di aziende e quelli di insegnante, per indossare la veste dell’esperto a disposizione dei lettori di Trovacasa Premium. Sentita come valore imprescindibile, la stagionalità impone alcuni protagonisti in tavola. «È tempo di asparagi – assicura Faccini –. Il più aristocratico fra i prodotti dell’orto ha sempre goduto di larga fama. Prima spontaneo poi coltivato, in Egitto per esempio, veniva consacrato alle divinità. Benché non presente nel mito e nella simbologia antica, era tenuto in altissima considerazione tanto in Grecia quanto a Roma. Fu citato da Catone e Plinio che decantò quelli di Ravenna, allora una delle zone di coltivazione più celebri per la coltivazione degli asparagi; anche Apicione trattò in una ricetta con uova, erbe aromatiche e l'immancabile garum, una salsa a base di pesce. Perfino Orazio lo immortalò in una delle sue satire, quella contro i parassiti, nella quale lo descrisse servito con l'aragosta». Una storia senza tempo quella dell’asparago che Faccini riassume per tappe innestandola con considerazioni legate al cambiamento dei costumi e all’evoluzione sociale. «Nel Medioevo seguì il destino di quasi tutte le verdure e visse una stagione di emarginazione da parte della nobiltà ricca e potente,che lo snobbava in ossequio al perverso consumo di carne e vini drogati, in quel tempo infatti,nelle corti e nei castelli, solo questi cibi erano considerati degni di essere serviti. Fu solo durante il Rinascimento che l'asparago riprese finalmente il posto che gli spettava sulle tavole d'Europa. Il Platina descrisse come gustarli al meglio: mangiati caldi con poco sale e "butirro". Ne elogiava inoltre le virtù afrodisiache, beneficio anelato allora come oggi». In poco tempo guadagnò le tavole d'Europa, consacrato nelle nature morte della pittura seicentesca, ripetuta-

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l’elegante asparago mente rappresentato anche nelle allegorie di Arcimboldo. «Testimonianze scritte – spiega lo chef - riportano una sua semplicissima ed esemplare preparazione immutata nei millenni, caso rarissimo, se non unico nella storia della gastronomia. Cotti in acqua, ancora di turgida consistenza, e conditi con burro caldo, apparvero infatti nell'alimentazione dei popoli transpadani ben prima dell'era cristiana. Oggi, nelle aree dove viene coltivato, è sempre simile a se stesso, piatto, arricchito da formaggio grana grattugiato e, a volte incoronato dall'uovo; una prelibatezza nota a tutti. È la verdura più preziosa dell'orto e da sempre una delle più costose, ed è il vegetale più ricco di fosforo e di una sostanza che gli conferisce da cotto un sapore ineguagliabile». Dalla storia alle buone prassi in cucina e alla chimica degli alimenti. «Non dimentichiamoci dell'Asparagina di pineta – esorta Faccini -come per gli asparagi sarebbe opportuno cuocerla subito dopo la raccolta perché la pianta comincia dopo il raccolto produce fibre dure e legnose di difficile digestione. Quindi gli asparagi vanno colti e mangiati, perché le cellule nelle verdure continuano a funzionare anche se sono separate dalle loro fonti di nutrimento e di acqua. Gli asparagi ben si prestano ad abbinamenti con

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burro e formaggi o uova, o serviti con abbinamento di salse grasse come la maionese o l'olandese o la besciamella. Nelle salse per condire le paste o i risotti si consiglia un piccolo fondo di pancetta o lardo o abbondante condimento con materie grasse. Ottimo accostamento con seppie o calamari o nelle torte salate a base formaggio, uova e panna. A titolo di curiosità è bene ricordare che dall’asparago fu isolato nel lontano 1806 il primo aminoacido trovato in natura: quello denominato non per caso asparagina. Uno studio recente ha dimostrato che tutti coloro che mangiano asparagi producono escrezioni di mercaptano (composto organico di atomi di carbonio, zolfo e idrogeno), cambia però da una persona all'altra la capacità di avvertirne l'odore. La metinina, un amminoacido contenente zolfo, è sospettata di essere il precursore del mercaptano negli asparagi».

Per rispondere alle domande più comuni in cucina: Perché succede? Dove sbaglio? Cosa mi manca? Quale utensile usare, quale attrezzatura? E per consulenze professionali, lo chef Faccini è a disposizione dei lettori all’indirizzo e-mail: faccini_stefano@libero.it

DITELO CON I FIORI

FRITTELLE DI GLICINE: ingredienti: - 8 grappoli di glicine fioriti - 60 g di maizena - 40 g di farina di riso - 210 g di acqua gasata fredda - sale q.b

procedimento: mescolare le farine, l'acqua e il sale. Lasciare riposare la pastella per 5 minuti, quindi intingervi il glicine. Friggere con attenzione, se la frittella cuoce troppo perde il proprio profumo, se troppo poco non diventa abbastanza croccante. Il glicine deve essere fiorito ma non troppo, altrimenti i fiori cadono e si perdono.

PENTOLE E PROVETTE

Diviso fra l’insegnamento all’istituto professionale di Stato “Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera” di Cervia, i corsi di alta formazione, le consulenze per alberghi, ristoranti e aziende alimentari, Faccini, si è fatto promotore di una nuova cultura gastronomica mentre vanta esperienze nella cucina di Paul Bocuse, di Fredy Girardet in Svizzera, ed è Chef Eurotoque, Commandeur de la Commeanderie des Cordons Blues de France e discepolo di August Escoffier.


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Casa di campagna (foto di Alberto Giorgio Cassani).

di Marina Mannucci

In data 3 e 4 maggio si è tenuto presso la Sala Muratori della Biblioteca Classense di Ravenna il Seminario di Studi su “Femminismi musulmani. A proposito di Gender Jihad”, promosso dall’ Associazione Femminile Maschile Plurale, LIFE Onlus, Comune di Ravenna-Assessorato alle Politiche e Culture di Genere, Cgil Ravenna Rete Donne. Il Seminario ha analizzato le principali correnti di pensiero del femminismo musulmano, con particolare attenzione all’area mediterranea, attraverso le voci di studiose e attiviste, per comprenderne i fondamenti comuni, le articolazioni, l’influenza sui processi di riforma della legge e sugli sviluppi sociali e politici in atto nel Maghreb. Una forma di Gender Studies che ha rappresentato la prima importante occasione, non solo per Ravenna, ma anche in campo nazionale, per avviare una nuova visione di genere in grado di cogliere le specificità culturali che i movimenti femministi, di differenti società, avanzano in materia di diritti e riconoscimenti. Con l’amica Paola Pattuelli – nella casa di campagna – prendiamo spunto da quest’importante evento per riflettere su alcuni concetti. In Vita activa, Hannah Arendt cerca di spiegare sotto il profilo filosofico che cosa significhi la cittadinanza per coloro che ne fanno esperienza. Mostra come l’essere un cittadino consenta di farsi conoscere dagli altri ed afferma che soltanto le parole dette sul bene pubblico rivelano il nostro io.

CITTÀ E SOCIETÀ

Arendt sostiene inoltre che la politica, nella sua forma migliore, è un tipo di relazione fra uguali e cioè fra cittadini. Agendo, i cittadini si “mostrano”, ma non è sufficiente agire perché vi sia una vera e propria azione significativa; occorre che quell’azione venga “raccontata”. Bisogna che ci sia qualcuno che la faccia conoscere a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi. Paola, riguardo alla convivenza sociale ed all’esperienza di cittadinanza contemporanea, che rilevanza pensi darebbe Hannah Arendt ai rapporti di sorellanza? «Hannah Arendt ha visto solo gli albori del neofemminismo, del quale si è occupata soltanto di sfuggita e con il sospetto che aveva per tutti gli “ismi”, di cui temeva derive astratte o ideologiche. Non a torto. La sorellanza è una parola femminista nata in pratiche politiche degli anni Settanta: sisterhood, dicevano e dicono le americane, che vollero sperimentare per la prima volta l’esclusiva vicinanza e condivisione fra donne nei primi gruppi di autocoscienza, dai quali gli uomini erano esclusi. Fu una critica senza appello all’universalismo illuminista, alla retorica dell’uguaglianza della Rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Se Arendt avesse avuto il tempo di approfondire – è morta nel 1975 – sarebbe stata d’accordo con la critica dell’universali-


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La pratica della sorellanza Dialogo con Paola Patuelli anche sembianze femminili. E, nello stesso tempo, sapeva smo astratto e della retorica dell’uguaglianza che il femminiquanto, nella sua vita, avesse avuto peso maggiore l’essere smo degli anni Settanta ha compiuto. Il sale della politica è la ebrea, che l’essere donna, come per la ebrea Rosa Luxempluralità, non l’uguaglianza, dice Arendt. Nonostante la retoburg l’essere comunista, che l’essere donna. E in questo anrica, la Rivoluzione francese non cambiò la condizione civile ticipò le femministe afroamericane che non si sentivano e politica delle donne. Come nell’Atene del democratico Peuguali e sorelle delle femministe bianche e borghesi. ricle, anche nella Francia rivoluzionaria le donne furono Credo che Arendt avrebbe comunque condiviso la dimenescluse dalla polis e dai diritti. Furono diritti declinati esclusione politica del termine sorellanza, il pensare e parlare insivamente al maschile. Quale universalità? Le donne che si sieme, per condividere poi azioni civili “nella sfera pubblica”. opposero a questa dittatura maschile furono ghigliottinate, Non avrebbe, credo, condiviso gli esiti ideologici di alcuni come Olympe de Gouges. Andò meglio per gli schiavi. Alfemminismi, che hanno fatto del corpo femminile un bene in meno la schiavitù fu abolita dalla Rivoluzione. E, negli Stati sé. Se avessimo avuto con il corpo di donna forza e valore a Uniti d’America contemporanei, un afroamericano, Obama, prescindere, non avremmo è diventato presidente. Una accettato di essere serve per donna, quando? millenni. Una servitù troppo Per tornare a “sorellanza”, le spesso inconsapevole se non femministe degli anni Setvolontaria, e complice. Eva tanta pensarono che senza contro Eva. Per questo è «il farsi forza le une con le stato importante che le altre», senza un proprio audonne, che fin dalle origini tonomo pensiero e linguaghanno avuto cura più dei gio, il patriarcato, anche se corpi e del “bene stare” degli indebolito, sarebbe sopravuomini che di sé stesse, favissuto in continue nuove cendosi appendice o, se anforme di adattamento, non dava bene, pensandosi ultima l’omologazione alla complementari, abbiano sacultura maschile “universaliputo costruire relazioni ricche stica” di molte donne, in care politicamente significative riera o meno. Da questo di sorellanza, termine che ha punto di vista, è impossibile un calore maggiore di “alletrovare in Hannah una speciIl giardino (foto di Alberto Giorgio Cassani). anza”. Se avessimo contifica critica del patriarcato. E nuato ad occuparci solo degli la differenza dei corpi, mauomini, c’era da disperare schili e femminili, sono per sulla non insignificanza del nostro genere. Ma chi sono le mie lei, correttamente, a mio avviso, un semplice dato di fatto. Insorelle? Si apre qui un altro e non facile problema». fatti, i corpi non sono politici dal punto di vista biologico, lo diventano immediatamente nei vari contesti culturali. Se A proposito della sorellanza, non credi Paola che riapproavesse avuto tempo, avrebbe condiviso la critica del patriarpriarci dei caratteri politici che la filosofia di Hannah Arendt cato, in quanto forma di oppressione e di negazione della liaveva valorizzato – cioè la pluralità, l’alterità, la libertà, il ribertà. Avrebbe condiviso il darsi reciprocamente forza con il spetto del diverso – ci aiuterebbe a riconoscere la centralità pensiero e con la parola. La madre di Hannah Arendt era stata delle relazioni di sorellanza nella polis e a concepire un tipo una grande ammiratrice di Rosa Luxemburg, alla quale di azione politica basata sull’idea e sulla pratica di una meArendt ha dedicato, nel 1966, un importante saggio. Fin da diazione anche culturale nelle relazioni di sorellanza, piutpiccola quindi sapeva quanto la grandezza possa avere

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tosto che sul potere e su un agire strumentale? «Posso risponderti pensando alla mia personale esperienza. Credo che “il riappropriarci” di ciò che per Arendt è “politica” sia possibile solo attraverso un esercizio continuo del pensiero. Sono, infatti, facili le perdite e le disattenzioni, anche quando ci sentiamo sicure di noi. Infatti, il problema non è la pluralità, che è un dato di fatto, ma il riconoscerla come costitutiva della politica, anziché come ostacolo alla politica stessa. La pluralità era tutto sommato più accolta nell’antichità che non nella modernità. Invece la storia, anche recente, è un continuo oscillare fra la esaltazione della reductio ad unum – Un popolo, Una nazione, Una classe, Un genere – e, quando la storia ne mostra l’impossibilità, il conflitto tragico, che spesso finisce in guerra, guerreggiata realmente o agitata in tante altre forme. Ma il problema più difficile, per me, è capire perché “pluralità, alterità, rispetto del diverso”, che trovo spesso bene in fila enunciati e detti, risultino così facilmente disattesi da chi li ha appena enunciati. Questo vale anche per “sorellanza”. Fra l’altro, “sorellanza” non è parola fra le più dette nell’ambito del femminismo italiano, che, in alcuni casi, ha preferito la relazione fra donne all’insegna del rapporto fra madre e figlia, più che la relazione di sorellanza. Per quanto mi riguarda, ho compreso, non senza fatica, che il pensiero si fa habitus solo se diventa pratica consapevole e ripetuta, in grado di “trasformare”. Aristotele insegna, quando evidenzia il nesso fra abitudine e etica. Pratiche trasformative del sé in relazione con – nel nostro caso – sorelle, può diventare azione politica che dalla trasformazione del sé tenta di farsi largo nel mondo, lasciando qualche segno. L’itinerario da me compiuto è stato passare dalla fratellanza teorizzata nel suo valore universale, con il rischio del non riconoscimento delle differenze, alla scoperta che, in questo modo, perdevo la storia del mio essere donna. Qualcosa del genere è accaduto ad Hannah Arendt. A un certo punto è stato per lei necessario assumere su di sé pienamente l’essere ebrea, condizione che la sua famiglia, del tutto assimilata rispetto alla cultura tedesca a cui riteneva di appartenere in toto, quasi le aveva fatto dimenticare. Da quando ho scoperto, tardivamente, la dimensione storica del mio essere donna, ho poi cercato di trasformare in habitus e riflessione, facendo la fatica di tenerla sempre viva – non è facile – la relazione privilegiata con altre donne, all’insegna di una sorellanza civile, che ritengo più politica della relazione fra madre e figlia. Il maternalismo non si differenzia molto dal paternalismo. E fra paternalismo e potere i nessi sono sempre stati stretti, nelle varie forme, anche quelle apparentemente non oppressive che a volte assumono le comunità chiuse. Un mondo di sorellanza deve essere, a mio avviso, senza troppe porte e con molte finestre aperte, dove l’aria, i pensieri, le varie libertà circolino liberamente. Nelle comunità chiuse l’agire strumentale che strumentalizza ha spesso il volto delle buone intenzioni e di un equivoco “bene comune”». Credi allora Paola che, per fare pratica di “sorellanza”, si debba ripartire da rinnovate forme di collaborazione tra persone, società, nazioni, già di fatto fortemente interdipendenti tra loro, molto più che in qualsiasi altro periodo del passato? In tal senso sembra muoversi la filosofa statunitense Martha Nussbaum, che, in un suo recente saggio, sostiene e proclama le ragioni per le quali «le democrazie “hanno bisogno”

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della cultura umanistica». Il suo è un pressante invito ad agire al livello dell’istruzione in direzione di una cittadinanza democratica adeguata al mondo di oggi, altrimenti continueremo ad avere cittadine e cittadini sempre meglio addestrati tecnicamente, ma privi della «sensibilità necessaria alla cittadinanza mondiale». «In realtà – e questo può sembrare contraddittorio rispetto al mestiere che ho fatto, insegnare filosofia alla gioventù – ho visto pratiche di sorellanza anche in chi non sapeva nulla di cultura umanistica; e nessuna pratica di sorellanza, e di fratellanza, in chi di studi umanistici ne aveva molti alle spalle e in corso. Nel discorso di Martha Nussbaum, che comunque considero molto importante, soprattutto laddove sottolinea i limiti della cultura liberale classica, e dei suoi corollari individualistici, mi pare di sentire una eccessiva sopravalutazione della filosofia platonica e del socratismo. La stessa Arendt vide nelle tragedie del Novecento il tracollo della tradizione classica occidentale, e del moderno umanesimo, una cesura che rende impossibile un semplice recupero della tradizione. Inoltre, soprattutto agli inizi della tempesta nazista, Hannah Arendt non si capacitava nel vedere come i suoi colti amici filosofi, che di cultura umanistica ne avevano da vendere, non si rendessero conto della lacerazione in atto, per non dimenticare poi che il suo amato maestro Heidegger, che del pensiero greco classico conosceva tutto, almeno all’inizio ha sostenuto l’antisemitismo di Hitler. Arendt sottolinea come – di fronte alla tragedia nazista – le non numerose prove di resistenza attiva furono compiute soprattutto da persone non particolarmente colte. Se è vero che, come dice Hans Jonas, dopo Auschwitz anche il concetto di Dio va ripensato, figuriamoci se questo non vale anche per la storia, l’educazione, la cultura. L’unico modo per onorare i valori che consideriamo ancora vivi del passato è nella loro conoscenza e conservazione, con gratitudine, e nel procedere oltre. Non a caso la Nussbaum vede nel femminismo un pensiero altro e un oltre che fa i conti con una differenza, la prima che la vita ci pone di fronte. Quando c’è una nascita, la prima cosa che si chiede è: “È una femmina o un maschio?”. E bell hooks, filosofa femminista afroamericana – che vuole scrivere il suo nome con le minuscole e fa suoi il nome della madre e della nonna – dice che, ancora prima del sesso, alla nascita si vede il colore della pelle. Nussbaum ripensa la democrazia in termini inclusivi, e ritiene che non sia democrazia quella che non si pone l’obiettivo di dare un’universale possibilità, non solo di sopravvivere, ma anche di vivere. Nel mondo contemporaneo, dove alla circolazione delle merci ha fatto seguito la circolazione di umani in quantità e modalità mai viste prima, e – è il caso di dire – di ogni “genere” e colore, e dove la stessa sopravvivenza è per molta umanità in questione, credo che il patrimonio della cultura classica sia importante punto di partenza per andare oltre, nel superamento dei vari e rassicuranti dualismi che abbiamo interiorizzato: uomo e donna, Nord e Sud, corpo e anima, umani e altri viventi. In questo superamento di rigidi

Sopra: particolare dello studio;. sotto: particolare della cucina (foto di Alberto Giorgio Cassani).


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Sopra: Berlino, Hannah Arendt Strasse;. sotto, un’altro scorcio di Berlino (foto di Mario Tampieri).

dualismi “morti”, ma molto resistenti, perché il riconoscimento di infinite e fra loro diverse e irriducibili soggettività e storie è ostico, la reductio ad unum – l’umanesimo platonico – è impossibile, sia sul piano teorico e conoscitivo, che su quello relazionale. Credo sia impossibile, almeno in tempi storici che possono riguardarci, un’unica koiné di linguaggio e di stile di vita. Per quanto mi riguarda, non lo ritengo neppure augurabile. Piuttosto, mi convinco sempre più che sia in pratiche di contiguità e di convivenza, a partire da chi ci è prossima, che è possibile fare esperienza di pluralità positiva, ma non con – o non solo con – dialoghi socratici teorici, ma con laboratori sociali, culturali e politici, di fronte a problemi da risolvere. Pratiche di sorellanza possono indicare strade solidaristiche che sono già politica, e sorellanza non vuole dire essere identiche. Con pratiche solidaristiche, che già dall’infanzia si possono vivere, senza retorica ed enfasi, ma con la stessa naturalezza con cui si aiuta chi cade a risollevarsi, o si cede il posto a chi fatica reggersi, è possibile creare premesse perché la cultura umanistica possa trasmettersi e andare oltre. Senza dimenticare che anche nell’antichità, e nella modernità, c’era chi diffidava di un umanesimo astratto e antropocentrico. Chiediamoci perché c’è stata a suo tempo damnatio memoriæ per il materialista Democrito, che si definiva cittadino del mondo, o per Diogene, che diceva al grande Alessandro di “non fargli ombra”, tanto poco dava valore al potere dell’imperatore, o per Epicuro, che partiva dai corpi e dal loro “bene stare” e apriva il suo felice giardino anche alle donne e agli schiavi, o per Spinoza, che vanifica ogni dualismo? Forse sta arrivando, in ritardo di millenni e di secoli, il loro tempo. Il tempo di una nuova teologia e di una nuova antropologia. Anche se è necessario darci la consapevolezza che per andare in questa direzione ci sono montagne da spostare e non solo da scalare – è bene saperlo, per non scoraggiarci troppo facilmente – abbiamo, credo, molte ragioni per non dispiacerci della complessità del tempo storico che ci è toccato in sorte» Questa l’intervista a Paola Pattuelli. La sua amicizia è stata un dono inaspettato. Incontrarla, ascoltarla, osservarla, trascorrere e condividere con lei momenti importanti del vivere sociale è per me un insegnamento continuo che mi accompagna. La sua forza pulita è un esempio ed anche una guida.

Curriculum creativo di Paola Pattuelli Sono stata comunista. Non lo sono più. Ma non ho simpatia per chi, comunista un tempo, si dichiara pentito e diventa più realista del re. Ho insegnato filosofia e storia, con piacere. Una lunga esperienza nelle Istituzioni mi ha fatto capire meglio come funziona il mondo e perché spesso non funziona. Le cose più importanti fatte negli ultimi tempi. Difendere la Costituzione da chi vuole sovvertirla. Insegnare la Costituzione nelle scuole. Far vivere, con molte donne e alcuni uomini, l’associazione Femminile Maschile Plurale, perché non l’Uomo, ma donne e uomini, uguali e diversi, abitano la terra. Scoprire che le vecchie e le nuove povertà sono questione politica di primaria importanza, e agire di conseguenza con azioni civili e non caritatevoli. I fiori sono per me fonte continua di felicità.

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Resilienza ravennate Il cambiamento sociale non è una maledizione puo essere un’occasione Dunque la resilienza è, per un sistema sociale, la capacità di affrontare il cambiamento senza perdere la propria identità; è il segno dell’intelligenza con cui una comunità affronta le proprie difficoltà, senza precludersi alle trasformazioni ma anche mantenendo salde le proprie radici, la propria storia, il tessuto connettivo che sostiene la vita quotidiana, gli scambi sociali, il sistema simbolico che sostiene l’intera collettività. È facile riscontrare come l’ambiente urbano sia particolarmente e ordinariamente sfidato dall’esigenza della resilienza, ad esempio, in particolare i centri storici e le periferie. I centri storici, infatti, spesso caratterizzati dalla presenza delle generazioni anziane o da elementi organizzativi e funzionali tradizionali o potenzialmente rigidi, rischiano la stagnazione o il degrado perché rappresentano lo spazio entro cui si esplicitano comportamenti sociali più prossimi alla resistenza che alla resilienza; il rifiuto del cambiamento e l’arroccamento sul passato spesso decretano l’agonia di ambienti che appaiono sempre più estranei o disadattati rispetto ai dinamismi di una città policentrica e cangiante. Le periferie, invece, pur essendo investite da gravi problematiche legate alla qualità della convivenza e dei servizi, beneficiano generalmente di una consistenza demografica più giovanile, eterogenea, investita da processi di mobilità. La resilienza urbana

ABITARE LʼHABITAT

non può però essere considerata un processo spontaneo; necessita di una chiara intenzionalità; è importante annotare come sia generatrice di speranze che, se adeguatamente supportate sul piano culturale e politico, possono preludere a forme feconde di cittadinanza. Uno dei più riusciti esempi in Europa di rigenerazione urbana sostenibile, rimane tuttora la città di Friburgo che ormai da 25 anni ha attivato un processo virtuoso che l’ha portata ad essere uno dei luoghi con la migliore qualità della vita di tutto il continente. I cittadini friburghesi, con coraggio nel 1986, rifiutando la costruzione di una centrale nucleare, decisero di innescare un circolo virtuoso di rigenerazione urbana ottenendone un netto miglioramento degli standard di qualità della vita. Il no al nucleare ebbe da subito ricadute enormi sulle politiche urbanistiche del Comune, che puntò da subito alla costruzione di una città di brevi percorsi, per ridurre il traffico da autovetture e incentivando, dal 1992, la costruzione di edifici energeticamente efficienti. Ciò non volle dire solamente sfruttare l'energia solare per produrre elettricità. Significò, invece, progettare in modo consapevole, sfruttare passivamente la radiazione del sole per riscaldarsi, produrre energia termica grazie al solare termico; il tutto utilizzando intelligenti soluzioni architettoniche che garantiscono un'alta qualità della vita. Il successo della politica comunale in materia di energia solare fondato tanto sulla condivisione di obiettivi energetici, ottenuta attraverso una forte sensibilizzazione dell'opinione pubblica, quanto sulla cooperazione di partner appartenenti a diversi settori di attività. La “Regione Solare” di Friburgo è diventata un modello di sviluppo che attira tuttora l’attenzione di tutto il mondo. In nessuna altra città è possibile trovare così tante aziende, istituti di ricerca associazioni, attività artigianali e cittadini impegnati nell’introduzione e utilizzo dell’energia solare. Una delle chiavi del successo del modello solare a Friburgo è la sua diffusa accettazione da parte della cittadinanza. La coscienza ecologica è supportata fin dalla crescita delle nuove generazioni. Nelle scuole si favorisce l'installazione di impianti fotovoltaici. Ma un circolo virtuoso non si innesca da solo. Friburgo ha perseguito la strada del dialogo e della collaborazione nei rapporti tra cittadini e amministrazione. Questo approccio, in cui l’attenzione alle tematiche ambientali, unite a un’efficace gestione di incentivi all’interno di un progetto condiviso dalla cittadinanza, porta a modificare radicalmente il mercato edilizio nel giro di pochi anni. Questo modello di efficienza verde è stato premiato dai cit-


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tadini, che per il 50% manifestano politicamente, ancora dopo tanti anni, l’appoggio al maggior partito dell’amministrazione. Tutto ciò ha anche portato ad un equilibrio in materia, che si manifesta nel costante confronto tra il Sindaco e gli Assessorati competenti in merito alle decisioni che riguardano il territorio e lo stile di vita dei cittadini. La politica energetica del Comune fondamentalmente si muove attorno a tre cardini: il risparmio attraverso la qualificazione degli edifici esistenti; l’efficienza attraverso la promozione di sistemi di cogenerazione; l’uso di fonti rinnovabili. Inoltre si è intervenuti anche direttamente sul regolamento edilizio in due direzioni: la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e la definizione di standard per le nuove costruzioni. Sono stati finanziati interventi volti a migliorare l’isolamento delle pareti, dei tetti e dei serramenti. A Friburgo si è riusciti ad applicare questi standard più restrittivi attraverso vincoli contrattuali nella vendita di terreni destinati alla costruzione di abitazioni, come i quartieri modello di Vauban e Reiselfeld. L’assunto base della politica dei trasporti è la riduzione dei percorsi e l’integrazione tra essi. Sul fronte della riduzione del traffico si è incentivato lo sviluppo di mercati rionali al fine di stimolare la popolazione a fare commissioni e acquisti a piedi, rinunciando quindi ad utilizzare l’autovettura. Ogni giorno in ognuno dei maggiori paesi dell’Europa Occidentale vengono asfaltati o edificati oltre cento ettari. La domanda sorge così spontanea: come può avvenire lo sviluppo urbanistico consumando meno suolo possibile? La risposta per Friburgo è stata quella di puntare sullo sviluppo interno attraverso il recupero o la riedificazione di aree all’interno della città. Operando in questo modo, si preservano aree agricole o aree con valore ecologico, si ringiovaniscono i quartieri e si ottimizza l’utilizzo dell’infrastruttura esistente, evitando investimenti e cantieri per quelle nuove. Questo modello comporta anche qualche svantaggio come l’aumento della densità edilizia e del traffico, la perdita di superfici libere, lo squilibrio del microclima. Proprio per tali ragioni lo sviluppo interno richiede un grande lavoro di pianificazione e di dialogo con la cittadinanza con processi partecipativi particolarmente attenti. Uno degli obiettivi raggiunti, la riduzione del fabbisogno di trasporto attraverso una pianificazione integrata fra urbanistica e trasporti. Lo sviluppo interno, anche attraverso una politica di rivitalizzazione della vita dei quartieri, crea una città di brevi percorsi utilizzabili facilmente in bicicletta, il mezzo preferito quotidianamente dal 38% dei cittadini. Alla luce di quanto sopra e con poche elementari deduzioni non sarebbe il caso di cominciare a fare qualche seria riflessione su quale futuro vogliamo per la nostra città considerando semplicemente che: Ravenna è sede del Polo Tecnologico Regionale; ci sono una quantità enorme di aree industriali da riconvertire; è stata una delle città col maggior consumo di territorio; è candidata per la nomina di Capitale europea della cultura 2019, è nell’urgenza di attivare azioni di riqualificazione e rivitalizzazione del Centro Storico, è sempre stata una città naturalmente vocata all’uso della bicicletta... C’è di che meditare, e anche molto!

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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE

Parola chiave: collaborazione Come le api a primavera ecco ripartire la ricerca di nuovi spazi dove abitare Opportunità dall’estero In questo momento di difficoltà congiunturale e sistemica, che Fiaip si è impegnata a superare promuovendo nuove occasioni di formazione, aggregazione e collaborazione tra colleghi, ogni momento di incontro, dialogo e scambio di esperienze assume un significato particolare, sia dal punto di vista umano che da quello professionale. Collaborazione è dunque la parola-chiave all’insegna della quale desideriamo impostare comunicazione istituzionale e attività professionale, per regalare una connotazione finalmente positiva a un 2013 che, salutato con sollievo l’insediamento del nuovo governo (con la speranza di non essere smentiti nel momento in cui leggerete questo articolo), vorremmo ricordare per una ritrovata stabilità, una più forte coesione tra le parti sociali e un’interazione più proficua e democratica tra cittadini, professionisti e istituzioni. I risultati di una recente indagine spingono a un cauto ottimismo, con il primo trimestre dell’anno che registra un aumento del numero di chi pensa che sia un buon momento per comprare casa: la propensione all'acquisto immobiliare torna a salire oltre la soglia psicologica del 50%, arrivando al 55% e facendo segnare ben sei punti percentuali in più rispetto ad un anno fa. Gli spunti per implementare una collaborazione efficace - che sappia trarre vantaggio da questi dati confortanti - non provengono solamente dai casi di scuola e dai libri di management, ma dalla natura stessa e dai suoi riti millenari. Thomas Seeley (Honeybee Democracy, Princeton University Press, 2010) ci racconta come due terzi delle api all’interno dell’alveare decidano, all’arrivo della primavera, di cercarsi una nuova casa, più spaziosa e confortevole, mentre il rimanente terzo rimarrà dov’è per allevare e nutrire una nuova regina. Delle migliaia di piccoli insetti che partono alla volenterosa ricerca di un nuovo quartiere dove abitare, la maggior parte si mettono al lavoro per creare un rifugio temporaneo mentre alcune centinaia spiccano il volo in direzioni diverse nel tentativo di trovare un nuovo posto dove mettere su casa. Queste “esploratrici” ritornano poi alla base individualmente, portando informazioni sulla qualità e l’ubicazione delle soluzioni trovate mediante un curioso movimento che assomiglia a una danza. In questo modo esse convincono altre api a seguirle per visitare “l’immobile” (come lo chiameremmo noi), che di ritorno si uniranno alla danza – se soddisfatte delle caratteristiche di quanto visto – per convincerne altre ancora a prendere in considerazione la proposta. Questo straordinario processo di collaborazione e comunicazione continua per 24-48 ore, al termine delle quali saranno state prese in esame diverse possibilità e sarà stato raggiunto un consenso spontaneo, progressivo e ai nostri occhi gioioso, per la naturale individuazione di quella più adatta. Tornando al nostro mondo, nel quale non mancano problematiche complesse e strumenti di comunicazione che possono aiutare a superarle, per noi collaborazione significa fornire agli operatori del settore i supporti conoscitivi utili a erogare un servizio migliore al cliente, cogliendo proprio nella sua totale e durevole soddisfazione – unico parametro per valutare un lavoro ben fatto - ogni nuova opportunità che un clima di ripresa riuscirà a presentare. La ricerca di nuove prospettive di crescita non deve però limitarsi al dato nazionale, dal mo-

MERCATO IMMOBILIARE

mento che diversi indicatori confermano un futuro sempre più internazionale per il mercato degli immobili. Come le api descritte da Seeley, dobbiamo avere il coraggio di confrontarci ed esplorare (posti, persone, possibilità) al fine di allargare gli orizzonti stipulando convenzioni, partecipando a fiere di settore, scambiandoci le esperienze e perfezionando la conoscenza delle lingue, consapevoli del fatto che sono in continuo aumento sia gli stranieri interessati ad acquistare casa in Italia, sia gli italiani interessati a comprare casa all’estero. Stando ai dati rivelati al Sole24Ore da alcuni siti specializzati, il 2% delle ricerche immobiliari in Italia è oggi proveniente dall’estero, quota che sale al 9% se ci limitiamo al settore del lusso. Chi sono gli stranieri che cercano casa in Italia? In prima linea troviamo i tedeschi, che ancora guardano al Bel Paese come al luogo ideale per trascorrere le vacanze o gli anni della pensione: la Germania da sola rappresenta il 17% delle ricerche immobiliari in Italia provenienti dall’estero, seguita dalla Svizzera (14%) e dalla Gran Bretagna (10%). Scorrendo la lista, poi, non mancano alcune sorprese, con sempre più richieste provenienti da Brasile, Slovacchia e Slovenia, mentre la nostra ForlìCesena si rivela la provincia più ambita dai cittadini dei Paesi Bassi. Il mercato estero non deve dunque essere percepito come una risorsa esotica a disposizione di pochi, ma un canale che può aiutare tanto il venditore/acquirente quanto il professionista a incrementare le proprie opportunità di affari, aumentando il raggio d'azione e sviluppando un nuovo concetto di business all’insegna dello scambio internazionale. Attraverso una visione ampia e moderna, orientata alla condivisione ed alla conoscenza del nuovo, Fiaip conferma dunque una disponibilità al confronto che le ha permesso di diventare punto di riferimento insostituibile per CEI Confédération Européenne de L'Immobilier e NAR – National Association of Realtors: la ricerca di stimoli e percorsi inediti, un ritrovato spirito collaborativo e la voglia di investire in trasparenza caratterizzano la visione di una Federazione moderna, concreta e vicina al suo territorio, desiderosa di regalare a ciascun cliente lo stesso entusiasmo di un’ape ballerina che ha finalmente trovato una nuova casa. Gian Battista Baccarini Presidente Regionale FIAIP Emilia-Romagna


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