TRAKS MAGAZINE #42

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traks magazine Numero 42 - maggio 2021

FAST ANIMALS & SLOW KIDS (& WILLIE PEYOTE): una mancanza quasi fisica

GINTSUGI VEA

STEFANELLI HOFMANN ORCHESTRA


sommario

4 FASK 10 Gintsugi 14 Hofmann Orchestra 18 Stefanelli 22 Frank Bramato 26 Ivan Francesco Ballerini 30 Anna Utopia Giordano 34 Vea 38 Il Wedding Kollektiv 42 Whatafuck

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FAST ANIMALS AND SLOW KID Un nuovo singolo, “Cosa ci direbbe”, e il primo featuring della carriera, insieme a Willie Peyote, per la band umbra, che freme in attesa di una ripresa dei live. E pensa al nuovo album...


DS

cover story

“Appena ci sarà la possibilità di suonare dal vivo lo faremo. Perché per una band come la nostra che ha tanti anni di gavetta alle spalle. Ma soprattutto negli ultimi sette anni non ci è mai capitato di non andare in tour. Quindi la mancanza è davvero fisica. È quasi come aver perso un pezzo di noi stessi, come aver perso completamente una parte di noi che ci definiva tantissimo. Appena ci sarà la


possibilità cercheremo di tornare sul palco. Anche perché dietro di noi c’è un discorso di operatori, maestranze dello spettacolo che ci seguono da una vita. Abbiamo iniziato insieme e con noi si sono evoluti, in termini professionali, quindi vediamo la loro difficoltà come la nostra giornalmente”. A raccontare tutto questo è Aimone Romizi, cantante e frontman dei Fast Animals & Slow Kids, che risponde insieme alla band in conferenza via Zoom per raccontare del nuovo singolo, Cosa ci direbbe, che vede il primo featuring della carriera della band, quello con Willie Peyote. L’ambiente indie è tutto popolato di interazioni tra i principali esponenti e Willie Peyote stesso è uno che ha collaborato con tanti artisti. Voi no, siete sempre stati un po’ per i fatti vostri. Quindi perché ora e perché Willie? A parte “perché con Willie”, tutto il resto ce lo stiamo cercando di figurare anche noi in questi giorni di chiacchiere… Perché non abbiamo mai collaborato prima?

Non ce lo siamo mai chiesti ma ce lo chiediamo ora. La realtà è che, forse e in un breve slancio di psicanalisi di basso livello, probabilmente non ci sentivamo pronti prima. Siamo una band molto concentrata quasi a scudo su noi stessi. Considera che gli album, a parte l’ultimo, li abbiamo registrati in una casa, davanti al lago di Montepulciano, da soli. Solo noi, stavamo lì per un mese, uno suonava e l’altro registrava. Forse ci siamo chiusi a riccio perché volevamo definirci. Magari non ci sentivamo anche pronti. Una cosa importante quando si va a collaborare con qualcun altro è che devi sentirti all’altezza di poterlo fare. In termini sia tecnici sia mentali, di pensiero. Quello che mi viene da dire è che non ci sentivamo pronti psicologicamente o non avevamo le spalle abbastanza larghe per confrontarci con un altro artista in generale. Oltre a tutto questo abbiamo anche pensato al fatto che c’è una componente legata all’ultimo anno: ci siamo chiusi così tanto che forse ci è venuta la voglia di incontrare, 6



di parlare con gli altri, di stare con gli altri. Di vivere la musica con qualcuno che è come noi, per cui la musica è tutta la vita, proprio come lo è per noi. Quindi queste sono due buone ragioni, però non ti saprei dire perché non è venuto prima. È venuto adesso e adesso eravamo pronti. E perché proprio Willie? Be’ lì è abbastanza semplice: nel momento in cui ti vai a confrontare con una cosa per noi così nuova come un feat. vuoi cadere sul morbido, vuoi atterrare sul tranquillo, quindi abbiamo chiamato un amico. Avevamo bisogno di qualcuno che capisse il testo e al quale empaticamente spiegare da dove derivava tutto questo. Ci sono anche cose intime dentro a tutto questo. Con Willie siamo amici e ci sentiamo a prescindere. Ci sono state delle lunghe telefonate in cui ci spiegavamo. E lui mi diceva: “Allora io la vorrei prendere da questo punto di vista”. E io: “No, secondo me più da questo…” e abbiamo trovato una sintesi tranquilla come avviene tra amici in cui ti puoi dire tutto. In più di

Willie a noi piace che è un artista che stimiamo molto dal punto di vista musicale e come artista e che c’è molta musica suonata in quello che fa (Aimone dice che è un artista molto “suonato” ma messa poi giù per iscritto non “suonava” benissimo, ecco Ndr) e chi l’ha visto dal vivo può capire quello che intendo. Ma soprattutto c’è un’unione di serietà, di professionalità dietro al discorso musica. Willie è una persona che si prende sul serio e questa serietà la traspone anche in musica. Noi ci prendiamo meno sul serio di Willie però da un punto di vista musicale la vediamo allo stesso modo. Quindi anche questo ci ha portato a una condivisione molto proficua, l’abbiamo presa seriamente, siamo andati a registrarla in studio, lui è andato a registrarla, e questo in un periodo anche per Willie difficile perché comunque era a Sanremo, c’era una grande pressione. Ma si è comportato da amico e al tempo stesso è stato la persona seria e professionale che ci aspettavamo di trovare. L’ultima volta che ci siamo sen8


sicuri che uscirà il singolo e quindi siamo qui a parlare del tema, della band e del percorso di lancio in futuro. Però è una cosa concreta. Un disco, farlo uscire ora per una band come la nostra, che si incentra tantissimo sul live (per noi fare un disco e non fare il live è come non aver fatto il disco), quindi da quel punto di vista finché non ci sarà certezza sul come e sul quando si potrà portare dal vivo c’è tanta reticenza ad annunciare qualcosa. È evidente che siamo pieni di pezzi e che li vogliamo registrare e che li continuiamo a fare e a registrare. Ma li continuiamo a fare proprio, scriviamo un pezzo ogni due settimane, questo è evidente perché c’è una voglia assoluta. Però non ce la sentiamo di dire esce il disco qui perché boh… Quindi alla fine uscirà un doppio… Esatto! O triplo, dipende da quanto tempo passa! Il disco più noioso del mondo…

titi avevate un po’ di ritegno nel parlare di un prossimo album futuro. È ancora così oppure avete fatto sufficienti passi avanti da aver voglia di raccontare qualcosa in merito? No, in realtà siamo sempre su questa sospensione. Io vorrei dirti che esce domani un disco e che dopodomani andiamo in tour. Ma chi è che non vorrebbe? È solo che è stupido, perché ogni volta c’è qualcosa che lo fa saltare o lo pospone in avanti. E allora preferiamo, come scelta, fare quello che stiamo facendo adesso: siamo 9


GINTSUGI Prende nome da una tecnica giapponese di riparazione delle ceramiche il progetto di Luna Paese, ricco di influenze internazionali e originalità

Ci vuoi presentare il progetto? Il mio progetto musicale è in evoluzione, è iniziato nel 2019 a Parigi mentre studiavo produzione elettronica in una scuola (Musiques Tangentes). Ho iniziato a produrre i miei brani, di cui Blind e’ stato l’unico che ho poi conti-


l’intervista nuato a sviluppare. Poi ho continuato a scrivere e a registrare e a giugno 2020 ho finito le demo di Spiraling Down e Your Ghosts, e tra luglio ed agosto ho scritto e registrato la demo di Disarray, che in origine iniziava come l’Outro. Tutte le canzoni sono scritte lasciando parlare un lato vulnerabile. Anche se proprio ora sto iniziando a comporre canzoni emotivamente piu’ aggressive e gioiose, sono sempre scritte a partire da un’onestà emotiva soggettiva e immediata, più che da un’affermazione categorica di quello che e’ giusto o sbagliato. A volte e’ difficile da sostenere ma è più creativo che mettere su una facciata. I tuoi brani si muovono in quella specie di territorio neutro che sta tra sogno e realtà. Come nascono? Non mi metto mai a tavolino a lavorare all’inizio, quello in genere viene dopo. La prima base per una

canzone è in genere un’intrusione che arriva dal nulla, spesso di notte o durante il sonno. A volte sono rime, melodie oppure anche canzoni interamente orchestrate. Prendo il registratore del cellulare e le canticchio perché altrimenti me ne dimentico. E poi ci lavoro su strutturandole. Lavoro anche sull’immaginazione nei testi, perché non mi piace restare incollata al reale, per ora. Penso che questa cosa evolverà a seconda di come evolverò io come persona. Sono curioso anche di capire la scelta della copertina, visto che vedo una particolare cura della parte grafica. La copertina è stata realizzata da un’amica e artista visiva, Laura triscritti, che da anni lavora sulla figura della principessa in diversi abiti, molti dei quali simbolicamente evocativi – la mia preferita è quella con le forbici. Mi sembrava che una principessa


frammentata fosse perfetta per il contenuto delle canzoni dell’ep. Il Gintsugi, che è una pratica giapponese di riparazione di ceramiche rotte, è effettuata con l’argento (che in genere è un colore che amo di più dell’oro). Quindi abbiamo fatto tutto in argento. In generale, la parte grafica resta piuttosto scarna ma evocativa, come le canzoni che sono piuttosto scarne, lo-fi, ma con un immaginario forte ed una forma di eccentricità. Hai lavorato con Victor Van Vugt a Berlino, collaboratore di tanti personaggi importanti della musica alternativa. Che cosa ha regalato al tuo ep? Ho un po’ di difficolta’ a definire precisamente il processo perche’ da quando siamo entrati in studio a quando ne siamo usciti le cose sono state molto poco razionali, molto intuitive e emotive. Penso che ci vorranno anni per me per capire bene questo lavoro, così come il rapporto tra artista e produttore, in cui l’aspetto pratico/ tecnico della registrazione è solo una componente. Credo comunque che Victor sia un tipo di pro12

duttore più interessato a capire e ad appoggiare le scelte degli artisti con cui lavora, anziché a imporsi sul progetto. A me ha lasciato molto spazio e fiducia, incoraggiandomi a seguire il mio stile e a fare ciò che volevo. A volte per me questo spazio è stato anche un po’ terrorizzante, visto che sono perfezionista e difficilmente soddisfatta di quello che faccio. Credo che la cosa che ha regalato di più all’ep è stato il fatto di darmi svariate conferme che il mio lavoro non aveva bisogno di essere preso in mano da qualcuno e stravolto. E lo studio era una stanza, come una sala prove, non c’era il lato freddo e un po’ stressante del vetro tra l’ingegnere del suono e te. A parte questo, ha degli aneddoti molto divertenti sull’ambiente musicale. Si leggono influenze internazionali importanti nella tua musica. Chi sono i tuoi punti di riferimento assoluti? Non so se ho punti di riferimento assoluti, credo che cambino a seconda della canzone. Una volta che un primo getto è uscito, iden-


tifico a cosa somiglia e lo metto in relazione al lavoro di altri, ma non parto con l’idea di fare un lavoro in stile x o y. Per questo lavoro l’idea di base era di creare un’atmosfera “infestata”. Dei riferimenti sono emersi, da PJ Harvey degli anni ‘90, ma anche di Dear Darkness, a Kate Bush, ai Placebo sempre dei ‘90, a Nick Cave degli anni ‘80/’90. Anche Joy Division, il post-punk. Un’artista che ha pubblicato un solo album nel

2014, Broken Twin. E c’è un piccolo ammiccamento a Billie Eilish in una delle canzoni. Non c’è nessuna ispirazione specifica nella musica elettronica, anche se ne ho ascoltata tanta; alcuni suoni che ho usato sono così perché avevo a disposizione Ableton Live e familiarizzato con quello strumento, e non un batterista, per esempio. Per cui vorrei in futuro sperimentare con altri strumenti e altre modalità di produzione. 13


HOFMANN ORCHESTRA

Una “Ouverture” che sta anche per esordio, nel segno di un rock non necessariamente tradizionale, anzi con un pizzico di rivoluzione dentro


l’intervista

Partiamo da voi: ci raccontate chi è e come nasce la Hofmann Orchestra? Siamo tre ragazzi che si sono incontrati in circostanze fortuite e hanno deciso di tornare a suonare

dopo qualche anno di pausa dalla musica, stavolta con l’obiettivo di fare cose che reputiamo interessanti e stimolanti. Inizialmente erava-mo in due e dopo un primo periodo di assestamento ed alcuni avvicendamenti, abbiamo trovato Stefano, il bassista adeguato per il completamento della line up e degli arrangiamenti che avevamo in cantiere. Il nome Hofmann invece deriva dal famoso scienziato Albert Hofmann, ovvero colui che per primo sintetizzò l’acido lisergico. Richiamare un’atmosfera da laboratorio ci sembrava il modo migliore per descrivere gli esperimenti sonori da cui hanno preso vita i nostri pezzi durante le sessioni di recording. Presentate il vostro approccio rock anche in opposizione alla scena indie “conservatrice”. Quindi pensate che il rock sia ancora rivoluzionario?


A nostro avviso il rock può tranquillamente essere ancora rivoluzionario. Tuttora è forse uno dei generi più indicati per esserlo, è fondamentale però non pensare troppo ai suoni che hanno caratterizzato il genere (come l’uso del distorto o la voce urlata), ma allo spirito di ricerca e all’attitudine creativa che ha caratterizzato e fatto la fortuna del genere. Quindi è fondamentale anche ripudiare alcuni elementi del rock che rischiano di ingabbiare il processo creativo. Quello che abbiamo voluto proporre perciò è un connubio 16

delle nostre esperienze musicali più genuine, sperimentando e giocando con i suoni e le strutture dei pezzi cercando di evitare forme di avanguardismo autocelebrativo. Mi raccontate ispirazioni e idee alla base del vostro disco d’esordio? Il fil rouge che lega i vari pezzi riguarda la voglia e la capacità di riprendere in mano la propria vita, specialmente quella artistica, dopo averla messa in pausa per un lungo periodo a causa di una serie di difficoltà, e affrontare il nuovo percorso con una maturità e con-


sapevolezza maggiore. Anche se può suonare strano il nostro può essere considerato un concept album: ogni traccia rappresenta una fase e uno stato d’animo. Per esempio, la title-track Ouverture, che apre il disco, è una sorta di prefazione dell’album che esprime lo smarrimento e la confusione del protagonista/voce narrante, che a fine brano si trasforma in voglia di rimboccarsi le maniche e ripartire da zero con risolutezza. Anche nella scelta di chi ha messo mano al disco (Lasala, Versari) siete andati sul “classico” per chi fa rock dalle nostre parti. Come mai avete scelto l’autoproduzione? Diciamo che siamo andati sul sicuro. Lavorare con professionisti di fama interna-zionale permette di crescere abbastanza facilmente. Uno degli aspetti che ci ha colpiti di più e nei quali ci hanno spinti a migliorare, è stata la capacità di lasciarci sorprendere e mantenere la mente sempre aperta ai cambiamenti, anche a brano completamente registrato. In più essendo abituati a standard molto elevati,

riescono a spingere i suoni nella direzione giusta in maniera più chiara ed efficace. C’è qualche band rock italiana che vi piace particolarmente? Rispondendo a questa domanda penso che ognuno di noi potrebbe andare avanti per ore citando le proprie. Questo è infatti uno dei principali temi di confronto all’interno della nostra band con lo scopo spesso di contaminarci a vicenda. Quando si parla di rock italiano è quasi inevitabile citare quelle band che hanno contraddistinto maggiormente la scena negli ultimi anni e per fortuna ancora lo fanno: Afterhours, Verdena, Marlene Kuntz, CSI o Tre Allegri Ragazzi morti. Se vogliamo dare uno sguardo tra le più recenti, ma sempre di grandissimo spessore possiamo citare i Calibro 35, Bud Spencer Blues Explosion o i Bachi da Pietra. Naturalmente ce ne sono molte altre e citarle tutte sarebbe impossibile. Ci piace pensare che nonostante tutto, il panorama italiano siano pieno di band e artisti validi ancora in grado di dire la propria. 17


STEFANELLI

Componente di band importanti, inizia (in modo singolare) la propria avventura solista con un ep che è anche una via d’uscita dai lockdown


l’intervista

Chi è Stefanelli? Stefanelli è mio nonno che prende la mia mano accompagnandomi in giro per la città. È mio padre che mi chiede di fare il turno con lui sul pullman il giorno di capodanno perché si annoia. È mio zio che mi insegna a suonare il basso. Stefanelli è anche il mio cognome. Hai fatto parte di almeno due band di un certo rilievo. Perché


la scelta da solista e perché ora? Sia con BLINDUR che con i KAFKA SULLA SPIAGGIA ho avuto la possibilità di crescere tantissimo umanamente e musicalmente. Faccio tesoro di tutte le esperienze fatte fino a ora, successi e delusioni. La scelta di questo nuovo esordio però è legata a una chiacchierata con MASSIMO (voce e penna di BLINDUR) mentre caricavamo il furgone dopo un concerto, alla fine di quella chiacchierata mi sembrò abbastanza chiaro cosa fare. Si palesò ancora più forte la voglia di fare nuovi brani e di rimettermi in discussione. Mi racconti le ispirazioni alla base di questo disco? Ho scritto questi brani durante il primo lockdown e l’ispirazione è tutta lì. Ero a casa con “la dama” e dopo un primo impazzimento brutale per la costrizione senza vie di fuga, ho deciso di accettare quello che stava succedendo e di farmelo anche andare bene. Riapprezzare la casa e tutte le dinamiche che si creano nell’ambiente familiare, accettare la noia come 20

qualcosa da non evitare a tutti i costi e su tutto godere del tempo a disposizione. A questo poi possiamo aggiungerci che sulla scia di questo entusiasmo sono passato da i miei nove/dieci caffè giornalieri a zero. Ero diventato un santone. Cos’è questa storia delle cassette? Quando ho scritto i brani tutti gli strumenti erano in studio di registrazione per via del lockdown e non potevo andare a recuperarli. A casa avevo solo un basso, una tastierina e un vecchio stereo a cassette di mio padre che era l’unico modo che avevo per amplificare il mio basso. Da lì ho iniziato a registrare la qualunque su cassetta e poi riversavo tutto sul computer. Ecco svelato il mistero dello stupefacente suono di NO COFFEE. Come vedi il tuo futuro nei prossimi mesi? Intravedo una luce che cercherò di seguire con tutto me stesso. Ho già mille progetti in cantiere e tanti dischi da realizzare. Vedo un futuro pieno di entusiasmo e voglia di fare.



FRANK BRAMATO

“Non essere” è il disco d’esordio dell’artista salentino, decisamente fuori dagli schemi e di difficile collocazione


l’intervista Ciao, ci racconti qualcosa del tuo progetto e di come sei arrivato a questo esordio? Esordire! Una parola bellissima. Il sacro Google recita: “Si tratta di una voce dotta presa in prestito nel Trecento dal verbo latino exordiri, che vuol dire ‘iniziare’, ma con un peculiare significato proprio: ‘iniziare la tessitura’”. Credo che non ci sia modo più bello per raccontare un disco. Una tessitura continua fatta di trame fitte e larghe, dove l’unico obiettivo è arrivare a dar sfogo alla creatività, un filo lunghissimo che se intrecciato bene porta a qualcosa di concreto, che sia un maglione, un cappello, una sciarpa, un tappeto o nel peggiore dei casi, una canzone. È un lavoro minuzioso che coinvolge tutti i sensi, compreso il sesto, secondo il mio personale parere: l’esigenza. Il mio percorso musi-


L’incoerenza sta alla base dell’arte, nessuno può prevedere come andrà a finire un brano una volta iniziato, bisogna mettersi al servizio della musica e cercare di rispettarne il flusso, come un mago che recita la sua formula. Non posso non chiederti qualcosa a proposito di “Frank Zappa è morto per niente”... Come nasce? Sembrerà strano, ma questo brano è nato partendo da una batteria (elettronica) che è tipica di un genere tanto in voga in questo momento storico: La Trap. Sono troppo vecchio per essere diplomatico, quindi ho usato (con umiltà) il nome del genio Frank Zappa per denunciare una deriva artistica, iniziata forse tempo fa, fatta di talent, social e altri mezzi di distrazione di massa che poco hanno a che fare con l’arte. Quando vince il becero intrattenimento, quando si perde la cultura musicale, quando l’artista, come diceva il grande De Andrè, non è più un anticorpo per la società, tutto è destinato a una indecorosa fine. NO! Il progresso non va mai negato… ma non voglio pensare che

cale è sempre stato variegato, forse solo per pura curiosità; sono innamorato di chi scrive bene e non ha mai badato all’estetica, di chi si è spinto oltre e parla con il cuore. Ho scritto mettendo insieme tutto quello che ho sempre pensato, cercando di coniugare musica e parole, tenendo per quanto possibile a freno l’ego insito in ognuno di noi. Piacerà? Non piacerà? Non lo so! Era esattamente quello che volevo scrivere e suonare. Vorrei capire qualcosa di più delle atmosfere e delle idee alla base del tuo disco. Un anno fa circa, ho investito tutti i miei averi per costruire uno studio privato che potesse coniugare i suoni analogici a quelli digitali. Ho sempre amato “mischiare” il nuovo al vecchio per cercare di creare un’alchimia di suoni che rispecchiasse quello che avevo in mente. Batterie elettroniche che si alternano a quelle acustiche, Synth e pianoforti, violino e contrabbasso, insomma, tutto quello che secondo il mio modestissimo parere, poteva contribuire alla realizzazione di un disco incoerente. 24


Frank Zappa sia morto per niente. Scusate lo sfogo! Nel disco appaiono i “fantasmi” di Zappa, appunto, Carmelo Bene, Demetrio Stratos. C’è qualcuno della contemporaneità che rispetti non dico allo stesso modo, ma che consideri un punto di riferimento? Frank Zappa, Demetrio Stratos, Carmelo Bene e tanti altri hanno contribuito, sacrificando in qualche modo la propria vita, a tracciare una strada netta, precisa. Gli artisti hanno la responsabilità di seguire questa strada e cercare di farla crescere, adattandola se così si può dire, ai nostri tempi. Daniele Silvestri e Max Gazzè sono l’esempio classico dell’artista in continua evoluzione, alchimisti che coniugano il moderno al classico con una scrittura superlativa, raccontando tramite un linguaggio accessibile gli archetipi della nostra società, dei quali non si può fare a meno. Il mondo è finito senza la favola. Poi ci sono i nuovi poeti, uno tra tutti John De Leo che rappresenta per me l’esempio universale di fare musica e testi.

Quali saranno i tuoi passi successivi? Ho avuto la fortuna in questi anni di conoscere diversi musicisti, con i quali collaboro. Grazie a queste collaborazioni è partito un progetto che probabilmente vedrà la luce nel mese di ottobre o novembre (proprio quando la luce cala). Abbiamo deciso di incidere un album “sperimentale” che nella maggior parte dei casi non segue una vera e propria “forma canzone”. Un metodo per mantenersi in allenamento ma sopratutto per mettersi in gioco.

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IVAN FRANCESCO BALLERINI

Dopo le storie del West di “Cavallo Pazzo” ecco “Ancora libero”, il nuovissimo album del cantautore


l’intervista Niente nativi americani questa volta ma un ritorno alla quotidianità: da dove arrivano le storie del tuo nuovo album? Bella domanda. Arrivano da più punti: amore, sogni, voglia di evasione e di libertà, problemi legati all’impatto sempre più pressante che la tecnologia ha sulle nostre vite, amore verso una figlia. Ho voluto in questo mio secondo disco raccontare me. Si possono trovare sparsi qua e là, riferimenti a mia mamma, morta purtroppo molti anni fa, o addirittura un brano nato da una toccante poesia di mio babbo. Insomma si è trattato di un viaggio nei ricordi della mia vita, delle esperienze che ho maturato in questi anni, in cui spesso mi sono trovato a pellegrinare per il mondo, a confrontarmi con gente, religioni, tradizioni, completamente diverse dalle no-

stre. Ancora libero è un album che mi è servito molto per mettere a punto e affinare il mio modo di scrivere. Cerco a volte di sollevare dubbi su alcune cose che a mio avviso andrebbero affrontate e approfondite con maggiore attenzione, invece di correre sempre verso qualcosa di cui abbiamo perso il senso. I vari lockdown hanno reso più difficile la scrittura del disco? No assolutamente. Nulla ha minimamente pesato sul mio desiderio di scrivere ed esprimere le mie emozioni. Ho aspettato tanto, per tanti motivi a scrivere canzoni. Adesso che ho rotto il ghiaccio ho proprio desiderio di raccontare le cose che mi sono successe nel corso della mia vita. Ho veramente tante storie da raccontare. Qual è stata la canzone più difficile da scrivere?


In assoluto quella che mi ha fatto più sudare è stata Mio fratello coda chiazzata in Cavallo Pazzo. Penso di averla scritta, cestinata e poi riscritta, almeno venti volte. In Ancora Libero il brano che è stato più ostico nella stesura del testo è stato Ancora libero che reputo tra l’altro insieme a Per me sempre sarai uno dei brani più toccanti. A volte mi è stato chiesto da alcuni amici cosa vuol dire scrivere una canzone. La mia risposta, del tutto personale, è stata questa: “scrivere una canzone per me, significa, una volta individuato l’argomento di cui ci preme parlare, svolgere un tema di italiano… in musica però”. Sicuramente è una operazione non facile. Quali sono i tuoi piani per i prossimi mesi? Sto lavorando su un bellissimo progetto. Ero partito con una idea di fare un disco in cui il protagonista assoluto di ogni brano fosse il destino. Poi in corso d’opera mi è capitato di scrivere un brano, a mio parere molto interessante, su un navigatore portoghese del ‘500 di cui non voglio rivelare il nome. 28

La mia convinzione di portare a termine un disco con argomento “destino” è miseramente caduta. Molti brani già scritti sono finiti in un cassetto. I più belli invece li ho selezionati e faranno parte del mio futuro terzo disco. Non dico nulla di più, ma sento che sarà un lavoro che farà molto parlare, perché gli argomenti sono belli, i testi delle canzoni originali, e i musicisti che si aggiungeranno a questo progetto, faranno senza dubbio sentire la loro potenza e la loro forza. Assieme al mio compagno di viaggio Alberto Checcacci, che come sempre dirigerà artisticamente questo mio terzo lavoro, e al bravissimo violinista ed amico Alessandro Golini e il batterista Alessandro Melani, con mia grande gioia si unirà la cantautrice Silvia Conti che avrà un bel ruolo di cantante solista, ed il bravissimo e poliedrico Silvio Trotta, con la sua grandissima esperienza maturata nei suoi numerosi concerti dal vivo col grande artista Toscano Riccardo Marasco. Insomma, andiamo avanti a vele spiegate.



ANNA UTOPIA GIORDANO

Tra musica, poesia e filosofia, esce un progetto del tutto peculiare come “Fogli d’Ombra”


l’intervista

Ciao, ci racconti chi sei? Mi chiamo Anna Utopia, lavoro con la creatività e ho una formazione filosofica in ambito logico ed epistemologico. Sviluppo lavori artistici utilizzando mezzi di espressione che spaziano dall’arte digitale alla poesia, dalla recitazione alla fotografia. Il tuo progetto prevede tre brani di poesia espressi in spoken words. Come hai capito che era questo il mezzo di espressione giusto per te? Fogli d’ombra è stato il naturale


no delle parole. Negli scorsi anni, ho spesso proposto le mie poesie durante reading, concerti ed eventi accompagnate da musica dal vivo. Dopo un periodo creativo in cui ho utilizzato in modo maggiore altri mezzi di espressione e in seguito a una riflessione sulla parola poetica, sono tornata alla scrittura in forma rinnovata. I testi in Fogli d’ombra si scostano lievemente dalle rapsodie: sono ibridi tra poesia e sceneggiatura pensati in primo luogo per l’ascolto e la performance dal vivo. Fogli d’ombra è il primo album musicale sistematico che coinvolge le mie composizioni e del quale ho seguito la direzione creativa. Ci racconti qualcosa di più in merito ai tre brani? I testi dei tre brani sono stati composti nell’arco di alcuni mesi, ho scelto di affidare l’architettura sonora a tre artisti con i quali avevo già collaborato in passato per

proseguimento di un percorso artistico che porto avanti da molti anni. Legare il suono della voce a quello di altri strumenti è una propensione che, probabilmente, devo in parte a una formazione musicale classica, ho infatti iniziato a studiare il pianoforte quando ero molto piccola. Inoltre, la mia poetica è caratterizzata dalle rapsodie, così definisco le mie composizioni poetiche, ermetiche e criptiche, contraddistinte da una particolare attenzione per la ricerca lessicale, l’etimologia e il suo32


alcune performance. In ordine di ascolto, Giuseppe Fiori firma la musica per 14 e 15, Leonardo Barilaro per Pattern e Un Artista Minimalista per Entelechia (o sul senso del dovere). Il mixing e il mastering dei brani sono stati da me seguiti personalmente con la consulenza e il supporto tecnico di Massimo De Feo. I tre brani mescolano voci ed eventi vicini e lontani, sia nel tempo che nello spazio. Li percepisco come glomi, coaguli composti dall’ombra di parole, di oggetti e di momenti di vita. Filosofia e scienza, attualità e mitologia, la mia voce e le basi musicali, si fondono per creare un quadro sonoro in cui personaggi, come Nana Buluku e Majakovskij,

si confrontano e dialogano con l’ascoltatore. L’approccio migliore per l’ascolto, forse, è di affidarsi al flusso di suoni e immagini di volta in volta evocati senza cercare un preciso significato. Quali saranno i tuoi progetti successivi? Il ventidue maggio parteciperò con Fogli d’ombra all’evento Art Happening Varese 2021, a cura di Sonia Catena e Alex Sala, presso la Lavit e Friends Art Gallery di Varese. Sarà la prima volta che proporrò dal vivo questi tre brani accompagnati dalle basi musicali. Sarò poi impegnata nelle riprese del primo videoclip tratto da Fogli d’ombra e nella composizione dei testi per il prossimo album.

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VEA

“Sei chi non sei” è il titolo del nuovo disco della cantautrice e porta con sé cambiamenti, desideri e molte speranze di tornare a suonare dal vivo


l’intervista Non è stata una scelta. Ho iniziato a scrivere e a pensare al suono in maniera differente, molto più intima e delicata... senza una specifica volontà. Quando ho iniziato a percepire questo cambiamento, ho deciso semplicemente di esplorarlo il più possibile. La mia esigenza è stata più che altro quella d’incontrare il cambiamento e accoglierlo. Hai deciso di esporti molto anche fisicamente in questi mesi. Ci racconti questa scelta? Credo che questa domanda faccia riferimento al video di “Esplosa”. L’idea del video è nata come ispirazione dal testo stesso. Ho sottolineato l’aspetto della rinascita dal dolore, mettendo a nudo il mio corpo, mostrando a tutti la mia pelle. È vero, ci ho messo più che la faccia, ma in realtà non si tratta di me, quel corpo non è il mio... è una rappresentazione che vuole

Ciao Vea, partiamo dal titolo del tuo disco, Sei chi non sei. Ce lo spieghi? È il titolo della prima traccia dell’album, una canzone scritta per un amico, che si stava lasciando sfuggire di mano la sua vita, affidandosi totalmente alla ragione, senza mai piegarsi all’istinto. A distanza di anni (eh sì l’ho scritta da un po’), ho capito che parla anche a me, di me e quindi...un nuovo disco doveva farsi portatore in qualche modo di questa consapevolezza. Hai cambiato stile rispetto al tuo ep precedente. Perché hai avvertito questa esigenza? 35


biamo già iniziato a imbastire il live e non vediamo l’ora di farvelo ascoltare!

esprimere un messaggio che coinvolga più anime possibili. Lo stesso vale per le canzoni... Sei stata anche molto attiva sui social con vari progetti. Avendo il “polso” della situazione anche dei tuoi colleghi, come pensi che stiano i musicisti italiani oggi? Sì, ho cercato di rimanere in contatto con la realtà e con i miei compagni di viaggio...entrando anche un po’ nell’intimità dei pensieri. C’è chi sta benissimo e chi è sotto un treno. Forse il musicista è tra i professionisti più avvezzi alle altalene emotive e lavorative, ma adesso siamo veramente arrivati al limite. I musicisti Italiani (e parlo dei big) hanno il dovere, secondo me, di farsi carico di molte rivendicazioni che riguardano tutto il settore, cogliendo l’occasione di arrivare diretti come un palo in faccia al grande pubblico. Mi viene da pensare: “che effetto avrebbe fatto l’operazione Ultimo Concerto sul palco di Sanremo?” Quali sono i tuoi progetti per il futuro prossimo? Ricordarmi come si suona con la mia band e per un pubblico. Ab36



IL WEDDING KOLLEKTIV “BRODO” è il nuovo mini-lp del collettivo, con poca attenzione ai generi e molta alla musica e alle sue virtù terapeutiche


Chi è e come nasce il Wedding Kollektiv? Il Wedding Kollektiv nasce nel 2017, a Berlino, nel quartiere di Wedding (da qui il nome di questo che più che un gruppo è un progetto musicale), nasce perché a un certo punto nella propria vita si può sentire il bisogno e la necessità di utilizzare la musica per lenire delle ferite, per comunicare (con se stessi e con gli altri), per far si che attraverso la musica e le interazioni personali che essa genera una disavventura si possa trasformare in una avventura bella, soddisfacente e rigenerante. “Brodo” è un mini lp che concentra influenze diverse e poca attenzione ai “generi” classicamente concepiti. Quali sono state le fonti di ispirazione? Scriviamo musica, la suoniamo, la pubblichiamo tutti da molti anni, decenni. Da sempre quel che ha caratterizzato i nostri lavori musicali (che siano stati i dischi dei Gronge o dei Roseluxx, piuttosto che quelli dei Goah o le performance berlinesi di Inke Kühl) è stata la volontà di andare oltre

l’intervista ogni classificazione sonora, Ascoltiamo tanta musica da sempre, siamo musicalmente onnivori e quel che facciamo quando componiamo è prendere ciò che ci piace e utilizzarlo, spesso decontestualizzandolo, sovrapponendo e mischiando idee che provengono dagli ascolti più disparati. In ogni battuta di ogni canzone c’è un qualcosa dovuto ad un’ispirazione, ad un riferimento, non sempre di cose che ci piacciono ma sempre di cose che riteniamo funzionali al singolo pezzo e alla singola battuta. Potremmo elencarti gruppi rock storici che amiamo visceralmente come gli Stereolab o altri, ma preferiamo che sia chi ascolta a “cercare la fonte” e costruirsi le sue linee di congiunzione, un suo BRODO. Siamo alla ricerca della canzone pop perfetta, che sappiamo non scriveremo mai, ma è bello quotidianamente provare a farlo mischiando le cose che ci 39


era il 2017) dopo diversi anni di accantonamento della composizione dovuto a motivi essenzialmente lavorativi, la cosa che gli è venuta di fare è stata quella di riprendere in mano la scrittura musicale, quindi installare software su un laptop e cominciare a buttar fuori emotività tramite note, lenendo dolore e pensando che se quel dolore era vero (e lo era!) l’unica cosa che poteva e doveva generare era qualcosa di bello come delle canzoni. Alessandro ha scritto in un anno una ventina di pezzi, e al momento di doverli finire quel che gli è venuto naturale è farsi aiutare da persone con le quali ha un legame forte, proprio nella ricerca di quelle interazioni personali positive di cui si parla nella prima domanda. Claudio, Tiziana, Inke hanno accolto l’invito in maniera entusiasta e da li abbiamo cominciato a lavorare sugli arrangiamenti dei pezzi (che nel frattempo dai venti iniziali avevamo ridotto a cinque). Si sono poi aggiunti altri musicisti in fase di registrazione. Tutti estremamente bravi e coinvolti nell’idea, pensia-

piacciono: da Bach a Beck. Dite che “le cinque canzoni nascono da un uso terapeutico della composizione musicale”: ci spiegate meglio? Sì, capita di vivere delle disavventure personali, cose che non ti aspetti possano succedere e invece succedono. Questo è successo ad Alessandro, che qualche anno fa ha avuto un “intoppo” che gli ha portato una sofferenza grande. In quel momento (come detto sopra 40


crowdfunding vinilico ci piaceva, e ci piaceva l’idea di collaborare con questo sito parigino che si chiama Diggers Factory e che secondo noi porta avanti un progetto molto interessante. Lavorando con loro ci siamo però resi conto che il loro modo di gestire l’idea è meno interessante dell’idea stessa e quindi non lo utilizzeremo più. Quali sono i vostri progetti per i prossimi mesi? Stiamo cercando di far conoscere BRODO il più possibile, le recensioni sono buone e ne siamo contenti. Stiamo ultimando la prevendita e quindi stampa del vinile. Abbiamo già scritto il secondo disco de Il Wedding Kollektiv (che ha già un nome) e le canzoni sono praticamente terminate, dobbiamo iniziare a registrarle. Speriamo di finirlo in meno tempo di quanto è servito per BRODO. Poi ognuno ha i suoi progetti musicali tra cui il più importante è sicuramente Roseluxx, il gruppo di Tiziana, Claudio e Federico (con Marco che però non ha suonato su BRODO), atteso da eventi interessantissimi.

mo che questo coinvolgimento si senta nel disco. Il disco è stato oggetto di una prevendita in vinile di 100 copie numerate a mano. Quali le motivazioni di questa scelta? Abbiamo optato per la stampa del vinile perché della grafica di BRODO si è occupato un grafico (MyPosterSucks.com) amico, molto bravo oltreché famoso. Ci piaceva l’idea che i suoi disegni (due sulla copertina e due nella busta interna) fossero ben visibili e quindi apprezzabili in modo da dare a chi acquista altre sollecitazioni oltre a quelle della musica e delle parole (scritte da Jfk, una giovane scrittrice romana). Le 100 copie numerate a mano sono un numero limitato dovuto alla consapevolezza che un progetto come il nostro, al suo primo lavoro, ha un riscontro limitato, e abbiamo quindi fatto di necessità virtù dando a ogni copia un numero che la identifica. Non siamo riusciti a vendere tutte le copie in prevendita, ma contiamo di farlo quando il disco sarà pronto, ovvero verso la fine di maggio 2021. L’idea del 41


WHATAFUCK

Il progetto Whatafuck è composto di un membro fisso e riconoscibile e tre “nascosti” a rotazione. Qual è il motivo di questa formazione così curiosa? Be’ per 2 motivi… Il primo è che volevo avere il controllo su tutto il progetto, sia musicalmente sia a livello organizzativo in modo da evitare i soliti problemi che si hanno quando cose importanti sono in mano a più persone, il secondo è che così si evitano proble-


l’intervista

Un membro “noto” e tre nascosti a rotazione per un progetto metal originale, che tratta tematiche fuori dal comune



la scena musicale della zona? La scena metal triestina ha sfornato negli anni alcune buone band come i 1neday, i Darkpools, i The Secret e i Rhapsody ma il grosso problema qui, come immagino in tutta Italia è il ricambio generazionale. I giovanissimi sembra abbiano perso la voglia di usare la musica come forma di ribellione o espressione. Vista la teatralità del progetto, immagino ci sia molta voglia di portarlo dal vivo appena si potrà. Avete già in mente delle sorprese per allora? Essendo anche videomaker, sto girando il video per il nuovo singolo “Inferno” dove userò delle nuove maschere che ho creato appositamente. Sto lavorando al merchandising e alla promozione dell’album e sto cominciando a organizzare prove con i ragazzi per prepararci al momento in cui si apriranno le danze. Niente bar, organizzeremo con il supporto di un tour manager un giro dei migliori club italiani... Perché quando si potrà di nuovo vivere, ci sarà una gran voglia di metal!

mi di cambio line up. Si risolve velocemente passando la maschera al nuovo componente e stop. Il disco si incentra sui guasti provocati dalla religione sul libero arbitrio delle persone. Come nasce questa scelta di argomenti? È un tema che nel metal non è mai stato toccando davvero credo. È una mia esperienza personale di molti anni fa che ho voluto portare in questo disco. Alcune canzoni del disco sono concepite anche come incitamento per chi è prigioniero di sette. Mi spieghi meglio? Purtroppo tantissime persone nel mondo cadono preda di predicatori e sette religiose perché in momenti di sconforto sono gli unici che ti danno una speranza. Il problema è che questo ha un prezzo molto caro e alle volte te ne accorgi che è tardi. In più tanti subiscono dalla nascita le scelte fanatiche dei genitori e alla maggiore età hanno grosse difficoltà ad avere un proprio pensiero. Li voglio aiutare con la forza della mia musica e delle mie parole. Il progetto nasce a Trieste. Com’è 45



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