Storica National Geographic - settembre 2015

N. 79 • SETTEMBRE 2015 • 4,50 E

L’ARA PACIS

IL TRAMONTO DEI CAVALIERI

LA BATTAGLIA DI CRÉCY CAMBIA LE REGOLE MILITARI

CARLO VIII IN ITALIA

INIZIA LA SPARTIZIONE DELLA NOSTRA PENISOLA

TERESA D’ÁVILA

LA CITTÀ MULTIETNICA DELLA TOLLERANZA CULTURALE E RELIGIOSA

9

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PETRA

periodicità mensile

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IL TESTAMENTO POLITICO DI AUGUSTO

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La biblioteca per esplorare i segreti dell’universo

Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana e Professore Ordinario di Fisica Generale presso l'Università di Trento.

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Volto noto della comunicazione scientifica, è autore di numerose pubblicazioni di carattere divulgativo, scrive su importanti testate giornalistiche, e collabora all'organizzazione di convegni e mostre in veste di relatore e direttore scientifico. È membro del comitato scientifico di "Una passeggiata nel Cosmo".

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DEA / ALBUM

EDITORIALE

Leggerete

in questo numero del sincretismo religioso della città di Petra, dove i nabatei svilupparono una religione che fondeva culti arabi, greci, egizi, siriani e romani. Ma a circa mille chilometri di distanza, sulle rive siriane dell’Eufrate, sorgono i resti di un’altra città fuori dal comune, Dura Europos, emblema della tolleranza religiosa, esistita per poco più di 500 anni e abbandonata nel 256 d.C. Qui convivevano per esempio una sinagoga accanto a una domus ecclesiae, cioè una “casa cristiana” progenitrice delle chiese; a pochi passi di distanza, templi di un’altra mezza dozzina di religioni diverse – partiche, elleniche, manichee. Proprio qui l’arrivo del manicheismo introdusse per la prima volta gli elementi iconografici in due religioni, l’ebraica e la cristiana, che originariamente non avevano rappresentazioni figurative. Tanto che nel battistero cristiano di Dura Europos è stata trovata la prima immagine del Buon Pastore, risalente alla terza decade del III secolo e derivata dall’iconografia ellenistica di Eracle. Lo stesso può dirsi per gli affreschi della vicina sinagoga. Altri ritrovamenti testimoniano la coesistenza di templi macedoni dedicati a Zeus e Artemide con altri consacrati a divinità semitiche o a pantheon misti greco-partici e aramaici.

Questo santuario della tolleranza religiosa mostra che abbiamo ancora molto da imparare dagli antichi; forse non da tutti, ma da alcuni sì.

GIORGIO RIVIECCIO Direttore

Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION

Pubblicazione periodica mensile - Anno VI - n. 79

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civiltà italiche

grecia e roma

vicino oriente

storia moderna

storia medievale

ENRICO BENELLI Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico (Iscima) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Monterotondo (Roma) Curatore della seconda edizione del Thesaurus Linguae Etruscae, Fabrizio Serra editore Autore di: Le iscrizioni bilingui etrusco-latine, Olschki

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PAOLO MATTHIAE Professore di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico, Università di Roma La Sapienza; direttore della Missione Archeologica Italiana a Ebla; membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei Autore di: Ebla, un impero ritrovato, Einaudi Storia dell’Arte dell’Oriente Antico, Electa Mondadori

VITTORIO BEONIO BROCCHIERI Professore di Storia moderna presso l’Università degli Studi della Calabria; membro del collegio della scuola di dottorato Andre Gunder Frank Autore di: Storie globali. Persone, merci e idee in movimento Celti e Germani.

L’europa e i suoi antenati Encyclomedia Publishers

MARINA MONTESANO Professore di Storia medievale, Università di Messina e VitaSalute San Raffaele, Milano; membro fondatore della International Society for Cultural History Autrice di: Da Figline a Gerusalemme. Viaggio del prete Michele in Egitto e in Terrasanta (1489-1490), Viella Editore Caccia alle streghe, Salerno Editrice

4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PETER H. RAVEN Chairman JOHN M. FRANCIS Vice Chairman PAUL A. BAKER, KAMALIJIT S. BAWA, COLIN A. CHAPMAN, KEITH CLARKE, J. EMMETT DUFFY, CAROL P. HARDEN, KIRK JOHNSON, JONATHAN B. LOSOS, JOHN O’LOUGHLIN, NAOMI E. PIERCE, JEREMY A. SABLOFF, MONICA L. SMITH, THOMAS B. SMITH, WIRT H. WILLS

ODEON ED EKKLESIASTERION

(luogo di riunione dell’assemblea cittadina) di Messene, la città fondata dal tebano Epaminonda per gli iloti messeni ribelli.

Grandi storie

22 Gli schiavi di Sparta Nell’VIII secolo a.C. gli spartani, conquistata la Messenia, ne resero schiavi gli abitanti, che trattavano con crudeltà. DI F.J. MURCIA ORTUÑO

32 Petra, la città multietnica Nella cosmopolita città del Sinai, importante tappa carovaniera, convivevano culti arabi, greci, egizi, siriani e romani. DI J. P. MONFERRER

44 L’Ara Pacis, il trionfo di Augusto L’altare che, oltre a ricordare i successi militari dell’imperatore, intendeva celebrare una nuova epoca di pace e prosperità. DI F.G. JURADO

54 La battaglia di Crécy L’episodio bellico della Guerra dei Cent’Anni che segnò una svolta nella storia della cavalleria. DI JACOPO MORDENTI

68 Carlo VIII in Italia L’inarrestabile discesa del re francese che inaugurò l’epoca «degli anni miserabili» per l’Italia. DI SALVATORE CARANNANTE

82 Teresa d’Ávila e l’Inquisizione Le esperienze mistiche di Teresa di Gesù non sfuggirono all’attenzione del tribunale ecclesiastico. DI E. CARRERA

92 Corsari all’assalto Per due secoli corsari, pirati e filibustieri depredarono i galeoni in navigazione dall’America all’Europa. DI X. ARMENDÁRIZ STATUINA DI AVALOTIKESVARA, RINVENUTA A MOGAO. DINASTIA TANG. VII-X SECOLO. MUSEO GUIMET, PARIGI.

Rubriche

9 ATTUALITÀ 10 PERSONAGGI STRAORDINARI

Marco Licinio Crasso il capitalista triunviro Un affarista senza scrupoli negli anni drammatici delle guerre civili a Roma

14 L’EVENTO STORICO

1704: come Gibilterra divenne inglese

Cadde in mano britannica con una battaglia di un giorno durante la guerra di successione spagnola

18 VITA QUOTIDIANA

Balli in maschera nel Settecento

Da Venezia a Parigi, la licenziosità al riparo della dissimulazione

104 GRANDI SCOPERTE

Le grotte di Mogao nel deserto cinese

Fu un inglese a scoprire, nel 1907, il tesoro di migliaia di manoscritti buddhisti dipinti

110 LIBRI E APPUNTAMENTI 112 ITINERARI 114 PROSSIMO NUMERO

PATRIMONIO Da Abu Simbel a Katmandu

N

el 1959, quando fu progettata la diga di Assuan, la grande opera d’ingegneria destinata alla regolamentazione delle acque del Nilo, il principale fiume africano, e alla creazione di un immenso serbatoio d’acqua – il lago Nasser –, il mondo intero temette per la sorte di Abu Simbel. L’opera prevista comportava l’inabissamento sotto le acque dei templi scavati nelle rocce lungo le rive del Nilo nubiano durante il regno di Ramses II e della sua sposa Nefertari, nel XIII secolo a.C. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco) decise quindi di avviare una campagna internazionale per la raccolta del denaro necessario all’attuazione di un lavoro titanico: trasferire i templi in un sito prossimo all’originario per poterli salvare. Questa costosissima operazione fu possibile grazie alla cooperazione di una cinquantina di Paesi e costituì un successo che divenne premessa per la firma della Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Mondiale, Culturale e Naturale dell’Umanità, avvenuta nel corso della Conferenza generale dell’Unesco tenutasi a Parigi nel 1972. L’obiettivo era preservare i principali siti naturali del pianeta e i patrimoni culturali costituiti da testimonianze monumentali e artistiche. Oggi prendono parte a questo progetto 191 Stati che condividono gli obiettivi della Convenzione, impegnandosi a individuare e inventariare gli elementi più significativi del proprio patrimonio, a renderne nota l’eccezionalità e ad accrescere i mezzi necessari per salvaguardarli. Uno sforzo globale per conservare oltre ottocento siti di inestimabile valore culturale, che ci permette di ammirare oggi testimonianze risalenti a migliaia di anni fa: vestigia di civiltà estinte, luoghi sacri, antichi nuclei urbani, complessi palaziali e castelli, gioielli di regni antichi, mirabili opere d’ingegneria, raffinati oggetti artistici.

Cosciente dell’importanza di questo patrimonio universale, National Geographic ha voluto mostrare fin dall’inizio, con le sue pubblicazioni e con altri mezzi d’informazione, le meraviglie della natura e quelle create dall’uomo, ma ha anche messo in guardia sui pericoli che esse corrono.

Spesso le minacce sono legate al trascorrere del tempo o sono la conseguenza di catastrofi naturali o, purtroppo, dell’azione dell’uomo, come sta avvenendo nel Vicino Oriente.

Oggi il mondo si sente impotente di fronte alle immagini di distruzione provenienti dal Nepal. Unesco è consapevole che, per rimediare ai danni prodotti dai recenti terremoti che hanno devastato il Paese, si apriranno nuovi fronti. Il suo direttore generale, Irina Bokova, oltre a trasmettere la propria partecipazione per la perdita di migliaia di vite umane, ha portato all’attenzione generale l’impatto devastante causato dai moti tellurici nella valle di Katmandu, Patrimonio dell’Umanità dal 1979.

Oggi abbiamo a disposizione molti strumenti e conoscenze per riparare i danni causati dalla forza della natura o dalle distruzioni perpetrate dall’uomo. Questo progetto richiederà l’impegno di migliaia di persone che si dedichino al recupero di questa eredità senza la quale perderemmo per sempre una parte importante della nostra storia. La cultura, ha detto lo scrittore e ministro francese André Malraux, è ciò che continua a vivere dopo la morte. Senza di essa saremmo vittime di un’amnesia esistenziale che ci impedirebbe di continuare a tracciare il nostro percorso e a scrivere la storia della civiltà umana.

Con la pubblicazione della nuova opera National Geographic Patrimonio dell’Umanità, intendiamo contribuire alla scrittura di questa storia ed effettuare un viaggio esaustivo alla scoperta di tutti i beni naturali e culturali che fanno parte del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Un’autentica finestra aperta sulle meraviglie del nostro mondo.

FOTO: BERTRAND GARDEL / HEMIS / GTRES (DESTRA, SOPRA E SOTTO); JOSEF NIEDERMEIER / IMAGEBROKER / AGE FOTOSTOCK (CENTRO)

DELL’UMANITÀ PARCO NAZIONALE DI TIKAL GUATEMALA

Anno d’iscrizione: 1979

Situata nel cuore di una selva impenetrabile, Tikal, che fu abitata dal VI secolo a.C. al X secolo d.C., è uno dei più importanti siti della civiltà maya. Il suo centro cerimoniale comprende templi, palazzi e piazze alle quali si accedeva attraverso rampe.

Nei dintorni si trovano resti di abitazioni.

MONUMENTI NUBIANI, DA ABU SIMBEL A FILE EGITTO Anno d’iscrizione: 1979

I templi di Ramses II ad Abu Simbel e il santuario di Iside a File, nell’Egitto nubiano, furono salvati dalla crescita delle acque del Nilo provocata dalla diga di Assuan grazie a una campagna internazionale promossa dall’Unesco tra il 1960 e il 1980.

VENEZIA E LA SUA LAGUNA ITALIA

Anno d’iscrizione: 1987

Fondata nel V secolo, la città lagunare si estende su 118 isolette collegate fra loro da ponti. Dal IX al XIX secolo fu una grande potenza marittima e nel corso del tempo fu abbellita da palazzi e chiese che conservano capolavori dei maggiori artisti di ogni epoca.

125° ANNO

L’opera più attuale e completa sul Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, a cura di National Geographic.

Un’occasione unica per visitare i luoghi e i monumenti del patrimonio culturale collettivo che per eventi della natura o per mano dell’uomo purtroppo non è più possibile vedere dal vivo.

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LA STATUA

SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI DEL LAZIO

del dio falco Horus affiorante dal fango, così come è stata ritrovata nella Villa Adriana di Tivoli.

SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI DEL LAZIO

ROMA IMPERIALE

Scoperta una statua di Horus a villa Adriana La scultura è stata rinvenuta in un’area che, secondo i ricercatori, doveva essere consacrata al culto delle divinità egizie

N

ella splendida villa che l’imperatore Adriano eresse nel II d.C. a Tivoli è stata rinvenuta una statua di Horus, il dio egizio che ha le fattezze di un falco. Il ritrovamento si deve a un gruppo di archeologi guidati da Zaccaria Mari, della Sovrintendenza dei Beni Archeologici del Lazio, impegnati in ricerche su quest’area dal 2005. La statua, realizzata con marmo di Proconneso (Turchia), è stata rinvenuta in un’area della villa tradizionalmente nota con il

9 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

nome di Palestra perché si riteneva fosse destinata alle competizioni atletiche. Gli archeologi hanno scoperto trattarsi in realtà di un santuario dedicato al culto delle divinità dell’Egitto greco-romano, come Iside e Serapide.

Un tempio egizio Nel 2006 era stata rinvenuta la statua di una sfinge acefala, oltre a numerosi frammenti di sculture e di elementi architettonici.

La scoperta della statua di Horus conferma che quello

spazio era dedicato al culto delle divinità egizie, ciò che non risulta sorprendente tenendo conto che Adriano fu affascinato dalla cultura dell’antico Egitto: nel 130 l’imperatore visitò città e luoghi sacri di questo Paese; durante tale viaggio trovò la morte il suo amante e favorito, il giovane Antinoo, che annegò nelle acque del Nilo e che l’imperatore volle divinizzare con il nome di Osiride-Antinoo, come racconta Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano.

NELLA STESSA ZONA

nella quale è stata ritrovata la statua di Horus sono state rinvenute numerose sculture di stile classico, tra cui una magnífica testa mascolina, forse raffigurante un atleta.

Dopo il restauro, la statua di Horus e la sfinge acefala sono state esposte nell’Antiquarium del Canopo, nella villa.

PERSONAGGI STRAORDINARI

Marco Licinio Crasso il capitalista triunviro Dopo la guerra fra Silla e Cinna, Crasso accumulò un’immensa fortuna grazie alla confisca delle proprietà dei suoi nemici. Partecipò al primo triunvirato e morì nella disfatta di Carre

Affari e lotta per il potere 115 a.C. Nasce a Roma Marco Licinio Crasso, il minore di tre figli maschi del console Publio Licinio Crasso.

85-82 a.C. Per sfuggire alle persecuzioni di Mario e Cinna, si rifugia in Spagna.

Ritorna a Roma soltanto dopo il trionfo di Silla.

73-70 a.C. Scoppia la rivolta di Spartaco, che Crasso reprime al comando di un esercito. Dopo la vittoria, viene nominato console.

59-56 a.C. Crasso, Pompeo e Cesare formano il primo triunvirato. Con l’accordo di Lucca, Crasso riceve la provincia della Siria.

M

arco Licinio Crasso è passato alla storia come il capitalista dell’ultima fase della Repubblica di Roma, anche se forse venne eguagliato dal suo collega e rivale Pompeo, e tre decenni dopo fu superato da Augusto. Ciò in cui non ebbe però rivali, secondo gli storici antichi, furono l’avidità e la mancanza di scrupoli che dimostrò nell’accumulare la sua ingentissima fortuna.

Se nel corso della sua carriera il suo patrimonio crebbe, secondo Plutarco, da 300 a 7100 talenti (pari a 2500 chilogrammi d’argento), fu grazie alla sua opportunistica partecipazione alla speculazione immobiliare ai tempi delle proscrizioni politiche.

La sua gens era di probabile origine etrusca. Il suo antenato Publio Licinio Crasso fu pontifex maximus e console nel 205 a.C. con Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, e fu soprannominato Dives,“il Ricco”. La familia si era integrata nella nobilitas, l’aristocrazia composta da patrizi e plebei che andavano ad accrescere le file della classe politica, ma la sua fortuna diminuì considerevolmente. Plutarco racconta che la casa del padre di Crasso era mo-

53 a.C.

desta. Crasso, che si sarebbe sposato con la vedova di uno dei suoi fratelli, avrebbe mantenuto per tutta la vita usi frugali che contrastavano con l’ostentata ricchezza degli altri patrizi.

Il padre di Crasso fece una brillante carriera politica, che lo portò a essere nominato console nel 97 a.C. e censore nell’ 89 a.C. Date le sue cariche, fu coinvolto nelle lotte per il potere di quegli anni. Nell’88 a.C., il console Lucio Cornelio Silla, con un gesto senza precedenti, era entrato nella capitale con sei legioni per contrastare la politica del console Gaio Mario, favorevole ai democratici, ripristinando il potere del Senato. Dopo la sua partenza per l’Oriente per combattere contro Mitridate, Mario e, alla sua morte, Cinna (console dall’86 a.C.), preseso il controllo della città, dichiararono Silla “nemico pubblico” e diedero inizio a una feroce persecuzione contro i suoi sostenitori. Fra questi vi era anche il padre di Crasso, che si suicidò, mentre uno dei suoi figli morì per mano dei nuovi governanti di Roma.

L’ora della vendetta Crasso riuscì ad abbandonare Roma, dove la sua vita era in pericolo, e trovò rifugio in Spagna. Fece ritorno a Roma

Abile affarista, capace di trarre vantaggio dagli eventi politici, accumulò ingenti ricchezze

Crasso parte per la sua provincia con diverse legioni per invadere la Partia. Viene sconfitto e ucciso a Carre.

DENARIO CONIATO DURANTE IL PRIMO TRIUNVIRATO. I SECOLO A.C. JEAN VINCHON, PARIGI. 10 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ART ARCHIVE

BRIDGEMAN / ACI

LA STRANA RELAZIONE CON LA VESTALE Crasso fu accusato da un tale Plotino di aver sedotto una vestale chiamata Licinia, una sacerdotessa vincolata dal voto di castità. Si trattava di un sacrilegio che poteva essere punito con la condanna a morte di entrambi.

In tribunale, Crasso riconobbe di aver fatto visita diverse volte a Licinia, ma disse che tali incontri si dovevano alla sua intenzione di acquistare una villa della vestale. I giudici gli credettero, tale era la sua fama di speculatore immobiliare. Gli imputati vennero assolti, e pare che Crasso continuò a insistere finché non ottenne che Licinia gli vendesse la proprietà.

LOREM IPSUM

ANCORA GIOVANE,

soltanto dopo che Cinna venne assassinato, nell’84 a.C. Questo forzato autoesilio ne segnò il carattere e aumentò in lui, come mezzo per proteggersi dai nemici, l’avarizia e l’avidità che lo contraddistinguevano.

L’avvento al potere di Lucio Cornelio Silla dopo l’assassinio di Cinna restituì a Crasso la libertà perduta e gli garantì un ruolo politico di rilievo. Ora i rapporti si erano capovolti, e i perseguitati erano i vecchi persecutori. Contro di essi Silla applicò il procedimento della proscrizione: l’iscrizione a una lista pubblica di persone dichiarate fuori-

legge, che potevano essere uccise da chiunque e le cui proprietà erano confiscate. Almeno 40 senatori, 1600 equites (cavalieri) e 4000 cittadini subirono questa condanna. La vendita all’asta dei loro beni attrasse molti speculatori, fra questi Crasso. Riferisce Plutarco che «quando Silla si impadronì della città e mise in vendita le proprietà di coloro che gli morivano fra le mani, poiché le considerava e denominava bottino e desiderava che la maggior parte dei nobili condividessero questo sacrilegio, Crasso non si astenne né dal prendere né dal comprare». E fu così che Crasso

MARCO LICINIO CRASSO RAPPRESENTATO IN UN BUSTO IN ETÀ MATURA. MUSEO DEL LOUVRE, PARIGI.

iniziò a partecipare a un affare enorme e redditizio: l’esproprio, il sequestro e l’acquisto di proprietà urbane di ricchi cittadini a prezzi irrisori; questa fu l’origine della sua fortuna.

Il business del mattone Crasso approfittò di un’altra misura introdotta da Silla: la nomina di 300 senatori in più fra gli equites, la classe formata da ricchi imprenditori e affaristi, con cui la Curia arrivò a essere costituita da 600 membri. Questi nuovi senatori avevano bisogno di crearsi un’immagine nobile e degna STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

11

PERSONAGGI STRAORDINARI

LA CITTÀ ROMANA DI GERASA, in Giordania.

JOHN FRUMM / GTRES

Faceva parte della provincia della Siria, il cui governo fu affidato a Crasso da un accordo con gli altri due triumviri, Pompeo e Giulio Cesare.

e si mostrarono molto interessati alle grandi dimore e aziende agricole dei senatori caduti in disgrazia. Come un esperto agente immobiliare, Crasso rivendette le proprietà requisite, con un enorme margine di guadagno per sé.

Un’altra strategia di Crasso ne evidenzia ulteriormente l’immagine di affarista senza scrupoli. Plutarco lo

descrive con precisione: «Vedendo che gli incendi e i crolli a causa della concentrazione e del peso degli edifici erano calamità connaturate e abituali a Roma, si diede ad acquistare schiavi muratori. Poi quando ne ebbe più di 500, cominciò a comprare le case incendiate e quelle adiacenti che i proprietari vendevano a basso prezzo per

LA VITTORIA SUGLI SCHIAVI UN IMPORTANTE SUCCESSO MILITARE di Crasso fu, nel

71 a.C., la vittoria nelle guerre servili, scoppiate in seguito alla ribellione degli schiavi guidati da Spartaco, un ex soldato di origine tracia. Spartaco, insieme con 5000 compagni, trovò la morte combattendo, mentre i 6000 sopravvissuti furono crocefissi lungo la Via Appia, a monito contro altri tentativi di ribellione.

SPARTACO. STATUA DI BRONZO. D. FOYATIER. 1847. PALAZZO DELLE BELLE ARTI, LILLE. RMN PHOTO

12 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

paura e insicurezza». Non costruiva edifici nuovi, poiché a suo giudizio «coloro che amano costruire si rovinano da soli senza che vi sia necessità dell’intervento di nemici».

Monetizzare gli schiavi Crasso possedeva anche aziende agricole a Roma e nella Penisola italica, oltre a miniere d’argento, alcune delle quali in Spagna. Però, secondo Plutarco, «tutto questo non era niente a confronto con il valore dei suoi schiavi». Crasso si preoccupò personalmente che ricevessero una formazione specializzata in diversi ambiti –«lettori, scribi, argentieri, amministratori, camerieri»– e affidò loro compiti in autonomia, avendo capito che questo era il modo migliore per monetizzarli, anche se era consapevole di doverli controllare personalmente. Gli schiavi

GLI ESITI DELLA SCONFITTA

LA MORTE DI CRASSO.

La tela, di Lancelot Blondel, rievoca il momento in cui i parti versano oro fuso nella gola del corpo senza vita di Crasso.

XVI secolo. Museo Groeninge, Bruges.

battaglia di Carre ebbe molteplici conseguenze: all’esterno, spinse i parti a invadere i territori romani, costringendo Roma a inviare un esercito che li avrebbe ricacciati oltre l’Eufrate, linea di confine tra Partia e Siria romana. Augusto nel 17 a.C. avrebbe poi firmato un trattato di pace ottenendo la restituzione delle insegne delle legioni di Crasso. A Roma, la morte di Crasso ruppe l’equilibrio garantito dal triunvirato e innescò la guerra civile tra Pompeo e Cesare e l’ascesa di questi.

BRIDGEMAN / ACI

BRIDGEMAN / ACI

LA DISASTROSA conclusione della

CAVALIERE PARTICO. STATUINA IN PIETRA RINVENUTA IN IRAN. V-VI SECOLO D.C.

diventavano così un bene vendibile e prezioso, e gli erano assai utili per la gestione degli affari.

Grazie all’immenso capitale accumulato, Crasso si diede all’usura. I suoi clienti erano i senatori, cui prestava soldi apparentemente senza pretendere interessi, ma se al momento della restituzione essi non erano in grado di pagare, li gravava con interessi pesantissimi, come narra Plutarco.

I prestiti erano anche un mezzo con il quale si guadagnava alleati politici: ecco perché, per esempio, prestò 830 talenti a Giulio Cesare all’inizio della sua carriera politica.

Nonostante la sua avidità, Crasso seppe guadagnarsi il favore popolare e raggiungere i suoi obiettivi elettorali. Quando nell’anno 71 a.C. venne eletto console, dopo il suo successo nella repressione della rivolta di Spartaco l’anno precedente, si mostrò particolarmente prodigo:

«Consacrò a Ercole il dieci per cento dei suoi beni – racconta Plutarco –, offrì un banchetto al popolo e con i suoi stessi fondi donò a ogni romano una fornitura di grano per tre mesi».

Questa generosità lo aiutò a ottenere i voti necessari per essere eletto censore, carica che ricoprì diplomaticamente, evitando controlli e censure su senatori, equites e cittadini.

concluse con la sconfitta nella battaglia di Carre (53 a.C.), che vide i romani sbaragliati grazie alla tattica del “tiro alla partica”: la cavalleria fingeva una ritirata al galoppo per poi girarsi e tirare frecce contro gli inseguitori. Crasso fu catturato e giustiziato.

Gli storici offrono due versioni sulla morte di Crasso. Secondo quanto narra Plutarco, i Parti gli tagliarono la testa e la mano e le consegnarono al re parto.

La disfatta di Carre Cassio Dione racconta la leggenda che Negli anni seguenti, Crasso avrà un i parti, consapevoli della reputazioruolo importante nelle vicende politi- ne del loro prigioniero, su ordine del che romane. Nel 60 a.C. fece parte del loro re Orode II gli avrebbero versato primo triunvirato, con Pompeo – suo dell’oro fuso in gola per placare la sua grande rivale – e Cesare. Nel 56 a.C., insaziabile sete di ricchezza. l’assegnazione della provincia della PEDRO ÁNGEL FERNÁNDEZ VEGA DOTTORE IN STORIA Siria gli aprì il cammino verso un’impresa ambiziosa, la guerra contro i ParTESTI Per parallele: Nicia, Crasso ti, da tempo in conflitto contro Roma, saperne Vite Plutarco. Gredos, Madrid, 1987. grazie alla quale contava di rafforzare il di più ARTICOLI PRECEDENTI Vivere in affitto nell’antica proprio prestigio militare e raccogliere Roma N.º 73. un ingente bottino. La campagna si STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA CONQUISTA DI GIBILTERRA

CORDON PRESS

in un’incisione del 1712-1715 del tedesco Johann August Corvinus, autore di opere sulla guerra di Successione spagnola.

1704: come Gibilterra divenne inglese Durante la guerra di Successione spagnola la flotta della Grande alleanza a sostegno di Carlo d’Austria conquistò Gibilterra, che con la pace di Utrecht divenne possedimento inglese

A

lla fine di maggio del 1704, la flotta inglese si schierò davanti a Barcellona. Il comandante, l’ammiraglio George Rooke, contava di occupare la città per trasformarla in una base operativa contro Filippo V, il primo re borbone di Spagna, che nel 1700, succedendo a Carlo II sul trono di Spagna, aveva provocato un conflitto europeo, la guerra di Successione spagnola. L’Inghilterra , l’Austria e gli altri Stati del Sacro Romano Impero, uniti nella Grande alleanza e

14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

sostenitori dell’arciduca Carlo d’Austria, si fronteggiavano con la Francia, la Castiglia e la Baviera, che appoggiavano Filippo V, nipote di Luigi XIV di Francia. Ma l’assedio alla città fallì e le truppe alleate dovettero desistere.

Dopo essere avanzate fino a Nizza per ostentare la propria forza, le navi intrapresero il viaggio di ritorno verso la base di partenza, Lisbona, dove si era stabilito Carlo d’Austria.

L’armata alleata era però riluttante a tornare a mani vuote. Il 28 luglio, di fronte alla costa africana, presso

Tétouan, l’ammiraglio Rooke convocò sulla sua nave un consiglio di guerra per stabilire dove avrebbe potuto agire l’ancora potente corpo di spedizione.

Escludendo un attacco su Cadice, dove gli alleati erano stati sconfitti nel 1702, fu fissata come obiettivo Gibilterra, ambita dagli inglesi per via della sua posizione strategica e del suo ruolo fondamentale nel Mediterraneo.

La località andalusa, governata dal sergente maggiore Diego de Salinas, possedeva una guarnigione di appena cento soldati mal equipaggiati, a cui si

potevano unire, in caso di pericolo, altri cinquecento uomini, fra civili e milizie.

L’artiglieria, indispensabile per resistere a un assedio, era insufficiente, e il centinaio di cannoni della piazzaforte non era in buone condizioni.

Salinas aveva esposto al capitano generale dell’Andalusia, marchese di Villadarias, la condizione di pericolo in cui si sarebbe trovata Gibilterra nel caso di un attacco alleato. Le principali forze franco-spagnole, però, si trovavano allora lungo la frontiera tra Spagna e Portogallo e le poche truppe di cui poteva disporre Villadarias garantivano appena la difesa di Cadice. L’unica cosa che potè fare Salinas fu chiedere al capitano generale che comunicasse a Filippo V «la decisione della città di sacrificarsi al suo servizio».

Come annotò un testimone oculare, il sacerdote Romero, «fu un mese fatale per Gibilterra, assediata da mare e da terra». Il primo agosto 1704, la flotta alleata gettava le ancore nella baia di Gibilterra e circa duemila uomini mettevano piede sull’istmo che separa la città dal resto del continente. Una piccola parte della cavalleria uscì dalla piazzaforte per opporre una qualche resistenza allo sbarco, ma fu facilmente respinta dal fuoco degli inglesi.

Sotto il tiro nemico

BRIDGEMAN / ACI

Prima di iniziare l’attacco, il principe Giorgio di Assia-Darmstadt, generale dell’esercito austriaco, inviò alle autorità di Gibilterra una lettera dell’arciduca Carlo in cui si chiedeva alla città di unirsi alla causa austriaca. La risposta non si fece aspettare: i cittadini di Gibilterra si dichiararono

JAMES DAVIS / CORBIS / CORDON PRESS

L’EVENTO STORICO

LA ROCCA DI GIBILTERRA LA ROCCA DI GIBILTERRA è un promontorio calcareo alto 426 metri e

appartenente alla Cordigliera Betica, la catena montuosa che corre nel sud della Penisola iberica. La rocca è scavata da un’ampia rete di gallerie e tunnel con funzione militare. Le più antiche di queste strutture risalgono alla seconda metà del XVIII secolo e furono scavate dagli inglesi per difendersi dagli attacchi degli spagnoli.

disposti a sacrificare i loro beni e la loro vita per difendere Filippo V. Un ultimatum del principe di Assia-Darmstadt ricevette uguale risposta, quindi gli alleati decisero di passare all’azione.

Nella notte del 2 agosto, mentre una pattuglia penetrava nel vecchio porto per incendiare una nave francese all’ancora, una parte della flotta cercava di allinearsi per bombardare la città, cosa che non si potè realizzare con l’efficacia desiderata per via del forte vento. Romero scrisse sul suo diario: «Sabato 2, facemmo fuoco a mezzanotte; sono inenarrabili i pianti e le grida, la paura e la tristezza [che i proiettili alleati produssero]».

Le condizioni migliorarono la mattina seguente e le navi alleate scatenarono un furioso bombardamento che non poté essere contrastato dalle batterie spagnole. Il fumo provocato dal fuoco dell’artiglieria era tanto intenso che dalle navi non si potevano vedere gli obiettivi e venne dato l’ordine di sparare con cadenza di fuoco ridotta.

Gli alleati spararono sulla città 14.000 proiettili in meno di sei ore. Quanto all’attacco via terra, il principe di Assia-Darmstadt lanciò le sue truppe contro i forti della porta nord, mentre una parte di catalani al servizio dell’arciduca sbarcava sulla spiaggia orientale di Gibilterra e cercava di raggiungere

Quando l’occupazione di Barcellona fallì, l’ammiraglio Rooke propose di attaccare Gibilterra L’AMMIRAGLIO GEORGE ROOKE, COMANDANTE DELLA FLOTTA ALLEATA. RITRATTO DI MICHAEL DAHL, 1690.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L’EVENTO STORICO

DIFESA DI GIBILTERRA da parte

BRIDGEMAN / ACI

degli inglesi di fronte all’assedio a cui gli spagnoli sottoposero la piazzaforte nel 1779-1783.

Olio di John S. Copley. 1783.

l’altura per sorprendere i difensori. A questo punto, gli alleati notarono che le batterie del nuovo porto sembravano inattive e diressero le loro scialuppe verso il castello che proteggeva Gibilterra da sud. Gli inglesi iniziarono a scalare le mura di fortificazione quando i difensori fecero saltare una mina; nell’esplosione morirono cinquanta inglesi e altri cinquanta vennero gra-

vemente feriti. Una parte dei marinai cercò di recuperare le scialuppe che non erano state danneggiate, ma l’ammiraglio Rooke, testimone della scena, inviò rinforzi che accrebbero a 1500 il numero degli uomini.

Dopo essersi ripresi dalla distruzione del forte spagnolo, gli alleati si radunarono nel porto nuovo e si disposero per avanzare verso la città.

L’ATTO DI CESSIONE CON LA PACE DI UTRECHT (1713), Filippo V cedette

Durante il bombardamento, donne e bambini, guidati da alcuni religiosi, erano fuggiti dalla città per rifugiarsi nel santuario di Nostra Signora d’Europa, sulla punta meridionale di Gibilterra. Dopo lo sbarco alleato nel porto nuovo, cercarono di ritornare alla città per non essere accerchiati. L’artiglieria alleata sparò sulla folla che ritornava alla città e, anche se il danno non fu grande, fu sufficiente a far sì che i difensori, che avevano visto i nemici installati nel nuovo porto e molte donne ancora fuori dalla piazzaforte, decidessero di parlamentare prima di subire l’assalto definitivo, oltre che il prevedibile saccheggio.

alla Gran Bretagna «la piena e intera proprietà della città e del castello di Gibilterra [...], per sempre, senza eccezioni o impedimenti di sorta», riservandosi una prima opzione di «riacquisto».

16 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ORONOZ / ALBUM

TRATTATO DI UTRECHT. ESEMPLARE CONSERVATO NELLA BIBLIOTECA NAZIONALE DI MADRID.

La città si arrende Il consiglio di Gibilterra, riunitosi il 4 agosto, di fronte alle onorevoli capitolazioni che il principe di Darmstadt aveva concesso – fra esse, l’uscita della guarnigione con gli

Una battaglia di un giorno

1

LA CONQUISTA di Gibilterra avven-

ne dopo intensi combattimenti fra un centinaio di difensori senza artiglieria e la poderosa armata alleata.

L’assalto ebbe luogo il 3 agosto, dopo un bombardamento dal mare.

2

3

1 La porta nord Le truppe del principe di Darmstadt si lanciano contro le strutture difensive dalla porta nord della città.

4

2 Sbarco sulla spiaggia Contemporaneamente, i soldati di Carlo d’Austria sbarcano sulla spiaggia, per attaccare la guarnigione.

3 Il nuovo porto INSTITUT CARTOGRÀFIC DE CATALUNYA

I marinai inglesi attaccano le mura a sud e riescono a occupare il nuovo porto, minacciando così la città.

4 Nostra Signora d’Europa Qui si era rifugiata la popolazione civile, che è quindi circondata dal nemico.

La guarnigione decide di arrendersi.

onori di guerra e la concessione, previo giuramento dell’arciduca Carlo, degli stessi privilegi di cui godevano ai tempi di Carlo II – si risolse alla resa.

Gli inglesi si impegnarono inoltre a scortare sane e salve le persone che erano rimaste al riparo nel santuario.

Il giorno seguente, la maggior parte dei cittadini di Gibilterra prendeva la decisione di abbandonare la città, assicurando a Filippo V che non avrebbe accettato un altro sovrano e che unicamente «per le forze tanto superiori che hanno combattuto [Gibilterra] e per la fatalità di non aver avuto [una grande] guarnigione per la sua difesa, non avevano potuto resistere a una simile invasione». Dei circa cinquemila abitanti su cui contava la popolazione, rimasero nella città poco più di 60 persone, che giurarono fedeltà all’arciduca riconoscendolo re di Spagna. Il giorno precedente, prendendo possesso di Gibilterra, il principe di

Darmstadt aveva innalzato lo stendardo reale dell’arciduca Carlo d’Austria sulle mura della città. Come scrisse uno storico contemporaneo, «gli resistettero gli inglesi; innalzarono il loro e acclamarono la regina Anna, nel cui nome si confermò il possesso e rimase il presidio inglese». Gibilterra non era destinata ad appartenere all’arciduca, nemmeno quando egli riuscì a vincere Filippo V e a diventare re di Spagna con il nome di Carlo III; gli inglesi avevano deciso di riservarsi il possesso di un luogo tanto strategico, che diverrà da allora una base operativa dalla quale era possibile controllare l’accesso al Mediterraneo, obiettivo da tanto tempo perseguito dall’Inghilterra.

In quello stesso anno 1704, seguendo gli ordini di Filippo V, il marchese di Villadarias cercò di recuperare Gibilterra; ma gli alleati erano i signori del mare e la guerra nel suo complesso stava prendendo un andamento ne-

gativo per i Borbone. Verso la fine, il conflitto volse a favore di Filippo V, che dovette però fare importanti concessioni ai suoi nemici, fra queste la stessa Gibilterra, che venne riconosciuta possedimento inglese nel trattato di Utrecht, firmato nel 1713.

Negli anni seguenti, Filippo V tentò diverse volte di recuperare il dominio su Gibilterra, sia per via politica, sia per via militare. Ma l’assedio del 1727 terminò in un fallimento, come quello che intraprese Carlo III fra il 1779 e il 1782. Così la conquista del 1704, realizzata quasi per caso, finì per essere una delle conseguenze più durevoli della guerra di Successione.

GERMÁN SEGURA STORICO MILITARE

Per saperne di più

SAGGI

Storia d’Europa Giuseppe Galasso.

Laterza, Roma-Bari, 2001.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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V I TA Q U OT I D I A N A

Balli in maschera e travestimenti nel Settecento Non solo a Carnevale, a Venezia e in altre città europee erano organizzati balli in maschera in cui tutto era consentito mettessero la maschera anche ai lattanti. Tutti andavano in questa guisa per le calli, nelle case da gioco, nei teatri e anche ai balli che alcuni organizzavano e che costituivano uno dei divertimenti più frequentati».

La moda delle maschere si diffuse in tutta Europa, specie nella forma del ballo in maschera, che si teneva soprattutto nel periodo canonico del Carnevale. A Parigi, dall’inizio del XVIII secolo, durante il Carnevale i balli in costume costituivano il divertimento di migliaia di persone per notti intere. Così riporta il tedesco Joachim Christoph Nemeitz, che trascorse una stagione a Parigi poco prima della morte di Luigi XIV (1715) e durante la reggenza di Filippo II di Borbone-Orléans (1715-1723), in cui il Paese si abbandonò alla spensieratezza e all’edonismo dopo le guerre che avevano contrassegnato il regno del Re Sole. Nemeitz spiega che i grandi aristocratici organizzavano nei loro pa-

BALLO IN MASCHERA

BRIDGEMAN / ACI

A

Venezia per molti secoli, a partire dal tredicesimo, il Carnevale poteva avere inizio anche alla fine dell’estate, cioè il primo ottobre, quando grazie ad apposite licenze era possibile andare in giro mascherati. Generalmente cominciava a dicembre e si protraeva fino alla Quaresima. Molti viaggiatori che arrivavano a Venezia rimanevano stupefatti quando continuavano a imbattersi in persone mascherate. Secondo quanto narrato dallo scrittore francese Charles De Brosses nelle sue Lettres familières écrites d’Italie en 1739 et 1740, «per sei mesi tutti i veneziani indossano la maschera; anche i sacerdoti, il nunzio e il guardiano dei cappuccini; è questo il costume d’ordinanza, tanto che si dice che i curati non sarebbero stati riconosciuti dai loro parrocchiani e l’arcivescovo dai suoi clerici, se non avessero avuto la maschera a mano o sul naso. Si diceva che alcune madri

durante il Carnevale nel palazzo di una famiglia aristocratica francese nel XVIII secolo.

lazzi splendidi balli a cui partecipavano in centinaia se non in migliaia, tutti mascherati e con costumi variopinti.

Saloni sovraffollati

ASSOLUTO ANONIMATO I VENEZIANI idearono un costume che garantisse

SCALA, FIRENZE

loro l’anonimato, la cosiddetta bautta. Era composto da un mantello nero di seta o di velluto, provvisto di cappuccio; da una maschera (il cosiddetto volto), sempre in seta, velluto o cartone, e da un cappello a due o tre punte.

UOMO CON BAUTTA. DETTAGLIO DI IL RINOCERONTE, DI PIETRO LONGHI.

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Nel 1714, per esempio, il duca di Berry diede balli per tre mesi, in cui «tutto era maestoso: la musica, le bevande, i confit, il servizio. Partecipavano più di 3000 maschere, fra cui il duca e la duchessa, tutti i principi, le principesse e altri grandi signori della corte, e un gran numero dei più importanti cittadini di Parigi. Duravano fino al mattino».

Altri balli erano quelli organizzati dal duca di Borbone-Condé, dal princi-

V I TA Q U OT I D I A N A

pe Borbone-Conti, dalla duchessa di Maine, dall’ambasciatore di Sicilia e da quello di Spagna, il duca di Osuna, che dava balli due volte la settimana, spendendo «ingenti somme».

Ad alcuni balli l’accesso era libero e le sale erano sovraffollate. Per altri era richiesto l’invito o venivano chiuse le porte quando lo spazio si era colmato.

Poiché questi balli privati non esaurivano la voglia di divertirsi dei parigini, nel 1716 il duca d’Orléans autorizzò la creazione di un ballo pubblico, il «ballo dell’Opéra», chiamato così perché veniva organizzato in quel teatro. Per l’occasione la platea era sollevata all’al-

Festa in costume in una casa privata LA TELA RIPRODOTTA sopra, di autore ignoto, mostra una festa in costume nella casa di una famiglia nobile francese all’inizio del XVIII secolo. I partecipanti hanno scelto di vestirsi come i personaggi della Commedia dell’arte: le compagnie di giro italiane

avevano a quel tempo enorme

successo in Francia. Al centro della sala vediamo ARLECCHINO, con il caratteristico vestito a rombi di vari colori e la maschera nera, con un bastone, e la sua amata COLOMBINA, con un abito giallo e con la maschera in mano. Dalla porta sul fondo sta entrando

un’ARLECCHINA e da quella di sinistra Scaramuccia o SCARAMOUCHE, provvisto di chitarra. Vicino a lui si riconosce PIERROT, con il vestito bianco, intento a conversare con una dama, e a destra il DOTTOR PANTALONE, in nero con la gorgiera, che appoggia un braccio sul grembo di un’altra dama.

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V I TA Q U OT I D I A N A

Ballo galeotto a Versailles NELLA NOTTE fra il 25 e il 26 di febbraio

del 1745 ebbe luogo nel palazzo di Versailles un fastoso ballo di Carnevale, organizzato dal Luigi XV in occasione del matrimonio fra il Delfino e l’Infanta Maria Teresa di Spagna. L’evento si svolse in varie sale del palazzo, fra queste la galleria degli specchi e il salone d’Ercole, e riunì migliaia di persone; chiunque avesse una maschera in mano era il benvenuto. Venne chiamato bal des ifs o “ballo dei tassi”, per via del travestimento da questo albero che alcuni invitati indossavano. Il ballo passò alla storia poiché vi ebbe luogo il “colpo di fulmine” fra Luigi XV e la giovane Jeanne-Antoinette Poisson, futura marchesa di Pompadour, che si presentò travestita da pastorella e lasciò allusivamente cadere il suo fazzoletto davanti al sovrano.

Tassi Pierrot

IL BALLO DEI TASSI. INCISIONE DI NICOLAS COCHIN.

tezza della scena, così la capacità era molto superiore a quella dei saloni nei palazzi privati. Durante la stagione del Carnevale il ballo dell’Opéra si teneva tre giorni alla settimana: il lunedì, il mercoledì e il sabato.

Nella scelta di maschere e costumi con cui si partecipava ai balli era espressa la più grande inventiva. Il luterano Nemeitz ne rimase profondamente colpito: «Si ha la libertà di presentarsi con qualsiasi tipo di maschera: uomini vestiti da donne, donne vestite da uomini; con maschere

di ogni paese, di ogni epoca, di ogni estrazione, per quanto strane e assurde siano. Qui tutto è permesso, e quanto più una maschera è rara, tanto più viene ammirata».

Identità celate In mancanza di un costume stravagante si indossava il domino, un ampio mantello con cappuccio che svolgeva la funzione di celare l’identità. I balli iniziavano a entrare nel vivo verso mezzanotte e duravano fino all’alba. Gli ambienti erano profusamente illuminati; la sala dell’Opéra aveva decine di lampadari, oltre a candelabri

I balli iniziavano ad animarsi a mezzanotte e si protraevano fino all’alba o anche più tardi AKG /A LB

VIOLINO DEL 1716. GALLERIA DELL’ACCADEMIA, CREMONA.

U

M

20 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

e lanterne nelle anticamere e nei corridoi. All’Opéra l’orchestra, composta da trenta musicisti, dopo aver suonato una musica che dava inizio al ballo si separava disponendosi su due lati della sala. Si ballavano le danze alla moda all’epoca: minuetto, gavotta, contredanse, sarabanda.

In realtà, spesso era arduo fare un passo di danza nelle sale sovraffollate. Lo stesso Nemeitz parla di un ballo in cui «il numero di maschere era tanto considerevole che si riusciva a stento a muoversi nelle sale. Bisognava rimanere fermi nel punto in cui ci si trovava, e le maschere che desideravano danzare non avevano spazio. Ci si poteva ritenere fortunati se si riusciva ad afferrare una coppa di liquore o un’altra bevanda al buffet».

Tuttavia, questo affollamento piaceva. Nel XVIII secolo, il cronista Louis-Sébastien Mercier scriveva: «Un ballo viene considerato di successo

V I TA Q U OT I D I A N A

Indiani Coppie che ballano

Strega

MICHÈLE BELLOT / RMN-GRAN PALAIS

Turco

quando qualcuno viene schiacciato; più gente è presente, più il giorno seguente si è felici di aver assistito».

Le donne non ne erano infastidite, al contrario: «Quando la folla è considerevole, le donne vengono gettate nell’andirivieni e i loro corpi delicati sopportano volentieri di essere schiacciati tra la folla, che rimanga immobile, che ondeggi o che giri».

Confusione e dissolutezza I balli in maschera contavano su un servizio di vigilanza. Il duca di Berry, per esempio, teneva le sue guardie «tutta la notte con le armi in mano, sia per sfilare, sia per impedire disordini».

Altrove invece non ci si prendeva cura di questo aspetto, e allora succedevano «cose orribili», secondo Nemeitz. Per timore di questi incidenti le donne venivano sempre accompagnate, anche se non necessariamente dai mariti o dai promessi. Grazie alla maschera,

chiunque poteva avventurarsi in un ballo senza timore di essere riconosciuto, in cerca delle emozioni tipiche del Carnevale. Le differenze sociali non avevano importanza, anche se, secondo Mercier, i gesti e il modo di parlare denunciavano la classe sociale di appartenenza, almeno fra le donne: «Prostitute, duchesse e borghesi si celano sotto un identico domino, ma si distinguono; si distinguono molto meno gli uomini; e questo prova che le donne hanno sfumature più fini e più caratteristiche».

La fine con la Rivoluzione I balli in maschera erano l’occasione ideale per le avventure galanti. Nemeitz racconta di un uomo che, «volendo cercare avventura a un ballo, abbordò una maschera senza riconoscere né il costume, né la voce».

Era la moglie che, cambiato costume e camuffata la voce, era a sua volta in

cerca di un’avventura. Nel 1781 un incendio distrusse il teatro dell’Opéra, e questo obbligò a cambiare la sede del grande ballo in maschera di Carnevale.

Scoppiata la Rivoluzione, le maschere vennero proibite e si interruppe la tradizione dei balli, che ritorneranno nel 1799, senza però lo spirito festoso del passato, secondo alcuni contemporanei: «La gente non ballava, passeggiava platonicamente al suono di una musica cui non prestava troppa attenzione.

La Rivoluzione aveva lasciato negli animi un umore grave che dominava i caratteri anche nei momenti di svago».

Si perse anche l’eterogeneità sociale: vi erano solo uomini e donne «della migliore società».

ALFONSO LÓPEZ STORICO

Per saperne di più

SAGGI

Histoire du Carnaval de Venise G. Bertrand, Pygmalion Parigi, 2013.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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E. LESSING / ALBUM

Sottomissione e ribellioni

GLI SCHIAVI DI SPARTA I cittadini di Sparta potevano dedicarsi interamente alla guerra poiché i loro schiavi, gli iloti, ai quali riservavano un trattamento crudele, li liberavano da qualsiasi preoccupazione materiale FRANCISCO JAVIER MURCIA ORTUÑO DOTTORE IN FILOLOGIA CLASSICA

N

elle civiltà antiche la schiavitù era considerata una condizione normale, addirittura naturale («lo schiavo è un oggetto di proprietà animato», diceva Aristotele nella Politica). Non faceva eccezione Sparta, tanto che Crizia, uno dei Trenta tiranni di Atene (fine del V secolo a.C.), disse che in nessun altro luogo gli uomini liberi erano più liberi e gli schiavi più schiavi. Per spiegare questa affermazione dobbiamo risalire al X secolo a.C., quando la stirpe greca dei dori invase il Peloponneso e occupò le fertili terre della valle dell’Eurota – la regione della Laconia – e ridusse in schiavitù tutti i suoi abitanti. I dori strapparono loro le terre e li costrinsero a lavorarle per i nuovi padroni. A questi schiavi venne dato il nome di iloti, parola di origine incerta che deriva forse dal termine “catturare”, vista la loro condizione di prigionieri di guerra.

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DEDITI ALLE ARMI

Coppa laconica con caccia al cinghiale di Calidone. Con la caccia gli spartani praticavano due virtù del guerriero: destrezza con le armi e resistenza fisica.

VI secolo a.C. Louvre.

IL LAVORO NEI CAMPI

Terracotta beotica che mostra un uomo che ara con due buoi. Gli iloti vivevano nei campi e dovevano consegnare ai padroni parte del raccolto. VI secolo a.C. ,Louvre.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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HERVÉ LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS

Anfipoli

1 4

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Argo Megalopoli ME ssenia LACO nia Messene Isola di Sfacteria Sparta Principali centri politici

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3

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UNA POTENZA CONSERVATRICE

Sparta non mirava a costruire un impero: le morti in guerra riducevano il numero dei suoi cittadini, e ciò comprometteva la sua sicurezza, minacciata dalle ribellioni degli iloti messeni.

Zona sotto il dominio di Sparta Principali battaglie

Mileto

1 2 3 4

Termopili (480 a.C.) Platea (479 a.C.) Sfacteria (425 a.C.) Leuttra (371 a.C.)

In seguito, nell’VIII secolo a.C., gli spartani, forse a causa del sovrappopolamento, si lanciarono alla conquista della vicina regione della Messenia. Al termine di una guerra lunga e sanguinosa ne presero il controllo e resero schiavi i suoi abitanti. I messeni schiavizzati divennero dunque iloti; nel V secolo a.C., Tucidide scriveva che la maggior parte degli iloti era costituita «dai discendenti degli antichi messeni ridotti in schiavitù».

Come gli altri iloti, i messeni continuarono a lavorare le loro terre pagando un oneroso tributo ai nuovi padroni. Ecco come dà loro voce il poeta Tirteo, spartano d’adozione: «Come asini da pesanti some gravati, ai padroni, pel triste bisogno, d’ogni frutto, di quanto la terra produce, metà portiamo». Il particolare stile di vita dei cittadini di Sparta, dediti alla guerra, fu reso possibile solo da questa infinità di schiavi che lavorava la terra

X secolo a.C. C R O N O LO G I A

I MESSENI, SCHAVI PER SECOLI 24 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

I Dori invadono le terre della Laconia, a est del Peloponneso, dove fonderanno la città di Sparta, chiamata anche Lacedemone. Gli abitanti della regione sono ridotti in schiavitù e diventano iloti.

per il loro sostentamento. Gli schiavi dovevano anche essere sottoposti a stretta sorveglianza per evitare insurrezioni. Si creò così quella Sparta che gli autori dell’antichità paragonano a un accampamento militare perenne.

Una vita di sottomissione Gli iloti appartenevano allo Stato e non potevano essere venduti al di fuori di Sparta né liberati dai cittadini privati. Avevano la testa rasata (in stridente contrasto con le lunghe chiome che sfoggiavano gli spartani adulti), vestivano con un rozzo indumento di cuoio e si

VIII-VII secolo a.C.

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BRIDGEMAN / ACI

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CARTOGRAFÍA: EOSGIS.COM

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Ricostruzione immaginaria del centro monumentale della città di Sparta.

Acquerello di Joseph M. Gandy, (XIX secolo).

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LA CAPITALE DEGLI SPARTANI

Maronea Eno

Gli spartani conquistano la regione della Messenia, facendo schiavi i suoi abitanti. Gli iloti messeni manterranno sempre la loro coscienza nazionale e l’aspirazione alla libertà, e si ribelleranno più volte.

GUERRIERO SPARTANO, FORSE LEONIDA. V SECOLO A.C. MUSEO DI SPARTA.

UN INGANNO CRUDELE

IL MASSACRO DEGLI ILOTI

S

econdo quanto racconta lo storico Tucidide, nel 424 a.C. gli spartani annunciarono che avrebbero selezionato gli iloti che più si fossero distinti nella difesa di Sparta perché desideravano concedere loro la libertà. In realtà, gli spartani pensavano che quelli più abili con le armi erano anche i più inclini a ribellarsi, poiché si consideravano i migliori. Ne scelsero circa duemila, che furono incoronati e condotti nei vari santuari come era consuetudine quando si liberavano degli schiavi. Poco dopo, tuttavia, li fecero sparire e nessuno seppe mai come vennero eliminati.

Si trattò di un atto di una crudeltà estrema, anche se va detto che tali massacri su vasta scala non erano frequenti, poiché privavano Sparta della forza-lavoro e incrinavano il fragile rapporto di fiducia tra schiavo e padrone. Considerando la segretezza che a Sparta dominava in qualsiasi campo, se questo atto venne reso pubblico fu soltanto per dimostrare ai nemici il totale dominio spartano sugli iloti.

che ne avessero necessità, come si faceva con i cani e con i cavalli. Alcuni iloti, soprattutto le donne, venivano impiegati per il servizio domestico personale. Il concubinato con uomini spartani doveva essere piuttosto diffuso, giacché esisteva una categoria sociale chiamata móthakes, vale a dire “figliastri”.

Da schiavi a soldati Gli iloti seguivano il padrone nelle campagne militari: sappiamo che ogni oplita spartano era accompagnato da un ilota per il suo servizio esclusivo. Inizialmente gli iloti furono usati solo per il trasporto dei bagagli e delle armi

464 a.C.

370 a.C.

Un terremoto colpisce Sparta e favorisce la ribellione degli iloti messeni, che si rifugiano sul monte Itome. Lì resistono per dieci anni, finché gli spartani non consentono loro di lasciare il Paese con le loro famiglie.

Dopo la vittoria di Tebe su Sparta nella battaglia di Leuttra, il generale tebano Epaminonda restituisce le terre ai messeni e fonda per loro una capitale dalle mura poderose: Messene, alle falde del monte Itome.

L’ARMATURA DEL GUERRIERO

I fanti spartani furono gli opliti più temuti della Grecia. La panoplia (armatura) dell’oplita era formata da elmo, corazza, schinieri, scudo, lancia e spada. In basso, elmo da oplita del V secolo a.C.

III secolo a.C. Migliaia di iloti ottengono la libertà grazie al servizio militare prestato a Sparta o dietro pagamento. Il sistema schiavista spartano si conclude sotto il dominio di Roma, che inizia nel II secolo a.C.

BRIDGEMAN / ACI

coprivano il capo con un berretto di pelle di cane (kynê), che era il loro elemento distintivo.

Se si toglievano questi indumenti venivano puniti con la morte, e i loro padroni multati.

Indubbiamente, poter distinguere con facilità gli iloti grazie al loro aspetto esteriore rendeva più semplice tenerli sotto controllo.

Gli iloti vivevano soprattutto nei campi, dove formavano delle comunità e potevano fare vita familiare. Erano legati a un lotto di terra che dovevano coltivare per offrire una parte del raccolto al padrone; il resto della produzione rimaneva nelle loro mani. Il padrone era obbligato a prestare i propri schiavi ad altri concittadini

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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INVIATI IL PIÙ LONTANO POSSIBILE

Tempio di Hera a Selinunte. Gli iloti spartani vennero mandati a combattere in Sicilia e in altri luoghi lontani dalla Grecia continentale perché non rivolgessero le armi contro i padroni.

BPK / SCALA, FIRENZE

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pesanti del padrone, ma ben presto venne loro permesso di combattere come truppe con armamento leggero. Con il tempo, il loro ruolo si fece più importante, poiché il numero di spartani puri iniziò a diminuire; sappiamo che il generale spartano Brasida portò con sé settecento iloti per combattere contro gli ateniesi nel nord dell’Egeo in piena guerra del Peloponneso, e all’inizio del IV secolo a.C. tremila iloti presero parte alla campagna del re Agesilao contro i persiani.

Questa politica di inserire gli iloti nell’esercito era un modo per allontanare dalla città un gran numero di schiavi che potevano essere pericolosi in caso di rivolta. Per questo motivo venivano destinati a guerre che si combattevano molto lontano da Sparta: il nord dell’Egeo, l’Asia Minore e la Sicilia. Gli iloti che dimostravano una buona disposizione alla battaglia potevano ottenere l’agognata libertà, come accadde a quelli che seguirono Brasida. Nel 425 a.C. venne offerta la libertà agli iloti che avessero avuto il coraggio di portare i viveri ai soldati spartani circondati dagli ateniesi sull’isola di Sfacteria.

La crescente importanza militare degli iloti portò alla creazione, alla fine del V secolo a.C., di una categoria sociale nota come neodamodeis,“nuovi membri del demos” (il popolo), formata da iloti liberati e addestrati come opliti, che furono impiegati come

MANUEL COHEN / ART ARCHIVE

IL DECLINO DI UNA POTENZA Il re Archidamo III di Sparta (in basso, un busto di marmo che lo ritrae) non poté evitare la sconfitta decisiva di Sparta a opera di Tebe a Leuttra, nel 371 a.C., nonostante avesse arruolato degli iloti per rimediare alla diminuzione del numero di spartiati.

BRIDGEMAN / ACI

ILLUSTRAZIONE DEL XX SECOLO CHE RITRAE UNO SPARTANO INTENTO A FRUSTARE I SUOI SCHIAVI MENTRE SPINGONO UN ARATRO.

truppe d’assalto in diverse campagne militari nel periodo fra il 421 e il 371 a.C.; nonostante il loro nome, però, non godevano dei pieni diritti come i cittadini veri e propri, gli spartiati.

Una repressione crudele Se è impossibile conoscere l’esatta proporzione fra cittadini e schiavi nell’antica Sparta, possiamo invece essere certi che il numero di iloti cresceva mentre quello degli spartiati diminuiva costantemente a causa delle continue guerre e di una severa politica in fatto di diritto di cittadinanza, che prevedeva persino l’abbandono di bambini nati con difetti fisici.

Di fronte a questa situazione, lo Stato dovette prendere delle misure atte a controllare gli iloti.

In primo luogo, gli efori (i cinque magistrati che detenevano il potere supremo), al momento di entrare in carica all’inizio dell’anno, dichiaravano ufficialmente guerra agli iloti affinché ucciderli non fosse un sacrilegio; nel pensiero della Grecia classica, infatti, qualunque crimine ingiustificato provocava una macchia religiosa che ricadeva su tutta la città. Il principale stru-

ALLEATI DEI RIBELLI

ATENE E GLI ILOTI

G

DUE OPLITI ATENIESI SU UNA STELE FUNERARIA LAVORATA RISALENTE AL 490 A.C. CIRCA. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, ATENE. DEA / ALBUM

li ateniesi, acerrimi nemici degli spartani, guardavano con particolare simpatia agli schiavi messeni di Sparta e assecondarono la loro speranza di liberazione. In primo luogo, dopo la grande insurrezione del 464 a.C. aiutarono gli insorti messeni asserragliati sul monte Itome a stabilirsi a Naupatto. Poi, durante la guerra del Peloponneso, che vide confrontarsi Atene e Sparta, usarono gli iloti messeni ribelli come truppe irregolari per saccheggiare le terre della Messenia. Tentarono di fare qualcosa di simile con gli iloti della Laconia, ma quando lo stratega Demostene fortificò un isolotto a sud del Peloponneso, esortando gli schiavi laconi a fuggire in quella direzione, l’iniziativa non ebbe l’esito sperato.

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mento di repressione, tuttavia, fu la krypteia.

Questo termine è legato al verbo“nascondere”, e ciò spiega in che cosa consistesse la prova: nascondersi nelle campagne per tendere agguati agli iloti. Plutarco la descrive in dettaglio: «Coloro che hanno autorità sui giovani di tanto in tanto inviano i più accorti tra loro in piena campagna, in una strada a caso; questi hanno con sé un pugnale, il necessario per mangiare e nient’altro. Finché è giorno, essi si disperdono nei luoghi più nascosti, senza fare nulla, ma non appena scende la notte raggiungono le strade percorse dagli iloti; se ne sorprendono uno, lo sgozzano. O ancora, intrufolandosi nei campi, ammazzano i più robusti e valenti».

Inizialmente, la krypteia fu una prova di coraggio e addestramento alla vita militare per la gioventù spartana, ma ben presto divenne un modo per incutere terrore e ridurre il rischio di ribellioni degli iloti: queste ronde nei campi permettevano di controllare gli schiavi, stroncare sul nascere la resistenza organizzata e prevenire il banditismo.

BRIDGEMAN / ACI

Ribellioni e liberazione

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Secondo quanto racconta Senofonte, che mise la propria spada al servizio di Sparta, gli iloti passavano la vita attendendo che qualche avversità colpisse i padroni e guardandoli con il desiderio di «mangiarseli vivi». La paura di rivolte degli iloti condizionava pesantemente

PHOTOAISA

L’ESERCITO DI COLORE SCARLATTO Statuina in bronzo di un guerriero spartano, del VI secolo a.C. Quello spartano fu il primo esercito ad adottare un’uniforme: indossava infatti tuniche e mantelli scarlatti.

ALAMY / ACI

ODEON ED EKKLESIASTERION (LUOGO DI RIUNIONE DELL’ASSEMBLEA CITTADINA) DI MESSENE, LA CITTÀ FONDATA DA EPAMINONDA PER GLI ILOTI MESSENI RIBELLI.

lo stile di vita e la politica di Sparta, poiché i cittadini, temendo che gli schiavi insorgessero in loro assenza, furono costretti a rinunciare alle lunghe campagne militari in luoghi lontani, limitando quindi la loro influenza politica e militare alla zona del Peloponneso.

La ribellione più grande ebbe luogo nel 464 a.C., quando un terremoto colpì duramente la città di Sparta. Lo si attribuì a una punizione da parte di Poseidone, dopo che gli spartani avevano ucciso alcuni iloti che si erano rifugiati nel tempio a lui dedicato sul capo Tenaro. Il violento sisma uccise 20.000 cittadini, e solo cinque case rimasero in piedi.

I sopravvissuti stavano raccogliendo i propri averi tra le macerie quando il re Archidamo II ordinò di dare il segnale di battaglia e tutti gli uomini accorsero al suo cospetto, armati. Fu la salvezza di Sparta, poiché gli iloti giungevano a frotte in città dalle campagne, pronti a finire gli spartani che si erano salvati dal sisma; trovandoli in assetto di battaglia, si ritirarono. Gli iloti messeni, però, approfittarono del terremoto e presero le armi. Molti si rifugiarono sul mon-

SCHIAVI CONTRO I PERSIANI

I SERVITORI DEL GUERRIERO

G

li iloti trasportavano gli impedimenti e le armi pesanti dell’oplita spartano, il soldato di fanteria pesante; svolgevano tutti i lavori di intendenza e raccoglievano i caduti. Solitamente, ogni spartano era accompagnato da un solo ilota che lo serviva, tuttavia, secondo Erodoto, nella battaglia di Platea, combattuta contro i persiani nel 479 a.C., l’esercito spartano era formato da circa 5000 cittadini, ciascuno dei quali aveva sette iloti che furono poi usati in combattimento. Si è discusso molto su queste cifre, che implicano la presenza di 35.000 iloti; un numero tanto elevato si spiega solo con il timore di lasciarli a Sparta quando quasi tutti i cittadini erano lontani per la campagna militare.

Dopo la battaglia, gli schiavi caduti furono sepolti sul posto in una tomba separata, mentre ai sopravvissuti fu ordinato dal generale Pausania di raccogliere il bottino; naturalmente, mentre eseguivano il compito rubarono molti oggetti che successivamente vendettero in segreto.

te Itome, una fortezza naturale al centro della Messenia, dove resistettero addirittura per dieci anni, fino a quando un accordo con gli spartani non permise loro di lasciare il Paese insieme con le loro famiglie.

La liberazione definitiva degli iloti arrivò molto tempo dopo, nel 371 a.C., quando le truppe di Tebe guidate da Epaminonda inflissero una dura sconfitta agli spartani nella battaglia di Leuttra. I tebani invasero Sparta e gli iloti messeni approfittarono della loro presenza per ribellarsi nuovamente. Epaminonda consegnò agli schiavi la loro antica patria liberata e rifondò la città di Messene, alle falde del monte Itome.

Diverso fu il comportamento degli iloti della Laconia. Molti accettarono l’offerta di arruolarsi nell’esercito spartano per combattere gli invasori (1000, secondo Diodoro; 6000, secondo Senofonte). La sottomissione di questi schiavi era così grande che, quando alcuni iloti furono catturati dai tebani, esortati a cantare canzoni e poemi che i padroni avevano vietato loro di intonare, rifiutarono di farlo. Durante il periodo di decadenza di Sparta gli iloti ebbero maggiori

possibilità di ottenere la libertà. Sappiamo per esempio che tra il 223 e il 222 a.C. seimila iloti riuscirono a pagare le cinque mine attiche che per la loro liberazione esigeva il re di Sparta Cleomene III; il denaro proveniva dalle eccedenze del raccolto che, secondo le leggi antiche, gli iloti potevano conservare.

Nabide, che regnò tra il 207 e il 192 a.C., concesse la libertà e la cittadinanza a un buon numero di iloti allo scopo di ingrossare le fila del suo esercito. Quando, a distanza di breve tempo, iniziò la dominazione romana sulla Grecia, questo peculiare sistema schiavista, in cui una classe di servi legata alla terra lavorava per mantenere una classe privilegiata dedita alle armi, finì per scomparire.

Per saperne di più

EROI DELLE GUERRE MEDICHE

Una scena della battaglia di Maratona, nella quale gli ateniesi sconfissero i persiani.

Il ruolo di Sparta nelle guerre tra greci e persiani del V secolo a.C. si rivelò decisivo: vinsero i persiani a Platea e li bloccarono alle Termopili.

SAGGI

Sparta Ernst Baltrusch. Il Mulino, Bologna, 2002.

TESTI

Vite parallele (Licurgo e Numa) Plutarco. Rizzoli, Milano, 2012.

Le storie Tucidide. Utet, Torino, 2005.

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UNA VITA DI TORMENTI E UMILIAZIONI Nel 1900, l’artista francese Fernand Sabatté dipingeva questa tela, intitolata Uno spartiata addita ai figli un ilota ubriaco. Il dipinto evoca una delle pratiche degradanti alle quali i cittadini di Sparta sottomettevano i loro schiavi, gli iloti, secondo quanto riferisce Plutarco nella sua biografia del legislatore spartano Licurgo.

Costretti a bere Alla repressione pura e dura si aggiungevano varie vessazioni che gli iloti dovevano subire. Plutarco racconta che erano costretti a bere smodatamente e condotti nei banchetti pubblici affinché i giovani spartani vedessero con i loro occhi che cosa fosse l’ubriachezza e si moderassero nel bere.

Obbligati a ballare Gli spartiati infliggevano altre umiliazioni ai loro schiavi, per annullarne l’autostima. Per esempio, li obbligavano a intonare canzoni e a danzare balli indecenti e ridicoli (a loro, però, erano tassativamente proibite le canzoni e i poemi che cantavano i cittadini spartani).

Frustati senza motivo Secondo quanto raccolto nella sua opera Sofisti a banchetto dall’erudito greco Ateneo (che visse tra il II e il III secolo d.C.), ogni anno gli spartiati infliggevano un certo numero di frustate agli iloti, anche se non avevano fatto nulla di male, solo perché non dimenticassero la loro condizione di schiavi.

BRID

GEMA

N / AC

I

KYLIX (COPPA DA VINO) PROVENIENTE DALLA LACONIA. VI SECOLO A.C. GALLERIA DELLE ANTICHITÀ, KASSEL.

DIPINTO DI FERNAND SABATTÉ.

1900. ÉCOLE NATIONALE SUPÉRIEURE DES BEAUX-ARTS, PARIGI.

BRIDGEMAN / ACI

AL-DEIR, IL “MONASTERO”

Un’iscrizione in cui veniva menzionato il re nabateo Obodas, trovata nelle vicinanze, spinse a pensare che questo edificio scavato nella roccia fosse dedicato al suo culto funerario. La facciata misura 47 metri di ampiezza per 42 di altezza; è coronata da un’urna di 9 metri di altezza.

ROBERT PRESTON / AGE FOTOSTOCK

LA CITTÀ MULTIETNICA

PETRA CROGIOLO DI CIVILTÀ, LA CAPITALE DEL REGNO NABATEO, TAPPA OBBLIGATA DELLE CAROVANE, FU UN ESEMPIO UNICO DI SINCRETISMO RELIGIOSO: VI CONVIVEVANO CULTI ARABI, GRECI, EGIZI, SIRIANI E ROMANI

JUAN PEDRO MONFERRER PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ DI CORDOBA

EL-KHASNEH, IL TESORO

JANE TAYLOR / ART ARCHIVE

I beduini, convinti contenesse un tesoro, chiamarono così questo imponente tempio funebre, sulla cui facciata appare una rappresentazione della dea Iside.

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C

La strettoia si affaccia sul tempio del Tesoro (al-Khasneh, in arabo). Anticamente chiamata Reqem, Petra era una città affascinante, tanto grande che, secondo i viaggiatori, le carovane impiegavano un giorno intero per attraversarla. Le montagne color ocra che la circondano proteggevano una città vivace, ricca di contrasti di colori e abitata da persone di ogni provenienza – arabi, greci, ebrei, romani, siriani – che in questo luogo, nel cuore dell’immensa solitudine del deserto, trovavano sicurezza, acqua, distrazioni e opportunità per fare affari.

Gli dei nabatei

DOMINIO ROMANO

Il re nabateo Areta III, inginocchiato accanto a un dromedario, rende omaggio a Pompeo Magno, che nel 63.a.C aveva consolidato i domini orientali. Denario del I secolo a.C.

C R O N O LO G I A

LA CITTÀ NABATEOROMANA

169 a.C.

86-61 a.C.

9 a.C.-40 d.C.

106 d.C.

Il libro II dei Maccabei menziona Areta I, il primo re dei nabatei.

Con Areta III, i nabatei si espandono verso nord. Verranno fermati dalle legioni di Pompeo.

Sotto Areta IV, la città-Stato di Petra conta 25.000 abitanti. Il regno nabateo raggiunge il suo apice.

L’imperatore Traiano incorpora il regno dei nabatei alla provincia romana d’Arabia.

LA DEA ATARGATIS. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, AMMAN.

DIXON / AG

E FOTOSTOC

K

Petra (che attualmente si trova in Giordania) era un crocevia economico e culturale di straordinaria importanza: nella città confluivano le strade commerciali che univano l’Asia con il Mediterraneo; e perciò nelle sue strade si sentiva parlare una quantità di lingue e si praticava ogni tipo di rito. Non è sorprendente che gli abitanti di Petra, i nabatei – in origine un popolo nomade proveniente dalla Mesopotamia –, avessero costituito una religione basata sul sincretismo, ovvero sull’assimilazione di divinità di altri popoli che avevano

assunto come proprie. In questo modo la loro fede si fondeva in perfetta armonia con quella di arabi, greci e romani. Così la religione nabatea fu il risultato dell’evoluzione: le nuove deità rimpiazzavano o si sommavano a quelle già esistenti.

In principio le divinità dei nabatei si riducevano a due, una maschile e una femminile, con differenti nomi a seconda del luogo dove venivano adorate. A partire da queste due deità se ne formò una serie di undici: Dushara, Allat, al-Uzza, Kutba, Baal Shamin, Qos, Hubal, Manawat, Qaysha, Iside e Atargatis.

Ognuna di esse aveva una funzione specifica e un culto dedicato.

Dushara, «il signore della montagna», in origine rappresentava un dio minore locale, ma in seguito divenne la principale divinità nabatea e in epoca ellenistica fu assimilato a Zeus e ad Ares. Allat, «la dea», era la divinità femminile superiore di Petra, dove, nel Tempio dei Leoni alati, era identificata con Afrodite.

Al-Uzza, «la più potente», era considerata a Petra la moglie di Dushara. Manawat era conosciuta fra gli arabi come Manat,“destino”, e venne venerata alla Mecca, insieme con Allat e al-Uzza, in epoca preislamica.

DEA / ALBUM

hi guidava le carovane che attraversavano la penisola del Sinai raccontava meraviglie di una città con case, tombe e nicchie scavate nella roccia, chiamata Petra. Costruita nel cuore del deserto, questa portentosa città scolpita nell’arenaria rosa è celata in una gola fra le montagne, che la isola e la protegge. Vi si accede attraverso il Siq, una strettoia di circa mille metri di lunghezza.

Al-Deir, il monastero Tomba di Sesto Fiorentino Triclinium dei Leoni

Tomba corinzia

Tomba dell’Urna

Tempio dei Leoni alati

Tomba del Palazzo Tomba di Seta Qasr al-Bint Tempio Grande Tomba rinascimentale

Via colonnata

Teatro Tomba di Uneishu Tomba degli Obelischi

Tomba del Giardino

Siq (gola di accesso a Petra) Tomba del Soldato romano Altare dei Sacrifici El-Khasneh, il Tesoro

ACQUARELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSEO DIPARTIMENTALE DELL’ANTICA ARLES. © ÉDITIONS ERRANCE

LA CITTÀ DELLE TOMBE

QASR AL-BINT. QUESTO TEMPIO, DI 28 METRI DI AMPIEZZA PER 23 DI ALTEZZA, AVEVA ALCUNE PARTI AL SUO INTERNO RIVESTITE D’ORO.

che i greci denominarono Petra in riferimento alla pietra: in questo materiale sono infatti scolpite le facciate e l’interno delle più di 600 tombe scavate nella roccia che costituiscono il segno di identità dell’antica capitale nabatea. Le costruzioni edificate al livello del suolo, dai templi alle residenze private, non resistettero ai frequenti terremoti che hanno colpito la città, come quelli degli anni 363, 419 e 551 d.C. L’eccezione è il tempio di Qasr al-Bint, che un tempo era costituito da due edifici e che forse era dedicato a Dushara, la principale divinità del pantheon nabateo.

NICO TONDINI / AGE FOTOSTOCK

I NABATEI CHIAMAVANO Reqem la loro capitale,

Palmira (Tadmor)

SIRIA Berytus (Beirut)

DamascoDESERTO ARABO-SIRIANO

EGITTO

DESERTO DEL NEGEV

Hawara (Humeima)

Elat (Aqabah)

DESERTO DEL SINAI

Gol fo di Aqaba h

Klysma (Suez)

Leuke Kome

DESERTO WADI RUM

Adummatu (Dumat al-Jandal) ARABIA

DESERTO DEL NEFUD

Tabuk

Tayma

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Hegra (Mada’in Salih)

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Myos Hormos

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CARTOGRAFÍA: EOSGIS.COM

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Dedan (Al-Ula)

Ras Karkuma

SULLA ROTTA DELLE CAROVANE LA PIOGGIA E CINQUE SORGENTI rifornivano Petra dell’acqua di cui i nabatei

facevano tesoro nelle loro cisterne e che contribuì alla loro fortuna, poiché trasformò la città in una tappa obbligatoria delle carovane che attraversavano i deserti di Arabia e Siria cariche di prodotti esotici (mirra, incenso, seta, spezie) destinati alle civiltà del Mediterraneo. Tali carovane, inoltre, pagavano cospicue tasse ai nabatei per poter attraversare il loro territorio.

Quello che oggi gli archeologi chiamano Tempio grande o Tempio sud si presentava con un triplo colonnato di pilastri intagliati sormontati da teste d’elefante, che gli conferivano un’imponenza senza pari. Il Tempio dei Leoni alati – chiamato così per via delle sculture che vi sono conservate – era forse consacrato alla dea Allat: in esso si può leggere questa iscrizione in nabateo: «Che Allat si ricordi di Aydu / il costruttore, figlio di Assalone, a fin di bene».

Ma il tempio più importante era quello di Qasr al-Bint, forse consacrato al dio Dushara e unico santuario della città le cui facciate sono sopravvissute ai terremoti che hanno colpito la zona. Costruito su una piattaforma elevata, si trovava alla fine della via colonnata, lungo la quale sfilavano le processioni che facevano parte del culto che si svolgeva nel santuario.

LO SGUARDO DI UNA DEA

Su questo betilo con sembianze umane trovato nel tempio dei Leoni alati si legge «Dea di Hayyan».

JANE TAYLOR / ART ARCHIVE

In un primo periodo, gli dei venivano onorati con betili. Il betilo era una pietra a cui si conferiva carattere sacro perché era considerata la dimora di una divinità, secondo il credo dei popoli nomadi del Vicino Oriente. Il betilo veniva eretto in uno spazio consacrato a cielo aperto, con un altare destinato a sacrifici in suo onore. Il termine“betilo”è presente nel toponimo biblico Betel (“casa di Dio”), dove Abramo eresse un altare (Genesi 12,8; 13,3) e Giacobbe sognò la scala celeste (Genesi 35,1-7). Più tardi l’influenza ellenistica contribuì a far sì che il culto ancestrale dei betili fosse progressivamente arricchito e sostituito dalla costruzione di templi e dall’introduzione del culto di statue delle divinità.

L’importanza dell’attività religiosa della città poteva essere apprezzata considerando le due tipologie di tempio che vi si potevano trovare: con o senza sacerdoti o sacerdotesse.

I santuari potevano inoltre contare su personale differenziato, come esorcisti, indovini o vaticinatori, che esaminavano le interiora degli animali sacrificati in onore delle divinità. A oggi nel centro della città sono stati identificati tre grandi templi, costruiti fra la fine del I secolo a.C. e la metà del I secolo d.C., l’epoca in cui la città raggiunse il suo apogeo. I tre santuari si ergevano nei pressi della grande via colonnata che attraversava la città.

Mar Morto

Gaza GIUDEA Elusa Mampsis Avdat (Kurnub) Nessana Shivdat Petra

Al-Arish

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Templi e processioni

Gerusalemme

N

Altre divinità adottate dai nabatei trovarono a Petra una devozione minore. La dea egizia Iside, per esempio, compare in iscrizioni che collocano il culto in un’area lontana dal centro di Petra, sopra un’altura che non poteva accogliere molti fedeli, e questo indica che probabilmente il suo culto non era molto diffuso.

Anche Atargatis, dea siriana della prosperità e della buona sorte, fu scarsamente venerata, probabilmente solo dai pochi visitatori siriani.

I rituali in onore delle divinità si celebravano all’interno dei templi e nei loro giardini. Si trattava di boschetti di querce, cipressi, melograni, platani, fichi, gelsomini e altre piante aromatiche che popolavano i portici dei santuari, dove si svolgevano le offerte per onorare la fertilità della terra.

Giordano

Alessandria

Regno nabateo verso il 60 a.C. Vie commerciali: terrestri marittime Porti

SAMARIA Bosra Gerasa (Jerash)

MAR MEDITERRANEO

NURIA PUENTES

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UNA ZONA SACRA

In primo piano appaiono le rovine di un arco di trionfo romano sulla strada colonnata e, più in là, le colonne del Tempio grande. Sul fondo si intravedono le facciate delle Tombe reali.

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Nell’immagine, interno di una tomba di Petra, con le sepolture individuali disposte intorno alla camera mortuaria.

JUAN CARLOS MUÑOZ / AGE FOTOSTOCK

CULTO DEI MORTI

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Questa via, di circa 300 metri di lunghezza, era adorna di statue di sovrani nabatei e di divinità, con sedili in pietra e porte d’ingresso ad altri edifici. Ospitava anche iscrizioni in nabateo, greco e latino, alcune di esse dedicate a monarchi nabatei e una anche a un governatore romano della provincia.

Possiamo immaginare una di quelle splendide processioni in epoca romana: l’imponente strada circondata da colonne e statue, colma di gente vestita a festa che porta mirto e foglie di palma, lungo la quale avanza una parata trionfale di carri trainati da cavalli condotti da aurighi e un’infinità di sacerdoti e sacerdotesse che escono dai loro templi. Un araldo fiancheggiato da soldati guida la processione propiziatoria, seguito da paggi bardati e dal corpo di guardia che reca stendardi e insegne.

I sacerdoti, a gruppi di sette, portano statue di divinità e bracieri provenienti dai templi, dai quali emana il profumo della mirra e della legna aromatica che arde in onore delle divinità; e si fermano davanti a loro per celebrare i riti prescritti, con il pubblico raccolto intorno.

DA PETRA ALLA MECCA LE DEE ALLAT, AL-UZZA E MANAT, venerate a Petra – e in altre città come Palmira, dove si trovava un tempio di Allat –, costituivano una triade di divinità femminili legate alla divinità maschile superiore Hubal, il cui santuario era nella Ka’ba, alla Mecca. Questo pantheon era adorato dagli arabi prima che Maometto si dichiarasse monoteista e predicasse l’Islam, come viene narrato nel Corano (sure 53, 19-23; 16, 57; 37, 149).

Sacrifici per gli dei La via colonnata non era l’unico percorso processionale della città: lo era anche il Siq, l’angusta gola che porta a Petra. Così è descritto nelle rappresentazioni di facciate, tombe e nicchie destinate al culto che si succedono sulle sue pareti. Sul piano religioso poi esisteva un’intima connessione fra Petra e le montagne che la circondavano, dove si trovavano altri spazi consacrati, come le Tombe reali scavate nella roccia di al-Khubthah (a est della via colonnata) o i Luoghi alti.

Proprio in queste zone, situate in punti elevati della montagna – più vicini perciò al cielo, la dimora degli dei –, si completava il percorso delle processioni, che culminavano con il sacrificio o con l’olocausto di un animale.

L’olocausto consisteva nel bruciare la vittima intera, eccetto la pelle, senza che rimanesse nulla all’offerente (la persona che offriva il sacrificio), né al sacerdote. Se il sacrificio era pubblico, l’immolazione era effettuata dai sacerdoti. Se aveva carattere privato, l’offerente sgozzava l’animale fuori dall’altare e il sacer-

dote spargeva il sangue della vittima intorno all’ara. Poi l’animale veniva scorticato e fatto a pezzi e le sue parti (incluse testa, viscere e zampe) venivano lavate e collocate sull’altare, dove ardevano nel fuoco perpetuo.

Come possiamo notare, a Petra le pratiche di culto e le divinità nomadi ancestrali convivevano in perfetta simbiosi con rituali dei greci e dei romani. Così si viveva nella più cosmopolita città del deserto, che nell’VIII secolo, decaduta in seguito all’arretramento delle rotte commerciali e al ripetersi dei terremoti, sarebbe stata abbandonata per sempre.

Per saperne di più

LA GRANDE DEA ALLAT

Allat è rappresentata seduta sul suo trono, con un leone (il suo simbolo) ai piedi. Rilievo di un’ara di marmo ritrovata a Palmira (Siria). II secolo d.C. Museo di Palmira.

SAGGI

Città carovaniere Michael Rostovtzeff. Pgreco, Milano, 2001.

Pétra, la cité des caravanes Christian Augé, Jean-Marie Dentzer, Gallimard 1999.

INTERNET

http://whc.unesco.org/en/list/326

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ASTRI, DIVINITÀ, TOMBE È difficile stabilire con certezza nomi, caratteristiche e relazioni fra le divinità dei nabatei, poiché non si conservano miti né racconti sulle loro divinità. L’unica fonte antica che dà qualche notizia su questo tema è Strabone, in una breve citazione: «Adorano il sole a cui innalzano un altare sopra le case, dove poi ogni giorno fan libagioni e abbruciano incenso» (Geografia, XVI, 4, 26).

Un recente studio avvalora l’importanza del sole nella religione nabatea e il suo legame con gli astri.

Ingresso principale

3 Propileo

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Portico

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NURIA PUENTES

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a

Nel 446 d.C., il vescovo Giasone trasformò questo edificio nella cattedrale di Petra; gli indicatori del solstizio dovevano servire da riferimento per determinare la vigilia di Natale (24 dicembre) e San Giovanni (24 giugno), data in cui l’edificio venne consacrato.

Infatti è molto probabile che gli indicatori astronomici della tomba svolgessero per i nabatei una funzione di controllo del tempo e del calendario, a uso religioso e civile.

LUIS PADILLA / VISIVALAB

2

FOTO: JUAN ANTONIO BELMONTE / ILLUSTRAZIONE: ADATTAMENTO DAL LIBRO PETRA, DI GUZZO E SCHNEIDER, 1997. NEXUS NETWORK JOURNAL, 15 (2013)

1

e. sol del rno nto ve mo d’in Tra lstizio So

i ricercatori Andrea Polcaro dell’Università di Perugia, JuanAntonio Belmonte dell’Istituto di Astrofisica delle Canarie, insieme con altri colleghi, hanno determinato nel 2011 l’orientamento astronomico di diversi monumenti di Petra e delle zone limitrofe. Il caso più notevole corrisponde alla tomba dell’Urna, che costituì forse il luogo di sepoltura del re Malico II. L’ingresso principale è allineato con il tramonto del sole agli equinozi (i due giorni dell’anno in cui la durata del dì è uguale a quella della notte), e la luce colpisce un punto centrale, dove sembra che fosse collocata una struttura, probabilmente un altare; inoltre, durante il tramonto del sole durante i solstizi d’estate e inverno (i giorni in cui il sole è più alto o più basso nel suo apparente cammino nel cielo) la luce illumina i due angoli interni del monumento.

Tramonto del sole agli equinozi Tra m Sol ont stiz o d io d el so ’est le. ate

LA TOMBA DELL’URNA, IN LINEA CON IL SOLE

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LUIS PADILLA / VISIVALAB

IL TRIONFO DI AUGUSTO

L’ARA PACIS L’altare celebra la pax augustana, l’epoca di pacificazione dei popoli sottomessi e la nuova era di tranquillità a Roma con il principato FRANCISCO GARCÍA JURADO PROFESSORE DI FILOLOGIA LATINA. UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID

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IL MONUMENTO AL L’IMPERATORE

L’altare dedicato alla pace di Augusto, eretto fra il 13 e il 9 a.C., si trova lungo il Tevere, protetto dalla struttura del moderno museo che lo ospita e che è stato inaugurato nell’anno 2006.

LA PACIFICAZIONE

Effigie dell’imperatore su una moneta coniata in Spagna nel 17 a.C . La vittoria nelle guerre cantabriche aveva sottomesso definitivamente la penisola iberica nel 19 a.C. British Museum, Londra.

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ell’anno 13 a.C., il Senato romano decise di costruire un altare a riconoscimento delle imprese condotte da Augusto in Spagna e in Gallia, che avevano avuto come risultato il consolidamento della dominazione romana su entrambi i territori. Il monumento fu collocato nel Campo Marzio, una zona pianeggiante al di fuori delle mura serviane, delimitata da un’ansa del Tevere, sede di esercitazioni militari e dei comitia centuriata, cioè le assemblee del popolo in armi. Il suo nome proviene da un antico tempio consacrato a Marte, e questa circostanza ebbe un carattere simbolico, poiché guerra e pace costituivano le due facce del governo ancora giovane di Augusto: divenuto princeps nel 27 a.C., egli stava offrendo a Roma quella stabilità politica e sociale che mancava dall’inizio del secolo, quando la repubblica era stata dilaniata e poi seppellita dalle guerre civili.

Il monumento si trovava esattamente a un miglio dal pomerium.

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C R O N O LO G I A

Ara Pacis, lo splendore e l’oblio 27 a.C. Ottaviano riceve dal Senato i titoli di Augusto e princeps, ossia primo cittadino, insieme all’imperium proconsolare decennale, poi a vita.

26 a.C. Augusto si reca in Spagna per condurre le operazioni militari contro i cantabri, che si concludono nel 19 a.C. con la definitiva vittoria romana.

13 a.C. Il Senato decide di edificare un altare per la pace per celebrare le vittorie di Augusto in Spagna e Gallia: è inaugurato nel 9 a.C., nel Campo Marzio.

II secolo d.C. Le esondazioni del Tevere e il fango costringono a proteggere con un muro l’Ara Pacis, che con il passare del tempo finirà per essere dimenticata.

PROCESSIONE NELL’ARA PACIS

Il rilievo di uno dei lati dell’altare mostra una processione di sacerdoti (flamines), preposti al culto di specifiche divinità, e i membri della famiglia imperiale.

1859 Durante lavori sul palazzo Fiano-Almagià sono riportati alla luce alcuni frammenti (rilievo di Enea e testa di Marte) riconducibili all’Ara Pacis.

Ha inizio il primo scavo dell’Ara Pacis, che sarà però interrotto. Nel 1911 viene presentata la prima ricostruzione dell’altare.

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1903

1937 Benito Mussolini ordina lo scavo e il restauro dell’Ara Pacis. Insieme con il mausoleo di Augusto, il monumento viene inaugurato nel 1938.

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CAMMEO CON AUGUSTO, LIVIA E IL GIOVANE TIBERIO. I SEC. HERMITAGE.

Era questo il confine sacro di Roma, invalicabile con le armi, dove il console che tornava da una campagna perdeva i poteri militari (imperium militiae) e riacquisiva lo status civile (imperium domi). Al tempo di Cesare e quindi delle guerre civili, il pomerium era stato esteso addirittura fino al Rubicone, ma con Augusto fu riportato nelle mura serviane, chiaro segno della nuova stabilità dell’Urbe.

Così lo stesso princeps ricordava l’evento nel suo testamento spirituale (Res gestae divi augusti): «Quando tornai a Roma dalla Gallia e dalla Spagna, sotto il consolato di Tiberio Nerone e Publio Quintilio, portate felicemente a termine le imprese in quelle province, il Senato decretò che si dovesse consacrare un’ara alla pace augustea nel Campo Marzio e ordinò che in essa i magistrati, i sacerdoti e le vergini vestali celebrassero ogni anno un sacrificio».

La dedicatio del monumento, cioè la sua consacrazione, avvenne nel 9 a.C. Ma dal II secolo, a causa dei depositi di fango trasportato dal Tevere nelle sue esondazioni, e che

DEA / SCALA, FIRENZE

La pax augustea Il Senato decise di chiamare l’altare Ara Pacis Augustae, per celebrare la pax augustea, cioè la pacificazione delle regioni che avevano sofferto per le dispute tra capi rivali e il ripristino dell’ordine e della legalità all’interno dell’Urbe. Accanto all’altare, il Senato decretò nello stesso 13 a.C. fosse costruito un horologium, un orologio solare che utilizzava come gnomone un obelisco di granito rosso proveniente da Heliopolis in Egitto.

L’Ara Pacis e l’Horologium Augusti vennero costruiti e inaugurati nello stesso momento e quest’ultimo fu collocato in modo che il giorno del compleanno dell’imperatore, il 23 settembre, l’ombra dell’obelisco puntasse verso l’ingresso dell’altare.

L’Ara Pacis costituiva un templum minus, un tempio minore o provvisorio. Questi templi erano delimitati da una palizzata in legno, in questo caso sostituita da mura (di 11 per 10 metri) che delimitano il terreno sacro e racchiudono l’altare vero e proprio. Il monumento, le cui porte si trovano sulle facciate est e ovest, si innalza su un piedistallo, perciò vi si accede grazie a una scalinata.

APOTEOSI DI CLAUDIO Nonostante il nome, il monumento funebre risale all’epoca di Augusto, e forse allude alla vittoria del 31 a.C. su Cleopatra e Marco Antonio ad Azio.

Prado, Madrid.

Un messaggio per i posteri

ORONOZ / ALBUM

risultò impossibile contenere, l’altare venne dimenticato, complici anche le trasformazioni urbanistiche della zona. Fu riportato alla luce nella prima metà del Novecento e collocato di fronte al mausoleo di Augusto, dove èancora oggi, nuovamente restaurato.

L’Ara Pacis simboleggia le parole che, secondo Svetonio, Augusto avrebbe pronunciato in punto di morte: «Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo», allusione alla sua vasta opera di rinnovamento della città. In questo senso, l’altare è una delle costruzioni più rappresentative dell’età dell’oro augustea, sia dal punto di vista storico sia da quello artistico. Ma non solo il marmo aspira a durare nel tempo: lo fa anche il messaggio veicolato dai rilievi e dai fregi esterni, che al tempo dell’imperatore erano dipinti con vivaci colori.

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Il Campo Marzio nel III secolo d.C. Nella ricostruzione è indicata l’ubicazione di diversi monumenti dell’epoca di Augusto.

Aqua Virgo Saepta Iulia

Vía Flaminia

ARA PACIS

Crematorio della famiglia di Augusto

Pantheon

Obelischi Orologio solare

Mausoleo di Augusto

IL CAMPO MARZIO

IL LUOGO DEGLI EROI

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ugusto volle situare l’Ara Pacis nel Campo Marzio, a nord-est di Roma. La scelta non fu casuale. All’epoca questa zona non era ancora del tutto urbanizzata; era costituita da una vasta area aperta, utilizzata sin dall’antichità per esercitazioni militari, corse di cavalli e carri, e anche per le assemblee delle centurie e delle tribù.

Questo luogo, in cui nel corso del I secolo a.C. vennero edificati diversi templi, accolse costruzioni monumentali volute da grandi personalità politiche, come Pompeo o Giulio Cesare. Augusto e soprattutto Marco Vipsanio Agrippa (genero e braccio destro dell’imperatore) costruirono in questa zona d il teatro di Marcello, il Pantheon, le terme di Agrippa e i Saepta Iulia, un complesso dove avevano luogo le votazioni che aveva introdotto Cesa-

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re. Seguendo la tradizione di seppellire i generali vittoriosi nel Campo Marzio, Augusto si fece costruire un grande mausoleo al termine della guerra civile in cui sconfisse Marco Antonio; accanto a questo sepolcro fu eretto un crematorio o ustrinum monumentale. Nelle vicinanze venne collocata l’Ara Pacis, celebrazione della sua vittoria in Spagna, e il cosiddetto Orologio di Augusto, un obelisco trasportato da Heliopolis a Roma che aveva la funzione di meridiana.

La decorazione delle facciate nord e sud dell’Ara Pacis evoca il giorno della consacrazione del tempio, quando era ancora solo una costruzione provvisoria. Su di esse è rappresentata una processione formata da sacerdoti (flamines) e dalla famiglia imperiale, ispirata alla processione delle Panatenee raffigurata sul Partenone di Atene. Sono raffigurati la figlia di Augusto, Giulia maggiore, moglie di Marco Vipsanio Agrippa, grande generale e architetto (autore della pacificazione in Spagna e Gallia e costruttore, fra le altre cose, del Pantheon) e il figlio Lucio Cesare; le figlia di Ottavia minore, sorella di Augisto, cioè Claudia Marcella maggiore e Claudia Marcella Minore, con il marito Sesto Appuleio, console nel 29 a.C.

La pietas erga deos Due rilievi situati sulle facciate est e ovest del monumento, che rappresentano Enea e la madre Terra (o la dea Venere), sono legati alle origini di Roma e alle aspettative di rinnovamento che accompagnavano il regno di Augusto. La decorazione di queste pareti si ri-

Teatro di Balbo RICCARDO AUCI / VISIVALAB

Tempio delle Ninfe

Terme di Agrippa

Stagno di Agrippa

ILLUSTRAZIONE: FRANCESCO CORNI / COLORE: SANTI PÉREZ

Odeon

ENEA COMPIE UN SACRIFICIO IN ONORE DEI PENATI. NELL’ANGOLO SUPERIORE SINISTRO APPARE IL TEMPIO DI QUESTE DIVINITÀ.

ferisce alla letteratura dell’epoca, soprattutto alle opere di Tito Livio e all’Eneide.

I loro testi legano i gemelli Romolo e Remo all’eroe troiano, figlio di Anchise e di Afrodite.

Enea, che sfugge dalla distruzione di Troia e si stabilisce in Italia, viene indicato come capostipite di Romolo e Remo che, pertanto, acquisiscono origini divine. I rilievi presenti lungo la porta ovest o frontale rappresentano momenti della fondazione di Roma. A destra è raffigurato un uomo, probabilmente Enea in età avanzata, che offre un sacrificio ai Penati, le divinità domestiche dei romani. Assume particolare importanza il fatto che in secondo piano e sullo sfondo sia stato rappresentato un tempio con i Penati, che dà alla scena un carattere religioso.

Enea incarna la pietas erga deos, «il rispetto verso gli dei», uno dei fondamenti della religione romana.

Egli è vestito come un eroe o un dio, con il mantello avvolto intorno alla vita e con la spalla destra nuda, mentre i due giovani che lo

assistono nel corso della celebrazione del sacrificio, i camilli, indossano una tunica corta.

Questo induce a pensare a un dialogo fra un tempo passato, rappresentato da Enea, e il futuro, impersonato dai giovani romani. Questo gioco del“futuro nel passato”era assai apprezzato nella cultura romana e viene utilizzato nel libro VI dell’Eneide, dove si narra della discesa agli inferi di Enea. Lì, suo padre Anchise, già morto, gli mostra le anime delle glorie future di Roma, e a un certo punto indica Augusto, il futuro imperatore: «Questo è colui che molto spesso ti senti promettere, Cesare Augusto, figlio del Divo, che di nuovo riporterà nel Lazio il secolo d’oro [...] ed estenderà il suo dominio sui garamanti e sugli indi, sulle terre che si estendono oltre le vie dell’anno e del sole».

L’A MATA SORELLA Frammento di un rilievo dell’Ara Pacis, conservato al Museo del Louvre, nel quale è stata identificata Ottavia, sorella di Augusto, già morta quando venne inaugurato il monumento, con in mano un ramo di alloro.

L’origine divina della famiglia Infatti, il protagonismo di Enea nell’Ara Pacis ha una precisa finalità, l’appropriazione della leggenda troiana da parte della famiglia imperiale, WHITE IM

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SACRIFICI NELL’ARA PACIS

I RITI E LE CERIMONIE

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ei Fasti, Ovidio celebra l’Ara Pacis con queste parole: «Eccola la Pace, con l’alloro di Azio sui capelli raccolti. / Vieni, o Pace, e su tutto il mondo spargi la tua dolcezza. [...] Se esiste un popolo che non ha timore di Roma, impari ad amarla! / Gettate l’incenso, sacerdoti, sull’altare della Pace! / Cada la bianca vittima, con la fronte

bagnata dell’acqua lustrale! / E la Casa del principe che ci dona la pace con essa duri in eterno: / per questo innalzate agli dei benevoli le vostre pie preghiere». Le cerimonie annuali che si tenevano davanti all’altare sono rappresentate sui rilievi. All’interno del lato sinistro sono raffigurate le sei vestali di Roma, e di fronte a loro si trovano un sacerdote (flamen) e lo stesso Augusto come pontefice massimo, carica che assunse nel 12 a.C. Sul lato esterno destro do-

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dici victimarii (incaricati del sacrificio degli animali) conducono due buoi e un ariete all’altare. Nel rilievo sono mostrati anche gli strumenti per il sacrificio: vassoio, coltello, mazza e ramo d’alloro per le aspersioni. Il sacrificio doveva essere efficiente e pulito, perciò erano necessari da parte dei victimarii grande perizia e allenamento. Qualsiasi errore, durante il rituale, la preparazione o il sacrificio, invalidava tutto il processo, che doveva essere ripetuto.

la dinastia Iulia, per includere fra i suoi antenati l’eroe troiano. Augusto appare come un nuovo Enea; infatti, se si osserva l’altare dallo spigolo anteriore destro, si scorge su un lato Enea e sull’altro, nel rilievo laterale, lo stesso Augusto, entrambi con la testa velata, simbolo del pontefice massimo, che era la maggiore autorità religiosa di Roma.

Recentemente, è stata avanzata da alcuni studiosi l’ipotesi secondo la quale il personaggio che effettua il sacrificio possa non corrispondere a Enea, bensì a Numa Pompilio, il secondo re di Roma e di origine sabina, che celebrò nel Campo Marzio un sacrificio per propiziare l’armonia fra romani e sabini e che per l’occasione sacrificò una capra.

La leggenda della fondazione Sul lato opposto della porta ovest è rappresentato un altro mito relativo alla fondazione di Roma: Romolo e Remo vengono allattati dalla lupa presso il fico selvatico (chiamato da Tacito ficus ruminalis, forse da ruma, mammella, o semplicemente da Roma), rappresentato al

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TELLUS, LA MADRE TERRA

MAUSOLEO DI AUGUSTO. L’ EDIFICIO, COSTRUITO PER ACCOGLIERE LE CENERI DI AUGUSTO, SI TROVA ACCANTO AL MUSEO DELL’ARA PACIS.

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Circondata da animali e dai frutti della terra, appare in uno dei rilievi che decorano la parte posteriore dell’Ara Pacis.

centro della composizione, sotto il quale la cesta con i due gemelli, abbandonati sul Tevere, si era arenata. Marte, padre dei gemelli, che sono stati messi al mondo dalla vestale Rea Silvia, osserva la scena proprio nel momento in cui il pastore Faustolo ha appena incontrato la lupa, giunta sulla sponda del Tevere per calmare la sua sete e intenta ad allattare i due gemelli abbandonati che saranno poi allevati da Faustolo e da sua moglie.

Se la facciata ovest dell’edificio fa riferimento a un tempo leggendario, quello della fondazione di Roma, la facciata est, dove si trova la porta posteriore, era dedicata alla nuova età dell’oro che aveva preso avvio grazie all’imperatore Augusto.

Una nuova età dell’oro In questo rilievo, il meglio conservato, vediamo Italia, o la Madre Terra (Tellus), circondata da simboli di fertilità: i frutti della terra e due bambini, forse Romolo e Remo o forse gli eredi di Augusto: i suoi nipoti Gaio Cesare e Lucio Cesare, figli di Giulia, destinati alla suc-

cessione ma che poi sarebbero morti prima dello stesso princeps. I bambini sono raffigurati in braccio alla dea e uno di questi sembra voler essere allattato. Le caratteristiche attribuite a Tellus – animali e frutti – indicano la nascita di una nuova età dell’oro per la terra.

Questo rilievo, quindi, è destinato a rafforzare l’idea di felicità associata alla fertilità e alla prosperità.

L’Ara Pacis è, in definitiva, un poema di marmo, un monumento paragonabile alla più grande opera mai scritta in latino: l’Eneide.

Un canto immortale alla gloria di Augusto, il primo imperatore, e allo splendido futuro che grazie a lui avrebbe atteso Roma.

Per saperne di più

SAGGI

Ara Pacis Orietta Rossini. Electa, Milano, 2006.

Augusto e il potere delle immagini Paul Zanker. Bollati Boringhieri, 2006.

TESTI

Vite dei Cesari Gaio Svetonio Tranquillo. Bur, Milano, 2012.

INTERNET

tourvirtuale.arapacis.it

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I COLORI DELL’ALTARE DI AUGUSTO

La processione L’immagine raffigura il lato nord dell’Ara Pacis. La fascia superiore dei rilievi rappresenta una processione simile a quella del lato sud, ma peggio conservata. I personaggi dovevano essere vestiti secondo quanto dettato dal protocollo dell’epoca: con toga praetexta color porpora; toga picta, bianca con bordo porpora, ecc.

Durante la conferenza internazionale I colori di Augusto, svoltasi nel 2014 a Roma, i ricercatori hanno presentato uno studio innovativo per ricostruire l’aspetto dell’Ara Pacis al momento della sua inaugurazione, con l’intensa policromia a porre in risalto le figure dei bassorilievi.

A tale scopo è stato creato un modello virtuale generato a partire dall’analisi con i raggi ultravioletti dei resti di colore presenti sul marmo, che ha permesso di rilevarne la base organica.

Queste pagine mostrano il risultato finale.

Fregio vegetale La fascia inferiore dei rilievi è occupata dalla raffigurazione di una spessa vegetazione che prende origine da rami di acanto e che combina vari colori: diverse tonalità di verde, sfumature rosate per i fiori di acanto, bianco per quelli di loto, rosso per le rose, viola per gli iris; il tutto su uno sfondo probabilmente blu.

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L’interno

Attraverso una scalinata 1 si accedeva all’interno del tempio, al cui centro si ergeva un altare 2, collocato al di sopra di una piattaforma.

Su di esso era inciso un rilievo che rappresentava la cerimonia realizzata ogni anno nell’Ara Pacis: una suovetaurilia, ovvero il sacrificio di un maiale (sus), di un montone (oves) e di un toro (taurus). Le pareti interne sono abbellite da fini rilievi 3 in forma di festoni in cui si intrecciano tralci di edera, papaveri, mele, fichi e altre specie vegetali.

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Pannello originale

Fondazione di Roma

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Questo pannello, che si trovava in condizioni molto critiche, è stato restaurato nel 1937-1938. Vi sono rappresentati Romolo e Remo allattati dalla lupa in presenza del pastore Faustolo, che si prenderà cura della loro crescita, e del padre, il dio Marte, armato di scudo, elmo, lancia e corazza. La parte inferiore è occupata da motivi floreali: un ramo di loto egizio si attorciglia con un frondoso cespuglio di acanto, alle cui estremità volano due cigni con le ali spiegate.

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Pannello virtuale colorato

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La battaglia di Crécy

IL TRAMONTO DEI CAVALIERI Episodio chiave della Guerra dei Cent’anni, questo sanguinoso scontro fu qualcosa di più che un duello epocale fra Inghilterra e Francia; rappresentò anche un severo banco di prova per la cavalleria medioevale

JACOPO MORDENTI STORICO E SCRITTORE

CAVALIERI CONTRO ARCIERI

Nel corso della Guerra dei Cent’Anni, la battaglia di Crécy venne combattuta il 26 agosto 1346. Miniatura medioevale tratta dalle Chroniques di Jean Froissart, XIV secolo, Bibliothèque Nationale, Parigi.

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SUL SUOLO DI FRANCIA

Edoardo III d’Inghilterra sbarca in Normandia, il 13 luglio 1346.

Miniatura dalle Cronache d’Inghilterra di Jean de Wavrin, XV secolo.

IL CASTELLO DI LOCHES

TALLANDIER / BRIDGEMAN / ACI

nella valle della Loira, simbolo della lunga inimicizia tra francesi e inglesi. fu ristrutturato nel XII secolo dai Plantageneti.

Nel 1205 tornò ai francesi come residenza reale.

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il 1346, e fra il regno di Francia e quello d’Inghilterra è in corso quella che a partire dall’Ottocento verrà chiamata la Guerra dei Cent’anni. Il conflitto aveva preso il via nel 1337, allorquando il re d’Inghilterra Edoardo III Plantageneto (1312-1377), già duca di Guienna e dunque feudalmente obbligato verso il re francese, aveva formalizzato la sua opposizione all’ascesa al trono di Francia di Filippo VI di Valois (1293-1350): Filippo era stato in effetti solo uno dei candidati alla soluzione della crisi dinastica apertasi nel 1328 alla morte di Carlo IV; lo stesso Edoardo, stanti i legami familiari della madre, Isabella di Francia, avrebbe potuto a buon diritto aspirare alla corona francese. Beninteso, anche altri

fatti avevano partecipato all’avvelenamento del clima fra i due regni, già nei primi anni Trenta: intromettendosi nella turbolenta questione scozzese, Filippo VI aveva infatti offerto riparo e sostegno all’erede legittimo del regno di Scozia, quel giovanissimo David Bruce contro il quale Edoardo III aveva invece sostenuto Edoardo di Balliol. Per di più, allo scopo di rintuzzare le posizioni della corte plantageneta in merito alla corona francese, Filippo aveva ordinato nel 1337 la confisca della Guienna, misura in risposta alla quale Edoardo aveva sconfessato il proprio omaggio feudale e rivendicato per sé il trono di Francia; due anni più tardi, non prima di essersi assicurato l’appoggio di una parte delle Fiandre e del Sacro Romano Impero, il re d’Inghilterra

C R O N O LO G I A

CENTO ANNI DI GUERRA

1328

1337

Muore Carlo IV di Francia.

Si apre una crisi dinastica che vede imporsi, a discapito di Edoardo III d’Inghilterra, Filippo VI di Valois

L’attrito fra Francia e Inghilterra, complice la confisca da parte di Filippo VI della Guienna, si traduce in una prima spedizione inglese.

RITRATTO DI CARLO IV IL BELLO, RE DI FRANCIA, TRATTO DA HISTOIRE DES FRANÇAIS DI LAVALLÉE.

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1346

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1429

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Gli inglesi sconfiggono i francesi, ben più numerosi, a Crécy. La cavalleria pesante francese perde la sua aura di invincibilità.

Ad Azincourt si registra un’altra affermazione degli arcieri inglesi, e un’altra disastrosa sconfitta della cavalleria francese.

L’assedio di Orléans è spezzato dall’esercito francese guidato da Giovanna d’Arco. Inizia la riscossa dei Valois.

A Castillon si combatte l’ultima battaglia della guerra, vinta dai Valois anche grazie all’impiego dell’artiglieria.

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Il controllo ecclesiastico LA CHIESA MEDIOEVALE ha ripetutamente cercato di porre sotto il proprio controllo la cavalleria – e l’esercizio della guerra – sia ricorrendo a strumenti giuridici, come le paci di Dio e le tregue di Dio del pieno Medioevo, sia coinvolgendo la figura del guerriero nel proprio universo di valori.

HUGO MAERTENS / BRIDGEMAN / ACI

IN RELAZIONE alla cavalleria, i risultati fu-

I CAVALIERI DI CRISTO, DETTAGLIO DI SAN GIORGIO. POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO, JAN VAN EYCK, 1426-1432, CATTEDRALE DI SAN BAVONE, GAND, BELGIO.

L’OMAGGIO DI EDOARDO A FILIPPO Seppur titubante, nel 1329 Edoardo III rese omaggio a Filippo VI come nuovo sovrano di Francia.

I rapporti erano però destinati a mutare: otto anni più tardi scoppierà la Guerra dei Cent’Anni.

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aveva allestito una prima spedizione armata, che tuttavia si era risolta in un’incursione su suolo francese incapace di risultati significativi. Negli anni immediatamente successivi, il conflitto era proseguito fra occasionali battaglie – in primo luogo quella navale di Sluys, grazie alla quale gli inglesi conseguirono il controllo del canale della Manica –, inconcludenti campagne e lunghe tregue.

La lunga marcia degli inglesi Nell’estate del 1346 il conflitto subisce un’accelerazione: l’11 luglio Edoardo III salpa dall’isola di Wight alla testa di un esercito di quindicimila uomini, facendo vela verso la Normandia. Sbarcato a La Hogue, muove una scorreria di ampio respiro, ma se da un lato l’armata inglese – efficacemente divisa in più colonne disposte in parallelo fra loro, a disegnare un fronte lungo diversi chilometri – accumula un grande bottino grazie al saccheggio di Valogne, Carentan, Saint-Lô, Caen, dall’altro lato il mancato coordinamento con la flotta costringe Edoardo a optare per una

rono altalenanti: l’etica cavalleresca pare non aver mai rinunciato ai propri elementi arcaici e antropologici, se non paganeggianti, risultando periodicamente refrattaria al messaggio evangelico. Gli stessi ordini monastico-militari, istituiti nel basso Medioevo sulla scia del sentimento crociato, rappresentano in quest’ottica un punto controverso: attraverso la loro istituzione è stata la Chiesa a tentare una volta di più di controllare la cavalleria, o piuttosto il contrario?

marcia serrata verso le Fiandre. Giunti sulla Senna, gli inglesi devono fare i conti con la demolizione dei ponti messa in atto dai francesi: sono perciò costretti a risalire il corso del fiume fin quasi a Parigi, per riuscire finalmente ad attraversarlo a Poissy il 16 agosto e nuovamente puntare verso nord. La strategia attendista di Filippo VI cede allora il passo alle pressioni della nobiltà al comando dell’esercito francese, che insiste per intervenire: da Amiens un’armata di circa cinquantamila uomini si lancia all’inseguimento del nemico, che affretta il passo e il 24 agosto attraversa la Somme al guado di Blanchetacque. Benché a tre giorni di marcia dalle Fiandre, ormai incalzati dai francesi gli inglesi optano per acquartierarsi nei pressi del villaggio di Crécyen-Ponthieu, disponendosi lungo un pendio in attesa dell’arrivo dell’esercito francese, che sopraggiunge il 26 agosto.

La battaglia si profila all’orizzonte. Da un lato c’è l’esercito di Edoardo III d’Inghilterra, che la campagna estiva ha ridotto a circa undicimila uomini fra fanti, arcieri e cavalieri.

Dall’altro lato c’è l’esercito di Filippo VI: quasi cinque volte più numeroso, guidato da alcune

ALESSANDRO SAFFO / FOTOTECA 9X12

ISOLA EL TEMPLO DI WIGHT DEL DIOS HALCÓN Situata a sud

Or molores quodit dell’Inghilterra, escimi, optincidella net nel canale intemporro Manica, fu ilofficiis luogo lam, to darepudit cui Edoardo III consecum ipsa Plantageneto, alla demdel laut aut id testa proprio mod untiatius as esercito, salpò nel doluptisimet 1346 allaasinis volta dente vendani della Normandia. onsecep erumqu.

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BALESTRIERI E ARCIERI

Nella battaglia di Crécy si fronteggiarono anche i balestrieri francesi e gli arcieri britannici dotati di arco lungo (longbow).

fra le più grandi personalità laiche della Francia e dell’Occidente tutto, forte di un’istituzione militare considerata pressoché invincibile: la cavalleria pesante francese.

L’evoluzione della cavalleria Se è vero che la cavalleria, in senso lato, affonda le proprie radici ben prima del Medioevo, è vero anche che è solo a partire dalla fine dell’XI secolo che essa inizia ad assumere quelle peculiarità impresse tutt’oggi nell’immaginario collettivo.

Si pensi alla tecnica guerriera: la cavalleria antica e altomedioevale sfruttava il galoppo del cavallo in combinazione ad armi da lancio quali giavellotti e archi, oppure – più

La cavalleria mette a punto una nuova tattica: la carica con lancia lunga ARMATURA GOTICA PER UOMO E CAVALLO. XV SECOLO. ROYAL ARMOURIES, LEEDS / BRIDGEMAN / ACI

frequentemente – si limitava a impiegare il cavallo per portarsi sul campo di battaglia.

Quand’anche non smontava da esso il cavaliere si trovava a ingaggiare la mischia in modo di fatto non troppo dissimile dal fante, impiegando mazze, lance relativamente corte o armi da taglio. È solo sullo scorcio dell’XI secolo che la cavalleria compie un salto di qualità, mettendo a punto una tecnica esclusiva in grado di sbaragliare il nemico: la carica con la lancia lunga. Si tratta di una tecnica articolata – figurativamente documentata, per esempio, nel celebre arazzo di Bayeux, che ha per protagonista la cavalleria normanna trionfante ad Hastings nel 1066 – che per risultare efficace, combinando forza d’urto e precisione del colpo, richiede un allenamento e ancor più un equipaggiamento via via più onerosi, dunque al di fuori della portata delle classi sociali più modeste. Non basta: la carica funziona quando eseguita da più cavalieri ben coordinati fra loro; l’allenamento di gruppo prima, e la battaglia poi, inducono perciò all’affiatamento gli esponenti di quella che nel XII secolo è diventata una conclamata eccellenza militare, capace di distinguersi e di fare la differenza sul campo di battaglia.

Evidentemente, l’evoluzione della figura del cavaliere non può essere ridotta al solo aspetto funzionale. È ancora fra XI e XII secolo che, a partire dalla Francia d’oïl e dall’area anglo-normanna, il concetto di cavalleria si direbbe via via travalicare l’ambito puramente professionale per ammantarsi, in senso ascendente, di una certa valenza sociale. Cavalleria e aristocrazia, che ancora nelle fonti altomedioevali appaiono inequivocabilmente distinte, iniziano con il tempo a compenetrarsi, promuovendo sul lungo periodo lo sviluppo di un complesso sistema di pratiche e di valori condivisi all’origine della cosiddetta etica cavalleresca. Complice l’ampia letteratura in tema del basso Medioevo – riflesso e al contempo motore dell’evoluzione della cavalleria – nel corso del XIII secolo la figura del cavaliere sviluppa, a tratti fino all’esasperazione, quei connotati morali non a caso definiti oggi cavallereschi: il coraggio, il senso dell’onore, lo spirito di sacrificio, la solidarietà di corpo. Non si tratta di propensioni astratte: è in questo alveo, per esempio, che matura la pratica del riscatto riservata ai cavalieri sconfitti, prati-

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LA PANOPLIA DEGLI INGLESI

Arco lungo Di 2 m, era fatto di un unico pezzo di legno di tasso.

Il Medioevo fu il tempo dei cavalieri: armati fino ai denti, erano protetti da armature che potevano pesare fino a 30 kg. In particolare un’arma, considerata appannaggio delle classi più basse, riuscì a smantellare l’orgoglio degli aristocratici cavalieri: l’arco lungo o longbow.

I COLORI DI GUERRA

La croce di San Giorgio, bandiera inglese, e lo stendardo francese.

LE PUNTE DI FRECCIA

Molto lunghe e a doppio filo, potevano penetrare nell’armatura dei cavalieri; si usavano contro la fanteria.

Parabraccio Impediva alla corda di colpire l’avambraccio nel momento dello scocco.

Guanto a tre dita Proteggeva le dita dell’arciere dallo sfregamento della corda.

Elmo I modelli erano a cappellina, bacinetto o salletto.

Pugnale Detto bollocks (testicoli), si usava per finire i nemici.

Sacca Qui gli arcieri tenevano i loro pochi averi.

Faretra La dotazione di frecce era da 24 a 36, in gruppi di 12.

Brocchiere Scudo di protezione degli arcieri.

Frecce Conficcarle nel terreno rendeva più rapido afferrarle.

Le guerre contro il Galles UNA FETTA COSPICUA degli arcieri di Edoardo III era gallese: era stato in effetti durante le guerre contro il Galles del XIII secolo che l’Inghilterra aveva potuto constatare l’efficacia in battaglia della figura dell’arciere, figura che l’esercito inglese si era con il tempo adoperato per fare propria attraverso vari meccanismi di chiamata alle armi.

W. MEIER / CORBIS / CORDON PRESS

NONOSTANTE LA MAESTRIA degli arcieri

IL CASTELLO DI HARLECH IN GALLES, SEDE DI SCONTRI TRA INGLESI E GALLESI, FU COSTRUITO NEL 1283 PER VOLERE DI EDOARDO I D’INGHILTERRA.

L’ORDINE DEI MONACI SOLDATI La doppia figura che compare sul sigillo dell’ordine templare potrebbe alludere alla duplice natura degli adepti: monaci e soldati.

Ne è riprova la scritta riportata sul sigillo: Sigillum Militum Christi.

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ca certo non priva di un lampante riscontro economico e tuttavia indice anche di uno sviluppato senso di comune retroterra culturale.

Beninteso, non mancano al contempo testimonianze di una certa degenerazione, sia in termini sociali che in termini militari: si pensi all’ostentazione del proprio status che porta il cavaliere a disprezzare chi gli è socialmente inferiore, nonché al personalismo guerriero che vede il cavaliere desideroso a ogni costo di distinguersi in battaglia.

L’esito della battaglia Possibile che, a partire da un simile sistema di valori, nel Trecento la cavalleria sia occasionalmente giunta alla sottovalutazione dell’importanza in battaglia della disciplina di gruppo? Si è tentati di rispondere di sì, tanto più alla luce dell’esito della battaglia di Crécy, che vede l’esercito inglese trionfare su quello francese a dispetto della propria esiguità numerica: un risultato reso possibile dall’adozione di una lucida, efficacissima tattica di posizionamento e impiego delle proprie

gallesi, la guerra che l’Inghilterra combatté e vinse nella seconda metà del XIII secolo contro il principato del Galles portò, nel 1284, allo Statuto di Rhuddlan, che sanciva l’annessione del Galles alla corona inglese. A consolidamento del controllo sulle terre conquistate, Edoardo I d’Inghilterra fece erigere una massiccia linea di castelli nel principato.

forze, tattica già sperimentata in occasione delle guerre scozzesi e in grado di mettere a nudo la scarsa coordinazione del nemico. La collina lungo la quale si dispone l’armata di Edoardo III è infatti protetta sul fianco destro dal corso del fiume Maye e, ancora oltre, dalla foresta di Crécy: a meno di non volere stralciare la convenzione cavalleresca che trova biasimevole aggirare il nemico da sinistra, i francesi non possono dunque attaccare che frontalmente, per di più in salita. Inoltre, gli inglesi disseminano il campo di battaglia di trincee e palizzate, così da rallentare – fino a spezzarla – la carica della cavalleria francese.

L’armata di Edoardo è infine divisa in tre corpi composti da fanti e cavalieri smontati da cavallo; gli arcieri vengono collocati non solo ai lati di tali corpi, ma anche – con una formazione a cuneo – in posizione d’avanguardia.

L’armata di Filippo si direbbe giungere impreparata allo scontro. Quando appura la posizione degli inglesi sta marciando in un ordine che non ha nulla a che vedere con lo schieramento da assumere in battaglia, il che rende caotico l’avvicinamento al nemico: retroguardia e avanguardia finiscono per non

L’ASSEDIO DI CALAIS

Dopo la vittoria di Crécy, Edoardo III, desideroso di garantirsi una via di ritorno verso l’Inghilterra, pose l’assedio a Calais.Tratto da Chroniques d’Angleterre di Jean Wavrin, XV secolo.

TALLANDIER / BRIDGEMAN / ACI

FILIPPO

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

63

La letteratura cavalleresca È INOPPORTUNO ritenere la letteratura

cavalleresca medioevale quale semplice specchio dell’orizzonte intellettuale della cavalleria: se è vero che la chanson de geste prima, e il romanzo poi, non prescindevano dall’invenzione e dal ricorso all’elemento fantastico, è anche vero che il pubblico a cui si rivolgevano era al contrario concretissimo, e dunque ricettivo alle suggestioni – anche morali, ma non necessariamente cristiane – espresse da tale letteratura; essa e la cavalleria si sono dunque reciprocamente influenzate.

SCENA DI UN TORNEO CAVALLERESCO. MINIATURA TRATTA DAL ROMANZO DI TRISTANO E ISOTTA, MANOSCRITTO, XV SECOLO, MUSÉE CONDÉ, CHANTILLY.

DEA / SCALA, FIRENZE

IL MOTTO FRANCESE L’Ordine della Giarrettiera fu creato da Edoardo III con il motto Honi soit qui mal y pense (sia vituperato chi ne pensa male) poiché il francese all’epoca era lingua ufficiale britannica.

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comunicare, con il risultato che quest’ultima si porta dietro la divisione mediana e continua ad avanzare fino a entrare in contatto visivo con le battaglie inglesi; la confusione prende allora il sopravvento, e la coordinazione fra i comandanti e i cavalieri francesi viene meno.

L’avvicinamento al fronte nemico dei balestrieri di Filippo – alcune migliaia di mercenari genovesi che, stante il caos in cui versa la colonna francese, si trovano sprovvisti dei propri scudi pavesi – si risolve in un disastro: gli archi lunghi (longbow) di cui dispongono gli arcieri inglesi hanno infatti una gittata superiore a quella delle balestre genovesi e hanno dunque buon gioco a mettere in rotta queste prime schiere nemiche.

La ritirata in disordine dei balestrieri finisce per di più per impedire ogni manovra all’avanguardia della cavalleria francese, che a sua volta diviene bersaglio delle frecce inglesi contribuendo a paralizzare l’offensiva del proprio esercito, la cui disposizione ha ormai rinunciato a una tattica ragionata. In poche ore, una dopo l’altra le schiere dei cavalieri di Francia vedono i loro ranghi decimati e la loro carica spezzata,

FRA GLI AUTORI PRINCIPALI del frangente ricordiamo Chrétien de Troyes (1135 ca – 1190), autore – fra le altre opere – dei più noti romanzi afferenti il cosiddetto ciclo bretone, aventi per protagonisti Lancillotto, Perceval e tanti altri.

e a poco servono le estemporanee sortite con le quali alcune personalità riescono a portarsi fra le fila nemiche. I cavalieri di Filippo feriti sul campo di battaglia sono finiti con il coltello dai fanti di Edoardo, e questo a prescindere dall’opportunità dell’abituale riscatto.

Il bilancio è drammatico per la Francia: le perdite sono ingenti, il comando dell’esercito è azzerato, la cavalleria è a pezzi. Più ancora che il dato numerico, l’esito della battaglia porta alla luce i limiti della cavalleria pesante: una dolorosa lezione che per la Francia, nel corso dei centosette anni che mancano alla conclusione in sordina della Guerra dei Cent’anni, si ripeterà. La cavalleria medioevale non finisce nel 1346 a Crécy, ma è certo anche qui che si consuma lo scarto fra immaginario cavalleresco e nuova, severa realtà bellica.

Per saperne di più

SAGGI

La guerra dei cent’anni: Eserciti e società alla fine del Medioevo Christopher Allmand.

Garzanti, Milano, 1990.

Alle radici della cavalleria medievale Franco Cardini.

La Nuova Italia, Scandicci, 1997.

LE BATTAGLIE DI POITIERS

WALTER BIBIKOW / AWL IMAGES

La città del Poitou è stata teatro di tre battaglie: tra franchi e visigoti (507), tra franchi e musulmani (732) e, nel 1356, tra inglesi e francesi, la cui cavalleria fu nuovamente sconfitta.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

65

LA CAVALLERIA: EVOLUZIONE

I CAVALIERI DI ROMA

Il sarcofago di Elena, risalente al IV secolo e conservato presso i Musei Vaticani, presenta sui lati altorilievi raffiguranti dei cavalieri: nell’atto di caricare i barbari, sono vestiti di tunica corta, muniti di elmo e armati di lancia.

LA NASCITA DELL’ORDINE

ROMA E I CAVALIERI DELLE STEPPE

Agli albori dell’impero romano Augusto fonda l’ordine equestre con l’obiettivo di rintuzzare il potere delle famiglie senatorie a lui avverse: il legame fra tale ordine e la cavalleria medioevale è beninteso nullo. I suoi membri verranno per molto tempo collocati ai vertici dell’amministrazione civile e militare dell’impero, e tuttavia sul lungo periodo sarà la classe senatoria ad avere la meglio: in epoca costantiniana l’ordine equestre risulta in effetti assorbito da essa.

Nella tarda antichità l’esercito romano, largamente imperniato sulla fanteria, si trova a doversi misurare con i cavalieri barbari delle steppe – in primo luogo sciti, sarmati, unni – che spesso sono efficacemente impiegati come arcieri. Ne consegue un parziale adattamento dell’esercito romano che si dota, fra le altre, della carica di magister equitum.

Al “maestro”, nominato dal dittatore, spettava ovviamente il comando della cavalleria e il ruolo di luogotenente.

SCALA, FIRENZE

SCALA, FIRENZE

DEA / SCALA, FIRENZE

i cavalieri, battaglie, tornei, armi, dame, duelli, amori e onori traboccano la letteratura e l’immaginario collettivo.

Ma prima di animare ogni fantasia, il cavaliere è stato un uomo d’arme, un soldato addestrato e armato che, affiancato dai propri confratelli, ha combattuto grandi e piccole battaglie facendo del proprio ordine militare un’istituzione che nel corso della storia ha assunto una definita identità sociale, culturale e giuridica.

WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

Dall’antica Roma al Medioevo, sui campi di battaglia la cavalleria ha deciso le sorti della

ACQUAMANILE A FORMA DI CAVALIERE CROCIATO MUNITO DI ELMO, SCUDO E LUNGA LANCIA, BARGELLO, FIRENZE.

DELL’ORDINE EQUESTRE

CCI / ART ARCHIVE

BRIDGEMAN / ACI

DAGLI ORTI / ART ARCHIVE

storia, facendo dei cavalieri e del loro ruolo militare un ordine sociale divenuto leggenda

LANCIA IN RESTA E CARICA

IL RUOLO SOCIALE DELLA CONFRATERNITA

Pur sempre meno importante della fanteria, presso i popoli barbari della tarda antichità e dell’alto Medioevo, la cavalleria inizia ad acquisire un certo peso. Può essere leggera e dotata di armi da lancio (presso gli àvari) o pesante e dotata di mazze o armi da taglio in funzione della mischia (goti, alani e longobardi). Presso i franchi, solo in età carolingia il ruolo egemone della fanteria verrà messo in discussione dalla cavalleria pesante, il cui equipaggiamento sarà divenuto via via più costoso.

Tra XI e XII secolo la cavalleria pesante mette a punto la carica con la lancia, tattica capace di sviluppare una forza d’urto devastante in grado di fare la differenza sul campo di battaglia. Al contempo, nel corso del basso Medioevo, la compenetrazione con l’aristocrazia porta a intendere la cavalleria sempre meno come una semplice – ancorché onorevole – categoria professionale, e sempre più come una nobile corporazione, con tutti i risvolti morali e intellettuali che ne conseguono.

Fra XIV e XVI secolo il numero dei cavalieri diminuisce: chiaro indice di una serrata – ideologica ancora prima che giuridica – che rigetta qualsivoglia promozione sociale a tutto vantaggio di una cavalleria intesa essenzialmente come confraternita di nobili.

Con il tempo, la funzione militare cede il passo a quella onorifica: stante il prerequisito della nobiltà, la cavalleria diviene così una promozione decorativa da conferire in ragione di un servizio reso.

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MEDAGLIA CON RITRATTO DI FILIPPO MARIA VISCONTI, VERSO, IL DUCA IN ARMATURA, PISANELLO, BARGELLO, FIRENZE.

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LA CAVALLERIA NELL’ALTO MEDIOEVO

TAZZA ZOOMORFA, I-II SECOLO, ROSIJISKIJ ETNOGRAFICHESKIJ MUZEJ, VINNICA, UCRAINA.

SCALA, FIRENZE

CARLO VIII RE DI FRANCIA

Unico discendente di Luigi XI di Valois, salì al trono alla sua morte, nel 1483, a 13 anni di età. Ritratto di Cristofano dell’Altissimo (XVI secolo). Galleria degli Uffizi, Firenze.

LA CALATA DEL RE FRANCESE

CARLO VIII IN ITALIA Incautamente chiamato da Ludovico il Moro, alla ricerca di legittimazione per il dominio sul ducato di Milano, il re francese seminò il terrore lungo la penisola prima di essere respinto dalla Lega Santa, una coalizione promossa dal duca stesso.

SALVATORE CARANNANTE SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA

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entre che io canto, o Iddio redentore/vedi la Italia tutta a fiamme e a foco/per questi Galli, che con gran valore/vengon per disertare non so che loco»: è con queste parole che, nell’ottava che interrompe l’Orlando innamorato, Matteo Maria Boiardo racconta l’inarrestabile discesa in Italia delle truppe francesi di Carlo VIII di Valois, in quel 1494 che un osservatore d’eccezione come Guicciardini definì «principio degli anni miserabili»; la discesa francese segnò infatti la perdita della precaria indipendenza della penisola, da quel momento bersaglio delle mire delle maggiori potenze europee, in secoli che, profetizza Machiavelli, saranno costellati da «grandi spaventi», «subite fughe», «miracolose perdite» e contraddistinti da una frammentazione territoriale che si protrarrà fino al Risorgimento.

LA MILANO DI LUDOVICO IL MORO

PINACOTECA DI BRERA / BRIDGEMAN / ACI

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LUDOVICO IL MORO

Particolare della Pala Sforzesca (1494-1495).Sulla spalla del Moro, che vi è ritratto con la famiglia, poggia la mano sant’Ambrogio, a legittimarne l’autorità. Brera, Milano.

Se il 1494 fu per l’Italia l’annus horribilis, il 1492 ne incarnò l’antefatto. Con la morte, nel giro di pochi mesi, di Lorenzo il Magnifico e di Innocenzo VIII, vennero infatti meno i principali garanti dell’equilibrio sussistente tra le cinque maggiori potenze italiane – gli Stati di Milano, Firenze e Venezia, il papato e il Regno di Napoli –, unite fin dal 1454 in una Lega italica che, per quanto precaria, agitava dinanzi ai sovrani europei, in special modo francesi e spagnoli, da sempre allettati dalla possibilità di estendere i propri domini

UDOVICO fu il principe ideale di Milano,

che conobbe un grande sviluppo sotto il suo governo. Sostenne l’agricoltura facendo realizzare importanti opere d’irrigazione: a Leonardo, giunto a Milano intorno al 1482, si deve il progetto per la regolamentazione dei Navigli, un sistema di canali navigabili e irrigui. Si estesero così le coltivazioni del riso, della vite e del gelso: proprio alla diffusione di questa pianta, essenziale per l’allevamento del baco da seta, pare che Ludovico debba il soprannome. Non meno importante fu il suo sostegno all’allevamento e allo sviluppo dell’industria casearia. Milano beneficiò della prosperità arricchendosi di palazzi e giardini affacciati sugli ampi viali tracciati in direzione del castello, abbellito con capolavori di grandi artisti, e nella città fiorirono le attività artigiane, con una crescita delle esportazioni di manufatti pregiati.

nella penisola, lo spettro di un’alleanza virtualmente imbattibile sul piano militare. Fu Ludovico il Moro, zio e tutore di Gian Galeazzo Sforza, nonché reggente del Ducato di Milano, a imprimere una brusca accelerazione a quel processo di frantumazione che avrebbe condotto all’invasione dei “galli”. Desideroso dell’appoggio francese per continuare a tenere sottomessa Genova e, al contempo, interessato a intimidire i regnanti napoletani che non volevano riconoscerne la legittimità come duca di Milano, Ludovico prima concluse

C R O N O LO G I A

LA PRIMA CAMPAGNA D’ITALIA

Carlo VIII nasce ad Amboise da Luigi XI e Carlotta di Savoia; diventerà re a tredici anni, ma inizierà a governare realmente solo nel 1490.

LUIGI XI. MINIATURA (XV SEC.). BIBLIOTHÈQUE NATIONALE, PARIGI.

8/IV/1492

BRIDGEMAN / ACI

30/VI/1470

Muore Lorenzo il Magnifico; la politica di equilibrio vigente fino a quel momento tra le principali potenze italiane si avvia alla fine e la penisola si ritrova al centro delle mire della Spagna e della Francia.

SANDRA RACCANELLO / FOTOTECA 9X12

CASTELLO SFORZESCO, MILANO

Edificato nel XIV secolo con funzioni difensive, fu residenza dei Visconti e degli Sforza. All’epoca del Moro era una delle corti più prestigiose d’Europa.

do forse il sogno di fare del regno di Napoli la testa di ponte verso una nuova crociata, volta a riprendere Costantinopoli ai Turchi e ricostituire un impero romano d’Oriente di cui i sovrani francesi sarebbero divenuti titolari.

Da Lione a Firenze: la prima fase Forte di 20.000 uomini, cui se ne sarebbero aggiunti altri 10.000 inviati dagli alleati italiani, Carlo partì da Lione alla fine di agosto e il 2 settembre valicò le Alpi passando per il Monginevro alla testa di un’armata che, arricchita da una possente artiglieria, fu in grado, alla sua sola vista, di scoraggiare qualsiasi

2/IX/1494

31/III/1495

Partito da Lione durante l’estate, Carlo VIII valica le Alpi con il suo esercito passando per il Monginevro; dopo una fulminante campagna, senza incontrare resistenza, arriverà a Napoli nel febbraio del 1495.

Stipula della Lega Santa tra Venezia, Milano e il papato; l’esercito della Lega incontrerà i francesi il 6 luglio, a Fornovo, in una battaglia il cui esito, per quanto incerto, spinge il sovrano francese a lasciare l’Italia.

BORSO D’ESTE

Primo duca di Ferrara, Modena e Reggio, avviò la politica di espansione dei suoi territori, che fu continuata poi dal figlio Ercole I, alleatosi con Carlo VIII.

7/IV/1498 Mentre progetta una seconda spedizione nella penisola, Carlo muore nel castello di Amboise.

Con lui si estingue la linea diretta di discendenza della casata dei Valois.

BORSO D’ESTE. MUSEO DEL BARGELLO, FIRENZE.

SCALA. FIRENZE

un’alleanza con la Francia nella primavera del 1492, poi, coadiuvato da Ercole d’Este, indusse il giovane sovrano a intraprendere la spedizione militare, con la promessa di 200.000 ducati e di appoggio militare. Queste manovre trovarono terreno fertile nelle ambizioni di Carlo VIII, che, in quanto erede degli Angiò, avanzava pretese di legittimità sulla corona di Napoli, che fin dal 1442, per volere del papato, era finita nelle mani dei re d’Aragona; spinto dai suoi consiglieri e dopo aver regolato le varie controversie che lo opponevano agli altri sovrani europei, Carlo iniziò nell’estate del 1494 la sua discesa verso i domini aragonesi, cullan-

SCALA, FIRENZE

B. JANNSEN / FOTOTECA 9X12

CASTEL SANT’ANGELO. QUI ALESSANDRO VI ATTESE L’ARRIVO DI CARLO VIII, CHE ENTRÒ A ROMA IL 31 DICEMBRE 1494.

I FRANCESI, NUOVI BARBARI

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IN DALLE PRIME FASI della campagna, gli italiani furono col-

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piti dalla crudeltà mostrata da Carlo VIII e dal suo esercito.

Massacri come quelli di Mordano, Fivizzano e, in seguito, Montefortino e Monte San Giovanni, episodi in cui non solo i soldati prigionieri furono uccisi, com’era abitudine francese, ma l’intera popolazione venne trucidata, rafforzarono l’idea che l’invasione dei francesi – definiti ora «Galli» ora «genti barbaresche e strane» – fosse un evento paragonabile alla calata dei barbari che nel 410 misero a sacco Roma.

L’inarrestabile avanzata di Carlo assunse contorni sinistri anche per alcune innovazioni belliche che ne resero ancora particolarmente temibile l’esercito; tra tutte, grande impressione destarono l’impiego di cannoni più resistenti e ARCHIBUGIO potenti delle vecchie bombarde, il ricorso FRANCESE. QUESTE ARMI FURONO a fanteria dotata di armi da fuoco DIFFUSAMENTE e l’impiego dell’impressionante USATE DAI FRANCESI quadrato svizzero, composto da DURANTE LE CAMPAGNE D’ITALIA. 6000 uomini armati di lunghe MUSÉE DE L’ARMÉE, picche, disposti su 60 righe.

PARIGI.

tentativo di resistenza. Senza alcuna opposizione lungo il proprio cammino, Carlo potè attraversare rapidamente il ducato di Savoia e giungere ad Asti, dove incontrò, ad appena una settimana dall’ingresso in Italia, gli alleati Ludovico Sforza ed Ercole d’Este, che rinnovarono il loro appoggio all’impresa.

Per evitare l’accerchiamento da parte dei nemici, Carlo dislocò un contingente in Romagna che, unendosi ad alcune truppe milanesi, contrastò efficacemente quella porzione consistente dell’esercito napoletano preventivamente inviata a nord per impedire ai francesi di raggiungere i confini abruzzesi del Regno.

72 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Una feroce campagna militare Fu qui che i transalpini diedero un’immediata dimostrazione della propria forza d’urto, sferrando un brutale attacco alla cittadina di Mordano, i cui abitanti furono sterminati senza eccezioni. Atterriti i propri nemici con la prima di una lunga serie di atrocità e massacri, Carlo valicò agevolmente gli Appenini presso la Cisa e il 22 ottobre, a meno di due mesi dal

INGRESSO DI CARLO VIII A FIRENZE

Nel dipinto (1829), di G. Bezzuoli, sono ritratti il cardinale Giuliano della Rovere e Girolamo Savonarola, che in Carlo aveva riconosciuto colui che avrebbe fustigato i corrotti. GAM, Firenze.

PIERO DE’ MEDICI, IL FATUO L’erede di Lorenzo il Magnifico, già inviso ai fiorentini per l’inettitudine, se ne giocò definitivamente l’appoggio con la resa incondizionata a Carlo VIII. Scuola del Bronzino (XVI secolo). Galleria degli Uffizi, Firenze.

tastrofe. Entrato trionfalmente a Firenze il 17 novembre, per evitare l’inasprimento di uno scontro che avrebbe prolungato eccessivamente i tempi della campagna, Carlo ripartì senza causare ulteriori danni dieci giorni più tardi e, percorrendo senza ostacoli la via Aurelia, varcò i confini settentrionali dello Stato della Chiesa, agevolato dalle divisioni e dall’inettitudine dimostrate dagli Orsini, che non seppero opporre alcuna resistenza all’avanzata francese nei territori che erano incaricati di difendere.

Le manovre di Alessandro VI I regnanti napoletani, allarmati dalla facilità con cui Carlo era giunto ormai a poche centinaia di chilometri dai propri confini, decisero di giocare d’anticipo: Alfonso II inviò il figlio Ferrandino a Roma, alla testa di un nutrito contingente militare; nel compiere questa mossa, il re di Napoli poteva contare sull’appoggio di papa Alessandro VI, a sua volta preoccupato dalla possibili-

SCALA, FIRENZE

suo ingresso in Italia, entrò nei territori fiorentini, giungendo dinanzi all’inespugnabile fortezza di Sarzana. Per aggirare l’ostacolo, impenetrabile anche per la temutissima e moderna artiglieria francese, Carlo scelse nuovamente la strategia della dissuasione e della pressione psicologica, attaccando Fivizzano, il 26 ottobre. Le efferatezze commesse dai francesi nei confronti della popolazione, che coinvolsero anche altri abitati a dispetto della loro resa preventiva, misero in agitazione il giovane e inesperto protettore della Repubblica di Firenze, Piero de’Medici, che si affrettò a raggiungere l’accampamento francese per sottoscrivere, senza alcuna autorizzazione da parte delle istituzioni repubblicane, un accordo che cedeva al re le principali fortezze fiorentine.

La resa incondizionata all’invasore, una manifestazione di debolezza che ebbe come immediato contraccolpo la ribellione di Pisa, spinse la Signoria a porre fine, con l’esilio e la confisca dei beni medicei, a quel «governo di fanciulli» che aveva condotto Firenze sull’orlo della ca-

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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“PIÙ SIMILE A MOSTRO CHE A UOMO”

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CARLO VIII IN UN RITRATTO CHE NE EVIDENZIA LE FATTEZZE NON APOLLINEE. XVI SECOLO. CASTELLO 0DI AMBRAS, INNSBRUCK.

AUSTRIAN ARCHIVES / SCALA, FIRENZE

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74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

CINQUEDEA O DAGA A LINGUA DI BUE Creata nel XV secolo nell’area veneta, deve il suo nome alla larghezza della lama. Si diffuse in età rinascimentale più come oggetto da esibizione che da difesa: per questo poteva essere riccamente decorata.

DEA / BRIDGEMAN / ACI

tà che, con il sopravvento francese sull’Italia, prendesse avvio la riforma moralizzatrice della Chiesa da tempo minacciata da Carlo con l’appoggio del clero francese, riforma il cui esordio sarebbe stato probabilmente la deposizione del dissoluto pontefice.

La permanenza romana delle truppe aragonesi però durò poco: sollecitato dai tumulti scoppiati in città, il giorno di Natale Ferrandino tornò in patria con i suoi uomini, costringendo il papa ad asserragliarsi in Castel Sant’Angelo e ad assistere impotente all’arrivo nell’Urbe del re francese, che il 31 dicembre, scrive Philippe de Commynes (cronista al seguito di Carlo), «entrò a Roma in armi con il potere di fare ovunque quanto gli piacesse; parecchi cardinali, i governatori e i senatori della città gli andarono incontro», nella speranza di trarre profitto dalla cacciata di papa Borgia.

Ma le loro speranze – a cominciare da quelle di Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere, che avevano scortato Carlo nel suo ingresso dalla porta di Santa Maria del Popolo – sarebbero state disattese;

ABRUTALITÀEL’EFFERATEZZA dimostrate

dalle truppe francesi nell’avanzata lungo la penisola trovarono la loro personificazione nel carattere e finanche nei tratti somatici di Carlo VIII. Giudicato dal suo stesso padre «monstrosum puerum», Carlo sembrò già a un ambasciatore veneziano che lo incontrò nel 1492, «piccolo e mal composto della persona, brutto di volto», con «occhi grossi e bianchi» e il «naso aquilino similmente grande et grosso molto più del dovere». Alla deformità e alla piccola statura si associavano una costituzione fisica debole e una salute cagionevole, che spinsero astrologi ed esperti di fisiognomica a pronosticarne (correttamente!) una prematura dipartita.

Guicciardini, infine, lega il suo aspetto sgraziato all’ignoranza e alla rozzezza, al punto che, complessivamente, «pareva quasi più simile a mostro che a uomo».

papa Alessandro, infatti, l’11 gennaio incassò le rassicurazioni del Valois sulla propria permanenza nel ministero pietrino; in cambio, il sovrano francese ottenne il libero passaggio attraverso i territori pontifici ed il 28 gennaio lasciò Roma, proseguendo la propria marcia trionfale verso Napoli.

La conquista del Regno di Napoli Ad attendere l’imponente esercito francese non c’era una compagine statale compatta e pronta a resistere fino all’ultimo uomo; diversamente, il Regno di Napoli era dilaniato dalle divisioni interne, acuite dalla presenza di un partito filoangioino che, facendo leva sulla tradizionale anarchia dei baroni irritati dalla politica repressiva degli aragonesi, guardava con speranza all’arrivo di quello che per molti era il legittimo erede al trono. La confusione fu poi amplificata dalla debolezza e dall’instabilità caratteriale di Alfonso II, che il 21 gennaio 1495, terrorizzato dalla perdita quasi totale dell’Abruzzo, abdicò a favore del figlio Ferrandino,

GIUSEPPE GRECO / FOTOTECA LOREMU9X12 IVIS

NAPOLES, CATEDRAL CARPETA NAPOLI NECESITAMOS PIE DE FOTO

trionfalmente a Napoli e di raggiungere così la propria meta, senza aver mai dovuto ingaggiare battaglia nel corso della sua intera discesa lungo la penisola.

DUOMO DI NAPOLI

Fu costruito dagli Angiò, con i quali Carlo VIII era imparentato attraverso la nonna Maria d’Angiò e vantava pertanto un diritto ereditario sul Regno, all’epoca in mano spagnola.

La nascita della Lega Santa «Ecco (dicea) sì pente Ludovico/d’aver fatto in Italia venir Carlo»: Ariosto coglie con efficacia il sentimento che, misto allo stupore, attraversò il duca di Milano e, più in generale, i potenti d’Italia dinanzi alla disarmante semplicità con cui Carlo aveva attraversato e soggiogato gran parte della penisola. Fin dall’arrivo dei francesi dinanzi alle mura di Sarzana, del resto, Ludovico aveva compreso di non poter ma-

Disilludendo molte speranze, Carlo VIII evitò di compiere azioni contro il papa Borgia ALESSANDRO VI PINACOTECA VATICANA, CITTÀ DEL VATICANO.

SCALA, FIRENZE

divenuto re Ferrante II, e scappò da Napoli alla volta della Sicilia. Salutato come un liberatore, quando non come un Messia il cui passaggio era propiziato da prodigi ed eventi favorevoli (non ultimo un inverno straordinariamente mite), Carlo fu benevolmente accolto lungo il percorso; quando ciò non avvenne, come in alcune aree del basso Lazio, il re non esitò a impiegare mezzi analoghi a quelli messi in mostra nell’autunno precedente, come a Monte San Giovanni, i cui abitanti furono, ancora una volta, sterminati senza alcuna pietà.

Fu la popolazione di Capua a infliggere il colpo di grazia a quello che rimaneva dell’esercito napoletano: approfittando di una temporanea assenza di Ferrante II, tornato a Napoli per cercare rinforzi, i capuani attaccarono e, infine, scacciarono i soldati che vi erano stanziati, aprendo così le porte al sovrano francese, che vi fece il suo ingresso il 18 febbraio. Il medesimo scenario di disordine e divisione si ripetè nella capitale, costringendo Ferrante II a riparare sull’isola di Ischia e consentendo al Valois, quattro giorni più tardi, di entrare

JUSTIN FOULKES / CORBIS / CORDON PRESS

SANTA MARIA DEL FIORE. Falliti i tentativi diplomatici per tenerlo lontano dalla città, il 17 novembre Carlo VIII entrò trionfalmente a Firenze, bardata in suo onore, e gli fu messo a disposizione il palazzo dei Medici.

76 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

BPK / SCALA, FIRENZE

MASSIMO BORCHI / FOTOTECA 9X12

PIAZZA SAN SECONDO, ASTI. QUI CARLO VIII, DURANTE IL RIENTRO IN FRANCIA, STIPULÒ UN TRATTATO DI PACE CON IL DUCATO DI MILANO

BATTAGLIA DI FORNOVO OCCASIONE PERDUTA

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REVE MA SANGUINOSA, la battaglia di Fornovo

FRANCESCO GONZAGA. BUSTO IN TERRACOTTA DI GIOVANNI CRISTOFORO ROMANO. XVI SECOLO. PALAZZO DUCALE, MANTOVA.

78 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

SCALA, FIRENZE

si svolse sul Taro il 6 luglio 1495 e vide opposte all’esercito di Carlo VIII, ridotto a circa 10.000 uomini, le milizie della Lega Santa, di dimensioni più che doppie, condotte da Francesco Gonzaga e composte di forze in larga parte veneziane.

Nonostante la sproporzione numerica, l’esito della battaglia rimase incerto; a causa di una strategia troppo attendista e dell’indisciplina di alcuni reparti (a partire dagli stradiotti, i mercenari albanesi che, invece di attaccare l’avanguardia francese, si diedero al saccheggio del bottino accumulato da Carlo), gli italiani persero l’occasione di annientare i francesi, che ripararono ad Asti senza essere inseguiti e subendo, quindi, pochissime perdite.

novrare il re per i propri scopi e aveva quindi abbandonato il proposito di accompagnare la spedizione, preoccupato dalla necessità di salvaguardare il proprio territorio.

Pentitosi per aver attirato nella penisola quella che si era rivelata una forza incontrollabile e distruttiva, che minacciava di travolgere lo stesso ducato di Milano, Ludovico, unendo la propria voce a quella di Venezia, promosse insieme al papa, e con l’appoggio della Spagna e dell’Inghilterra (interessate a ridimensionare il dominio francese), la nascita della Lega Santa, stipulata il 31 marzo 1495.

Carlo però non si lasciò ingannare dagli scopi dichiarati della Lega, ufficialmente costituita in previsione di una crociata contro i turchi; temendo di restare intrappolato nel sud Italia, il sovrano decise, il 20 maggio, di abbandonare Napoli con metà dei propri uomini, lasciando l’altra metà sotto il comando di Gilbert di Montpensier, nominato vicerè. Risalendo in poco più di un mese e mezzo la penisola e giunto infine alla val di Taro, Carlo attraversò la Cisa, ma all’altezza

di Fornovo trovò ad attenderlo l’esercito della Lega. Combattuta il 6 luglio, l’unica, vera battaglia che Carlo fu costretto ad affrontare nel corso della sua spedizione italiana non lo vide nettamente sconfitto, nonostante un esercito ridimensionato e indebolito; la disorganizzazione degli italiani e la tacita complicità del Moro (che non voleva alienarsi del tutto le simpatie francesi) nel facilitargli la ritirata, gli consentirono di raggiungere agevolmente Asti, dove stipulò, l’8 ottobre, un trattato di pace con il ducato di Milano.

Una conquista effimera Tornato in Francia alla fine dello stesso mese, Carlo si vedrà a poco a poco sottrarre il dominio sul Regno di Napoli: durante la risalita dei francesi verso nord, infatti, Ferrandino organizzò e condusse con successo una spedizione per riconquistare i propri territori; con l’aiuto di Venezia, che in cambio ottenne alcune importanti città adriatiche, riuscì a scacciare le residue truppe francesi, peraltro decimate da un’epidemia (forse di quello che verrà non a

caso battezzato “mal francese”), ed entro l’estate del 1496 ricostituì il regno aragonese nelle sue dimensioni originali.

Ma l’apparente, e momentanea, ristrutturazione dell’equilibrio tra gli Stati italiani non deve trarre in inganno: per quanto priva di effettive conseguenze dirette, la fulminante discesa dei francesi mise a nudo la debolezza e le divisioni che affliggevano le principali potenze della penisola, rappresentando un punto di non ritorno nella storia d’Italia. Incoraggiati dalla disorganizzazione dimostrate nel fronteggiare re Carlo e direttamente coinvolti nella Lega Santa, i sovrani europei non mostreranno più alcuna remora nell’invadere l’Italia, facendone spesso l’oggetto di accordi e scambi volti a salvaguardare una “politica dell’equilibrio” valida a livello continentale.

Per saperne di più

BATTAGLIA DEL TARO

Il dipinto (15781579) fa parte dei Fasti gonzagheschi, commissionati a Tintoretto da Guglielmo Gonzaga per il palazzo ducale di Mantova.

Alte Pinakothek, Monaco.

SAGGI

Le guerre d’Italia 1494-1530 Marco Pellegrini. Il Mulino, Bologna, 2009.

La discesa di Carlo VIII in Italia a cura di D. Abulafia. Athena, Napoli, 2005.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LE IMPRESE DI CASA CAPPONI

AKG / ALBUM

PIERO CAPPONI STRAPPA I CAPITOLI DI CARLO VIII, BERNARDINO POCCETTI, 1583-1586, PALAZZO CAPPONI, FIRENZE.

LA SFIDA DI PIERO CAPPONI che avrebbe preso il via allo squillare delle trombe, con una celebre battuta: «Poiché si domandano cose sì disoneste, voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane», alludendo al segnale che avrebbe scatenato la reazione della popolazione e delle milizie raccolte nelle mura cittadine. Impressionato da una simile determinazione e volendo evitare uno scontro nelle strade della città, Carlo ridimensionò le proprie richieste e lasciò Firenze in modo pacifico.

ELMO LOMBARDO RISALENTE A FINE XV SECOLO. CARLO VIII IN ITALIA POTÉ CONTARE SU UN POTENTE ESERCITO.

DEA / BRIDGEMAN / ACI

elle imprese di casa Capponi, il pittore Bernardino Poccetti ricordò i momenti salienti in un ciclo di affreschi conservati a palazzo CapponiVettori di Firenze. Episodio decisivo per le sorti della Repubblica fu quello in cui Piero, diplomatico fiorentino, fu protagonista.

Incaricato di trattare con Carlo VIII per la ratifica degli accordi già presi dal Medici, durante l’incontro del 25 novembre il gonfaloniere rifiutò le condizioni imposte dal sovrano francese, stralciò il trattato e rispose alla minaccia di un saccheggio,

A DIFESA DI FIRENZE E PISA

SCALA, FIRENZE.

NICCOLÒ, FIGLIO DI PIERO, RICONQUISTA PISA, BERNARDINO POCCETTI, 1585 CA., PALAZZO CAPPONI, FIRENZE

LA RICONQUISTA DI PISA MONETA ARGENTEA DI CARLO VIII DEL TARDO XV SECOLO. IL DENARO FECE LA STORIA DELLA SUA CALATA.

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Per questo concesse a Pisa l’agognata libertà da Firenze. L’ambigua posizione del sovrano di Francia e la sempre più fitta rete di alleanze che veniva a tessersi attorno a Pisa indussero Firenze a una serie di tentativi di riconquista che si protrassero per quindici anni finché, dopo un lungo assedio, l’8 giugno del 1509 Niccolò Capponi, Antonio da Filicaja e Averardo Salviati entrarono in città alla testa dell’esercito gigliato.

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el medesimo ciclo di affreschi è la scena che ricorda la riconquista di Pisa da parte di Firenze a opera di Niccolò di Piero Capponi. L’episodio, risalente al 1509, altro non è che l’epilogo di una serie di scontri tra le due città le cui radici affondano proprio nel 1494. In quell’anno, infatti, raggiunta la Toscana nella sua discesa verso Napoli e impegnato nella difficile negoziazione con Piero Capponi, Carlo VIII volle crearsi degli alleati su cui contare in previsione del proprio viaggio di ritorno dal Sud.

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LA SANTA E L’INQUISIZIONE

TERESA D’ÁVILA In un’epoca in cui il Sant’Uffizio agiva con estrema durezza contro luterani e mistici, santa Teresa temette che le sue visioni ed esperienze mistiche le attirassero accuse di eterodossia e di rapporti con il demonio ELENA CARRERA

ALBUM

PROFESSORESSA DEL DIPARTIMENTO DI STUDI ISPANICI E DEL CENTRO PER LA STORIA DELLE EMOZIONI DELL’UNIVERSITÀ QUEEN MARY DI LONDRA

L’ESTASI DI SANTA TERESA

La celebre scultura di Gian Lorenzo Bernini raffigura l’istante in cui Teresa d’Ávila si sentì trapassata da un dardo divino. Cappella Cornaro, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma. 1647-1651.

ARALDO DE LUCA

SANDALO TERESIANO

Sandalo di santa Teresa conservato come reliquia nel convento di Santa Teresa, ad Ávila. Una delle caratteristiche delle carmelitane scalze era quella di indossare sandali, invece di scarpe e calze.

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pesso Teresa d’Ávila (o di Gesù) è dipinta come una donna inquieta, che ebbe sempre il coraggio di andare controcorrente. Lo fece a 19 anni, quando decise di entrare in un convento carmelitano nonostante la ferma opposizione del padre, e poi a 47, quando, senza curarsi delle critiche e delle maldicenze, fondò il monastero da cui sarebbe nato un nuovo ordine, quello delle carmelitane scalze.

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RELIQUIARIO IN ORO CHE CONTIENE UN DITO DI SANTA TERESA DI GESÙ.

XVII SECOLO. 84 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Tuttavia, esperienze religiose di questo tipo potevano essere rischiose. Tra il 1545 e il 1563 si svolse il concilio di Trento, nel corso del quale vennero condannati i princìpi della Riforma luterana, che tra le altre cose sostenevano una religiosità interiore, separata dalla mediazione ecclesiastica. L’Inquisizione spagnola aveva raddoppiato la sorveglianza contro qualsiasi deviazione religiosa, fosse quella dei gruppi luterani scoperti in varie città o quella degli alumbrados, come venivano solitamente chiamate le persone che cercavano una comunione diretta con Dio e sperimentavano estasi o annunciavano profezie. Per gli inquisitori non vi era alcun dubbio: dietro questi comportamenti non poteva che esserci l’opera del demonio.

O Dio o il diavolo In questo clima, non sorprende che nel convento dell’Incarnazione le monache mormorassero sui rapimenti mistici di Teresa e sulla sua insistenza nel trovare angoli tranquilli nei quali meditare; erano atti“estremi”che mettevano in pericolo la reputazione della comunità.

La stessa Teresa si sentiva confusa e intimorita dalle proprie esperienze e fece di tutto per assicurarsi che fossero conformi alla dottrina della Chiesa. Iniziò a confessarsi con sacerdoti gesuiti, con le idee chiare sull’importanza di mantenere la disciplina ascetica senza lasciare briglia sciolta ai voli mistici.

I suoi due primi confessori e guide spirituali, però, erano troppo giovani per comprenderla (avevano 24 e 27 anni). Teresa ottenne un colloquio con il preposito generale dei gesuiti, Francesco Borgia, di passaggio ad Ávila, ed egli

CHRISTIAN HANDL / AGE FOTOSTOCK

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Forse, però, dimentichiamo che solitamente il coraggio è il superamento della paura, e Teresa, nella sua vita di monaca mistica e riformatrice, si sentì più volte minacciata.

Poco dopo il suo ingresso nel convento carmelitano dell’Incarnazione, ad Ávila, Teresa iniziò a condurre un’intensa vita spirituale, orientata all’orazione mistica. Dopo aver superato una serie di gravi disturbi fisici, che la condussero in punto di morte, attorno al 1555 ebbe un’esperienza mistica. Nell’autobiografia narra che in un’occasione rimase profondamente commossa e turbata contemplando un quadro nel quale era raffigurato Cristo ricoperto di piaghe: «Mi gettai ai suoi piedi con un profluvio di lacrime, supplicandolo che mi desse infine la forza di non offenderlo piu», scrisse. La lettura delle Confessioni di sant’Agostino le provocò uguale turbamento per la scena della sua conversione dal cristianesimo.

In conseguenza di ciò, decise di rinunciare anche ai più piccoli svaghi che le erano permessi nel convento e di dedicarsi a una vita di preghiera. Da quel momento raggiunse i livelli più elevati di orazione mistica, nella quale notava una sorta di sospensione del raziocinio e dell’intelletto.

A volte udiva «voci soprannaturali» e aveva visioni, rapimenti ed estasi.

C R O N O LO G I A

MISTICA, SANTA E SCRITTRICE 1515 Teresa nasce ad Ávila, figlia di Alonso Sánchez de Cepeda e della sua seconda moglie Beatriz Dávila y Ahumada.

1536 Nonostante l’opposizione del padre, Teresa entra nel convento dell’Incarnazione.

La professione avviene l’anno seguente.

1554-1556 Dopo la “seconda conversione”, decide di abbandonare la vita troppo rilassata delle compagne di convento.

1562 Fonda ad Ávila il convento di San Giuseppe, il primo delle carmelitane riformate, e scrive il Libro della mia vita.

1582 Teresa di Gesù muore ad Alba de Tormes, a 67 anni. Viene beatificata dal papa nel 1614 e canonizzata nel 1622.

RELIQUIARIO A FORMA DI BUSTO DI SANTA TERESA DI GESÙ. XVII SECOLO. MUSEO DE SANTA CRUZ, TOLEDO.

DEA / AGE FOTOSTOCK

CONVENTO DI SANTA TERESA DI GESÙ

La chiesa-convento dell’ordine carmelitano fu costruita ad Ávila, nel punto in cui sorgeva la casa natale di santa Teresa, agli inizi del XVII secolo. La facciata barocca ha al centro una statua in marmo della santa.

VISIONE DI SANTA TERESA

ORONOZ / ALBUM

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SAN GIOVANNI DELLA CROCE. RTTRATTO ANONIMO. XVII SECOLO. MONASTERO CARMELITANO, BEAUNE.

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86 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

no ormai troppe monache – in quello dell’Incarnazione ve ne erano oltre 120 – e le religiose si affollavano in grandi dormitori o abitavano in appartamenti privati, magari condivisi con qualche parente, serve e schiave, dove godevano di comodità decisamente lontane dal rigore della regola monastica.

Rivoluzione nel Carmelo Sovente le monache rompevano anche il voto di clausura, quando avevano bisogno di assistenza medica o quando venivano chiamate per curare dei familiari o consolare delle vedove. Per mettere un freno a tali eccessi, e dopo essersi consultata con il riformatore francescano Pedro de Alcántara e il teologo domenicano Pedro Ibáñez, Teresa pensò di fondare un convento riformato nel quale al massimo tredici monache scalze potessero condurre una vita di clausura, povertà e preghiera, come quella dei primi carmelitani.

Quando il progetto fu divulgato, Teresa fu oggetto di persecuzione da parte delle altre monache e di molti chierici. Era vittima di scherno e critiche feroci, come quella secondo cui fondare un convento era uno“sproposito da donne”. Il gesuita Baltasar Álvarez, confessore e direttore spirituale di Teresa, arrivò alla conclusione che fosse ormai perduta e che la sua orazione fosse un inganno. Teresa, però, non cedette. Al contrario, consigliava a confessori e

BRIDGEMAN / ACI

la tranquillizzò dicendole che ciò che sperimentava era «spirito di Dio». Ciononostante, il canonico di Ávila, Gaspar Daza, si disse convinto che Teresa fosse vittima del demonio perché non aveva la tempra della santa.

La scrittura fu un altro strumento che Teresa utilizzò per giustificarsi. Nel 1554 iniziò a scrivere le Relazioni, per convincere i confessori che ciò che udiva e provava durante le orazioni non era opera del demonio, ma di Dio. Lo stesso scopo aveva il Libro della mia vita, scritto nel 1562 e ampliato tre anni dopo, nel quale parla della profonda paura provata nei momenti di dubbio o in cui altri dubitavano di lei.

Le dicerie aumentarono nel 1560, quando Teresa elaborò il suo progetto di riforma dell’ordine carmelitano. Riteneva che la vita nei conventi carmelitani fosse oramai troppo rilassata: le ore che le monache trascorrevano in parlatorio conversando con familiari e giovanotti oziosi erano un ostacolo per il loro progresso spirituale. D’altro canto, i conventi ospitava-

Nel XVIII secolo Domingo Echavarría, detto Chavarito, eseguì una serie di dipinti sulla vita di Teresa d’Ávila.

Museo de Bellas Artes, Granada.

L’ESTASI DI SANTA TERESA (1)

Per realizzare il suo celebre gruppo scultoreo dedicato a santa Teresa, Bernini si basò su un brano del Libro della mia vita nel quale la santa narra come, mentre era a casa di donna Guiomar de Ulloa, le apparve un angelo che la trafisse con un dardo.

(2)

(3)

TRANSVERBERAZIONE DI SANTA TERESA. GIAN LORENZO BERNINI. CAPPELLA CORNARO, SANTA MARIA DELLA VITTORIA, ROMA.

«Vedevo vicino a me, dal lato sinistro, un angelo (1) in forma corporea, cosa che non mi accade di vedere se non per caso raro; […] non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare che brucino in ardore divino: credo che siano quelli chiamati cherubini […].

Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro (2), che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore (3) , così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, […] ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine».

CONVENTO DI ALBA DE TORMES

Il convento dell’Annunciazione fu fondato da santa Teresa nel 1571 con il patrocinio di un notabile locale, il cui stemma figura all’ingresso.

LA SANTA E LE MONACHE

DEA / ALBUM

Tempi duri Mentre attendeva pazientemente il permesso di fondare il convento, aumentarono i suoi rapimenti mistici. Fu allora che si diffuse la voce secondo la quale i suoi progetti erano frutto di qualche rivelazione sospetta. Secondo quanto lei stessa racconta, le andavano a dire «con grande timore» che «correvano tempi duri» e che avrebbe potuto rischiare un’accusa da parte dell’Inquisizione. Teresa, ridendo, rispondeva che era certa di non avere motivi di temere l’Inquisizione. Aggiungendo: «Se avessi pensato che ci fosse di che temerla, io stessa mi sarei accusata, e che se fosse stata già in atto un’imputazione, il Signore mi avrebbe fatto assolvere e ne avrei avuto un guadagno».

Finalmente, nel 1562 riuscì a fondare ad Ávila il convento di San Giuseppe. Fino alla sua morte, Teresa percorse migliaia di chilometri in tutta la Castiglia, fondando altri quindici monasteri di carmelitane scalze. Anche se in seguito Teresa godette dell’approvazione e del favore delle istituzioni, tanto da essere ammi88 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

rata persino dal re Filippo II, le minacce non si estinsero mai del tutto. Per esempio, la sua autobiografia fu presentata all’Inquisizione di Valladolid perché giudicasse se le visioni, le rivelazioni e le dottrine che vi erano esposte fossero pericolose, ma l’eminente teologo Domingo Báñez emise nel 1575 un verdetto favorevole. A Siviglia, Teresa fu denunciata per due volte all’Inquisizione da parte di monache del convento carmelitano che aveva fondato nella città, ma il Sant’Uffizio respinse in entrambi i casi le accuse.

Nel 1582, dopo aver fondato a Burgos il suo sedicesimo convento, Teresa scrisse ad Anna di Gesù, fondatrice del convento di Granada, ricordandole che l’importante non era il numero di conventi fondati, ma popolarli di monache che vivessero come «uomini valorosi, e non come donnicciuole». Questo valore o coraggio, che la sua cultura associava alla mascolinità, è ancora oggetto di fascino e ispirazione, che mantengono vivo l’interesse per questa santa.

Per saperne di più

SAGGI

Teresa d’Ávila Rosa Rossi. Roma, Editori Riuniti, 2015.

La santa, Teresa d’Avila nella Spagna del siglo de oro J. L. Olaizola. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2002.

TESTI

Libro della mia vita Santa Teresa d’Ávila. Edizioni Paoline, 2006.

CÉSAR LUCAS ABREU / AGE FOTOSTOCK

letterati di essere più pazienti con le altre donne, poiché anch’esse avrebbero infine ricevuto l’aiuto di Dio. Mentre tutti la immaginavano colma di vergogna e furente, lei era tranquilla, convinta di aver fatto tutto ciò che poteva fare e che sarebbe riuscita a fondare il convento, sebbene non sapesse ancora quando.

Dipinto di autore ignoto in cui santa Teresa è raffigurata mentre con il suo mantello protegge le monache carmelitane dei suoi conventi.

RITORNO AD ÁVILA

UNA PRIORA PIUTTOSTO AUTORITARIA Nel 1571, nove anni dopo essere partita per fondare nuovi conventi riformati in tutta la Castiglia, Teresa tornò nel monastero dell’Incarnazione, del quale era stata nominata priora. L’accoglienza non fu amichevole. Al suo arrivo si sentirono fischi e male parole, e persino un tentativo di impedirle di entrare, poiché le monache temevano che intendesse imporre le rigide norme dell’originaria regola carmelitana.

Pacata ma decisa, Teresa fece un gesto per tranquillizzarle, dicendo che avrebbe rispettato le loro abitudini, correggendo soltanto gli eccessi. Uno di questi erano le visite di parenti e persino di alcuni uomini che qualche monaca riceveva; non vi era nulla di indecente in questi incontri, però davano adito a pettegolezzi, e per questo Teresa decise di proibirli.

Uno degli uomini esclusi dalle visite protestò con toni minacciosi verso Teresa, ma lei lo richiamò all’ordine dicendo che avrebbe scritto al re chiedendo che gli tagliassero la testa. La voce si sparse e nessuno osò più turbare la clausura delle monache.

ALL’ESAME DELLA SANTA INQUISIZIONE

Il nonno paterno di Teresa, Juan Sánchez, era un ricco mercante di Toledo nato in una famiglia di ebrei conversi e che sposò una cristiana.

Nel 1485, fu processato per presunte pratiche ebraiche e condannato a presentarsi per sette venerdì consecutivi nelle diverse chiese della città vestito con lo scapolare destinato ai penitenti. Pochi anni dopo la famiglia si trasferì ad Ávila, dove riuscì a far dimenticare l’incidente, come dimostra il fatto che verso il 1520 il padre di Teresa e i suoi zii ottennero il riconoscimento della loro condizione di hidalgos, come qualsiasi cristiano puro, uno status che li esentava dal pagamento delle tasse. Sebbene alcuni storici abbiano speculato sulla possibile influenza che ebbe su santa Teresa la sua ascendenza ebraica, è più probabile che lei ne fosse all’oscuro o che non avesse dato importanza alla cosa.

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A differenza di alcuni suoi contemporanei – come l’arcivescovo di Toledo, Bartolomé Carranza, o frate Luis de León –, e contrariamente a quanto talvolta si dice, Teresa d’Ávila non fu mai processata dall’Inquisizione. Fu tuttavia oggetto di indagini in varie occasioni, per via di accuse che la accostavano al movimento degli alumbrados e che mettevano in discussione l’ortodossia delle sue visioni e delle sue esperienze mistiche, e le sue opere vennero in parte censurate.

I. LE ORIGINI EBRAICHE

DIPINTO DI BERRUGUETE CHE RAFFIGURA UN CONDANNATO DALL’INQUISIZIONE CON IL BERRETTO CONICO E LO SCAPOLARE CHE RIPORTAVA IL SUO DELITTO. MUSEO DEL PRADO, MADRID.

II. GLI AVVERTIMENTI Verso il 1560, gli amici di santa Teresa la avvertirono del rischio di essere denunciata all’Inquisizione per le sue visioni e i rapimenti mistici: «Alcune persone, allora, vennero da me spaventate – racconta nel Libro della mia vita – per dirmi che correvano tempi duri e che poteva darsi che fossi imputata di qualche colpa e denunziata all’Inquisizione». Non erano esagerazioni: in quegli stessi anni era stato processato Bartolomé Carranza, arcivescovo di Toledo, ed erano stati celebrati due grandi autodafé contro i gruppi luterani di Valladolid e Siviglia. In precedenza, Magdalena de la Cruz, una monaca clarissa di Cordova, era stata condannata per false profezie. Ciononostante, Teresa respinse gli avvertimenti: «Ciò mi parve divertente e mi fece ridere perché, a questo riguardo, non ho mai avuto paura [...] perché sarebbe stato molto pericoloso per la mia anima se in essa vi fosse alcunché da fornire motivo di temere l’Inquisizione».

ROGO DI LIBRI DA PARTE DEGLI INQUISITORI DOMENICANI. DIPINTO DI PEDRO BERRUGUETE, FINE DEL XV SECOLO. PRADO, MADRID.

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III. UN LIBRO NELLE MANI DELL’INQUISIZIONE

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/ ALBUM

Quiroga, affinché verificasse l’ortodossia della sua dottrina. Quiroga chiese un responso al teologo domenicano Domingo Báñez, che si pronunciò in modo favorevole ma consigliò di non diffonderlo perché rivelazioni e visioni «sono da temere, soprattutto nelle donne, che facilmente credono che vengano da Dio e le colmano di santità».

Quiroga lesse il libro e ne fu ammirato, come disse a Teresa nel 1580: «L’ho letto tutto. Contiene una dottrina sicura, vera e molto proficua». Ciononostante, l’opera fu stampata solo nel 1588, dopo la morte dell’autrice, e rivista da Luis de León.

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Quando nel 1565 terminò di scrivere la sua biografia, Teresa consegnò il manoscritto a varie persone di sua fiducia. Una di queste era Ana de Mendoza, principessa d’Eboli, che aveva patrocinato la fondazione di un convento riformato nel suo feudo di Pastrana. Tuttavia, quando Teresa, stanca delle stravaganze della nobildonna, trasferì il convento in un’altra città, la principessa decise di vendicarsi e consegnò il manoscritto del Libro della mia vita all’inquisitore generale, il cardinale

PAGINA DEL LIBRO DELLA MIA VITA. BIBLIOTECA DEL ESCORIAL. PRINCIPESSA D’EBOLI. RITRATTO DI SÁNCHEZ COELLO. XVI SECOLO.

IV. FRASI CENSURATE

V. L’ULTIMA CALUNNIA

Nel 1564, Teresa d’Ávila terminò la stesura di un manuale di spiritualità a uso delle religiose intitolato Cammino di perfezione.

Revisionato nel 1569, il libro era pronto per la stampa nel 1579, ma non fu pubblicato fino al 1583, dopo la morte dell’autrice e dopo che i censori ebbero eliminato vari passaggi che consideravano pericolosi. Uno di questi era l’appassionata protesta di Teresa contro l’oppressione che subivano le donne nella chiesa: «Non basta, Signore, che il mondo ci tenga rinserrate... che non facciamo nulla per Voi in pubblico che valga qualcosa, né osiamo trattare di certe verità che piangiamo in segreto? [...] Voi siete giudice giusto, e non come i giudici della terra, i quali, figli di Adamo come sono e in definitiva tutti uomini, non vi è virtù di donna che non tengano in sospetto».

Negli ultimi anni della sua vita, Teresa d’Ávila fu oggetto di due accuse personali presentate all’Inquisizione di Siviglia. Nel 1576, una vedova carmelitana che trascose un periodo come novizia del Carmelo di Siviglia accusò Teresa e un’altra monaca, Isabel de San Jerónimo, di appartenere alla setta mistica degli alumbrados. Gli inquisitori interrogarono le monache, compresa Teresa, ma scartarono subito l’accusa. Poco tempo dopo un’altra religiosa, Beatriz de la Madre de Dios, contraria all’autorità che Teresa esercitava, la accusò di avere rapporti con un giovane religioso e di aver dato alla luce vari figli segreti. Gli inquisitori rigettarono all’istante l’assurda diceria.

ORONOZ / ALBUM

CAMMINO DI PERFEZIONE. SANTA TERESA. CONVENTO DI SAN GIUSEPPE, TOLEDO.

RELIGIOSO APPARTENENTE ALL’ORDINE DI SANTA TERESA D’ÁVILA. INCISIONE DEL 1833.

MARY EVANS / ACI

IL VASCELLO DI UN CORSARO

La fotografia mostra una replica del Golden Hind (La cerva d’oro), il galeone con il quale Francis Drake catturò il tesoro del Nuestra Señora de la Concepción e circumnavigò il pianeta.

PER CUSTODIRE IL BOTTINO

GORDON GAHAN / NGS

Uno scrigno da marinaio; nella parte inferiore del coperchio è possibile osservare il complesso sistema di chiusura. XVI secolo. Musée du Vieux Marseille, Marsiglia.

BRIDGEMAN / ACI

CORSARI L’assalto alle flotte del Tesoro Per duecento anni, pirati, corsari e filibustieri cercarono di impossessarsi delle immense ricchezze che i galeoni spagnoli trasportavano dall’America all’Europa XABIER ARMENDÁRIZ ESPERTO DI STORIA DELLA NAVIGAZIONE

ra il 1507 quando si ebbe conferma di ciò che molti governanti europei già sospettavano: le terre raggiunte da Cristoforo Colombo, a Occidente, erano un nuovo e immenso continente. Ad averlo intuito per primo fu Amerigo Vespucci il quale, di ritorno dal suo terzo viaggio nel Nuovo Mondo, che per primo aveva costeggiato fino alla Patagonia, ne aveva parlato in un testo che si diffuse rapidamente in tutta Europa. Così, quando in quell’anno il cartografo alsaziano Martin Waldseemüller ripubblicò la Cosmographia di Tolomeo, vi aggiunse la prima mappa del Nuovo Mondo, chiamandolo America in onore del navigatore italiano (che era al servizio del Portogallo). Nel frattempo, le informazioni sull’abbondanza di oro, argento e perle iniziavano ad arrivare a Siviglia, il solo porto spagnolo che fosse autorizzato a commerciare con quei territori lontani, e da lì si diffondevano in tutto il continente.

C R O N O LO G I A

Abbordaggi negli oceani 1522 / 1523

Il pirata francese Jean Florin (o Fleury) assalta la flotta di caravelle che porta in Spagna il tesoro dell’imperatore azteco Moctezuma.

1579

Il pirata inglese Francis Drake cattura il galeone Nuestra Señora de la Concepción, soprannominato Cacafuego.

Il bottino è di 400.000 pesos.

1587

Dopo un appostamento, l’inglese Thomas Cavendish cattura il Galeone di Manila Santa Anna, vicino a Capo San Lucas (Bassa California).

1628

Nella baia cubana di Matanzas, l’olandese Piet Heyn cattura la Flotta del Tesoro e fugge con un bottino di 12 milioni di fiorini.

1657

OROLOGIO A FORMA DI GALEONE DEL TEDESCO HANS SCHLOTTHEIM. LE FIGURINE DELL’EQUIPAGGIO SI MUOVEVANO OGNI ORA. 1580 CIRCA. MUSEO DEL RINASCIMENTO, ÉCOUEN.

1668

Sulla costa ovest di Hispaniola, il filibustiere Pierre Le Grand assalta la nave viceammiraglia del Tesoro, isolata dal resto della flotta.

1709

Woodes Rogers cattura il Galeone di Manila Nuestra Señora de la Encarnación y Desengaño vicino a Capo San Lucas (Bassa California).

94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

BRIDGEMAN / ACI

Gli inglesi Robert Blake e Richard Stayner attaccano la Flotta del Tesoro a Santa Cruz de Tenerife. Si impossessano di 10 milioni di sterline.

Si capisce quindi che tali tesori iniziarono ad allettare molti, ma le carte nautiche del nuovo Mondo erano ancora gelosamente conservate dai governi spagnolo e portoghese che nel 1494, a soli due anni dalla scoperta dell’America, si erano spartiti il Nuovo Mondo (e anche il resto, Africa compresa) con il trattato di Tordesillas. Poiché navigare senza carte verso una terra ignota era un grande azzardo, sia i pirati indipendenti sia i corsari al servizio delle nazioni rivali delle due monarchie iberiche misero a punto una nuova strategia: attaccare i vascelli spagnoli e portoghesi che facevano ritorno in patria.

Così, il triangolo di oceano Atlantico compreso tra Penisola iberica, isole Canarie e arcipelago delle Azzorre divenne una zona propizia per la caccia all’oro, all’argento e alle perle provenienti dall’America. Il papato stesso aveva benedetto quel duopolio che francesi, inglesi e olandesi, esclusi da quella terra ricca di promesse, avrebbero fatto di tutto per spezzare.

NATIONAL MARITIME MUSEUM, LONDON / ALBUM

CAPO SAN VINCENZO

Il promontorio portoghese dove si appostavano i corsari, in attesa delle navi che, dopo lo scalo alle Azzorre, si dirigevano a Siviglia.

HAWKINS, DRAKE E CAVENDISH, I GRANDI NAVIGATORI DI ELISABETTA I D’INGHILTERRA.

PIRATI E CORSARI

I Caraibi: bucanieri e filibustieri Una mattina, Florin avvistò tre caravelle all’orizzonte. Cercò di costringerle alla resa con spari di avvertimento, per non provocare troppi danni e non farle affondare, così che potesse abbordarle. Lanciò le proprie navi contro due caravelle, senza accorgersi che la terza fuggì, rifugiandosi presso l’isola Santa María.

Qualche giorno dopo, credendo ormai sicura

la navigazione, la caravella salpò verso la Spagna scortata da diverse navi comandate da Domingo Alonso. Florin e i suoi uomini, però, erano ancora in agguato e alla fine riuscirono a catturare la caravella e la scorta all’altezza di Capo San Vincenzo, nel sud del Portogallo.

Quando il pirata salì a bordo scoprì con enorme sorpresa che non si trattava di una comune caravella mercantile, ma trasportava il favoloso tesoro sottratto da Hernán Cortés all’imperatore azteco Moctezuma dopo la conquista di Tenochtitlán. Secondo il principale cronista della conquista del Messico, Bernal Díaz del Castillo, vi erano «ottantottomila castellanos in lingotti d’oro […] molti gioielli sfarzosi e perle, alcune grandi come nocciole, e poi giade, che sono pietre preziose come smeraldi, qualcuna grande come una mano». In totale, Florin si impossessò di 58.000 lingotti d’oro e del tesoro dell’imperatore azteco, che comprendeva il suo famoso pennacchio di piu-

MERAVIGLIE DAL MESSICO

Scudo cerimoniale di piume del tesoro di Moctezuma. Il sovrano azteco morì nel 1520, prigioniero del conquistador Hernán Cortés, che inviò all’imperatore Carlo V le sue ricchezze. Museo Etnologico, Vienna.

CHIVE

Nell’inverno del 1522, il francese Jean Florin (o Fleury) comandava una flottiglia di imbarcazioni di pirati che pattugliavano le isole Azzorre in cerca di prede. Florin non era un novellino: da diciotto anni derubava imbarcazioni spagnole, veneziane e di altre città italiane, in poche parole tutti i nemici del re di Francia.

Però non era realmente un corsaro, ossia non cedeva parte degli utili al monarca francese operando con una patente (o lettera) di corsa; anzi, era così spavaldo da farsi finanziare dal sovrano per attaccare i suoi nemici. Florin prendeva ordini solo da se stesso e rendeva conto soltanto al suo armatore, Jean d’Ango.

no una nave di loro proprietà e derubavano imbarcazioni di qualsiasi nazione, e i corsari, al soldo di un re dal quale avevano ottenuto la lettera (o patente) di corsa, e a cui consegnavano parte del bottino.

Spesso, però, la distinzione scompariva. Francis Drake, per esempio, iniziò come pirata e divenne corsaro reale e viceammiraglio.

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JUERGEN WACKENHUT / AGE FOTOSTOCK

SOLITAMENTE SI FA DISTINZIONE tra i pirati, che armavano e guidava-

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96 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

L’OLANDESE PIET HEYN

Nel 1628, con 24 navi, 2300 marinai e mille soldati, catturò la Flotta delle Indie a Matanzas (Cuba). Il bottino ammontava a 12 milioni di fiorini.

vana, Cuba. Verso il mese di giugno, la Flotta delle Indie (o del Tesoro) salpava dall’isola scortata in avanguardia dalla nave capitana, in retroguardia dall’ammiraglia e sul lato di sopravvento da galeoni. In questo modo, le caracche e le navi mercantili erano protette dagli attacchi, mentre la maggior parte dell’oro e dell’argento viaggiava nelle stive di galeoni dotati di artiglieria. In tali condizioni, le regole del gioco cambiarono, e la Flotta spagnola delle Indie fu catturata solo in due occasioni: dall’olandese Piet Heyn nel 1628 e dagli inglesi Blake e Stayner nel 1657.

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Drake, un pirata leggendario

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me. Come se non bastasse, catturò un vascello proveniente da Santo Domingo, aggiungendo al bottino 20.000 pesos in oro e perle.

L’impresa di Jean Florin aprì gli occhi alle nazioni europee, che presero coscienza delle ricchezze del Nuovo Mondo. In pochi anni, le coste americane furono inondate da corsari e pirati, i primi al soldo di sovrani che volevano spezzare il monopolio spagnolo e portoghese, i secondi che lavoravano per conto proprio. All’andata lasciavano passare le navi mercantili per assalirle nel viaggio di ritorno, quando erano cariche di ricchezze. Con l’aumento delle catture si impadronirono anche delle carte con le rotte di navigazione, e da quel momento in poi i rapinatori del mare seppero bene dove cercare le prede.

Davanti alla minaccia dei pirati, divenne evidente che serviva un sistema di convogli con scorte. Dai porti di Veracruz (Messico), Portobello (Panama) e Cartagena de Indias (Colombia), tra gli altri, i tesori americani venivano inviati con flotte strettamente sorvegliate all’A-

Di fronte all’efficacia del nuovo sistema di convogli, pirati e corsari si concentrarono sull’attacco dei possedimenti spagnoli sulla terraferma, in gran parte poco popolati e ancor meno protetti. Uno dei primi a usare questa tattica fu il pirata inglese Francis Drake. Nel 1572 attaccò la città di Nombre de Dios, sull’istmo di Panama, che fu il primo porto della flotta delle Indie (poi sostituito da

R. T. NOWITZ / CORBIS / CORDON PRESS

CASTILLO DEL MORRO

La fortezza proteggeva la baia dell’Avana, dove veniva riunita la Flotta del Tesoro in partenza verso la Spagna.

ANELLO E MONETE D’ORO RINVENUTI NELLA WHYDAH, UNA NAVE PIRATA NAUFRAGATA NEL 1717.

Portobello). La razzia non ebbe successo e lo stesso Drake rimase ferito. La sua fortuna mutò con l’aiuto dei cimarrones (schiavi neri fuggiti agli spagnoli) e di un corsaro francese, il capitano Guillaume Le Testu. Nel marzo del 1573 si avvicinarono alla costa panamense a bordo di piccole pinacce che nascosero nella vegetazione. Addentratisi nella foresta, rimasero in agguato e catturarono dei muli che trasportavano il tesoro proveniente dal Perú attraverso l’istmo di Panama, per essere imbarcato con destinazione l’Avana. Ogni animale trasportava 135 chili d’argento. Il bottino fu molto ricco: circa 15 tonnellate di metalli preziosi tra lingotti d’argento e monete d’oro.

Non pago di aver ottenuto la fama e il favore della sua regina, Elisabetta I d’Inghilterra, Drake era ossessionato dai galeoni del tesoro. Nel settembre del 1578 attraversò lo stretto di Magellano e si inoltrò nel Pacifico con la speranza di catturare navi meno protette.

A bordo di un piccolo galeone di 100 tonnellate, il Golden Hind, navigò verso nord attaccando i possedimenti spagnoli in Cile e pic-

FRANCIA E INGHILTERRA non accettavano che Spagna e Portogallo avessero il possesso esclusivo del Nuovo Mondo e delle sue ricchezze. Quando Carlo V scrisse a Francesco I protestando per l’assalto di Jean Florin alle sue navi nel 1522-1523, il sovrano francese rispose: «Ditemi quale clausola del testamento di Adamo stabilisce che il mondo va diviso tra i miei fratelli di Spagna e di Portogallo».

coli carichi. Alcuni prigionieri gli rivelarono l’esistenza di un galeone talmente armato da essere soprannominato Cacafuego. Si trattava del Nuestra Señora de la Concepción, un vascello carico d’oro e d’argento in rotta da Lima alla città di Panama. Drake promise una catena d’oro a chi l’avesse avvistato per primo, e fu suo nipote John che dall’alto della coffa scorse la vela all’orizzonte: era il 1° marzo del 1579.

Sapendo di trovarsi in condizioni di inferiorità, l’inglese ricorse a un’astuzia che era molto diffusa tra i pirati: camuffò il proprio vascello da mercantile. Ridusse la velocità e aspettò che il Cacafuego e il suo capitano Sanjuán de Antón fossero a portata di voce. Lo spa-

Il sistema dei convogli navali limitò gli attacchi alla Flotta del Tesoro COPPIA DI PISTOLE DI FABBRICAZIONE INGLESE, XVII SECOLO.

ORONOZ / ALBUM

MICHELLE DULIEU / GETTY IMAGES

RICCHEZZE CONTESE

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CAPO SAN VINCENZO • Portogallo •

(1) CAPO ESPÍRITU SANTO • Isola di Sámar •

BAIA DI MATANZAS • Cuba •

(3) (7)

(9) (8) ALBAY • Isola di Luzon •

(4)

CAPO TIBURÓN • Hispaniola •

(6)

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SANTA CRUZ DE TENERIFE • Isole Canarie •

CAPO SAN LUCAS • Bassa California •

(2) ALL’ALTEZZA DI ESMER ALDAS • Ecuador •

ORONOZ / ALBUM

MAPPA FRANCESE DEL MONDO REALIZZATA TRA IL 1785 E IL 1788, CHE MOSTRA LE ZONE DEL GLOBO CHE ALL’EPOCA ERANO CONOSCIUTE.

GLI ATTACCHI DI PIRATERIA di francesi, inglesi e olandesi sulla Rotta delle Indie (come era nota la rotta marittima che univa la Penisola Iberica ai territori americani) obbligarono a proteggere con navi armate i convogli provenienti dall’America, che partivano dall’Avana, a Cuba. Lì si congiungevano la flotta della Nuova Spagna, che collegava con il Messico, e i galeoni della flotta Tierra Firme, che comunicavano con gli altri domini continentali. Questo complesso sistema limitò gli attacchi dei pirati nell’Atlantico, ma nel Pacifico la situazione era diversa. Lì, il Galeone di Manila collegava una volta l’anno il porto di Manila con quello di Acapulco, in Messico: il galeone trasportava in Cina argento americano, e da lì tornava carico di seta, porcellana, spezie, avorio e lacca. Sebbene meno protetti e più vulnerabili dei vascelli della Flotta del Tesoro, i galeoni dell’Asia furono catturati soltanto in quattro occasioni.

BRIDGEMAN / ACI

I BOTTINI PIÙ RICCHI DELLA PIRATERIA

ASSALTO DI FRANCIS DRAKE AL GALEONE NUESTRA SEÑORA DE LA CONCEPCIÓN NELLE ACQUE DEL PACIFICO, ALL’ALTEZZA DI ESMERALDAS (ATTUALE ECUADOR). INCISIONE DEL XVI SECOLO.

(1) 1522 / 1523 Caravelle del tesoro di Moctezuma. Jean Florin.

(2) 1579 Galeone Nuestra Señora de la Concepción. F. Drake.

(3) 1587 Galeone di Manila Santa Anna. Thomas Cavendish.

(4) 1628 Flotta del Tesoro. Piet (Pieter Pieterszoon) Heyn.

(5) 1657 Flotta del Tesoro. Robert Blake e Richard Stayner.

(6) 1668 Viceammiraglia della Flotta del Tesoro. P. Le Grand.

(7) 1709 Galeone di Manila Nuestra Señora de la Encarnación.W. Rogers.

(8) 1743 Galeone di Manila Nuestra Señora de Covadonga.

George Anson.

(9) 1762 Galeone di Manila Santísima Trinidad. Samuel Cornish.

AGILI VELIERI E ARTIGLIERIA LEGGERA

BRIDGEMAN / ACI

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ontrariamente all’immagine consueta, i pirati non usavano grandi imbarcazioni con una poderosa artiglieria, ma piccoli velieri, vascelli e petacchi la cui stazza andava dalle 50 alle 100 tonnellate, con artiglieria leggera e trasportabile. Velocità e maneggevolezza erano le condizioni indispensabili in un assalto, e queste piccole imbarcazioni potevano avvicinarsi al nemico con grande rapidità sopravvento e disalberare la nave con qualche cannonata, così che fosse pronta per l’abbordaggio. Nel combattimento corpo a corpo non erano molto diffusi i lussuosi spadini (segno distintivo dei pirati più spavaldi): si preferivano picche, pistole e soprattutto l’ascia da abbordaggio, dotata di una lama su un lato e un gancio sull’altro, l’arma ideale per attaccare, aggrapparsi ai bordi e tagliare cime.

BUCANIERE DI HISPANIOLA. LITOGRAFIA DI HOWARD PYLE. XIX SECOLO.

gnolo, accorgendosi troppo tardi che si trattava di pirati, gridò: «Ammainate la vela nel nome del re!», al che l’inglese ribattè: «Siete voi che dovete ammainare la vostra nel nome della regina d’Inghilterra». La risposta di Sanjuán de Antón fu: «Venite a farlo voi stesso». Drake concluse la conversazione con una bordata dei suoi cannoni che spezzò l’albero di mezzana del Cacafuego, e con una pioggia di frecce e colpi di moschetto dalla coperta, mentre un manipolo di uomini abbordava il galeone con la pinaccia. Sanjuán de Antón non poté fare altro che arrendersi a un Drake che lo trattò con estrema cortesia e lo esortò a «non abbattersi, perché è così che va la guerra».

Il galeone traboccava di ricchezze che mai prima occhi inglesi avevano visto: «Vi era una gran quantità di pietre preziose e gioielli, 14 casse di real d’argento e d’oro, 80 libbre d’oro e 26 tonnellate d’argento non coniato», circa 362.000 pesos dichiarati, più altri 40.000 pesos di contrabbando, come ammise lo stesso capitano spagnolo; in totale, un valore pari a circa 18 milioni di euro di oggi. Nei sei giorni

che gli inglesi impiegarono per trasbordare il bottino dal galeone spagnolo al Golden Hind, Drake invitò più volte alla propria tavola l’amareggiato capitano Sanjuán de Antón e i suoi uomini, e confessò di essere arrivato fin lì «a rubare per ordine della regina d’Inghilterra, con le armi consegnate dalla stessa sovrana».

Temendo che l’intera flotta spagnola lo stesse cercando, Drake non osò tornare in Inghilterra costeggiando l’America del Sud e decise invece di attraversare il Pacifico. Al suo rientro in patria fu nominato sir.

UN MARINAIO CORAGGIOSO

La bussola di Sir Francis Drake.

Impossessatosi del tesoro del Nuestra Señora de la Concepción, Drake tornò in Inghilterra attraversando il Pacifico e costeggiando l’Africa, circumnavigando così il globo.

Agguati nel Pacifico In seguito all’attacco di Drake, le flotte spagnole si rafforzarono e l’unica opportunità che i corsari inglesi ebbero di ripetere l’impresa di Sir Francis fu inoltrarsi nell’oceano Pacifico, la cui immensità ne rendeva difficile il controllo da parte delle forze spagnole. Fu così che, nel 1587, il corsaro inglese Thomas

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I CANNONI DI PORTOBELLO

Il forte di San Jerónimo difendeva la baia di Portobello (Panama), porto cruciale nel sistema spagnolo di convogli.

Cavendish decise di intercettare la rotta del Galeone di Manila, come erano dette le navi che trasportavano prodotti dell’Asia dalle Filippine ad Acapulco (nell’odierno Messico).

Quei galeoni erano praticamente disarmati; come ebbe a dire un funzionario spagnolo: «Hanno sempre navigato senza aver paura dei corsari, come se fossero sul fiume di Siviglia».

Quell’anno il tragitto era coperto da un galeone di 600 tonnellate di stazza, il Santa Anna.

A bordo del suo vascello Desire (“desiderio”, un nome che rivelava le sue aspirazioni), Cavendish si appostò presso Capo San Lucas, nella Bassa California (oggi in Messico).

Quando il Santa Anna giunse in prossimità della costa, gli spagnoli diedero il via a una celebrazione religiosa a bordo cantando il Te Deum, e quello fu il momento che Cavendish e i suoi sfruttarono per abbordarlo.

L’inglese trafugò 700.000 pesos in oro e argento e 1500.000 pesos in broccato, porcellana e seta. Il suo vascello era troppo piccolo per trasportare un così ricco bottino, quindi incendiò e affondò il

IL PIRATA PIÙ BRUTALE

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François l’Olonnais, l’Olonese, pirata di Tortuga, terrorizzò i Caraibi. Si narra che strappò dal petto e mangiò a morsi il cuore di un prigioniero spagnolo.

Santa Anna con tutto ciò che non poteva portare via. Gli spagnoli impararono la lezione, e le navi del Galeone di Manila furono catturate nuovamente solo un secolo dopo, nel 1709, questa volta dal corsaro Woodes Rogers.

I Caraibi: bucanieri e filibustieri All’inizio del XVII secolo, la pirateria si spostò nei Caraibi, dove centinaia di isole, molte delle quali erano disabitate, offrivano un rifugio ideale. Gruppi di cacciatori francesi, i cosiddetti “bucanieri”, si stabilirono a nord di Hispaniola (Haiti) e sull’isola di Tortuga.

Nei primi anni si accontentarono di commerciare il prodotto delle incursioni, rifornendo di contrabbando le navi mercantili, ma ben presto si allearono con i cimarrones e con coloni francesi e inglesi, diseredati europei che cercavano una nuova vita. Iniziarono ad assaltare mercantili spagnoli dalle loro basi a terra, ma poco dopo ampliarono il loro raggio d’azione diventando filibustieri, ossia pirati senza padrone. Uno di questi coloni raccontò la propria

BRIDGEMAN / ACI

LA CATTURA DEL GALEONE DI MANILA NUESTRA SEÑORA DE COVADONGA DA PARTE DI GEORGE ANSON. 1743.

ABBORDAGGI INSIDIOSI JONATHAN KINGSTON / GETTY IMAGES

IL GALEONE DI MANILA collegò Asia e America dal 1565 al 1815. Subì

esperienza personale. Alexandre Olivier Exquemelin, ugonotto francese, si unì ai filibustieri nel 1669, dopo essere giunto in America come engagé o colono semi-schiavo; per tre anni rimase a Tortuga e fece parte dei Fratelli della Costa, la confraternita dei filibustieri, dove fece la conoscenza di personaggi come Henry Morgan e l’Olonese. Nel suo libro, Exquemelin descrive la vita da pirata e i metodi di assalto. I filibustieri attaccavano imbarcazioni mercantili di qualsiasi bandiera – raramente però assalivano navi dotate di artiglieria –, e sempre con brevi razzie dalla costa, servendosi di piccole pinacce e protetti dall’oscurità della notte. Si avvicinavano a poppa, mettevano fuori uso il timone e, come narra Exquemelin, «saltano a bordo della nave spagnola, e in meno di un’ora la nave cambia padrone».

Nel 1715, il monopolio spagnolo del commercio con l’America iniziò a sgretolarsi con il trattato di Utrecht, e le nazioni europee si stabilirono infine nei Caraibi. Filibustieri e bucanieri non erano più uno strumento per danneggiare gli spagnoli, ma un nemico da

solo quattro assalti, perché la sua rotta era sconosciuta, il Pacifico era lontano e non vi erano porti o isole che dessero rifugio agli assalitori.

Temendo la rappresaglia spagnola, coloro che riuscirono nella cattura non poterono fare ritorno passando da Capo Horn: dovettero attraversare il Pacifico e costeggiare l’Africa, un’impresa non alla portata di tutti.

battere, “pendagli da forca” che si rivolgevano minacciosi contro i vecchi protettori, che quindi non esitavano a dare loro la caccia.

Per oltre due secoli, il sogno di pirati, corsari e filibustieri era stato catturare un galeone della Flotta del Tesoro. Solo pochi, tuttavia, riuscirno nell’impresa: delle 11.000 imbarcazioni spagnole che si calcola abbiano attraversato l’Atlantico tra il 1540 e il 1650, i pirati ne rapinarono a malapena un centinaio, in gran parte mercantili senza grandi tesori.

Ciò avvenne grazie al sistema dei convogli, che servì da modello agli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Se i galeoni del tesoro ebbero un nemico implacabile, non furono i ladri del mare, ma l’oceano stesso, con le sue tempeste e i suoi uragani.

Per saperne di più

SAGGIO

Storia della pirateria Philip Gosse. Odoya, Bologna, 2008.

TESTO

Bucanieri nei Caraibi A. O. Exquemelin. Effemme, Milano, 2005.

ROMANZO

Il corsaro nero Emilio Salgari. Einaudi, Torino, 2005.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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IL PRIMO COLPO DEI FILIBUSTIERI

CATTURA DI UN GALEONE SPAGNOLO DA PARTE DEL FILIBUSTIERE PIERRE LE GRAND. OLIO DI THÉODORE GUDIN. XIX SECOLO. VERSAILLES.

Il pirata e scrittore francese Alexandre O. Exquemelin, che visse sull’isola di Tortuga durante l’epoca d’oro dei filibustieri, narra che le attività di pirateria degli abitanti di Tortuga ebbero inizio dopo l’assalto del francese Pierre Le Grand a un galeone spagnolo nei pressi di Capo Tiburón (nell’attuale Haiti), verso il 1669. Le Grand, convinto di abbordare una nave mercantile, scoprì invece di essersi impossessato della viceammiraglia della Flotta del Tesoro, con immense ricchezze.

ASF / ALBUM

OTTO SCUDI D’ORO (ROVESCIO). MONETA CONIATA DAL RE FILIPPO IV (1621-1665). ARGENTO E ORO ERANO L’OBIETTIVO DEI PIRATI.

Tortuga, il covo dei ladri

LEEMAGE / PRISMA

Dopo il successo di Le Grand, «i piantatori e i cacciatori di Tortuga, avendo udito parlare di tale fortunata impresa [...], abbandonarono le loro consuete attività» e si dedicarono alla pirateria, vendendo il bottino sull’isola stessa, che fu così trasformata in un emporio di ladri.

L’ISOLA DI TORTUGA. IN ROSA È EVIDENZIATA LA COSTA NORD DI HISPANIOLA; LE DUE ISOLE DISTANO 10 KM. MAPPA DI GERARD VAN KEULEN. CIRCA 1685.

BIBLIOTECA ANGELICA, ROMA.

ALBUM

SUCCESSO O MORTE

Pierre le Grand

L’A U D A C I A D I U N P I R A T A munizioni che conteneva e uccidendo chiunque provasse a resistere». Più furbo di tutti coloro che seguirono le sue orme, Le Grand «spiegò le vele, dirigendosi, con tutte le ricchezze stipatenella nave,verso il regno di Francia, dove si stabilì senza più fare ritorno in America».

Un capitano altero e sprezzante Il giorno dell’assalto, raffigurato in questo dipinto, l’equipaggio avvertì il capitano che l’imbarcazione che incrociava davanti a loro, a distanza, era di pirati. «Devo forse aver paura di una cosa tanto irrilevante?», rispose l’altero ufficiale. La circospezione, l’abilità e il coraggio dei pirati, tuttavia, ebbero la meglio sui suoi cannoni.

NATIONAL MARITIME MUSEUM / SCALA, FIRENZE

e Grand era sulla sua imbarcazione con 28 uomini, in cerca di una preda, ma erano a corto di viveri e stavano per tornare verso terra. Fu allora che videro un vascello della flotta spagnola che si era separato dagli altri e decisero di «prenderlo o morirenel tentativo». Si avvicinarono silenziosamente, «e sebbene paresse una preda al di là delle loro forze, disperatamente l’abbordarono. Erano ormai così vicini che il vascello non poteva più fuggire, o sarebbero morti tutti». Le Grand ordinò di forare la propria nave, così che i suoi marinai fossero costretti a saltare su quella spagnola. Il filibustiere e i suoi uomini entrarono nella cabina del capitano, che stava giocando a carte, gli puntarono la pistola al petto e gli ordinarono di arrendersi e consegnare la nave.

Quando gli attoniti spagnoli «si trovarono i pirati sulla nave, senza averli visti arrivare, credettero fossero fantasmi e si chiesero: “Gesù, sono forse demoni?”».

Gli altri pirati presero la santa barbara, «impadronendosi di tutte le armi e le

FRONTESPIZIO DELL’EDIZIONE INGLESE DEL LIBRO DI EXQUEMELIN BUCANIERI NEI CARAIBI, DEL 1684.

L’EDIZIONE ORIGINALE OLANDESE È DEL 1678.

NATIONAL MARITIME MUSEUM, GREENWICH.

«Quando gli spagnoli si trovarono i pirati sulla nave, senza averli visti arrivare, credettero fossero fantasmi e si chiesero: “Gesù, sono forse demoni?”»

GRANDI SCOPERTE

Le grotte di Mogao, il gioiello buddhista nel deserto della Cina

A

lla fine del XIX secolo, diversi esploratori europei si addentrarono nell’Asia Centrale seguendo le tracce dell’antica Via della Seta. Uomini come lo svedese Sven Hedin esplorarono i deserti di Gobi e Taklamakan e trovarono i resti di antiche città, statuine, monete e documenti scritti in lingue diverse, come il sanscrito, il cinese e il tibetano.

Uno di questi esploratori era Aurel Stein, un erudito britannico di origine ungherese che nel 1888, a 26 anni, si era stabilito a Lahore (nell’attuale Pakistan) per studiare la letteratura sanscrita. Fra il 1899 e il 1915, Stein realizzò tre spedizioni nella Cina occidentale seguendo

DEA / SCALA, FIRENZE

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M O NGO LIA Grotte di Mogao

Seúl

Cueva de Mogao

BEIJING (PECHINO)

CINA LAHORE

INDIA

le tracce dell’antica rotta carovaniera. Fu in occasione del primo di questi viaggi che sentì parlare di alcune grotte buddhiste di straordinaria bellezza che celavano al loro interno un grande giacimento di manoscritti antichi.

Il luogo si chiamava Mogao o Mogaoku, vale a dire “grotte incomparabili”, anche se popolarmente erano conosciute come le grotte dei Mille Buddha. L’esploratore inglese decise che vi si sarebbe recato nel corso di un viaggio successivo.

Un monaco buddhista errante chiamato YuZun scava la prima grotta a Mogao, nell’oasi di Dunhuang.

Mogao, nell’attuale provincia cinese del Xinjiang, è situata a 19 chilometri da Dunhuang, un’antica oasi della Via della Seta. Nel 366 un monaco buddhista chiamato YuZun (Yu Tsun) ebbe in quel luogo una visione mistica di mille buddha d’oro che brillavano in una gola.

Qui egli scavò una piccola cella di meditazione. Seguendo il suo esempio, fino al XIV secolo molti altri monaci scavarono grotte lungo quel dirupo, di un chilometro e mezzo di lunghezza e circa 30 metri di altezza. In totale, vennero create quasi 800 grotte, che furono adornate con numerose sculture e splendidi dipinti murali.

I testi segreti La carovana di Stein era formata da portantini, guide locali e da 25 cammelli carichi di ghiaccio per avere

XIV secolo

Dopo mille anni, le grotte buddhiste di Mogao vengono abbandonate e coperte dalla sabbia.

1900

Il monaco taoista Wang Yuaniu scopre a Mogao una quantità di manoscritti nascosti in una grotta chiusa.

STATUINA DI AVALOTIKESVARA, RINVENUTA A MOGAO. DINASTIA TANG. VII-X SECOLO. MUSEO GUIMET, PARIGI.

PANORAMA STOCK / AGE FOTOSTOCK

Nel 1907, l’inglese Aurel Stein scoprì in questa oasi lungo la Via della Seta un tesoro formato da antichi manoscritti e dipinti millenari

UN BUDDHA ILLUMINATO, circondato

da diversi bodhisattva (persone che aspirano all’illuminazione), in una delle grotte di Mogao.

acqua nel deserto. Quando nel marzo del 1907 Stein arrivò a Mogao, incontrò Wang Yuaniu, un sacerdote taoista giunto in quel luogo anni prima, che si era eretto a guardiano dei santuari. Il

1907

Aurel Stein porta in Inghilterra migliaia di documenti e dipinti su carta e sera provenienti dalle grotte di Mogao.

LA GROTTA CHIUSA la regione dello Xinjiang venne minacciata dai Tangut, una popolazione nomade delle steppe. Per riuscire a preservare i quasi 50.000 libri e dipinti su carta e seta conservati a Mogao, i monaci li nascosero nella grotta 17, che venne chiusa e rimase celata per novecento anni.

viaggiatore europeo apprese che qualche anno prima Wang aveva per caso individuato un accesso mentre i suoi operai asportavano della sabbia di fronte a una grotta. Varcando la soglia, Wang vide una stanza piena di documenti, manoscritti, vessilli, statue e altri oggetti.

Si affrettò ad avvertire le autorità, ma queste gli ordinarono di richiudere la grotta con tutto il suo contenuto.

Stein fece tutto il possibile per guadagnarsi la fi-

ducia di Wang affinché gli raccontasse dei documenti nascosti nella grotta chiusa, chiamata oggi grotta 17.

Parlò a Wang della sua ammirazione per Xuanzang, un monaco buddhista del VII secolo che aveva tradotto in cinese molti testi sacri su Buddha; quando Wang gli fece vedere un fascio di manoscritti e risultò che questi erano di Xuanzang, il monaco lo considerò un segno divino e permise a Stein di entrare nella grotta.

BRIDGEMAN / ACI

INTORNO ALL’ANNO 1000,

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI SCOPERTE

Il «Sutra del Diamante», le parole di Buddha NEL RACCONTO della sua spedizione a Mogao, Aurel Stein scrive: «Fui immensamente felice quando

scoprii che un rotolo molto ben conservato, con una splendida incisione come copertina, costituiva il primo testo a stampa del mondo». Si trattava di una xilografia del Sutra del Diamante, realizzata nell’860.

Dopo la passeggiata giornaliera con Buddha per la raccolta di offerte di cibo, i monaci circondano il maestro, che inizia uno dei suoi dialoghi. I discepoli raccoglieranno le sue parole in quelle che chiamano sutre.

Buddha parla con il discepolo Subhuti, che gli domanda il titolo del sermone. Buddha risponde che deve essere detto «che recide come il diamante» poiché «la conoscenza è forte e affilata come un diamante».

Nel suo libro Ruins of Desert Cathay, Stein riporta le sue impressioni entrando nella grotta: «La vista della piccola stanza mi lasciò sbalordito. Impilati in modo disordinato apparve alla tenue luce della piccola lanterna del monaco una quantità di fasci di manoscritti che si elevavano per quasi dieci piedi», circa tre metri.

Stein esaminò un paio di documenti e si rese conto del loro straordinario valore, sia per il contenuto, sia per l’antichità; essi inoltre si trovavano in eccellente stato di conservazione. Studiarli nel luogo avrebbe richiesto anni, quindi persuase Wang a per106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

mettergli di portarne alcuni con sé, in cambio di argento per il valore di 130 sterline.

Stein riempì 24 bisacce di manoscritti e altre cinque di dipinti e reliquie e, con una carovana di sette cammelli, si mise in cammino verso Lahore. Il viaggio di ritorno fu duro tanto quanto quello di andata, e sulla cordigliera di Kunlun Stein subì un grave congelamento che gli costò l’amputazione delle dita del piede destro.

Il saccheggio della Cina Si calcola che nella grotta 17 di Mogao fossero custoditi circa 50.000 manoscritti. Stein portò con sé circa

BRITISH LIBRARY / SCALA, FIRENZE

Subhuti, il discepolo favorito, dialoga con Buddha sulla natura della percezione. Buddha invita Subhuti ad allontanarsi dalle sue nozioni preconcette sulla realtà, sulla natura e sull’illuminazione.

7000 testi completi, oltre a 6000 frammenti. Per la maggior parte si trattava di traduzioni di testi buddhisti in cinese, fra questi il Sutra del Diamante, considerato il testo a stampa più antico conosciuto. Vi erano testi in sanscrito e tibetano e una grande quantità di dipinti su carta e seta. In seguito altri studiosi europei, come il francese Paul Pelliot, portarono via la maggior parte dei fondi della grotta: fino all’80 per cento del “giacimento”.

Questo saccheggio – come viene considerato in Cina – si estese in breve tempo alle altre ricchezze artistiche di Mogao. Nel 1924, per

esempio, Langdon Warner, uno storico dell’arte statunitense, estrasse frammenti di una dozzina di dipinti murali e portò via preziose sculture.

Dal 1930, le leggi cinesi si sono andate inasprendo, e in anni recenti sono stati attivati programmi per proteggere il patrimonio di Mogao, formato da migliaia di manoscritti, 46.000 metri quadrati di dipinti murali e più di 2000 sculture.

LAURA SADURNÍ ARCHEOLOGA

Per saperne di più INTERNET

Mogao caves http://whc.unesco.org/en/list/440 videolist/440/video

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AUGUSTO

COLOSSEO

IL PRIMO IMPERATORE

Durata: 50 minuti - Lingue: ita, ingl Sottotitoli: ita, fra, ted, spa

D&B7457 - 49' - Audio: ita/ingl - Sott.: ita Disse di avere trovato una Roma di mattoni e di averne lasciata una di marmo. Ma le trasformazioni di Augusto furono ben più radicali: da una repubblica in agonia, modellò l’impero facendone il “piedistallo” dell’epoca che fu chiamata “Pax Romana”. Il filmato ripercorre la storia di Roma, intrecciandovi il racconto della vita, anche intima e segreta, di un uomo che lasciò un’impronta enorme.

Il filmato, sfruttando la forza del 3D, con efficaci ricostruzioni, ci riporta indietro nel tempo, all’inaugurazione del Colosseo, per svelarci i suoi segreti. Una visita unica e irripetibile, alla scoperta della storia e dei retroscena legati alla costruzione dell’anfiteatro più famoso di tutti i tempi e dei segreti che hanno reso memorabili i giochi nell’arena.

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ROMA

OPTIMUS PRINCEPS D&B7458 - 44' - Audio: ita/ingl - Sott.: ita Quando Traiano diviene Imperatore, Roma sta attraversando una fase di disordine e scontento. Ma colui che era solo un generale di Domiziano, e che faceva dell’umiltà il suo tratto distintivo, avrebbe restituito all’Impero il prestigio perduto estendendone i confini come mai prima di allora. La Storia lo consacrerà come un grande statista. Le sue imprese trionfali in Dacia sono scolpite sulla Colonna traiana. Questo DVD narra, con avvincenti ricostruzioni e descrizioni appassionanti, le imprese dell’Imperatore passato alla Storia come Optimus Princeps.

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CDV6057 - 150’ - Audio e Sott.: ita/ingl Nel V-IV secolo a.C. i Greci costituirono un impero che si estendeva sul Mediterraneo dall’Asia alla Spagna. Il DVD ripercorre le tappe principali che portarono all’ascesa di Atene fino alla Guerra del Peloponneso. Il DVD è composto da 3 filmati.

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D&B7488 - 81' - Audio: ita/ingl - Sott.: ita Caligola secondo le fonti antiche è stato un imperatore che, da uomo della speranza, si è trasformato in uno dei sovrani più spietati e vendicativi mai esistiti. Molti lo credettero pazzo, ma lo era veramente?

In questo avvincente DVD, History Channel propone una nuova lettura degli eventi, ripercorrendo la storia di Caligola dall’infanzia all’ascesa al trono, dagli eccessi smodati alle umiliazioni inflitte ai senatori, fino al tragico epilogo del suo delirio di onnipotenza.

Un viaggio appassionante attraverso sei secoli di storia per rintracciare le cause del collasso di Roma: dall’epico scontro con i barbari che premono sui confini, alle devastanti epidemie di peste; dalla diffusione di una nuova fede religiosa capace di mettere in crisi i valori tradizionali della romanità, alle sanguinose lotte intestine per il potere. Scopriamo le strategie e le ambizioni dei personaggi che hanno reso grande Roma e hanno tentato di impedirne il lento e inesorabile declino.

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campagna di PicNic

Andrea Doria, ottantenne principe-ammiraglio di Genova, fu il bersaglio della cospirazione della famiglia Fieschi che intendeva restaurare l’antico regime repubblicano.

Anch’essa fallì ma non senza aver provocato vittime.

Nella splendida e ricca Firenze governata dai Medici, la famiglia rivale dei Pazzi cercò di impadronirsi del potere decimandone la famiglia.

Vi riuscì solo con Giuliano de’ Medici, Lorenzo il Magnifico si salvò anche se ferito.

All’indomani del Concilio di Trento, un gruppo di aristocratici e religiosi ordirono un complotto contro il papa Pio IV che proponeva di concedere al clero il diritto al matrimonio.

Ma i dissidi fra i congiurati ne decretarono il fallimento.

COMPLOTTI E CONGIURE Fin dagli inizi, la storia è stata insanguinata da cospirazioni e complotti contro i detentori del potere.

Nessuna categoria è stata risparmiata: faraoni (Ramses III), governanti (Giulio Cesare, i Medici), istituzioni (la Roma repubblicana), comandanti militari (Andrea Doria) e perfino papi (Pio IV). In altri casi è stato proprio chi si trovava al vertice di uno Stato a progettarle per accrescere il proprio potere (il doge Marino Faliero).

Ma il più delle volte questi complotti non dettero il risultato sperato. In questo Speciale di Storica National Geographic abbiamo raccontato per voi 14 congiure tra le più famose e drammatiche di ogni tempo.

164

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con tutta la qualità Storica NG

In edicola dal 6 agosto a soli €9,90

L I B R I E A P P U N TA M E N T I

STORIA ROMANA

Quattro imperatori nella giostra del potere

A Pierre Cosme

L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI 21 Editore, 2015, 416 pp., 18 ¤

nno 68 d.C.: l’imperatore Nerone si suicida. La morte dell’ultimo esponente della dinastia Giulio-Claudia costituisce il casus belli di una lotta per il potere su Roma che si protrarrà per un anno e che vedrà susseguirsi quattro pretendenti al trono imperiale: Galba, Otone, Vitellio e infine Vespasiano. Lo scenario che si aprì nel 68 è passato alla storia come“L’anno dei quattro imperatori”, appellativo scelto dallo stesso Pierre Cosme per il suo volume. Ma,

lungi dal presentare una mera cronologia dei fatti e dal limitarsi a elencare le scelte politiche e militari e gli intrighi che portarono alla definitiva vittoria di Vespasiano, l’autore indaga questa concitata parentesi della storia romana in una nuova chiave.

L’elemento cronologico, pur presente visto il soggetto trattato, costituisce la linea a partire dalla quale dipingere un quadro in cui i soggetti non sono solo gli aspiranti princeps e lo sfondo non è rappresentato dalla sola Roma. Grazie

alle fonti storiche e a un’approfondita ricerca, Cosme raffigura l’impero intero, nella sua vastità geografica e nella sua varietà demografica e sociale. I destini dei quattro imperatori vengono così analizzati in relazione alla realtà storica del loro tempo, alle loro capacità militari in un tempo in cui l’esercito rappresentava una forza determinante a livello politico, alla loro abilità demagogica, rispetto sia al popolo sia all’uso dei sistemi di comunicazione attivi in un territorio tanto vasto, senza tralasciare i grandi mutamenti nei rapporti tra Urbe e province. Anno di guerre e di violenza, quello dei quattro imperatori che vissero una Roma in cui la giostra del potere ruotò vorticosamente. (A. Gangi)

SAGGI

GRANDEAMMIRAGLIO E SCALTRO POLITICO LUDOVICO ARIOSTO scrisse «Questo è quel Doria che

fa dai pirati sicuro il vostro mar per tutti i lati» (Orlando furioso, canto XV). E non vi è dubbio che Andrea Doria, membro di una delle più antiche e prestigiose famiglie genovesi, fosse un ammiraglio capace, ma le sue abilità non si limitarono a quelle marinaresche.

Scaltro uomo politico, seppe destreggiarsi nella complessa rete di alleanze in cui la sua Genova rischiava di cadere e, dopo la vicinanza alla Francia, Andrea Doria siglò quell’alleanza con l’imperatore Carlo V che concesse a Genova di restaurare le Repubblica. Il volume ripercorre le imprese di colui che divenne principe di una città che seppe ritagliarsi un ruolo internazionale.

Gabriella Airaldi

ANDREA DORIA

Salerno Editrice, 2015, 256 pp., 22 ¤

110 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

L’IMPERO NAPOLEONICO IN 100 MAPPE. 1799-1815 J.-L. Chappey - B. Gainot Leg, 2015, 140 pp., 16 ¤

BREVE STORIA DI MATILDE DI CANOSSA Paolo Golinelli Mursia, 2015, 142 pp., 12 ¤

UN VENTENNIO di battaglie che sconvolsero l’Europa e che, nella mente di un generale visionario, l’avrebbero ridefinita. Oltre 100 mappe per analizzare i fenomeni istituzionali, economici e culturali di un continente che, durante le guerre napoleoniche, ha trovato le radici della propria nuova identità.

LA GRANCONTESSA Matilde

visse tra i potenti del suo tempo con insolito protagonismo. Divisa tra il suo destino di donna e la sua naturale inclinazione al comando, la magna comitissa reagì agli eventi che la travolsero con una determinazione che ne ha fatto una delle figure più importanti del Medioevo.

ARCHEOLOGIA

Dalle ceneri di Pompei la rinascita dell’arte NAPOLI, MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE. DA ERCOLANO

S

DANZATRICE CON FIORI

Metà del I secolo d.C., affresco, cm 72 x 54,5.

opravvive al tempo, all’incuria, ai tanti visitatori; sopravvive, Pompei, per testimoniare il passato che accomuna i popoli europei.

Pompei rinasce a metà Ottocento e, proprio da qui prende il via la mostra Pompei e l’Europa 1748-1943, un viaggio nella storia di uno dei siti archeologici più importanti d’Italia e nell’immagine che ha saputo generare nei visitatori e nella poetica europea.

Duecento anni e due sedi espositive: la prima, il Museo Archeologico di Napoli, con

più di duecentocinquanta opere, presenta Pompei nel suo ritorno alla vita con il ricordo romantico e catastrofico dell’eruzione del 79 d.C. L’antichità ritorna ad affascinare e la sensualità e il piacere della vita quotidiana pompeiana influenzano gli anni a cavallo tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX. Pompei splendeva ancora e i suoi estimatori proliferavano; Ingres, Moreau, Delaroche e Duban sono solo alcuni degli artisti presenti in mostra che hanno fatto di Pompei un mo-

dello iconico a cui ispirarsi.

Poi ci furono De Chirico e Picasso, per arrivare ai primi film che ebbero gli scavi come set.

Eccola la seconda vita di Pompei, nelle mani degli artisti che l’hanno ritratta, degli archeologi che l’hanno studiata e nella memoria dei visitatori che, per concludere il percorso della mostra, potranno ammirare negli spazi dell’Anfiteatro a Pompei oltre 100 scatti che raccontano gli scavi tra Ottocento e Novecento. La fortuna dell’Italia è il suo passato. (F. Fiocchi) Pompei e l’Europa 1748-1943 LUOGO Museo Archeologico, Piazza Museo Nazionale, Napoli; Anfiteatro, Pompei TELEFONO 081 4422149 WEB mostrapompeieuropa.it DATE Fino al 2 novembre 2015

SETTECENTO

Le isole incantate nel Grand Tour rarie che celebrano la bellezza paesaggistica e architettonica di queste isole in cui uomo e natura hanno creato una malia unica. Tappa del Grand Tour per generazioni di viaggiatori, le Isole Borromee diventano soggetto di artisti che testimoniano nelle loro opere di veduta il“bello”che il nome di una di esse evoca e preannuncia. (A.G.) Le Isole incantate.

Il Grand Tour e la pittura di veduta nei Domini Borromeo: da Gaspar Van Wittel a Luigi Ashton.

LUOGO Palazzo Borromeo all’Isola Bella, lago Maggiore WEB www.borromeoturismo.it DATE Fino al 25 ottobre 2015

L’ISOLA MADRE,

Francesco Zuccarelli, Sala dello Zuccarelli, Palazzo Borromeo, olio su tela, Isola Bella, Stresa.

STUDIO ESSECI

S

u uno scoglio che sorge dalle acque del lago Maggiore e che, come una sirena con le sue sorelle, ammalia i viaggiatori da secoli, l’Isola Bella ospita un’esposizione che celebra l’arte che la propria bellezza ha saputo ispirare. Il salone d’Onore del palazzo dei Principi ospita la mostra Le Isole incantate. Il Grand Tour e la pittura di veduta nei Domini Borromeo.

Una cornice unica che, in occasione del restauro delle vedute dei domini Borromeo di Zuccarelli e di altri ambienti del seicentesco palazzo, raccoglie dipinti, disegni, incisioni e testimonianze lette-

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

111

ITINERARI

4 ÁVILA.

Castiglia e León, Spagna; www.avilaturismo.com

I percorsi di Storica

Una città racchiusa da possenti mura che, a oltre 1.100 metri s.l.m., è il più alto capoluogo spagnolo. Sarà stata la vicinanza al cielo a farne una città di santi?

Sparta

Liguria e Toscana; www.lunigiana.com

Una strategica regione che ha visto passare eserciti e conquistatori e la cui lunga storia è oggi testimoniata da castelli e fortezze immerse in una splendida natura.

Clitemnestra e mosaici di epoca ellenistica e romana raffiguranti scene mitologiche. Vero simbolo dell’antica civiltà è poi lo splendido guerriero spartano, soprannominato Leonida, databile al V secolo a.C. Sebbene solo la parte superiore della statua sia giunta fino ai nostri giorni, il reperto presenta ancora il caratteristico elmo oplita. pagina 22

gli schiavi di sparta

112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Lunigiana

3 LUNIGIANA

Dove e come visitare i luoghi storici e i musei legati ai servizi e ai personaggi di questo numero di Storica

Polis tra le più importanti della Laconia, nel Peloponneso, Sparta si è da sempre confusa con il mito e la leggenda della sua società guerriera e del suo esercito. Di questo antico centro, non distante dalla moderna città, restano oggi poche tracce tra cui il teatro, che poteva ospitare fino a 17.000 spettatori, recentemente sottoposto a interventi di restauro, e i resti del tempio di Athena Chalkioikos, risalente al VI secolo a.C., sulla cima dell’acropoli. Quanto rinvenuto durante gli scavi è esposto nel locale Museo archeologico 1 , una struttura che raccoglie, in sette sale, reperti che vanno dal periodo miceneo a quello romano. Tra i pezzi di maggiore interesse spiccano una maschera votiva in argilla risalente al VII-VI secolo a.C. rinvenuta nel tempio di Artemide Orthia, una colonna piramidale del VI secolo a.C. che raffigura su un lato Elena e Menelao e sull’altro Oreste nell’atto di uccidere

Ávila

con suggestiva armonia, è larga circa 28 metri e alta quasi 40. Altrettanto suggestivo è il passaggio che consente di arrivarvi, una stretta gola di pietra chiamata siq che rappresenta, oggi come un tempo, la via di accesso alla città. Nell’area si trovano anche le tombe reali, pure scavate nella roccia, ma tutta l’area archeologica testimonia della lunga storia della città, dal periodo nabateo a quello romano e bizantino.

Come scomparsa dalla memoria dell’uomo per secoli, fu l’archeologo Burckhardt, agli inizi dell’800, a riportare agli occhi del mondo i tesori di pietra di Petra.

pagina 32

gli dei di petra Una delle sette meraviglie del mondo moderno, un sito archeologico protetto dall’Unesco: è Petra 2 . Antica città nel sud della Giordania, Petra custodisce monumenti di straordinario valore storico, architettonico e artistico, primo fra tutti l’El Khasneh, il cosiddetto “Tesoro del faraone”. Interamente scavato nella roccia, il monumento venne costruito nel I secolo a.C. per ospitare la tomba del sovrano nabateo che lo commissionò, Areta III. La caratteristica facciata, incastonata nella parete rocciosa da cui spicca

pagina 44

l’ara pacis Contestata e acclamata, la teca che oggi ospita l’Ara Pacis, nel centro di Roma, è di certo una struttura che non passa inosservata. In uno spazio architettonico contemporaneo è conservato l’altare della pace augusteo e il contrasto – di origine,

1 MUSEO ARCHEOLOGICO DI SPARTA Osiou Nikonos Street 71, Sparta, Grecia; http://odysseus.culture.gr

Nella città degli impavidi guerrieri spartani per scoprire un’antica civiltà che ha fatto della propria storia una leggenda.

2 PETRA

Petra, Ma’an, Giordania; it.visitjordan.com

Petra

Come l’origine del suo nome anticipa – dal greco “roccia” – Petra è un gioiello incastonato nella pietra, il meraviglioso risultato dello scalpello dell’uomo e della Terra.

materiali e stile – tra il prezioso reperto conservato e la struttura che lo ospita, non potrebbe essere più marcato. A ospitare invece le spoglie di Augusto, un’altra imponente “teca”, testimonianza della Roma augustea: è il mausoleo dell’imperatore.

A oggi ancora non visitabile, il monumento può essere ammirato solo dall’esterno, ma la sua struttura e importanza storico-archeologica ne fanno una tappa di visita suggestiva.

A pianta circolare e con un diametro di circa 87 m, è il più grande tumulo funebre di questa forma pervenutoci, ma saranno proprio i lavori di restauro a fare luce nel cuore dell’ultima dimora di Augusto. Lavori – e scoperte – in corso.

Per poter ammirare da vicino questi temibili quanto affascinanti strumenti di guerra, l’Armeria Reale di Torino offre una delle raccolte più ricche al mondo. Allestita in una manica di collegamento di Palazzo reale, la settecentesca Galleria del Beaumont espone una raccolta che copre secoli di storia e che ripercorre l’evolversi – nella sua accezione militare – dell’arte della guerra a partire dalle armi classiche in pietra fino a quelle utilizzate nel Novecento. Agli amanti di storia medioevale sono dedicate intere sezioni che espongono armature complete di soldati a piedi e a cavallo. Di particolare interesse per gli appassionati di cavalleria, le armature da guerra e quelle da torneo, compresi gli accessori, quali speroni e protezioni per le mani, schifalance, cotte di maglia, corazze e pettiere.

L’Armeria comprende inoltre strumenti difensivi quali elmi e scudi, ma anche bandiere e stendardi, archibugi e cartucciere. Una vastissima collezione organizzata secondo un criterio cronologico che presenta intere sezioni di armi bianche lunghe e corte, armi “da botta”, “lanciatoie” e armi in asta, per poi giungere alle armi da fuoco.

Strumenti di guerra, certo, in alcuni casi di mirabile fattura e mortale efficacia, ma che nella loro cruda realtà hanno fatto la storia.

pagina 68 pagina 54

carlo viii in italia

Spade e mazze, alabarde e picche, lance e balestre: la battaglia del Medioevo per cavalieri e arcieri non poteva prescindere dalle armi bianche.

Un itinerario che ripercorra la discesa di Carlo VIII in Italia prevede, tra le tante, una tappa a Fivizzano, luogo di un violento attacco dell’esercito francese citato dallo stesso Guicciardini nella sua

la battaglia di crécy

Storia d’Italia. Una visita al borgo diviene poi spunto per esplorare la splendida Lunigiana 3 , regione che, in posizione strategica ai piedi dell’Appennino toscoemiliano, ha visto sorgere nella storia centri dominati da fortezze e castelli.

Partendo proprio da Fivizzano, all’ombra del castello della Verrucola di origine medioevale, si giunge alla fortezza di Sarzanello, costruzione militare che affonda le proprie radici sin nel X secolo.

A Fosdinovo, invece, si può ammirare lo scenografico castello Malaspina, che prende il nome dalla storica famiglia che su questo territorio governò; alla stessa casata apparteneva il castello di Malgrate, vera fortezza munita di torri, mura merlate e fossato difensivo.

pagina 82

santa teresa d’Ávila Spesso ricordata in riferimento a santa Teresa che qui nacque e all’inquisitore Torquemada che qui è sepolto, la città di Ávila 4 conserva tracce di un passato che affascina oltre ogni credo.

Il suo appellativo di “città di santi e pietra” ben sintetizza l’anima di questo centro nel cuore della Spagna. Come un gioiello nel suo scrigno, la città è infatti custodita entro una monumentale cinta muraria voluta da Alfonso VI nel tardo XI secolo e successivamente restaurata da Filippo II a fine ’500.

Ancora intatte, le possenti mura, spesse tre metri, sono coronate da torri e torrioni merlati e intervallate da nove porte di ingresso tra cui quella celebre dell’Alcázar. Oltre alla splendida cattedrale e al convento costruito sulla casa di santa Teresa, la città compresa tra le mura e le chiese esterne a esse sono oggi Patrimonio dell’Umanità.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Prossimo numero POMPEI: VITA IN UNA CITTÀ ROMANA

ALBUM

SI CALCOLA che, prima della devastante eruzione del Vesuvio che nell’anno 79 d.C. seppellì Pompei sotto una coltre di cenere e lapilli spessa tre metri, nell’operosa città romana vivessero tra 8000 e 20.000 persone. I popolani abitavano in cubicoli di 20 m2 stretti fra le botteghe o in angusti appartamenti in cui erano suddivisi alti edifici, mentre i ceti più agiati abitavano ville patrizie a due piani, decorate con affreschi e mosaici pregiati e dotate di ogni genere di confort.

La nascita della moneta

GENGIS KHAN, IL SIGNORE DELLA GUERRA

Le prime monete furono coniate nel VII secolo a.C. in Lidia, una regione dell’Asia Minore occidentale, con una lega a base di oro e argento che prende il nome di elettro.

ALL’INIZIO DEL XIII SECOLO, il condottiero

114 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Antonio e Cleopatra A Tarso, città della Cilicia, avvenne nel 41 a.C. l’incontro fra Marco Antonio e la regina egizia Cleopatra, uniti da una relazione amorosa e dalla stessa visione del mondo.

Tommaso Moro L’autore di Utopia, giustiziato da Enrico VIII e santificato dalla Chiesa di Roma, visse in pieno Umanesimo, un periodo di aspri conflitti e di grandi cambiamenti.

Eugenio di Savoia BRIDGEMAN / ACI

mongolo Gengis Khan fu l’artefice di una delle più grandi imprese militari della storia, conquistando in poco meno di vent’anni buona parte della Cina e dell’Asia centrale.

Per costituire questo grande impero, Gengis Khan si circondò di uomini gli erano totalmente fedeli e impose alle truppe una ferrea disciplina.

La sua arma principale fu però il terrore: la sola menzione del suo nome generava grande timore tra i suoi nemici.

Destinato alla carriera ecclesiastica, si sarebbe invece rivelato un abile militare, capace di riforme anticipatrici dei moderni schemi di guerra, ammirato anche da Napoleone.