Raimondo Villano - Appunti di storia della farmacia

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Appunti di storia della farmacia


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L’origine della farmacia risale alla notte dei tempi e si confonde con il mito. Nella preistoria l’uomo scoprì l’attività benefica di alcune piante e minerali solo per caso, guidato dall’istinto. Nella Bibbia con la parola farmakia si definivano tutte le arti con cui Babilonia sedusse il mondo (dall’Apocalisse). E’ agevole immaginare che si alludesse ai filtri amorosi e agli afrodisiaci. Verificandosi, però, nel tempo anche effetti deleteri con queste terapie, al concetto iniziale subentrò quello di tossico o veleno. Nelle età più remote la figura del farmacista era tutt’uno con quella del medico, del sacerdote, dello stregone. Che la professione del farmacista sia una delle più antiche del mondo è attestato da documenti giuntici dalle grandi civiltà di Sumeri, Assiro-Babilonesi, Egizi, Cretesi, Micenei, Cinesi. Risale al 2700 a.C. il più antico testo di farmacologia conosciuto: una tavoletta in caratteri cuneiformi dell’antica Ur in Mesopotamia, rinvenuta nei primi decenni del XX secolo e decifrata nel 1953. La tavoletta contiene una dozzina di ricette del medico-farmacista Lulu, con preziose indicazioni circa i componenti e le procedure utilizzate per la preparazione di pomate, decotti e lozioni.


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Sorprendentemente si desume dalle ricette che a quel tempo per la preparazione dei farmaci ci si serviva, sostanzialmente come in parte ancor oggi, di sostanze vegetali, animali e minerali. Ma ancor più sbalordisce il fatto che in questo testo la materia farmacologica è trattata con metodo “scientifico”, ovvero senza cedimento alcuno ai diffusissimi riti di magia e stregoneria che, del resto, prima, durante e dopo, fino ai tempi attuali, hanno sostituito o, nel migliore dei casi, affiancato le pratiche mediche e farmaceutiche. Dalla meticolosità scientifica di queste tavolette si può desumere lo sforzo che, anche molto indietro nel tempo, civiltà più avanzate e livelli sociali più elevati hanno prodotto per curare le malattie dell’uomo e, d’altro canto, che la scienza farmacologica, almeno in Mesopotamia, risale a tempi incredibilmente remoti e con dati e conoscenze di assoluto rispetto per l’epoca. Il farmacista di Ur, comunque, pur essendo emblematico di un modo di fare scienza, resta una eccezione nello scenario allargato dell’epoca giacché i principali tentativi terapeutici non andati a buon fine nell’ambito della magia e dei rimedi terapeutici e farmacologici approdavano sovente alla fase chirurgica, ultimo disperato rimedio.


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Essendo stato ritenuto, infatti, per lunghissimo tempo che molte malattie fossero generate da spiriti maligni che invadevano la testa del malato, non rimaneva altro da fare, dunque, che aprire il cranio per estrarre la materia ritenuta infettata. L’intervento si effettuava per mezzo di narcosi usando potenti veleni che, talvolta, conducevano a morte nel corso dell’operazione stessa. Nonostante l’evidente approssimazione dell’intervento chirurgico, c’era anche chi sopravviveva, come ben testimoniano crani con tali segni e successivo callo osseo riformato. In antico Egitto se il medico-farmacista portava a buon fine l’intervento gli si inviavano denari e regali e si onoravano gli dei protettori; se, di contro, l’operazione falliva, non vi erano conseguenze. Tra gli Assiro-Babilonesi, invece, per il medico-farmacista che sbagliava diagnosi, intervento o medicazioni c’erano conseguenze serie, come indicato dal Codice di Hammurabi del XVII secolo a.C.: in caso di buon intervento professionale a favore di un nobile riceveva un ingente compenso in denaro, se al nobile causava decesso o menomazione grave e permanente gli si mozzava la mano; se a morire era uno schiavo, invece, il medico era condannato a rendere “schiavo per schiavo”.


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La documentazione antica più ricca sulla scienza medica e farmacologica ci proviene dagli antichi attraverso innumerevoli papiri in cui si tratta di sintomi, terapie e ricette con precise prescrizioni e posologie. Anche in Egitto, come in Mesopotamia, i farmaci si basavano su precise conoscenze di botanica e di erboristeria ed erano costituiti essenzialmente da decotti, estratti di erbe, semi e radici. Tutto era empirico e principalmente basato sull’esperienza. Ma in Egitto ricorrevano al medico-farmacista, per problemi non di malattia ma di cosmesi, anche molte donne. Numerosi medici-farmacisti diventavano gli estetisti presso le corti dei faraoni o dei nobili ricavandone considerevoli privilegi e godendo di un prestigio assoluto, erano ricercati, venerati e temuti per il loro potere: magico e misterioso, sicuramente “divino”. Intorno al 345 a.C. circa spicca la figura di Teofrasto, allievo di Aristotele, natio di Lesbo, considerato il più grande botanico e farmacognota avanti l’inizio dell’era volgare. Nella sua “Historia Plantarum”, stampata in epoca rinascimentale, fa un lungo elenco di vegetali utili per la terapia e considera l’organo del gusto il più importante per il loro riconoscimento.


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Nell’antica Roma, il medico dell’Imperatore Nerone, Andromaco, inventò la teriaca, potente contravveleno e specialità più famosa dell’antichità ottenuta cuocendo la carne di vipera femmina depurata dalle scorie fino a renderla sfatta e miscelandola, poi, nel mortaio con oppio, scilla (cardiotonico), molti altri ingredienti e polvere di pan secco raggiungendo una consistenza adatta a farne pasta per compresse, ovvero i famosi trosici di vipera. Durante il periodo di Diocleziano, inoltre, si ha traccia di determinazioni di tariffari dei medicamenti.


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Nel I secolo d.C., poi, fu Dioscoride Anarzabeo con il suo “De Materia Medica” a dare un sistema alle più arcaiche e mitiche forme del sapere: mentre in Teofrasto l’identificazione della specie è spesso impossibile per l’assenza della descrizione, con Dioscoride (e le edizioni critiche successive) si può stendere un elenco di oltre 500 vegetali. Tuttavia, nell’opera vi è un certo collegamento con il mondo degli dei della tradizione omerica pur non mancando la sperimentazione venuta successivamente. Lo stesso ordine tenuto nella stesura dei cinque libri e la precedenza data a talune piante non rientrano nella nostra logica. Nel primo si parla delle specie aromatiche e delle essenze da esse derivate, come l’iris (dello stesso nome della messaggera degli dei) e l’alloro (simbolo di Apollo, dio del sole) che infonde calore nei diaforetici e va assunto per via interna. Nel secondo libro sono gli animali ed i loro derivati a costituire la serie dei rimedi con l’aggiunta di cose “acute e forti” come senape, cipolla ed aglio. Nel terzo si tratta di molte radici e semi domestici di uso alimentare, nel quarto di ciò che resta delle erbe e delle radici. Nel quinto libro la vite, il vino e i metalli introducono un discorso sui veleni, più ampiamente svolto nel sesto libro insieme alle sostanze in grado di opporvisi (ma dai filologi è ritenuto opera postuma).


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La vera fortuna dell’opera inizia dopo la prima edizione veneziana in lingua greca del 1499; dal 1544, poi, inizia la lunghissima serie dei commentali del Mattioli che illustrerà graficamente in modo sempre più accurato ogni specie. Tuttavia, il De Materia Medica, pur contenendo anche indicazioni sull’impiego terapeutico delle droghe allo stato di semplici ed anche di composti, non può essere considerato una farmacopea. Dello stesso secolo è anche Scribonio la cui opera “Compositiones Medicamentorum” registra ben 242 medicamenti vegetali, 36 minerali e 27 animali ma pur sempre non può essere considerata una farmacopea. Successivamente, nel II secolo d.C., Galeno, nato a Pergamo, fu il riformatore e teorizzatore della medicina creando un sistema destinato a durare per 15 secoli senza significative contestazioni. Egli abbandonò gli elementi mitici e ricorse ai principi sperimentali quali basi delle sue ricerche, precorrendo il metodo della scienza moderna, in particolare nel campo della fisiologia. La sua opera, originariamente scritta in greco, venne tradotta in arabo e in latino giungendo in buona copia alla stamperia veneziana dei Giunta nel 1541. E’ suddivisa in sette


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tomi (anatomia, fisiologia, patologia e clinica, chirurgia e terapia). Il “De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus” contiene 475 specie vegetali, frutto del suo peregrinare alla ricerca delle fonti dei medicamenti, come la terra lemnia nell’isola omonima e il bitume giudaico in Palestina. La sua teoria parte dagli assiomi ippocratici e dalla filosofia aristotelica: i quattro elementi costitutivi dei corpi non sono primari ma generati dalle quattro qualità principali tra loro variamente combinate. Fredda e secca è la terra, fredda e umida è l’acqua, calda e umida è l’aria, caldo e secco è il fuoco. Dalla mescolanza degli elementi hanno origine nel corpo umano gli umori: dalla terra più l’aria la bile nera (o atrabile), dalla terra più il fuoco la bile gialla, dall’acqua più l’aria la pituita, dall’acqua più il fuoco il sangue. Il prevalere di un umore sugli altri fa parte della caratteristica di ogni uomo ma, quando per cause sconosciute si altera il primitivo equilibrio, subentra lo stato morboso. Galeno, inoltre, insegnò a comporre la teriaca, il potente contravveleno inventato da Andromaco. Giungendo al 470 d.C. rinveniamo Cassiodoro (ministro del re Ostrogoto Teodorico e fondatore nel 540 di uno xenodochio in Calabria), che nella sua opera


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“Istituzioni Divine” raccomandava insistentemente d’istruirsi nell’arte della preparazione dei medicinali: “Apprendete a distinguere ogni pianta e a mescolare con cura ogni specie di droga. Se la lingua non vi è familiare, studiate il libro di Dioscoride in cui si tratta estesamente delle piante medicinali descritte, peraltro, con meravigliosa esattezza”. Dal 600 in poi con il sorgere dei monasteri e l’incremento dell’attività di assistenza medica rivolta agli ammalati i monaci, soprattutto Benedettini, seguirono ampiamente i consigli di Cassiodoro e moltiplicarono le conoscenze e la produzione di erbe. Essi crearono, a tale scopo, veri e propri orti botanici dove coltivavano erbe provenienti da ogni parte del mondo. In apposite domus medicorum, poi, elaboravano composti sotto l’occhio vigile del monacus pigmantarius. Cominciavano, intanto a sorgere, in una Europa con ampie zone avvolte nelle tenebre, importanti organizzazioni sanitarie: nel meridione della nostra Penisola aveva preso corpo nel VI secolo una Scuola Salernitana che manteneva un indirizzo ippocratico con poche influenze magico-astrologiche mentre più di un


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secolo dopo nella Renania, dove l’imperatore Carlo Magno aveva insediato il suo potere esteso a tutto il Continente, sorgeva una organizzazione ispirata da Sant’Ildegarda da Bingen. La Scuola Salernitana, in particolare, rappresentò una cultura esclusiva radicata in una regione posta al centro del Mediterraneo e, quindi, aperta ad ogni scambio tra Oriente e Occidente e rese l’Italia Meridionale l’ambiente ideale per la nascita e il progresso della farmacia in forma autonoma tanto necessaria alla specializzazione della farmacologia, da nessun medico dopo Galeno ritenuta branca fondamentale per la medicina. La diffusione della sapiente opera e cultura araba in Occidente valse non solo a conservare il sapere greco ma ad arricchirlo considerevolmente influenzando anche la cultura dell’esistente realtà conventuale cristiana: si ampliò la conoscenza sia delle erbe, delle droghe e dei modi opportuni per combinarle sia degli strumenti di laboratorio e delle tecniche di conservazione dei vari medicamenti. In effetti, gli arabi volgarizzarono l’uso dell’alambicco (allora indispensabile per la preparazione di alcool, alcoolati, essenze e acque aromatiche), degli apparecchi di filtraggio, dei vasi d’argento e d’oro per la conservazione dei medicamenti più


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complessi nonché dei vasi di vetro o porcellana di Cina per la conservazione degli sciroppi; la materia medica vegetale, inoltre, si arricchisce della cassia, senna, tamarindo, noce vomica, rabarbaro, seme santo, zucchero, canfora. Il chimico Geber (715-815 d.C.) preparava l’acido nitrico nonché, per distillazione, quello acetico e, ancora, gli si attribuisce la scoperta dell’alcool e la composizione dell’acqua regia. Tutto ciò dà luogo al fiorire della polifarmacia, come si riscontra dalle opere dei più famosi medici-farmacologi del tempo: Rasis (875923), autore di un Antidotario, e Mesue vissuto un secolo dopo. Nel IX secolo la Scuola Salernitana pubblica l’Antidotarium, la cui stesura definitiva è opera di Nicolò Praepositus Salernitanus: un trattato di materia medica, oltre che farmaceutica e terapeutica, contenente una raccolta di 139 ricette di pratica ospitaliera quotidiana con l’adozione di pesi e misure di base per tutti gli antidotari e le farmacopee seguenti (con una scala corrente dal grammo alla libbra, attraverso lo scrupolo, la dramma, l’oncia) e con l’introduzione di nuovi medicamenti tra cui la spongia soporifera anestetica, il giusquiamo e la mandragora.


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Intorno al 1080 si ha la prima stesura del manoscritto, pubblicato numerose volte in seguito, conosciuto come Circa instans, ovvero un commentario all’Antidotario della Scuola Salernitana realizzato da un altro salernitano, Matteo Plateario. Diversi fenomeni indipendenti e verificatisi a distanza di tempo l’uno dall’altro, poi, concorsero in modo determinante all’istituzione di veri e propri esercizi professionali riconoscibili come precursori delle future farmacie. Il primo è legato ai Concilio di Reims del 1131 ed al Concilio del Laterano del 1180 che interdirono ai monaci, per motivi esclusivamente religiosi, l’esercizio della medicina e della farmacia. Tali provvedimenti, intuitivamente, aprirono ancor più la strada ai laici che, nel giro di un secolo, si impadronirono di tutte le conoscenze mediche e farmacologiche. Un altro fenomeno riguarda l’apertura di molti ospedali, dapprima legati ai monasteri e poi anche laici, che richiedevano l’istituzione di vere e proprie farmacie con un ipotecario medico-farmacista. Al tempo delle crociate, poi, il mondo occidentale conobbe le importanti droghe di origine orientale che avevano contribuito allo sviluppo delle civiltà cinese,


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persiana, mesopotamica ed egizia e questo non solo per ciò che riguarda i medicamenti. Lo zucchero, la canfora, l’aloe, l’oppio ebbero un’importanza fondamentale, ma i coloranti, le essenze come muschio e ambra aprirono la strada a nuovi impieghi ed a nuove specializzazioni. Necessitavano, soprattutto, sufficienti conoscenze per trattare sostanze dotate di notevole valenza terapeutica, se impiegate alla giusta dose; contrariamente gli effetti tossici avrebbero potuto dare risultati letali. Quest’ultimo fenomeno fu compreso dal genio di Federico II di Svevia, Imperatore di Germania e Re di Sicilia dal 1212 al 1250, grande statista ed uomo di cultura, (alla cui Corte raffinata appartenevano numerosi uomini di superiore levatura e in cui incominciava a farsi strada l’orientamento a migliorare per tutti la qualità della vita) che con rigidi provvedimenti amministrativi regolò con estrema precisione l’esercizio professionale della medicina e della farmacia. Federico II promulgò le Costitutiones a Melfi nel 1240, punto di partenza per la realizzazione di un vero e proprio servizio farmaceutico, con le quali (Titoli 46 e 47) vietò al medico di fare lo speziale, istituì il ruolo del farmacista, stabilì le


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regole per l’esercizio della farmacia tra cui la proibizione di vendita delle sostanze velenose, conferì al medico la possibilità di denunziare lo speziale per ogni inadempienza o inesattezza nella preparazione dei medicamenti e nell’esercizio della sua professione, fissò il controllo del numero degli esercizi degli speziali in rapporto al numero di abitanti ed al loro stanziamento, l’ubicazione ed il controllo delle staciones per l’allestimento e la distribuzione dei farmaci, introdusse la tariffa dei medicinali, obbligò medici e speziali ad un preciso giuramento con il quale si sanciva il controllo dell’attività professionale da parte dello Stato attraverso due ispettori nominati dall’Imperatore. Agli elementi autoctoni greco-latini ed arabi, dunque, se ne erano aggiunti importanti altri di provenienza germanica con la calata della dinastia Sveva su Palermo e la presa di potere del Regno di Sicilia. Nel 1200 di ipoteche ne esistevano, nei centri maggiori, anche una ogni mille abitanti circa e non sarebbe stato possibile, pertanto, farle sostentare con i soli medicamenti che, quando superavano un certo costo, erano privilegio delle persone abbienti che avessero già soddisfatto i bisogni alimentari. Esse, pertanto,


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erano veri e propri empori ed i farmacisti facevano di tutto: clisterizzavano, imbalsamavano, sofisticavano droghe, vendevano medicamenti, ma anche frutta, carni e dolci. Nonostante ciò l’apoteca del farmacista non era umile e dimessa, come un qualsiasi negozio di alimentari dell’epoca, bensì era sovente dotata di ricche insegne e di un nome affascinante, erano adorne di artistici arredi in legno pregiato, preziosi vasi e strumenti (grandi mortai, storte, fornelli, bilance, alambicchi) e possedevano biblioteche, anche imponenti e non di rado preziose, che costituivano, tra l’altro, un’attrattiva per gli studiosi. A quel tempo, ricorda il Momigliano, Dante Alighieri frequentava assiduamente a Firenze la “Farmacia del Diamante” e si iscrisse alla Corporazione degli Speziali non solo per motivi politici ma anche per poter godere delle biblioteche delle farmacie dove trovava libri rarissimi e manoscritti da consultare. Anche Giotto e Botticelli, come è testimoniato dai documenti riportati, si immatricolarono all’Arte dei Medici e degli Speziali a Firenze verosimilmente anche per ricavarne la tecnica dei colori. Sul famoso Campanile di questa città, attribuito a Giotto, si trova un suo bassorilievo plastico del 1334 raffigurante uno speziale che in un rudimentale laboratorio, tra vasi di unguenti e droghe, esamina le urine dei pazienti.


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Si tratta, come osserva Carlo Giulio Argan, di un omaggio reso da Giotto all’arte che lo comprendeva fra i suoi soci. In molti comuni del nord Italia vi era una certa distribuzione di compiti tra i poteri costituiti dal Consiglio degli anziani, il Podestà, le Magistrature e la Federazione delle Arti e Mestieri. Non erano infrequenti le sovrapposizioni ed i conflitti di potere, ma in genere quest’ultimo organismo, solitamente denominato Mercanzia o Collegio dei Mercanti, governava l’economia cittadina. In essa confluivano le forze imprenditoriali e del lavoro libero, mentre i colleghi professionali più alti si autogovernavano separatamente (medici, notai, giudici, ecc.). Nei primi tempi gli Statuti o leggi della Mercanzia non facevano distinzione tra le varie categorie assoggettate; quelle più rappresentate davano più spesso luogo ad interventi e quelle economicamente più forti occupavano le cariche consolari maggiori. In questa ottica, le prime regole per gli speziali emesse dalla Mercanzia sono poche: riguardavano l’obbligo di buona fabbricazione delle candele di cera e di genuinità delle spezie di importazione (pepe, zafferano, noce moscata, tutte molto care e necessarie per insaporire e conservare le carni). Per tutti valeva la


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raccomandazione di portare le proprie cause davanti ai Consoli Grandi nonché di usare sempre pesi e misure esatti. Quando gli aderenti ad un gruppo sufficientemente uniforme raggiungevano all’interno della federazione una considerevole consistenza, si organizzavano per acquistare una certa indipendenza, ottenere l’approvazione degli Statuti dalla suprema autorità dello Stato con il placet dei Consoli Grandi e delle autorità comunali, nominare i propri rappresentanti e darsi regole per evitare ogni concorrenza ed attrito fra i soci. A metà del 1200 fanno così la comparsa gli Statuti dell’Arte degli Speziali italiani, di cui i più antichi e prestigiosi sono il Capitolare degli Speziali di Venezia del 1258 (emanato dal Doge Zen), lo Statuto dell’Ars Medicorum et Spetiarorum di Firenze del 1266, gli Statuti di Siena del 1356 ed il Capitolare del Nobile e salutifero Collegio degli Aromatari di Palermo del 1407, in cui viene sancito l’obbligo del giuramento per l’esercizio della professione, si impone l’obbligo di osservanza di un Codice Ufficiale dei medicamenti, si fa divieto di esercitare l’Arte medica, si vieta la consegna di medicamenti agli ammalati senza licenza di medico autorizzato, si vieta di dare al paziente medicamenti diversi o di diverso


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dosaggio rispetto a quanto indicato nella ricetta del medico, si prevede la visita periodica alle spezierie da parte di una commissione mista composta da medici e speziali, si vieta di dare percentuali al medico in cambio di ottenute prescrizioni. Ciò nonostante, non pochi medici continuarono a gestire spezierie attraverso prestanome: l’impiego di capitale in questo settore risultava particolarmente redditizio in quanto le spezierie, pur essendo in continuo aumento numerico, trattavano una gran quantità di merci di uso domestico alimentare e materie prime per gli artigiani (colori, biacche, metalli lavorati, ecc.). Il solenne giuramento preteso da ognuno che entrasse nell’Arte era denso di severità, in merito all’osservanza degli Statuti, ma probabilmente l’attività soggetta ad autentico controllo era soltanto quella relativa alla preparazione dei medicamenti. A Firenze, in particolare, gli Speziali assunsero una posizione di primo piano fin dalla fondazione della corporazione. E’ facile intuirne la motivazione politica ancorché economica: pur essendo istituzioni di classe, le Arti dovevano infatti combattere direttamente contro la feudalità delle campagne nella logica di quella contrapposizione guelfo-ghibellina così cruda e violenta come Dante ci ha narrato.


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I sei Consoli eletti in seno alla corporazione semestralmente con parità di diritto fra le tre sezioni (medici, speziali, merciai) a loro volta eleggevano a Camerlengo (cassiere) e Notaio due bonos viros di fede guelfa come loro e, inoltre, dodici Consiglieri in grado di aiutarli a far rispettare la loro suprema autorità. I loro giudizi potevano aver luogo anche nel Palazzo Comunale, a dimostrazione che il loro potere per le cose riferite all’Arte era equiparabile a quello dei Reggitori della Città. Nessuno doveva opporsi alle loro sentenze e l’associato reo di gravi mancanze poteva anche essere incarcerato. Perché ognuno avesse un ruolo e si sentisse compartecipe, una quantità di funzioni erano affidate a piccoli gruppi, assimilabili a commissioni: gli statutari (revisori delle norme), i cercatori (di inadempienze), i taratori (di bilance), i garbellatori (setacciatori). L’ingresso nell’Arte costava 4 fiorini d’oro e, tra i vari privilegi, assicurava anche un soccorso in caso di necessità nonché la presenza di… almeno 18 soci al funerale. Non essendosi mai verificata, comunque, una vicenda identica nelle tante città italiane non è possibile delineare un quadro generale di una ideale corporazione ma solo fissarne i principali cardini comuni a tutte.


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Nel 1300 nell’apoteca certamente si producevano e si vendevano anche candele di cera vergine che erano allora l’unico tipo ammesso dal rituale cattolico e durante le veglie funebri. La privativa della cera vergine era stata concessa alla categoria perché composta da uomini selezionati e di buon affidamento e la grande influenza della Chiesa, attenta ai bisogni della gente, si può interpretare come un aiuto alla capillare distribuzione dei negozi della salute. Ma oltre alle candele di cera vi erano anche quelle di sego che erano più economiche ma avevano pessimo odore producevano fumo; esistevano, inoltre, anche candele di cera fuori e di sego dentro, ma era illegale venderle per candele di cera. Nell’apoteca, infine, si vendevano giocattoli, libri ed anche ex-voto in cera naturale o colorata raffiguranti le parti del corpo malate (un piede, una gamba, una mano) da utilizzare nel caso in cui la cura prescritta non avesse funzionato e si desiderava provare a chiedere una grazia. Nell’epoca comunale la farmacia diventa il luogo preferito in cui le persone colte della città si riuniscono assiduamente per passare in rassegna le questioni più importanti del momento, da quelle scientifiche a quelle politiche ed artistiche. Nel 1583 la celebre Accademia della Crusca vide la luce nella Farmacia Lasca in Firenze.


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Anche Leonardo Da Vinci frequentò la farmacia dove, dalla conversazione con medici e farmacisti, trasse materia di riflessione per i suoi bellissimi studi di anatomia. Questo suo interesse per le questioni di medicina e farmacia ci è attestato da alcune ricette e da una filastrocca in versi scoperta nel Codice Atlantico in cui Leonardo con molta arguzia consiglia, fra l’altro, di stare lontano dalle medicine indicando linee di prevenzione sanitaria. Nel 1429 il Papa Martino V, con Bolla dell’8 marzo, riconoscendo l’importanza della classe degli speziali, volle che l’Università romana assumesse il titolo di Nobile Collegio. Tale istituto per i farmacisti acquistò nei secoli notevole rilievo: infatti, oltre il servizio farmaceutico, furono loro affidati compiti di sorveglianza igienica dei negozi alimentari e delle fabbriche della città di Roma. Dai testi dello Statuto emergeva che da Martino V a Pio XII furono conferiti i seguenti compiti: funzioni didattiche; funzioni accademiche per il conferimento delle matricole e per il libero esercizio della professione; funzioni riguardanti l’etica professionale; potestà amministrativa riguardante: apertura delle farmacie, riscossione di tasse ed imposte inerenti la professione.


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Nel 1471 l’Antidotario del IX secolo della Scuola Salernitana viene stampato a Venezia e reso obbligatorio per gli speziali d’Italia più del Ricettario Fiorentino. Viene, inoltre, pubblicato il Compendium Aromatorium di Saladino d’Ascoli che, diviso in 7 particulae ed in forma di domanda e risposta costituisce il miglior riferimento per gli allievi in attesa di essere esaminati e ne scaturisce anche il ritratto ideale dello speziale dell’epoca, con qualità morali e materiali tali da porlo come esempio al professionista attuale. Nel 1480 si introdussero a Venezia gli esami per l’esercizio dell’arte farmaceutica presso Scuole degli speziali la cui arte, come quella medica, era considerata profana avendo finalità economiche distinguendosi, unitamente ad altre, da quelle spirituali, ovvero confraternite di pietà. Al 1498 risale la prima edizione del Ricettario Fiorentino pubblicato per la Compagnia del Drago e composto dal Famosissimo Collegio degli eximii doctori della arte et medicina della inclita ciptà di Firenze, ad instantia delli Signori Consoli della Università degli speziali e per utilità comune et publica, la quale più è degna della privata. A dimostrazione della ufficialità del Ricettario, in ultima


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pagina è riportatoli sigillo dell’Università de li Spetiali raffigurante la Madonna che stringe al seno il Bambino Gesù con sotto, in un quadretto più piccolo, un drago alato e, in fondo, le lettere A.M.A.. L’ufficialità del Ricettario è resa più evidente poiché alla obbligatorietà imposta dallo Stato si unisce la volontà dei soggetti ai quali era rivolta. La prima novità dell’opera è l’uso della lingua volgare, ma in una forma già definita e corretta, non facilmente riscontrabile neanche un secolo dopo; la chiarezza è un altro pregio. Il Ricettario consentiva a medici e speziali di evitare errori, sempre che quanto prescritto fosse eseguito con “fede, amore, studio e diligenza, conseguendone presso Dio premio e grande retribuzione”. Nel Proemio sono riportati i motivi che spinsero le Autorità fiorentine a promuovere tale pubblicazione e gli scopi che si ripromettevano con tale atto: “I dottori dell’arte e di medicina del famosissimo Collegio Fiorentino, considerando in quanti pericoli gli infermi incorressero, e quanti errori nella città e nel contrado si commettevano, per la diversità dei ricettari esistenti, onde molta infamia ne conseguiva ai medici, col potere conferito ed essendosi riuniti ritennero necessario comporre un nuovo ricettario, secondo il quale gli Spetiali non


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solamente della città, ma di tutto il contrado potessero disporre di una eguale preparazione, scelta, composizione e conservazione da osservare”. Il Ricettario Fiorentino a buon diritto è considerato la prima farmacopea del mondo, rispondendo agli specifici requisiti richiesti, ovvero, secondo la recente definizione dello studioso spagnolo Suné: codice medico con carattere di obbligatorietà presso l’esercizio farmaceutico; elenco di medicamenti analizzati nei componenti e durante la preparazione con insieme di regole generali utili al loro riconoscimento. Le farmacopee, dunque, sono dettate dalla necessità di avere univoco indirizzo in merito alla reale applicazione delle norme e delle formule nella pratica farmaceutica. Nel Quattrocento, dunque, la professione farmaceutica, che era sempre oppressa dai medici (sottoposta alle loro critiche durissime di impreparazione, di frodi, di adulterazioni) e che doveva far fronte alla concorrenza di ciarlatani, ebbe nelle Farmacopee un proprio codice che la impegnava come servizio a tutela dei malati. La prima edizione del Ricettario Fiorentino è rarissima: due copie, complete di tutte le 88 pagine, sono conservate presso la Biblioteca Apostolica Romana e


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presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; un’altra copia si trova presso il British Museum. A questa prima edizione , ancora legata alla tradizione araba, ne seguirono numerosissime altre fino al 1789; l’evoluzione storica dei Ricettari Fiorentini dimostra quanto grande fosse a Firenze lo spirito riformatore nelle scienze mediche e farmaceutiche, anche nei periodi più duri della Signoria che, dal canto suo, per queste Scienze non pose mai confini né, come è stato scritto, “tarpò le ali ad ogni libero volo”.


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Nel 1500, come nel 1400, fioriscono numerosi ricettari come la Concordia del 1511 o antidotari privati coevi di grande successo e diffusione nella pianura Padana ed in tutta Europa, come il Luminare Maius di Manlio del Bosco di Alessandria, il Thesaurus Aromatariorum dello speziale bergamasco Paolo Suardo e il LumenApotecariorum di Quirico de Augustis da Tortona. Queste opere sono realizzate come l’Antidotario di Niccolò e non sono considerabili farmacopee. Nel 1500 dagli inventari delle apoteche più fornite si rileva la presenza di 300-500 voci di semplici e composti, talora era presente anche il rabarbaro, una delle sostanze più care importata dalla Cina, spesso vi era la biblioteca che, in taluni casi, raggiungeva la ragguardevole quantità, per quel tempo, di 300-400 volumi. Spezierie così ben fornite ed al passo con la scienza del tempo vendevano, tuttavia, candele, grandi quantità di pece per i navaroli e di fieno greco; la presenza, inoltre, di padelle per li coriandoli e di tegghie per marzapane attestano la specializzazione in confetti e dolci. Nel 1548 vede la luce la prima edizione del Regimen Sanitatis, il frutto collettivo


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più noto della Scuola Salernitana (ristampato in epoche successive almeno 300 volte sempre con nuove aggiunte): una raccolta di precetti e massime cheinsegnano a conservare la salute adottando una opportuna regola alimentare e comportamentale senza bisogno di ricorrere a sortilegi ed amuleti. In Italia solo nel 1553 all’Università di Padova venne istituita una cattedra (Lectura simplicium) che conferiva il Diploma di Speziale Molto simile alla precedente è la seconda edizione, del 1550, del Ricettario Fiorentino, irreperibile nella stampa originale ma della quale esistono ristampe postume (di cui una, unica nella storia dei Ricettari fiorentini, tradotta in latino – ex Italico sermone Latini facti – da Carulus Clusius e pubblicata ad Anversa nel 1561 con il titolo Antidotarium sive de exacta componendorum miscendorum medicamentorum ratione libri tres abbreviato in Antidotarium Florentinum) dopo la prefazione rivolta ai Consoli dell’Arte, si divide in tre capitoli o parti. La prima comprende un elenco di semplici in ordine alfabetico presentando, così, almeno in riassunto la propria materia medica. Di seguito fa il ritratto del bono spetiale sia dal punto morale che da quello delle sue cognizioni, non mancando di


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descrivere l’apoteca ideale per svolgere la professione. Una ventina di pagine sono dedicate alle spiegazioni in tema di provvedere, assaggiare, preparare le droghe. La seconda parte comprende istruzioni tecniche relative alle varie forme farmaceutiche e tutti i composti: gli elettuari, insieme di droghe elette, contravveleni tipo teriaca o ricostituenti favolosi come la confezione ai testicoli di volpe, spesso impastati con miele mentre in altri casi erano allo stato di polvere (elettuario zuccherino per Re e Prelati); i looch o sciroppi, con denominazioni propagandistiche (looch sanum et expertum); trosici, specie di compresse ottenute per impasto ed essiccazione, introducono le pillole ricavabili estemporaneamente da una massa semisolida per divisione e spolveratura; i colliri ed i molti unguenti ed empiastri, oli semplici e composti. Nell’ultima parte vi sono le tabelle dei pesi e delle misure, quella delle sostituzioni possibili se vengono a mancare alcune speci, l’indice per materia e l’errata corrige. Nel 1567 viene pubblicata una edizione molto innovativa del Ricettario Fiorentino: sufficientemente corretta e compilata non più dal Collegio dei medici ma da una Commissione composta da dodici persone nominate dalle Altezze


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Serenissime il Duca ed il Principe di Firenze e di Siena che approvarono il Ricettario, su richiesta della Commissione stessa, rendendolo comune non solo a tutte le spezierie dello Stato ma anche a tutte quelle che lo desiderassero. Risale al 1576 la prima ufficiale Lista rerum Petendarum (medicamenti obbligatori) frutto di un accordo stipulato fra il Collegio dei Medici ed il Collegio degli Aromatari di Roma. Verso la fine del XVI secolo alcuni apotecari intraprendenti si arricchirono con l’esportazione di manufatti nelle contigue regioni. Il commercio più remunerativo era sempre quello delle candele votive; le apoteche più importanti avevano magazzini con diverse tonnellate di cera vergine. A quel tempo diversi speziali triplicarono addirittura il loro capitale di esercizio.


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Nel corso del 1630 il flagello nero della peste si abbatté sugli apotecari del Nord Italia in particolare. L’epidemia, rapidamente diffusasi per contagio anche a causa delle numerose funzioni propiziatorie in luoghi di culto o pubblici affollati di gente, vuotò di ogni merce le “botteghe”. In breve tempo si dovette constatare l’impossibilità di rifornimenti di medicamenti nonché la scomparsa di molti speziali aggrediti dal male cui erano particolarmente esposti. Alla fine di quel terribile anno gli speziali erano in molti luoghi quasi estinti, taluni erano sull’orlo del fallimento avendo fornito a credito i lazzaretti (e riscuotendo, poi, molti anni dopo, in qualche caso non isolato anche dopo oltre un decennio). Nel corso di questo secolo, inoltre, cresce il numero di aggregazioni professionali; in diversi casi cominciano ad essere imposti alla categoria degli speziali Statuti in base ai quali si dovevano accettare le ispezioni del Collegio dei Medici, perdendo così parte dell’autonomia. Nel 1650, inoltre, compare la prima regolare Tassa dei Medicinali.


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Nel 1670, è stampata una nuova edizione del Ricettario Fiorentino, dedicata al Granduca Cosimo III, di nuova concezione, molto più ordinata, corretta e semplice. Vi vengono descritti nuovi medicamenti di origine americana (macioacan o rabarbaro bianco, scarappa o giarappo, sassafras), ma comprende anche alcune particolari ricette di rimedi come gli Oli del Granduca, la polvere antiepilettica della Granduchessa; erano descritti, inoltre, il modo di stillare l’acqua (con la relativa figura del fornello e del suo refrigerante) e il fornello a bagno maria o stufa umida. Nel 1744 la Lista rerum Petendarum (medicamenti obbligatori) stipulata fra il Collegio dei Medici ed il Collegio degli Aromatari di Roma che raggiunge il ragguardevole numero di 99 specialità suddivise in 12 categorie: Simplicia, aquae, conservae, cerata, electuaria, olea, pillulae, syrupi, trochisci, species, unguenta, spagyricas (tra gli spagyrica, anticamera dei moderni prodotti chimici, ritroviamo il Mercurius Dulcis, il Sal Tartari Fixus, lo Spiritus Salis Ammoniaci; non manca il Corpus Cervi e, tra gli elettuari, la Therriaca Romae Confectae). Nel 1789 compare l’ultima edizione del Ricettario Fiorentino, compilata per


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ordine del Granduca Pietro Leopoldo. Essa è veramente innovativa in conseguenza dei nuovi sistemi di classificazione e nomenclatura chimica ed apre la serie delle farmacopee moderne dell’Ottocento ispirandosi non più ai vecchi testi bensì ai moderni esempi illustri di altri Paesi (Francia, Inghilterra e Germania) che, nel frattempo, avevano già proprie Farmacopee ufficiali. Questa edizione, inoltre, è rinnovata anche nella presentazione: i medicamenti non vengono più suddivisi per classi ma semplicemente per ordine alfabetico.


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Nel XIX secolo, inizia l’industrializzazione dei medicinali con l’insediamento nei Paesi industrializzati delle officine che producono i medicinali che le nuove scoperte mettono a disposizione e che non sono più realizzabili in farmacia o nel laboratorio ad essa annesso. In effetti le prime specialità nacquero fabbricate da colleghi che avevano lasciato il banco per metter su un laboratorio farmaceutico. Al nascere del Regno d’Italia l’industria chimica italiana era ancora agli albori o quasi inesistente, a differenza di quanto avveniva in altri Stati d’Europa che avevano, però, da tempo acquistato la loro unità (la Germania e la Svizzera, soprattutto, che erano già all’avanguardia nell’industria chimica, sicché questa poté fare agevolmente da madrina alla nuova industria chimico-farmaceutica). Nel 1870 erano già fiorenti in questi Paesi la Meister Lucius, laBayer, la Merk, la Boehringer, la Ciba. Ma in Italia, come in Francia d’altronde, i primi laboratori farmaceutici in grado di preparare i nuovi medicinali, anche in quantità importanti, nacquero con scarso o nullo supporto finanziario dalla Farmacia e, quindi, ad opera di farmacisti che, sensibili ai progressi della terapia, erano desiderosi di realizzare i nuovi medicamenti che via via venivano scoperti o sintetizzati.


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Nel 1853 il generale Lamarmora costituì il ruolo dei Farmacisti Militari che assunsero la direzione e la gestione del disimpegno farmaceutico presso le farmacie di alcuni ospedali militari. Contemporaneamente a Torino fu costituito il deposito di farmacia militare fornito di un laboratorio chimico-farmaceutico incaricato di effettuare preparazioniper il Servizio Sanitario Militare, inglobando anche il Laboratorio del Chinino con sede nei dintorni. Nel 1884 il Laboratorio militare assunse la denominazione di Farmacia Centrale Militare e nel 1923 di Istituto Chimico Farmaceutico Militare il quale, successivamente, fu trasferito a Firenze nel 1931 e ristrutturato dopo la seconda Guerra Mondiale; nel 1978 assumerà la denominazione attuale di Stabilimento Chimico-farmaceutico Militare. Esso vanta come peculiarità la produzione di prodotti non reperibili in commercio, i cosiddetti “farmaci orfani”, come ad esempio il chinino in fiale, presente in tutte le farmacie militari e richiesto da diversi enti pubblici. Dal 1861, anno della nascita del Regno d’Italia, fino al 1892, il ruolo della Farmacopea Ufficiale viene esercitato dalla Farmacopea per gli Stati Sardi dal 1861 al 1870 e, successivamente dal Codice Farmaceutico Romano edizione


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1868, ordinato ed approvato da Papa Pio IX, che era ufficiale nei territori dello Stato Pontificio e che era molto più completo e di maggiore rigore scientifico rispetto ad altre. Il Codice Romano era un vero trattato teorico-pratico molto moderno diviso in due parti: nella prima (farmacologia) erano descritti i semplici di cui si riportavano i caratteri chimico-fisici e botanici, l’origine, la composizione chimica ed una descrizione sommaria dell’azione e dell’uso nonché di una descrizione delle droghe vegetali completata da 126 belle tavole botaniche che illustrano con disegni le singole piante; nella seconda parte (chimico-farmaceutica) erano riportati i composti chimici dei quali si forniva una dettagliata descrizione dei caratteri e del processo di preparazione, completata con illustrazioni raffiguranti le apparecchiature necessarie e con una spiegazione logica delle reazioni, delle proprietà fisico-chimiche, delle avvertenze relative ad una eventuale purificazione, delle incompatibilità, dell’azione e dell’uso, con indicazione anche delle dosi. Ma oltre a queste due, molte altre Farmacopee esistevano nel territorio italiano e le più importanti erano la Farmacopea per gli Stati Estensi (ordinata dal duca


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Francesco IV d’Austria-Este ed approvata dal Ministro di Pubblica Economia ed Istruzione a Modena nel 1839), il Codice per gli Stati Parmensi (approvato dal Consiglio del Protomedicato ed adottato con decreto ducale nel 1858), il Codice Farmaceutico Napoletano (compilato a cura del Collegio di Farmacia Napoletano presieduto dal Signor Decano Gaetano Angioni e pubblicato a Napoli a seguito di approvazione, sotto gli auspici della Commissione Protomedicale, da parte del Ministro di Stato per gli Affari Interni nel 1845). La Commissione, incaricata della compilazione della prima Farmacopea unitaria, incontrò non poche difficoltà per trarre, dalle preesistenti, il materiale utile per armonizzare in tutto il territorio, dal Piemonte alla Sicilia, le modalità di preparazione e di dispensazione dei medicamenti e per comporre le non poche differenze presenti e derivanti da usi e tradizioni locali. Dopo l’ingresso a Porta Pia nel 1870 il Nobile Collegio di Roma, privato dei suoi privilegi, fu trasformato in associazione scientifico-culturale entrando nel novero delle opere pubbliche di beneficenza. A fine 1800 a livello di industria farmaceutica nel Nord primeggiavano G.B. Schiapparelli a Torino, Carlo Erba


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e Zambeletti a Milano, ove mosse i primi passi anche la Lepetit & Dolfuss. Anche a Firenze i farmacisti nelle officine delle loro farmacie prima e nei Laboratori industriali poi dettero vita all’industria farmaceutica fiorentina. Tra questi, oltre a Piero Malesi, farmacista, nella sua farmacia-drogheria a Borgo S.S. Apostoli, anche i fratelli Alitti, farmacisti nella Farmacia Molteni a piazza della Signoria, tennero a battesimo i primi insediamenti industriali fiorentini. All’attività dei fratelli Alitti va attribuito il merito di aver introdotto in Italia le preparazioni iniettabili che, grazie all’invenzione della fiala prima e della siringa con ago cavo poi, resero questa pratica sicura permettendo anche la conservazione illimitata delle preparazioni sterilizzate. Nacquero, così, i preparati Molteni per uso ipodermico che presto trovarono larga diffusione. Non era certo agevole preparare i soluti iniettabili nelle farmacie ed i farmacisti piuttosto che attrezzare il laboratorio per far fronte alle nuove esigenze preferivano rivolgersi alle officine. Il 3 maggio 1892 veniva pubblicata la prima edizione della Farmacopea del Regno d’Italia, ai sensi della Legge 22 dicembre 1888 n.5849. Con tale provvedimento la Farmacopea Ufficiale diviene il testo ufficiale per la


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qualità e le caratteristiche che devono possedere i farmaci, del metodo per la loro preparazione e delle norme sulla metodologia da seguire, del divieto di sostituibilità dei componenti, cioè l’eliminazione dei “qui pro quo”, tipici dei vecchi Antidotari, nonché della raccolta degli obblighi di legge che il farmacista deve rispettare nel servizio di farmacia. Ma, soprattutto, la Farmacopea elimina l’empirismo e pone come principio ispiratore il rigore scientifico. In questa 1^ edizione della Farmacopea si riscontrano: l’obbligo per il farmacista di detenere la F.U.; il capitolato ufficiale dei metodi di indagine; la raccolta delle caratteristiche dei vari farmaci (in particolare le norme da seguire per alcune preparazioni e caratteristiche di purezza delle sostanze); medicamenti obbligatori: atropina, morfina, canfora, cocaina, china, cloralio idrato, belladonna, derivati mercuriali. La lettura delle Farmacopee rispecchia chiaramente il processo evolutivo della scienza medica, poiché il cammino dell’assistenza farmaceutica passa attraverso un confronto tra le dieci edizioni della Farmacopea Ufficiale Italiana che costituiscono documenti essenziali per la storia della farmacia.


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Benché siano state emanate disposizioni legislative (Regolamento Generale Sanitario del 3 febbraio 1901 - Legge 22 maggio 1913 - T.U.LL.SS. 27 luglio 1934) che prevedevano la pubblicazione quinquennale della Farmacopea, sia per difficoltà nell’approntamento sia per oggettive difficoltà di particolari storici, la Farmacopea ha avuto degli “stacchi” temporali. Nel 1902 viene pubblicata la seconda edizione della Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia. In essa si riscontrano: l’eliminazione di sostanze di dubbia efficacia terapeutica (cardo benedetto, cloruro di bario, conserva di corniolo, sciroppo di fiori di persico, viola tricolore); l’esenzione del farmacista dall’obbligo di controllo istologico e microbiologico delle droghe; l’obbligo di acquistare dall’industria alcune sostanze chimiche; l’introduzione di nuove forme farmaceutiche (pillole e granuli). Nel 1909 viene pubblicata la terza edizione della Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia. In essa si riscontrano: il recepimento delle modifiche delle formule dei medicamenti eroici (Conferenza di Bruxelles del 1902); indicazione di impurezze e falsificazioni; esenzione del farmacista dall’obbligo dell’analisi


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botanica delle droghe; inserimento della tabella di conversione delle gocce in grammi; norme generali per la sterilizzazione; inserimento di nuovi farmaci (acido acetilsalicilico, burro di cacao, codeina cloridrato, fenacetina, esametilentetramina, siero antidifterico, terpina idrata). Nel 1911 anche la Carlo Erba venne autorizzata a produrre, come la Molteni, “soluzioni dosate e sterilizzate per uso ipodermico in fialette di vetro saldate”; in Italia nel 1915 i laboratori che producevano specialità medicinali erano 25 di cui la gran parte erano proprietà di farmacisti e producevano un solo prodotto. Dopo la guerra, nel 1919, furono censiti 115 laboratori farmaceutici di cui solo una trentina avevano una produzione medio-grande. Il 22 maggio 1913 veniva approvata la legge n.468 sull’autorizzazione all’apertura delle Farmacie (nota come Legge Giolitti), entrata in vigore il 13 luglio 1914, che all’art. 17 stabiliva che la Farmacopea Ufficiale doveva contenere gli elenchi dei prodotti in essa iscritti la cui vendita era sia libera a tutti senza restrizioni sia permessa ai non farmacisti con l’osservanza di speciali condizioni e restrizioni e con l’indicazione delle quantità minime di vendita. Il successivo art. 18 stabiliva al


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primo comma che la vendita al pubblico di medicinali a dose e forma di medicamento non era permesso che ai farmacisti e doveva effettuarsi nella farmacia sotto la responsabilità del titolare dell’esercizio. Il combinato di questi due articoli, collegato con la mancanza di qualsiasi norma regolamentare, suscitò grande scalpore. Da una parte i farmacisti che, forti del diritto che la nuova legge aveva loro riconosciuto, si opponevano tenacemente alla vendita fuori della farmacia (nelle drogherie in particolare) di prodotti che rientravano nella definizione di medicinale, arrivando fino a minacciare i droghieri, i grossisti ed i fabbricanti di gravi responsabilità penali. Dall’altra i droghieri, che erano in stato di agitazione, insistevano a voler vendere quei prodotti che rientravano nella definizione di medicinale facendo, tra l’altro, presente che la non avvenuta pubblicazione della nuova Farmacopea Ufficiale rendeva inapplicabili i disposti succitati. Era evidente che le tabelle 9 e 10 della terza edizione della Farmacopea non erano più attuali. In verità, nella discussione in Aula, l’art.18 era stato oggetto di critiche per i dubbi che potevano nascere nella sua interpretazione ed anche perché lo stesso


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Presidente del Consiglio On. Giolitti aveva dichiarato che se le specialità medicinali contenevano solo prodotti indicati nell’elenco dei prodotti di libera vendita, anche la specialità stessa poteva vendersi liberamente. Pertanto il Governo venne invitato ad intervenire affinché provvedesse sia alla revisione delle due tabelle succitate, sospendendo nel frattempo l’applicazione degli articoli di legge interessati, sia provvedendo a pubblicare al più presto una nuova Farmacopea. Nel 1920 viene pubblicata la quarta edizione della Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia. In essa si riscontrano: l’introduzione dei sieri; l’autorizzazione al farmacista di preparare in farmacia fiale, fermenti e prodotti opoterapici. Nel 1926 viene pubblicata la quinta edizione della Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia. In essa si riscontrano: l’introduzione di vaccini e arsenobenzoli; la deliberazione che la Farmacopea è un codice che stabilisce i requisiti a cui i farmaci devono corrispondere. Fra le due grandi guerre nell’industria farmaceutica si prese coscienza del fatto che, come insegnavano gli esempi soprattutto svizzeri e tedeschi, la


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convenienza di una produzione quantitativamente importante poteva avvenire solo in stabilimenti di dimensioni adeguate e si parlò di consorzi fra le grandi, medie e piccole aziende accanto alle grandi Erba, Schiapparelli, Lepetit, Molteni. Questo nobile tentativo di creare un’azienda italiana di dimensioni rispettabili non ebbe che uno scarso successo. Le fusioni avvennero ma furono matrimoni a due, come il laboratorio italo-britannico Manetti & Roberts di Firenze, la Tutolo Ciaburri; unica eccezione la E. Granelli di Milano che si sviluppò con l’unione di diverse unità produttive. Di fronte alla politica individualistica delle non certo grandi aziende farmaceutiche e laboratori italiani, si fecero strada le forti aziende straniere che conquistarono via via sempre più grosse fette di mercato. Nel 1939 le aziende operanti in Italia erano 900 circa e producevano quasi 15.000 prodotti diversi; almeno nove decimi di questi laboratori avevano carattere individuale ed erano fondate e dirette da farmacisti e dedicate alla produzione galenica, lamentando nel contempo che nelle aziende maggiori la produzione non era razionalizzata e la ricerca era scarsa.


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La produzione farmaceutica italiana era in larga misura ripetitiva e imitativa di quella straniera con l’aggiunta fantasiosa di qualcosa in più che potesse mascherare una copiatura. Nel 1940 viene pubblicata la sesta edizione della Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia. In essa si riscontrano: compaiono i saggi biologici per le vitamine A e D; le preparazioni galeniche devono corrispondere alle formule prescritte dalla Farmacopea; introduzione della sterilizzazione discontinua. Dopo la seconda guerra mondiale e fino a metà anni sessanta le industrie farmaceutiche erano circa 1100 ma di esse solo 200 assicurano il 90% della produzione. Nel 1965 viene pubblicata la settima edizione della Farmacopea Ufficiale della Repubblica Italiana. In essa si riscontrano: la Farmacopea diventa un codice per l’industria e per gli organi statali preposti al controllo delle specialità medicinali; sono introdotti i farmaci: antinfiammatori, antibiotici, antistaminici, ormoni, vitamine, ipotensivi, tranquillanti, diuretici, sulfamidici, immunoglobuline. A partire dal 1970 il panorama industriale farmaceutico tende a cambiare:


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scompaiono via via alcuni laboratori individuali di microscopiche dimensioni e buona parte del mercato viene accentrata in aziende grandi multinazionali straniere che incorporano molte officine italiane anche di rispettabili dimensioni. Si arriverà nell’epoca contemporanea a circa 300 laboratori industriali con circa 5000 specialità in commercio. Nel 1972 viene pubblicata la ottava edizione della Farmacopea Ufficiale della Repubblica Italiana. In essa si riscontrano: la suddivisione in tre parti (prescrizioni e metodi generali, monografie e formulario galenico); l’inserimento dei farmaci per uso veterinario e dei radiofarmaci; le norme di buona fabbricazione (Denominazione Comune Italiana – DCI – dei principi attivi e nomi chimici secondo la nomenclatura IUPAC – Unione Internazionale Chimica Pura ed Applicata -; l’introduzione di moderne tecniche analitiche (assorbimento atomico, cromatografia); la modifica delle tabelle relative alle sostanze psicotrope e stupefacenti. Nel 1985 viene pubblicata la nona edizione della Farmacopea Ufficiale della Repubblica Italiana.


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In essa si riscontrano: riferimenti per alcuni argomenti alla II edizione della Farmacopea Europea; vengono introdotte nuove tecniche analitiche: risonanza magnetica nucleare, cromatografia liquida, microscopia elettronica analitica, cromatografia per esclusione; viene sancita la completa industrializzazione della produzione dei farmaci e vengono riviste le norme di buona fabbricazione; i veleni e gli stupefacenti devono essere detenuti in armadi separati.


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