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Cane Nero

Arrivò l’inverno con lunghe, violente tempeste. Mio padre stava sempre peggio e la locanda era tutta sulle spalle mie e di mia madre. Una mattina gelida, in cui la baia era bianca di brina e il sole appena sorto riluceva sul mare, il Capitano si era alzato di buon’ora e si era diretto alla spiaggia con il coltellaccio appeso alla cintura e il cannocchiale di ottone sotto braccio. Io stavo preparando la tavola della colazione, quando la porta si aprì ed entrò uno sconosciuto: era pallido, prudente, sembrava un marinaio. Mi domandò di portargli del rum e sedette a un tavolo. Poi mi chiese:

– È qui che si siede il mio amico Bill?

– Non conosco il signor Bill. A questo tavolo siede una persona che alloggia qui e che si fa chiamare Capitano.

– Bill ha una cicatrice sulla guancia destra e ha dei modi molto gradevoli, specialmente dopo aver bevuto. Dove sta?

Risposi che era fuori e che sarebbe tornato presto.

L’uomo aveva una faccia poco rassicurante, ma non erano affari miei. Rimase lì, seduto vicino all’entrata, a sorvegliare l’ingresso come il gatto sulla tana di un topo. La paura mi accrebbe quando vidi che aveva tolto dal fodero un lungo coltello con cui si era messo a giocare. Nel frattempo, continuava a inghiottire saliva come avesse un nodo alla gola.

Finalmente il Capitano entrò. Si diresse verso la tavola pronta per la colazione.

Lo sconosciuto allora gridò:

– Bill!

Il Capitano si girò e impallidì, come avesse visto uno spettro o qualcosa di peggio.

– Cane Nero! – esclamò boccheggiando.

– In persona! – rispose l’uomo e alzò la mano destra mutilata di due dita.

– Mi hai trovato, dunque. Che cosa vuoi?

– Siediti. Questo bravo ragazzo ci porterà del rum e noi parleremo come vecchi compagni.

Quando tornai con i bicchieri e la bottiglia, i due erano seduti uno di fronte all’altro. Cane Nero stava vicino all’entrata per tenere d’occhio il Capitano e, se necessario, per poter fuggire facilmente.

Mi ritirai nel bar e riuscii a udire solo qualche parola sommessa della loro conversazione.

All’improvviso il Capitano esplose in una raffica di bestemmie e sentii chiaramente:

– No! Basta così! Se deve essere forca, sarà forca per tutti! Mi sono spiegato?

Poi ci fu il fracasso del tavolo e delle sedie rovesciate, un rumore di acciaio, un urlo di dolore…

Cane Nero fuggì a gambe levate, con la spalla sinistra insanguinata, mentre il Capitano lo rincorreva con il coltello in mano.

Arrivato in strada, Cane Nero sparì in un attimo oltre la collina. Il Capitano rimase a fissare l’insegna della locanda come confuso, si strofinò gli occhi e rientrò.

– Jim! Portami il rum! – ordinò vacillando.

– Siete ferito?

Mentre ubbidivo, udii un tonfo, accorsi e lo trovai disteso per terra. Mia madre venne ad aiutarmi. Gli sollevammo la testa. Il Capitano respirava a fatica. Cercai di fargli inghiottire un po’ di liquore, ma le sue mascelle erano irrigidite e serrate.

Per fortuna, entrò il dottor Livesey, arrivato per visitare mio padre.

– Dottore! Il Capitano è ferito.

– Ferito? Sciocchezze. Gli è venuto un colpo come avevo predetto. Jim, portami un catino.

Arrotolò una manica della giacca del Capitano e scoprì un braccio muscoloso, interamente coperto di tatuaggi. In uno c’era la scritta “Bill Bones se ne infischia”, in un altro c’era il disegno di una forca con appeso un impiccato.

– Jim, hai paura del sangue? – mi chiese il dottore.

– No, signore.

– Bene, allora procediamo.

Con un bisturi, il medico aprì una vena del Capitano e gli prelevò una grande quantità di sangue che schizzò nel catino.

Quando il Capitano si riprese, il dottore gli disse:

– Signor Bill Bones, vi ho salvato la vita contro la mia volontà perché è il mio dovere. Devo però avvisarvi: un bicchiere di rum non vi farà morire, ma se continuerete a ubriacarvi non durerete molto.

– Dov’è Cane Nero? – balbettò a fatica il Capitano.

– Non c’è nessun cane qui. Jim, aiutami a metterlo a letto. Gli ho estratto tanto sangue che per un po’ starà buono.

Trascinammo il Capitano in camera sua, poi il dottore andò a visitare mio padre.

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