Numero 2 (31 gennaio)

Periodico della Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia

Quattrocolonne

Sgrt Notizie - Anno XXVII N. 2 - 31 gennaio 2018

L’Umbria dei borghi bella e… impossibile Tra tranquillità e spopolamento vivere qui è spesso difficile

Trasimeno, un equilibrio precario

Luca e Gianni chi resta e chi torna

La satira, da Giano all’università di Yale

Uno dei borghi abbandonati in Umbria

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Come dare un futuro alle meraviglie umbre Nonostante il calo demografico il cuore verde punta sulla bellezza

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A livello di guardia

La salute del Trasimeno è buona ma la siccità ha messo a rischio l’ecosistema del quarto lago d’Italia

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Rimaste a secco Una stagione senza piogge ha ridotto il foraggio mettendo in ginocchio gli allevamenti

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Quando il borgo diventa famiglia

A Poggidomo gli abitanti resistono per non tradire le radici

Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo

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Proteste da Montegabbione a Città della Pieve. Quando i bilanci e il diritto alla salute non combaciano

Presidente: Antonio Bagnardi Direttore della Scuola: Antonio Socci Coordinatori didattici: Luca Garosi – Marco Mazzoni

Quattro Colonne SGRT Notizie

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Anno XXVII – numero 2 – 31 gennaio 2018 Registrazione al Tribunale di Perugia N. 7/93 del marzo 1993 Segreteria: Villa Orintia Carletti Bonucci – Via G. Puccini, 253 06134 Ponte Felcino (PG) Tel. 075/5911211 – Fax. 075/5911232 e-mail: segreteria@centrogiornalismo.it – http://www.centrogiornalismo.it Spedizione in a.p. art.2 comma 20/c – legge 662/96 Filiale di Perugia Stampa: Italgraf – Perugia

Viaggio al centro della terra L’Università di Perugia scopre il magma sotto l’Appenino che causa alcune scosse

In redazione Pietro Adami, Giulia Bianconi, Francesco Bonaduce, Michele Bonucci, Nicola Campagnani, Nicolò Canonico, Andrea Caruso, Alessandro Catanzaro, Gabriele D’Angelo, Marina de Ghantuz Cubbe, Elena Frasconi, Gabriele Genah, Chiara Jommi Selleri, Beatrice Manca, Cristiana Mastronicola, Stefania Moretti, Camilla Orsini, Serena Riformato, Selene Rinaldi, Irene Roberti Vittory, Davide Serusi, Chiara Sivori, Paolo Sparro, Elena Testi

Chi resta e chi torna Le storie di Luca e Gianni innamorati dell’Umbria

Periodico della Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia Direttore responsabile: Antonio Socci Redazione degli allievi della Scuola a cura di Gabriella Mecucci

L’ospedale della discordia

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C’era una volta il grande calcio Il Perugia dei miracoli raccontato da Ilario Castagner

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Frigidaire, 38 anni di cultura alternativa Da Giano dell’Umbria a Yale storia della rivista di satira italiana

Come dare un futuro alle “meraviglie” umbre Ci sono il calo demografico e l’isolamento ma “la bellezza salverà” il cuore verde d’Italia

«U di

DAVIDE SERUSI

@davideserusi

nica nel centro Italia a non essere toccata dal mare, egualmente distante dall’Adriatico e dal Tirreno, dalla Lombardia e dalla Calabria, l’Umbria si distingue dal resto d’Italia per il suo essere regione isolata, il che ne costituisce, a un tempo, il limite e la forza». Così Maria Laura Della Croce descrive il cuore verde d’Italia, nell’apertura del suo libro «I tesori dell’Umbria». Una fotografia dolce con qualche tonalità di scuro che dipinge questa piccola regione bella e impossibile.

Che cos’è oggi l’Umbria? Una terra che non ha perso la bellezza, la grazia e una certa atmoQuattrocolonne

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sfera con quel senso romantico e spirituale. Pregi che al tempo stesso non possono mascherare le sfumature negative dei piccoli centri che anno dopo anno si stanno spopolando. Ma per fortuna ci sono le storie di chi ha deciso di restare e di tornare, dicendo no alla vita di città e preferendo il senso di libertà. Così in Umbria il bello e il brutto si intrecciano: nel silenzio dei vicoli abbandonati come Poggiodomo (80 abitanti) emergono la bellezza e il fascino degli stessi. Dal 2010 la regione ha perso quasi 20mila abitanti, con un trend sempre più negativo negli ultimi anni. «I borghi dell’Umbria non hanno futuro – racconta Bar-

bara Alberti, scrittrice e giornalista nata a Umbertide – è una regione che rischia di diventare il paese dei balocchi. È chiusa in se stessa, isolata e senza mare, caratteristiche che si riflettono sul modo di vivere degli abitanti. Assisi è il rovescio della medaglia: è la città cosmopolita per eccellenza, c’è tutto il mondo».

Il dato più allarmante sullo spopolamento riguarda i giovani in fuga: negli ultimi cinque anni è andato via il 10,4% dei ragazzi, il 2% in più della media nazionale.

Così nei borghi rimangono portoni e finestre chiuse, di case ormai acquistate da francesi, inglesi, americani e tedeschi. Da una parte gli stranieri che vengono per investire, per appropriarsi di terre e casolari, dall’altra quelli che arrivano in Umbria per disperazione e che vedono nell’Italia una speranza, un posto dove rinascere. «A Perugia c’è una vasta popolazione di stranieri che adesso si è integrata – spiega Barbara Alberti – ormai fanno i mestieri che gli italiani hanno dimenticato come falegnami e idraulici. Quelli che ci sono da più tempo e che hanno avuto fortuna sono dei veri e propri borghesi».

Secondo gli ultimi rapporti Istat e Caritas-Migrantes, il 40% degli stranieri che si trovano in Umbria lavora, segno di una regione votata all’accoglienza e non solo per necessità. Il 16% di loro è impiegato nel settore delle costruzioni, il 14% nell’industria, il 10% nell’agricoltura e il 56% in altri servizi. Sono dunque una risorsa, un’opportunità per l’economia e rappresentano un valore aggiunto nell’università per stranieri di Perugia, un unicum nel panorama academico. Nel 2015 le iscrizioni di studenti stranieri sono aumentate del 31%. L’ateneo perugino è un’eccellenza del nostro Paese e recentemente ha dato un contributo molto importante alla ricerca scientifica, scoprendo il magma sotto l’Appennino che causa le scosse di terremoto.

Lo studio, realizzato dal dipartimento di Fisica e Geologia, apre nuovi scenari sul tema delle fragilità del territorio.

Quel territorio umbro che ultimamente si è riscoperto debole, provato dalle scosse che hanno messo in ginocchio la Valnerina, mentre i cambiamenti climatici e la siccità stanno spegnendo il lago Trasimeno, che tra maggio e ottobre 2017 ha perso quasi settanta centimetri di acqua. A complicare la situazione del quarto bacino più grande d’Italia si aggiunge anche il problema dell’inqui-

namento. La mano dell’uomo ha contribuito al calo della pesca pari al 70%.

La scorsa estate ha ridotto in polvere anche la terra degli agricoltori. La stagione senza piogge ha dimezzato la produzione di foraggio. Un danno economico rilevante: 60 milioni di euro. E anche l’anno nuovo non promette bene.

E dal nuovo anno si aspettano risposte gli abitanti di Montegabbione, piccolo comune di 1200 abitanti, vicino a Terni.

Dal 1 marzo 2017 il vicino ospedale di Città della Pieve è stato chiuso, ora la sanità dista circa 40 minuti. Tanti, troppi. E se in questi borghi sopravvivere è difficile, ecco che se viene a mancare

Alberti: «Gli umbri sono chiusi in se stessi, isolati e senza mare. È il loro carattere! la sicurezza è impensabile che ci possa essere un futuro.

L’isolamento è un altro dei problemi irrisolti in questa regione. Arrivarci senza un mezzo proprio diventa un’impresa: l’aeroporto viaggia a servizio ridotto, con alcuni voli attivi soltanto d’estate, le tratte dirette dei treni si contano sulle dita di una mano costringendo i viaggiatori a una via crucis di stazioni e fermate tra i paesini, con l’unica consolazione di un veloce e verde panorama.

Anche il calcio ha smesso di regalare le emozioni di una volta. Lontani i tempi del Perugia di Ilario Castagner, leader della prima squadra italiana nella storia del pallone a chiudere imbattuta il campionato di serie A, sfiorando la vittoria dello scudetto nel 1979. La mancanza di soldi, passione e progetti imprenditoriali ha ridimensionato i sogni dei tifosi del Grifo, relegato in serie B e senza ambizioni.

Ed in questo girovagare di “bello e impossibile”, come cantava Gianna Nannini, c’è tempo per sorridere e scoprire la Repubblica di Frigolandia, a Giano dell’Umbria. Qui ha sede Frigidaire, la rivista culturale che da 38 anni fa satira, quella che per Ennio Flaiano «ci solleva dalla mediocrità e dal grigiore». Q Quattrocolonne

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Il canneto tipico del lago Trasimeno; sullo sfondo, l’isola Polvese

A LIVELLO DI GUARDIA La salute del Trasimeno è abbastanza buona, ma tra siccità, incuria e scelte sbagliate, il suo delicato ecosistema è costantemente a rischio

C di

NICOLÒ CANONICO

@nikcanonico

CHIARA SIVORI

@aravi25

’è un rapporto millenario tra il Trasimeno e la gente che abita lungo le sue rive: sul fondale sono stati ritrovati reperti risalenti al medioevo, all’antica Roma, e addirittura delle palafitte dell’Età del Bronzo. Ma sul lago, oggi, l’equilibrio tra uomo e natura è molto fragile.

La scorsa estate si è parlato a lungo degli effetti che il riscaldamento climatico, con annesso calo delle piogge e aumento delle temperature, ha avuto sulle sue acque: tra maggio e ottobre 2017 il Trasimeno ha perso quasi settanta centimetri, sfiorando il metro sotto lo zero idrometrico.

Le variazioni, anche significative, del livello del lago non sono una novità, ma negli ultimi cinquant’anni il segno meno è stato quasi sempre una costante. È una condizione potenzialmente molto pericolosa: il Trasimeno è quello che gli studiosi chiamano “lago laminare”, un insieme di stagni e paludi che nel corso dei millenni si Quattrocolonne

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sono uniti tra loro, fino a formare uno specchio d’acqua unico, molto esteso (è il quarto lago più grande d’Italia) ma anche poco profondo. «Il volume d’acqua è molto ridotto rispetto a quello degli altri grandi laghi italiani, e questa caratteristica lo rende particolarmente esposto agli sbalzi di temperatura e alla scarsità di piogge», spiega Ermanno Gambini, un geografo dell’Università di Perugia che ha studiato per anni l’evoluzione del lago. «Considerato che nei suoi punti più profondi raggiunge al massimo sei metri, basta una variazione minima per mettere a rischio l’ecosistema». E l’intervento dell’uomo ha fatto il resto. «Alla fine dell’Ottocento il problema era opposto a quello che abbiamo oggi, tanto che si era addirittura pensato di prosciugarlo del tutto», racconta Gambini. «Il Trasimeno esondava spesso, quindi i proprietari dei terreni intorno al lago decisero di deviare tutti i ruscelli che sfociavano nel bacino e di costruire dei canali artificiali

Le barche dei pescatori del Trasimeno ormeggiate nel porticciolo di San Feliciano

per far calare il livello dell’acqua». Così facendo, il Trasimeno ha perso tutti i suoi immissari naturali, e oggi la sua profondità dipende unicamente dalle piogge.

Il Trasimeno è sotto osservazione anche per la qualità delle sue acque. L’ultimo rapporto di Goletta dei Laghi, l’iniziativa di Legambiente che analizza il tasso di inquinamento degli specchi d’acqua dolce italiani, traccia un profilo in chiaroscuro. «Rispetto ai laghi del Nord Italia, il Trasimeno ha una presenza di microplastiche molto inferiore», dice Lucia Coscia, biologa che si è occupata dello stato di salute del Trasimeno. È senza dubbio un dato positivo, ma ci sono comunque delle criticità. «Ci preoccupa la presenza di batteri fecali vicino ai centri abitati: vuol dire che gli impianti di depurazione non funzionano sempre come dovrebbero, e che probabilmente ci sono degli scarichi abusivi».

UN RAPPORTO COMPLICATO La tutela dell’ecosistema non è solo una questione di rispetto dell’ambiente, ma anche di protezione delle attività economiche che dipendono da esso. Negli ultimi anni il lago è diventato una meta molto richiesta, soprattutto dagli stranieri: d’estate campeggi, ristoranti e alberghi

si riempiono di turisti belgi, tedeschi e olandesi affascinati dalla bellezza del paesaggio. Prendersi cura del lago è fondamentale per continuare ad attirare i visitatori e permettere all’economia dei centri che si affacciano sulle sue rive di crescere.

Ma la salute delle acque del Trasimeno è cruciale anche per un altro genere di attività, molto più antica del turismo e simbolo del legame profondo tra il lago e l’uomo: la pesca.

Per secoli, le acque del Trasimeno hanno ospitato un numero ridotto di specie, come il luccio, la tinca e l’anguilla; poche, ma di grande valore commerciale. Anche in questo caso, tuttavia, l’intervento dell’uomo ha messo in pericolo la loro sopravvivenza. L’inserimento nel lago di “pesci alieni”, fatto in modo incontrollato, allo scopo di aumentare il pescato, ha finito per danneggiare l’attività dei pescatori. A creare problemi è specialmente il carassio, un pesce originario dell’Est Europa che da qualche anno si è moltiplicato in modo esponenziale, spodestando la più delicata – e più pregiata – tinca. «Ormai le nostre reti si riempiono di carassi, i pesci di una volta sono sempre più rari», racconta Valter Sembolini, amministratore della Cooperativa Pescatori del Trasimeno. «Il problema è che questo pesce non è molto buono da mangiare, Quattrocolonne

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quindi non ci si guadagna quasi niente a venderlo». Secondo Valter, oltra alla competizione con specie più aggressive, i pesci autoctoni devono vedersela con i cambiamenti climatici: «Un lago con il livello basso è meno pescoso, e nel 2017 i pesci pregiati sono calati del 70%. Se quest’anno non piove, sarà un disastro». A mettere a rischio la sopravvivenza dei pesci tipici c’è anche l’incuria delle sponde del lago. «Ormai molti terreni sono abbandonati, nessuno si occupa più di pulire le rive», fa notare Valter. A subire le conseguenze dell’incuria dei terreni agricoli è soprattutto il canneto, che un tempo circondava quasi completamente il bacino del lago e che faceva da rifugio e da “culla” per i piccoli pesci.

Come se non bastassero cambiamenti climatici, siccità, pesci alloctoni e mancanza di manutenzione delle sponde, i pescatori devono affrontare anche una piccola “calamità piumata”. «Tra

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ottobre e marzo vengono a svernare sul lago circa seimila cormorani», spiega Mauro Natali, ittiologo del Centro Ittiogenico del Trasimeno, una struttura che si occupa di ripopolare il lago di pesci autoctoni. «Questi uccelli sono una specie protetta a livello europeo e ciò ha causato un boom demografico». In un anno, i cormorani fanno “sparire” quasi 25 quintali di pesce, riducendo ulteriormente il pescato.

Nonostante le mille difficoltà, c’è però chi continua a credere in una vita sulle rive del lago.

«I giovani si stanno riavvicinando alla pesca: prima nella cooperativa c’erano solo persone anziane, mentre oggi l’età media è di circa quarant’anni. È dura, ma si riesce comunque a guadagnarsi il pane, nonostante i cambiamenti del Trasimeno negli ultimi anni. Dopotutto, non è il lago che si deve adeguare alle nostre esigenze, ma siamo noi a doverci adeguare al lago». Q

Il Centro Ittiogenico di S. Arcangelo In difesa della fauna locale

’arrivo nel Trasimeno di pesci “alieni” ha rivoluzionato l’equilibrio della fauna locale, mettendo a repentaglio la sopravvivenza delle specie autoctone. Nel lago sono presenti diciotto tipi diversi di pesce, di cui solo cinque sono locali (la tinca, l’anguilla, il luccio, il cavedano e la scardola). Per tutelare le caratteristiche uniche degli animali acquatici, a Sant’Arcangelo nel 1985 è nato il Centro Ittiogenico del Trasimeno. Il Centro si occupa di ripopolare il lago con i pesci che fino a qualche decennio fa “dominavano” le sue acque, come la tinca e il luccio. È stata proprio l’esigenza di reintrodurre quest’ultima specie a dare il via al progetto: il luccio, che alla fine degli anni ‘80 era quasi scomparso, è un predatore fondamentale per tenere sotto controllo il numero degli altri pe-

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sci, dato che si nutre degli esemplari più deboli. «Facciamo nascere i piccoli lucci in vasche protette, poi li liberiamo nel lago», racconta il dottor Mauro Natali, che da anni lavora al Centro Ittiogenico. Oltre al luccio, il Centro immette nel lago anche la tinca e l’anguilla.

«Ormai l’anguilla non è più in grado di raggiungere il Trasimeno in modo naturale», spiega il dottor Natali. «Si riproduce in mare, poi risale verso i laghi e i fiumi: dato che ormai non ci sono più emissari o immissari, l’unico modo per non farla scomparire è allevarla nelle nostre vasche». Il Centro Ittiogenico alleva anche delle specie che non sono originarie del lago ma che non sono dannose e sono considerate ottime per la pesca: in particolare la carpa, introdotta nel 1710 dal lago di Bracciano per volontà del barone Ancajani.

RIMASTE A secco Una stagione senza piogge ha ridotto il foraggio La siccità mette in ginocchio gli allevamenti

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ono le nostre Ferrari del latte». Matteo Pennacchi mostra con orgoglio la stalla dove sessanta mucche da mungitura sono placidamente intente a mangiare fieno, la loro preziosa benzina. Con la testa smuovono la biada in superficie, per arrivare alle parti più gustose. Ogni vacca ha bisogno di consumarne almeno venti chili al giorno. Azienda agraria Bolli, Bettona, metà gennaio. Il foraggio scarseggia in modo allarmante. «Non siamo riusciti a produr-

ne abbastanza, la siccità ci ha colpito duramente».

Complice l’insolito caldo dell’ultimo anno.

L’allarme era stato già lanciato a luglio, nel mezzo di un’estate bollente. La Coldiretti Umbria già allora aveva stimato danni economici per 60 milioni di euro. Diminuzione delle rese di grano e orzo, ma soprattutto dei foraggi. Sette mesi dopo la situazione è addirittura peggiorata. Secondo l’osservatorio agro climatico del Ministero per le politiche agricole (Mipaaf), nel 2017, nel Quattrocolonne

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PIETRO ADAMI

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polmone verde d’Italia si sono registrate temperature massime superiori di 2,2 gradi sulla media climatica. Impressiona il dato delle precipitazioni: meno 29%.

L’inizio del 2018 non promette bene. Nei primi dieci giorni di gennaio le massime erano superiori alla media di 4,2 gradi. Un caldo anomalo che, secondo Coldiretti, «ha pesanti effetti sui cicli della natura, sull’agricoltura e sull’allevamento».

«Per sopperire alla mancanza di fieno, siamo dovuti andare a comprarlo fuori dall’Umbria. Così è più difficile conoscere e controllare la qualità del foraggio» spiega Pennacchi, di professione agronomo. L’azienda Bolli ha a disposizione 150 capi.

«Nascono e crescono da noi». L’accurata selezione è genetica, attraverso l’inseminazione artificiale.

La nutrizione avviene solo con prodotti naturali.

«Nell’ultimo periodo è stata diffusa una cattiva informazione sugli allevamenti – sostiene Pennacchi – è passata l’immagine dello sfruttamento intensivo e dell’abuso di farmaci. Cerchiamo invece di garantire al meglio l’alimentazione, dopotutto determina un ritorno positivo anche per noi: meglio stanno gli animali, meglio producono». L’azienda fa parte della cooperativa Grifo latte, che vende prodotti caseari e latticini con il bollo dell’alta qualità. Sono 16 le aziende del territorio collegate tra

Vincenzo Testi, allevatore della “Testi fratelli e figli” Quattrocolonne

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loro nella produzione del latte. Tutte sono state danneggiate dalla siccità, soprattutto in termine economici. L’alimentazione può influire anche del 60% sui costi di gestione di un allevamento.

«Quest’anno la resa del foraggio è stata molto bassa, almeno il 50% in meno». Si è rassegnato ai cambiamenti Vincenzo Testi, allevatore dell’omonima azienda a Collestrada. Anche la Testi fratelli e figli fa parte del consorzio della Grifo latte. Siamo a Collestrada, al confine tra la zona industriale e la campagna. Attorno, la distesa di campi brulli fa dimenticare la vicinanza alla città. Un trattore fa avanti e indietro tra la stalla e il casolare dove è stipato il fieno. Come tutti gli allevatori della zona, anche loro risentono della stagione secca. «Non so sinceramente come mai il clima sia impazzito», ammette Testi. Sulle cause non ha invece alcun dubbio Coldiretti: «Siamo di fronte agli effetti dei cambiamenti climatici».

La speranza degli allevatori è ora affidata alla volontà politica di limitare i danni. La Regione dovrebbe destinare i fondi europei stanziati per l’agricoltura per coprire le spese aggiuntive per il foraggio. Garantendo così il futuro degli allevamenti locali. Dove le uniche a non preoccuparsi, per il momento, sembrano le vacche, razza frisona, alle prese con il consueto pranzo a base di fieno. Q

QUANDO il borgo diventa famiglia A Poggiodomo gli abitanti resistono per non tradire le radici Senza negozi e senza servizi ma c’è chi riparte da qui

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i notte, da lontano, è un fascio di lanterne sospese sui Sibillini: 106 abitanti all’anagrafe, una trentina effettivi e quasi tutti anziani, Poggiodomo è il più piccolo comune umbro per popolazione. Quaranta chilometri quadrati con tre frazioni: Mucciafora, Roccatamburo e Usigni. A Usigni, distaccata di qualche curva dal nucleo del comune, vive da sola la signora Antonietta. Come i suoi avi prima di lei, alleva mucche di razza pezzata rossa.

Fino al 1930, Poggiodomo aveva circa 1100 abitanti. «Dagli anni ‘50, con il boom economico, se ne sono andati tutti» dice Emilio Pantaleoni, 74 anni. L’occupazione, già allora, era fuori: «All’età di 11-12 anni si andava a lavorare, quasi sempre nei negozi di Roma, spesso dei Norcini o comunque di gente del circondario». Come una transumanza di sola andata, la maggior parte di quelli che hanno lasciato Poggiodomo per cercare miglior fortuna, l’ha fatto senza guardarsi indietro. Alcuni, però, sono rimasti legati alle origini e

ripopolano temporaneamente il borgo sulla valle del Tissino, durante l’estate. C’è chi però a Poggiodomo è tornato per non andarsene mai più.

Come Fabrizio Piergentili, che ha 81 anni e del paese è anche la memoria storica, precisa e lucida: «Sono stato a Roma e a Perugia, dove facevo il portalettere. Poi sono tornato a casa e ho detto: qui sono nato e qui voglio morire». Ricorda bene la Poggiodomo del dopoguerra, quando i terreni intorno al comune, ora coperti di boschi, erano coltivati a farro, fagioli, all’ombra degli alberi di noci. E intorno il bestiame punteggiava i pascoli: «Feci le medie portando i libri in mezzo alla neve e alla pastorizia», dice Fabrizio.

Ora è inverno e il centro del paese è un quadrilatero irregolare in cui il tempo viene scandito solo dal tocco delle campane. Sulla piazza, le saracinesche chiuse per sempre dell’unico e ultimo bar del paese affiancano un edificio con il cartello “Affittasi” e sopra – un po’ più ottimista – “Vendesi”. A Poggiodomo non c’è un bar di paese, non Quattrocolonne

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STEFANIA MORETTI

@Stefanietty

SERENA RIFORMATO

@serenarifor

Nella pagina accanto: una veduta del comune di Poggiodomo

In alto: Fabrizio Piergentili, 81 anni, memoria storica del paese In basso: Roberto Agrestini, 40 anni, unico imprenditore del borgo

un barbiere, un panificio, l’alimentari o il meccanico. La sede delle poste riapre tre volte a settimana grazie a funzionari che vengono da fuori. La scuola di paese pluriclasse ha chiuso negli anni ‘90, quando non c’erano più alunni a cui insegnare. Persino il sindaco, Egildo Spada, in realtà vive a Roma. Mentre Emilio racconta, un clacson ripetuto rompe il silenzio: «Ecco, adesso è passato il camioncino che ci porta la spesa settimanalmente. Quando ero ragazzino io c’erano tre negozi alimentari».

Il camioncino arriva ogni venerdì alle 15. La coppia di ambulanti che gestisce questo piccolo minimarket itinerante parte ogni mattina da Cerreto di Spoleto, dove hanno un negozio. Le tappe sono abituali: Ponte, Roccatamburo, Mucciafora, Poggiodomo e Rocchetta. «È una cosa tramandata: ci veniva mio cognato, mio suocero», spiega la giovane donna che conosce il nome di tutti i suoi clienti. Di molti previene persino le richieste («e le mele, no?»): sa già cosa prenderanno.

L’unica attività commerciale nel comune è l’agriturismo “I Trocchi” di Roberto Agrestini, il più giovane in paese con i suoi 40 anni. O almeno così era prima della nascita di suo figlio, 22 mesi fa.

Quella di Roberto è la storia di un ritorno alla terra. Una parabola inversa, rispetto al padre che, da qui, si trasferì a Roma, dove Roberto è nato e cresciuto; per inseguire il futuro, ha puntato tutto sul passato: nel 2003 il casale di famiglia a Poggiodomo è diventato un agriturismo da sette camere più piscina. Senza quel lavoro che lo occupa mattina e pomeriggio, tra agnelli, farro, lenticchie e pecorino di produzione propria, Roberto non saprebbe stare qui: «A Poggiodomo si sta bene solo se hai qualcosa da fare». Ci voleva un giovane imprenditore per sovvertire il dogma secondo cui chi non è pensionato, qui, si mantiene solo con l’agricoltura. Mentre tutti abbassavano la saracinesca, lui investiva.

Roberto ha una fibra forte: «Quest’anno è andata un po’ meno bene del solito per il terremoto, ma piano piano ci rialziamo». Il segreto per non annoiarsi, dice, è non rinchiudersi in questi 40 chilometri quadrati: «Ho amici a Norcia, Cascia, Spoleto.

Poggiodomo, in fondo, può essere pensata un po’ come la periferia di una città: se la vita e i servizi sono al centro bisogna per forza spostarsi un po’».

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Tutti gli abitanti si interrogano sul destino del borgo, qualcuno si rimbocca le maniche per non lasciarlo morire. Nel 2013, dalle energie di Rina, Meri, Loredana e altri è nata l’Associazione per Poggiodomo, un concentrato di iniziative per riunire la comunità. L’associazione non esisteva ancora quando Rina ebbe la sua idea più bella: realizzare un corteo storico con costumi e attrezzi della tradizione contadina. «Non avevo mai cucito in vita mia – racconta Loredana Piergentili, una delle bambine di Poggiodomo trasferitesi altrove negli anni Sessanta con la famiglia – mia sorella Rina, che è innamorata del paese, non mi ha dato altra scelta: o cuci o cuci. E così, in tre, ci siamo ritrovate a raccattare vecchie coperte e a farne vestiti per 80 persone, noi paesani che avremmo sfilato più i tanti turisti che affollano Poggiodomo d’estate».

Dai Sibillini al profondo sud: il corteo storico di Poggiodomo ha sfilato Norcia, Torreorsina (Terni), Antrodoco (Rieti) e perfino a Erice (Trapani).

La prima edizione, ad agosto 2012, fu una festa per tutto il borgo, come le altre che seguirono fino all’ultima, la notte prima del terremoto che devastò il centro Italia.

Poggiodomo o si ama o muore: per Rina, che al suo amato paese torna ogni fine settimana, il “capitale umano” può fare la differenza. «La ricchezza di Poggiodomo siamo noi, se ci impegniamo a valorizzarlo. Stare qui è rigenerante: c’è un’altra qualità della vita e dei rapporti umani. Non abbiamo bar?

Chi l’ha detto? Non diventa forse un bar la mia casa, quando ci troviamo tutti insieme qui davanti a un caffè?».

Rina è in prima fila per rilanciare il borgo, ma per i suoi compaesani – o almeno per alcuni – la buona volontà non basta. Emilio Pantaleoni, autotrasportatore in pensione, ha girato il mondo una vita sul suo camion. A Poggiodomo ci sono tutti i suoi ricordi d’infanzia; da pensionato non sarebbe potuto mai finire altrove, ma la salute deve assisterti per vivere qui, dove il medico viene una volta alla settimana e non esiste una farmacia. «Siamo anziani, lontani da tutto, la viabilità è il primo problema. Ci sentiamo abbandonati»: Emilio punta il dito contro una politica assente. «Per 30 voti chi vuoi che si scomodi? Se nessuno ci promette più niente in cosa dobbiamo sperare?». Q

L’ospedale DELLA DISCORDIA Proteste per la chiusura da Montegabbione a Città della Pieve Quando bilanci e diritto alla salute hanno esigenze diverse

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oi viviamo quassù, abbiamo poco e quel poco che abbiamo non devono togliercelo!». Evarista, 94 anni, gestisce il bar e tabacchi di Montegabbione, località montana di 1.216 abitanti in provincia di Terni. Dice di non aver mai avuto bisogno di andare all’ospedale, ma Evarista è preoccupata per l’assenza di un pronto soccorso da quando, il 1° marzo 2017, l’ospedale di Città della Pieve è stato chiuso. I più vicini adesso si trovano a 40 minuti di auto e sono, emergenza permettendo, a Orvieto, Castiglione del Lago, Perugia.

Al posto dell’ospedale c’è ora la “Casa della salute” con il punto di primo soccorso che accetta codici bianchi e verdi.

All’inaugurazione, avvenuta a giugno, erano presenti la presidente della regione Umbria, Catiuscia Marini, il direttore generale della Usl Umbria 1 Andrea Casciari e l’assessore regionale al welfare Luca Barberini. Quest’ultimo aveva salutato la “Casa della salute” parlando di «massima attenzione sulla riconversione della struttura ospedaliera, con forti investimenti regionali. La riorganizzazione – aveva aggiunto – qui

continua seguendo le linee guida nazionali e la continuità dei servizi».

Il diritto di un’anziana di 94 anni ad avere un pronto soccorso vicino e la necessità di un assessore di razionalizzare la sanità pubblica regionale difficilmente riescono a trovare una conciliazione. Il decreto ministeriale n. 70 del 2015, infatti, prevede un bacino di utenza minimo affinché i pronto soccorso, nonché altri tipi di presidi ospedalieri, possano restare aperti.

Quando a Città della Pieve gli abitanti hanno trovato un cartello affisso alla porta del nosocomio con scritto “Chiuso” è nato il comitato Diritto alla Salute. La richiesta del comitato, spiega Elda Cannarsa, da allora è sempre la stessa: «Portare a termine il progetto dell’ospedale unico del Trasimeno oppure riaprire quello a Città della Pieve». Contro la chiusura, il comitato ha poi deciso di appoggiare il sindaco di Montegabbione, Fabio Roncella, che ha fatto ricorso al Tar: «In questo momento i nostri cittadini accedono ad un pronto soccorso in non meno di 40 minuti e questo è assolutamente lesivo del loro diEvarista, 94 anni, ha sempre vissuto a Montegabbione ed è la proprietaria del bar principale

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MARINA de ghantuz cubbe Quattrocolonne

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La discussa “Casa della Salute” di Città della Pieve che dal 1° marzo 2017 ha sostituito l’ospedale

ritto di essere curati come qualsiasi altro cittadino e contribuente», ha detto il sindaco.

Il 25 gennaio, il presidente della commissione sanità, Attilio Solinas, ha voluto ascoltare le ragioni del comitato; presente all’audizione anche la Usl Umbria 1. Dall’azienda sanitaria, il cui direttore generale è Andrea Casciari, hanno preferito non rispondere alle nostre domande, ma da un comunicato stampa dell’assemblea legislativa sappiamo che il direttore sanitario, Pasquale Parise, ha replicato alle richieste del comitato dicendo che i servizi garantiti dalla “Casa della salute”, ancora in fase di ultimazione, saranno in grado di «assicurare una copertura sanitaria idonea a quei territori». Il problema però esiste anche secondo la Usl e riguarda tutta la regione: mancano i medici specializzati in emergenza-urgenza.

Per il presidente Solinas, c’è anche la questione dei posti letto: «Nel territorio del Trasimeno sono troppo pochi e – aggiunge – ritengo sia stato un errore non portare avanti il progetto dell’ospedale unico».

La “Casa della salute”, con il suo punto di primo soccorso aveva fatto parlare di sé in due occasioni: la morte di infarto di una signora nella piazza principale di Città della Pieve un mese dopo la chiusura dell’ospedale; un brutto incidente che ha causato la morte di due motociclisti tra Città della Pieve e Orvieto. L’ambulanza che è arrivaQuattrocolonne

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ta sul luogo dell’incidente veniva da Castiglione del Lago, mentre quella da Città della Pieve, che avrebbe impiegato meno tempo, non è mai partita. In seguito a questo episodio il sindaco Fausto Scricciolo aveva minacciato le dimissioni, rientrate quando al punto di primo soccorso è stata aggiunta una seconda ambulanza.

«Che però non ha il medico. Ci sentiamo abbandonati ed emarginati» dice Guido Monaco del comitato Diritto alla Salute. Gli dà ragione Solinas, secondo cui «l’Azienda sanitaria ospedaliera deve offrire un servizio di emergenza-urgenza nei territori di Città della Pieve e dell’alto Orvietano con un’ambulanza medicalizzata sempre disponibile e che possa raggiungere o Castiglione del Lago o il Silvestrini di Perugia. Per le situazioni di estrema gravità – conclude il presidente – è ovvio che deve esserci l’elisoccorso».

A non dare nulla per scontato sono i cittadini (per ora 3.000), rappresentati dal comitato: «A Castiglione mancano i reparti di ginecologia, ostetricia e pediatria mentre il Silvestrini è sempre affollato» dice Elda. «Questi borghi – continua Guido – vivono grazie al turismo. Se le persone non si sentono al sicuro se ne vanno, soprattutto i giovani, e spariranno le attività. Se non sono vivibili, questi luoghi rischiano di perdere anche la loro bellezza, che si fonda anche sulla qualità della vita». Q

PERCHé RESTARE… La storia di Luca Aiello, innamorato della Valnerina

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uasi tutti i giorni Luca Aiello passeggia sulla strada provinciale 209, che taglia la Valnerina e sembra una faglia in mezzo alle montagne. In questo racconto tra chi va e chi resta in Umbria, c’è anche lui. Dai boschi in cui ha trascorso una vita, impiegato nella comunità montana, Luca torna a casa, a Piedipaterno, pochi chilometri da Spoleto. Ha 84 anni, un infarto alle spalle e un pacemaker che non gli ha tolto la voglia di uscire e raccogliere legna per il camino, in questo inverno troppo mite per non lasciargli un senso di preoccupazione addosso.

I rami li incrocia dietro le spalle, le braccia e le mani cadono penzoloni come fosse crocifisso, l’espressione del viso è assorta e tranquilla. Incurante del pericolo che corre a camminare accanto a macchine che sfrecciano a cento all’ora, ripercorre la sua vita qui, nella terra che non ha mai voluto lasciare.

«Andarmene? No e dove vado… Ho una figlia che vive a Roma, mi chiama trenta volte al giorno perché sa, l’età è quella che è», dice ridendo.

Poi serio: «E qui ho una parente invalida al cento per cento, devo prendermi cura di lei». Potrebbe trasferirsi a Roma, cercare strutture di sostegno aiutato dalla figlia «ma da dove sono nato non me

ne voglio andare, l’ho fatto quando ero giovane e sono tornato».

A 26 anni Luca era emigrato in Germania, «facevo le strade, se tutto andava bene ci pagavano sennò no. C’era molta diffidenza nei confronti degli italiani, così cercavamo di produrre più di quel che dovevamo. Ma non guadagnavo abbastanza per mandare a casa i soldi e i tedeschi non mi piacevano».

Tornato in Umbria, all’inizio degli anni Sessanta, ha messo su famiglia. Del 1979, anno del terremoto, ricorda «le stalle cadute giù, gli animali schiacciati sotto le macerie». E le case distrutte come la sua: «Quando ho visto che i lavori non mi convincevano ho avvertito il sindaco e l’ingegnere per fare delle verifiche». È grazie all’attenzione e all’esperienza nei lavori manuali che la casa di Luca è rimasta in piedi dopo le scosse del 1997 e del 2016. Tante persone, nel frattempo, se ne sono andate. «I terremotati di oggi sono più abbandonati a loro stessi, per loro ci sono meno risorse», aggiunge con un velo di tristezza. Ma lui non cede, resta a Piedipaterno, tra i boschi e il fiume dove ama pescare. E imbracciando di nuovo la legna, torna lentamente a casa. Q Quattrocolonne

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IRENE ROBERTI VITTORY @Ire_RVittory

…e scegliere di tornare La storia di Gianni Berna e dei suoi alpaca a Niccone

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CRISTIANA MASTRONICOLA @cri_bio

e rughe profonde segnano il volto. Come se tutta la vita si nascondesse dentro quelle pieghe del tempo. Gianni Berna ha 77 anni, ma ne dimostra dieci di meno. Dietro di lui, le colline brune dell’Umbria, striate dal solco dell’aratro, pronte ad accogliere semi e vita nuova. Siamo a Niccone, a una manciata di chilometri dalla Toscana, con il primo allevatore di alpaca d’Italia. Ma prima della vita umbra, tra querce secolari e animali sudamericani, Gianni ne ha vissuta un’altra: in città, spartita tra Roma e l’Africa.

Gianni nasce e cresce a Roma, dove studia economia, prima di specializzarsi in economia dello sviluppo negli Stati Uniti. Torna a Roma, prima di partire alla volta dell’Africa: «Ho trascorso dieci, dodici anni in Niger, ma ufficio, casa e famiglia restavano in Italia». Lì, Gianni porta avanti importanti progetti di micro-sviluppo in Nigeria, Ciad, Etiopia, Sudan. Ma anche Filippine e Indonesia.

A 45 anni, però, cambia vita. «Vivere a Roma significa avere più vincoli che libertà. Non ho mai trovato giusto vivere chiusi in un appartamento, uscire e prendere la metro, incontrare migliaia di persone e non conoscere nessuno.

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Sprechi tempo e sei disgregato». Nato da padre perugino e madre siciliana, Gianni sceglie l’Umbria non solo per la ricchezza delle campagne, ideali per disintossicarsi dalla città. «Ricordo da piccolo i viaggi a trovare nonni e zii. È stato naturale per me tornare qui». Le radici vanno nutrite, sempre: «La casa di famiglia era stata ereditata da zii. Ho cercato tanto il podere in cui vivo ora».

La pietra nuda fa capolino dietro le foglie rosse dell’edera che ricopre buona parte della casa.

Il più piccolo degli alpaca si avvicina e Gianni gli porge una manciata generosa di mangime. «Ho scelto questo casale grande per poter affittare due dei tre appartamenti che lo compongono».

Ma perché gli alpaca? Gianni pensa di sfruttare i 25 ettari con l’allevamento di mucche e cavalli prima per approdare poi all’animale peruviano. «Siamo stati i primi in Italia ad allevarli e a produrre la loro lana. Le aziende non comprano la nostra fibra: con 30 animali ne produciamo poca, perciò siamo noi a lavorarla», dice soddisfatto. «L’Umbria era il posto giusto per la mia nuova vita. Quando impari qualcosa, è giusto riproporlo nel posto da cui vieni. È stato un impegno e ne è valsa la pena». Q

VIAGGIO AL CENTRO DEL SISMA Scoperto il magma sotto l’Appennino che causa alcune scosse. Lo studio dell’Ingv e dell’Università di Perugia apre nuovi scenari, anche per le compagnie petrolifere

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ualunque cosa un uomo può immaginare, altri uomini possono rendere reale». Parola, o profezia se preferite, di Jules Verne, tra i più celebri scrittori di libri di fantascienza. Già, perché alcune delle suggestioni raccontate in “Viaggio al centro della Terra”, come creature fantastiche e giganti del sottosuolo, restano senza dubbio pura fantasia. Eppure Verne era convinto che prima o poi il progresso avrebbe restituito alla scienza quello che la letteratura aveva preso in prestito. Ecco dunque che il pensiero dello scrittore francese trova conferma nella scoperta

dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e del dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia, che ridefinisce il ruolo del magma nella formazione dei terremoti sotto gli Appennini.

«L’idea è nata osservando la sequenza sismica avvenuta tra il dicembre 2013 e il gennaio 2014 nel Sannio Matese, a 60-70 km a nord di Napoli», racconta Guido Ventura dell’Ingv, coordinatore con Francesca Di Luccio del gruppo di ricerca. «Questi terremoti avevano delle caratteristiche anomale. Innanzitutto erano più profondi: le scosse sono state registrate tra i 15 e i 25 km dalla superficie, mentre di solito si verificano a 10 km di profondità. Inoltre non si trattava di un processo sismico continuo: si verificavano 15-20 terremo-

La sorgente di magma sotto l’Appennino provoca la fuoriuscita di anidride carbonica (CO2) di origine profonda e può causare terremoti Grafica di Paolo Sparro

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PAOLO SPARRO @PaoloSparro

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Il Sannio Matese si trova nell’Appennino meridionale Grafica di Paolo Sparro

ti, poi silenzio e ancora scosse. E così via. Infine le forme d’onda non erano compatibili con un processo di rottura semplice delle rocce, ma con dei processi di apertura. Sismi del genere sono tipici delle aree idrotermali, cioè estremamente arricchite di fluidi».

Forme d’onda molto simili a quelle delle aree vulcaniche dunque. Da qui l’ipotesi della presenza di fluidi magmatici che giocassero un ruolo nella formazione dei terremoti. « Il nostro dipartimento analizzato chimicamente l’acqua che circola nell’area del Matese a caccia di infiltrazioni di fluidi profondi all’interno degli acquiferi», spiega Carlo Cardellini, docente di Geochimica e Vulcanologia dell’Università di Perugia. « Abbiamo visto che queste acque sono arricchite di gas come l’anidride carbonica (CO2), uno dei più abbondanti e mobili che si trovano all’interno di queste masse magmatiche profonde.

Abbiamo rilevato anche una lieve anomalia termica: non possiamo parlare di acque “calde”, ma misurano qualche grado in più della norma».

Tuttavia l’emissione di CO2 non comporta rischi per la salute. «A Mefite d’Ansanto, una zona a un’ottantina di chilometri dell’area studiata, invece, fuoriesce una grande quantità di anidride carbonica in forma gassosa, non disciolta nell’acqua. Siamo stati costretti a chiudere l’accesso all’area per motivi di sicurezza».

La pubblicazione di questa scoperta su “Science Advances” apre dunque nuovi scenari, ben distanti dalle fascinose letture mediatiche che frettolosamente legano la presenza di magma a terremoti più intensi. Prosegue Ventura: Quattrocolonne

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«Escludo del tutto questa ipotesi. Il rischio sismico dell’area è di per sé molto elevato. Si tratta di una zona interessata nella storia da scosse estremamente forti, anche oltre magnitudo sette: tra i più importanti quelli del 1456, del 1688 e del 1805. I terremoti che abbiamo studiato raggiungevano invece magnitudo massima cinque, ovvero fino a mille volte più deboli rispetto a quelli attesi. Il nostro lavoro non cambia l’indice di pericolosità dell’area». Tra le prospettive più ardite anche quella della nascita di un vulcano nel Matese. «Abbiamo fatto dei calcoli per vedere se è possibile una risalita di magma in superficie. Queste condizioni non sono assolutamente soddisfatte. Ciò non toglie che fra diecimila, o magari centomila anni, non ci possa essere una

L’Esperto: «escludo terremoti più intensi a causa del magma» fuoriuscita. Parliamo però di tempi geologici, che non vedranno neanche i nostri pronipoti».

«Diversi studi – aggiunge Carlo Cardellini – dimostrano che la presenza di fluidi può aver giocato un ruolo nella formazione di terremoti. Ora dobbiamo capire se i fluidi sono l’innesco della sequenza sismica, o semplicemente contribuiscono all’evoluzione della stessa, che magari comincia per motivi tettonici poi, grazie ai fluidi, si evolve nelle direzione con cui si manifestano».

Ecco dunque che lo studio, o se vogliamo un rigoroso romanzo scientifico, può essere letto come un viaggio al centro della Terra, alla scoperta delle origini dei terremoti. «Per la prima volta – prosegue Guido Ventura – sono stati registrati movimenti sismici sicuramente riconducibili alla presenza di fluidi a profondità che non ci aspetteremmo. Vogliamo estendere i nostri studi a tutto l’Appennino e non solo: vogliamo vedere se lo stesso fenomeno riguarda anche altre catene montuose del pianeta. Ad esempio sull’Himalaya si verificano delle emissioni di gas ben più consistenti rispetto a quelle riscontrate in Italia, con temperature che possono arrivare addirittura a 200 gradi. Pure qui potrebbe verificarsi un processo molto simile a quello studiato nel Matese».

Ad oggi non esistono legami tra quanto accaduto nell’Appennino meridionale e gli ultimi eventi sismici in Umbria. «Diversi studi hanno riconosciuto il conivolgimento di fluidi profondi nel terremoto di Colfiorito del ‘97 e in quello dell’Abruzzo nel 2009» afferma Cardellini.

Intanto persino dei grandi imprenditori hanno messo gli occhi sui risultati raggiunti dall’Ingv e dall’Università di Perugia. «Dopo la pubblicazione del lavoro – dichiara Ventura – abbiamo ricevuto un forte feedback da parte di alcune importanti compagnie petrolifere: l’argentina Yacimientos Petrolíferos Fiscales (Ypf), la spagnola Repsol, la brasiliana Petrobras. Anche loro stanno studiando in diverse parti del mondo nuovi processi che portano alla formazione del petrolio: non solo – come noto – dovuti a seppellimento sotto pressione nella crosta terrestre, ma anche al riscaldamento da magma. La presenza di magma nella crosta crea un’anomalia termica, che fa maturare il petrolio fino a renderlo industrialmente sfruttabile in tempi estremamente ridotti rispetto all’evoluzione geologica classica. Basti pensare che affinché si formi il petrolio ci vogliono migliaia di anni; invece nel caso in cui intervengano fonti di calore, come il magma, questo intervallo di tempo si accorcia notevolmente con grandi vantaggi per l’attività di estrazione». Q

Carlo Cardellini, docente di Geochimica e Vulcanologia del dipartimento di Scienze della Terra Università di Perugia Foto di Paolo Sparro

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I calciatori del Perugia festeggiano dopo una rete contro la Juventus

C’era una volta il grande calcio Il Perugia dei miracoli raccontato da Ilario Castagner storico allenatore del Grifo nella stagione 1978-79

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di

GABRIELE GENAH

@GabGen

ornare grandi si può. Ci fu un tempo in cui la Perugia del pallone non aveva paura di nessuno, e anzi era temuta da molti.

Davanti alla squadra del ‘78-’79, guidata da Ilario Castagner si inchinarono, fra le altre, la Juventus (sconfitta 2-1 a Torino), la Fiorentina (battuta 1-0), il Napoli (2-0) e la Lazio (2-0).

Quella stagione consegnò la squadra alla storia, garantendole il soprannome di “Perugia dei miracoli”, e si concluse con un record mai registrato prima di allora: l’imbattibilità mantenuta per tutto il campionato; un primato poi eguagliato solo altre due volte e da due corazzate come il Milan nell’anno del suo decimo scudetto nel 1992 e la Juventus macina record di Antonio Conte del 2012.

In quello storico ‘79 il Grifo arrivò ad un passo dal titolo, a soli tre punti dalla capolista Milan, concludendo così con uno storico secondo posto che garantì anche l’accesso alla coppa Uefa: massimo risultato mai raggiunto dalla società.

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Si trattava di una formazione senza una vera stella, ma composta da giocatori “operai”: quintessenza di quel calcio spesso disprezzato come “provinciale” ma che in realtà racchiude l’essenza del successo di squadra, in cui tutti sono importanti, nessuno è indispensabile.

In quel Perugia vennero lanciati nomi destinati a diventare celebri, come Walter Novellino, Salvatore Bagni e Renato Curi, che morì tragicamente in campo durante la partita contro la Juventus, il 30 ottobre 1977, allo stadio Comunale di Pian di Massiano, che da allora porta il suo nome.

Ma forse più che i giocatori in campo, la fisionomia e la mentalità di quella compagine si deve a chi sedeva in panchina, Ilario Castagner, che a distanza di quarant’anni non ha dubbi: «La forza di quel gruppo è stata la crescita. Quella squadra fu rifondata completamente al mio arrivo nel 1974, quello stesso anno vincemmo il campionato di serie B».

A chi recrimina sul fatto che il Perugia dei miracoli badò più all’imbattibilità in difesa che a rischiare per tentare la vittoria, il mister ricorda come nelle prime sette partite di campionato vinsero cinque gare e ne pareggiarono due (di cui una a San Siro con l’Inter). E che dovettero affrontare l’intero girone di ritorno senza il loro top player, Franco Vannini, infortunatosi durante la gara di ritorno contro l’Inter.

E proprio quella partita del 4 febbraio 1979 fu, per Castagner, la più memorabile: «L’unico momento in cui rischiammo davvero di perdere la nostra imbattibilità. Alla fine del primo tempo eravamo sotto di due gol – ricorda, ancora un po’ emozionato – e continuammo a soffrire finché Vannini non dimezzò lo svantaggio subito prima di infortunarsi e lasciarci in inferiorità numerica.

Ma noi non ci siamo arresi e abbiamo pareggiato lo stesso, in dieci, al 93esimo».

Solo due stagioni dopo la gloria del ‘79 però, i grifoni ridiscesero in serie B. Negli anni seguenti, a partire dall’inizio dell’era Gaucci, il Perugia tornò altre due volte nella massima serie ma senza mai raggiungere i risultati della squadra dei miracoli. Poi la crisi profonda.

Una crisi del calcio cittadino, regionale e per-

fino nazionale. La cocente esclusione dai prossimi campionati del mondo rappresenta un’amara lezione di cui dobbiamo far tesoro: la necessità di rifondare il nostro calcio.

Ripartire. Sì, ma da dove? Un esempio sulla strada da seguire può venire proprio dal Perugia dei miracoli, che da quando furono rifondati l’anno della vittoria della serie B, puntarono tutto sulla maturazione dei giocatori che avevano in casa, più che cercare di rinforzarsi sul mercato.

Secondo Castagner «la chiave è far crescere i giovani, devono completarsi e formare un gruppo compatto. È inutile – ragiona il tecnico – che si spendano cifre da capogiro per acquistare o prendere in prestito un fuoriclasse per poi rivenderlo dopo sei mesi.»

Maggiore pianificazione e obiettivi a lungo termine, puntando soprattutto sui giocatori già in casa. Questa la ricetta per tornare grandi, dunque.

Non sono molte le squadre che oggi seguono questo modello, tranne poche eccezioni come l’Atalanta: «è quella che più mi ricorda il mio Perugia – dice Castagner – perché sta facendo grandi cose. E le sta facendo nel modo più soddisfacente possibile: semplicemente, valorizzando al massimo i propri giovani». Q

Una formazione del Perugia nel ‘78-’79 In piedi, da sinistra: Grassi, Vannini, Della Martira, Speggiorin,Casarsa, Frosio (capitano).

In basso: Ceccarini, Bagni, Dal Fiume, Butti, Nappi.

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La collezione di Frigidaire a Frigolandia, Giano dell’Umbria

frigidaire, trentotto anni di Cultura alternativa Da Giano dell’Umbria a Yale, storia della rivista che ha rivoluzionato la satira italiana

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ELENA FRASCONI

ra il 28 ottobre 1980. Trentotto anni fa, quando Frigidaire uscì per la prima volta in edicola.

Erano appena passati gli anni della Contestazione, la lotta armata si stava esaurendo e le Brigate Rosse – dopo il delitto di Aldo Moro – si stavano pian piano dissolvendo, nella memoria di un paese sventrato dalla lotta sociale.

Frigidaire esordiva così: come un rivista culturale di rottura. All’avanguardia e cosmopolita, che avrebbe raccontato dalla fine degli anni Settanta, un’Italia sull’orlo del cambiamento. Alla luce di certi fatti. Quei fatti. Contro ogni moralismo e perbenismo. Con linguaggi “freddi”; attraverso la satira e con un “grado zero” di scrittura non ancora visto, prima di allora.

E da quell’autunno, meno arroventato, Frigo – l’abbreviativo con cui sono soliti chiamarla collaboratori e abbonati – non ha mai smesso di farlo. Al punto che oggi, parte dell’archivio è stato acquistato dall’americana Yale University, per studiare e approfondire la conoscenza delle culture alternative degli ultimi quattro decenni del Novecento.

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Secondo gli esperti di Yale, Frigidaire è infatti: «la rivista che più ha spinto in avanti queste culture su scala mondiale, fornendone la più ampia, autonoma e intelligente rappresentazione».

Oltre trecento, i fascicoli prelevati dalla sede di Frigidaire a Giano dell’Umbria, in provincia di Perugia, dove il professor Kevin Repp – della prestigiosa università del Connecticut – si è recato personalmente, qualche settimana fa. Per portare Oltreoceano, all’attenzione dell’intellighenzia statunitense, la collezione di una rivista “nemo propheta” in Italia.

Già: perché se gli americani apprezzano l’originalità di Frigidaire, da noi è stata spesso sottovalutata censurata e addirittura processata.

MA COS’È FRIGIDAIRE? Dal francese, il termine “frigidaire” vuol dire frigorifero. Ed è proprio dal fresco di un contenitore che avrebbe potuto contenere, sigillare e mantenere tante idee, che comincia la storia della rivista, fondata da Vincenzo Sparagna, Stefano Tamburini, Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli.

Frigidaire è anzitutto un progetto di comunciazione “totale”: fumetto, arte, satira, reportage, letteratura, filosofia, politica e musica. Al di là della logica d’informazione settoriale. «La nostra ambizione, ieri come oggi, è dare uno sguardo stupefatto sul mondo; come se lo si vedesse per la prima volta» precisa Vincenzo Sparagna, fin dall’inizio, direttore responsabile.

Senza paraocchi ideologici e in controtendenza: «Ci portammo dietro l’irriverenza degli anni trascorsi a collaborare per Il Male e Cannibale.

Due testate che avevano sdoganato e liberato il modo di fare satira in Italia, ma che faticavano ad arrivare a fine mese»ricorda.

Sconosciuti al grande pubblico e invisi a qualsiasi editore, Sparagna e i suoi s’inventarono Frigidaire – una società a reddito limitato, operativa tra Roma e Milano – mossi dalla necessità di essere pagati per ciò che facevano, in piena autonomia.

«Altro che esperimento stagionale! Dovevamo vedere la realtà che ci circondava e farlo con gli occhi del futuro» aggiunge. Forse è per questo che non hanno temuto l’avanzare del tempo.

Dalle prime quattordici mila copie vendute, sono arrivati nell’86 a quota a trenta mila. Un succes-

so, stroncato però nell’85: quando Frigidaire fu cancellata dall’elenco delle riviste culturali, dal decreto della Commissione Editoria, presieduta da Giuliano Amato. «All’improvviso, tutti i margini del giornale sono stati bruciati e non godevamo più del rimborso statale. Poi, come se non fosse bastato, di lì a poco avremmo perso Tamburini prima e Pazienza, dopo». Due perdite dolorosissime per Frigidaire; due geni stroncati dalla droga.

Va da sé che il clima in redazione divenne, giorno dopo giorno, più cupo. Insostenibile.

Erano lontani gli anni delle riunioni fiume, tra risse e proposte, che davano senso e coerenza a Frigidaire. Non c’erano più soldi per sostenere le trasferte degli auto-inviati(perché si inviavano da soli, senza aspettare di ricevere l’incarico dalla redazione), nelle parti più calde del mondo.

Finirono appese ad una parete, le prime pagine dei falsi giornali stampati in un primo momento, con cui a Frigo dicevano il falso, beffandosi del vero.

Da “Il mio Giornale” di Indro Mortadella, a“Il Lunedì della Repubblica” che scatenò l’ira funesta del quotidiano fondato da Scalfari, che all’epoca non usciva di lunedì. Per non dimenticare Quattrocolonne

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Gli scaffali dell’archivio di Frigidaire

la finta “Stella Rossa” con cui Sparagna depistò il Kgb nell’84, durante l’occupazione sovietica in Afghanistan. Con la complicità del dissidente lituano Savik Shuster, i russi si infuriarono; tanto che furono accusati di essere falsari al servizio di Reagan. «Eppure siamo andati avanti; con altri vignettisti, altri grafici e giornalisti, senza una lira e pieni di debiti. Per tigna» dice ancora Sparagna, sorridendo.

Nella pagina accanto:Vincenzo Sparagna, uno dei fondatori di Frigidaire, nonché direttore responsabile della testata. A lato, alcune delle storiche copertine di Frigidaire

IL FUTURO DI FRIGIDAIRE IN UMBRIA Per una serie di equivoci, disfatte e coincidenze, nel 2006 Frigidaire si trasferisce a Giano dell’Umbria. In una ex colonia balilla, abbandonata da anni. Qui, Sparagna fonda un’immaginaria quanto concreta Repubblica marinara di montagna: Frigolandia.

«Dopo lo sfratto da Roma, l’Umbria ci ha accolti e ci ha permesso di ritrovarci, ancora una volta, faccia a faccia. Riusciamo a vederci e parlarci, a mettere in gioco la nostra individualità, in piena libertà. Siamo parte di un tutto connesso e che ancora resiste. Non si arrende» spiega Sparagna. Frigolandia però non è un ritiro. È un progetto senza frontiere e con appoggi in tutto il mondo, ora anche a Yale, negli Stati Quattrocolonne

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Uniti. «Conta poco dove sei. Siamo immersi nel nulla e nessuno si accorge di noi, è vero – precisa Sparagna – ma non c’importa. Oggi l’Umbria non è poi così sconfinata dal mondo».

Continuano ad essere temerari a Frigidaire e credono ancora che possa esserci futuro per chi come loro ha una certa idea di satira. Di fare e vivere la satira.

«In Italia la satira si è oramai depauperata, impoverita. È una satira di regime e ognuno ha il suo giullare di corte, in tv e sulla stampa» affonda Sparagna e commenta: «La satira funziona quando è una critica radicale del mondo, che ti fa vedere un altro lato del mondo. Ci sono forme di parodia, più popolari, ma che scadono nello scontato. Sulla rete c’è qualcuno bravo ma non fa altro che ripetere schemi già visti; fenomeni cavalcati che si confondo col far ridere. Comicità e satira sono parenti, ma devono far pensare».

Spera in una rivoluzione Sparagna. Un’altra, inedita rivoluzione che risollevi le generazioni più giovani dalla devastazione culturale degli ultimi vent’anni. «Non serve aspettare il porprio personale talent scout. Basta solo non adeguarsi all’andamento generale e non generalizzare» conclude fiducioso Sparagna. Q