SPECIALE URBES MAGGIO 2025

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SPECIALE URBES SCIENCE

L’ORTO DI MICHELLE

La lezione di Michelle Obama e la sfida attuale di difendere la prevenzione e il diritto alla salute e alla cura, nell’Americ a del revisionismo e della regressione sanitaria di Federico Serra

Con i contributi di Walter Ricciardi, Andrea Lenzi e di Fabio Mazzeo

A cura del Planetary Health Inner Circle , dell’Osservatorio sulla salute bene comune e dell’Health City Institute

“Per molto tempo, l’America è stata l’unica economia avanzata al mondo in cui l’assistenza sanitaria non era un diritto, ma un privilegio. Abbiamo speso di più, abbiamo ottenuto di meno. Abbiamo lasciato decine di milioni di americani senza la sicurezza dell’assicurazione sanitaria. Quando la crisi finanziaria ha colpito, i premi della maggior parte delle persone erano più che raddoppiati in circa un decennio. Circa un americano su 10 che ha ottenuto l’assistenza sanitaria attraverso il proprio datore di lavoro ha perso tale copertura. Quindi il sistema sanitario non funzionava. E l’aumento dei costi dell’assistenza sanitaria ha gravato sulle imprese ed è diventato il principale motore dei nostri deficit a lungo termine. Nella nazione più ricca della Terra, nessuno dovrebbe andare in rovina solo perché si ammala. Negli Stati Uniti d’America, l’assistenza sanitaria non è un privilegio per pochi fortunati, è un diritto.”

Barack Obama, la Casa Bianca, 26 settembre 2013

“Ora, non siamo qui solo per celebrare il primo anniversario di una campagna per risolvere il problema dell’obesità infantile in una generazione. Siamo qui per celebrare una nuova conversazione in questo paese sulla salute e il benessere dei nostri figli. È una conversazione su ciò che i nostri figli mangiano e su come si muovono. Si tratta di come si sentono e di come si sentono con se stessi. E si tratta di ciò che significa, non solo per la loro salute fisica ed emotiva, ma per il loro successo a scuola e nella vita.”

Michelle Obama, la Casa Bianca, Ufficio della First Lady, 9 febbraio 2011

In occasione del primo anniversario di Let’s Move

Promosso da: https://www.urbesmagazine.it/ https://healthcityinstitute.com/

a Mario Pappagallo

Compagno di viaggio e voce limpida della sanità pubblica. Questo speciale è anche il tuo.

Introduzione

Quando nel 2009 ho avuto l’onore di essere invitato alla Casa Bianca da Michelle Obama, non era ancora chiaro quanto quell’orto, appena piantato sul prato sud, avrebbe inciso nel tempo. In quel momento, capii però con chiarezza una cosa: non stavamo parlando solo di alimentazione, ma di un nuovo modo di intendere la salute, l’educazione, il futuro.

Michelle Obama aveva colto una delle grandi sfide del nostro secolo: riportare la prevenzione, il benessere e la comunità al centro della vita quotidiana e della politica pubblica. E lo ha fatto non dall’alto delle istituzioni, ma con i piedi nella terra. Con gesti umili, profondi, radicali. Un orto. Una mensa scolastica. Un programma educativo.

Quando Michelle piantò quel primo seme nel 2009, non stava solo zappando un pezzetto di terra nel South Lawn. Stava tracciando un solco nella cultura politica americana, uno di quelli che fanno germogliare visioni e responsabilità. La sua battaglia contro l’obesità infantile, la promozione della sana alimentazione e dello stile di vita attivo erano molto più di un progetto di salute pubblica: erano l’inizio di una nuova idea di cittadinanza.

Oggi, nel 2025, quel messaggio risuona ancora più forte. Perché viviamo in un’epoca di interconnessioni e fragilità:

• la crisi climatica modifica le coltivazioni e minaccia la sicurezza alimentare;

• le disuguaglianze sanitarie si sono acuite dopo la pandemia;

• le comunità soffrono la solitudine, la sedentarietà, l’impoverimento educativo;

• la politica sanitaria globale è minacciata da populismi, negazionismi, disinformazione.

In questo scenario, la visione di Michelle resta una

delle proposte più concrete e inclusive per affrontare le grandi crisi del nostro tempo. Il gesto di piantare un orto assume un significato ancora più profondo: è cura, ma anche resistenza. È educazione, ma anche giustizia. È prevenzione, ma anche visione.

Salute come bene comune

La salute non può più essere interpretata come bene individuale o merce di scambio. È un bene comune: qualcosa che si costruisce nella relazione, nello spazio pubblico, nella responsabilità collettiva.

Il bene comune è:

• un orto scolastico dove i bambini imparano a coltivare e collaborare;

• una mensa pubblica dove ogni pasto è nutrimento e uguaglianza;

• un parco accessibile dove camminare è anche vivere insieme;

• un programma educativo che insegna ai bambini cosa mangiano, perché e da dove viene.

In tutti questi spazi, la salute si intreccia con l’ambiente, la cittadinanza, l’inclusione. E chi coltiva un orto coltiva, in fondo, anche il futuro di tutti.

Planetary Health: il nuovo orizzonte

Il concetto di Planetary Health, oggi adottato da università, fondazioni, enti sanitari e istituzioni internazionali, amplia in modo decisivo questa visione. Ci dice che non può esserci salute umana senza salute del pianeta.

Ogni scelta alimentare, ogni sistema agricolo, ogni stile di vita, incide sulla qualità dell’aria, sulla fertilità del suolo, sulla biodiversità, sul clima. E viceversa, un pianeta ferito rende più vulnerabili i nostri corpi, le nostre comunità, le nostre economie.

Per questo oggi abbiamo bisogno di un nuovo orto globale. Non solo simbolico, ma operativo:

• un sistema alimentare equo, resiliente e sostenibile;

• una scuola che promuove benessere e cittadinanza ecologica;

• città pensate per muoversi, respirare, incontrarsi;

• una governance sanitaria che ascolti le comunità e protegga i fragili.

Tra regressione e resistenza

Dopo la stagione riformista di Barack Obama, l’America ha conosciuto un periodo di regressione politica e culturale.

Durante la presidenza Trump, molte delle conquiste sul piano sanitario e sociale sono state smantellate. La pandemia è arrivata in un Paese diviso, impreparato e disorientato. La salute pubblica è stata messa in discussione da ondate di negazionismo e disinformazione.

Eppure, in quei mesi difficili, l’orto è tornato. Milioni di americani, costretti a casa, hanno riscoperto il valore di cucinare, di coltivare, di camminare. Le scuole, anche chiuse, hanno mantenuto programmi di distribuzione alimentare. Le comunità hanno riattivato orti urbani e reti solidali.

Il messaggio di Michelle – che all’inizio sembrava “soft” – si è rivelato resiliente, concreto, trasformativo. E con il ritorno di Trump nel 2025, questa resistenza continua. Anche se molti programmi federali sono stati sospesi, ciò che è stato seminato in termini culturali è difficile da estirpare.

Un impegno personale

Nel mio ruolo di Presidente dell’International Public Policy Advocacy Association a Washington D.C., ho potuto toccare con mano quanto questi temi non siano più periferici. Sono centrali. Sono politici. Sono economici. Sono morali.

Ho visto città reinventarsi attorno alla salute. Governi locali disobbedire a scelte federali sbagliate per proteggere bambini e famiglie. Educatori, sindaci, cittadini tenere in vita quella grammatica della prevenzione che Michelle Obama aveva scritto con cura.

Ecco perché questo speciale di URBES dedicato a

L’orto di Michelle non è solo un aggiornamento. È una dichiarazione di continuità e di resistenza.

Un tributo a chi ha camminato con me

Questo libro è anche un omaggio a Mario Pappagallo, giornalista rigoroso e amico prezioso, che ha condiviso con me la prima stesura e ha saputo raccontare la sanità con competenza e sobrietà.

La sua voce vive in queste pagine, nei silenzi intelligenti, nei dettagli mai banali, nelle domande essenziali. Mario credeva nella buona informazione come strumento di democrazia. E in fondo, anche piantare un orto è una forma di informazione: ci dice cosa conta davvero, cosa possiamo fare insieme, cosa non dobbiamo dimenticare.

Coltivare il futuro

Oggi, nel 2025, l’America – come il mondo – è attraversata da una crisi culturale profonda.

Ma io continuo a credere che la lezione di Michelle sia ancora lì:

nei semi piantati, nei gesti condivisi, nei bambini che cucinano con i genitori, nei cortili scolastici trasformati in orti vivi.

Perché ogni seme è una speranza. Ma solo se lo coltiviamo insieme, può diventare futuro.

Editoriale

«La debolezza fondamentale della civilizzazione occidentale è l’empatia» - Elon Musk

«La morte dell’empatia umana è uno dei primi e più espliciti segni dello scadimento nella barbarie»Hannah Arendt

Le due citazioni, quella del ricchissimo imprenditore e della filosofa che ha studiato le origini del totalitarismo, sono i perni opposti del passaggio in corso degli Stati Uniti da punto di riferimento delle democrazie liberali a fonte di destabilizzazione globale.

La rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel 2024 ha segnato un profondo cambiamento nel discorso politico e sociale del paese. Uno degli aspetti più preoccupanti di questo cambiamento è stata la percepita erosione dell’empatia come valore cardine della società americana. Sotto la sua amministrazione, il linguaggio divisivo, la retorica aggressiva e le politiche escludenti stanno contribuendo a una crescente polarizzazione, rendendo più difficile il dialogo e la comprensione reciproca tra cittadini con opinioni diverse.

Dall’inizio della sua campagna elettorale, Trump ha spesso adottato un linguaggio provocatorio e polarizzante. Ha attaccato apertamente gruppi minoritari, immigrati, giornalisti e oppositori politici, alimentando un clima di ostilità e sospetto. Questo tipo di comunicazione sta avendo un impatto profondo sulla società americana, incoraggiando una cultura della competizione spietata e del sospetto reciproco piuttosto che della solidarietà e della comprensione.

Il contrasto con la Presidenza Obama non potrebbe essere più stridente. Fin dalla sua campagna elettorale del 2008, Obama aveva posto l’accento sulla necessità di unire il paese, promuovendo il dialogo, la comprensione reciproca e la solidarietà tra cittadini di diversa estrazione sociale, etnica e politica. Questo approccio

ha influenzato molte delle sue politiche e del suo stile di leadership, contribuendo a modellare l’identità del suo mandato.

Uno degli aspetti più distintivi di Obama è stata la sua capacità di comunicare con empatia e autenticità. Nei suoi discorsi pubblici, spesso faceva riferimento alle esperienze dei cittadini comuni, mettendo in evidenza le difficoltà affrontate da famiglie in difficoltà economica, comunità emarginate e giovani in cerca di opportunità. Il suo discorso dopo la sparatoria alla chiesa di Charleston nel 2015, in cui cantò “Amazing Grace”, è un esempio del modo in cui riusciva a entrare in sintonia con il dolore della nazione e a offrire conforto nei momenti difficili.

L’approccio empatico di Obama si è tradotto in politiche volte a migliorare il benessere dei cittadini più vulnerabili. La riforma sanitaria nota come “Obamacare” è forse l’esempio più emblematico del suo impegno per una società più equa. L’obiettivo era garantire l’accesso alle cure mediche a milioni di americani che, senza questa misura, sarebbero rimasti senza assicurazione sanitaria.

Un altro esempio significativo è stato il programma DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), che ha permesso a centinaia di migliaia di giovani immigrati arrivati illegalmente negli Stati Uniti da bambini di ottenere protezione dalla deportazione e la possibilità di lavorare legalmente. Questa politica rispecchiava l’idea che la compassione e la comprensione delle storie personali dovessero guidare le decisioni governative.

Anche sul piano internazionale, Obama ha cercato di promuovere un approccio diplomatico basato sull’empatia e sul rispetto reciproco. Il suo discorso all’Università del Cairo nel 2009, in cui si appellava a un “nuovo inizio” nei rapporti tra Stati Uniti e mondo musulmano, rappresenta un tentativo di ridurre le tensioni interna-

zionali attraverso il dialogo e la comprensione delle diverse prospettive. Inoltre, la sua apertura verso Cuba e l’accordo sul nucleare con l’Iran riflettevano una visione della politica estera fondata sulla diplomazia piuttosto che sul conflitto.

Non stupisce che al fianco di un Presidente siffatto ci fosse una donna animata dagli stessi sentimenti.

Durante il suo mandato come First Lady degli Stati Uniti, Michelle Obama ha promosso numerose iniziative legate alla salute e al benessere, tra cui una delle più iconiche, di cui si parla in questo numero speciale di Urbes curato da un ispirato Federico Serra: la creazione dell’orto della Casa Bianca.

Questo progetto, avviato nel 2009, non è stato solo un’operazione simbolica, ma ha rappresentato un vero e proprio impegno per sensibilizzare gli americani sull’importanza di un’alimentazione sana e sostenibile.

Michelle Obama piantò l’orto insieme a un gruppo di studenti di una scuola locale, sottolineando fin da subito l’importanza dell’educazione alimentare per i più giovani. L’orto, situato nel South Lawn della Casa Bianca, copriva circa 1100 metri quadrati e produceva una grande varietà di frutta e verdura, tra cui lattuga, spinaci, cavoli, peperoni, pomodori e molte altre colture.

L’iniziativa faceva parte della più ampia campagna “Let’s Move!”, il cui obiettivo era combattere l’obesità infantile promuovendo una dieta equilibrata e l’attività fisica. Michelle Obama ha sottolineato più volte come l’orto fosse un mezzo per insegnare ai bambini e alle loro famiglie l’importanza del cibo fresco e di stagione, incoraggiandoli a fare scelte alimentari più consapevoli.

L’orto della Casa Bianca è diventato un simbolo del movimento per un’alimentazione sana e ha ispirato molte scuole e comunità a creare spazi simili nei loro quartieri. Il progetto ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di migliorare la qualità del cibo nelle scuole e ha stimolato conversazioni sulle politiche alimentari a livello nazionale.

Inoltre, l’iniziativa ha avuto un impatto anche sulla legislazione: Michelle Obama ha sostenuto l’Healthy, Hunger-Free Kids Act, una legge approvata nel 2010 che ha migliorato gli standard nutrizionali nei programmi alimentari scolastici.

Dopo la fine dell’amministrazione Obama, l’orto ha continuato a esistere come parte integrante del paesaggio

della Casa Bianca, fino all’arrivo di Trump.

L’elezione di Donald Trump nel 2016 e ancor di più la sua rielezione nel 2024 hanno segnato un netto cambiamento nel discorso politico e sociale degli Stati Uniti. Il suo stile comunicativo, caratterizzato da una retorica aggressiva e divisiva, ha accentuato la polarizzazione del paese, incoraggiando una cultura basata sul conflitto piuttosto che sulla comprensione.

Da subito, le politiche dell’amministrazione Trump hanno rafforzato la percezione di un declino dell’empatia. Ad esempio, la separazione delle famiglie al confine con il Messico, la riduzione dei programmi di assistenza sociale e il mancato sostegno a politiche di inclusione hanno contribuito a una crescente divisione tra le classi sociali e tra diversi gruppi etnici.

Queste azioni hanno rafforzato l’idea che lo Stato non fosse più interessato a proteggere i più vulnerabili, ma piuttosto a privilegiare una visione individualistica e competitiva della società. L’era Trump ha anche visto una crescente sfiducia nei confronti dei media tradizionali e delle istituzioni. La diffusione di fake news e l’accentuazione della cultura del “noi contro loro” hanno contribuito a creare una società in cui l’empatia è stata spesso sostituita dalla diffidenza e dal risentimento. I social media hanno amplificato questa dinamica, permettendo la diffusione di narrazioni che esaltavano la lotta e il conflitto a discapito della comprensione reciproca.

Le attuali politiche di Trump stanno rafforzando l’immagine di un governo insensibile alle difficoltà dei più vulnerabili. Sul fronte della comunicazione, Trump sta attaccando gruppi minoritari, giornalisti e oppositori politici, alimentando un clima di ostilità e sospetto. La demonizzazione dei media tradizionali sta rendendo ancora più difficile il dialogo e la costruzione di un senso di comunità.

Tornando agli Obama, le presidenze di Barack e di Donald Trump sono caratterizzate da due visioni profondamente diverse del ruolo dell’empatia nella leadership politica e nella società americana. Se Obama ha cercato di costruire un senso di unità e solidarietà attraverso il dialogo e politiche inclusive, Trump ha spesso adottato una retorica divisiva che ha contribuito a polarizzare ulteriormente il paese.

In questo contesto, Michelle Obama ha sempre rappresentato un punto di riferimento per coloro che cercavano un’alternativa alla retorica dell’odio e della divisione. Con il suo stile di leadership fondato su empatia, inclusione e resilienza, l’ex First Lady ha offerto un modello di resistenza morale e civica contro

le tendenze più divisive della politica americana contemporanea.

Fin dall’inizio della prima presidenza Trump, Michelle Obama ha scelto di non rispondere con la stessa aggressività che caratterizzava il nuovo corso politico. Il suo celebre motto “When they go low, we go high” (“Quando loro scendono in basso, noi andiamo in alto”) è diventato un simbolo di resistenza basata sulla dignità e sull’elevazione del dibattito pubblico. Questo approccio ha contrastato apertamente la retorica provocatoria e spesso offensiva di Trump, offrendo un’alternativa basata sull’integrità e sulla fiducia nei valori democratici.

Mentre l’amministrazione Trump adottava politiche di esclusione e divisione, Michelle Obama ha continuato a promuovere un messaggio di unità e speranza. Attraverso il suo lavoro con l’organizzazione “When We All Vote”, ha incoraggiato la partecipazione democratica e l’importanza del voto come strumento di cambiamento. Ha inoltre sostenuto attivamente iniziative per l’educazione delle giovani donne, specialmente quelle appartenenti a comunità svantaggiate, ribadendo l’importanza dell’istruzione come via per l’emancipazione e la giustizia sociale.

Attraverso il suo libro di memorie “Becoming”, Michelle Obama ha condiviso la sua storia personale, ispirando milioni di persone a credere nella possibilità di un futuro migliore nonostante le difficoltà del presente. Il suo racconto ha offerto una narrazione alternativa a quella dominante durante la presidenza Trump, ricordando agli americani l’importanza dell’empatia, della perseveranza e dell’inclusione.

Michelle Obama ha resistito non solo attraverso le parole, ma anche attraverso le azioni. Il suo impegno per la salute pubblica, l’istruzione e i diritti delle donne ha rappresentato un baluardo contro la deriva regressiva di molte politiche trumpiane. La sua semplice presenza come figura pubblica di spicco, con un messaggio positivo e un’influenza globale, ha funzionato come un contrappeso morale alla retorica della paura e della divisione.

Nel contesto della prima presidenza Trump, Michelle Obama ha incarnato una forma di resistenza silenziosa ma potente. Attraverso il suo impegno civile, la sua comunicazione empatica e il suo esempio di integrità, ha offerto agli americani un modello alternativo di leadership, dimostrando che la risposta alla barbarie non deve essere la rabbia, ma la perseveranza nei valori di giustizia, equità e rispetto reciproco.

E’ una lezione che vale anche per l’attuale momento, perché uno dei modi più efficaci per contrastare la barbarie è mantenere viva la memoria storica. La conoscenza del passato aiuta a riconoscere i segnali di regressione e a impedire che gli errori si ripetano.

Come diceva Hannah Arendt, la barbarie si nutre della disumanizzazione dell’altro, della creazione di nemici e della divisione sociale. Resistere significa dunque coltivare l’empatia e la solidarietà, rafforzando i legami comunitari e rifiutando le logiche di esclusione. Aiutare chi è in difficoltà, difendere i diritti delle minoranze e promuovere la giustizia sociale sono azioni concrete che contrastano la violenza simbolica e reale della nostra epoca.

In questo difficile e triste momento per gli Stati Uniti, l’orto della Casa Bianca, la sua eredità, rimane un esempio concreto di come un’idea semplice possa avere un impatto duraturo non solo sulla salute pubblica e sull’educazione alimentare, ma sulla stessa idea di umanità e che resistere nell’epoca della barbarie significa non cedere alla paura, non abituarsi all’ingiustizia e non rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza altrui. Significa essere vigili, critici e solidali, coltivando ogni giorno, nell’orto della vita, la speranza di un mondo più giusto.

Prefazione

Presidente del Comitato nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita della Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Health City Institute

Nel 2009, Michelle Obama inaugurava, nei giardini della Casa Bianca, un piccolo orto comunitario. Un gesto all’apparenza semplice, ma destinato a segnare una svolta culturale. Con le mani nella terra, la First Lady lanciava una sfida al cuore di uno dei problemi sanitari più gravi e sottovalutati del nostro tempo: l’obesità infantile. Nasceva così Let’s Move, una campagna di salute pubblica che avrebbe ridato centralità al corpo, al cibo, al movimento, all’ambiente, alla prevenzione. Una vera e propria “call to action” per l’intera società americana, ma anche un esempio internazionale di lungimiranza politica e visione sistemica.

Quello che Michelle O bama ci ha insegnato è che la prevenzione non è un’opzione, ma un dovere delle istituzioni. È un impegno collettivo che inizia molto prima dell’intervento clinico, che si costruisce nei quartieri, nelle mense scolastiche, nei parchi pubblici, nelle scelte urbanistiche e nei programmi educativi. È una politica della vita quotidiana, che abbraccia le famiglie, le comunità e le amministrazioni pubbliche.

Questa lezione è oggi quanto mai attuale anche in Italia, dove l’obesità – soprattutto tra i bambini e gli adolescenti – rappresenta una vera emergenza sociale e sanitaria. I dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’ISS confermano una fotografia allarmante: oltre 1 bambino su 3 nella fascia 8-9 anni è in sovrappeso o obeso. Le disuguaglianze sociali, le cattive abitudini alimentari, la sedentarietà, l’eccessivo consumo di cibo ultra-processato e zuccheri aggiunti sono fattori che si stanno radicando nelle fasce più vulnerabili della popolazione, generando un circolo vizioso di cronicità, esclusione e povertà sanitaria.

È evidente che non possiamo più limitarci a risposte settoriali o frammentate. Abbiamo bisogno di una strategia nazionale integrata di contrasto all’obesità, che sia coerente con i principi del Piano Nazionale della Prevenzione, del Piano Nazionale della Cronicità e della recente Missione 6 del PNRR. Una strategia che metta davvero al centro i giovani, promuovendo

una nuova cultura del benessere fin dall’età scolare.

In questo contesto, il modello proposto da Let’s Move si dimostra ancora una volta di grande ispirazione. Coniugare educazione alimentare e promozione dell’attività fisica, favorire l’accesso equo a spazi verdi e strutture sportive, contrastare le campagne pubblicitarie aggressive rivolte ai minori, incentivare il consumo di prodotti freschi e locali: sono tutte azioni replicabili anche nel nostro Paese, a partire dai territori e in sinergia con i Comuni, le Regioni, le scuole, le associazioni e le famiglie.

Ma serve anche un cambio di paradigma: la salute non è una variabile individuale, ma un bene comune, come sottolinea l’approccio dell’Urban Health che stiamo promuovendo attraverso il lavoro del CNBBSV e con iniziative come OPEN Italy. In questo senso, l’“orto di Michelle” non è solo un gesto simbolico, ma una vera e propria politica pubblica che ha saputo coniugare comunicazione e governance, scienza e comunità, responsabilità individuale e collettiva. Un esempio che ci spinge ad agire con determinazione anche nel nostro contesto nazionale.

Questo speciale della rivista Urbes, curato con passione e visione da Federico Serra – uno dei principali promotori dell’advocacy per la salute in Italia – ci ricorda che ogni trasformazione parte da un seme. Un seme che può crescere se trova terreno fertile nelle istituzioni, nei territori, nella cultura e nella scuola. Ecco perché dobbiamo investire oggi su un nuovo patto per la salute dei giovani, basato sulla conoscenza, sull’educazione e sulla partecipazione attiva. Un patto che metta fine all’inerzia e restituisca centralità alla prevenzione come atto di giustizia intergenerazionale.

Perché, in fondo, come ci ha insegnato Michelle Obama, il futuro di una nazione dipende dalla salute e si coltiva come un orto che dia buoni frutti.

La missione di Michelle

Nel 2009 Michelle Obama piantò un seme. Letteralmente. Con una zolla di terra smossa nel South Lawn della Casa Bianca, la First Lady stava gettando le basi di un movimento culturale e politico che avrebbe fatto scuola. All’epoca, il White House Kitchen Garden poteva sembrare un gesto semplice, quasi domestico. Ma dietro quell’atto si nascondeva una strategia chiara e ambiziosa: utilizzare il cibo, la terra e la salute come chiavi per raccontare una nuova idea di America.

Michelle Obama, madre, avvocata, educatrice, non ha mai separato il personale dal politico. L’alimentazione dei bambini era per lei il punto di partenza per un cambiamento più ampio: nei modelli educativi, nei sistemi urbani, nella giustizia sociale, nella cultura popolare. La sua missione era far comprendere che la salute non si costruisce in ospedale, ma prima – nelle scuole, nelle famiglie, nei supermercati, nelle cucine.

Una battaglia culturale travestita da orto Il programma Let’s Move!, lanciato nel 2010, è stato la prima grande iniziativa presidenziale ad affrontare l’obesità infantile come emergenza nazionale. Ma sarebbe riduttivo vederlo solo come una campagna sanitaria. Era, a tutti gli effetti, una battaglia culturale:

• contro l’alimentazione industriale e l’invadenza del junk food,

• contro la sedentarietà normalizzata e la disuguaglianza alimentare,

• contro il fatalismo educativo e l’idea che “mangiare male è inevitabile”.

Michelle ha portato la prevenzione fuori dagli ospedali, l’ha messa nei parchi giochi, nei mercati contadini, nei piatti scolastici. Ha parlato direttamente a genitori, insegnanti, bambini. Ha cucinato in televisione, ha giocato con i bambini nelle scuole, ha aperto i giardini della Casa Bianca a comunità di ogni provenienza.

Il suo stile era partecipativo, mai paternalistico. Educare, per lei, significava coinvolgere.

L’eredità concreta

Nei primi cinque anni, Let’s Move! ha prodotto:

• nuovi standard nutrizionali per 32 milioni di pasti scolastici al giorno,

• la nascita di migliaia di orti scolastici e comunitari,

• un accordo con l’industria alimentare per ridurre zuccheri, grassi e porzioni,

• milioni di dollari destinati all’attività fisica nelle scuole.

Ma soprattutto, ha spostato il baricentro del discorso pubblico sulla salute, rendendo popolare un approccio multidimensionale alla prevenzione.

Dopo la Casa Bianca

Conclusa l’era Obama, Michelle ha continuato il suo impegno attraverso la Obama Foundation e iniziative come Pass the Love, in collaborazione con Partnership for a Healthier America, che ha distribuito milioni di pasti salutari alle famiglie americane colpite dalla crisi pandemica.

Durante la pandemia, il messaggio dell’orto si è rivelato ancora più potente. In un momento in cui il mondo era chiuso in casa, coltivare è diventato un gesto di speranza, resilienza, autocura. Le vendite di sementi e orti fai-da-te sono esplose. Le scuole, anche chiuse, hanno mantenuto i legami con le famiglie distribuendo kit alimentari e programmi didattici a distanza basati sull’educazione alimentare.

Una missione globale

Nel 2025, la missione di Michelle ha ispirato politiche in Europa, America Latina, Africa e Asia. In molte

città italiane, francesi e spagnole, Let’s Move! è diventato un riferimento per interventi locali. E Michelle, pur non avendo più un ruolo ufficiale, è rimasta una delle voci morali più ascoltate nel dibattito su salute, educazione e futuro.

Ha saputo fare quello che la politica spesso non riesce più a fare: parlare chiaro, parlare a tutti, parlare con il corpo e con la cura.

Una missione ancora viva Nel 2025, la missione di Michelle non è finita. Anzi, è diventata ancora più urgente. In un’America divisa, dove le scelte sanitarie tornano a essere ostaggio dell’ideologia, il suo messaggio resta saldo: • la salute comincia prima della diagnosi; l’alimentazione è cultura e diritto; il movimento è libertà; la comunità è la prima medicina.

E l’orto resta lì, nel South Lawn, a ricordare che una politica buona può anche nascere scavando la terra con le mani.

Il più grande programma di S anità P ubblica mai pensato da una First Lady

Nel 2010, quando Michelle Obama lanciò ufficialmente la campagna Let’s Move!, nessuna First Lady prima di lei aveva osato tanto. Non si trattava di una semplice iniziativa di facciata o di un progetto caritatevole. Era una strategia nazionale di salute pubblica, fondata sulla prevenzione, sull’educazione e sulla trasformazione delle abitudini quotidiane. Un piano che univa scuola, famiglia, agricoltura, industria alimentare e istituzioni.

Let’s Move! nasceva con un obiettivo chiaro: fermare entro una generazione l’epidemia di obesità infantile negli Stati Uniti. Un traguardo ambizioso, forse utopico, ma necessario. Il punto di partenza era la consapevolezza che la salute dei bambini dipendeva da scelte sistemiche: l’alimentazione scolastica, la disponibilità di cibo sano, le ore di educazione fisica, il tempo trascorso davanti agli schermi.

Michelle non si limitò a lanciare slogan. Mise in campo un lavoro capillare:

• coinvolgimento delle scuole, con nuovi standard nutrizionali per le mense scolastiche;

• campagne con i genitori, per promuovere abitudini salutari in famiglia;

• dialogo con le aziende alimentari, per ridurre zuccheri, grassi e sodio nei prodotti per bambini;

• partnership con chef, atleti, personaggi pubblici, per rendere la salute “cool”;

• sviluppo degli orti scolastici, come strumenti di educazione attiva e cittadinanza.

L’impatto fu straordinario. In pochi anni:

• oltre 31 milioni di bambini ricevettero pasti scolastici più sani;

• le vendite di snack e bevande ad alto contenuto calorico calarono nelle scuole;

• centinaia di orti scolastici e comunitari nacquero in tutti gli Stati;

• il concetto stesso di “stile di vita sano” entrò nel dibattito pubblico e mediatico.

Let’s Move! fu – e resta – il più vasto e coerente programma di promozione della salute mai ideato da una First Lady. La sua forza stava nel linguaggio accessibile, nel coinvolgimento diretto dei cittadini, nella capacità di creare reti tra ambiti diversi.

Ma la sua eredità non è solo quantitativa. È culturale.

Michelle ha saputo dare volto e voce a un’America che crede nella prevenzione, nella comunità, nella solidarietà. Ha mostrato che la salute è un valore condiviso, non un lusso individuale. E che ogni piccolo gesto –cucinare insieme, piantare un seme, camminare per andare a scuola – può avere una portata rivoluzionaria.

Nel 2025, Let’s Move! non esiste più come programma federale, ma vive come movimento sociale. La sua influenza si ritrova nelle iniziative delle città, nei nuovi standard nutrizionali di alcune scuole, nei progetti di salute pubblica lanciati dalle amministrazioni locali, nei discorsi delle nuove generazioni di attivisti.

Jill Biden, First Lady dell’amministrazione BidenHarris, ha raccolto il testimone con discrezione, continuando a promuovere educazione e salute attraverso il suo impegno con gli insegnanti, le famiglie e le comunità educanti. Ha rilanciato i programmi a favore della salute mentale scolastica, della nutrizione, del benessere integrato.

E anche se il ritorno del trumpismo nel 2025 ha rallentato molte di queste politiche, il seme è stato piantato troppo in profondità per essere estirpato. Il messaggio di Michelle è ormai parte del patrimonio civile americano. Il suo programma – nato in un orto – ha trasformato il modo in cui milioni di persone pensano alla salute, all’infanzia, al futuro.

Come ha scritto lei stessa nella sua autobiografia: “Quando pianti qualcosa, ci metti speranza. E la speranza è più forte della paura.

Una potenza “ M alata” cronica

Nel 2025, gli Stati Uniti d’America restano la prima potenza economica, militare e tecnologica del pianeta. Ma sono anche – paradossalmente – una delle nazioni più fragili dal punto di vista della salute pubblica. È una contraddizione profonda, sistemica, che Michelle Obama ha avuto il coraggio di denunciare molto prima di altri, e che oggi si manifesta in tutta la sua evidenza.

L’obesità, le malattie croniche, la sedentarietà e le disuguaglianze nell’accesso alle cure costituiscono un’emergenza strutturale, aggravata da decenni di politiche sbilanciate, tagli alla prevenzione, individualismo esasperato e mercificazione della sanità.

I numeri della crisi

Secondo i dati aggiornati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC):

• oltre il 42% degli adulti statunitensi è obeso;

• circa il 20% dei bambini e adolescenti tra i 2 e i 19 anni è obeso, e più del 35% è in sovrappeso;

• l’aspettativa di vita è in calo da tre anni consecutivi, con una media nazionale scesa sotto i 77 anni;

• si registrano aumenti significativi di diabete di tipo 2, ipertensione, depressione giovanile e dipendenze;

• le malattie prevenibili (come il cancro del colonretto o le complicanze cardiovascolari) continuano a colpire milioni di persone per mancanza di screening.

Il sistema sanitario americano spende ogni anno oltre

4.500 miliardi di dollari, quasi il 20% del PIL, ma con risultati inferiori a quelli di molte nazioni europee che investono molto meno.

Una salute che riflette le disuguaglianze

Il problema non è solo sanitario, ma sociale. L’accesso alle cure, al cibo sano, all’attività fisica, all’informazione nutrizionale dipende in gran parte:

• dal reddito familiare;

• dal quartiere in cui si vive;

• dall’etnia;

• e, sempre più spesso, dall’orientamento politico dello Stato di residenza.

Nei quartieri poveri e nei food desert si mangia male non per scelta, ma per necessità. Il fast food costa meno, è più accessibile, e viene promosso in modo massiccio. I bambini afroamericani e latinoamericani hanno tassi di obesità infantile fino al 50% più alti rispetto ai coetanei bianchi in contesti privilegiati.

Anche la salute mentale è una nuova frontiera della crisi: disturbi d’ansia, depressione, isolamento sociale e suicidi giovanili sono in crescita, soprattutto dopo la pandemia. E i servizi psicosociali restano carenti, costosi e frammentati.

Un problema di sicurezza nazionale

Nel 2010, il Pentagono lanciò un’allerta: troppi giovani americani non sono idonei al servizio militare per problemi di peso, salute o rendimento cognitivo. La salute pubblica, insomma, è diventata anche una questione di difesa nazionale.

Oggi, nel 2025, il quadro è ancora più allarmante:

• oltre il 70% dei giovani tra i 18 e i 24 anni non supera i test fisici di base;

• la produttività del lavoro è minata da assenteismo e malattie croniche precoci;

• le spese per l’assicurazione sanitaria privata sono ormai insostenibili per milioni di famiglie.

Il paradosso è evidente: una superpotenza globale affetta da vulnerabilità profonde al proprio interno.

Michelle lo aveva capito

Quando Michelle Obama parlava di Let’s Move! non stava solo proponendo un programma salutista. Stava

denunciando un sistema malato e offrendo una visione trasformativa, centrata sulla prevenzione, sull’equità, sull’educazione.

La sua idea era semplice e rivoluzionaria: iniziare dai bambini, dalle scuole, dalla tavola, dal gioco, dalla comunità. Cambiare la cultura del benessere, ridare senso alla cura condivisa.

Oggi quella visione è più attuale che mai. Non è nostalgia per una presidenza passata. È una proposta concreta per un presente che rischia il collasso.

E ora?

Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la nomina di Robert F. Kennedy Jr. a capo del sistema sanitario federale, i segnali di regressione si sono moltiplicati: tagli ai programmi di prevenzione, uscita dall’OMS, riduzione delle tutele per i soggetti fragili, negazionismo sanitario.

Ma in molte città, scuole e comunità, il seme piantato da Michelle continua a crescere. Perché la salute non si impone dall’alto, si costruisce giorno per giorno, zolla dopo zolla, gesto dopo gesto.

E in un’America sempre più malata, quell’orto coltivato alla Casa Bianca è ancora oggi uno dei simboli più potenti di rigenerazione possibile.

L’arma della prevenzione

In un’epoca dominata dall’emergenza, dal trattamento e dalla risposta tardiva, la prevenzione è la grande assente – e insieme, la grande speranza – della sanità contemporanea. È la chiave dimenticata, spesso sacrificata sull’altare dei bilanci sanitari o delle urgenze politiche. Ma è anche lo strumento più potente, economico ed etico che abbiamo per costruire salute vera e duratura.

Michelle Obama, con la sua visione semplice e radicale, lo aveva capito prima di molti. Let’s Move! fu, nella sostanza, il primo grande programma di prevenzione sistemica e integrata lanciato da una First Lady, in un Paese dove per decenni la salute è stata sinonimo esclusivo di cura, farmaco, intervento ospedaliero.

Prevenire non è solo evitare

La prevenzione che Michelle ha promosso non è solo evitamento della malattia, ma costruzione attiva del benessere:

• mangiare bene non è solo non ingrassare, ma nutrire il corpo e la mente;

• muoversi non è solo bruciare calorie, ma esprimere energia, relazione, identità;

• educare alla salute non è solo fornire regole, ma offrire strument• i di consapevolezza.

La prevenzione, in questa visione, è fatta di cultura, abitudini, contesti. È un progetto di cittadinanza, e non solo una strategia sanitaria.

I risultati di Let’s Move!: numeri che parlano

Durante i primi cinque anni della campagna, i CDC rilevarono:

• una stabilizzazione dei tassi di obesità infantile in 19 Stati;

• un aumento significativo dell’attività fisica quotidiana nelle scuole aderenti;

• una maggiore disponibilità di frutta e verdura nei menù scolastici;

• una riduzione delle bevande zuccherate vendute

nei distributori automatici scolastici.

Ma l’effetto più duraturo è stato culturale: ha cambiato la percezione della salute, rendendola non più un fatto individuale, ma una costruzione comunitaria.

E oggi?

Nel 2025, la prevenzione torna al centro dei dibattiti scientifici e politici. Dopo la pandemia da COVID19, è chiaro che nessun sistema sanitario può reggere senza un’infrastruttura preventiva forte. Eppure, negli USA, la prevenzione è ancora la cenerentola della sanità:

• solo il 2,5% del budget federale sanitario è destinato a programmi di prevenzione e promozione della salute;

• molti dei programmi locali sono stati tagliati o decentralizzati, senza visione unitaria;

• il Dipartimento della Salute, sotto la guida di Kennedy Jr., ha ridotto al minimo il sostegno a campagne pubbliche basate su evidenze scientifiche.

In questo scenario, l’eredità di Michelle Obama è più preziosa che mai. I suoi progetti sopravvivono nelle comunità, nelle scuole, nei territori. Lì dove l’amministrazione federale ha arretrato, la cittadinanza ha continuato a coltivare prevenzione come atto quotidiano.

Prevenzione e politica

La prevenzione è oggi un atto politico. Significa decidere di:

• investire su bambini sani, invece che curare adulti malati;

• sostenere le scuole come luoghi di salute e non solo di istruzione;

• regolare la pubblicità alimentare anziché lasciare che siano le aziende a educare i bambini;

• promuovere stili di vita sani attraverso l’ambiente, l’urbanistica, la mobilità, la cultura.

Significa soprattutto prendere posizione contro una visione della sanità come bene privato e diseguale.

Michelle Obama non ha mai usato un tono ideologico, ma il suo messaggio era chiarissimo:

“Ogni bambino ha diritto a crescere sano. E questo diritto vale più del profitto di qualsiasi industria.”

Prevenzione e Planetary Health

Nel nuovo contesto della Planetary Health, la prevenzione non riguarda solo l’individuo, ma il pianeta. Ciò che mangiamo incide sul clima. Come ci muoviamo incide sulla qualità dell’aria. Dove viviamo incide sul nostro benessere.

Una dieta sana, una città camminabile, una scuola attenta alla salute sono oggi anche atti ambientali, democratici, futuri.

Per questo, rilanciare l’idea di prevenzione oggi significa riprendere in mano la lezione di Michelle Obama. Non per nostalgia, ma per necessità.

Perché una società che non investe sulla prevenzione non solo si ammala di più, ma diventa più ingiusta, più povera, più sola.

Obesi e poveri – 2025

La fame e l’obesità sembrano due fenomeni opposti. Eppure, sempre più spesso, si trovano negli stessi quartieri, nelle stesse famiglie, nello stesso corpo. Non è un paradosso, ma la conseguenza diretta di un modello alimentare e sociale distorto: si è poveri e obesi perché si mangia male non per scelta, ma per necessità. Perché il cibo industriale costa meno del cibo fresco. Perché è più facile accedere a una bibita gassata che a una spremuta. Perché nei supermercati dei quartieri marginali la frutta e la verdura sono rare, care, scadenti.

Negli Stati Uniti, questa dinamica è diventata sistemica. Secondo i dati 2024 dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), l’obesità infantile tocca punte del 45% nei quartieri a basso reddito. I bambini afroamericani e ispanici, spesso residenti in aree definite food deserts, sono quelli con l’accesso più limitato a una dieta sana.

Michelle Obama l’aveva capito fin dall’inizio. L’obesità non è solo un problema individuale o medico, ma un effetto collaterale della povertà e dell’ingiustizia alimentare. Per questo Let’s Move! non si è limitata a dire “mangiate meglio”, ma ha cercato di trasformare il sistema: incentivare la vendita di frutta e verdura nei quartieri disagiati, supportare i contadini locali, riformare i menu scolastici, creare orti urbani accessibili a tutti.

Nel 2025, questa connessione tra obesità e povertà è diventata ancora più evidente a livello globale. Le stesse dinamiche si ripetono in molti Paesi europei, compresa l’Italia. In alcune periferie urbane, la dieta dei bambini è dominata da alimenti ad alta densità calorica e basso valore nutrizionale. La crisi economica post-pandemica ha colpito le famiglie più fragili, e il costo dell’alimentazione sana è diventato una nuova barriera all’equità.

Il risultato è un’emergenza sanitaria trasversale, in cui:

• il cibo ipercalorico è l’unica opzione sostenibile per molte famiglie;

• l’attività fisica è scoraggiata dalla mancanza di spazi sicuri e gratuiti;

• l’educazione alimentare è assente o delegata a iniziative isolate;

• la cultura della salute è spesso percepita come “un lusso da ricchi”.

In questo contesto, l’esperienza americana offre un modello tanto semplice quanto rivoluzionario: ridare dignità al cibo. Coltivarlo, conoscerlo, cucinarlo, condividerlo. Farne un motore di giustizia sociale e non di discriminazione. Riconoscere che la povertà nutrizionale non si combatte solo con sussidi, ma con politiche strutturali, territoriali, comunitarie.

Anche in Italia, dove le disuguaglianze alimentari crescono, stanno emergendo esperienze virtuose: orti scolastici nei quartieri popolari, mense gratuite con prodotti locali, reti solidali che connettono piccoli produttori e famiglie vulnerabili. Sono segnali incoraggianti, ma ancora troppo fragili per ribaltare un sistema.

Perché la verità è che non basta sapere cosa fa bene: bisogna poterselo permettere.

E se oggi l’obesità è sempre più una malattia da povertà, allora la lotta per una società sana è la stessa lotta contro la povertà educativa, economica, ambientale.

Michelle Obama, con la forza di un gesto quotidiano come piantare un seme, ha dimostrato che l’accesso al cibo sano è una questione di giustizia.

E che nessun bambino – in America, in Italia, nel mondo – dovrebbe mai essere costretto a scegliere tra sazietà e salute.

Grasso metropolitano

Le grandi città americane – e non solo – sono diventate epicentri della crisi sanitaria moderna. Un tempo simboli di progresso, innovazione e opportunità, oggi molte aree urbane mostrano il volto più duro dell’emergenza alimentare e dello squilibrio tra stile di vita e benessere. È nelle metropoli che si concentra il cosiddetto grasso urbano: obesità, sedentarietà, inquinamento, isolamento sociale e disagio psicofisico. Un problema non solo di salute pubblica, ma di giustizia territoriale e ambientale.

Michelle Obama, già nel 2010, aveva capito che non si poteva parlare di obesità infantile senza guardare al contesto urbano. Non si ingrassa solo per scelta individuale: si ingrassa per povertà, per mancanza di alternative, per assenza di accesso a spazi sani.

Food desert e disuguaglianze urbane

In molte aree urbane degli Stati Uniti – quartieri periferici, sobborghi poveri, zone abitate prevalentemente da minoranze etniche – è più facile trovare un fast food che un supermercato.

Si parla di food desert, veri e propri deserti alimentari in cui:

• la frutta fresca è rara e costosa;

• il cibo ultra-processato è onnipresente, accessibile, conveniente;

• la pubblicità di snack e bevande zuccherate invade le strade, le scuole, i social media.

In queste aree, i bambini non solo mangiano peggio, ma vivono in ambienti che scoraggiano l’attività fisica: mancano parchi sicuri, marciapiedi percorribili, trasporti pubblici efficienti. Le palestre costano, i campi sportivi sono lontani, la strada è spesso un luogo pericoloso.

Il risultato è che la disuguaglianza alimentare e motoria si traduce in una disuguaglianza sanitaria precoce.

Lo spazio urbano come fattore di salute

Michelle Obama ha portato il concetto di prevenzione nel paesaggio urbano: ha promosso orti scolastici e comunitari, spazi verdi condivisi, mercati contadini nei quartieri popolari, camminate quotidiane verso la scuola, campagne per le piste ciclabili.

Ha insegnato che il modo in cui costruiamo le nostre città plasma il nostro corpo.

Se lo spazio urbano è ostile, anche la salute lo diventa:

• chi abita vicino a un parco ha una probabilità maggiore di muoversi regolarmente;

• chi ha accesso a un mercato agricolo locale ha una dieta più equilibrata;

• chi frequenta scuole con mensa sana, orto e attività motoria cresce con migliori indicatori cognitivi, relazionali e metabolici.

Il corpo, in città, non è mai solo biologico: è anche sociale e politico.

Città che reagiscono

Nel 2025, molte città hanno fatto della lotta al “grasso metropolitano” una priorità politica locale.

Negli Stati Uniti:

• New York ha espanso le iniziative GrowNYC con orti urbani e mercati in ogni borough;

• Los Angeles ha trasformato decine di scuole in poli di benessere integrato;

• Seattle ha reso obbligatoria l’educazione alimentare in tutte le scuole pubbliche.

In Europa:

• Amsterdam è diventata un modello per la riduzione dell’obesità infantile grazie a un piano olistico che unisce urbanistica, scuola, sport e comunità;

• Milano, Torino, Bologna investono in orti urbani, food policy locali, mense scolastiche “a km zero”;

• Barcellona promuove le superilles, isole pedonali multifunzionali in cui vivere e muoversi in salu-

Tutte queste esperienze, più o meno direttamente, sono figlie culturali di Michelle Obama: dell’idea che prevenzione e ambiente urbano debbano parlarsi, contaminarsi, camminare insieme.

Quando la città fa ingrassare

Il “grasso” metropolitano non è solo sul corpo: è nei ritmi imposti, nei cibi disponibili, nelle abitudini normalizzate. È nel tempo che manca per cucinare. Nei doppi turni lavorativi che lasciano solo il microonde. Nelle merendine usate come babysitter. Nei quartieri costruiti solo per le auto.

Michelle ci ha ricordato che il primo spazio di salute è quello in cui viviamo ogni giorno. E che cambiare la città è anche cambiare la salute collettiva.

Come disse in un discorso a Chicago: “Non possiamo chiedere ai nostri figli di mangiare meglio e muoversi di più, se intorno a loro tutto li spinge nella direzione opposta.”

Oggi, nel 2025, quelle parole sono un programma politico.

E coltivare orti nelle città è diventato, ovunque, un atto di rigenerazione sociale.

L’idea di Sanità di Obama

Quando Barack Obama si candidò alla presidenza, nel cuore di una crisi economica globale e sociale, dichiarò che una nazione che lascia ammalarsi i suoi cittadini e li abbandona non è una nazione libera, ma fragile. Era il 2008. Il sistema sanitario americano era già al collasso: 50 milioni di persone senza copertura, assicurazioni private che rifiutavano malati cronici, famiglie costrette a scegliere tra cure mediche e sopravvivenza quotidiana.

Con l’approvazione dell’Affordable Care Act (ACA) nel 2010, Obama tentò una delle più ambiziose riforme della storia americana. Non fu solo una legge. Fu una dichiarazione di principio: che la salute è un diritto, non un privilegio.

La filosofia della riforma

Il cuore della visione di Obama era semplice e potente:

• Universalismo progressivo: garantire la copertura sanitaria come base della cittadinanza moderna;

• Tutela delle persone vulnerabili: chi è malato, povero, anziano o precario deve avere diritto a cure di qualità;

• Focus sulla prevenzione: evitare la malattia prima che sia troppo tardi è non solo più etico, ma anche più sostenibile;

• Innovazione tecnologica e sociale: usare la digitalizzazione, la telemedicina e la sanità territoriale per avvicinare i servizi alle persone.

Per Obama, la sanità non era un “settore”. Era l’indicatore più forte della giustizia sociale di un Paese.

La sanità come strumento di eguaglianza

L’ACA ha introdotto cambiamenti strutturali:

• ha esteso la copertura a milioni di cittadini tramite

i mercati assicurativi pubblici;

• ha vietato alle compagnie di rifiutare la copertura a chi ha condizioni preesistenti;

• ha ampliato il programma Medicaid agli adulti a basso reddito in molti Stati;

• ha reso gratuite molte prestazioni preventive (vaccinazioni, controlli, screening);

• ha incentivato gli account sanitari individuali e la responsabilità condivisa tra Stato e cittadino.

Il tutto in un Paese dove, fino ad allora, malattia e povertà erano quasi sinonimi.

Il ruolo di Michelle: cultura e comunità

In parallelo, Michelle O bama lanciava Let’s Move! e il progetto dell’orto presidenziale. La sua battaglia contro l’obesità infantile era parte della stessa visione di giustizia sanitaria, ma partiva da un altro punto: la vita quotidiana, l’educazione, le famiglie, le abitudini.

Mentre Barack costruiva la casa della nuova sanità, Michelle ne arredava le fondamenta culturali. Il suo approccio integrava scuola, sport, alimentazione, comunità, e portava la sanità fuori dagli ospedali.

Insieme hanno tentato di unire strutture e culture, politica pubblica e relazioni personali, istituzioni e cittadini.

Le resistenze e gli attacchi

Fin dall’inizio, però, la visione di Obama ha incontrato una resistenza feroce. I repubblicani – per ragioni ideologiche, economiche ed elettorali – hanno definito l’ACA come “una forma di socialismo sanitario”. Sono seguite:

• oltre 70 tentativi di abrogazione in Congresso;

• casi giudiziari che hanno portato l’ACA fino alla Corte Suprema;

• tagli ai fondi federali sotto l’amministrazione

Trump;

• campagne mediatiche aggressive per ridicolizzare la riforma e screditarla.

Ma nonostante tutto, nel 2025 l’ACA esiste ancora, anche se ridimensionato. Ed è oggi la principale ancora di salvezza per milioni di americani.

Eredità e attualità nel 2025

Nel contesto odierno, con la nuova amministrazione Trump-Kennedy, l’idea di sanità pubblica è sotto attacco. Kennedy Jr., portatore di visioni anti-vax e anti-OMS, sta decostruendo l’impianto riformista degli anni Obama.

Eppure, l’idea originaria non è morta. Vive:

• nei 25 milioni di americani ancora assicurati grazie all’ACA;

• nei governi statali che ne difendono i principi;

• nei medici, nei pazienti, nelle famiglie che hanno toccato con mano la differenza tra prima e dopo.

Ma soprattutto, vive come modello per il mondo intero, perché ha dimostrato che:

• l’universalismo non è un’utopia, ma una possibilità concreta;

• la prevenzione può diventare una politica di sistema;

• la salute può unire le persone oltre le divisioni di partito, età, classe.

Una visione globale, non solo americana

L’idea di Obama ha ispirato anche oltreconfine:

• in Europa, ha rafforzato le strategie di sanità inclusiva;

• in Africa e Asia, ha sostenuto la cooperazione multilaterale in ambito vaccinale e pandemico;

• nelle istituzioni internazionali, ha dato slancio alla governance della Planetary Health.

Il messaggio è chiaro: una sanità giusta è il fondamento di una società giusta.

La lezione che resiste

Oggi, nel 2025, l’America è attraversata da nuove forme di polarizzazione. Ma la visione di Obama resta uno degli ultimi orizzonti credibili per un futuro sostenibile. In essa si ritrovano giustizia, efficienza, coesione e dignità.

E grazie anche a Michelle, questa visione è uscita dalla Casa Bianca ed è entrata nelle scuole, nei quartieri, nei cuori.

Come disse una volta Michelle, davanti a una platea di studenti:

“La riforma sanitaria non è solo per quando stai male. È perché tu possa stare bene ogni giorno della tua vita.”

Oggi, il compito di difendere e rilanciare quella visione è nelle mani di una nuova generazione di cittadini, operatori, educatori, amministratori.

E anche nei nostri.

La nuova grammatica dell’infanzia americana

Tra i meriti più profondi – e forse meno raccontati –di Let’s Move! c’è quello di aver riscritto la grammatica dell’infanzia americana.

Non con leggi, decreti o riforme scolastiche, ma attraverso una trasformazione silenziosa e quotidiana del modo in cui i bambini crescono, mangiano, si muovono, si relazionano.

Michelle Obama non ha solo cambiato ciò che i bambini mettono nel piatto. Ha cambiato il linguaggio della crescita.

E lo ha fatto parlando direttamente ai genitori, agli insegnanti, ai dirigenti scolastici, ai media, e soprattutto – con rispetto e intelligenza – ai bambini stessi.

Prima di tutto: ascoltare i bambini

Una delle intuizioni centrali di Michelle è stata questa: non si può insegnare la salute senza ascoltare i bambini.

I loro gusti, le loro emozioni, le loro paure, le loro routine.

Let’s Move! ha avuto successo perché:

• non ha imposto, ma ha coinvolto;

• non ha giudicato, ma ha mostrato alternative;

• non ha medicalizzato, ma ha umanizzato.

Ogni iniziativa partiva da una domanda: Cosa possiamo fare per aiutare i nostri figli a vivere meglio?

E questa domanda, così semplice, è diventata una nuova grammatica educativa.

La scuola come primo luogo di salute

Con Let’s Move!, la scuola è tornata ad essere un luogo di salute, non solo di istruzione.

Sono cambiate le parole chiave:

• da “compito” a “esperienza”;

• da “lezione” a “azione”;

• da “cibo” a “nutrizione”;

• da “educazione fisica” a “movimento quotidiano”.

Non più solo l’ora di ginnastica, ma:

• percorsi motori nei corridoi;

• orti didattici nei cortili;

• laboratori di cucina sana;

• giochi all’aperto integrati nel curriculum.

Questa grammatica educativa ha insegnato che il corpo è parte dell’apprendimento, e che la salute non si spiega: si vive.

Cambia il linguaggio in famiglia

Michelle ha saputo parlare anche alle famiglie.

Ha tradotto concetti complessi (obesità, metabolismo, micronutrienti) in parole accessibili.

Ha diffuso ricette semplici, strategie di spesa sana, attività domestiche condivise.

Ha detto ai genitori:

“Non è colpa vostra. Ma è vostra la possibilità di cambiare.”

E così ha contribuito a riscrivere il linguaggio familiare della cura:

• più domande e meno ordini;

• più attività insieme e meno proibizioni;

• più ascolto e meno imposizioni.

Ha spostato l’accento da “cosa non mangiare” a “cosa coltivare insieme”.

Da “evitare” a “scoprire”.

Da “regola” a “relazione”.

Un bambino sano non è un bambino perfetto

Una delle rivoluzioni culturali di Let’s Move! è stata umanizzare l’educazione alla salute.

Non bambini “modello”, non corpi standardizzati, non adolescenti ossessionati dal peso.

Ma bambini:

• consapevoli,

• attivi,

• curiosi,

• affettuosi con se stessi e con gli altri.

Michelle ha detto esplicitamente:

“Non vogliamo bambini magri. Vogliamo bambini che si sentano bene con sé stessi, che sappiano fare scelte, che conoscano il proprio corpo.”

Questa è la nuova grammatica dell’infanzia: una grammatica che non prescrive, ma costruisce significato; che non punta alla prestazione, ma al benessere; che insegna che ogni bambino ha il diritto di essere protagonista della propria salute.

Un’eredità fragile ma viva

Nel 2025, molti dei programmi scolastici ispirati da Let’s Move! sono stati ridimensionati o eliminati dal governo federale.

Ma in migliaia di scuole, quella grammatica è rimasta.

• Gli orti scolastici sono curati dai genitori e dai docenti volontari.

• I progetti di alimentazione sana sono sostenuti da fondazioni e associazioni locali.

• Gli insegnanti continuano a promuovere movimento, consapevolezza, empatia.

In alcune città – da Minneapolis a Oakland, da Baltimore a Portland – esistono interi distretti scolastici che usano il vocabolario costruito da Michelle.

E molti bambini cresciuti con Let’s Move! stanno oggi diventando educatori, nutrizionisti, amministratori.

Una grammatica da tradurre in altri paesi

Anche in Europa, Let’s Move! ha lasciato un’impronta. Molti programmi educativi – in Italia, in Francia, in Spagna – hanno adottato le stesse parole chiave:

• “Benessere a scuola”,

• “Mangia, muoviti, pensa”,

• “Ogni bambino vale”.

La sfida ora è tradurre quella grammatica nei diversi contesti culturali e sociali, senza perdere il suo spirito:

• comunitario,

• relazionale,

• partecipato.

Perché le parole contano

In sanità pubblica, spesso si parla di numeri, costi, indicatori.

Ma Michelle ci ha ricordato che la salute comincia dalle parole.

Dalle parole che diciamo ai bambini.

Dai nomi che diamo ai gesti quotidiani.

Dalle storie che raccontiamo sul corpo, sul cibo, sul movimento, sull’autostima.

“Ogni bambino ha diritto a parole buone sulla propria salute. E ha diritto a un adulto che le pronunci con cura.”

Michelle Obama

Una sfida globale

Nel 2025, il messaggio di Michelle Obama non appartiene più soltanto agli Stati Uniti. È diventato una traccia globale, un’ispirazione per governi, città, scuole e comunità in ogni continente.

La battaglia contro l’obesità infantile, la malnutrizione, la sedentarietà, l’ignoranza alimentare e la disuguaglianza sanitaria è diventata una sfida planetaria. E come tutte le battaglie mondiali, richiede una visione comune, un linguaggio condiviso, un’alleanza trasversale tra istituzioni, popoli, generazioni.

Quella piantata da Michelle alla Casa Bianca non è più solo una metafora americana. È oggi un simbolo planetario. Un orto che unisce culture, saperi, popoli. Una politica della cura, contro l’indifferenza e l’abbandono.

La salute globale tra pandemia e cronicità

Dopo la pandemia da COVID-19, il mondo si è risvegliato più consapevole.

Ha compreso che:

• i virus non conoscono confini;

• i sistemi sanitari fragili sono un rischio per tutti;

• la prevenzione non è un lusso, ma una necessità geopolitica;

• la cooperazione internazionale è indispensabile per tutelare la salute collettiva.

Ma allo stesso tempo, è esplosa un’altra pandemia silenziosa: quella delle malattie croniche non trasmissibili (obesità, diabete, ipertensione, depressione), che colpiscono oltre 1 miliardo di persone nel mondo e generano il 70% dei decessi globali.

E in molti Paesi a medio e basso reddito, oggi si convive con la doppia malnutrizione: denutrizione e obesità nello stesso nucleo familiare, nella stessa classe, nella stessa città.

La salute dei bambini come termometro della giustizia globale

I dati UNICEF e OMS del 2025 sono inequivocabili:

• oltre 340 milioni di bambini e adolescenti nel mondo sono in sovrappeso o obesi;

• quasi 150 milioni soffrono di arresto della crescita per malnutrizione cronica;

• nei Paesi a basso reddito, l’accesso a cibo sano è spesso più difficile che a cibo industriale ultraprocessato;

• in Africa e Asia, l’obesità sta crescendo più rapidamente che nei Paesi occidentali.

In molti luoghi, le multinazionali alimentari occidentali promuovono i loro prodotti nei villaggi rurali, sostituendo in pochi anni la cucina tradizionale con snack, bevande gassate e farine raffinate.

La salute dei bambini è così diventata uno specchio delle disuguaglianze globali, ma anche un campo di responsabilità condivisa.

Michelle e il linguaggio che unisce

Michelle Obama non ha mai parlato come una “esperta”. Ha parlato da madre, da educatrice, da cittadina. Questo è il motivo per cui il suo linguaggio ha superato i confini, le culture, le lingue.

• In Brasile, Let’s Move! ha ispirato i programmi scolastici contro la “obesidade infantil”.

• In Kenya, alcuni distretti scolastici hanno lanciato Grow and Learn basato su orti educativi.

• In India, si sperimentano Healthy Tiffin Programs nelle mense pubbliche delle scuole rurali.

• In Indonesia, le maestre hanno adottato l’approccio integrato “mangia, muoviti, racconta”.

Oggi, a Washington, Parigi, Nairobi, Città del Capo, Hanoi e Milano, si parla la stessa lingua: quella della salute come diritto e della prevenzione come atto educativo e politico.

La salute planetaria e l’“orto globale”

Nel 2025, il concetto di Planetary Health è ormai affermato. Significa che la salute umana è inscindibile dalla salute dell’ambiente.

• Un cibo sano deve essere anche sostenibile.

• La dieta è anche una scelta ambientale.

• L’inquinamento colpisce prima i bambini.

• L’accesso a spazi verdi è fattore protettivo contro obesità e depressione.

In questo scenario, l’orto simbolico di Michelle diventa un archetipo potente:

• Coltivare come gesto di educazione.

• Condividere il raccolto come pratica di comunità.

• Usare il cibo per parlare di rispetto, cultura, territorio.

Un vero e proprio orto globale da coltivare insieme, in cui ogni scuola del mondo diventa presidio di salute, biodiversità, giustizia e speranza.

Una diplomazia della salute

Il mondo ha bisogno di una nuova diplomazia: non solo militare o economica, ma sanitaria. Una diplomazia che:

• unisca Paesi diversi attorno alla promozione del benessere;

• metta al centro i bambini, le donne, gli anziani;

• riconosca l’educazione alimentare come diritto umano;

• finanzi programmi di prevenzione tanto quanto quelli ospedalieri;

• coinvolga le città, le università, le associazioni e la società civile.

Michelle, senza esserlo formalmente, è stata ambasciatrice di questa nuova diplomazia. Non ha stretto trattati, ma ha costruito ponti. Non ha parlato nei consessi dell’ONU, ma ha agito nei giardini delle scuole.

Perché è una battaglia di tutti

La battaglia mondiale per la salute dei bambini non si combatte solo con le leggi.

Si combatte:

• con ogni seme piantato in una scuola;

• con ogni merenda sana condivisa;

• con ogni parola di fiducia tra insegnante e alunno;

• con ogni comunità che resiste alla disuguaglianza, alla violenza del mercato, alla solitudine educativa.

“Non possiamo guarire il mondo da soli. Ma possiamo cominciare a nutrirlo. Bambino dopo bambino. Storia dopo storia. Pianta dopo pianta.”

Michelle Obama

Nel 2025, questa è ancora la sfida più bella da combattere. E più che mai, è una sfida mondiale.

Un modello da seguire anche in Europa

Quando Michelle Obama piantò il suo primo orto alla Casa Bianca, l’immagine fece il giro del mondo. Non fu solo una trovata americana. Fu un messaggio universale. Parlava alle città, alle scuole, ai quartieri popolari di ogni Paese industrializzato. E quel messaggio trovò, sin da subito, eco anche in Europa, dove le disuguaglianze alimentari, l’obesità infantile e la sedentarietà sono sfide sempre più presenti.

Nel 2025, quel modello – basato su alimentazione sana, movimento quotidiano, educazione precoce, comunità – ha messo radici anche nel vecchio continente, declinandosi secondo le specificità territoriali e culturali. In molti Paesi europei, sono nati e cresciuti programmi ispirati ai principi di Let’s Move!:

• In Francia, con la politique nutritionnelle scolaire integrata nel Piano nazionale nutrizione e salute.

• In Spagna, con gli huertos escolares ecológicos promossi dal Ministero della Transizione Ecologica.

• In Germania, con le iniziative delle Kindergarten-Gärten, gli orti nei nidi e nelle scuole dell’infanzia.

• In Belgio, con le politiche locali di mobilità scolastica attiva, che integrano salute, ambiente e autonomia dei bambini.

E in Italia, l’eco del messaggio di Michelle ha trovato una fertile cassa di risonanza. Negli ultimi dieci anni, sono cresciute esperienze di:

• orti scolastici come laboratori multidisciplinari e strumenti di inclusione;

• orti urbani e sociali nelle periferie delle grandi città, spesso gestiti da anziani, migranti o famiglie vulnerabili;

• progetti intergenerazionali che uniscono bambini, nonni, insegnanti e agricoltori;

• iniziative istituzionali, come il Piano Nazionale della Prevenzione e le Linee Guida sull’alimentazione scolastica redatte dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità.

Quello che emerge è una nuova consapevolezza euro-

pea: la salute non si costruisce solo nei centri sanitari, ma anche nei quartieri, nelle scuole, nei mercati, nei parchi.

Come in America, anche qui l’educazione alimentare è sempre più riconosciuta come elemento fondamentale per contrastare le disuguaglianze, promuovere l’inclusione sociale e combattere la povertà educativa.

L’Unione Europea, con i programmi come EU4Health e Farm to Fork, ha inserito nei suoi obiettivi strategici il miglioramento dell’accesso al cibo sano e sostenibile, la lotta all’obesità infantile e il rafforzamento dell’educazione alimentare. Tuttavia, le applicazioni concrete variano da Paese a Paese, e in molti casi mancano ancora una regia forte, un’integrazione tra politiche sanitarie, scolastiche e urbane, e un approccio partecipativo alla prevenzione.

È in questo scenario che il modello di Michelle Obama resta una guida preziosa. Non solo per i suoi contenuti, ma per il metodo:

• partire dalle comunità;

• coinvolgere famiglie, scuole, amministrazioni locali;

• agire sulla cultura del quotidiano;

• educare attraverso il fare.

Il messaggio è chiaro: non servono grandi riforme per iniziare, basta un seme, un gesto, un orto condiviso.

Nel 2025, l’Europa si trova di fronte a scelte decisive: crisi climatica, invecchiamento della popolazione, povertà infantile, stress urbano. L’idea di salute va ripensata. E in questa transizione, l’orto di Michelle può ancora indicare una direzione, non come replica di un modello americano, ma come ispirazione per coltivare una cittadinanza europea più sana, equa, sostenibile.

Come ha detto recentemente una giovane insegnante di Bari, intervistata in un progetto Erasmus su orti scolastici:

“Insegno ai miei alunni che piantare un pomodoro è come piantare una parola buona nel mondo. Prima o poi, darà frutti.”

U n’azione gentile che è diventata politica

Quando Michelle Obama piantò il primo seme dell’orto presidenziale nel giardino sud della Casa Bianca, nel 2009, non sembrava un gesto politico. Sembrava un atto intimo, familiare, educativo. Una madre che vuole insegnare alle giovani generazioni il valore della terra, del cibo, del tempo condiviso.

Ma oggi, nel 2025, possiamo dirlo con chiarezza: quell’azione gentile era politica. Profondamente politica.

Perché ha rimesso al centro del dibattito pubblico la cura.

E la cura, in una società che valorizza solo l’efficienza, la prestazione e il profitto, è una forma radicale di cambiamento.

La gentilezza come strategia trasformativa

Michelle ha scelto un registro raro: non la polemica, ma la proposta.

Non l’attacco, ma il coinvolgimento. Non la paura, ma la fiducia.

Ha usato il linguaggio della gentilezza per:

• rompere l’indifferenza istituzionale verso l’obesità infantile;

• smontare la retorica del “mangia quel che vuoi, basta che ti alleni”;

• sradicare lo stigma che colpisce i bambini sovrappeso;

• riconnettere il cibo al tempo, alla natura, alle persone.

Quella gentilezza non era debolezza. Era scelta consapevole, strategica, potente.

“La gentilezza è una forma di forza che non fa rumore, ma cambia tutto.”

Educare senza colpevolizzare

Uno degli elementi più innovativi dell’azione di Michelle è stato rifiutare ogni forma di colpevolizzazione.

Ha detto ai genitori: “Non è colpa vostra. Ma possiamo imparare insieme.”

Ha detto agli insegnanti: “Avete un ruolo centrale, anche se nessuno ve lo riconosce.”

Ha detto ai bambini: “La salute non è un peso: è un gioco, un diritto, una scoperta.”

In un’epoca di giudizi e classifiche, Michelle ha scelto l’empatia come metodo.

Ha rifiutato di contrapporre “giusto” e “sbagliato”, “grasso” e “magro”, “buono” e “cattivo”.

Ha sostituito queste categorie con altre: curioso, consapevole, attivo, amato, capace.

L’orto come gesto simbolico e istituzionale

L’orto presidenziale non è stato un vezzo. È stato un atto di discontinuità culturale.

• Ha introdotto il tema dell’alimentazione sana nel cuore del potere.

• Ha mostrato che la Presidenza può occuparsi anche della tavola dei bambini.

• Ha restituito valore al cibo come bene relazionale, non solo nutrizionale.

In quel piccolo appezzamento di terra, tra insalata, piselli, carote e zucche, è nata una nuova narrazione del potere: quella che dice che la politica può anche essere cura, semina, ascolto.

Politica della cura: il futuro delle democrazie

Nel mondo di oggi – segnato da guerre, crisi ecologiche, pandemie, disuguaglianze crescenti – la cura è la più urgente delle politiche.

Eppure è spesso ignorata, ridotta a faccenda privata, delegata alle donne, invisibilizzata nei bilanci.

Michelle ha ribaltato questa visione:

• ha fatto della cura un affare pubblico;

• ha dimostrato che coltivare un orto può valere quanto un decreto;

• ha mostrato che la salute si costruisce con le mani, non solo con i ministeri.

Ha anticipato – con gentilezza – una nuova idea di democrazia:

non solo rappresentanza, ma presenza. Non solo norme, ma relazioni.

L’azione gentile come atto di disobbedienza

In un contesto politico aggressivo e polarizzato, essere gentili è anche una forma di resistenza.

Resistere:

• all’odio mediatico;

• alla semplificazione violenta;

• alla logica del nemico;

• all’indifferenza verso i più piccoli.

Michelle ha disobbedito senza gridare.

Ha costruito alternativa piantando semi, non muri.

E ha mostrato che la tenerezza può essere un gesto rivoluzionario.

Un’eredità politica che continua a germogliare

Oggi, nel 2025, molte delle iniziative di Let’s Move! sono state smantellate dal go verno federale.

Ma la politica della cura lanciata da Michelle continua a vivere:

• nei distretti scolastici che tengono vivi gli orti comunitari;

• nei comuni che promuovono il benessere con fondi propri;

• nei pediatri che usano il linguaggio della comprensione;

• nelle madri, nei padri, negli insegnanti che scelgono la relazione invece della punizione.

Quella gentilezza, seminata con umiltà, è oggi una grammatica alternativa per la politica. E ci dice che non è necessario gridare per cambiare. È sufficiente ascoltare, accogliere, coltivare.

E ora?

In un mondo stanco, rabbioso, disilluso, la gentilezza può essere la nuova forma del coraggio.

E chi vuole ripensare la salute pubblica, l’educazione, l’inclusione, la sostenibilità, può trovare in Michelle Obama una guida.

Una donna che ha scelto di non comandare, ma di ispirare.

E che ci ha ricordato, con forza e dolcezza, che ogni gesto di cura è anche un gesto di cambiamento.

I l futuro della salute si decide da piccoli

Se c’è un messaggio che attraversa con chiarezza tutto il lavoro di Michelle Obama, è questo: non esiste salute futura se non si investe sull’infanzia.

Non è un’affermazione poetica, ma un dato scientifico, educativo, economico.

La letteratura internazionale, dall’epigenetica alla neuropsichiatria, dalla medicina pubblica alla sociologia, converge:

le prime fasi della vita sono determinanti per la salute a lungo termine.

Eppure, nel 2025, la maggior parte delle politiche sanitarie continua a guardare ai sintomi, non alle cause. Alle cure, non alle condizioni che rendono possibile o meno una vita sana.

Michelle ha capito prima e meglio di molti che il corpo dell’adulto comincia nella vita del bambino.

E che educare alla salute nei primi anni è l’unica vera forma di prevenzione sostenibile.

Tutto comincia da lì

• Le preferenze alimentari si formano nei primi 5 anni.

• La relazione con il cibo è prima affettiva che nutrizionale.

• Il movimento è una forma primaria di esplorazione e libertà.

• L’autostima corporea si struttura nelle esperienze precoci.

• Le abitudini familiari diventano routine interiorizzate.

Un bambino che mangia bene, si muove con gioia, si sente accolto e ascoltato costruisce una base biologica, emotiva e sociale per diventare un adulto sano.

Un bambino che vive nella carenza, nella passività, nell’ansia alimentare o nella sedentarietà forzata accumula fattori di rischio che esploderanno anni dopo,

spesso in solitudine.

Il futuro non si corregge: si semina

Troppe volte la sanità pubblica agisce in ritardo. Aspetta che l’adolescente diventi dipendente dal cibo o dal telefono.

Che l’adulto sviluppi diabete o ipertensione.

Che la donna incinta scopra che la sua alimentazione è stata sbagliata per decenni.

Michelle ha ribaltato questo approccio:

“Se aspettiamo che si ammalino, abbiamo già fallito.”

Ha fatto capire che prevenzione non significa solo screening, ma:

• dare un panino buono a merenda;

• lasciare tempo per giocare all’aperto;

• ascoltare un bambino che rifiuta il cibo senza punirlo;

• costruire ambienti sereni, stabili, non violenti.

Tutte queste cose sono medicina. Silenziosa, continua, efficace.

Le politiche per l’infanzia come politiche sanitarie

Uno degli aspetti più innovativi di Let’s Move! è stato considerare:

• la scuola come luogo sanitario,

• la mensa come spazio terapeutico,

• il gioco come strumento di prevenzione,

• l’educazione affettiva e alimentare come parte della salute pubblica.

Oggi sappiamo che un euro investito in prevenzione precoce rende almeno cinque volte tanto in termini di spesa sanitaria futura, produttività, benessere sociale.

Eppure, solo il 3-5% dei bilanci sanitari nei Paesi

OCSE è destinato a politiche per l’infanzia.

Bambini sani, società resilienti

Un bambino che cresce con consapevolezza corporea, abitudini sane, fiducia relazionale e accesso a spazi sicuri:

• sarà più capace di affrontare lo stress;

• svilupperà un miglior sistema immunitario;

• sarà meno esposto a dipendenze e malattie croniche;

• avrà migliori performance scolastiche e sociali;

• contribuirà a una società più empatica, meno medicalizzata, più equa.

La salute collettiva comincia da come trattiamo i più piccoli.

Un’infanzia fragile in un mondo fragile

Nel 2025, molti bambini crescono:

• in ambienti iper-digitalizzati, ma poveri di relazioni fisiche;

• in famiglie stanche, frammentate o sotto pressione economica;

• in città inquinate, rumorose, prive di verde;

• in contesti dove il cibo sano è costoso o lontano;

• in scuole dove il movimento è penalizzato e il tempo pieno è riempito solo di contenuti.

Il mondo adulto è ancora sordo ai bisogni profondi dell’infanzia.

Eppure, se vogliamo davvero immaginare un futuro in cui la salute sia equa, sostenibile, diffusa, dobbiamo tornare a guardare i bambini come priorità politica assoluta.

Michelle Obama: una pedagogia della salute

Michelle non ha fatto comizi. Ha fatto domande, laboratori, esperienze condivise.

Ha mostrato che insegnare la salute è anche un gesto d’amore.

E che ogni gesto – piantare un seme, cucinare insieme, ascoltare, muoversi, raccontare – è un mattoncino invisibile del futuro.

“Non stiamo solo riempiendo un piatto. Stiamo costruendo un mondo. Uno in cui ogni bambino sappia di contare.”

Nel suo approccio pedagogico c’è una lezione per medici, educatori, urbanisti, politici, genitori.

Una lezione da raccogliere, ampliare, replicare.

La posta in gioco: il domani

Il futuro della salute non si gioca tra ospedali e industrie farmaceutiche.

Si gioca nei primi anni di vita, nei parchi, nelle cucine, nelle aule, negli affetti.

Si gioca quando un bambino impara che muoversi è bello, mangiare bene è naturale, il proprio corpo è degno di cura e rispetto.

Chi investe nell’infanzia non costruisce solo salute. Costruisce pace.

I l corpo come spazio politico

Nel 2025, il corpo non è più – se mai lo è stato – un semplice dato biologico.

È uno spazio attraversato da poteri, disuguaglianze, relazioni, scelte pubbliche e private.

È un campo di battaglia e, al tempo stesso, un terreno di possibilità.

Chi lo abita, chi lo cura, chi lo educa, chi lo regola… sta facendo politica.

Michelle Obama lo ha capito prima di molti: quando ha parlato di obesità infantile, non stava solo parlando di peso, salute o alimentazione.

Stava dicendo qualcosa di più radicale:

“Il corpo dei bambini è lo specchio della società. E la società ha il dovere di proteggerlo, non di plasmarlo o abbandonarlo.”

Il corpo come riflesso della disuguaglianza

Negli Stati Uniti – ma anche in Europa e nel Sud globale – le condizioni del corpo raccontano la mappa delle diseguaglianze:

• chi nasce in un quartiere povero ha più probabilità di essere obeso o malnutrito;

• chi vive in una casa senza cucina o frigorifero mangia peggio;

• chi non ha accesso a spazi verdi si muove meno;

• chi non ha educazione alimentare si ammala prima;

• chi ha un corpo fuori dagli standard estetici dominanti subisce stigma e discriminazione.

Il corpo, dunque, non è mai solo privato. È un dispositivo pubblico.

Dice chi sei, dove vivi, quanto vali agli occhi del sistema.

Il corpo come terreno di resistenza

Proprio per questo, educare al corpo è anche un atto di liberazione.

• Un bambino che impara a conoscere il proprio corpo è meno manipolabile.

• Un adolescente che si sente accolto nel suo corpo è meno esposto al disagio.

• Una ragazza che sa muoversi con fiducia nel proprio spazio diventa meno vulnerabile alla violenza simbolica o reale.

• Un adulto che mangia con consapevolezza e senza vergogna ha più strumenti per resistere alla pressione del marketing tossico.

Michelle ha insegnato questo attraverso un approccio quotidiano e gentile: cucinare, camminare, seminare, giocare, mangiare, parlare non sono solo abitudini. Sono strumenti di autonomia.

Il corpo come oggetto politico e culturale

Nel 2025, il corpo è al centro di molte tensioni:

• tra salute pubblica e libertà individuale;

• tra prevenzione e controllo sociale;

• tra visibilità social e privacy;

• tra omologazione estetica e diversità;

• tra marketing commerciale e autodeterminazione.

In questo contesto, parlare di educazione corporea –come ha fatto Michelle Obama – è un gesto profondamente politico.

Vuol dire scegliere di riappropriarsi del corpo come spazio:

• di cittadinanza,

• di cura,

• di identità,

• di relazione.

Il corpo dei bambini come patrimonio pubblico

Michelle ha sempre parlato con chiarezza: “Quando guardiamo un bambino, non vediamo solo un individuo. Vediamo il futuro. E dobbiamo prendercene cura insieme.”

Il corpo di un bambino non appartiene solo alla famiglia o alla scuola. Appartiene, simbolicamente, alla collettività.

• È il luogo in cui si riflettono le scelte politiche sul cibo, l’aria, lo spazio, il tempo.

• È il bersaglio delle pubblicità, dei consumi, delle mode.

• È il primo “territorio” in cui il bambino impara cosa significa potere, libertà, diritto, limite, rispetto.

Educare al corpo significa allora educare alla cittadinanza.

Oltre la retorica della responsabilità individuale

Uno degli errori più gravi delle politiche sanitarie è scaricare sul singolo la responsabilità del proprio corpo.

“Mangia meglio.” “Muoviti di più.” “Non ammalarti.”

Come se le condizioni esterne – economiche, culturali, ambientali – non contassero.

Michelle ha ribaltato questa retorica: non ha parlato solo di scelte, ma di contesti, possibilità, giustizia.

Ha costruito ambienti favorevoli alla salute, non solo slogan.

Ha mostrato che un bambino non può mangiare bene se la mensa serve cibo scadente.

Che non può muoversi se la città è pericolosa. Che non può crescere sano se non viene ascoltato.

Politiche del corpo, politiche della cura

Nel mondo contemporaneo, la cura del corpo è un campo politico decisivo.

Lo è per:

• le donne, spesso invisibilizzate o oggettificate;

• i bambini, non ancora rappresentati ma già colpiti dalle disuguaglianze;

• le persone LGBTQ+, che lottano per il riconoscimento della propria identità corporea;

• le persone con disabilità, spesso escluse da ogni narrazione sul corpo sano e bello;

• gli anziani, la cui corporeità è rimossa, temuta, abbandonata.

Michelle Obama ha aperto la strada a una nuova nar-

razione del corpo come bene comune. Un corpo da coltivare, non da perfezionare. Da rispettare, non da standardizzare.

Il corpo come luogo politico della speranza

Infine, Michelle ci ha lasciato un’immagine potente: un gruppo di bambini, con le mani nella terra, che piantano lattughe nel prato della Casa Bianca. Quella scena non riguarda solo il cibo o la salute. È un atto di fiducia nel corpo e nel mondo.

È il corpo che si sporca, che apprende, che sente, che costruisce.

È la politica che diventa semina.

“Chi insegna a un bambino a prendersi cura del proprio corpo, gli sta insegnando anche a prendersi cura del mondo.”

E oggi, nel 2025, non c’è messaggio più urgente.

U na nuova forma di cittadinanza

Nel lavoro di Michelle Obama – e in particolare nel progetto Let’s Move! – c’è una trasformazione silenziosa ma radicale: quella dell’educazione alla salute come pratica di cittadinanza.

Un’idea semplice, ma rivoluzionaria:

“Se impari fin da piccolo a prenderti cura di te, del tuo corpo, di ciò che mangi, di come ti muovi… allora sei pronto a prenderti cura degli altri, della tua comunità, del tuo Paese.”

È così che la salute diventa politica democratica. Non solo un bene da ricevere, ma un’esperienza attiva, condivisa, che costruisce legami e responsabilità.

Oltre la salute: educare alla cittadinanza attraverso la cura

In un tempo segnato da disaffezione civica, polarizzazione, solitudine sociale, Michelle ha costruito un altro tipo di educazione civica, non fatta di lezioni frontali o di norme astratte, ma di:

• coltivazione collettiva;

• pasti sani condivisi;

• dialoghi tra generazioni;

• attività fisica come costruzione di comunità;

• rispetto del corpo come rispetto dell’altro.

Il messaggio era chiaro: la cittadinanza comincia nel quotidiano.

Nelle scelte alimentari, nei gesti di movimento, nelle parole con cui si parla ai bambini, nel modo in cui si cura chi è più fragile.

Un nuovo senso di appartenenza

La scuola dell’orto, la mensa sana, il laboratorio di cucina, il cortile che si trasforma in palestra… tutti questi spazi sono diventati luoghi in cui i bambini hanno sperimentato una nuova forma di appartenenza:

• non basata sul successo individuale, ma sulla partecipazione;

• non sul controllo, ma sulla consapevolezza;

• non sulla competizione, ma sulla collaborazione.

In questi ambienti, la salute è diventata un valore comune.

E chi cresce in questa cultura sviluppa una visione più ampia di sé come cittadino: attivo, consapevole, responsabile.

Il diritto alla salute come fondamento della democrazia

In molte democrazie contemporanee, il diritto alla salute è garantito sulla carta.

Ma nella pratica, è profondamente condizionato dal reddito, dall’istruzione, dalla provenienza geografica.

Michelle Obama ha messo il dito su questa contraddizione.

Ha detto:

“Ogni bambino, ovunque viva, ha diritto a crescere in un ambiente che gli permetta di diventare ciò che è destinato a essere.”

Non è solo una dichiarazione etica.

È un programma politico: perché una democrazia è tale solo se garantisce ai più piccoli gli strumenti per vivere bene.

La cittadinanza alimentare, motoria, affettiva

La nuova cittadinanza disegnata da Michelle è:

• alimentare, perché sapere cosa si mangia, da dove viene, come viene prodotto è un atto di coscienza civica;

• motoria, perché muoversi è diritto e dovere: per la salute, per l’ambiente, per la libertà;

• affettiva, perché imparare a rispettare sé stessi è la

base per rispettare gli altri.

Questa cittadinanza non ha partito, ma ha visione. Non ha ideologia, ma ha radici.

Non promette tutto, ma trasforma il quotidiano.

Le comunità come motore del cambiamento

Il modello di Michelle ha sempre valorizzato le comunità locali:

• genitori, insegnanti, allenatori, medici di base, amministratori scolastici;

• parrocchie, centri civici, associazioni sportive, piccole aziende agricole;

• municipi, biblioteche, mercati di quartiere.

Ha detto: “La cittadinanza si costruisce dal basso. Con le mani, non solo con le leggi.”

E ha mostrato che un Paese più giusto si crea scuola per scuola, pasto per pasto, passo per passo.

Dalla Casa Bianca al mondo

Questa visione ha ispirato anche molte città e governi all’estero.

A Parigi, Amsterdam, Milano, Bogotá, Melbourne… Let’s Move! è stato adattato, rilanciato, tradotto.

Ovunque, l’educazione alla salute è diventata anche educazione alla convivenza.

Nel 2025, mentre crescono nazionalismi e populismi, questa forma gentile e quotidiana di cittadinanza è più necessaria che mai.

Una cittadinanza che si prende cura del corpo e del pianeta.

Che include invece di escludere.

Che nutre invece di dividere.

Una politica della prossimità

In definitiva, Michelle Obama ci ha insegnato che la cittadinanza non si impara nei palazzi, ma nelle relazioni di prossimità.

• Dove si condivide un pasto sano.

• Dove si insegna a un bambino a correre, a prendersi cura di una pianta, ad ascoltare il proprio corpo.

• Dove si combatte la solitudine con gesti concreti.

E che ogni gesto di prevenzione è anche un atto democratico.

“Non possiamo cambiare il mondo da soli. Ma possiamo iniziare dalle nostre cucine, dalle nostre scuole, dai nostri orti. E da lì costruire un’America, un’Europa, un mondo più giusto.”

Michelle Obama

La lezione di Michelle

Nel 2025, il mondo è un luogo più fragile, ma anche più consapevole

Abbiamo vissuto una pandemia globale, visto crescere le disuguaglianze, affrontato crisi ecologiche e sociali che mettono in discussione ogni certezza. Eppure, in questo scenario instabile, la voce e la visione di Michelle Obama risuonano con forza e chiarezza.

Non come nostalgia, ma come lezione viva, attuale, politica.

Una lezione fatta non di slogan, ma di semi. Di esperienze. Di esempi. Di cura.

Una rivoluzione silenziosa

Michelle non ha mai urlato

Non ha cercato il potere

Non ha imposto, ma convinto

Ha costruito, giorno dopo giorno, una rivoluzione silenziosa che ha attraversato le famiglie, le scuole, le mense, le città.

La sua è stata una pedagogia della trasformazione, in cui il gesto più semplice – cucinare, coltivare, camminare, ascoltare – è diventato veicolo di giustizia, dignità, libertà.

La forza della coerenza

Michelle ha parlato di salute vivendola, in prima persona.

Ha mostrato che il cambiamento non parte dall’alto, ma dal basso. Dalla comunità. Dal quotidiano. E ha mantenuto fede a una convinzione profonda:

“Ogni bambino merita di crescere sentendosi importante, ascoltato, sano e parte di qualcosa.”

La sua coerenza ha fatto la differenza.

Non ha mai separato la parola dall’esempio, la cura dal contesto, la politica dalla vita.

Una politica femminile e radicale

Quella di Michelle è stata anche una nuova forma di leadership femminile:

• fatta di ascolto, ma anche di fermezza;

• di accoglienza, ma anche di visione strategica;

• di gentilezza, ma anche di decisione.

Ha mostrato che il prendersi cura è un atto rivoluzionario, e che le donne possono cambiare il mondo non imitandone i codici di potere, ma riscrivendoli. Con grazia. Con sostanza. Con coraggio.

Il lascito che ci interpella

Oggi, nel 2025, la lezione di Michelle ci lascia una responsabilità:

non limitarci ad ammirarla. Ma raccoglierla. E portarla avanti.

Perché Let’s Move! non è solo un programma finito: è un movimento da continuare.

• Ogni scuola che pianta un orto, la onora.

• Ogni famiglia che sceglie cibo sano e tempo condiviso, la segue.

• Ogni città che costruisce politiche di prevenzione e inclusione, la traduce nel presente.

Michelle ci ha insegnato che la politica più grande è quella che si prende cura dei più piccoli. E che la vera eredità non sono le parole, ma i gesti che restano.

L’eredità che diventa impegno

La sua lezione oggi ci chiede:

• Di non arrenderci alla disuguaglianza come destino.

• Di non accettare l’indifferenza come normalità.

• Di non considerare la salute un bene individuale, ma una responsabilità collettiva.

Ci chiede di continuare a camminare, coltivare, raccontare, educare.

Perché ogni seme ha bisogno di mani nuove per fiorire.

E in fondo, il messaggio è uno

“Non servono eroi. Servono persone che si prendano cura, ogni giorno, di chi sta crescendo.”

Michelle Obama

Ecco, questa è la sua lezione:

che si può cambiare il mondo partendo da un orto, da una scuola, da un bambino.

Che la gentilezza è più potente dell’indifferenza.

Che la salute è un diritto da difendere insieme.

Che ogni corpo conta.

E che ogni gesto di cura, se condiviso, diventa un atto di cittadinanza e di speranza.

La lezione di Michelle non è conclusa.

Sta solo aspettando di essere continuata. Da noi.

2025 un passo indietro

Nel 2025, gli Stati Uniti si trovano nel mezzo di una regressione sanitaria senza precedenti nella storia recente.

La promessa di una sanità più equa, inclusiva e preventiva, coltivata a fatica nei quindici anni precedenti, sta andando in frantumi. Ma questa non è solo una battuta d’arresto. È un’inversione profonda di rotta, che rischia di smantellare decenni di conquiste nel campo della salute pubblica.

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la nomina di Robert F. Kennedy Jr. come Segretario alla Salute hanno segnato l’inizio di una fase nuova e pericolosa: una sanità frammentata, ideologizzata, svuotata nei contenuti e nella visione.

Un passo indietro, insomma. Ma un passo che ci riporta verso il vuoto.

Una retorica populista che colpisce la salute

L’idea dominante nella nuova amministrazione è che lo Stato debba ritirarsi dalla vita dei cittadini, lasciando che il “libero mercato” e la “libera scelta” determinino ogni cosa, inclusa la salute.

Nel concreto, questo significa:

• smantellare i programmi pubblici di prevenzione,

• depotenziare la sanità federale,

• ridurre la regolamentazione alimentare e ambientale,

• privatizzare ciò che resta della medicina territoriale.

Il linguaggio utilizzato è ingannevolmente seducente: “meno burocrazia”, “più libertà”, “niente imposizioni”. Ma dietro queste formule si cela una rinuncia sistemica alla responsabilità collettiva.

La prima vittima: la prevenzione

Una delle prime azioni del nuovo governo è stata

l’abrogazione o il congelamento di decine di programmi federali attivi dal 2010:

• stop alle campagne pubbliche sull’obesità infantile;

• abolizione degli standard nutrizionali minimi per le mense scolastiche;

• chiusura dei programmi federali di supporto alla salute mentale scolastica;

• tagli al programma Fresh Fruit and Vegetable Program, che portava frutta e verdura nelle scuole primarie più povere;

• rimozione dell’obbligo di attività fisica quotidiana nei programmi scolastici statali.

Tutti questi interventi sono stati archiviati come “intrusioni nella libertà educativa dei genitori” o “sprechi federali”. Il risultato? Una generazione di bambini e adolescenti lasciata senza riferimenti, senza supporto, senza strumenti.

L’effetto domino sulle comunità

Il passo indietro federale ha effetti immediati sulle comunità locali, soprattutto quelle più vulnerabili:

• le scuole dei quartieri poveri non hanno più fondi per garantire pasti sani;

• i distretti scolastici licenziano i nutrizionisti e chiudono i laboratori di orticoltura;

• aumentano le assenze scolastiche legate a malattie croniche e disagio psichico;

• le famiglie a basso reddito tornano a dipendere dal cibo processato e dalle catene low cost.

La salute torna a essere un privilegio. Chi può, si organizza privatamente. Chi non può, scivola nell’invisibilità.

Il discredito della scienza e dell’educazione

Il passo indietro non è solo politico e amministrativo

È culturaleL’educazione alla salute viene ridicolizzata, associata a élite liberal, accusata di fare “propaganda ideologica”. I medici e gli operatori pubblici sono etichettati come burocrati o controllori sociali. Le famiglie che scelgono la prevenzione sono accusate di voler imporre modelli morali.

Nel frattempo, le industrie del junk food e delle bevande zuccherate ringraziano: con meno controlli, meno campagne pubbliche e più deregulation, tornano a dominare il mercato e la pubblicità, anche tra i più giovani.

Una regressione con effetti misurabili

In meno di un anno, si sono già registrati:

• un aumento dei tassi di obesità infantile nei quartieri vulnerabili del Midwest e del Sud;

• un calo delle vaccinazioni di routine tra i minori;

• un’impennata dei casi di diabete di tipo 2 in età scolare;

• una recrudescenza delle patologie legate a cattiva alimentazione e sedentarietà.

Tutto questo non è un effetto collaterale. È il frutto diretto di una regressione strutturale.

Un ritorno al passato in cui la salute era un affare privato, e l’abbandono una prassi istituzionale.

La voce di Michelle come memoria e resistenza

In questo contesto, la voce di Michelle Obama torna ad avere un valore profetico e politico.

Lei aveva previsto tutto: che la salute dei bambini sarebbe diventata terreno di scontro ideologico; che la prevenzione non avrebbe avuto vita facile; che educare significherebbe anche proteggere.

E oggi, ogni seme piantato nel White House Garden, ogni mensa scolastica riformata, ogni progetto educativo lanciato con Let’s Move! rappresenta un’eredità da custodire.

“La salute non è solo un diritto: è una promessa che facciamo ai nostri figli. E una promessa si mantiene, anche quando il vento soffia contro.”

Tornare a camminare insieme

Il passo indietro non è irreversibile. Ma serve una mobilitazione diffusa, sociale e politica. Serve che le comunità locali difendano i loro orti, i loro educatori, i loro progetti. Serve che gli insegnanti continuino a parlare di benessere. Che i pediatri resistano alle pressioni. Che le famiglie si alleino, si informino, si sostengano.

Perché la cura, anche quando non viene più sostenuta dallo Stato, può ancora essere coltivata dalla società. E quel passo indietro può trasformarsi, se affrontato insieme, in uno slancio per riprendere il cammino.

S tati U niti, il gigante dai piedi d’argilla

Nel mondo, gli Stati Uniti sono ancora considerati la più grande potenza economica e militare. Il Paese dell’innovazione tecnologica, dei campus universitari d’élite, delle startup miliardarie, della Silicon Valley e delle Big Pharma. Eppure, quando si guarda da vicino il sistema sanitario americano, quel gigante rivela tutta la sua fragilità strutturale.

Un gigante dai piedi d’argilla, appunto: costruito su contraddizioni, disuguaglianze e disorganizzazione. E oggi, nel 2025, questa fragilità è diventata un rischio sistemico per la coesione sociale, la sostenibilità economica e la stessa tenuta democratica.

Una sanità costosissima e iniqua

Gli Stati Uniti spendono più del 18% del loro PIL in sanità, per un totale di oltre 4.500 miliardi di dollari l’anno. Una cifra enorme, che non ha eguali nel mondo. Eppure:

• l’aspettativa di vita è inferiore rispetto a quasi tutti i Paesi OCSE (76,4 anni, in calo);

• i tassi di mortalità materna e infantile sono tra i più alti del mondo industrializzato;

• l’accesso alle cure è diseguale: milioni di persone non si curano perché non possono permetterselo;

• la salute mentale è in crisi, soprattutto tra i giovani, senza un sistema pubblico capillare;

• l’obesità colpisce più del 42% della popolazione adulta e oltre il 20% dei bambini.

In sostanza, il sistema sanitario americano non garantisce universalità, né equità, né efficienza. È uno dei pochi al mondo in cui ammalarsi può significare indebitarsi, o peggio, rinunciare a vivere.

Il cortocircuito dell’innovazione

Gli Stati Uniti vantano:

• i migliori ospedali accademici del mondo;

• la leadership nella ricerca biomedica e genomica;

• la produzione di farmaci all’avanguardia;

• un mercato farmaceutico in espansione globale. Eppure, tutto questo non si traduce in salute diffusa.

La scienza e l’industria corrono, ma la popolazione si ammala. La medicina di precisione cresce, ma la prevenzione di base scompare. L’intelligenza artificiale entra in sala operatoria, ma mancano pediatri nelle periferie.

È un sistema che eccelle nel salvare chi può pagare, ma abbandona chi avrebbe più bisogno. E che investe miliardi nella cura, ma quasi nulla nella prevenzione.

L’economia della malattia

Un altro paradosso: la malattia, negli Stati Uniti, è anche un grande business.

• Le assicurazioni sanitarie private prosperano su un mercato da oltre 1.000 miliardi di dollari.

• Gli ospedali funzionano come aziende, con logiche di profitto.

• L’industria del junk food e delle bevande zuccherate finanzia campagne politiche e media.

• Le disuguaglianze alimentano un ciclo vizioso di dipendenza, obesità, diabete, ansia e consumo farmaceutico.

Così, un sistema sanitario fondato sul guadagno privato genera, paradossalmente, più malattia che salute.

Le fratture interne

Nel 2025, l’America è anche un Paese spaccato in due:

• da un lato, Stati come California, New York, Massachusetts difendono sanità pubblica, prevenzione, educazione alimentare;

• dall’altro, Texas, Florida, Georgia tagliano i fondi

ai programmi di salute pubblica, abrogano le tutele per i fragili, promuovono deregolamentazione e privatizzazione.

Questa polarizzazione non è solo politica: è territoriale, culturale, sanitaria.

Un bambino che nasce in un quartiere povero di Atlanta ha aspettative di vita inferiori di 15 anni rispetto a un coetaneo di San Francisco.

La fiducia che crolla

Dopo la pandemia e le campagne antivax, la fiducia nella sanità pubblica si è deteriorata.

• Un numero crescente di persone ritiene che la medicina sia politicizzata.

• I dati scientifici vengono messi in discussione da fake news e influencer.

• Le istituzioni sanitarie (CDC, NIH, FDA) sono attaccate come strumenti di controllo statale.

La salute, da bene comune, è diventata un campo di battaglia ideologico.

E in questo clima, le soluzioni si fanno rare, la rassegnazione cresce.

La lezione di Michelle: piantare dove il terreno cede

In questo contesto di frattura e fragilità, la visione di Michelle Obama appare ancora più necessaria. Il suo messaggio – semplice, comunitario, quotidiano – è una forma di resistenza dolce ma radicale.

Con l’orto della Casa Bianca, con le mense scolastiche riviste, con le campagne nelle scuole, Michelle ha fatto un gesto di giustizia sociale: ha mostrato che è possibile seminare benessere anche nel terreno instabile di un sistema malato.

Ha ricordato che prevenzione, educazione, accesso al cibo sano, movimento quotidiano e comunità coesa sono già medicina. E che, anche quando i piedi del gigante vacillano, basta un orto per ridare equilibrio.

E ora?

Il sistema americano, così com’è, non è sostenibile. Né economicamente, né eticamente. Non si può reggere un modello in cui la salute dipende dal portafoglio, dal cap di residenza, dal partito al potere.

Serve una nuova visione. Serve ricostruire i piedi del gigante:

• investendo su scuola e prevenzione;

• rilanciando la sanità territoriale e pubblica;

• regolando le industrie che danneggiano la salute;

• restituendo fiducia alla scienza, alla cura e alla solidarietà.

E per farlo, possiamo ripartire dal messaggio più semplice di tutti:

“Chi coltiva, cura. Chi mangia bene, vive meglio. Chi si muove, respira. Chi cresce in una comunità sana, sarà un adulto più libero.”

L a battaglia sul sistema sanitario U sa

Negli Stati Uniti, la sanità non è mai stata solo una questione tecnica o amministrativa. È una vera e propria arena politica. È uno scontro ideologico, economico e valoriale che attraversa partiti, territori, classi sociali e generazioni.

Quando Barack Obama introdusse l’Affordable Care Act (ACA) nel 2010, lo fece con una visione precisa: rendere la salute accessibile a tutti, indipendentemente dal reddito, dal lavoro o dalla storia personale. Era il primo tentativo serio di costruire, negli Stati Uniti, un principio di universalismo sanitario.

Michelle Obama ne fu parte integrante, anche se il suo ruolo non fu legislativo ma culturale, educativo, simbolico. Let’s Move! integrava l’ACA portando l’attenzione sulla prevenzione, sull’infanzia, sugli stili di vita.

Ma da allora, ogni elezione nazionale ha rimesso in la struttura stessa della sanità americana.

Una riforma sotto assedio

L’Affordable Care Act ha permesso, in pochi anni:

• di coprire oltre 20 milioni di cittadini non assicurati;

• di introdurre obblighi per le compagnie assicurative, come la copertura per condizioni preesistenti;

• di espandere il programma Medicaid in molti Stati;

• di porre l’accento sulla prevenzione e le cure primarie.

Ma fin dal principio ha subito attacchi politici e giudiziari. La destra repubblicana ha tentato di abrogarlo o svuotarlo in più occasioni. Trump, durante il suo primo mandato, ha tagliato i fondi per la promozione dell’ACA, abolito l’obbligo di assicurazione e promosso piani alternativi meno protettivi.

Il ritorno di Trump: attacco totale alla sanità

pubblica

Nel 2025, con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, la battaglia sul sistema sanitario americano ha conosciuto una nuova radicalizzazione. La nomina di Robert F. Kennedy Jr. come capo del Department of Health and Human Services (HHS) ha rappresentato un cambio di paradigma:

• meno sanità pubblica, più mercato;

• meno prevenzione, più “libertà individuale”;

• meno scienza, più retorica populista.

In pochi mesi, l’amministrazione ha:

• ridotto i finanziamenti federali al Medicaid;

• incentivato i piani assicurativi privati ad alta deducibilità;

• interrotto molti programmi su salute mentale, alimentazione, promozione dell’attività fisica;

• bloccato gli investimenti in prevenzione e salute ambientale.

Il tutto in nome di una sanità “snella”, “efficiente” e “senza burocrazia”, ma in realtà più esclusiva, costosa e inaccessibile per milioni di cittadini.

L’esclusione come norma

La nuova linea politica considera la salute una responsabilità individuale, non un diritto collettivo. Chi non ha un’assicurazione valida è lasciato al proprio destino. Chi vive in uno Stato conservatore vede diminuire i servizi. I più colpiti sono:

• le famiglie a basso reddito;

• i lavoratori informali;

• gli immigrati e le comunità afroamericane e ispaniche;

• le donne e i minori transgender;

• i malati cronici e le persone con disabilità.

Nel 2025, negli USA, l’accesso alla salute è più che mai

determinato dal codice postale, dal portafoglio e dalla fortuna.

Un’America divisa anche sulla salute

Quello che si sta consolidando è un sistema sanitario a due velocità:

• negli Stati “blu”, più progressisti (California, New York, Illinois), si cerca di preservare l’ACA, investire su salute pubblica e prevenzione;

• negli Stati “rossi”, più conservatori (Texas, Florida, Alabama), si smantella ciò che resta del welfare sanitario.

La salute, come l’istruzione o l’aborto, è diventata una linea di frattura politica profonda. Non solo nei parlamenti, ma nella vita quotidiana: tra chi può permettersi cure, screening, supporto, e chi no.

La visione alternativa di Michelle

Di fronte a questa regressione, la visione di Michelle Obama appare oggi ancora più necessaria. Non si tratta solo di recuperare il passato, ma di rilanciare un modello in cui:

• prevenzione e cura siano parte della stessa strategia;

• la salute parta dalla scuola, dalla tavola, dal quartiere;

• il corpo non sia lasciato solo, ma accompagnato dalla comunità.

Michelle ha mostrato che si può fare politica sanitaria

parlando ai bambini, cucinando con le famiglie, camminando nei parchi.

Ha ricordato che la sanità non è solo infrastruttura, ma cultura.

E in un Paese che rischia di smantellare tutto, quella cultura è l’ultima infrastruttura rimasta.

P ericolosa transizione politica

Nel 2025, gli Stati Uniti stanno vivendo una delle fasi più delicate e instabili della loro storia sanitaria contemporanea. Non si tratta solo del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca o della nomina controversa di Robert F. Kennedy Jr. alla guida del Dipartimento della Salute. Si tratta di una transizione sistemica, ideologica e istituzionale, che rischia di smantellare non solo le strutture del sistema sanitario pubblico, ma la cultura stessa della salute come diritto collettivo.

Questa transizione non è più un semplice cambio di leadership. È una torsione profonda, un cambiamento di paradigma che mette in discussione le basi della sanità pubblica, della prevenzione e della cooperazione internazionale. E lo fa con strumenti democratici ma finalità regressiste, attraverso un uso mirato della propaganda, del taglio dei fondi, della manipolazione normativa e del discredito sistematico della scienza. Il paradigma della “discontinuità distruttiva”

L’idea guida della nuova amministrazione non è il miglioramento dell’efficienza, ma l’annientamento di tutto ciò che è stato costruito in precedenza. In particolare:

• ogni programma federale associato all’era Obama viene sospeso, riformulato o boicottato;

• l’Affordable Care Act viene svuotato attraverso tagli ai sussidi e incentivi ai piani privati;

• le agenzie federali (CDC, NIH, FDA) vengono ristrutturate, politicizzate, sottoposte a controllo ideologico;

• i fondi per la salute pubblica, la prevenzione e la cooperazione internazionale vengono quasi azzerati.

Robert F. Kennedy Jr., pur portando un nome evocativo, rappresenta una discontinuità radicale: negazionista pandemico, critico della medicina tradizionale, convinto della tossicità dei vaccini, ha trasformato il

Dipartimento della Salute in un’arena ideologica, più che in un’istituzione tecnica.

Il ruolo dei social e della disinformazione

Questa transizione è stata alimentata da un uso strategico dei social media, dove:

• i contenuti antivaccinisti, antiscientifici e antiglobalisti vengono rilanciati e normalizzati;

• gli operatori sanitari che difendono la sanità pubblica vengono attaccati come “burocrati di Stato”;

• le agenzie internazionali come l’OMS sono dipinte come corrotte e inefficaci.

La disinformazione è diventata parte strutturale della strategia di governo, con effetti devastanti:

• calo delle vaccinazioni pediatriche;

• aumento della sfiducia verso le campagne di prevenzione;

• riduzione della compliance terapeutica tra i pazienti cronici;

• delegittimazione della medicina basata su evidenze.

Una transizione che genera paura

Questa transizione non è neutra: genera insicurezza, sia tra i cittadini che tra i professionisti della salute. Gli effetti sono già visibili:

• medici e operatori sanitari lasciano la professione o si trasferiscono in Stati “blu” dove trovano più protezione e supporto;

• le università e le scuole di salute pubblica vedono ridursi i finanziamenti alla ricerca;

• i programmi locali di prevenzione, salute scolastica e alimentazione infantile chiudono o sopravvivono grazie a fondi privati;

• le famiglie tornano a dover scegliere tra curarsi o pagare l’affitto.

Si crea così una sanità a due velocità, ma soprattutto una società a due insicurezze: chi ha accesso a cure, informazioni e ambienti favorevoli, e chi è lasciato nell’ignoranza e nell’abbandono.

Lo smantellamento delle alleanze globali

Uno degli atti più simbolici e pericolosi della transizione è stato il ritiro formale degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con la motivazione che l’OMS è politicizzata, inefficiente, “succube della Cina”.

• Le conseguenze sono gravi:

• si interrompono i flussi di dati epidemiologici tra USA e resto del mondo;

• viene abbandonato ogni impegno multilaterale sulla risposta alle pandemie, alla resistenza antimicrobica e alle malattie croniche;

• si blocca il sostegno americano al Fondo Globale e ad altri programmi di salute nei Paesi poveri.

Questa uscita dalla cooperazione sanitaria internazionale segna un passo indietro storico per il ruolo globale degli Stati Uniti. E fa emergere un nuovo isolazionismo, anche sanitario, che rende il mondo più fragile.

Le città come contropotere sanitario

Di fronte a questa transizione pericolosa, le città e le reti civiche rappresentano l’unico contropotere concreto. In molte realtà locali:

• si difendono gli orti scolastici e i programmi di salute comunitaria;

• si finanziano con fondi propri mense scolastiche sane, educazione motoria e attività di promozione alla salute;

• si rilanciano alleanze tra Comuni, università, associazioni e fondazioni per costruire un nuovo modello di salute territoriale.

Sono questi gli spazi dove la cultura dell’equità, della prevenzione e del benessere – quella seminata da Michelle Obama – resiste, cresce e si rinnova.

Il rischio della rassegnazione

Ma il rischio più grande di questa transizione è la rassegnazione.

• La rassegnazione all’idea che la salute debba dipendere dal merito.

• Che la prevenzione sia un lusso da radical chic.

• Che la scienza sia sempre opinabile.

• Che lo Stato non possa o non debba occuparsi dei più fragili.

Ecco perché oggi, più che mai, serve una contro-narrazione forte, popolare, fondata sulla cura. Serve rilanciare il linguaggio di Michelle: semplice, accessibile, radicale.

“Ogni orto che resiste è un atto politico” Come ha scritto Michelle nel suo memoir:

“Quando un bambino coltiva un orto a scuola, sta già imparando che la sua salute conta, che il suo ambiente conta, che lui stesso conta.”

Ecco perché, nel mezzo di questa pericolosa transizione politica, la cultura dell’orto, della cura e della prevenzione è oggi una delle risposte più forti e democratiche che possiamo offrire.

Non una nostalgia, ma un progetto da rilanciare.

Non una memoria, ma una semina per il futuro.

C onclusioni

Quando nel 2009 ho avuto il privilegio di incontrare Michelle Obama alla Casa Bianca, ho capito che quell’orto non era solo un gesto educativo o ambientale. Era un’idea politica, culturale, sociale. Un’idea di bene comune.

In un’epoca in cui tutto sembrava privatizzato – la salute, il tempo, persino il cibo – l’orto della Casa Bianca restituiva a tutti noi un messaggio diverso: che la salute è un diritto condiviso, che la prevenzione è un progetto collettivo, che la comunità è una risorsa da coltivare.

Nel 2025, questo messaggio è ancora più necessario. Viviamo un’epoca segnata da crisi interconnesse: pandemia, cambiamento climatico, malattie croniche, instabilità geopolitica. È il tempo della Planetary Health: la consapevolezza che la salute umana non può più essere separata dalla salute degli ecosistemi, delle città, dei sistemi alimentari, dei rapporti sociali. La salute –come la speranza – è un ecosistema.

Anche per questo, nella mia esperienza come Presidente dell’International Public Policy Advocacy Association a Washington D.C., ho avuto modo di toccare con mano quanto queste sfide non siano solo “temi sanitari”, ma questioni politiche, economiche e civili, decisive per il futuro delle democrazie. La promozione della salute non è più (se mai lo è stata) competenza tecnica per pochi. È ormai un terreno di confronto internazionale, di governance multilivello, di diplomazia, di advocacy.

Ed è in questo scenario globale che l’orto di Michelle assume un nuovo significato. Diventa un’icona di ciò che serve oggi: una visione concreta, sostenibile, inclusiva della salute. Non basta più pensare alla prevenzione in termini individuali. Serve coltivare un nuovo “orto globale”, fatto di:

• politiche alimentari e ambientali integrate,

• educazione alla cittadinanza planetaria,

• riduzione delle disuguaglianze sanitarie,

• costruzione di comunità resilienti.

L’orto non è più solo un gesto pedagogico. È un microcosmo politico. È bene comune da proteggere. È simbolo di una responsabilità condivisa tra generazioni, territori e culture.

In questo senso, il libro che avete tra le mani è molto più di un aggiornamento. È un invito a ricominciare. A partire dai gesti semplici. A costruire relazioni. A pensare in grande, ma agire nel concreto. A seminare, anche quando il terreno sembra ostile.

E infine, è un tributo a chi ha creduto fin dall’inizio nella forza di questo racconto. A Mario Pappagallo, con cui ho scritto la prima edizione, e che oggi non è più qui. La sua voce, il suo rigore, la sua etica professionale sono parte viva di queste pagine. A lui, questo libro è dedicato.

Perché coltivare un orto – come raccontare la salute –è un atto di fiducia.

E oggi più che mai, abbiamo bisogno di fiducia condivisa per costruire il domani

P ostfazione

Giunti alla conclusione di questo volume monografico possiamo pensare che Federico Serra, profondo conoscitore delle questioni geopolitiche, e da sempre impegnato a sviluppare i temi in materia di sanità, abbia voluto rendere tributo a una donna, Michelle Obama, a un’iniziativa, l’orto della Casa Bianca, o un momento memorabile vissuto in prima persona da guardare oggi con le lenti della malinconia. O, rimanendo in superficie, potremmo liquidare il contenuto di Urbes a una questione che riguarda ogni cittadino americano, una metafora che può dire qualcosa anche a noi ma fino a un certo punto perché in fondo dati, informazioni e modelli rappresentati sono quelli degli Stati Uniti d’America. Possiamo liquidare il tutto così, ma sarebbe un grande errore.

Personalmente ho letto il contenuto di questo volume come un appello a prendere posizione, senza indugio.

Nel mondo caratterizzato dalla polarizzazione cui siamo esposti dai nuovi media, dove la tribalizzazione digitale ha ormai preso il sopravvento sul confronto razionale, questo volume chiede a chi ha la pazienza di leggere e il desiderio di approfondire e verificare, di stare da una parte o dall’altra: conta ancora il senso della parola o conta di più la violenza con la quale essa viene pronunciata? In un ciclo relazionale dove la verità sembra essere sempre negoziabile e non frutto di elaborazione del metodo scientifico, in un’epoca in cui dire il vero o affermare il falso sembra essere divenuto un dettaglio perché quello che conta è l’effetto del discorso e non la fondatezza, richiamare i valori dell’orto di Michelle è una chiamata alla responsabilità. Questo volume, così lo leggo, è un atto politico, e dichiara con grande semplicità cosa vuole realizzare: una diga contro l’involuzione che rischia di rendere invivibile il nostro pianeta.

Questo volume è un monito. Per tutti. Il suo contenuto è un sostanzialmente un atto politico, perché così come il gesto della first lady americana è un richiamo alla ge-

nerosità, alla solidarietà, all’impegno per i bambini. C’è un atto politico più forte del compiere qualcosa che vada in favore delle nuove generazioni? Non sono loro che rappresentano tutto il futuro al quale abbiamo il dovere di offrire risposte?

E non può destare sorpresa che quel seme piantato da Michelle Obama oggi abbia bisogno di incubare tra le pagine di un volume italiano: Barack Obama, scrive Serra nella sua introduzione, con l’Affordable Care Act (ACA) del 2010, puntò a un obiettivo: rendere la salute accessibile a tutti, indipendentemente dal reddito, dal lavoro o dalla storia personale. I nostri padri costituenti lo stesso principio lo inserirono sessantadue anni prima all’articolo 32 della nostra Costituzione, che riconosce la salute come “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività”. Di tutti gli individui. Vollero mettere nero su bianco questo enorme patrimonio culturale in un Paese distrutto dalla guerra, consapevoli che avrebbero generato un modello di servizio ai più fragili non immediatamente esigibile; ma era a quello che la politica doveva tendere.

Quel seme piantato nel 1948 era già una pianta quando la legge n. 833 del 23 dicembre 1978 diede vita al Servizio Sanitario Nazionale, fondato esplicitamente su universalità, con l’accesso alle cure garantito a tutti i cittadini, senza distinzione di reddito, ceto, residenza o status lavorativo; uguaglianza: ogni persona ha diritto a ricevere le stesse prestazioni e con la stessa qualità, indipendentemente dalla propria condizione; solidarietà: i costi del sistema sono sostenuti dalla fiscalità generale, secondo il principio “chi ha di più contribuisce di più, chi ha bisogno riceve”; prevenzione e promozione della salute: il SSN non è solo un sistema di cura, ma anche di educazione alla salute e prevenzione delle malattie.

In Italia, dal 1948, leggi e valori etici, in tema di tutela della salute, hanno sempre vissuto sotto lo stesso cielo. In un rapporto rafforzato dal patto tra politica e

Ora, negli Stati Uniti il vento dell’antiscienza ha trovato nuova forza in un circolo di plurimiliardari che possono acquistare qualsiasi cura sia stata inventata. Ma per loro stessi, per quell’io che sembra essere l’unica cosa che gli interessa davvero. È come se i signori che governano le più grandi piattaforme tecnologiche fossero riusciti a manipolare i bisogni, convinto il popolo che uguaglianza e solidarietà sono parole per persone deboli. Hanno allontanato il domani parlando ogni giorno di nemici immaginari, costruiti a tavolino, del tutto inesistenti. Sono riusciti a inoculare la paura della scienza, negando i prodigi che hanno invece allungato la vita di tutti. Così nei primi anni del secolo scorso il nemico era il virus; adesso, dopo avere debellato mezza dozzina di malattie prima mortali, il nemico è il vaccino. Oggi quello che dice un ricercatore supportando con dati replicabili il frutto di anni di laboratorio è vero quanto un post social scritto da un imbecille senza neppure una vera identità. È con questa furia che hanno distrutto l’orto di Michelle.

È questo il terreno di scontro dove Federico Serra lancia la sua speranza, ripresa “dalla gentilezza che diventa forza” di Michelle Obama.

La battaglia per la verità scientifica è oggi anche una battaglia per la democrazia. Non c’è democrazia dove il potente combatte il povero invece di combattere la povertà, negando che povertà e malattia siano due condizioni strettamente correlate: la povertà condanna alla malattia che, in assenza di tutele, condanna alla morte e alla nuova, o maggiore, povertà di intere famiglie.

Urbes riprende l’orto di Michelle per ricordarci che non c’è giustizia dove la salute è riservata ai ricchi. In Italia, grazie ai nostri nonni, ai nostri padri, abbiamo spalle che ancora reggono. Ancora. Per il momento. In questi anni abbiamo avuto un ministro medico come Orazio Schillaci, prima rettore e prima ancora preside di facoltà, uomo di buon senso, e non un no vax che non sa di cosa parla. La rete del servizio, costruita intorno a uno straordinario personale sanitario, regge ma mostra cenni di evidente logoramento. In tutto il mondo, anche in Italia, abbiamo quindi bisogno di riprendere l’orto di Michelle come simbolo di resistenza gentile ma ferma, un’azione educativa e politica insieme.

Una metafora concreta per chi vuole difendere la salute non come prestazione ma come relazione, non come merce ma come bene comune, non come costo ma come investimento.

In un tempo in cui tutto sembra delegato all’algoritmo e alla performance, Urbes riprende Michelle, non c’è Italia, America, c’è il mondo, c’è l’azione di piantare un seme per educare un bambino, proteggere un paziente, c’è da praticare questi atti sovversivi di solidarietà dove regna il più arido egoismo. È affermare, con Michelle, che ogni bambino ha il diritto di crescere sano, ogni anziano ha diritto a essere curato con dignità, ogni cittadino ha diritto alla verità, alla scienza, alla cura.

Il nostro futuro è tutto qui.

Alcune considerazioni

Recentemente, ho avuto il privilegio di essere invitato a partecipare ad un incontro porte chiuse a Londra da parte Royal Institute of International Affairs, comunemente noto come Chatham House, che è un centro studi britannico, specializzato in analisi geopolitiche e delle tendenze politico-economiche globali.

Tra i più accreditati think tank a livello mondiale prende il nome dall’edificio dove ha sede a St. James’s a Londra; inoltre ha dato origine alla cosiddetta Chatham House Rule, la regola convenzionale che disciplina la confidenzialità, in relazione alla fonte di informazioni scambiate nel corso di discussioni in riunioni a porte chiuse.

Sin dalla sua fondazione, Chatham House opera sotto il patronato del monarca regnante del Regno Unito. L’attuale amministratore delegato è Sir Simon Fraser, mentre il direttore è Bronwen Maddox.

Nella struttura di governance sono presenti tre presidenti, uno per ciascun partito politico presso il parlamento britannico, al fine di garantire l’indipendenza e la neutralità sulle questioni di politica internazionale; attualmente ricoprono la carica l’ex-primo ministro John Major, l’ex-direttore generale dell’MI5 Eliza Manningham-Buller e l’ex-Primo ministro della Nuova Zelanda Helen Clark.

Oltre agli studi oggetto delle pubblicazioni nelle varie discipline, Chatham House ospita frequenti e regolari conferenze con interventi di personalità di alto livello in ambito politico, economico e sociale dal mondo intero.

Un invito di alto valore che aveva l’obiettivo di discute su Health as economic catalyst - leveraging inclusive healthcare for growth and competitiveness

Nel portare il mio contributo al dibattito, mi è venuto in mente l’esperienza fatta nel 2009 alla Casa Bianca e come nel contempo il mondo e la percezione di cosa bisogna fare per la salute globale sia cambiata e oggi purtroppo sia soggetta soprattutto negli USA a profonde modificazioni e la consapevolezza di come quel “sogno” di Barack e Michelle Obama non deve andare disperso e come l’Obamacare, pensata per consentire a milioni di cittadini americani di accedere a un’assicurazione sulla salute, indipendentemente dal reddito, dall’età o dalle patologie, attraverso cure mediche universali finanziate dalla fiscalità generale, sia messa in pericolo e che le diseguaglianze socio-sanitarie in tutto il mondo sono in aumento.

Di seguito voglio condividere con i lettori di URBES, il mio intervento il 15 Maggio presso il Royal Institute of International Affairs, nella consapevolezza che bisogna mantenere viva l’attenzione sul tema della salute come bene comune .

Un’immaginazione che non si limiti a riprodurre esperienze passate, ma che sia creativa, costruttiva e visionaria – capace di costruire futuri che oggi ancora non esistono.

Credo che questo Think Tank – e tutti noi, nei nostri rispettivi ruoli – possa e debba diventare strumento di questa trasformazione.

Tuttavia, oggi dobbiamo affrontare anche un’altra minaccia grave e concreta: la scienza è sotto attacco. In diverse parti del mondo, forze politiche stanno minando l’expertise, smantellando istituzioni di ricerca, sostituendo le politiche basate sulle evidenze con l’ideologia.

Negli Stati Uniti, si sta riscrivendo la storia. I vaccini salvavita vengono descritti come pericolosi. I ricercatori sono demonizzati. Le istituzioni scientifiche indebolite, i finanziamenti congelati, il personale licenziato, le agenzie sanitarie smantellate.

La disinformazione è dilagante, danneggia la ricerca interna e le collaborazioni internazionali.

L’erosione della credibilità scientifica minaccia la salute globale, la coesione sociale e la democrazia stessa.

Noi, come comunità scientifica e politica, non possiamo restare passivi.

L’Europa – che ha già affrontato e superato i periodi più oscuri del secolo scorso – ha oggi la responsabilità di guidare.

Deve difendere e riaffermare il principio delle politiche fondate sulle prove.

Se gli Stati Uniti si ritirano dalla leadership scientifica globale, tocca all’Europa farsi avanti.

Ma difendere la scienza richiede azioni concrete:

I governi devono garantire per legge l’autonomia delle istituzioni di ricerca.

Le università devono offrire rifugi sicuri agli scienziati minacciati.

La comunità scientifica deve riconquistare il proprio ruolo come fonte affidabile di conoscenza e orientamento per le politiche pubbliche.

La posta in gioco non potrebbe essere più alta.

La scienza non è solo scoperta: è la base del progresso, delle decisioni informate, della salute collettiva.

Se permettiamo che venga smantellata, il prezzo sarà pagato in vite umane, disperazione e degrado delle istituzioni democratiche.

Adesso è il momento di difendere la scienza.

Adesso è il momento di difendere la salute, le persone e il pianeta.

Il nostro futuro dipende dalla capacità di lottare non solo per la tecnologia, ma per la verità, la speranza e il bene comune sostenibile.

Agiamo con coraggio.

Guidiamo con immaginazione.

E costruiamo insieme un mondo in cui salute, scienza e solidarietà siano le fondamenta di un domani migliore per tutti. Grazie.

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