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Tutti i diritti sono riservati e appartengono a chi ha scritto i racconti e realizzato le illustrazioni.





Inauguriamo il 2023, un mese in ritardo, con il terzo numero della rivista. Questa volta abbiamo proposto il tema libero, per dare la possibilità a quante più persone possibile di avvicinarsi al nostro mondo, di affacciarsi alla nostra porta per trovare un ambiente, si spera, stimolante e accogliente.
Personalmente trovo il viaggio all’interno della lettura, della selezione e infine dell’editing dei racconti sempre più avventuroso. È un momento in cui ho l’opportunità di crescere non solo come lettrice, ma anche come scrittrice e direttrice di questa realtà che, ormai, è una seconda famiglia. Il privilegio che ritengo di avere nel poter partecipare del processo creativo di nuovi scrittori e scrittrici, ma anche di confrontarmi poi con le mie compagne di viaggio Giulia Zoratti, Veronica Nucci, Silvia Penso, Claudia Palmas non ha confronti.
A corroborare questo entusiasmo letterario, abbiamo scelto di aprire la nostra chiamata anche agli illustratori e illustratrici, così da poter creare un’ambientazione calda, imaginifica e colorata per le storie che abbiamo selezionato. Hanno risposto all’appello in tantissimi con disegni stupendi, intensi, perfetti per le sensazioni che volevamo alimentare; troverete in questo numero i lavori di Melissa Brusati, Gianmarco De Chiara, Ottavia Marchiori, e la copertina del nostro collaboratore e illustratore Stefano Sartori (satirosfrenato).
I racconti che abbiamo selezionato sono eterogenei, che è l’effetto che desideravamo trasparisse, data la tematica. Otto storie liberissime, come noi: Viva gli ananas, La parlata dello Zefiro, La marcia dei sorrisi ci trasportano in uno spazio esterno alla realtà quotidiana, tra dimensioni surreali, nonsense, oniriche e metafisiche. Le case dei ricchi, Linea A e La frana riconducono il lettore alla realtà con pennellate delicate, senza mai lasciare insondate la malinconia, la solitudine e la latente disperazione che a volte sembra non volerci abbandonare. Tra deserti, palme e tukul ci parla della memoria, delle piccole bugie che ci si può raccontare per amarsi meglio e di quanto sia difficile quantificare il tempo che abbiamo a disposizione in una vita intera. Infine, Bambine Cattive si prende lo spazio di una prosa che si mischia alla poesia, per raccontarci della cattiveria spontanea dei bambini, e delle gelosie che possono nascere involontarie, come dei pensieri troncati che non si ha nemmeno il coraggio di concepire fino in fondo.
In ultimo, per questo numero abbiamo riservato una sorpresa che rende orgogliose tutte noi: Chantal Salvinelli, storica collaboratrice e autrice di molte recensioni per la sezione del blog, ha intervistato per noi Dominique Fortier, autrice e traduttrice canadese del Quebec, che ha vinto il Governor General's Award 2016 per la narrativa in lingua francese con il suo romanzo Au péril de la mer. Lo scambio che ne emerge è profondo, pieno di spunti creativi e di riflessione; siamo orgogliose di poterlo ospitare in questo numero!
Tutto questo lavoro, ovviamente, è reso possibile dalle lettrici e dai lettori che fino ad ora hanno dato fiducia al nostro lavoro editoriale e continuano a trovare interessanti le cose che proponiamo. Speriamo che anche questo numero non vi deluda. Buona lettura!

Dominique Fortier è una rinomata scrittrice e traduttrice canadese, molto apprezzata in Italia per Le città di carta, basato sulla vita e la poetica di Emily Dickinson. Uscito per Alter Ego nel 2020, è seguito quest’anno dal romanzo E tutt’intorno il mare, tradotto in italiano (come il precedente) da Camilla Diez. E tutt’intorno il mare è stato originariamente pubblicato prima de Le città di carta, anticipandone alcuni temi narrativi e stilistici che contribuiscono a un’identità letteraria precisa e affascinante della Fortier.
Tra questi, il principio stilistico più interessante che guida la costruzione storica dei suoi romanzi è il dialogo costante con la modernità, identificata con l’indagine della scrittrice stessa. Se ne Le città di carta questa indagine riguarderà la ricerca dei luoghi, in E tutt’intorno il mare riguarda un momento più primitivo di ricerca di sé, della sua identità come scrittrice e come madre.

Lo stile segna qui un passo poi sublimato che identifica in maniera significativa la Fortier, basato su singoli affreschi lirici che comprendono il mondo con la narrativa del minuto. Se ne Le città di carta questo troverà un riflesso nella poetica della Dickinson, in E tutt’intorno il mare si capisce un’indole filosofica di questa lente sul mondo. Si tratta insomma di un modo che l’autrice ha di interpretare la realtà, osservando l’universo dagli elementi minuscoli della natura.
La trama di E tutt’intorno il mare sembra racchiudere questa intera visione letteraria. Parte dall’esistenza di un luogo di per sé emblematico, un’abbazia su un’isola, il famoso Mont-Saint-Michel, luogo di stratificazioni secolari al seguito della costruzione di un’eterna abbazia, per raccontare l’amore perduto di un pittore del 1400 e la ricerca d’identità di una scrittrice del XXI secolo. E lo fa seguendo un andamento decentrante, quasi che il tema principale sia in fondo il farsi da parte: come i monaci dell’abbazia scoprono l’esistenza dell’America e il diffondersi della stampa – ponendosi da principio il quesito morale su quanto sia giusto copiare gli unici libri custoditi dal sapere monastico, e il pittore esiliato scopre un amore così puro da perdere se stesso, la scrittrice che visita il monte secoli dopo scopre cosa significa fare più piccola sé, e la propria ispirazione, quando dà vita a sua figlia. La Fortier aggancia continuamente la sua narrativa alla lingua, in un’indagine che arriva fino all’etimologia stessa dei vocaboli, così come il raccontare arriva al nucleo più irriducibile delle esperienze e degli scenari. In questo senso il suo rapporto con la scrittura appare limpido, un valore di vita stabilito. In ragione di questi motivi le ho voluto chiedere, a partire dal suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, del significato che lei assegna a questo legame.
Questo romanzo (E tutt’intorno il mare) sembra contrapporre il grande (l’immensità del mare che circonda Mont-Saint-Michel, che raccoglie lo stratificarsi delle epoche, simboleggiato anche dai libri raccolti nella biblioteca – Éloi, il pittore protagonista, a un certo punto sente una sorta di vertigine che potremmo definire la vertigine del sentirsi piccoli) al piccolo (la natura minima che Emily tanto cantò)
protagonista de Le città di carta. La vita vale la pena raccontarla perché immensa o perché minuscola? This novel seems to oppose the big (the immensity of sea surrounding Mont-Saint-Michel, that gathers the layers of times, for which the books in the abbey’s library are also a metaphor – Éloi, the painter protagonist, finds himself feeling a sort of vertigo when he suddenly feels too small) to the small (the minimum nature of which Emily sang about) in Les Villes de Papier. Life is worth telling because it is big or because it is small?
Tendiamo a percepire le cose secondo una nostra scala interiore. Per una formica, un fiore è enorme. Per una balena, un albero è minuto. Quello che mi piace fare nei miei libri è andare dall’immenso (il mare, le stelle) all’infinitamente piccolo (quel secondo in cui il tempo si ferma e possiamo sentire il silenzio, o vedere davvero qualcuno che ci sta davanti). Sento che questo ci dà un senso di prospettiva, e ci rimette nel posto giusto, in una specie di mezzo - che non significa al centro di tutto. E tutt’intorno il mare è in fondo la storia di una decentralizzazione: intorno al 1450, l’epoca in cui il romanzo è ambientato, la stampa sta per cambiare per sempre Il ruolo dei monasteri e delle biblioteche, permettendo la grande distribuzione dei libri; gli europei stanno per “scoprire” l’America e che l’Europa non è il centro del mondo; le idee di Copernico stanno per diffondersi e le persone dovranno accettare che la Terra non è al centro dell’universo. È anche un romanzo, a livello più personale, su come la prospettiva cambia sostanzialmente quando diventi una madre, o un genitore - sul modo in cui, da quel momento e per sempre, non sei più al centro del tuo universo, ma cominci a gravitare intorno a una nuova vita.

We tend to perceive things according to our scale. For an ant, a flower is huge. For a whale, a tree is minute. What I like to do in my books is go from the immense (the sea, the stars) to the infinitely small (that second where time stops and you get to listen to silence, or really see someone standing before you). I feel it gives us a sense of perspective, and puts us back in our rightful place, in a sort of middle – which does not mean at the center of everything. E tutt’intorno il mare is very much the story of a decentralization: around the 1450, the epoch where the novel is set, the printing press is about to change forever the role of monasteries and libraries by allowing books to become widely distributed; the Europeans will soon “discover” America and find out Europe is not the center of the world; Copernicus’s ideas will spread and people will come to accept that the Earth is not at the center of the universe. It is also, on a much more personal level, a book about how your perspective fundamentally changes when you become a mother, or a parent – the ways in which, at that moment and forever, you are no longer the center of your own universe, but start gravitating around a new life.
Allo stesso tempo, potremmo definire la tua una narrativa placida, che investe le cose del mondo senza giudizio, con una risoluzione che sembra aver attraversato tempeste: e come se la poesia derivasse non dall’immenso e dallo sterminio, ma dal piccolo rinascere delle piante. Puoi spiegarmi questo tuo punto
di vista nel raccontare la vita e perché ti intriga tanto?

At the same time, we could define your storytelling as peaceful, observing things from life without judgement, with a sort of resolution coming from crossing storms, as if poetry comes not from immensity and extermination, but from the little coming back to life of plants. Can you explain to me your point of view when telling life and why does it intrigue you so much?
Una cosa in cui credo molto è che ci stiamo muovendo in maniera troppo veloce, e dobbiamo trovare modi per rallentare, e vedere e sentire veramente il mondo intorno a noi, così come i mondi dentro di noi. Scrivere permette questa pausa; assorbire te stesso in qualcosa di molto piccolo ti forza a fermarti, prestare attenzione, e ascoltare ciò che eri troppo occupato per comprendere. One thing I strongly believe is that we are moving too fast, and need to find ways slow down in order to really see and feel the world around us, as well as the worlds inside us. Writing allows for that pause; absorbing yourself in something very small forces you to stop, be attentive, and hear what you were too busy to discern.
La scrittura è un lavoro solitario. Un passo de Le città di carta descriveva Emily non come reclusa ma come “al cuore delle cose, in un tempo sospeso che ripete le cose in maniera sublime, che permette di trovare se stessi”. Che è come descriverei il mestiere dello scrittore. Ma la scrittura esaurisce la vita, dal tuo punto di vista? O occorre vivere la vita per scriverla? (Personalmente sono molto affascinata da quanto si possa sentire tanto la vita senza viverne parte di essa). Hai mai vissuto in maniera negativa la solitudine che deriva dallo scrivere?
Writing is a lonely work. In a passage from Le villes de papier, Emily was described not as a recluded one, but as “in the heart of things, in a suspended time that repeats everything in a sublime way, which allows to find ourselves”. Which is the way I would describe being a writer. But can we write without living, from your point of view? Or must we live life in order to write about it? (I’m personally quite fascinated by how much one can feels life and write about it, even without living part of it). Have you ever felt too much loneliness when writing?
È vero che bisogna mettere una distanza tra te e il mondo, dagli altri, dal rumore, per poter creare un altro mondo oltre questo. Tuttavia ciò non significa che non si possa scrivere e vivere contemporaneamente (che era una delle domande fondamentali alla base de Le città di carta); per lo più significa che, da scrittore, devi dividerti in due parti: una che vive, e una che osserva la vita (e l’altra parte di te), da una distanza. Non penso che si debba personalmente vivere tutto ciò di cui si scrivesarebbe troppo estenuante. Ma questo è in fondo uno dei molti poteri dei libri, permetterti di “vivere” molte vite attraverso l’immaginazione, l’intuito, l’empatia.
Detto questo, io penso che la scrittura sia l’opposto della solitudine. La stessa cosa si può dire della lettura. Si tratta di due modi per trovare voci e spiriti a volte simili ai tuoi, a volte molto diversi, e di poter discutere con loro a prescindere dal tempo e dallo spazio, dai secoli o dai continenti che vi separano. In Les ombres blanches (inedito in Italia, n.d.r), che è una sorta di sequel de Le città di carta, provo a esaminare il ruolo del lettore nella costruzione del significato di un libro, partendo dal concetto che gli autori scrivono sempre solo la metà di un testo, mentre l’altra metà è lavoro del lettore. Questo è il mondo in cui, insieme, costruiscono un intero libro. Per far diventare viva un’opera, hai bisogno di entrambe queste voci.

It is true that you need to distance yourself from the world, from others, from noise, in order to be able to create another world beside this one. But that does not mean you cannot both live and write (which is one of the question at the heart of Le citta de carta); it mostly means that you have to sort of split yourself in two: one half that lives, one half that looks at life (and at the other half), from a distance. I don’t think you need to have personally experienced everything you write about – that would be exhausting. And that is one of the many powers of books, to allow you to “live” many lives through imagination, intuition, empathy.
That being said, I feel writing is the opposite of loneliness. The same thing is true of reading. These are two ways of finding voices and spirits sometimes akin to your own, sometimes very different, and to get to discuss with them regardless of time and space, centuries or continents apart. In Les ombres blanches, which is a sort of sequel to Le citta de carta, I try to examine the role in the reader in the construction of the meaning of a book on the premise that authors always write only half of a text, the other half being the work of the reader. That is how they build, together, the whole book. For a work to become alive, you need those two voices.
Hai definito la poesia come una lingua straniera e anche come il contrario del fuoco. C’è un’attenzione alla laboriosità della lingua nelle tue descrizioni, al ridondare dei verbi, all’etimologia delle parole (un po’ come per Anna nel romanzo). Una bellissima definizione che hai dato è questa: “Più che in case di pietra e di legno, abitiamo innanzitutto in capanne di parole, tremanti e piene di spiragli”. Che rapporto hai con la lingua, in particolare con il francese? Chi sono i tuoi maestri di scrittura?
You defined poetry as a foreign language and also as the opposite of fire. You have a particular attention to the detail of language in your descriptions, to the overflow of verbs, to the etimology of words (just as Anna in the novel). A beautiful definition you gave: Plus que des maisons de pierre et de bois, nous habitons d'abord des cabanes de mots, tremblantes et pleines de jour. How is your relationship with language, in particular with French? Who are your writing masters?
Le parole sono come piccoli bauli del tesoro. Devi poterli aprire per trovarvi meraviglie che neanche sapevi esistessero. Per questo motivo amo così tanto l’etimologia; è in se stessa una forma di
poesia, nella misura in cui fornisce più strati di significato e connotazioni per una singola parola, permettendole di trovare nuove dimensioni, e di gettare nuove luci su altre parole.
Sento davvero che la poesia sia una sorta di lingua straniera. È una maniera di usare parole di tutti i giorni in un modo interamente nuovo, cosa che ha un doppio effetto: cambia come vedi una lingua, ma anche come vedi il mondo. E io penso che noi viviamo entrambi (lingua e mondo) in maniera simile. I libri sono case.
Words are like little treasure chests. You just have to crack them open to find marvels you didn’t know existed. That’s why I like etymology so much; it is in itself a form of poetry in that it gives you many layers of meanings and connotations for a single word, allowing it to gain new dimensions, and shed new lights on other words.
I do feel poetry is a sort of foreign language. It is a way of using everyday words in an entirely new way, which has a double effect: it changes the way you see language, but also the way you see the world. And I think we inhabit both (language and world) almost in the same way. Books are houses.
C’è un luminoso passaggio in cui paragoni le poppate notturne con tua figlia alle laudi mattutine dei monaci a Mont-Saint-Michel, che dà un po’ il senso del sacro che raccoglie questa storia di rifugio e riscoperta (o scoperta) del mondo. Qual è la tua idea di sacro nella vita?
There’s a limpid passage in the novel, when you compare night feedings with your daughter to the morning praises in the abbey in Mont-Saint-Michel. This gives back the sense of the sacred in this story of refuge and rediscovery (or descovery) of the world. What is your idea of sacred in life?
Non sono una persona religiosa, ma ho un senso del sacro molto forte che, per me, è radicato nella natura, nei libri, nell’amore, cose che sono più grandi di noi e ci aiutano a dare un significato alle nostre vite. In una nuova edizione delle lettere di Emily Dickinson ad alcuni dei suoi amici, Patrick Reumaux scrive: “La poesia è una cosa estremamente rara. È essenziale per vivere. E ci aiuta a morire”. Trovo che sia anche un’ottima definizione di cos’è il sacro nella vita.
I am not a religious person, but I have a very strong sense of the sacred which, for me, is routed is nature, in books, in love, things that are bigger than ourselves and that help us give meaning to our lives. In a new edition of Emily Dickinson’s letters to some of her friends, Patrick Reumaux writes: “ Poetry is an extremely rare things. It is essential to live. And it helps us to die.” That is also a good definition of the sacred.
Infine, voglio chiederti su cosa stai ragionando al momento. Puoi darmi un indizio della tua prossima ricerca?

Finally, I want to ask you about what topic are you reasoning about at the moment. Would you give me an insight on your next searching?

Il mio ultimo romanzo, pubblicato a settembre 2022, Quand viendra l’aube (Quando verrà l’alba, inedito in Italia, n.d.r), mutua il titolo da un verso di Emily Dickinson (“Non sapendo quando verrà l’Alba/ apro ogni Porta”, trad. di Giuseppe Ierolli) ed è un non fiction novel; è una sorta di diario che ho tenuto durante i mesi successivi alla morte di mio padre, un libro sul lutto, sul mare, sulla pioggia e sul colore blu. Dopo alcuni mesi di riflessioni, adesso sto lavorando su un nuovo romanzo, un libro sul potere e sulla natura della narrativa.
My latest book, published in September 2022, Quand viendra l’aube, whose title is taken from an Emily Dickinson’s verse (“Not knowing when the Dawn will come/I open every Door”) is non-fiction; it’s sort of a journal I kept during the months following my father’s death, a book about grief, the sea, the rain and the colour blue.
After a few months of wandering, I am now working on a new novel, a book about the power and nature of fiction.
Gli ananas? Che dire sugli ananas?
Si trovano sui banchi del supermercato, quello è certo. Se ne stanno là, coi loro ciuffi, con la loro buccia marrone e aspettano soltanto di venire comprati da qualcuno. Non fanno altro e non servono ad altro. Magari sono anche belli da vedere, eh... Sicuramente buoni da mangiare.

Però non parlano, dannazione a loro. Aspettano di finire nel carrello di qualcuno e stanno zitti. Un silenzio che fa venire i brividi.
Nel centro della città, nella via stretta che tanti incidenti ha causato e che adesso è chiusa al traffico, c'è ancora la porta. La si vede passando, di sfuggita, coperta di graffiti e macchie d’umido. È leggermente aperta, come se invitasse i curiosi a entrare.
Difficile però ascoltare il suo richiamo: la porta è sprangata con assi di legno inchiodate al muro. Chi prova a oltrepassarla finisce sempre male. Il maglione col filo tirato è un classico. La scarpa che perde il tacco, una certezza. I cappotti che si macchiano, poi, non si contano più.
Ma se si riesce a entrare… Beh, se si riesce a entrare il premio è grande.
La sala è ancora là. Duecento metri quadri di speranze e fallimenti. Sembra ancora di vederle, le poltrone disposte a file: velluto rosso, gente. Mica robetta. E i lampadari sul soffitto? Di cristallo purissimo. Il guardaroba era dipinto con vernice dorata. Mandava bagliori ovunque, mandava.

Ora i sedili sono stati portati via. Il velluto non esiste nemmeno nei ricordi. I lampadari sono spariti e i fili dell’elettricità pendono dal soffitto come braccia senza ossa. Le pareti del guardaroba sono state rase al suolo con una foga tale da non lasciare in piedi neanche la cabina del bigliettaio.
I muri sono scrostati e pieni di muffa. Sul parquet corrono i topi. I vetri rotti scricchiolano sotto la suola delle scarpe. E fa freddo, tanto freddo.
Un ananas ci sta sempre bene, nella macedonia. È inutile tagliuzzare banane, mele, pesche, se non ci si mette l'ananas. L'ananas va su tutto. E poi l'ananas è una delizia anche in barattolo. Mai fare gli snob: e l’ ananas fresco è più buono e ci sono i conservanti e questo e quello... L’ananas è un sogno e basta, in qualunque forma lo si trovi. Tondo, a rondelle, gocciolante... Ah, la bontà.
Tace anche lui, però. Sta nella macedonia, brilla sotto i raggi del sole, aspetta di essere mangiato. E non parla, maledetto. Non parla mai.
Le scale che portano sul palco ci sono ancora. Solo tre gradini però, pure sfondati: se si sale lassù si rischia una caviglia. Il silenzio è ovunque. Una stasi fatta di polvere e mistero. Se ci si ferma là, dove un tempo si rideva, il vuoto è impressionante. I tre non ci sono più. Le loro anime semplici mancano a un mondo pieno di terrore. Battute, balli, sorrisi. L’ingenuità delle loro storie si respira ancora nell’aria. E poco importa se nel privato le loro vite avranno scricchiolato, come tutte le altre vite. Là sul palco le speranze prendevano forma. Si amava quel tempo semplice, fatto di divertimento dal cuore grande. Si guardava allora a un futuro bellissimo e incompiuto.
Ora rimane la paura.

Non sempre gli ananas si mangiano. Alcuni vengono usati per le decorazioni. Messi sulle federe dei cuscini, sulle trapunte, sulle magliette... E i centrotavola? Là gli ananas spopolano. Ce ne sono di grandi, di piccoli, di enormi. Certi ananas occupano tutta la ciotola, dal fondo fino alla cima.
C’è sempre un ananas decorativo, in ogni casa. Anche chi è convinto di non possederne uno, ce l’ha. Il segreto è guardare bene: nei ripostigli, nelle cantine, nei regali da riciclare: basta cercare un po' e l'ananas salta fuori. E quando lo si trova, dannazione, lo si prende in mano, lo si alza contro la luce, lo si guarda per un po’ e poi si esclama: Ma pensa! E lo si mette via, perché onestamente non è che gli ananas decorativi siano tutta questa gran bellezza.
Anche perché non parlano. Mai.
Erano in tre. Lui, il Serio. L’altro, l’Idiota. Lei, la Bella.
Cantavano. A momenti pare ancora di sentire la loro musica stramba volare nell’aria.
E l’Idiota ballava, fingeva di inciampare sul palco. Portava avanti lo spettacolo sulle sue spalle comiche. E il Serio con le labbra piegate... Il suo essere tutto d’un pezzo divertiva, inutile negarlo.
La Bella entrava in scena e i fiori sbocciavano. Fingeva di essere innamorata: si faceva tentare dal Serio e sorrideva all’Idiota. E la gente rideva. Batteva le mani. E i tre allargavano le braccia e l’occhio di bue cadeva proprio su di loro. Si inchinavano più e più volte, tra i Bis e i sorrisi.
Ora rimane la polvere, la muffa. Dovrebbero restare i ricordi, ma non sempre chi guarda, vede.
E i sogni, le speranze, quel futuro che non c'era ancora e ora c’è e fa spavento. E l'ingenuità, la grazia, e lei in mezzo ai due e il Serio che si inginocchia e l’altro le porge la mano e lei che fa finta di essere arrabbiata e gli altri due cantano. Là c'è ancora tutto, maledizione.
E poi, gli ananas. Se ne stanno in un angolo, mollati in quel buco con feroce disinteresse.
Sono due, di legno lavorato a mano, fatti con una cura del particolare che ora non esiste più.
Li indossava la Bella, sul suo grande copricapo a tesa larga. Lei ballava e gli ananas si muovevano.
Pareva che volessero cadere giù, ma non cadevano. L’Idiota tentava di mangiarli. Il Serio cercava di impedirglielo. La Bella urlava. Ora il locale è vuoto, il palco puzza di marcio.
Ma gli ananas sono rimasti là, bloccati per sempre in quel tempo perduto.
E parlano. Eccome se parlano. Non smettono di parlare nemmeno per un attimo.
Nel legno dipinto c’è amore, attenzione, il sogno di chi li ha tenuti in mano, di chi li ha indossati, derisi, mangiati, sfruttati, gettati via, ripresi, ammirati. Tutto ancora là, in quei due frutti rimasti a prendere calci e polvere per quasi un secolo.

E prima o poi lo troveranno, il matto in grado di sentire le loro voci.
Nel frattempo, aspettano. E viva, viva.
Viva gli ananas.


Il gatto più conosciuto del quartiere è morto ieri. L’ho visto attraversarmi la strada l’ultima volta martedì scorso. Gli volevo bene. Il bene che si può volere a uno zio stralunato, al parente lontano che torna in paese per un matrimonio, un battesimo, un sacramento qualsiasi. Ma non è morto nel mio quartiere. Il gatto dico. Non è schiattato nelle strade unte del nostro rione, dove io sono cresciuto, e mio padre prima di me e mio nonno prima di lui. Non ha voluto altre colpe da espiare. Quel bastardo è andato a morire nelle zone ricche della città, dove i gatti hanno ciotole per l’acqua e cibo in scatola, e cucce calde come riparo, anche quelli randagi. Ha preferito morire tra i suoi simili, benché avessero il pelo più lucido e gli occhi senza catarro. Ci ha abbandonati così, senza dir nulla. Soli nella nostra immondizia. Non posso biasimarlo. Ognuno fa le sue scelte, e lui ha fatto la sua. Credo che cercasse un posto migliore per crepare, dove potesse conservare ancora un briciolo di dignità, dove il lordume non esiste, o se esiste è tenuto attentamente alla larga. Così come dovremmo fare anche noi ma, come si dice? Sognare può solo chi ha il potere per farlo, o qualcosa del genere. Lo diceva sempre mio nonno, schiaffeggiando mio padre e qualche decennio dopo anche me, quando ci mettevamo in testa strane idee. Pensieri colorati, di evasione. Gli stessi che avrà avuto quel gatto di merda, mezzo nero mezzo grigio, tisico nel corpo e nell’andatura, che ci guardava con gli occhi tristi da lontano. Vaffanculo. Un giorno verrò a trovarti nella tomba, quella che ti sei scavato con le unghie rotte. Piangerò con te, stronzo d’un gatto. Stringendoti al petto ti sussurrerò che non è bastato il tuo sacrificio a placare la fame dei nostri antenati. Essere ricchi non è una colpa, ma a me hanno insegnato il contrario. Per questo forse ho una smorfia costante sulla faccia mentre percorro queste strade. I viali alberati sono cose da ricchi, mi dicevano, nascondono le case di chi ha i soldi. Le foglie che cadono sono gentili, non come gli schiaffi che mi dava mia madre, quando tornavo a casa sporco di fango, e i vestiti laceri. Ma come i baci che sento schioccare dietro queste finestre, nella penombra dei salotti, nel silenzio delle cucine. In questo posto i passi non sono tutti uguali, e i miei pesano troppo. Vorrei essere un gatto, e avere il passo felpato, morbido sulle cose e sui pensieri. Scivolare sui tetti, mettere le ali sulle zampe e cadere senza fragore, senza il fracasso che fa un corpo pieno di spilli. Correre tra i prati ben tagliati di questi villini e pisciarci sopra. Sarebbe sbagliato, forse. Queste case sono troppo belle per pisciarci sopra. Hanno le pareti lisce come i culetti dei neonati, ingressi graziosi, vialetti circondati da siepi. E poi ancora cancellate in ferro battuto, comignoli di mattoni rossi e tutto ciò che un povero Cristo può desiderare. Non è tutto oro quel che luccica, ripeteva mia madre. Col cazzo. Le ombre sono ombre e l’oro, anche se zozzo, è pur sempre oro. E queste case che ho sempre guar-

dato da lontano, tornando verso casa, mentre il pantalone troppo largo mi cadeva dai fianchi e il moccio crollava giù dal naso, erano oro e anche di più. Erano l’Eldorado per qualsiasi famiglia come la nostra, che certe cose poteva solo sognarle, ma se non lo faceva anche meglio, che tanto la vita vera è questa e i ricchi fanno schifo, non capiscono niente, puh!
Le case dei ricchi hanno una rotondità tutta loro. Nei soffitti ricamati, nei lampadari pendenti, nella cristalleria che buca le vetrine. Hanno un loro tepore, intendo, un amore che illumina le stanze. Un amore intimo, che in realtà è tutto piegato all’esterno, e si riversa come luce sui tappeti, nei pomelli in ottone delle porte, nelle giornate di chi le abita. Qualsiasi cosa significhi abitare. Per quelli come me abitare un luogo significa inzepparlo di ferite; è un modo di fallire – un sopravvivere, piuttosto. Per loro, invece, che cosa può voler dire abitare se non vivere ogni singola mattonella, ogni caduta dalle scale? Che significa vivere per chi ha le mani sempre al caldo, per chi è bagnato dalla luce?
Le case dei ricchi hanno bagliori e riflessi particolari. Da loro è sempre Natale. Le case dei ricchi hanno la postura dei giganti, lo spessore delle parole pronunciate dalle cattedre. Sono splendenti di una lucentezza tutta loro, che nessun’altro merita. I pargoli che vi dimorano hanno la pelle chiara e i capelli che sanno di latte, i denti più bianchi delle stelle ad agosto. Da noi le stelle sono sempre state nere. I miei compagni di giochi raccontavano di grosse palle nere, che nel buio della sera si confondevano col cielo. Dicevano che mai si erano viste stelle bianche o blu, e che erano scure perché scure erano le nostre strade, e le mani dei nostri genitori, e i muri delle case. Persino il gatto era nero e ricordava a tutti quel vecchio pazzo che una volta brancolava per le vie, dicendo a tutti la vita è altrove, la vita è altrove! per poi scomparire nella notte. Nessuno lo ho mai ascoltato. L’unico sarà stato quel gatto, che ha ceduto alla mollezza dei gesti, al lucido richiamo dei vetri, e che infine ha rinunciato a noi per amore della sua sporca carcassa.
Le case dei ricchi offrono cibo e tappano i buchi dell’anima, che sono anzitutto buchi nello stomaco. Sorridono e sono calde nella loro arroganza, dentro sono nidi accoglienti per i suoi pulcini. Ogni cucciolata ha la sua lucentezza, ma non è l’uovo a luccicare. Niente brilla di più delle case dei ricchi.

Li Chen sbriglia gli occhi dai gomitoli del corsivo italiano per controllare la fermata: Baldo degli Ubaldi.
Le porte si chiudono e con loro il suo sguardo nelle caselle rosse degli esempi, la G corsiva proprio non gli entra in testa.
Prima su, poi giù, due curve, dice tra sé e sé mentre disegna con l’indice innumerevoli g nell’aria stantia del vagone. I tratti incerti della sua penna si azzuffano sul foglio e non c’è linea tratteggiata che tenga. Sospira, forse hanno ragione i suoi nipoti: non è più tempo di imparare a leggere. Poi si sa che l’italiano è difficile. Non per loro, certo, loro tornano fieri da scuola perfettamente in grado di solfeggiare quelle dannate lettere ricurve, sfondano la porta del negozio con mitragliate di R e granate di accenti, come se la loro madre non li avesse mai allattati in cinese.

I freni stridono: Valle Aurelia.
Rotti definitivamente i rapporti con la g, prova a ricontrollare la p di pane, vicina alla a: un cerchietto che gli dà sicurezza. Mentre le labbra sbattono tra loro per ritrovare il suono giusto, la bocca di Li Chen si riempie del sapore del pane al vapore della nonna, che, ancora caldo, si incollava al palato, appiattendogli la lingua come la p.
-笨拙! Lo rimproverava allungando ancora di più le vocali e sbarrando gli occhi, sempre ombreggiati dalle palpebre cadenti, fingendo chissà quale incorreggibile delitto.
Spesso quand’era piccolo lo mandava all’ufficio postale a ritirare il giornale. In quegli anni in Cina non esistevano ancora librerie o edicole e le poche testate disponibili si ritiravano all’ufficio, previo abbonamento. Li Chen tornava di corsa a casa, stringendo il plico come fosse qualcosa di proibito, un segreto che gli era stato affidato, e poi osservava la nonna scartarlo e sfogliare le pagine del giornale, fiori di loto tra le sue dita.
A pensarci ora, si rendeva conto di quali rotocalchi filo governativi fossero quei giornali, eppure, dopo aver passato al setaccio ogni singolo tratto stampato, lei li riponeva tutti insieme sull’unico mobile oltre il tavolo che possedeva: quelle pagine erano il solo arredamento.
Li Chen avrebbe voluto regalarle un libro vero, ma la nonna non aveva fatto in tempo a vedere le riforme culturali degli ultimi vent’anni.
Fermata Cipro.

Si crogiola ancora un po’ nel ricordo del pane caldo mentre appoggia gli occhi sull’esercizio successivo tra i quadrettoni dell’abbecedario: lo farà in negozio, tra il nastro isolante e le forbici, tra un deodorante e l’ennesima cianfrusaglia.
Non si è portato nemmeno un libro da leggere dalla Cina, realizza, nemmeno una pagina da annusare per darsi sollievo da quel tanfo di plastica. Come fanno sua sorella e i suoi bambini? Loro non hanno mai nemmeno visto l’orto della nonna, la campagna, le risaie terrazzate fino al fiume. Dove scappano?
I soldi, si risponde, i soldi.
Fermata Ottaviano.

Come al solito salgono schiere di turisti. Per gli italiani tutti cinesi sono uguali, gli hanno detto una volta. Li Chen li osserva di sottecchi, e dall’accento capisce che i turisti provengono della regione di Jiangsu: i ricchi. Forse nemmeno loro hanno mai visto la campagna, non gli interessa: si abbandona alle loro chiacchiere, ai loro suoni, ai loro ritmi, che tra poco, lo sa, non saranno più suoi.
Lepanto, Flaminio, Spagna, Barberini, Repubblica.
Intorno a sé ha praticamente solo cinesi ormai, ma non si sente affatto a casa. Sono tutti vestiti all’italiana, secondo loro, e mica lo sanno che gli italiani lo sanno, invece, quali vestiti sono italiani e quali cinesi. In un anno a Roma non ha mai visto un cinese entrare nel negozio. Una volta ha sentito un ragazzo appena fuori dalla porta dire al telefono “Aspe’ sto entrando dai cinesi” ma dentro il negozio non c’erano né quei cinesi vestiti da italiani, né i cinesi vestiti da cinesi; c’era solo lui, lui e le cose, lui che, muto, è una cosa tra le cose.
Termini, finalmente.
L’incrocio della capitale smista quasi tutti. Il vagone si svuota di cinesi che vanno via senza dimenticare sui sedili nemmeno una vocale, nemmeno un accento, un fono qualsiasi che lo lasciasse ancora per un po’ nelle insenature umide delle E lunghe, nei ruscelli delle I che scorgano gentili dai promontori delle N. Riapre il quaderno degli esercizi, ma prima di fiondarsi ancora nelle caselle intercetta una donna.
Seduta, ingobbita, rattrappita sul sedile si tormenta le labbra. Le sopracciglia tengono fermi sotto di loro gli occhi che vanno a destra e sinistra con scatti velocissimi. Le mani sono tese sulle pagine voltate di fretta. Li Chen non smette di fissarla ma lei non c’è per nessuno.
Poi d’improvviso, senza staccare gli occhi, si distende, sembra ricambiare un sorriso alla pagina, ora più gentile. Continua a fissarla ma lei resta altrove. Li Chen vorrebbe essere lì, ovunque lei sia, camminare di casa tra parole sconosciute, tornare.
Vittorio Emanuele.


Anni fa pensavo che tutto fosse sempre stato così come lo vedevo: i genitori adulti, e i nonni vecchi. I miei familiari erano esseri senza passato, venuti alla luce insieme a me con l’unico scopo di guidarmi nella vita. Nessuno di loro poteva aver mai provato ciò che provavo io, il sapore del primo amore, delle prime delusioni.
Pensavo anche che il nonno non volesse bene alla nonna, perché negli ultimi tempi era arrabbiatissimo con lei, non gradiva averla intorno. Dopo aver passato la vita insieme, aver avuto due figli, tre nipoti, faticava a compiere le cose più semplici, ad esempio ricordarsi il suo nome.
Un tempo credevo che non si potesse mai arrivare dimenticare il nome della persona amata. Adesso le mie mani frugano tra le vecchie fotografie, il passato mi arriva fino ai gomiti e io non ne sono più sicura.
Me lo ricordavo anziano, piccolo e sorridente, incredibilmente buono, come solo poche persone sanno essere. Aveva un bel paio di baffi e occhi verdi, appena un po’ sbiaditi alla fine, ma tanto simili ai miei. L’uomo delle fotografie, invece, è un giovane, magrissimo militare con una perenne sigaretta in bocca, tra deserti, palme e tukul. È ritratto con la pistola in mano, mentre stende delle reti, o posa accanto ai cammelli insieme ad alcuni compagni, amici suoi. Il sorriso mi è familiare, tuttavia non so a chi appartenga. Sembra il sorriso di uno sconosciuto.
La calligrafia scarabocchiata sul retro, poi, è ordinata e precisa, non somiglia a quella del nonno che scriveva in modo traballante e caotico. È di qualcuno che ci tiene a precisare: “Ricordo del mercato di Macallé”, “Uno scoglio in mezzo al mare, mezzo ubriaco”, e “Viaggiando sul «Conte Rosso» per l’Abissinia”.


Ce n’è una in particolare che non riesco a smettere di guardare. Il giovane è in piedi con un gigantesco casco in testa – gigantesco perché è proprio un piccoletto. I pantaloni alla zuava sono esageratamente gonfi sui fianchi, ma pare non importargli, lui se ne sta lì, in posa, a sorridere fiero. Sul retro ha scritto: “A te questa mia, non perché guardandomi tu mi pensi, ma perché pensandomi tu mi guardi. Tuo per sempre, Sandro, 9-7-1940, XVIII”.

Era per la nonna, o meglio, per la ragazza che appare nelle fotografie di quegli anni. Anche lei è diversa dalla persona che ho conosciuto, sempre così rigida e seria. La sua versione giovane è serena e gioiosa, ha gli occhi pieni di vita. Ancora una volta non ho idea di chi sia.
Il nonno le scriveva “tuo per sempre” e in quel momento doveva sembrargli vero, non aveva idea che persino l’eternità avrebbe avuto una scadenza. Ma chi lo sa, in fondo? È così breve, dura soltanto finché siamo in vita.
Anzi, a volte nemmeno tanto a lungo.
Oggi di quel per sempre restiamo noi, i figli, i nipoti, le fotografie scarabocchiate sul retro. Il giovane di uno “scoglio in mezzo al mare, mezzo ubriaco” è scomparso, e così quello del «Conte Rosso», e pure il
ragazzo che aveva fatto la guerra d’Africa, la ragazza che lo aspettava a casa. Perché, come ho letto in un libro: quando muori, scompari.
Eppure sarebbe bastato che il nonno ne parlasse a qualcuno perché il mercato di Macallé continuasse a esistere, e così la Libia, l’Etiopia, gli amici che sorridono insieme a lui, i loro vent’anni, i sogni. Doveva solo raccontare, io ci avrei scritto sopra una storia e niente sarebbe mai scomparso. Perché non l’ha fatto?
Forse perché nulla è mai semplice mentre lo si vive. Forse il nonno non ne voleva parlare, e se qualcosa non si dice, è come se non esistesse, giusto? Magicamente scompare, un po’ come quando muori.
Ha preferito dimenticare. È tornato a casa dalla nonna, con una bella medaglia al valore militare e tanti saluti, ed è stato fin troppo facile sostituire i ricordi dell’Africa con anni nuovi, diversi, con la vita che continuava nonostante tutto. Probabilmente a nessuno è venuto in mente di fargli delle domande, in fondo le sofferenze appartenevano soltanto a lui, e i figli avevano altro a cui pensare. E poi ci sono io, sua nipote, che vorrei tanto sapere, ma che non posso farlo.
Quando muori, scompari.

Ma io sento il passato brulicare sotto alle mie dita, ho bisogno di dare un nome a questi volti sorridenti, di sapere dove si trova quel preciso tukul o cos’è accaduto esattamente sul «Conte rosso» verso l’Abissinia. Così mi ritrovo a pensare a un altro libro, che diceva pressappoco così: è degno di essere scritto non ciò che si conosce, bensì ciò che si suppone.
Ed è allora che il nonno prende vita nel pezzo di carta che tengo tra le mani. Mi guarda ed è così giovane ed estraneo, però io so che un giorno diventerà la persona che conosco. Lo osservo fumare una sigaretta appoggiato al palo di una tenda, col gigantesco casco ben calato in testa e un cammello che rumina alle sue spalle. È tanto tempo che si trova laggiù, dove il sole picchia forte e rende la pelle scura e dura, al pari del cuore. La polvere gli si è infilata dappertutto e gli occhi verdi hanno visto molte cose brutte, le mani si sono macchiate di sangue perché la patria potesse avere di nuovo un impero. La nostalgia di casa gli si è annidata dentro e a volte lui pensa che non riuscirà mai a stanarla, né con il fumo, né con la bottiglia.
D’un tratto lo sguardo gli cade su una donna poco distante. Indossa un habesha kemis bianco, i capelli sono raccolti in un’elaborata serie di trecce che là chiamano shiruba, e lui nota che con fatica sta riempiendo un secchio al pozzo dell’accampamento. Non potrebbe essere più diversa dalla sua amata, mia nonna, che si trova a migliaia di chilometri di distanza, in mezzo a un bosco di ippocastani e di cipressi e non tra deserti, palme e tukul. Ma farò finta che sia andata proprio così, che vedendola lui abbia pensato: oggi è il 9 luglio 1940, e io le scriverò una bella lettera.
Avevo viaggiato di notte per evitarmi traffico e code. Arrivai intorno alle sette. Fui fortunato, trovai parcheggio proprio sotto casa. Non avevo il garage, ma non era un problema; la settimana precedente avevo ricevuto per posta il permesso dal Comune. Potevo parcheggiare la macchina ovunque, perfino all’interno delle strisce blu.
Sceso dall’auto, mi stiracchiai, poi mi guardai intorno. La strada sonnecchiava ancora, anche se il sole aveva già cominciato a scaldarla. Profumo di burro e pane. Era un bel quartiere. Silenzioso, curato, nemmeno troppo lontano dal centro; lo si poteva raggiungere in cinque minuti coi mezzi, oppure in un quarto d’ora a piedi. La casa era spaziosa, anzi enorme. L’aveva scelta Mara, l’aveva desiderata con tutta se stessa.
Aprii il bagagliaio stracolmo. Sospirai e mi feci coraggio pensando che avrei avuto tutto il tempo necessario per scaricare la macchina con calma; gli operai non sarebbero arrivati prima delle dieci.
Presi il primo scatolone, lo poggiai un attimo per terra e misi il fermo al portone. Mi incamminai su, fino al secondo piano.
Entrando nell’appartamento, fui pizzicato dall’odore di vernice. I muri erano stati tinteggiati solo da qualche giorno. Lo scatolone mi sfuggì di mano e si schiantò sul pavimento. L’eco profonda che si propagò nell’ingresso e poi nel salotto mi fece sussultare. Nello scatolone c’erano solo libri, nulla di rotto.


Non sopportavo quell’odore. Spalancai le finestre e il salotto fu subito invaso da un’arietta frizzante.
Feci un rapido sopralluogo. Bagno e cucina erano le uniche stanze già ammobiliate. Dalla portafinestra di quello che sarebbe diventato il mio studio arrivava la luce diretta del sole. L’agente immobiliare ci disse che quella era la stanza più calda della casa.
Uscii sul terrazzo per dare un’occhiatina. Di fronte un altro palazzo, in basso le fitte chiome dei tigli. Mi ricordai della macchina, degli scatoli incustoditi. Mi feci prendere da una leggera ansia e mi affrettai a scendere giù in strada.
Mi ci vollero una ventina di minuti per scaricare la macchina. Ero sudaticcio. Mi sbottonai i primi tre bottoni della camicia e mi tirai su le maniche. Aprii qualche scatolone per cercare un asciugamano. Mi lavai il viso e mi ravviai i capelli. Guardandomi allo specchio pensai che non avevo affatto una bella cera. Ero sfinito per il viaggio. Vidi l’orario: potevo prendermela con comodo. Chiusi tutto e me ne andai.
Una passeggiatina per sgranchirmi un po’. Il quartiere aveva finalmente preso vita. Mi lasciai sedurre dal quel profumo di burro. Lo seguii e ben presto mi ritrovai in una pasticceria.
Il cappuccino e la zeppola che divorai in due morsi quasi mi commossero.
Prima di tornare a casa, feci un altro giretto nei paraggi. Dopo la banca e il supermercato, scovai una libreria che non avevo mai notato bighellonando lì con Mara. Diedi uno sguardo alla vetrina e mi ripromisi che avrei fatto una capatina nei giorni successivi.
Sul piano rialzato m’imbattei in una signora che si trascinava dietro un carrellino per la spesa. Mi domandò se fossi il nuovo inquilino, quello che aveva comprato la casa della signora Tassi. Una cara donna, disse. Era morta da quattro mesi ormai. Mi disse che si ricordava di Mara, l’aveva intravista l’ultima volta che eravamo venuti con l’agente. Sorrise e mi diede il benvenuto. La ringraziai e ci salutammo.
Non appena entrai in casa ricevetti la chiamata di uno degli operai. Mi chiese se potevamo anticipare alle otto e mezzo. Non me lo feci ripetere due volte: volevo sbarazzarmi di loro il prima possibile.
Un trambusto continuo. Ho sempre odiato avere gente estranea in casa, ma la presi con pazienza, non potevo fare altrimenti.
La stanza da letto fu la prima ad essere ammobiliata; almeno avrei dormito su un materasso quella notte.
Seguivo i lavori, davo direttive su dove posizionare esattamente i mobili. Erano in sei, lavorano spediti, non si perdevano in chiacchiere, il che mi rinfrancò molto.
Quando potevo sparivo sul terrazzo per fare qualche chiamata. Prima ai miei, poi a mia sorella, che mi disse per l’ennesima volta: Sei un cretino, ma chi te l’ha fatto fare?!, e infine al mio editore.
Verso le due uscii di casa. Volevo andare a prendere qualcosa da mangiare e da bere per i ragazzi, se la meritavano. Comprai della focaccia e qualche birra. Mangiammo tutti insieme, scambiammo qualche battuta e brindando mi fecero gli auguri per l’appartamento. Poi ripresero subito a lavorare. Per ultimo montarono il tavolo nel salotto e portarono su il divano, ancora incellofanato.
Alle quattro del pomeriggio avevo tutti i miei mobili per attutire l’eco e nascondere il vuoto. Passai per le stanze: adesso mi sembrava un appartamento normale. Anzi, proprio una bella casa. L’unico neo era solo quel persistente odore di vernice. Sarebbe andato via anche quello, col tempo.

Per il giorno dopo avevo appuntamento con la ditta di pulizie. Decisi però di rassettare almeno la camera da letto. Ricordavo che in cantina c’erano un secchio e uno scopettone, li avevamo portati sempre l’ultima volta.
Scendendo incrociai di nuovo la signora. Mi domandò come procedeva il tutto, se mi stavo ambientando nel quartiere. Le dissi che c’era ancora molto da fare, ma che per il momento ogni cosa stava andando come doveva. Dopo mi chiese quando sarebbe venuta Mara. Tra qualche giorno, le risposi.
Entrai in cantina e accesi la luce. Laggiù c’era puzza di muffa. Aprii il finestrone che dava sul cortile del condominio. Tutt’a un tratto, avvertii come una crepa, una piccola erosione, dentro di me. Una specie
di avvisaglia alla quale mi rifiutai di prestare la dovuta attenzione. Presi quello che mi serviva e tornai su.
Pulii e lavai la camera e, già che c’ero, anche il bagno. Ero zuppo di sudore. Mi feci una doccia, mi cambiai e andai al supermercato. Comprai solo l’essenziale.
Per le scale trovai una ragazza che armeggiava faticosamente con delle buste e una cassa d’acqua. Le domandai se aveva bisogno di una mano; quella voltandosi e sorridendo disse di sì. Afferrai la maniglia dell’acqua e ci avviammo su per le scale. Aveva la testa rasata. Era alta, slanciata e ondeggiava come un’ammaliante creatura notturna.
Poco dopo scoprii che era la mia dirimpettaia. Ci presentammo, si chiamava Lous. Le sue labbra spropositatamente carnose, il biancore dei suoi denti e l’imperscrutabilità del suo sguardo ebbero su di me un effetto dirompente. Mi raccontò che era nata in Ghana, ma viveva in Italia da quando aveva cinque anni. Restammo a parlare e a ridere per diversi minuti, sul pianerottolo. Già mi piaceva. Pensavo di piacerle anch’io, o quanto meno che le fossi simpatico. Alla fine ci salutammo con la promessa di rivederci presto, magari per bere qualcosa insieme.
Chiudendo la porta, pensai Vaffanculo, Mara. Vaffanculo!, senza nessuna remora. Ero fiero di me stesso.
Trascorsi il resto del pomeriggio a svuotare gli scatoloni e a riempire l’armadio. Richiamai mia madre per aggiornarla su tutto. Mi sdraiai sul divano, sempre incellofanato, e più tardi cenai con un pezzo di focaccia avanzato a pranzo.
Vagai un po’ per la casa, accendendo e spegnendo le luci di ciascuna stanza. Andai sul terrazzo. L’aria era tiepida, si stava bene. Avrei voluto una sigaretta, ma non cedetti alla tentazione.
Aprii il frigo e vidi un paio di birre. Vado a chiederle se le va di bere. Ci pensai su e mi dissi L’hai appena conosciuta, non fare il coglione…
Nonostante il viaggio di notte e la giornata piena, non avevo sonno.
Verso l’una mi infilai sotto le coperte. Guardavo il soffitto nero, oppure cercavo la posizione giusta per addormentarmi.
Poi avvertii di nuovo quell’erosione, però stavolta era molto più violenta, proprio come una frana. Mi venne una gran voglia di piangere. Ma mi trattenni.

Avverto gli stessi brividi della capinera irrequieta che dal colore del sole capisce l’ora di partire. Non sono capinera né rondone ma le piume sventolano lo stesso, le penne scricchiolano, le scapole si aprono in una prova di volo.
Non c’è ragione nelle mie ali, solo un brivido oscuro ma non estraneo: vedo l’intero branco vibrare della mia stessa inquietudine. Siamo ugole che gridano suoni disarticolati, zampe che improvvisano passi zoppicanti. Siamo solo istinto che nella sua lingua senza grammatica ci impone di seguire la parlata dello zefiro.
Non è insofferenza per la terra di pini e di lecci che ha ospitato i nostri nidi; né noia per la brezza sottile che sa di mare sulle nostre piume; non è fastidio per le giornate azzurre di luce e le notti luminose di luna che abbiamo attraversato fino a diventare scuri di piumaggio e forti nel becco. Queste rive di sirene e marinai resteranno mie, come il sapore dell’uva aspra e il fruscio degli ulivi, ma sento che non posso rimanere oltre: il sole si fa prepotente, le penne sono già troppo secche.
Io parto: seguo la rotta incerta del branco che si fida dell’odore del vento. È un volo leggero, che sa di libertà; l’aria attraversa le ali limpida e nessun corpo sembra avere più peso. Siamo un’ombra volubile che cambia senso e direzione a caso, come i pensieri. Siamo tutti, siamo uno solo, siamo cielo e terra. Siamo ciò che vogliamo. Pensiero, senza forza di gravità. Appena la rotta si fa certa, una strana eccitazione attraversa lo stormo. Non più capinere né rondoni, ma una sola aquila immensa che insegue, punta, scende in picchiata sulla preda. Così vola il branco, esaltato dall’odore di pollini che colora l’aria.


Quel profumo di fiori, però, è un tranello e a capirlo ci mettiamo troppo tempo. Il miele si fa amaro e ci trascina dentro un’epidemia dei campi magnetici avversi. Siamo costretti a una continua bolina. Il volo diventa estenuante. Le nostre ali conoscono brume e vapori, tempeste e bonacce improvvise ma non sanno niente dell’invisibile, che gli occhi non captano e le menti non afferrano. Il male non si vede ma è nel respiro che viene a mancare, nei corpi improvvisamente pesanti come il piombo. L’aria si fa colla tra le piume. Vedo carcasse cadere nel vuoto senza più portanza. Il branco decimato prende una nuova forma, lunga e sottile.
Come fa la capinera, io continuo a volare seguendo la rotta tracciata dalle nuvole bianche e grigie nel cielo. Sorvolo terre isolate, città abbandonate, campagne ammutolite. I deserti non indicano oasi di sosta. Solo il cielo sembra sicuro, perché l’azzurro, in ogni caso, conforta. Non c’è studio né logica in questo andare, non c’è capobranco. Ognuno migra per sé, fianco a fianco con altri sconosciuti. Solo l’istinto, uguale per tutti, impone di continuare; e io, come gli altri, vado.
L’odore del contagio (che non si vede ma uccide) continua a disorientare. Lo stormo si allarga, si apre, si frantuma in mille frulli e cento voci che intonano ognuna una diversa canzone. Il gruppo si perde dentro correnti fredde di paura che sbandano e confondono. Adesso le nuvole gialle scendono basse e attraverso la nebbia non si vede altro che il nulla. Nessuno riesce più a intuire chi è vicino e se ancora c’è, un vicino. Lo capisco dal silenzio improvviso che è sceso fitto come la paura. Lontano, oltre a quella coltre, l'illusione di una luce pallida sembra buona come il cotone. La mia schiera – o quello che resta – decide per quel bagliore scialbo che sa di rinuncia. Si ferma.
Io chiudo gli occhi per non farmi tentare dal vuoto e continuo a volare. Forse resto solo. Ogni tanto sento l’aria spostarsi, forse un frullo d’ali sopra, o forse sotto. A volte a fianco. Ma il mio volo ormai è cieco e solitario.
Nella mente (forse di umano, forse di uccello) echi ancestrali si mescolano a forme che ancora non comprendo; è una vibrazione che dorme sotto la pelle, tra le piume o dentro le vene. È una scossa senza sequenza né struttura, ma l’istinto mi suggerisce di accoglierla e di seguire la storia che non può fermarsi qui, con la resa. Tra le piume c’è ancora una forza, una voglia, una pazzia che mi costringe ad andare, senza altra scelta.
Va bene, continuerò a seguire questa storia. Andrò avanti ma questa volta non mi farò fregare dall’odore del vento né dal colore delle nuvole rosa. Questa volta osserverò i toni della terra che mi indicheranno le spiagge, le scogliere, le colline. Seguirò il corso del fiume dalle lente anse fino a che troverò il mio miraggio: il luogo che so da sempre senza averlo conosciuto mai. Territorio di regine, vagabondi e maghi, di assassini e scrittori, città di stracci e broccati; creste colorate, diademi, catene. Vomito e birra. Grida e risate. Sotto uno dei suoi alberi dai rami cadenti cercherò rifugio, ali chiuse, respiro sottile. Con brevi voli radenti esplorerò i pontili galleggianti sulla sabbia che odora di fango, i cieli incerti tra l’ombra e la luce che acceca. Vagherò tra i quartieri di vetro e gli altri, che sanno di carbone e verbena. Ci sarà un occhio gigantesco a guardarmi le spalle: ogni sera le sue ciglia si tingeranno di rosa, per vegliare sulla notte. La mattina quell’occhio sbircerà il mio sguardo e si chiederà se nei miei sogni sia apparsa, come per incanto, la sua visuale di quiete. In mezzo alle aiuole piccole anime di bronzo racconteranno leggende d’oltremare per lo svago di scoiattoli, cigni, folaghe di passaggio. Sotto i ponti i gabbiani porteranno sulle ali il sapore del nord e dei suoi richiami corsari. Orologi senza tempo, ad ogni angolo di strada, daranno senso ai tempi che cambiano come cieli di nuvole mosse. I treni muoveranno dal trotto al piccolo galoppo, i bus allampanati dondoleranno fino alla fermata successiva, gli aerei affronteranno la gravità dell’orizzonte.
Muto sarà il mio vagare, fino a che un’alba, a sorpresa, mi farà tornare il fiato per cantare. Non sarà il canto della capinera né del rondone che chiama la primavera. Sarà una voce senza stagione, fatta di storie inventate, parole storpiate, promesse, errori, vagheggiamenti e abbagli. Il mio fiato si animerà dei sogni e

dei pensieri di tutta la gente che ho ascoltato brulicare, baciare, abbracciare, ridere, urlare, litigare.

Il mio canto sarà il loro canto: combinazione di suoni antichi, familiari e stranieri confusi in una musica nuova, che vibrerà attraverso le mie corde. Nel mescolarsi di voci e richiami riaffiorerà - a tratti - il paese dalle persiane che scricchiolano al tramonto, distinguerò lo sciabordio delle chiglie all’ormeggio, l’eco del mare che sale dai vicoli, il vociare delle madri nelle piazzette, i baci di resina sotto i rami di pino. Avvertirò di nuovo il brusio dei pioppi sotto il sole di maggio, i riflessi del corbezzolo e del lentisco.
Allora saprò arrivata l’ora di tornare verso una meta nuova, che so ma forse non conosco ancora. Un brivido lungo le piume sarà il presagio iniziale, le zampe prenderanno un moto insulso, senza riposo. Il mio respiro corto farà salire l’ansia fino al cuore. Non ci sarà logica, nessun criterio nello spiegarsi delle ali alla ricerca di un refolo nuovo. Il calcolo delle correnti sarà approssimativo così come la previsione del tempo. Ma il risultato del computo non avrà alcuna importanza per me, che non conosco la lingua dei numeri. Muto, mi metterò ad ascoltare e sarà di nuovo la voce del vento a trasformare l’arrivo in una nuova partenza.


Fuoco.
Le senti, le fiamme?

Sono ovunque. Sfrigolano, scoppiettano, divampano, divorano tutto.
Seduta sul pavimento, accanto al caminetto acceso, Valentina sta giocando con le bambole. Alcune erano mie. Lo sono state fino al giorno in cui la mamma mi disse di lasciarle tutte a lei perché ero diventata troppo grande. Avevo la Barbie Superstar, la Barbie Sposa, la Barbie Ballerina, e poi la casa, il camper, la bicicletta e lo scooter, persino un cavallo e una jeep rosa. Ne avevo cura, maneggiavo quel mondo in miniatura con la delicatezza di un orafo, spogliavo e rivestivo con amore quei corpi di plastica e creavo storie che non ho mai dimenticato.
Adesso appartengono a Valentina. Lei le afferra, le sbatte, le tortura, stacca le teste per vedere che cosa c’è dentro, taglia i capelli, disegna sulle gambe orrendi tatuaggi con i pennarelli indelebili, strappa a morsi le dita dei piedi e ne fa disgustosi moncherini. È una stronzetta sadica, sembra un angioletto, ma è solo apparenza, lo so. L’avevo capito subito, sette anni fa, quando la mamma e Michele la portarono a casa dall’ospedale dentro l’ovetto. Quella sera mi avevano fatto avvicinare alla culla – dai un bacino alla sorellina – e io avevo baciato piano quella guancia che aveva la consistenza delle bucce di pesca e sapeva di olio Johnson, ma lei aveva aperto due occhi blu ghiaccio, mi aveva fissata come se avesse voluto incenerirmi, si era messa a strillare ed ero scappata.
Eccola lì, adesso, sembra ignorarmi, ma ogni tanto alza gli occhi e mi fissa. Lo fa sempre quando tormenta le mie bambole, vuole assicurarsi che io assista e le veda soffrire.
«La principessa Odette è chiusa nella torre, ma il principe Sigfrido si lancia al galoppo e va a salvarla», dice, «allora lei lancia la sua treccia dalla finestra per farlo arrampicare».
«Stai confondendo le storie», dico io, «quella che butta la treccia è Rapunzel, non Odette».

«Fatti gli affari tuoi. Leggi il tuo libro e non mi seccare».
Perché esisti, Valentina? Perché sei entrata nella mia vita?
Come vorrei che Fuoco. Le senti, le fiamme?
Si arrampicano sulle tende, si allargano sul pavimento, divorano il tappeto, una marea che non si ferma.
Prima che lei nascesse, la mamma voleva bene solo a me. Eravamo felici, la mamma e io. La sera mi leggeva le favole per farmi dormire, la domenica andavamo in bicicletta al parco e mi guardava salire sullo scivolo e sull’altalena. Poi è arrivato Michele e tutto è cambiato. Da quando c’è Valentina, ne sono certa, la mamma ama loro più di me. Non essere gelosa, mi dice sempre, Valentina è piccola e tu sei la sorella grande. Sono stanca di essere la sorella grande di Valentina. Vorrei che non fosse mai nata.
Anche oggi me l’hanno affidata. Devo stare con lei mentre la mamma e Michele sono al lavoro, perché la babysitter da qualche giorno non può venire. Forse non verrà più perché non sopporta Valentina. Anche a me piacerebbe poter dire basta, non voglio più badare a lei. Ma non posso. Io sono la sorella grande, quella responsabile, quella su cui si può sempre contare. Così me ne devo stare qui, sul divano, a guardarla maltrattare e distruggere le mie bambole, mentre le mie amiche si trovano al bar dell’oratorio senza di me.
Valentina ha acceso un fiammifero e sta bruciando i capelli di Barbie Veterinaria. Li guarda squagliarsi, diventare un grumo informe di plastica fusa, e sorride. Adesso la Barbie ha la testa annerita dalla fiammata, al posto dei suoi lunghi capelli biondi c’è un cranio calvo e devastato.
«Sei un’idiota», le dico.
Alza le spalle.
«Tanto non mi piaceva».
Guardo l’orologio appeso alla parete, mi alzo dal divano e chiudo il libro che non stavo nemmeno leggendo.

«Va bene», dico, «lo sai che faccio? Me ne vado. Esco».
«Guarda che lo dico alla mamma, che mi lasci a casa da sola».
«Sei un mostro».
Lei sorride, con quel sorriso maligno che riserva solo a me. È cattiva. So che è cattiva.
Sii buona con Valentina, lei è piccola, dice sempre la mamma.
Non è vero, lei è cattiva.
Chiudo gli occhi e immagino Valentina al posto della Barbie. Penso alla vampata che accende i suoi capelli come una torcia, si propaga ai vestiti, al tappeto, l’avvolge tutta in un abbraccio che abbaglia. La vedo saltellare per la stanza come un’indemoniata, sento le sue urla di dolore farsi sempre più deboli mentre il fuoco la divora, la consuma, la cancella, cenere tiepida che si disperde e vola via, lontano da me.
Quando riapro gli occhi Valentina è ancora lì, seduta sul tappeto, così vicina alle fiamme del caminetto che le scintille potrebbero raggiungerla, incendiarle davvero i capelli e i vestiti. Mi allontano lungo il corridoio e sistemo la frangetta davanti allo specchio dell’ingresso, infilo il piumino nuovo e apro il portone. Le vacanze di Natale non sono ancora finite e fuori il cielo promette neve.
Penso a quanto vorrei che Valentina sparisse, per sempre.
Vorrei tanto che
Fuoco.
Le senti, le fiamme?
Ascoltale. Respirale, lascia che il calore ti avvolga. Non è meraviglioso?
Seduta a un tavolino del bar con Simonetta, Matilde e Serena, mangio la cioccolata calda con il cucchiaino. Non si può ancora bere perché è bollente, brucia la lingua come fuoco denso. Come un incendio. Simonetta mi sta parlando, ma io non riesco ad ascoltarla. C’è qualcosa, nella mia testa, un’immagine che non se ne vuole andare. La vedo, se chiudo gli occhi, ma la vedo anche con gli occhi aperti.
La vedo.
Fuoco.
Le senti, le fiamme?
Ascolta la potenza del fuoco. Distrugge e purifica, cancella, elimina.
Sparirai, di te non resterà altro che
Simonetta continua a parlare, ma io non riesco a sentire quello che dice. La sua voce è un sussurro ovattato che percepisco a malapena, mentre mi concentro e penso al caminetto acceso nel mio salotto. Sono lì, adesso, sono a casa ed è meraviglioso vedere le scintille che saltano come lucciole impazzite e si riversano sul tappeto e sui capelli biondi di Valentina. Se lo desidero, succederà? Posso davvero desiderarlo per farlo succedere? Sarebbe perfetto, lei sparirebbe, cenere e polvere. Eccola, sì. Vedo i suoi capelli che s’incendiano, vedo lei saltellare come un’indemoniata, la sento urlare, il calore del fuoco arriva fino a me, mi brucia la gola e lo stomaco.
Che stupida, è solo la cioccolata.
Oppure è
Fuoco.
Le senti, le fiamme?
Sono ovunque. Sfrigolano, scoppiettano, divampano, divorano tutto. Si arrampicano sulle tende, si allargano sul pavimento, sul tappeto, una marea che non si ferma.

Ascoltale. Respirale, lascia che il calore ti avvolga. Non è meraviglioso?
Ascolta la potenza del fuoco. Distrugge e purifica, cancella, elimina.
Sparirai, di te non resterà altro che cenere. È così che ti voglio ricordare, Valentina, brace tiepida e cenere dispersa dal vento.
Usciamo dal bar. Sta cominciando a nevicare, fiocchi grossi come pop corn, che Matilde e io cerchiamo di mangiare tirando fuori la lingua.
Una sirena in lontananza. Il suono si avvicina, è sempre più forte, di colpo il furgone dei pompieri è una macchia rossa che sfreccia accanto a noi e ci stordisce con il suo ululato. Poi il rumore si spegne lentamente, insieme agli ultimi riflessi blu dei lampeggianti. Verso casa mia.
«Chissà dove stanno andando i pompieri», chiedono Simonetta e Serena guardando in fondo alla strada, oltre il semaforo. Io continuo a mangiare i fiocchi di neve e sorrido.

Rigidi scarponi arrancano lungo un sentiero mai sopraffatto, lembi di pelle si sfregano, si irritano, si trattengono finché possono, infine esplodono; spessi strati di cheratina infliggono supplizi agli arti inferiori. Aquile, falchi, poiane, cornacchie; becchi ricurvi, appuntiti, perlacei, giallognoli, ambrati, lucenti, inzaccherati, pazienti. Attendono. C’è sempre un fallimento con cui banchettare. Il sorriso beota si guarda intorno: non è più solo, ce ne sono altri che silenziosi si inerpicano sulla montagna, alcuni seguono il sentiero, altri preferiscono affrontare le asperità del bosco, eppure tutti procedono a schiena dritta – date le vertebre cervicali spezzate, a ogni passo il mento percuote loro il petto –, movimenti irresoluti diventano scanditi, connaturati, significativi, niente ne può arrestare la marcia.

I pini mughi, gli abeti rossi, i faggi accoppiati ai larici e le betulle in perenne fregola: con un ultimo fruscìo il bosco esce di scena e il mondo si fa pascolo, azzurri sfavillanti precedono d’un soffio sul cerchio cromatico il verde dei prati. Stremato, il sorriso beota cade in ginocchio, del resto il canto intrappolato nell’inconscio deve assolutamente essere espulso durante la risalita, pena la sovradistensione cerebrale. L’erbetta è rorida e invitante e tutti gli altri sorrisi, afflosciatisi anch’essi al suolo, l’accarezzano una volta, due, e poi ancora e ancora. In un crescendo di brutalità, il forsennato roteare delle loro braccia ne fa degli infoiati decespugliatori. Il sorriso beota, al contrario, percependosi più come un frigido tosaerba procede carponi col mento al suolo recidendo ogni stelo d’erba sul suo cammino. Terminata l’orgiastica falciatura, foraggiati ed ebbri di clorofilla i sorrisi si raddrizzano come in risposta a un segnale; tuttavia quell’improvviso movimento fa sì che la testa di uno di loro si stacchi e rotoli a valle fino a schiantarsi contro un masso. Il cranio si apre in due come una noce di cocco e nell’aria si spande una fragorosa risata, gli altri sorrisi riprendono a marciare tenendo lo sguardo basso, fisso sui propri scarponi: temono che un cambio di prospettiva gli farà perdere la testa. Il sorriso decollato ricompensa l’attesa dei rapaci offrendosi come banchetto; i suoi compagni, invece, raggiungono la malga nel momento in cui a tavola vengono serviti i genitali dell’ex amico.
«Amico – dice il sorriso beota al vento –, perché sono qui?»
Il vento non risponde, però si acquieta.
«Grazie, sapevo di poter contare su di te. Sai, quando ti parlo sento come se non stessi gettando le mie parole».
Il vento riprende a spirare, ma con rassegnazione.
Otto sorrisi si dispongono in semicerchio di fronte alla malga. Il più anziano fa un passo in avanti e, dopo aver innalzato la mano destra al cielo, infila la sinistra nei pantaloni e comincia a frugarsi nelle mutande. La sua espressione si fa tesa fino a quando non agguanta ciò che sembrava aver smarrito, a quel punto tira un sospiro di sollievo, apre la bocca e si mette a cantare. La voce gli esce ruggente dalla gola, agli

occhi di un neofita potrebbe sembrare un rutto, eppure non lo è. Il suo è, sì, un canto senza parole, ma non perché non ne contempli, tutt’altro: è perché esse, dovendo sgusciare tra due file di denti scheggiati, si lacerano prima ancora di espandersi e levitare. Così, del tutto privo di testo, il salmo del vecchio assume la gravità di un lamento: lungo, potente, ricco di pathos e di gas – azoto più che altro, in una miscela dell’ottanta per cento circa –, tuttavia il ta-clang di un catenaccio ne tronca l’esecuzione a sole quattro battute dalla fine. All’improvviso la porta in legno massiccio della malga si spalanca e un torrente di latte caldo e schiumante si riversa sui pascoli sottostanti travolgendo ogni ostacolo sul suo percorso. D’istinto, i cervi, i camosci, i caprioli e gli stambecchi cercano rifugio sull’orlo di un precipizio, dove trovano la morte. Le volpi, i tassi, le marmotte e i galli cedroni sanno di non avere speranza, quindi si accovacciano e soccombono all’istante, però con grande dignità I sorrisi, invece, in conformità alla loro natura, superano indenni il primo approccio, salvo poi volare in aria. I loro stomaci gonfi – ossia in assetto positivo – li trasportano tanto in alto da superare le nuvole, e, così prossimi al Paradiso, le labbra sottili iniziano ahimè a screpolarsi; per fortuna, a venirgli in aiuto è nientemeno che il Dio dei sorrisi, armato di prodigioso burro cacao. Ne stavano appena gustando il sapore dolciastro quando un’improvvisa perdita d’aria dal fondoschiena muta dapprima il loro assetto in neutro, arrestandone l’ascesa, dopodiché in negativo. E lì precipitano. Subito un sorriso si affievolisce e scompare, conscio che non avrà alcun impatto sul mondo; altri quattro congiungono le mani a formare un cerchio, perché uno di loro, quello dalle gengive più arrossate, sostiene di aver visto dei paracadutisti compiere una manovra simile alla tivvù. Niente da fare, anch’essi svaniscono senza lasciare traccia – verranno nondimeno ricordati per via di quello strenuo tentativo. I restanti tre dispiegano le ali sperando così di rallentare la caduta, tuttavia, giacché in realtà ne sono sprovvisti, non ottengono il risultato sperato, quindi, il terrore attanagliante la gola, cominciano a sbattere con quanta più foga possibile tutto ciò che gli passa per la mente: sbattono i piedi, i gomiti, le ciglia, i pugni sul tavolo, i tappeti sul davanzale, la nonnina contro lo schienale, gli scuri alla finestra, i tuorli nella minestra. Poco prima di toccare il suolo, tre sorrisi rimettono l’anima al loro Dio.

KA-BAM!
«C’era un tempo, non più tardi di ieri, in cui la luce e la natura scioglievano le membra, riscuotevano consenso e scatenavano pulsioni», pondera il sorriso beota all’albeggiare. «Ho passato tutta la notte piantato nella terra ancora pregna di latte, non avverto più le gambe a eccezione di un singolare formicolio che dalle dita dei piedi si estende fino alle radici del faggio qui a fianco. Non sento più il profumo dell’aria, sia essa tersa e frizzante o appestata dal respiro della torbiera, e il primo raggio di sole che si riverbera sui fili d’erba, sulle foglie cadute, sui cocci di vetro e sulle monete sparse ai bordi del sentiero mi dà conforto ma allo stesso tempo mi angoscia, come se al sorgere di quella stella dovesse coincidere la mia dipartita. Ho le mani nelle mutande, eppure per quanto rovisti non riesco a ritrovare ciò che ho smarrito, le mie braccia sono ormai inglobate in un busto fattosi tozzo, carnoso, micelico, più grosso in fondo e niveo come il fluido che, confacente al ciclo vitale, dopo avermi lanciato nel firmamento mi ha richiamato a sé; la mia faccia
butterata sta virando al verdastro, pregusto già il sapore del putrido. In compenso il mio cappello bruno è ancora al suo posto, anche se prima o poi un essere viscido me lo smangiucchierà. Ho perso contatto con gli altri sorrisi, sono rimasto solo Aspetta, no! Non è vero!»
Il sorriso beota vorrebbe affidare al vento il proprio testamento spirituale, ma, un attimo prima di confidarsi, svanisce. Il sorriso beota non è più né beota né sagace, falso o genuino, smaliziato o malandrino. Semplicemente, ha cambiato natura.
Lontani echeggiano i singhiozzi di chi ha perduto il sorriso; quello trasfigurato si crogiola al tiepido sole del mattino, poi si addormenta. All’inizio ce n’era uno, in seguito sono diventati otto. Le aquile, i falchi, le poiane e le cornacchie volteggiano nel cielo scrutando con occhi vitrei il mondo sottostante. Cade la pioggia. Il nome del Dio dei sorrisi è Garutta. Le monete ai bordi del sentiero sono false.








