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DUTCH NAZARI THE CLEOPATRAS MADYON Numero 48 - giugno 2022
LOMII ROUGH ENOUGH
sommario
4 Dutch Nazari 14 Lomii 18 The Cleopatras 22 Rough Enough 26 Madyon 30 Richard J Aarden 34 Samuela Schilirò 38 HLFMN 42 Black Snake Moan 46 Pitch3s 50 Riccardo Morandini 54 Darkpools 58 Toxi Faktory TRAKS MAGAZINE www.musictraks.com info@musictraks.com
DUTCH NAZARI Cori da sdraio è il nuovo disco di Dutch Nazari, seguito di Ce lo chiede l’Europa uscito nel 2018. E figlio di lockdown ma anche di situazioni personali e globali piuttosto mutevoli Abbiamo fatto la prima data del concerto – racconta Dutch Nazari a inizio conversazione – dopo tanto tempo che non suonavamo, la settimana scorsa a Torino. Adesso stiamo preparando il live vero e proprio per il tour che partirà con quattro persone sul palco dal Mi Ami e quindi abbiamo due settimane per prepararci bene”. E come è andata la prima data? Benissimo, benissimo. Abbiamo avuto un po’ quella sensazione, che si dice, ma non sai mai se è vero, con la metafora della bicicletta. Effettivamente era tanto tempo che eravamo fermi, però ci sono bastati pochi minuti sul palco per entrare nella modalità adatta. Io parlerei un po’ del disco, ovviamente. E partirei dal titolo. Quindi vorrei capire meglio in
che cosa consistono i Cori da sdraio Diciamo che c’è un pretesto che mi ha fatto venire in mente il titolo e poi una serie di layers o di gradi di interpretazione del significato. Questo è un disco scritto pienamente durante la pandemia: nel senso che dopo l’ultima tappa
cover story
del tour precedente abbiamo deciso di chiuderci e scrivere musica nuova. La data si è tenuta a fine ottobre-primi di novembre 2019, quindi giusto tre mesi dopo c’è stata l’emergenza Covid, lockdown e poi due anni così. E’ un periodo in cui tutti, e in particolare quelli che lavorano nel setto-
re della musica, navigavano a vista e non si sapeva che direzione si sarebbe presa. In particolare una volta, sono andato a un concerto al Magnolia e ho visto che, nei brevi periodi in cui la musica dal vivo di fatto era consentita, avevano messo delle sdraio per per poter rispettare le distanze inter-
tore abitualmente. Guarda, io ho iniziato a camminare molto per affrontare il vuoto lasciato dal primo lockdown e lo facevo ovunque mi trovassi. Cioè io ero in casa, sentivo di non stare bene, uscivo di casa, iniziavo a camminare. Quindi a esplorare le periferie malinconiche di Milano dieci, quindici, venti chilometri al giorno. Quindi in quel periodo lì il mio amico e socio, il poeta Alessandro Burbank, è partito a piedi da Torino per raggiungere Venezia, e ha fatto 540 chilometri a piedi. Lui ha fatto questo per reagire a un lutto che ci ha preso tra capo e collo con la perdita del nostro amico Nebbiolo, cantautore torinese morto durante il 2020. Burbank ha organizzato anche un crowdfunding e ha istituito il premio Nebbiolo, che si è tenuto quest’anno per la prima volte e siamo stati chiamati a fare la giuria. In quel periodo, quindi ho raggiunto Burbank e ho fatto 120130 chilometri con lui e mi è venuta la passione. Quindi poi mentre camminavamo aveva deciso di andare a Santiago e quest’estate
personali. Quindi l’idea di Cori da sdraio, di canzoni cantate però per persone sedute su una sdraio. E quindi da un lato queste sono le canzoni scritte durante il periodo delle sdraio, con la speranza di suonarle a un pubblico in piedi e assembrato, cosa che adesso in teoria ci stanno permettendo di fare. Però poi ovviamente il gioco di parole è con i cori da stadio che sono per eccellenza una forma canzone sloganistica, con nessuna attenzione alla melodia, perché le melodie sono rubate da tormentoni e con delle formule linguistiche tese ad affermare la propria verità e ad auto elogiarsi e auto “infottarsi”. E quindi sono una contrapposizione con qualcosa che va a riferirsi al tentativo o all’obiettivo di fare musica che sia invece in relazione all’altro, qualcosa di ponderato, ragionato e colloquiale. Facendo un passettino indietro appena prima della presentazione del disco: volevo capire che senso ha avuto la camminata, che hai fatto, come come preludio alla presentazione, e volevo sapere se sei un buon cammina6
abbiamo fatto il versante portoghese del Cammino di Santiago, quindi da Porto. E poi a settembre abbiamo fatto la Via del Sale partendo da Sanremo, siamo arrivati fino a Cuneo, con Dargen D’Amico. Quindi abbiamo aggiunto diciamo la componente di difficoltà del dislivello, con salita, poi discesa. Una volta che inizi a fare queste cose ti viene la passione e quasi la mania. E ovviamente sono cose che impiegano soldi, ma anche giorni. A Santiago ci abbiamo messo tredici giorni ad arrivare, quindi ti devi organizzare e non puoi farlo sempre. Ma ha anche un ruolo simbolico un po’ propiziatorio tra di noi. Quando Burbank è arrivato a Venezia dopo 500 chilometri, quella sera lì c’era lo spareggio per permettere al Venezia di tornare per prima volta in serie A dopo tanti anni. Lui è arrivato e il Venezia ha vinto, con i tifosi che gli dicevano: “Grande Burbank ci hai fatto andare in serie A”. Poi quando siamo andati a Santiago, due mesi dopo, è successa la stessa cosa: era ancora un periodo di grandi restrizioni, noi
eravamo gli unici italiani che facevano il cammino, mentre la Nazionale un po’ alla volta vinceva le varie partite che portavano in finale all’Europeo. E noi siamo arrivati il giorno a Santiago il giorno della finale e poi l’Italia ha vinto l’Europeo e ci siamo detti che l’avevamo fatta vincere noi. E poi, come se non bastasse, a settembre partiamo con Dargen D’Amico che forse addirittura non aveva ancora mandato la richiesta per partecipare a Sanremo. O forse l’aveva mandata, ma di sicuro, come tanti, senza molte speranze. E siamo partiti da Sanremo e dopo qualche settimana è arrivata la notizia che Jacopo era stato preso tra i partecipanti al Festival. E anche lì ci siamo detti che avevamo portato fortuna. In quella ottica lì abbiamo deciso di camminare perché poi non potrò più farlo essendo in tour. Tra l’altro era un po’ che non lo facevo, e mi è venuta tanta voglia di farlo, un po’ anche perché magari porta bene. Così sono partito da Brescia, che ha comunque un valore simbolico nella mia musica, perché la mia etichet9
ta discografica è di bresciani, uno degli artisti a cui sono più legato è Frah Quintale che è di Brescia, e l’art director che ha curato tutta la parte visiva del disco è di Brescia. Sono partito da Brescia e sono andato a piedi fino a Padova. Devo dire che Dargen, per esempio, non l’avrei visto in questo tipo di ottica. Almeno non si presenta tendenzialmente come un “adepto camminatore”. Però lui è un grande viaggiatore. Appena può prende un aereo per il Giappone e va a vedere i ciliegi in fiore a marzo, e poi va in Sudamerica… Una volta ha fatto anche il giro del mondo. Senti tornando al disco, nella mia recensione ho scritto un po’ degli umori che si riscontrano… Mi ha fatto ridere quando hai scritto che in quattro anni può anche passare un’incazzatura… E in effetti, insomma, mi sembrava plausibile… Diciamo che è che però direi che forse è meglio se gli umori li racconti tu Io forse faccio un po’ più fatica a vedermi “da fuori”, rispetto agli altri. A me sembra sempre di fare il
mio disco. Se lo ascolto separatamente, mi rendo conto che ci sono delle differenze, però mi sembra sempre che ho fatto la stessa cosa perché ho dato voce alle mie cose con delle tecniche stilistiche che sono le mie. Però diciamo che secondo me una una cifra stilistica molto presente in quello che scrivo è una sorta di ironia malinconica. Credo che mi sia stato detto, e forse anche nel tuo articolo c’è scritto, che è ancora un po’ più presente e che ha preso il posto di momenti di denuncia incazzata. E’ un atteggiamento che magari in parte è cambiato, però manifesta gli stessi pensieri. Perché poi io sono sempre io. L’ironia malinconica è assolutamente il tratto più riconoscibile. Ma ti pongo la stessa questione che mi è capitato di porre anche parlando con Willie Peyote e i Ministri: il disco precedente era forse più rivolto “all’esterno” in un certo senso. Questo mi sembra più personale Diciamo che Willy Peyote ce l’ha proprio nel titolo no, la nostalgia. E quindi sì, senz’altro questo qui 10
è un punto comune. E allora forse quello che dici tu è semplicemente l’effetto di stare chiusi in casa, invece che confrontarsi col resto del mondo. Siccome poi io metto sempre tutto nelle canzoni, è difficile che una canzone parli di una cosa e basta. Magari si parte da un tema grande, poi ci metto dentro le mie vicende personali. E una componente molto importante della vita di un individuo è quella relazionale: è facile che scivolino riferimenti alla mia situazione relazionale in canzoni che parlano anche d’altro. Il disco precedente l’ho scritto mentre ero fidanzato e questo qui è un disco che ho scritto dopo la rottura. Di sicuro è una differenza e probabilmente anche un motivo di guardarsi dentro. Quando succedono queste cose qui devi essere un po’ più introspettivo, come hai notato. Peraltro, e in contrasto con quello che ho appena detto, una delle frasi chiave, secondo me, del disco “I privilegi, un po alla volta si prendono al posto dei diritti” Be’, questo è un discorso che nelle aree politiche di riferimento
mio si fa da molti anni, almeno da quando ero più piccolo io. E diciamo che la somma di queste due cose fa il totale, nel senso che non garantisce l’applicazione, una volta che si stabilisce un diritto. Per esempio il diritto all’aborto: se tu non garantisci quel diritto e assicuri che sia che sia effettivamente praticabile, o uno, se ha i soldi, va in Olanda, in Svizzera o da qualche altra parte, oppure non ce li ha e non ha garantito il suo diritto, quindi automaticamente diventa un privilegio di chi se lo può permettere. Lo stesso vale per qualsiasi argomento, per esempio sulla morte medicalmente assistita: c’è la possibilità che si vada all’estero. Sempre a questo proposito volevo sapere anche come è andata l’ospitata dalle Iene E’ stato tutto molto rapido. Io sono stato contattato venerdì per fare questa cosa qui e mi avevano dato a disposizione un autore con cui poi mi sono consultato. Però io ho chiesto se potevo scrivere io il testo che poi avrei letto e così ho fatto. E per scriverlo mi sono sen11
tito con un giornalista bravissimo che si chiama Alessandro Sahebi, molto esperto di questi temi e che io già seguivo, quindi mi ha aiutato ad avere tutti i dati in ordine. E’ stata una cosa molto veloce, perché poi lì è una super macchina: sono salito, ho letto la mia roba, l’ho riletta per sicurezza, perché avessero due takes. Peraltro un fatto molto curioso che anch’io non sapevo è che Le Iene decidono la scaletta in corsa. Quindi io fino a cinque minuti prima non ero sicuro che sarei stato quel giorno lì. E poi, quando hanno deciso che io sarei andato in onda, in maniera estremamente organizzata ed efficiente, mi hanno contattato, dicendo: guarda che tra tre minuti sei in onda. Tornando al disco vorrei sapere qualcosa di più delle collaborazioni che hai scelto. Perché ce n’è qualcuna abbastanza classica e qualcuna forse un pochino più sorprendente Diciamo che, mettendoli in slot un po’ precostruiti e ovviamente semplificando, ho l’amico rookie, cioè quello che per me è un feno-
meno, ma ha un seguito minore degli altri (See Maw), l’amico fenomeno e famosissimo, Frah Quintale, e poi l’outsider che non è un amico, ma che è nella mia quota fan, e mi piace così tanto che gli ho chiesto se voleva collaborare, che è Nayt. Con See Maw è successo che essendo io fan del suo progetto musicale ce l’avevo molto cuore, la sua vocalità molto presente in testa perché stavo ascoltando molto le sue canzoni in quel periodo e io avevo scritto una canzone per intero, scritta e registrata, che era alla fine. Però la mia voce su quel ritornello in particolare non mi soddisfaceva al 100% e quindi mi è venuto in mente che secondo me il timbro di voce di See Maw sarebbe stato un bel tentativo da fare. Quindi io gli ho mandato la canzone e lui l’ha ricantata praticamente, con la sua bellissima voce. Ed era chiaro, come ho visto fin da subito, che andava tenuta così. Per quanto riguarda Nayt, invece io ce l’ho più o meno sul radar come rapper da almeno dieci anni, perché lui ha iniziato ad arrivare anche a livelli 12
diciamo alti da giovanissimissimo, forse nel 2010. Lui è del ’94, quindi già a 16 anni faceva dischi con Primo Brown, quando era ancora vivo. E però poi lui è un po’ esploso un paio d’anni fa con Gli occhi della tigre che è super rap serratissimo e diciamo “da battaglia”, rap kill e quindi ce l’avevo presente in quel modo lì. Invece quest’anno ha iniziato un percorso che gli ha fatto fare ben due album in un anno, uno si chiama Mood e uno si chiama Doom, che dal punto di vista musicale e da tutti i punti di vista, dei testi delle basi, è proprio la mia roba, mi piace proprio tanto. E quindi c’è, per capirci, il mio Spotify Wrapped di quest’anno mi diceva che lui era il mio artista più ascoltato. Ho preso atto di questa cosa, sapevo che avevo una canzone in cui sarebbe stato bene e quindi ci siamo sentiti. Lui è venuto in studio da noi un giorno a sentire un po’ le robe e ha detto: guarda, mi piace, passami tutto. E poi ha scritto le sue cose, ha registrato la sua strofa e me era passata. Io ero molto, molto contento, ed è uno dei pezzi che più mi
soddisfa del disco. E invece l’ultimo è Frah che invece proprio un amico e ci vediamo spesso, noi siamo membri della stessa etichetta che è una piccola realtà indipendente. Il che significa che io di giorno se non ho altri impegni specifici, vado in studio così, giusto per fare due chiacchiere. Se ci sono delle idee da farsi venire vengono fuori anche così liberamente e quindi anche lui lo vedo molto spesso e quindi ci siamo semplicemente presi lo studio un paio di giornate e abbiamo ascoltato un po’ di strumentali, tra cui ce n’era una che è quella che abbiamo scelto che piaceva molto entrambi e l’abbiamo scelta. Qui il seguito dell’intervista
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LOMII “We are an Island” è il nuovo album del duo, originario di Cesena. Un disco che parte da lontano e
Questo disco nasce nel 2017. Che fasi ha attraversato nell’arco di questi cinque anni? Questo disco ha avuto due fasi. La prima è stata di grande ricerca e studio per trovare il modo migliore per esprimere il nostro cambiamento. La seconda fase è stata il pensare a ogni pezzo con l’intenzione di ascoltarlo successivamen-
te arrangiato, quindi abbiamo impostato la costruzione dei brani, una volta trovate le fondamenta, sul risultato finale unito ad altri strumenti. Questi anni ci hanno insegnato la pazienza e soprattutto che è importante essere ostinati a volte. Le cose arrivano piano piano. Il tema del disco è il viaggio.
l’intervista
Verso dove? E visto che siete musicisti di strada, un vostro tour delle piazze che posti comprenderebbe? Questo nostro viaggio è appena iniziato e a essere sinceri non sappiamo bene quale sarà la meta. Ci stiamo vivendo con grande serenità questa uscita, felici di quello che abbiamo creato. Un nostro tour delle piazze, che ci piacerebbe tanto fare, vedrebbe sicuramente piazza Maggiore a Bologna e i Buskers a Pennabilli anche se forse per quest’anno siamo un pelo in ritardo! Qual è stata la canzone più difficile da scrivere? E quale la più divertente? La canzone più difficile da scrivere è stata probabilmente The Traveller. O meglio, è stato difficile farla suonare così. Non riuscivamo a trovare la quadra, né vocalmente né musicalmente nonostante il testo fosse per noi importantissimo. Alla fine, un po’ per caso anche, venne fuori l’arpeggio di chitarra e le voci si sono incastrate quasi magicamente. Ci vuole un po’ di fortuna ogni tanto. La canzone 16
più divertente è stata Kismet. Si è fatto un bel baccano con i Lennon Kelly in studio! Quali sono gli artisti che considerate dei modelli per la vostra carriera? Il duo acustico che ci ha fatto iniziare il progetto si chiama The Civil Wars. Tra i vari riferimenti però troviamo anche Noah Gundersen, Emmylou Harris, Johnnyswim, Ane Brun, Wild Rivers, Isaac Gracie. Che progetti avete intenzione di mettere in campo ora? Ci piacerebbe riuscire a organizzare un bel tour in Italia, provando anche a trovare qualche data estera. Non è facile in questo periodo, ma non molleremo. Per questo progetto abbiamo anche ampliato la formazione per i live, presentando il disco insieme alla band composta dal nostro produttore Andrea Cola e da altri tre nostri carissimi amici, Jacopo Casadei (Sunday Morning), Michele Alessandri (Sandri) e Simone Bartoletti Stella. Abbiamo qualche data, ma è tutto in costruzione. Abbiamo tanta fiducia!
THE CLEOPATRAS “Bikini Grill” è il quarto album della carriera della band: un lavoro “alla vecchia maniera”, tra empowerment, nostalgie e ironie
l’intervista Siete arrivate al quarto album della vostra carriera: mi spiegate premesse e titolo? Bikini Grill, il nostro nuovo album in uscita a metà maggio, è un lavoro alla vecchia maniera: invece di proporre più singoli diversi tra loro a distanza di tempo, come i tempi dei social network e dello streaming imporrebbero, l’album rappresenta in un unico lavoro tutti i colori della band, ma anche le passioni e le manie delle sue componenti. Vi troviamo infatti una sfera leggera e spensierata, con i richiami alla dimensione dell’infanzia (dagli unicorni ai pomeriggi passati alla TV) e a quella più sfrenata del rock’n’roll (Feel the Heat è un’ode alla vita in tour); c’è poi una dimensione autoironica (si scherza sulla scarsa predisposizione alla preparazione atletica in (I’m) Fit like Mick Jagger e sull’ipocondria in Travelling Drugstore); ma c’è spazio anche
per questioni più serie, come l’empowerment femminile (We Strike) e il trito e ritrito paradigma del rock ‘al femminile’ contrapposto a quello ‘al maschile’ (We don’t play like men). Il titolo dell’album Bikini Grill nasce in maniera casuale è emblematico della dimensione profondamente autoironica e dello spirito tra il serio e il faceto che spesso ci caratterizza: Bikini Grill omaggia le icone del girl power di Kathleen Hanna, ma lo fa a modo suo, un po’ ironicamente e un po’, osiamo dire, alla toscana. Ben quindici tracce, in un’epoca di lavori cortissimi. Le prime idee di un nuovo disco sono nate nel 2019 mentre eravamo in tour fino ad arrivare alla registrazione a settembre 2021. L’album è nato così in un arco di tempo molto lungo, con input molto diversi tra loro e un contesto in evoluzione: a causa del Covid tutto è stato difficile, ma abbiamo deciso di non demordere e sfruttare al meglio la nostra creatività e potenzialità. Così tramite lunghe videochiamate, e messaggi di registrazioni sono nate le 15
tracce che portano con sé tanti momenti vissuti e sentimenti del prima e del post lockdown. Avete optato per un sound un po’ meno retrò e più compatto: Ascoltando Bikini Grill è possibile intuire tutte le anime, le influenze e le sfaccettature della band. C’è infatti una solida base di punk 77 e garage rock, ma ci sono anche incursioni in altri mondi, dal dream pop al surf più contemporaneo al pop punk fino a pezzi rock più sperimentali e ‘strampalati’ Il sound è più potente e solido rispetto ai dischi precedenti; complice di questo rinnovamento anche il lavoro al mixer di Ale “Ovi” Sportelli, che si è occupato di registrazione, mix e master nel suo omonimo studio a Cascina, Pisa, e ha coprodotto l’album Mi raccontate le tre cover? Le tre cover nascono in periodi diversi (Maldito la suoniamo live ormai da diversi anni) è anche in modo un po’ casuale. Di base volevamo omaggiare, attraverso le stesse, il mondo artistico femminile (tutti e tre i pezzi in origine sono, infatti, di artiste donna) e 20
questa forte identità femminista è ciò che le accomuna, a modo loro. Kiss Kiss Kiss è un brano che abbiamo scoperto recentemente grazie al libro di Matteo Bianchi: Yoko Ono. Dichiarazioni d’amore per una donna circondata d’odio. Ci ha subito colpite per la sua ironia e il suo tocco avanguardistico. La donna appare come essere desiderante, appagato, e non oggetto passivo di desiderio e questa visione ci ha da subito conquistate. Maldito, di Jessy Bulbo, eclettica ed eccentrica mattatrice dell’underground e del girl power messicano, è una botta di energia sgangherata,esilarante ed esaltante, ed infatti la suoniamo spesso come pezzo di chiusura dei nostri concerti. Per una volta, abbiamo tenuto fede alla versione originale, senza tentare di reinterpretare il pezzo; ce lo sentivamo affine così com’è. Per ultimo fare la cover di You’re standing on my neck/Daria era il sogno di Vanessa, “vittima”, come noi altre, della TV degli anni ‘90. E oltrettutto, le affinità tra noi e questo personaggio un po’ acido e un po’ misantropo si-
curamente non mancavano, per cui l’abbiamo trovata una scelta molto azzeccata. Il brano originale è un pezzo grunge del periodo in piena regola, dunque si poneva il dilemma di come personalizzarlo. Replicare la potenza e l’energia di quei suoni appariva difficile e anche poco sensato, dunque abbiamo pensato, un po’ per scherzo: come la suonerebbero i Devo o i B-52’s? E siamo così arrivati a questa versione, che rimane fedele all’originale solo nel bridge. Avete già iniziato a portare il disco dal vivo? I live continueranno per tutto maggio, giugno e luglio…qui il calendario delle date in continuo aggiornamento: 9/06 Firenze; 10/06 La Spezia; 11/06 Siena; 18/06 Sesto F.No; 1/07 Verona; 2/07 San Donato (FI); 3/07 Bologna.
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ROUGH ENOUGH “Canzoni un po’ stronze”, una collaborazione con Ufo degli Zen Circus e molto altro nel nuovo disco del duo
Ciao, ci raccontate qualcosa del vostro cammino musicale fin qui? Ciao! Il nostro cammino musicale è molto simile a quello di molte band emergenti italiane. Ci siamo incontrati un po’ per caso, ognuno coltivava i propri progetti e la propria musica finché non si è sentita
l’intervista
la necessità di provare a costruire un percorso insieme, data la sintonia scaturita immediatamente dopo la prima prova fatta insieme. Abbiamo iniziato subito a comporre il precedente disco, Molto poco zen, che però era ancora un lavoro acerbo, molto di pancia. Dopo le date di quel disco ci siamo rimessi a lavoro per fare delle canzoni più oculate, privilegiando sempre l’emozione viscerale che caratterizza la nostra musica, ma lavorando moltissimo sulla composizione e sui testi per alzare l’asticella. Inutile dire che non potremmo essere più soddisfatti di questo nuovo disco. Quali sono le caratteristiche fon-
damentali del vostro nuovo lavoro (al di là di una certa predilezione per i titoli in latino)? Pensiamo che la caratteristica fondamentale del nuovo disco (ma in generale della nostra musica) sia la spontaneità. Che la testa ti sia lieve è un disco diretto, che va dritto al sodo senza cercare alternative o scendere a compromessi. Sono canzoni un po’ stronze, molto rudi nel suono, ma che conservano gusto e ritmo come se fossero dei brani pop. I titoli in latino sono un po’ anche lo specchio dei nostri lavori: spesso capita di essere più apprezzati da ascoltatori maturi che da ragazzi giovani, che magari prediligono altri generi che vanno di moda al momento. Ci siamo sempre sentiti un po’ anacronistici ispirandoci a molti artisti degli anni ‘90, per cui scherzando ci siamo detti: facciamo roba vecchia e in latino. Una delle cose che preferiamo sono i testi: ci piacerebbe arrivare alle persone con un messaggio e non solo con i riff di chitarra. Come nasce la collaborazione con Ufo?
L’amicizia nasce anni fa tra birre e chiacchere su Sanremo (prima che gli Zen partecipassero al festival), dal tema di queste chiacchierate deriva la fake call inserita nel disco precedente. Noi abbiamo chitarra e batteria, lui è un bassista, non potevamo non chiedergli di suonare con noi in Ubi maior minor cessat. Ufo accetta a patto di cambiare il titolo in Ubi maior Minor Threat: non abbiamo mantenuto la promessa, prima o poi ce la farà pagare. Che contributo ha offerto la produzione di Franz Valente? Con Franz si è creata una sintonia stupenda, abbiamo fatto squadra e seguito i suoi suggerimenti per cristallizzare e confezionare le nostre composizioni al meglio di quello che poteva essere in quel preciso momento. Avete già degli appuntamenti dal vivo in programma per l’estate? Abbiamo già in programma un po’ di date in Sicilia e ne chiuderemo altre in Penisola: il 4 giugno al Roxanne di Palermo, il 10 da Sketch ad Acireale, poi Stoner a Favara e The Globes a Ragusa. 24
MADYON Un album live, un live movie, un omaggio a un amico che non c’è più: molte le attività portate sul palco dalla band piemontese
Domanda ovvia per cominciare: perché un album live, pratica che sembra un po’ in disuso? Ciao, sono Cristian, il frontman dei Madyon. Effettivamente gli artisti sono soliti pubblicare un
album, seguito da un tour promozionale ed eventualmente da un disco live. “Madyon :: Live 3022” invece è un disco live che anticipa le sonorità, la presenza scenica e l’immagine che caratterizzerà il
l’intervista nostro futuro album in studio, la cui uscita è prevista a cavallo tra il 2022 e il 2023. Per realizzarlo abbiamo organizzato un concerto “segreto” nell’estate 2021, in un teatro di Alba, in provincia di Cuneo. Volevamo coinvolgere esclusivamente i fans più vicini al progetto e per farlo abbiamo optato per una comunicazione non convenzionale, tramite cartellonistica nelle zone della nostra provincia. Il messaggio era criptato, non conteneva in alcun modo il nome della band ma solo simboli e riferimenti che potevano veicolare nel posto giusto, al momento giusto, solo chi ci segue molto attentamente e sa riconoscere il nostro linguaggio. Volevamo valorizzare le persone che da anni fanno lo stesso con noi e la nostra musica. Mi raccontate anche la scelta del live movie? Il live movie è stato fin dall’inizio il primo obiettivo poichè l’idea era quella di anticipare la nuova
immagine insieme ai nuovi suoni della band. Ci piace comunicare con tutti gli aspetti possibili legati alla musica e alle esibizioni dal vivo. Abiti di scena, scenografie e colori, tutto a servizio della narrazione. Sta allo spettatore interpretare il mondo e le storie che vogliamo raccontare. In questo caso un indizio sta proprio nel titolo: un solo numero fuori posto nel titolo (3022 al posto di 2022), oltre a dare identità al prodotto, fa prendere all’intero messaggio una connotazione futuristica / fantascientifica. La stessa che caratterizzerà le storie e le ambientazioni del nuovo album. Questo espediente narrativo inoltre ci ha permesso di riportare sul palco con noi il nostro amico Paolo Papini, chitarrista dei Madyon scomparso nel 2016 a seguito di un tragico incidente. Nella nostra testa i tempi erano maturi per poter finalmente fare qualcosa di “attivo” nei confronti del suo ricordo. Contestualizzandoci tutti in un prodotto video, in un film fantascientifico, le distanze tra noi si sono potute annullare. A metà del film infat-
ti, lo stesso televisore che capta le immagini del nostro concerto, si sintonizza su una registrazione semi inedita di Paolo che suona dal vivo il brano acustico Nadìr, contenuto nel primo ep dei Madyon. Con la première organizzata nei cinema multisala della nostra zona poi, si è coronato il sogno di poterlo riportare fisicamente di fronte a un pubblico, insieme a noi. Essendo tutti contestualizzati nello stesso video era come se fossimo tutti sullo stesso palco, e il palcoscenico dei video è il cinema. Vivere questa première in sala con altre 150 persone è stata un’emozione indescrivibile che non dimenticherò mai. Chi sono i Madyon oggi? I Madyon sono una band italiana, originaria di Cuneo, che fa musica alternative, indie, pop, rock, britpop (e chi più ne ha più ne metta) con testi in inglese. Diciamo che se vi piacciono i primi Coldplay, The Verve o i fratelli Gallagher, magari vi piaceranno anche i Madyon :) Cosa vogliamo? Continuare a fare ciò che facciamo, nel modo e nei tempi in cui 28
ci piace farlo. Sembrerà banale ma possono dire la stessa cosa gli artisti della scena mainstream che per sbarcare il lunario devono sottostare ai tempi e alle dinamiche imposte dal mercato? Basti pensare a tutti quegli artisti che pubblicano una canzone nuova ogni 2/3 mesi per evitare di cadere nell’oblio. Trattano le proprie canzoni come se fossero dei post su un social network. Ogni venerdì esce musica nuova e quella del venerdì precedente è già in scadenza. Le idee brillanti, i contenuti interessanti emergono soltanto quando si ha il tempo per poter metabolizzare le esperienze della vita,
positive o negative che siano. Se si ha bisogno del mercato discografico per poter vivere (o sopravvivere) perché non si hanno alternative economiche, bisogna sottostare ai tempi del mercato stesso che sono molto serrati. Forse sono proprio questi tempi serrati che rendeno tutte le uscite così simili tra loro e povere di contenuti. State lavorando a un nuovo disco: ci raccontate come sarà? Sarà un disco che verrà presentato con un’immagine coordinata, una presenza scenica d’avanguardia che strizzerà l’occhio alla corrente CyberPunk degli anni ’80. Al suo interno però le sonorità si rifaranno a quelle della canzone senza tempo. La tecnologia e l’elettronica saranno a servizio di strutture musicali e arrangiamenti classici, composti da chitarre, piano, basso e batteria. Canzoni che avranno una veste potente e colorata nell’arrangiamento proposto all’interno dell’album, ma allo stesso tempo potranno esprimersi in versione acustica, essenziali, nude come quando sono state scritte sul tappeto di casa. 29
RICHARD J AARDEN Da musicista sperimentale a cantautore, facendo tappa per le colonne sonore: arriva il disco d’esordio di Richard Aardenburg
Ci racconti chi è Richard J Aarden? Domanda difficile perchè in fondo sono semplicemente io (Richard Aardenburg) senza altri grandi tipi di costrutto. C’è solo la piccola differenza nel nome che avevo scelto di utilizzare più di 10 anni fa quando ho iniziato a fare musica elettronica e a cui mi sono affezionato. All’atto pratico ora è diventato un contenitore dove faccio tutta quella musica che ha bisogno di un testo, senza vincoli di alcun tipo.
È un progetto che si evolve insieme a me e che mi aiuta a comunicare cose che non riuscirei ad esprimere in altro modo. Potremmo vederlo come una sorta di diario. A dieci anni dal tuo primo ep approdi al primo album. Come mai è stato necessario un percorso così lungo? Ci sono tanti fattori. Come si dice, c’è un tempo per seminare e un tempo per raccogliere. Ci ho solo messo un po’ a trovare la giusta combinazione di semi che mi po-
l’intervista
tesse identificare correttamente. Ogni singolo brano che ho pubblicato fino ad oggi mi ha portato a questo disco e, ora che ho sbloccato questo tassello, questo disco mi porterà al prossimo. Un altro fattore è che mi piace pensare agli album come qualcosa di più di una semplice raccolta di canzoni e non ero pronto a raccontare una storia più lunga di un paio di canzoni. Ci sono brani in questo disco che per me si gustano ancora meglio contestualizzati nella tracklist. Parti da musicista sperimenta-
le per approdare nel tempo alla dimensione di cantautore. Ma quando inizi a lavorare a un brano qual è l’approccio che adotti? Per i miei brani l’approccio è sempre lo stesso, ho delle piccole routine per arrivare allo stato mentale di serenità e concentrazione che mi serve per costruire i miei pezzi. Come accennavo ci ho messo un po’ per trovare la chiave di far convivere il produttore e il cantautore. La parte di imbastimento iniziale è un processo che ho bisogno di fare da solo per mettere ordine alle idee e darmi il tempo di sbagliare strada. Sono un annotatore/raccoglitore compulsivo, di qualsiasi cosa: audio, testi, video, immagini. Il primo mattoncino arriva sempre dalle mie note, poi è tutto un gioco ispirazione del momento e affinamento dell’intenzione. Quali sono a tuo giudizio temi e caratteri dominanti di questo disco? Direi ricerca e consapevolezza ma lascio a chi ascolta trovare le sue risposte. Mi piace scrivere pezzi che abbiano spunti di lettura di-
versi e dove ognuno possa trovarci il suo vissuto. Questo disco si porta dentro una piccola storia. Parte da un evento accaduto nel passato fino a risolversi con uno sguardo positivo sul futuro. È un percorso che non sarei stato in grado di intraprendere se sapessi rispondere con certezza alla prima domanda che mi hai fatto. Il tuo singolo Riots è entrato nella colonna sonora del film “Un viaggio indimenticabile”. Hai altri progetti che ti legano al cinema in arrivo, o comunque ti piacerebbe averne? Scrivere musica per immagini è la mia più grande passione e credo che questo si rifletta in tutta la musica che scrivo. Ascoltare una tua canzone al cinema, sulle immagini di un film è un’emozione indescrivibile, nel mio caso ho riscoperto “riots” vestita di storie e sensazioni che non avevo immaginato in fase di scrittura. Mi sono specializzato al conservatorio Boccherini di Lucca sulla composizione di musica applicata alle immagini e questo mi ha aperto universi interi su tantissimi aspet32
ti. Nell’arco di quest’anno uscirá un bellissimo cortometraggio (regia di Emanuele Palamara) con la mia OST. Ci sono altre concrete opportunità di sincronizzazione su film di produzione oltralpe e relative ai pezzi di questo disco ma non mi sbilancio finché non si concretizzeranno. Finire in un film comporta l’allineamento di un milione di fattori ed è anche questo che lo rende un traguardo così bello. Approdare al cinema con una colonna sonora originale è comunque uno dei miei obiet-
tivi e sono sicuro che arriverá il momento e l’occasione; come tutte le cose belle, ha bisogno del suo tempo e ho imparato a non aver fretta. L’approccio di scrittura di una musica originale è comunque molto diverso da quello che uso per scrivere per me ed è davvero stimolante perchè trasformi in tua l’esigenza di qualcun altro e devi farlo con un obiettivo molto preciso; una singola nota, una dissonanza nel punto giusto, un accordo può cambiare la percezione di tutto quanto. 33
SAMUELA SCHILIRO’ “La vita che vuoi” è il nuovo e terzo disco della cantautrice di origini goriziane e siciliana d’adozione
Di solito secondo e terzo disco sono quelli della “maturità”. Ti senti matura, come artista e autrice? Penso che non mi sentirò mai realmente matura, come donna intendo e di conseguenza come artista e autrice. Credo sia un termine abusato e che non mi piace tantissimo. Agisco “di pancia” e a volte questo non porta a decisioni cosiddette mature. Oggi sono di certo più consapevole di ieri, ma tendo sempre e comunque a seguire molto il mio istinto e ciò che sento sul momento. Per cui se maturità equivale a raziocinio e saggezza, allora credo che non
l’intervista
faccia per me, se invece per maturità si intende consapevolezza, allora sì sicuramente questo terzo disco è più maturo. A me piace sperimentare, giocare, mettermi costantemente in discussione e adoro i cambiamenti, quindi cerco di lasciarmi trasportare dalla corrente della vita che vivo e che mi vive e questo finisce sempre per essere presente nella mia musica. Credo di avere ancora tantissimo da imparare e da vivere e ne sono felicissima, è ciò che mi fa sentire di essere in vita. Su che premesse nasce questo album? Nessuna reale premessa. Dopo
un po’ di anni dal secondo disco, nei quali ho ripreso in mano gli studi classici della chitarra, approfondendo soprattutto l’armonia e la teoria musicale e mi sono dedicata ad altri progetti artistici, ho sentito la necessità di riprendere a scrivere canzoni per me, per il mio progetto solista e solo dopo averne raccolte un discreto numero, mi sono detta: “Perché non pubblicare un terzo disco?”. Non avevo nessuna fretta di farlo e nessuna reale volontà, nel senso che l’avrei fatto solo quando avessi sentito di nuovo la spinta necessaria a raccontare qualcosa in prima persona. La musica occupa uno spazio prioritario nella mia quotidianità e anche quando non pubblico dischi, ascolto, scrivo, arrangio, produco, suono e faccio concerti. Un album per me è la condivisione di un pezzo della mia vita, che fotografo e consegno al mondo. A volte ho voglia di condividerlo, altre volte no. Hai coinvolto numerosi musicisti nel disco, ma ti sei “tenuta” la produzione artistica: ci spieghi la scelta?
Ho fatto questa scelta in maniera del tutto spontanea, quasi senza farla. Mentre scrivevo le melodie e i testi delle canzoni presenti ne La vita che vuoi, mi risuonavo nella testa gli arrangiamenti e i suoni di ogni singolo brano, avevo già tutto in mente prima che si concretizzasse, senza volerlo. Spesso mi svegliavo la notte per appuntare parti di alcuni strumenti che arrivavano improvvise e mi impedivano di dormire, è stato come se la canzoni mi dicessero che vestito avessero voglia di indossare. Ho preferito non ostacolare ciò che è capitato in maniera così naturale e quindi ho deciso di occuparmi della produzione artistica del disco. I musicisti che hanno suonato in questo album sono stati ovviamente preziosi, li ho scelti perché sapevo che avrebbero contribuito in maniera importante alla resa finale del lavoro e che avrebbero messo al servizio del progetto non sono le loro capacità tecniche, ma anche la loro anima. E questo cercavo. Mariagiovanna Lauretta (coautrice fra l’altro di alcuni testi) Vincenzo Di Silvestro, Michele 36
Musarra (che si è occupato anche delle riprese del disco) Denis Marino, Daniele Zappalà, Rosario Figura, Giuseppe Sanalitro e Andrea Pappalardo sono musicisti nutrienti. Se ne dovessi scegliere una sola, quale sarebbe la traccia dell’album che ritieni più importante? Sceglierne una è davvero difficile. Sono tutti figlie e figli miei e come tali li amo senza preferenze. Ognuno di loro ha la propria personalità, diciamo così, i propri pregi e i propri difetti (ride). Di-
rei allora che la figlia maggiore è Sono giorni, l’unico brano acustico del disco, il più intimo, che non ha sentito l’esigenza di truccarsi troppo e di indossare molti accessornell’abbigliamento. È un racconto di un giorno come un altro, ma talmente speciale da far sorgere una domanda necessaria: “È la vita che vuoi?” È il brano che in fondo dà il titolo al disco. Che programmi hai per i prossimi mesi? Seguitemi sulle mie pagine social e lo scoprirete insieme a me! 37
HLFMN “Double Mirror” è , due anni dopo “Fire”, il nuovo lavoro del misterioso artista
Due anni dopo Fire torni a pubblicare un nuovo lavoro: ci racconti quello che ti è successo, a livello musicale, in questo periodo? Dopo aver lavorato su “Fire” ho deciso di intraprendere alcuni corsi di specializzazione in mix, mastering e sound-design; ho sempre curato tutti gli aspetti della mia musica ma tutto quello che sapevo l’avevo imparato da autodidatta, sperimentando con programmi di produzione musicale come Ableton... adesso, dopo aver seguito dei corsi con insegnanti molto bravi, posso dire di avere acquisito un modo di lavorare più professionale e diretto.
l’intervista
Quali sono i concetti base di Double Mirror? Che cosa c’è oltre il (doppio) specchio? L’universo del “metà-uomo” si sviluppa nel cosiddetto Mondo-Specchio, un modello di realtà diviso simmetricamente tra fisico e non-fisico, materiale e immateriale, manifestato e non-manifestato; in questo universo gli eventi e le vicissitudini della Vita non sono generati dal caos, dal caso o dal destino, ma sono letteralmente creati, o per meglio dire richiamati, dagli esseri senzienti che lo abitano. Il mondo-specchio da un lato contiene ogni possibile variante di realtà in stato potenziale (il lato nero della maschera di HLFMN), mentre dall’altro si svolge il gioco pratico e materiale; chi o cosa decide quali varianti dovranno manifestarsi? Chi o cosa decide quali elementi richiamare dal lato immateriale? : Il metà-uomo attraverso la sua attenzione. Perché hai scelto proprio My Heart is Full of Love (Believe Me) e Tellurika come singoli rappresentanti dell’album?
Non è che ci abbia pensato poi molto...sono i due brani che secondo me avevano melodie più orecchiabili e accattivanti; oltretutto per “Tellurika” stavo già girando un video durante la produzione del disco, quindi per questo brano è stata una decisione scontata. Chi sono i tuoi riferimenti musicali? Sono molto legato alle sonorità indie-rock del ventennio 1990/2010, periodo in cui hanno militato alcuni dei miei artisti preferiti come Smashing Pumpkins, Sigur Ros, Arcade Fire... adoro anche il Progressive Rock degli anni 70, su tutti Van Der Graaf Generator, Genesis e Banco del Mutuo Soccorso; attualmente, per quanto riguarda la musica elettronica, sono in fissa con Ivy Lab, un duo britannico di abstract hip-hop. Che progetti hai in serbo per il prossimo periodo? Non parlo mai di progetti futuri, preferisco tenermeli per me fino a che non si concretizzano... probabilmente nuova musica come HLFMN comunque 40
BLACK SNAKE MOAN One Man Band alla ricerca del “blues primordiale”, pubblica un doppio singolo e preannuncia importanti novità all’orizzonte Ciao, raccontaci la tua storia fin qui La storia di Black Snake Moan nasce a fine 2017 dall’esigenza di intraprendere un nuovo percorso artistico solista “monobanda”, suonando più strumenti simultaneamente rappresentando concettualmente l’idea sonora di una band. Ho iniziato ad approcciar-
mi alla musica con il canto, successivamente la batteria ed infine la chitarra, strumento che mi ha portato ad intraprendere una nuova forma di scrittura e composizione suonando contemporaneamente tutti gli elementi citati. L’idea è di esprimere tutto ciò che mi rappresenta e che mi descrive, suonare ciò che sono, focalizza-
l’intervista re le mie principali vocazioni sonore come il Delta Blues e Rock Psichedelico e Desert Rock. Ho cominciato a suonare la chitarra grazie al Delta Blues tradizionale anni 30; rimasi affascinato dal mondo misterioso, oscuro e viscerale del Blues primordiale, connesso inevitabilmente alla psichedelia. La voglia di sapere di
più sulle origini così antiche, mi ha portato a documentarmi e mi sono perso nel mistero del Blues e dei suoi leggendari protagonisti, riproposti poi negli anni 60 fino a oggi. Black Snake Moan (Il Lamento del Serpente Nero) è il titolo di un famoso brano di Blind Lemon Jefferson che fu una delle figure più importanti e influenti del pri-
album Phantasmagoria, portato in Europa e USA, partecipando all’IBC Memphis, per Mojo Staton Blues, intraprendendo un tour lungo il Mississippi da Memphis a New Orleans, prima che l’emergenza sanitaria fermò il mondo. Da che tipo di suggestioni nasce Revelation & Vision? Revelation & Vision è un doppio singolo scritto in una giornata particolarmente ispirata, ragione per la quale ho voluto pubblicarli insieme, perché sono complementari e rappresentano la fotografia di un determinato momento, un flusso creativo molto significativo, costellato da nuove sperimentazioni sonore, strumentazioni e scrittura, seguendo più una linea psych folk per Revelation e più desert rock per Vision, nuove forme di linguaggio legate saldamente alle mie radici. L’idea del formato 7” mi piace molto, la promozione del formato fisico del doppio singolo ha un significato molto importante e un messaggio forte. Ho voluto dare un senso ad un momento molto particolare, rivelazione e visione di uno stato d’a-
mo blues anni ‘20, mentore del “texas blues” e “spiritual”, fu uno dei primi bluesman della storia e fonte di ispirazione a molti musicisti come Charley Patton, Son House o Robert Johnson o Fred McDowell. Oltre a piacermi molto il titolo del brano, rimasi colpito dal linguaggio di Jefferson, dal suo mondo e da ciò che ha creato il suo mistero, una vera e propria opera di transfer; è proprio questo il concetto del mio progetto. Il One Man Band è un’attitudine, è una realtà rock’n’roll, è un concetto, significa non identificarsi in un solo genere, cercare di creare più mondi mantenendo una propria identità stilistica seguendo il flusso. A seguito dell’inaspettata vittorie conseguite nelle edizioni 2017 dei concorsi di Arezzo Wave Love Festival e del MEI SuperStage di Faenza con il mio album d’esordio autoprodotto “Spiritual Awakening”, ho intrapreso una cospicua serie di tour e partecipazioni a festival europei che mi ha permesso di vivere esperienze davvero incredibili. In ottobre 2019 ho pubblicato il mio secondo 44
nimo, la stasi di un determinato sentimento, la ricerca costante del proprio obiettivo seguendo il miraggio all’orizzonte. La poetica del viaggio nel Deserto rappresenta il concetto di perdersi e di ritrovarsi, la ricerca incessante di nuove risposte e luoghi da esplorare. Che tipo di ispirazione cerchi? Trance e psichedelia indubbiamente sono concetti che rappresentano la mia musica perché di base compongo seguendo un flusso “ritualistico”, la celebrazione di una sensazione ed evocazione, il nlues e la psichedelia si fondono in questo messaggio spirituale ed artistico; è uno stato di ipnosi, molto stimolante per me, un mantra che narra sentimenti e trascina l’ascoltatore nel proprio mondo che rispecchia personali sensazioni e visioni. Mi piace descrivere la mia musica come un’esperienza, un flusso di coscienza, un viaggio rock a tratti riflessivo e psichedelico che segue la ripetitività della musica etnica, in questo caso il blues più viscerale che si mescola con la psichedelia più compromessa con l’oriente. La ricerca so-
nora è un’incognita, una forma di “autoscolto” intenso e profondo; la mia principale fonte di ispirazione è suonare ciò che sono, seguendo le proprie sensazioni e ascolti che mi catturano, che mi rappresentano, il mio specchio artistico. Il mio principio creativo nella composizione dei brani è la libertà, la possibilità di interagire con me stesso, un dialogo, un viaggio, un flusso di coscienza sotto il segno del rock’n’roll. Che progetti hai per l’immediato futuro? I progetti per l’immediato futuro sono sicuramente il tour estivo di Revelation & Vision, questa volta con una nuova formazione, in duo, suonando con il mio amico polistrumentista Gabriele Ripa, arrangiando anche la mia precedente discografia, un nuovo live che mi sta veramente dando nuovi stimoli. Ho in programma un tour in Italia, Europa e USA appena sarà possibile; sto programmando le registrazioni di nuovo materiale e collaborazioni molto significative e stimolanti che non vedo l’ora di rivelare. 45
PITCH3S PITCH3S Due batteristi si incontrano e si mettono a fare musica elettronica: “Doxa” è il primo risultato del sodalizio tra Sergio Tentella e Davide Savarese
Come nasce il vostro sodalizio? Ci incontrammo circa due anni fa per studiare batteria insieme, ma ne uscì tutt’altro: scrivemmo un brano dopo aver realizzato di avere parecchie influenze in comune, e da lì è iniziato il viaggio che ci ha portato a produrre il nostro primo ep.
l’intervista
Perché due batteristi decidono di fare un disco dove domina l’elettronica? In realtà ci sembra una cosa molto naturale, una conseguenza logica dell’essere batteristi in un’epoca dove l’elettronica ha un grande riscontro. La schematicità che risiede nel sapere suonare uno strumento come la batteria ha molto in
PITCH3S One Man Band alla ricerca del “blues primordiale”, pubblica un doppio singolo e preannuncia importanti novità all’orizzonte
l’intervista comune con la schematicità tipica delle composizioni elettroniche, dove tra l’altro la componente ritmica è davvero una delle componenti primarie. Le cinque canzoni del disco raccontano soprattutto delle storie: qual è quella che vi ha toccato di più e che sentite più vicina? Ognuna di esse ha a suo modo un posto speciale nella nostra mente. Probabilmente Gift è quella che ci ha toccato un po’ di più. Avete intenzione di portare dal vivo il progetto? E avete già idea di come? Sì, è il prossimo passo che ci attende. Cercheremo di portarlo dal vivo sempre come duo, ma non è ancora detto che il progetto non possa allargarsi dal vivo.
RICCARDO MORANDINI
Dopo la pubblicazione dell’ep “Eden” nel febbraio del 2021, il cantautore e musicista fa il suo debutto con l’album “Il Leone verde“, coprodotto da Franco Naddei Ciao, ci racconti qualcosa della tua avventura musicale fin qui? Al liceo avevo un gruppo metal, gli Otivm, poi ho studiato jazz al conservatorio, ma sono rimasto sempre molto eclettico. Ho collaborato con Sammy Osman (cantautorato/musica popolare), Mr Zombie Orchestra (liscio
romagnolo in versione elettrica), Collettivo Ginsberg (rock alternativo cantautorale) Tower Jazz Composer Orchestra (jazz/avanguardia), e svariate altre formazioni. Per 3 anni sono stato il chitarrista di Alessandro Ristori, showman senza pari e interprete dei classici del repertorio italiano e
l’intervista
non solo, con cui ho maturato una grande esperienza in ambito live, vivendo praticamente in tour. Negli ultimi due anni mi sono dedicato al mio progetto solista e collaboro come chitarrista con Superpop (italo-disco). Il tuo disco, fin dalla copertina, è pregno di simbolismi. Perché hai scelto di presentarti in questa modalità? Per contesto familiare sono stato immerso fin dall’infanzia nel mondo dell’esoterismo, che quindi mi appartiene in maniera molto naturale. Simboli e allegorie mi hanno sempre attratto e quando un’immagine rimanda a un significato, a un’interpretazione, agisce in maniera mol-
collina domina la contemplazione, in Menade una sorta di trance ritmica, in Immagine una certa aggressività trattenuta... Poi il processo di scrittura, arrangiamento e registrazione nella sua interezza è sempre un parto che alterna momenti di esaltazione a momenti di sconforto e la lucidità su ciò che si è fatto spesso arriva solo con il disco successivo. Quali sono gli artisti che ritieni tuoi punti di riferimento? Ti rimando a una playlist intitolata Alchimie presente sul mio profilo Spotify, che ho creato per contestualizzare Il Leone verde. Dentro puoi trovarci i King Crimson, i Radiohead, Mina, gli Sparklehorse, Lazaro Ros, gli Area... Per quanto riguarda i testi mi sento spontaneamente vicino a Battiato e ai C.S.I. Che progetti hai per la promozione, anche dal vivo, del disco? Per ora ho una data di presentazione l’8 Giugno al Circolo Dev a Bologna. Sto attendendo l’esito di un paio di contest e sto trattando per qualche altra data, ma è ancora tutto in forse!
to più potente su di me rispetto ad una formalmente perfetta ma “vuota”. In Immagine, la traccia di apertura del disco, rifletto su questi temi: il mondo è invaso dalle immagini ma è sempre più povero di simboli, che in passato fungevano da collegamento tra realtà materiale e spirituale. Non so se hai notato il proliferare di madonne e riferimenti alla simbologia cristiana (in cui ho sguazzato volentieri anch’io) negli ultimi anni, nel mondo della musica e della moda (ma anche del cinema, dell’arte...). E’ affascinante che pur in questa degenerazione mercificata si esprima una sorta di nostalgia metafisica: il desiderio disperato di trovare un significato ultraterreno in mezzo alle milioni di immagini vacue da cui siamo quotidianamente bombardati. Quali sono stati i sentimenti dominanti in te mentre il disco prendeva forma? In ogni brano si riflette il clima emotivo che si sperimenta durante la composizione e che la composizione cerca a sua volta di descrivere. In Unione e Luce sulla 53
DARKPOOLS
“Gore” è il nuovo lavoro della band nata nel 2016 e dalle influenze musicali molteplici e variegate Ciao, ci raccontate la storia della vostra band? La band nasce nel 2016 con la voglia comune di fare musica propria e trovare uno spazio musicale personale senza doversi preoccupare troppo di rispettare i canoni di questo o quel genere. La formazione iniziale vede Andrea
l’intervista
Dean alla voce, Angelo Rusalem e Davide Purinani alle chitarre, Michael Bonanno alla batteria e Giuliano Corbatto al basso. Nel 2019, dopo aver pubblicato un demo e aver suonato tra Italia, Slovenia e Croazia, Giuliano ha lasciato la band per impegni familiari e si è aggiunto Davide Giorgi che oltre a suonare il basso fa anche le seconde voci. Con l’arrivo di Davide al basso e la novità delle seconde voci abbiamo cambiato leggermente direzione iniziando ad utilizzare anche parti vocali melodiche Prendete il nome dalla parte “oscura” della finanza: avete qualche interesse specifico nell’ambiente o è una critica generale? I soldi governano il mondo, sempre di più con lo sviluppo dell’attuale sistema capitalistico. La finanza è il centro nevralgico di questo crescente potere. I mercati non regolamentati sono i luoghi in cui vengono prese decisioni che ci riguardano tutti nella totale inconsapevolezza di tutti quelli che pagheranno le conseguenze
di quelle decisioni. Poter parlare di un fenomeno così importante eppure così poco conosciuto è una parte del messaggio che come gruppo vogliamo trasmettere Ci raccontate qualcosa su ispirazioni e premesse del vostro nuovo ep, “Gore”? I pezzi dell’album sono stati scritti nel periodo pre pandemico e riguardano principalmente la critica alla società attuale, individualista e priva di valori forti. Le nostre canzoni raccontano questa rabbia e frustrazione ma anche e soprattutto la speranza che questo cambi. Che ci sia un cambiamento profondo nelle persone e che le avvicini le une alle altre così da poter scardinare il sistema. Musicalmente, come sempre non abbiamo scelto a tavolino a che gruppo o a che genere ispirarci nella scrittura dei pezzi. Sono nati in sala prove dalla collaborazione di tutti, ognuno ha sempre messo qualcosa di sé in ogni brano dell’ep. Quali sono i gruppi che considerate dei modelli? Ognuno di noi ha gusti e back56
Quali sono i progetti per la seconda parte del 2022? La situazione dei live pian piano sta tornando a normalizzarsi, quindi il nostro obiettivo principale per i prossimi mesi è cercare di suonare dal vivo il più possibile così da poter presentare il nostro ultimo lavoro come lo abbiamo pensato: dal vivo, a volume alto e in mezzo ad altra gente che si diverte. Nel mentre stiamo iniziando a scrivere pezzi nuovi.
ground musicali diversi, ma cisono alcune band che hanno comunque ricoperto un ruolo importante nella formazione di quasi tutti. Gli Slayer, i Carcass, i Sepultura, i Fear Factory, i Machine Head, poi gli Architects, i Bring me the Horizon. A questi ognuno potrebbe aggiungerne altri. io ad esempio ho sempre ascoltato molto hardcore, quindi aggiungo di sicuro Snapcase, Raised Fist, Gorilla Biscuits. 57
TOXI FAKTORY
Si intitola “The Tower Below” il nuovo lp della band francese Ciao, puoi dirci come è nata la band? Fondamentalmente la band è stata fondata da Niko (voce) e Tom (batteria), che erano compagni di scuola superiore. L’attuale forma-
l’intervista
zione ha circa dieci anni. Il concetto iniziale, che abbiamo affinato nel tempo, era quello di creare un universo a sé stante, un gruppo abbastanza concettuale. Toxi Faktory è una specie di racconto doloroso post-apocalittico. Niko e Tom sono stati piuttosto pazzi fin dall’inizio per la letteratura distopica di fantascienza (Huxley, Orwell...), che è sempre stata una grande influenza, una sorta di bussola per lo sviluppo della storia raccontata. Cosa possiamo trovare nel vostro nuovo album, The Tower Below? Per capire questo album dobbiamo ripetere due parole del nostro universo. Immaginiamo il mondo dopo The Great Cataclysm, la Terza Guerra Mondiale, che situano nel 2025. Il nostro primo album, Massive Lies, ha fatto da scenario qualche decennio dopo, nel 2130. Con Massive Lies, abbiamo presentato alcune scene di questo mondo, come lampi. Il nostro nuovo album, The Tower Below, è una discesa nelle profondità di Toxi Faktory, il laboratorio che
assicura la coerenza metodica del sistema. The Tower Below è una sorta di enorme libreria che contiene tutte le informazioni del sistema. Stiamo mettendo in scena un potere che agisce di nascosto; in questa nuova opera troviamo quindi molto l’idea di cercare la verità, di scavare, come nel titolo Diggin’ Through che apre l’album. È stato un lungo processo. Siamo entrati nella sua composizione nel 2016. Ci è voluto del tempo, perché dopo il nostro primo album abbiamo voluto sviluppare il nostro sound, in particolare per consentire evoluzioni verso il prog, con canzoni più lunghe e complesse come dicevamo. Questo è stato anche un periodo di reciproco addomesticamento con L4AZ, che ha prodotto l’album. Si sono presi il tempo per conoscerci, per entrare a pieno titolo nel nostro mondo complesso, per capire le nostre aspettative. In particolare, molto lavoro è stato svolto da Maxime Fieux, il nostro tecnico del suono che ha mixato e masterizzato l’album. Siamo davvero contenti del risultato e grati per la sua 60
pazienza!! Quali sono i vostri punti di riferimento musicali? Se dovessimo concentrarci su pochi nomi, potremmo dire Machine Head, Gojira, Rammstein, Psykup, Nine Inch Nails, Dagoba, Tool, Opeth... Potremmo citarne molti, come le influenze dei cinque membri di il gruppo è così vario. Abbiamo anche creato una
playlist sul nostro account Spotify, chiamata ToXinFluenZ, in modo che i nostri fan possano trovarla. Conosci la musica italiana? C’è qualcuno che apprezzi? Quando eravamo giovani, tra le altre cose, ascoltavamo Lacuna Coil. In seguito, oltre al metal, alcuni di noi ascoltano anche altri artisti italiani in altri stili, come Alborosie o BoostDaBeat.
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