Rivista trimestrale di scienze e storia





COMITATO EDITORIALE

COMITATO EDITORIALE
DIREZIONE SCIENTIFICA
Sabina Pavone Storia
Severino Salvemini Economia
Giorgio Vallortigara Neuroscienze
Stephen Alcorn, Roberto Battiston, Gianluca Beltrame, Giacomo Berchi, Carlo Boccadoro, Piero Boitani, Umberto Bottazzini, Patrizia Caraveo, Pier Luigi Celli, Luisa Cifarelli, Rosita Copioli, Luca Fezzi, Chiara Franceschini, Antonio Lucci, Nunzio La Fauci, Alberto Oliverio, Mariagrazia Pelaia, Giorgia Serughetti.
DIRETTORE RESPONSABILE
Gabriella Piroli direttore@prometeoliberato.com
CAPOREDATTORE (SITO E SOCIAL)
Caterina Moretti redazione@prometeoliberato.com
COVER ARTIST
Stephen Alcorn
REVISIONE LINGUISTICA INGLESE
Stephen Alcorn e Jorge M. Benitez
www.prometeoliberato.com
Francisco Rodríguez Abrados ( filologia greca, Universidad Complutense, Madrid ) - Marc Augé ( antropologia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi ) - Maurice Aymard ( storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi ) - Carlo Bordoni ( sociologo e scrittore ) - James Beck ( storia dell’arte, Columbia University ) - Peter Burke ( storia, Emmanuel College, Cambridge ) - Valerio Castronovo ( storia, Università di Torino ) - Antoine Danchin ( biologia, Università di Hong Kong ) - Marcel Detienne ( antichista, École pratique des hautes études, Parigi ) - Ernesto Di Mauro ( biologia molecolare, Università di Roma ) - Umberto Eco ( semiologia, Università di Bologna ) - Irenäus Eibl-Eibesfeldt ( etologia, Max Planck Institut für Verhaltensphysiologie, Seewiesen ) - Lucio Gambi ( geografia, Università di Bologna ) - Giulio Giorello ( filosofia della scienza, Università di Milano ) - Maurice Godelier ( antropologia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi ) - Jack Goody ( antropologia, Cambridge University ) - Françoise Héritier ( antropologia, Collège de France, Parigi ) - Albert O. Hirschman ( economia, Institute for Advanced Study, Princeton ) - Gerald Holton ( storia della scienza, Harvard University ) - Albert Jacquard ( genetica, Università di Ginevra ) - Jürgen Kocka ( storia, Freie Universität, Berlino ) - Jean-Dominique Lajoux ( antropologia visuale, Centre National de la recherche scientifique, Parigi ) - Vittorio Lanternari ( etnologia, Università di Roma ) - Jacques Le Goff ( storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi ) - Edmund Leites ( filosofia morale, Università di Queens ) - Richard C. Lewontin ( biologia, Harward University ) - Giuseppe O. Longo ( teoria dell’informazione, Università di Trieste ) - Claudio Magris ( letteratura tedesca, Università di Trieste ) - Vittorio Marchis ( storia della tecnologia, Politecnico di Torino ) - Paolo Maria Mariano ( meccanica teorica, Università di Firenze ) - Francesco Marroni ( letteratura inglese, Università di Chieti-Pescara ) - Predrag Matvejević ( slavistica, Università di Roma ) - William H. Newton-Smith ( filosofia della scienza, Balliol College, Oxford ) - Alberto Oliverio ( psicobiologia, Università di Roma )- Alexander Piatigorsky ( School of Oriental and African Studies, London University ) - Carlo Poni ( storia economica, Università di Bologna ) - Tullio Regge ( fisica, Università di Torino ) - Jacques Revel ( storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi ) - Ignacy Sachs ( economia, Centre international de recherches sur l’environnement et le développement, Parigi ) - Vittorio Strada ( letteratura russa, Università di Venezia ) - Keith Thomas ( etnostoria, Corpus Christi College, Oxford ) - Nathan Wachtel ( etnostoria, École des hautes études en sciences sociales, Parigi ).
JOHN ALCORN Progetto grafico originarioAvete visto la copertina? L’ha disegnata come sempre Stephen Alcorn, il nostro cover artist. È un’affascinante raffigurazione di Narciso che si specchia, però l’acqua gli restituisce l’immagine di un robot. L’avevamo utilizzata per illustrare uno dei tanti servizi che negli ultimi due anni Prometeo ha dedicato all’intelligenza artificiale. In questo caso, affidiamo a questo disegno la testimonianza del nostro vivo interesse che questo tumultuoso e velocissimo mondo “generativo” sta imprimendo nella vita di ciascuno e nella civiltà di tutti. Il numero speciale di marzo 2024 è solo digitale ma offre anche una versione
inglese (american english, per l’esattezza). Entrambe sono totalmente free, per favorire la più ampia fruizione. Abbiamo scelto di segnalare ai lettori vecchi e nuovi una sequenza di servizi del recente passato in grado di rappresentare adeguatamente la polifonia tipica di Prometeo. Troverete pezzi di storia, dall’archeologia a quella romana, dalla moderna alla contemporanea; interventi di fisica, astrofisica, neuroscienze e ricerca sperimentale; incursioni nell’arte (anche con produzione esclusiva per il nostro giornale) e nelle scienze umane. Abbiamo deciso di ripubblicare alcune recensioni, particolarmente aderenti all’orizzonte che la testata vuole abbracciare per quanto riguarda la saggistica nazionale e internazionale.
Quello che stiamo attraversando è un grande passaggio. Implica coraggio, impegno, laboriosità, anche un po’ di stress, ma allo stesso tempo è una scommessa entusiasmante.
Cosa vogliamo? Nelle nostre intenzioni c’è l’idea di amplificare il segnale. Siamo una rivista indipendente, prestigiosa, animata da autorevolissimi membri della Direzione scientifica e del Comitato editoriale, oltre che ricca di quei contributi autoriali che costituiscono Prometeo. La nostra formula, in un mondo sempre più segmentato negli specialismi un po’ aridi, corre tutti i rischi dell’alta divulgazione interdisciplinare.
Ma li corre volentieri, perché noi crediamo di aver qualcosa da dire e crediamo persino che ci sia un interesse non solo italiano ai nostri contenuti.
Vogliamo agire con quattro step, pensati e analizzati nel dettaglio. Il primo è una revisione delle modalità distributive: Prometeo continuerò a essere nelle edicole ma sarà possibile acquistarlo anche in un ampio numero di librerie e con Amazon (al momento siamo in attesa di concludere alcuni accordi importanti).
Il secondo passaggio è una forte campagna per supportare gli abbonamenti, che pensiamo possano essere il canale migliore per un trimestrale come il nostro.
Il terzo è forse la novità più rilevante: l’edizione inglese, con traduzione AI professionale e revisione madrelingua. Sarà possibile sottoscrivere l’abbonamento “solo” digitale alla rivista, sia nella versione italiana, sia in quella inglese, sia per entrambe (e per la verità, sarà possibile anche sottoscrivere l’abbonamento cartaceo + digitale per quanto riguarda l’edizione in italiano, con ulteriori benefit). Il quarto passaggio, anche questo assai impegnativo, prevede di rendere più vitale, più articolato il nostro sito e la presenza di Prometeo sui social media: ci sarà una figura professionale dedicata a questa missione. Intanto, alle pagine 180-181 di questo stesso numero potete prendere visione sui costi e le modalità con cui abbonarsi. Sul sito resta la pagina che elenca dove acquistare la rivista dal numero di giugno prossimo. Stavo dimenticando una cosa importante: che il nostro nome, Prometeo, si arricchisce di una piccola parola, inscritta con eleganza nel marchio: liberato. Certo, il rimando diretto è a Eschilo e alla sua triologia, ma ci piace anche pensare che qui, adesso, viene “liberata” una grande energia. Terminerei questo editoriale con un appello: per tre mesi saremo online gratis, chiediamo a tutti di aiutarci a rendere nota questa la possibilità. Come sempre succede alle riviste “vere”: cari lettori, care lettrici, siamo nelle vostre mani e nei vostri passaprola!
Grazie e buona lettura
Gabriella Piroli
David Bidussa LA
Patrizia Caraveo
IL CIELO STELLATO
Crossover
IL
Stephen Alcorn
DISEGNARE ALLA VELOCITÀ DEL SUONO
Giorgio Vallortigara
LA
Sabina Pavone
Luisa
Luca
Giacomo
Marcello Flores
Riccardo Manzotti
Harold
Gianfranco
Carlo Bordoni
La figura di Walther Rathenau traccia un arco che parte da Weimar e si estende fino a noi. Imprenditore e ministro, ebreo e tedesco, ha cavalcato l’idea della svolta in una Germania ferita e insofferente. Assassinato nel 1922, resta emblema di potenza, fragilità e isolamento nell’Europa vecchia e nuova.
La «solitudine del riformista» è un’espressione che riprendo da Federico Caffè [1982]. Caffè la usa per indicare la condizione sociale e relazionale di chi prova a proporre cambiamenti in regimi politici democratici riscontrando una sostanziale diffidenza da parte di tutti gli attori collettivi (politici, ma soprattutto sociali) coinvolti dalle sue proposte. «La derisione è giustificata – scrive – in quanto il riformista, in fondo, non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distrugge». E poi – forse non dimentico che, come il Sisifo di Camus [1980, p. 119], la forza del riformista consista nel non arrendersi e dunque «a riprovarci» – aggiunge: «Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose».
La storia di Walther Rathenau non è lontana da questo profilo.
FIGURE DELLA SOLITUDINE
«Il giorno in cui lo Stato parlamentare crollerà sotto i nostri colpi della dittatura, sarà il giorno della festa più bella». Così, nel luglio 1925, Ernst Jünger [Breuer 1995, p. 99] rivendica la lunga scia di sangue che ha
segnato i primi anni della Germania di Weimar per opera dei “Corpi franchi” (Freikorps).
Al centro di quella rievocazione la scena del 24 giugno 1922, il giorno in cui Walther Rathenau, Ministro degli Esteri viene ucciso da due ex ufficiali dell’esercito tedesco membri dei “Corpi Franchi”. Rathenau non è l’unica loro vittima: nell’agosto 1921, capita anche al Ministro delle Finanze Mathias Erzberger (18751921). La loro morte assume immediatamente un carattere simbolico. Entrambi – Erzberger e Rathenau - convinti sostenitori della strada inaugurata con il Trattato di Versailles; entrambi considerati traditori dell’anima tedesca dai lori loro assassini. Dunque entrambi «soli», pur con due profili diversi. La solitudine di Erzberger discende da una condizione di declino e dunque appare più che altro la conseguenza di un isolamento. Ministro delle Finanze (191920), Erzberger è accusato di corruzione e sospeso dal partito da ogni attività politica, e dunque in quel tempo si trova a non essere più difeso «dai suoi» (una condizione che si è ripetuta altre volte nelle fasi di transizione in cui i sistemi di tutela si abbassano fino lasciare senza difesa le persone al centro di scandali pubblici che ne delegittimano la figura).
La solitudine di Rathenau ha una natura diver -
sa: nasce dal ritenerlo simbolicamente il traditore della Germania. La sua solitudine chiama in causa l’ideologia e le convinzioni profonde di una parte dell’opinione pubblica tedesca. Non riguarda solo ciò che ha fatto, ma chi è, ovvero la sua identità e il giudizio sulla sua azione politica come conseguenza della sua identità.
In Italia il giorno dopo la sua uccisione, Benito Mussolini [1922], che da giornalista nel marzo 1922 a Berlino lo ha intervistato, scrive: «I circoli estremisti della destra germanica non potevano perdonare due cose a Rathenau. Primo, la sua direttiva in politica estera, che consisteva nel fare tutto il possibile per adempiere agli obblighi del trattato di Versaglia. In secondo luogo la sua origine semita. Per gli estremisti tedeschi di destra, i quali si ritengono di stirpe ariana purissima, era intollerabile che un ebreo dirigesse e rappresentasse la Germania in faccia al mondo».
Dunque la solitudine è quella condizione che consente ai “Corpi Franchi” di colpire. Quella solitudine discende da un doppio profilo: da una parte è conseguente alle scelte politiche della Germania uscita sconfitta dalla guerra; dall’altra è l’immagine che una società ha di sé, di chi considera cittadino o di chi è chiamato a dare un supplemento di prove di lealtà
per poter godere della fiducia dei suoi connazionali. Come non ha mancato di richiamare all’attenzione Hobsbawm [2021, pp. 29-41] molte altre volte nella storia contemporanea quella duplice condizione è connessa sia con le scelte intellettuali e politiche che si compiono, sia conseguenza dell’immagine che, in un tempo storico dato, si costruisce intorno all’idea di identità e di appartenenza.
LA NECESSARIA TRASFORMAZIONE
«Soltanto nell’ora della responsabilità, allorché dopo il crollo militare, nel 1919, gli fu imposto il compito più duro, rendere di nuovo vitale lo Stato sconvolto strappandolo al caos, le inaudite forze che esistevano in lui potenzialmente si trasformarono d’un tratto in energia unitaria. Ed egli si creò la grandezza innata al suo genio, prodigando la propria vita per un’unica idea: salvare l’Europa». Così Stefan Zweig descrive Rathenau nel suo Il mondo di ieri [2014, p. 158]. Intorno a quel progetto Rathenau lavora già da prima della guerra, da direttore della AEG, l’azienda di famiglia che produce impianti elettrici. Progetto a cui inizia a dare forma nel 1917, quando è responsabile del Dipartimento per l’approvvigionamento delle materie prime per uso bellico presso il Ministero
della guerra e che sistematizza in forma scritta nelle sue note dedicate al «mondo a venire» [Rathenau 1917] e nel più famoso L’economia nuova [Rathenau 1976], libro quest’ultimo, che stende nel 1917 e che sarà promosso da Gino Luzzatto nel 1919. Tra i suoi lettori critici, ma interessato a prendere sul serio le sue proposte, Luigi Einaudi.
«Il passato è caduto e non risorgerà mai più; se esso era un paradiso, è ormai un paradiso perduto» [Rathenau 1976, p.19]. Dunque occorre pensare il futuro producendo una rottura irreversibile. La guerra da questo punto di vista è stato uno spartiacque che obbliga a ripensare l’idea di essere comunità maturando una visione organica del pensarsi collettività, rispetto a un’immagine di società fondata sulla contrapposizione e sulla divisione. Le pratiche economiche e sociali del pensare nazione durante la guerra hanno cioè segnato non solo il vocabolario pubblico, ora maggiormente sensibile all’idea di nazione, ma anche favorito l’idea di organicità dei singoli gruppi nazionali.
La proposta di Rathenau è dentro il vocabolario di chi la guerra l’ha vissuta direttamente in prima linea, ma senza concedere niente all’ethos del guerriero. Sotto questo punto di vita la sua riflessione non è assimilabile all’ideologia del fascismo. Al centro sta il produttore, non l’eroe che torna dal fronte.
Questo primo dato è ciò che lo rende nemico irriducibile di coloro che dal fronte tornano e si sentono traditi da “chi è rimasto a casa”.
Qui si apre un secondo fronte che riguarda la questione delle forme di rappresentanza politica e sociale dei mondi del lavoro. Il tema è: come far coabitare e collaborare i diversi attori del lavoro in nome della ripresa, inaugurando un paradigma industriale diverso da quello conflittuale che è stato dominante nell’anteguerra.
Riflessione che ha sintonie con la riflessione dei laburisti in Inghilterra, con la forma della concertazione industriale su cui in Italia pensano e si confrontano segmenti del movimento nazionalista italiano (per esempio Filippo Carli) ma anche del mondo sindacale (per esempio Rinaldo Rigola), ma a cui non sono estranei almeno nelle riflessioni (le soluzioni proposte saranno radicalmente diverse se non opposte) anche i “consiliaristi” e su cui convergono anche figure del movimento socialista europeo (per esempio Otto Bauer). Il tema, per tutti, è il superamento del socialismo ortodosso e il tentativo di riconnettere mondo dell’industria e delle sue trasformazioni con i soggetti e le loro sensibilità.
Vuol dire fare della concertazione il nucleo essenziale della riflessione politica. Ma anche significa mettere al centro le competenze professionali e le conoscenze tecniche. Ovvero ridiscutere radicalmente il precedente modello relazioni industriali. Su questo Rathenau sia nelle pagine di L’economia nuova, come in un saggio che pubblica nei primi mesi del 1919, Lo stato nuovo, laddove scrive «Lo stato dell’economia è in prima linea uno stato professionale ed uno Stato unitario nei limiti in cui tutti coloro che agiscono professionalmente – quindi, in futuro, tutti – sono in esso rappresentati» [1980, p. 32].
La guerra, dunque, sostiene Rathenau, ha dissolto molte cose, peraltro già in fieri prima del suo scoppio, come aveva sottolineato già nel 1913 [Rathenau 1979].
Per esempio la vecchia distinzione tra eroi e mercanti figure su cui Werner Sombart nel 1915 aveva chiamato all’appello l’opinione pubblica tedesca [Sombart 2014] e su cui si stava ricostruendo il mito della sconfitta come conseguenza della fronda. La sfida del dopoguerra, per Rathenau, era dunque allontanare l’immagine di una Germania che aveva venduto e
È uno storico delle idee, con particolare attenzione a quelle che si sono sviluppate nel e sul Novecento.
Ha pubblicato: Il mito del bravo italiano (il Saggiatore 1994); La mentalità totalitaria (Morcelliana 2002); Dopo l’ultimo testimone (Einaudi 2009); La misura del potere (Solferino 2020), Siamo Stati fascisti (con Giulia Albanese e Jacopo Perazzoli, Fondazione Feltrinelli, 2020); Benito Mussolini. Scrittie discorsi 1904-1945 (Feltrinelli 2022).
Ha inoltre curato: Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti (Chiarelettere 2011); Norberto Bobbio e Claudio Pavone, Sulla guerra civile (Bollati Boringhieri 2015); Zygmunt Bauman, Visti di uscita e biglietti di entrata (Giuntina 2015); Yosef H. Yerushalmi, Verso una storia della speranza ebraica (Giuntina 2016); Benito Mussolini, Me ne frego (Chiarelettere 2019); Claudio Pavone, Gli uomini e la storia, (Bollati Boringhieri 2020); Victor Serge, La rivoluzione russa (Bollati Boringhieri 2021); George Orwell, Millenovecentottantaquattro (Chiarelettere, 2021); Benito Mussolini. Scritti e discorsi, 1904-1945 (Feltrinelli, 2022).
perso l’anima e sostenere che quell’anima era rifondabile su un progetto di ricostruzione dell’Europa. Rathenau è stato ucciso proprio per contrastare questo progetto.
NELLA TERRA DI NESSUNO
Ma la solitudine di Rathenau non discende solo da questo primo elemento. Ad esso se ne accompagna un secondo: il suo essere ebreo tedesco. La rivendicazione orgogliosa della sua germanità non lo salva, agli occhi di chi si considera “vero tedesco”. Per loro Rathenau è un «intruso». Una condizione che indica come quel processo che conduce gli ebrei tedeschi tra seconda metà del XVIII secolo e fine XIX secolo a intraprendere il percorso di emancipazione si risolva in una integrazione solo apparente. Percorso che Zygmunt Bauman [2015] ha definito con chiarezza. L’emancipazione ha le sue antinomie. Dalla propria condizione di minoranza sorvegliata, comunque marginalizzata, si esce forse collettivamente, ma si entra nella nuova società individualmente. La storia di quel passaggio, tortuoso, complicato e tormentato – precisa Bauman – comunque, non si esaurisce anzi tende a perpetuarsi all’infinito. Il meccanismo della più accelerata assimilazione produce nuovamente distacco e, alla fine, quel loro percorso non li salva dall’antisemitismo di cui sono vittima e che spesso sceglie proprio loro come bersagli.
Rispetto alla generazione precedente, quella che ha avviato il processo di emancipazione, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento e che poi la nuova stagione post napoleonica riconduce nella condizione precedente la apertura dei ghetti, «essi –scrive Bauman - non possono più tornare indietro e dunque ripiegare sulla loro identità di partenza. Il processo che si avvia a metà dell’Ottocento apre a una condizione che rappresenta una condizione di stallo: la loro condizione di marginali o di fuoriusciti dal gruppo di provenienza li rende deboli, li colloca cioè in una “terra di nessuno”». [Bauman 2020, p.121 e sgg.]
Il risultato è che alla fine dell’Ottocento il processo di distacco si interrompe. L’uscita dal gruppo originario non produce ingresso. Quello che inizialmente era un processo liberatorio diviene una condizione di radicale solitudine. Sinteticamente: se il processo assimilativo allude al desiderio e all’auspicio di sfuggire o comunque di annullare lo stigma di essere minoranza, allora, conclude Bauman, occorre osservare che quel processo ha sostanzialmente mancato il suo obiettivo.
«La società non esiste per distribuire dividendi a lorsignori, ma per far andare i battelli sul Reno». Con queste parole Walther Rathenau aveva risposto agli azionisti della Norddeutscher Lloyd, delusi per i mancati utili. Da allora, i battelli sul Reno sono diventati metafora di interesse collettivo e di critica all’accumulazione parassitaria.
CONCLUSIONE
L’epilogo della vicenda di Walther Rathenau non racconta soltanto della difficoltà culturale a prendere in carica le trasformazioni che la guerra ha reso ineludibili e forse anche fatali (la sua solitudine non è diversa da quella del Keynes di Le conseguenze economiche della pace negli stessi anni) oppure le difficoltà di integrarsi.
Quell’epilogo indica anche la vera incapacità della cultura europea a misurarsi, allora, con le sfide che ha di fronte, liberandosi da quei pregiudizi che ne hanno segnato la storia.
Una sfida che, allora, ma anche ora, riguarda “ripensarsi” per dare forma al “sogno europeo”. Un contenuto che ancora oggi è privo di un progetto o che si vive come «nostalgia di passato» e non di «attesa e scommessa di futuro» [Assmann 2021]. ■
WALTHER RATHENAU, Von kommenden Dingen, S. Fischer, Berlin, 1917L’economia nuova, Einaudi, 1976 - La meccanizzazione del mondo, in Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco tra Bismark e Weimar, a cura di Tomás Maldonado, Feltrinelli, 1979, pp. 171-201 - Lo Stato nuovo, in id., Lo Stato nuovo e altri saggi, a cura di Roberto Racinaro, Liguori, 1980, pp. 3-37.
ASSMANN, ALEIDA Il sogno europeo. Quattro lezioni dalla storia, Keller, 2021
BAUMAN, ZYGMUNT Visti di uscita e biglietti di entrata, Giuntina, 2015BAUMAN, ZYGMUNT Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, 2020.
BREUER, STEFAN La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Donzelli, 1995.
CAFFÈ, FEDERICO La solitudine del riformista, in «il Manifesto», 29 gennaio 1982 [poi in Id., La solitudine del riformista, a cura di Nicola Acocella e Maurizio Franzini, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 3-5].
CAMUS, ALBERT Il mito di Sisifo, Bompiani, 1980.
HOBSBAWM, ERIC Nazionalismo. Lezioni per il XXI secolo, a cura di Donald Sassoon, Rizzoli, 2021 .
MUSSOLINI, BENITO Rappresaglia, in “Il Popolo d’Italia”, n. 151, 25.6. 1922.
SOMBART, WERNER Mercanti ed eroi, ETS, 2014
ZWEIG, STEFAN Il mondo di ieri, Mondadori, 2014.
E anche ben oltre il nostro sguardo. Con JWST arrivano le immagini di un universo mai visto prima. E stanno rivoluzionando la ricerca astronomica.
Patrizia CaraveoLa Ring Nebula è un bell’esempio di nebulosa planetaria creata dal gas espulso da una stella morente. L’immagine a destra della Ring Nebula nell’infrarosso medio rivela una sorpresa: al centro ci sono due stelle. Nella doppia pagina di apertura, splendida visione di parte della Nebulosa della Carena, costellazione del cielo Sud. L’occhio infrarosso di JWST rivela centinaia di stelle appena formate all’interno della nube di gas e polveri.
Adue anni dal lancio, con già all’attivo una lunga lista di scoperte, James Webb Space Telescope è un telescopio rivoluzionario. Gli astrofisici si contendono la possibilità di utilizzarlo: le richieste di tempo di osservazione sono talmente tante che, in media, solo 1 su 10 può essere approvata. Estraniamoci per un attimo dell’attualità, per rivivere l’emozione della presentazione delle prime immagini del telescopio a luglio 2022. La NASA si era preoccupata della scelta dei puntamenti ben prima che JWST fosse pronto al lancio perché sapeva che la posta in gioco era molto alta.
Seguendo l’esempio dello Hubble Space Telescope, che è entrato nell’immaginario collettivo grazie alle sue spettacolari immagini, che ci hanno abituato ad un cielo in technicolor, onestamente più bello dell’originale, le prime immagini del nuovo telescopio dovevano essere straordinarie, sia per il contenuto scientifico, sia per la valenza estetica. Occorreva scegliere con cura gli oggetti celesti da osservare. Dovevano permettere agli scienziati di apprezzare la profondità della visione offerta dal nuovo telescopio, ma dovevano anche risultare affascinanti per il pubblico che troppe volte aveva sentito parlare dei ritardi del progetto, conditi da inevitabili sforamenti del budget. Il lavoro di scelta era iniziato nel 2016 quando un gruppo di comunicatori della scienza si erano incontrati con i rappresentanti delle tre agenzie spaziali che hanno finanziato la missione: NASA, ESA e CSA (l’agenzia spaziale canadese). Al fine di dimostrare le capacità del telescopio, il comitato aveva preparato una lista di settanta possibili puntamenti dai quali avrebbero estratto la
lista finale, una volta che si fosse decisa la data di lancio. Avremmo visto immagini di due nebulose della nostra galassia, di un famoso quintetto di galassie nel nostro vicinato cosmico e di un ammasso di galassie piuttosto lontano. Poi, per dimostrare le capacità spettroscopiche, ci sarebbe stato lo spettro di un esopianeta colto mentre passava davanti alla sua stella.
Per venire incontro alla sete di bellezza del pubblico, le immagini raccolte alle lunghezza d’onda infrarosse, quindi intrinsecamente senza colori, sarebbero state colorate degli esperti di grafica dello Space Telescope Science Institute a Baltimora (dove vengono gestiti sia JWST, sia il veterano HST) che, grazie ad anni di esperienza con HST, sanno combinare i filtri, dando alle immagini colori straordinari.
Immaginavo che avrei visto immagini bellissime, che avrebbero permesso di percepire particolari fino ad oggi nascosti, ma non mi potevo immaginare che la presentazione delle prime immagini ottenute dal JWST avrebbe assunto un significato politico. Con un colpo di scena, il Presidente Biden, vecchio amico dell’Amministratore della NASA, Bill Nelson, ha deciso di fare da testimonial alla presentazione in anteprima dell’immagine di SMACS 0723: un ammasso di galassie che amplifica, moltiplica e distorce gli oggetti più lontani la cui luce deve attraversarlo. È un effetto ben noto chiamato lente gravitazionale, ma la straordinaria sensibilità di JWST lo ha portato a livelli mai visti. Ovviamente è stata scelta l’immagine che meglio rappresenta la capacità del telescopio di andare indietro
Nella doppia pagina di apertura, splendida visione di parte della Nebulosa della Carena, costellazione del cielo sud. L’occhio infrarosso di JWST rivela centinaia di stelle appena formate all’interno della nube di gas e polveri.
Bellissima visione del Quintetto di Stephan. Si tratta di un mosaico di mille puntamenti. L’immagine è la combinazione di infrarosso vicino e medio.
nel tempo e vedere oggetti lontanissimi, ma né Biden né Nelson hanno commentato il contenuto scientifico dell’immagine. Invece, tanto il presidente Joe Biden che la vicepresidente Kamala Harris, hanno tenuto a darne un’interpretazione squisitamente politica, dicendo che il successo di JWST è la dimostrazione che l’America sa fare grandi cose. Preso atto di questa fondamentale verità, io vorrei soffermarmi invece sull’immagine perché vale la pena, dal momento che è la più profonda disponibile in infrarosso. In effetti, il confronto con l’immagine dello stesso campo ottenuta da Hubble è rivelatore. Lo specchio dal diametro di quasi tre volte più grande e la capacità di osservare in infrarosso fanno la differenza. Per chi fosse interessato a qualche chicca astronomica, invito a seguire il raggio della stella centrale, che punta verso la
destra in alto (questi raggi sono artefatti prodotti dalla struttura esagonale degli specchi). Si nota una galassia rossastra, avvolta intorno ad una tondeggiante più chiara. Si tratta della distorsione gravitazionale prodotta dalla galassia ellittica appartenente all’ammasso, in grado di piegare la luce prodotta dalla galassia rossastra che è una spirale molto più lontana (i colori sono stati aggiunti per permettere di apprezzare la diversa distanza degli oggetti, visti con diversi filtri che selezionano diverse lunghezze d’onda).
L’effetto lente gravitazionale dell’ammasso è chiarissimo: guardate gli innumerevoli archetti di cerchio disegnati intorno al gruppo di galassie, la cui massa devia la luce. L’immagine distorta di ogni galassia “lensata” compare più e più volte, in un cosmico gioco di spec-
chi. Le sorgenti più deboli hanno emesso la loro luce oltre 13 miliardi di anni fa. In effetti, grazie all’effetto di amplificazione della lente gravitazionale, è possibile vedere oggetti intrinsecamente molto deboli ed è già partita la gara per trovare la galassia più distante. Prima si è parlato di galassie viste 300 milioni di anni dopo il Big Bang, poi si è passati a 280 e infine a 250. Sono stime approssimate, perché si basano solo sul confronto tra l’emissione nei diversi filtri, bisognerà fare lo spettro per cercare di misurare il Redshift. Sarà certamente più difficile che ottenere lo spettro di WASP 96-b, un pianeta simile a Giove, ma vicinissimo alla sua stella intorno alla quale orbita in appena 3,4 giorni. Lo spettro (oggettivamente poco spettacolare) mostra la presenza di assorbimenti da vapore d’acqua nell’atmosfera di questo Giove caldo, certamente interessante anche se sicuramente non abitabile.
Più facili da apprezzare, le immagini riprodotte a pag. 22 della nebulosa planetaria ad anello il cui bellissimo guscio di gas in espansione è stato espulso dalla stella centrale che sta “morendo”.
In effetti le stelle sono due e lo strumento MIRI, sensibile a emissioni di oggetti a più bassa temperatura, rivela chiaramente, per la prima volta, la presenza della seconda stella, che è la sorgente del guscio di gas.
Sempre nella Via Lattea, ancora più spettacolare è
È stata direttore dell’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica di Milano ed è coinvolta in diverse missioni: NASA Swift, Agile e NASA Fermi, progetto Cherenkov Telescope Array. Nel 2009 ha ricevuto il Premio Nazionale Presidente della Repubblica. Nel 2017, è stata nominata Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana. A giugno 2021 le è stato conferito il Premio Enrico Fermi 2021 della Società Italiana di Fisica (Sif). Fa parte del “Gruppo 2003” per la ricerca scientifica e delle “100donnecontro gli stereotipi”.Tra i suoii ultimi libri: Sidereus Nuncius 2.0 (Mondadori Università, 2021) e Europe in the Global Space Economy (con Clelia Iacomino, Springer, 2023).
l’immagine della nebulosa della Carena (l’immagine a doppia pagina che apre questo articolo), una regione di formazione stellare nel piano della nostra galassia. Oggettivamente, sembra un quadro, ma darà molto lavoro a chi studia i processi di formazione stellare perché l’infrarosso permette di vedere le stelle appena nate,
L’ammasso SMACS 0723 è stato puntato per 12 ore e mezzo usando la NIRCAM, lo strumento per l’infrarosso vicino. Copre una piccolissima porzione di cielo ma contiene migliaia di galassie. Le più antiche sono le più deboli. Nella pagina a fianco, in basso: visione nel medio infrarosso della galassia IC 5332, mostra la struttura a spirale tracciata dalla polvere. Il trattamento grafico è stato realizzato da Judy Schmidt.
quando sono ancora circondate dalle polveri interstellari. Uscendo dalla galassia, godiamoci l’immagine dello Stephan quintet un quintetto di galassie che stanno interagendo tra loro a 300 milioni di anni luce da noi. È il tipo di danza cosmica che determina l’evoluzione della galassie. Per gli amanti delle galassie a spirale, a pag. 24 c’è una fantastica immagine di IC5332 (postata da Judy Schmidt per mostrare il suo trattamento alle immagini MIRI), mentre a pag. 26 splende la ruota
del carro. Entrambe non fanno parte del primo set di immagini ma io trovo affascinante vedere come il gas e la polvere traccino la struttura a spirale. Senza nulla togliere alla bellezza delle immagini, sottolineo che i colori sono “falsi” – o se preferite “aggiunti” – perché si tratta di immagini raccolte a varie lunghezze d’onda dell’infrarosso, cioè ben al di là del rosso, ma il trattamento con i colori le rende più facili da apprezzare. Per avere un’idea di come sembri un’immagine vera,
Due visioni della galassia a ruota di carro. L’immagine sopra è la conbinazione di infrarosso vicino e medio, quella sotto mostra solo il medio dove si vede la polvere che traccia i raggi della ruota del carro. Nella pagina a fianco: collage di 72 immagini raccolte dal Fine Guidance Sensor durante la procedura di messa a fuoco dei segmenti delle specchio per un totale di 32 ore di esposizione. L’immagine, molto profonda, non ha subito alcun trattamento estetico. Tutte le foto del servizio sono credit NASA, ESA, CSA e STScI (per la spirale di pag. 24 va invece aggiunto il credit di Judy Schmidt). Queste ed altre immagini sono disponibili all’indirizzo https://www.nasa.gov/webbfirstimages
senza trattamenti cosmetici, guardate nella pagina a fianco questo collage fatto con il Fine Guidance Sensor, lo strumento che deve controllare la stabilità del puntamento del telescopio. Durante la lunga procedura di allineamento degli specchi sono state raccolte una settantina di immagini “ingegneristiche”: non era stato scelto un bell’oggetto celeste, ma si trattava di un campo di prova.
L’immagine è straordinariamente profonda ed è ricchissima di dettagli. Ovunque guardiate ci sono macchiette luminose che sono lontanissime galassie.
JWST funziona addirittura meglio del previsto e certo i risultati sono al’altezza del costro astronomico ■
Non hanno i crismi dell’investitura dinastica, sono moderne e intercambiabili, il loro successo risulta essere frutto di normali competizioni elettorali.
La vera novità è che sono tante. Tantissime.
Le donne che rivestono incarichi di premiership nei governi e di presidenza nelle istituzioni sono la conseguenza di cinquant’anni di emancipazione femminile?
Se sì, costituiscono una leva “diversa” nella vita politica nazionale o in quella comunitaria? Se no, a cosa si deve questo exploit di genere, particolarmente massiccio in Europa?
Ma forse gli interrogativi più interessanti sono altri. Per esempio, capire quali tracce ci arrivano dagli studi storici. Oppure quale ordine simbolico venga privilegiato nella fiction contemporanea. Quali sono i veri diritti che si affermano (e quali vengono invece negati).
Di seguito, quattro interventi per cercare di cogliere alcuni aspetti cruciali della questione.
Giorgia Serughetti, Sabina Pavone, Daniela Brogi,
Sara FarrisIl successo di leadership femminili che promettono più diritti alle donne, ma si richiamano a ideologie escludenti.
AMontecitorio esiste una “Sala delle donne”, uno luogo di tributo alle figure femminili che hanno fatto la storia della Repubblica. Alla sua inaugurazione, nel 2016, accanto ai ritratti delle prime donne in ruoli di alto profilo istituzionale furono affissi anche tre specchi, accompagnati dalle targhe di Presidente del Senato, Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio dei ministri. Rappresentavano i vuoti delle tre cariche ancora mai ricoperte da una donna e il messaggio riportato nello spazio sottostante era un invito a farsi avanti: “potresti essere tu”.
Oggi, a pochi anni di distanza, due dei tre vuoti di allora sono stati colmati. Elisabetta Alberti Casellati, nel 2018, è stata chiamata a presiedere il Senato. Giorgia Meloni, nel 2022, ha conquistato il ruolo di Presidente del Consiglio. Era dal 1946, da quando le donne italiane hanno ottenuto il diritto di voto, che si attendeva di raggiungere un simile risultato.
E tuttavia questo passo avanti, come già l’elezione di Casellati, ha suscitato grandi interrogativi e discussioni proprio nell’opinione pubblica femminista che ha lavorato per decenni alla sua realizzazione. Perché la prima donna alla guida del Senato è stata una figura apertamente conservatrice sui diritti. Mentre oggi la prima donna a capo di un esecutivo è la leader della destra radicale, colei che si è definita innanzitutto «madre», «italiana» e «cristiana». Si tratta di donne non solo lontane dai movimenti delle donne, ma ostili ad alcune delle battaglie più caratterizzanti di tali movimenti, come la difesa della libertà di abortire e la lotta contro i ruoli di genere tradizionali. Come vanno trattate, allora, simili storie di successo? La “vittoria” di una donna è una conquista
per tutte, qualunque sia la sua storia, la sua visione politica, il suo rapporto con il femminismo, il suo modello di gestione del potere?
Solo quando il “soffitto di cristallo” si infrange diventa possibile fare davvero i conti, fino in fondo, con nodi complessi come il rapporto tra l’appartenenza di genere e la capacità trasformativa delle donne nei riguardi di forme, linguaggi e contenuti della politica, o il legame tra l’empowerment femminile e la promozione della giustizia sociale in tutte le sue declinazioni.
Provo qui ad affrontare tre questioni ricorrenti nel dibattito femminista, che l’elezione di Giorgia Meloni, in particolare, ha fatto emergere. La prima riguarda l’apparente paradosso per cui a beneficiare della spinta per rompere il predominio maschile in politica possono essere donne indifferenti o ostili all’agenda dei diritti delle donne, a cui si lega la domanda: dovrebbero le donne sentirsi più rappresentate in politica quando è una donna a conquistare le leve del comando?
Per rispondere, bisogna soffermarsi su cosa significa “rappresentare”. Secondo lo studio di Hanna Pitkin Il concetto di rappresentanza (Rubbettino, 2017), una distinzione cruciale è quella tra “stare per” e “agire per”, che corrisponde alle due parole tedesche darstellen e vertreten. Nel primo significato, quello del rappresentare è un rapporto basato sulla corrispondenza o connessione tra rappresentante e rappresentato: la capacità di “stare per” è legata a una somiglianza o un riflesso. Nel secondo significato viene invece in primo piano la dimensione sostanziale dei bisogni, delle domande, degli interessi dei rappresentati, e la capacità di rappresentare è iden-
tificata con “l’agire per” individui o gruppi, volto a perseguire attivamente alcuni obiettivi.
L’elezione di Giorgia Meloni, potremmo concluderne, segna un passo avanti nella direzione di una maggiore presenza di donne ai vertici delle istituzioni e riequilibra in termini di genere la rappresentanza nel significato di “stare per”, ma non garantisce un avanzamento nella risposta alle domande delle donne, un “agire per” conseguire obiettivi collettivi, in particolare quelli che trovano espressione nel lessico femminista della liberazione dal patriarcato. Una seconda questione che spesso emerge, di fronte alle posizioni politiche di donne leader della destra radicale, è il rapporto tra diritti delle donne e altre categorie di diritti, o l’intersezione tra il genere e altre dimensioni di discriminazione. Perché in realtà Giorgia Meloni, come Marine Le Pen in Francia e altre, non manca di dare attenzione ad alcuni problemi effettivi che riguardano vaste porzioni della popolazione femminile: dalla scarsa occupazione al problema degli asili nido, dai congedi parentali alla violenza. Il problema qui è che le soluzioni prospettate rispondono a una logica non universalistica, perché si accompagnano a una visione della famiglia “naturale” e del popolo “nativo” da cui sono escluse importanti fasce della popolazione residente, come quella di chi è senza cittadinanza o delle unioni tra persone dello stesso sesso. La bandiera dei diritti delle donne è per lo più agitata contro presunti “nemici”: il pericolo dello straniero e “dell’islamizzazione” dell’Europa, o l’ideologia “gender” che minaccia di “cancellare” le madri.
Il femminismo del Ventunesimo secolo, sempre più sensibile ai rapporti complessi che legano il sessismo, il razzismo, l’omotransfobia, il classismo, non può ignorare i risvolti discriminatori e antiegualitari di una simile agenda, anche quando questa fa proprie alcune grandi questioni di giustizia di genere che la stessa politica delle donne ha lavorato a far emergere e ad imporre all’attenzione pubblica.
La terza questione da affrontare riguarda il rapporto tra le donne e i modelli di conquista ed esercizio del potere. Nel discorso d’insediamento come Presidente del Consiglio tenuto davanti alle camere, Giorgia Meloni ha espresso un ringraziamento alle donne che, prima di lei, «hanno osato per impeto, per ragione, o per amore», e ha elencato una serie di nomi illustri che hanno dimostrato nel tempo «il valore delle donne italiane». Le neopremier si è quindi collocata, quale proseguimento ideale, in una storia
di eccellenze nazionali.
Tuttavia, non è ad altre donne che lei ritiene di dovere il proprio successo, né a una storia collettiva di emancipazione da forme secolari di dominio, quale quella che ha avuto per protagonista il movimento femminista. Al contrario, nella sua autobiografia Io sono Giorgia (Rizzoli, 2021), la leader di Fratelli d’Italia rivendica la propria ascesa come un successo personale, da attribuire alla propria capacità di competere con gli uomini, senza relazioni politiche con altre donne. E indica questa come la via maestra per la conquista del potere. Il suo è un modello di emancipazione strettamente individualistico, che non promuove nessun empowerment di genere.
Nella crisi del potere berlusconiano, di fronte alla dissoluzione della figura del «padre», Giorgia «ha preso il comando della nave che affondava», scrive Franco Berardi Bifo nella sua recensione al libro di Meloni sul sito Not (https://not.neroeditions.com/ padri-figlie-e-fratelli-ditalia/). Il comando per fare cosa? Per rifondare il patriarcato «partendo dalla fratellizzazione delle donne».
Da quella nave, nota a sua volta Ida Dominijanni su L’essenziale «sono scomparse le sorelle: c’è solo lei al comando, e lei decide anche del loro destino, che è né più né meno che il destino materno tradizionale, per quanto corretto con il sale e il pepe della competenza e della competizione, all’interno di una famiglia tradizionale» (https://www.essenziale.it/notizie/ida-dominijanni/2022/08/26/meloni-femminismo).
Se quindi il soffitto di cristallo è andato in frantumi, sembra che le sue schegge siano destinate a provocare ferite: nei gruppi destinati a diventare target delle politiche identitarie della destra radicale, ma anche in tutte e tutti coloro che hanno creduto, e ancora credono, nei processi di liberazione collettiva, per le donne e non solo. ■
Ricercatrice in Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di genere e teoria politica, fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo ed è editorialista per Domani. Tra i suoi ultimi libri: Il vento conservatore (Laterza 2021), Democratizzare la cura/Curare la democrazia (ebook Nottetempo, 2020); Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne del nuovo millennio (con C. D’Elia, minimumfax, 2019); La società esiste (Laterza, 2023).
L’ambiguo potere delle donne in età moderna fornisce indicazioni preziose per cogliere matrici e percorsi femminili.
Sabina PavoneCosa significava nella prima età moderna essere una donna di potere? Attraverso quali ruoli si esercitava tale potere? Si tratta di domande legittime poiché non sempre tale condizione si esprimeva secondo categorie comuni all’oggi e incarnare una donna di potere, a seconda dei contesti, poteva voler dire cose diverse. La categoria più ovvia era quella di coloro che ricoprivano cariche di governo: le regine e le reggenti detenevano questo ruolo ma potevano rispondere a modelli molto diversi l’uno dall’altro.
A regine come Elisabetta I (detta la regina vergine) o Caterina II, restie a farsi dettare l’agenda da figure maschili del proprio entourage (politico o sentimentale) facevano da contraltare figure più deboli, spesso in balìa dei propri sentimenti e incapaci di assumere decisioni politiche autonome come la reggente Anna d’Austria, madre di Luigi XIV e succube del suo ministro favorito, il cardinal Mazzarino. Le donne con ruoli di governo erano in ogni caso delle eccezioni e la gestione del potere obbediva a canoni sostanzialmente maschili. L’essere donna non era di per sé garanzia di una specificità di governo se non in rarissimi casi. Talvolta però, soprattutto nei contesti delle casate nobiliari si poteva cogliere una peculiarità di genere dovuta all’utilizzo di meccanismi differenti come le reti (network) femminili che agivano attraverso legami orizzontali e che, con meno clamore, riuscivano a condizionare le scelte dei governi. In questo senso, come hanno mostrato diverse studiose che si sono occupate di storia di genere, la corrispondenza giocava un ruolo di primo piano. I network femminili funzionavano anche nella gestione del potere economico, tradizionalmente affidato agli uomini ma, talvolta, anche alle donne. Un caso emblematico è quello della comunità ebraica portoghese
trasferitasi in Italia dopo il passaggio della Corona lusitana alla Spagna (1580) e l’adozione della legislazione anti-ebraica anche in quell’impero. Figure come donna Beatrice de Luna – anche detta la Señora – si inserirono nella vita sociale ed economica italiana. Beatrice, vedova ventiseienne e unica erede del ricco mercante Francisco Mendes, dopo un passaggio a Venezia si stabilì a Ferrara e non solo ebbe un ruolo chiave nella gestione del patrimonio familiare dei Mendes ma contribuì a fare della città di Ercole II d’Este l’importante crocevia di uno dei principali snodi commerciali del tempo che, partendo da Londra e passando per Anversa, attraversava le Alpi per raggiungere dal porto di Ancona Ragusa (Dubrovnik) e Costantinopoli. Beatrice viaggiava anche con la sorella Brianda e le rispettive figlie, costruendo così una rete familiare tutta al femminile che ben presto vide sorgere dissapori fra le due sorelle nella gestione delle fortune familiari. Dopo alcuni anni passati a Ferrara, Beatrice approdò infine a Costantinopoli dove assunse il nome di Gracia Nasi e mantenne quella autorevolezza che ormai molti le riconoscevano in Europa. E d’altronde il suo viaggio, come molti altri di donne in quegli anni – si pensi anche alle quacchere inglesi Katherine Evans e Sarah Cheevers, sbarcate a Malta e lì recluse nel carcere dell’Inquisizione per tre anni e mezzo – dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, che sin dalla prima età
SABINA PAVONEInsegna Storia del cristianesimo all’Università di Napoli L’Orientale. Fa parte del Direttivo dell’Associazione Italiana di Public History (AIPH) e della Direzione scientifica di Prometeo
moderna seguendo percorsi tortuosi, alcune figure femminili esprimessero attraverso la loro «capacità di agire» (Mazzei) un diverso modo di intendere il potere delle donne. Un caso come quello delle Province Unite (ugualmente meta degli ebrei portoghesi) dove le donne, a partire dal Seicento, esercitarono un potere economico gestendo in patria le imprese familiari mentre i coniugi si spostavano attraverso gli oceani, mostra chiaramente che, laddove non ci si adagi su determinati cliché. altri modelli femminili ebbero comunque il modo di essere messi alla prova.
Per fare un ulteriore esempio, se si pensa alla Chiesa cattolica, si pensa all’istituzione maschile per eccellenza nel mondo occidentale. Ancora oggi, nonostante alcune timide spinte in tal senso, l’idea del sacerdozio femminile è rigettata dalla gerarchia ecclesiastica romana e alle donne sono riservati ruoli di secondo piano.
È difficile pensare a una definizione di donne di potere in quel determinato contesto ma se intendiamo la Chiesa non solo come un’istituzione spirituale, bensì politica come fu, a tutti gli effetti, nei secoli dell’età moderna, allora è possibile ragionare anche in chiave di potere delle donne. Il ruolo svolto dalle nuove congregazioni femminili a partire dal Cinquecento fu infatti fondamentale per il consolidamento del cattolicesimo non solo in Europa ma anche in terra di missione dove più ampio fu lo spazio concesso anche alla gestione femminile come accadde, ad esempio, in Giappone dove furono protagoniste della cristianizzazione di quelle isole, impegnate nel ruolo di predicatrici, catechiste, partecipi della gestione delle confraternite fondate dai gesuiti.
Il tema del potere femminile all’interno della Chiesa cattolica ebbe poi risvolti di ambiguità in tema di misticismo e capacità visionaria di alcune protagoniste della vita religiosa dell’epoca. L’attitudine alle visioni e all’estasi, elemento contiguo con la profezia, rese alcune di queste donne delle vere e proprie “sante vive”, rispettate e ricercate e, dunque, a loro modo, espressione di un potere all’interno della propria comunità. Questi fenomeni, soprattutto dopo il Concilio di Trento, vennero visti con un certo timore all’interno dell’istituzione ecclesiastica, eppure in talune casi come quello di santa Teresa d’Avila, fondatrice delle Carmelitane scalze (un nuovo ramo dell’ordine carmelitano), per il ruolo carismatico che esse avevano rivestito, furono inglobate nel pantheon ufficiale della Chiesa, assur-
gendo anche alla canonizzazione. Anche dopo la sua morte, il carisma di santa Teresa continuò a svolgere un ruolo importante nella diffusione in Europa e negli altri continenti della nuova congregazione da lei fondata. È altrettanto vero però che il discrimine tra santa e dannata era allora molto sottile: la “santa viva” poteva facilmente cadere sotto le maglie dell’inquisizione ed essere condannata a morte. La stessa Teresa, d’altronde, fu accusata di possessione diabolica e di sospetta eresia, così come il suo più importante confessore, san Giovanni della Croce, ma pensiamo anche a sant’Ignazio di Loyola e ai suoi sette processi inquisitoriali, che ci indicano come il fenomeno non fosse esclusivamente femminile.
Ci si chiede dunque secondo quali criteri determinate figure riuscirono, seppur con fatica, a farsi riconoscere come sante e altre, accusate di “simulata santità”, furono punite in quanto individui pericolosi. Non sempre riusciamo a comprendere le scelte che guidavano la Chiesa cattolica, ma forse è proprio la politica che deve guidarci anziché il riferimento all’ortodossia. Facciamo un ultimo esempio relativo alla santa Rosa da Lima: a differenza di tante altre figure indigene in odore di santità che vennero rigettate da Roma, la canonizzazione di Rosa da Lima fu un successo della comunità creola in Perù, dovuto a una vera e propria negoziazione delle élite locali con Roma, strettamente legata al destino degli imperi iberici nel Nuovo Mondo. Simili trattative potevano accadere anche in Europa, soprattutto all’interno degli ambienti aristocratici o comunque benestanti (ricordiamo che Teresa d’Avila era figlia di una ricca famiglia spagnola di origine conversa, ulteriore fattore di pericolo). Era dunque spesso il contesto di origine che faceva sì che il destino di una donna potesse essere quello della santità o della dannazione. Non era una regola generale, ovviamente, ma è un aspetto di cui dobbiamo sempre tenere conto quando ragioniamo di donne e potere nell’età moderna. ■
R. MAZZEI, Per terra e per acqua. Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna, Carocci, 2013.
S. ARCARA, Messaggere di luce: storia delle quacchere Katherine Evans e Sarah Cheevers, prigioniere dell’inquisizione, 2007.
B. BORELLO, Annodare e sciogliere reti di relazioni femminili e separazioni a Roma (XVII-XVIII secolo) in “Quaderni storici” 111/3, 2002, pp. 617-648
H. NAGATA WARD, Women Religious Leaders in Japan Christian Century,1549-1650, Routledge 2009.
J. BLINKOFF, The Avila of St. Teresa: Religious Reform in a SixteenthCentury City, 1989.
Quasi mai donne comuni. Anche il cinema tende a riprodurre cliché. E sugli schermi scorrono esempi di empowerment femminile come (splendida) eccezione che conferma la regola.
Daniela BrogiDa alcuni anni il cinema e le serie tv raccontano più spesso del solito le regine. Uno degli esempi più recenti è Il corsetto dell’imperatrice ( Corsage , 2022), il film diretto da Marie Kreutzer e interpretato dalla bravissima Vicky Krieps, nel ruolo dell’imperatrice d’Austria e regina di Ungheria Elisabeth di Baviera (1854-1898), nota come Sisi (Sissi) e consorte di Francesco Giuseppe. Sempre nel 2022 è stata rilasciata anche la miniserie Netflix L’imperatrice ( Die Kaiserin ), superando così il numero di più di quaranta adattamenti ispirati a “Sissi”. Decine di lavori, dunque, a cui seguono, per quantità, i tanti film ispirati alle regine inglesi (Elisabetta I e Elisabetta II, Vittoria).
È un fenomeno che conferma la persistenza di un’abitudine culturale incline a raccontare e immaginare le donne di potere ispirandosi soprattutto alle affascinanti figure aristocratiche, piuttosto che a leader politiche meno lontane e sprovviste di blasoni illustri. Non è così strano, se consideriamo il divario di genere ( gender gap ) ancora così alto, particolarmente nelle posizioni di comando. Come un polmone, il cinema, alla stessa maniera della letteratura e di tutte le arti, assorbe rielabora e ributta fuori, formalizzandoli, gli assetti politici, culturali e simbolici circostanti – anche tradendoli, smentendoli, aggredendoli, possibilmente, ma in ogni caso stabilendo una dialettica.
Così, nell’immaginario comune, e nelle finzioni che lo reinventano, i volti femminili del potere da un po’ di tempo ricorrono anche di più, ma, d’altra parte, continuano a essere prevalentemente
figure principesche: straordinarie, vale a dire non comuni, per l’appunto, rimanendo insomma su un paradigma di eccezionalità che in qualche maniera conferma un sistema di asimmetrie.
Con tre principali modalità di trattamento. Si incontrano, infatti, o regine che hanno rinunciato a sé stesse, perfino al proprio corpo, per trasfigurarsi nel potere di cui sono il simbolo ( Elizabeth , 1998, di Shekhar Kapur, interpretato da Cate Blanchett); oppure principesse ribelli e dall’animo punk ( Marie Antoinette , di Sofia Coppola, 2006, interpretato da Kirsten Dunst; la recente protagonista di Corsage ): ragazze inquiete, raccontate, in ogni caso, come protagoniste di una crisi esistenziale più che politica (come anche Lady Diana in Spencer , di Pablo Larrain); o ancora, in terzo luogo, si hanno regine volitive raffigurate in maniera grottesca, come Anna Stuart, prima sovrana del Regno di Gran Bretagna (dal 1702 fino alla morte, nel 1714) interpretata da Olivia Colman nel bel lavoro La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos, dove il volto della regina e il suo goffo corpo diventano il teatro deforme in cui si esprimono i segni e i sintomi delle passioni più diverse, perché il potere, in un contesto storicamente sfavorevole alle donne, è fatto di controllo come di vulnerabilità, di conquista e di perdita.
Tornando però alla questione di partenza, vale a dire “il potere delle donne di potere”, le due regine che nei racconti cinematografici e seriali degli anni Dieci hanno rappresentato modi più
originali di mettere in scena le donne al comando, sono, direi, Daenerys Targaryen (Emilia Clarke), protagonista della serie fantasy Il Trono di Spade ( Game of Thrones : 2011-2019), che è una vera condottiera e stratega, finalmente una regina che agisce (almeno in un fantasy) attraverso un sistema simbolico fatto da rapporti di forza e conflitti pubblici; e poi la protagonista delle prime stagioni della serie The Crown (2016-2022), dedicata al regno di Elisabetta II. Già il titolo di questa serie, infatti, è interessante, perché testimonia subito una scelta particolare di racconto. È ripreso da un verso di Shakespeare, tratto da Enrico IV (Parte II, Atto III, Scena I; 1597): «La testa che porta la corona non trova mai quiete (Uneasy lies the head that wears a crown). The Crown è, prima di tutto, la messa in scena di un mito di trasformazione, perché è il racconto, compiuto anche attraverso l’interpretazione attoriale di una facies sempre più inespressiva e spersonalizzata, del percorso compiuto da Elisabetta di Windsor per diventare “Elisabetta, la regina”. I vari episodi svolgono i passaggi attraverso i quali si raggiunge e si perfeziona “l’illusione” della corona in quanto “identificazione” assoluta di Elisabetta nel potere; ma l’illusione vale pure nel senso simbolico e visuale di illusio , vale a dire di una finzione omnipervasiva – il quinto episodio della prima stagione, non per nulla, indugia sull’efficacia strategica di mandare in diretta televisiva, per la prima volta e su iniziativa di Filippo, la cerimonia dell’incoronazione, nel 1953. Il tema dell’amplificazione mass-mediatica del potere, e dunque la dialettica tra potere, successo e consenso, fanno di The Crown uno dei racconti più interessanti sulle donne al comando, perché, finalmente, al centro della rappresentazione non c’è più una singola regina estrapolata dalla storia.
NARRAZIONI PATRIARCALI
Proprio quest’ultimo punto, infatti, è uno dei due passaggi su cui vale la pena di fermare il discorso intorno a come, anche al di fuori delle finzioni, si scrivano o si rappresentino le biografie delle donne di successo, accompagnando o aiutando l’affermarsi di modelli culturali favorevoli all’affermazione femminile ( women empowerment ). Non basta far proliferare le narrazioni dedicate alle donne, se non si esce da un modo di raccontare le storie che, di fatto, mantiene le biografie dentro recinti
che restano patriarcali, perché danno spazio alla narrazione e alla presenza delle donne, compresi i casi di leadership , solo in quanto portatrici emblematiche di un eroismo eccezionale, spettacolare e autoconcluso. Di fatto, si enfatizza il protagonismo romanzesco, ma mantenendolo lontano dalla storia pubblica e disattivando lo sguardo sui conflitti, vale a dire anche sulle contraddizioni e sulle disuguaglianze in mezzo a cui si è fatto strada, oppure no, il potere delle donne – spesso anche attraverso relazioni (pure con altre donne) che restano completamente oscurate se si guarda solo alla singolarità eccezionale.
A questo primo problema si intreccia poi un secondo problema, che tra l’altro non riguarda evidentemente solo le donne, ma certamente può rischiare di sfavorire ulteriormente la memoria della loro presenza nella storia, vale a dire la sovrapposizione sempre più forte e indotta dalla cultura dello storytelling , tra coscienza narrativa e coscienza storica: dei fatti come delle biografie. Trasformare il potere (politico, culturale) delle donne, sia passato, sia presente, solo in grandi racconti avvincenti, romanzati e confidenziali (come è successo anche a Fernanda Wittgens, con il film Fernanda a lei ispirato); ridurre sempre di più le connessioni, così essenziali al lavoro di analisi (e così importanti anche come forma critica verificabile), in affascinanti intrecci personali: tutto questo non è detto che sposti e migliori, in termini di qualità politica e di consapevolezza culturale, il riconoscimento del modo in cui le donne, regine comprese, sono appartenute e in molti casi hanno proprio scelto di appartenere alla storia pubblica, anche a costo della vita. ■
DANIELA BROGIDaniela Brogi è storica della letteratura moderna e contemporanea e critica visuale. Insegna all’Università per Stranieri di Siena. Collabora con diverse riviste scientifiche e testate culturali. Scrive regolarmente di cinema sulla rivista on line doppiozero e su Domus. I suoi libri più recenti sono: Altri orizzonti. Interventi sul cinema contemporaneo (Artemide, 2015); Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci, 2018); Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022).
L’attuale successo femminile ai vertici è poco rilevante per la maggioranza delle donne, ai piani bassi della “casa sociale”.
La presenza sempre più significativa di donne ai vertici delle istituzioni politiche e politico-economiche è stata salutata da diversi commentatori internazionali come punto di arrivo epocale delle battaglie femministe per la parità di genere.
L’elezione di von der Leyen alla presidenza Europea, di Christine Lagarde alla presidenza della Bce, o di Giorgia Meloni alla presidenza del Consiglio dei ministri in Italia, è in parte sintomatica di un passaggio fondamentale che si è consumato all’interno del movimento femminista negli ultimi quarant’anni. Se i movimenti per i diritti delle donne negli anni Sessanta e Settanta lottavano soprattutto per lo sviluppo dei servizi di welfare pubblico e l’accesso al mercato del lavoro – in un contesto in cui la maggior parte delle donne in Europa era impegnata prevalentemente nel lavoro domestico non retribuito –, l’aumento progressivo della manodopera femminile in tutti i settori produttivi a partire dagli anni Ottanta, ha anche modificato la natura delle rivendicazioni per l’uguaglianza economica. Alle campagne per asili nido gratuiti, o migliori condizioni per gli assegni di maternità, si sono aggiunte, e sono diventate egemoniche, le battaglie per la parità salariale, le pari opportunità nella sfera pubblica (con l’inserimento delle cosiddette quote rosa) e la denuncia degli ostacoli impliciti ed espliciti che impediscono soprattutto alle donne in carriera di raggiungere posizioni di leadership.
Queste ultime battaglie, a ben vedere, riflettono soprattutto i desiderata del femminismo istituzionale che si è concentrato sempre di più sui bisogni delle donne della classe media, impegnate a rompere il famoso glass ceiling
La stessa Giorgia Meloni nel suo discorso inaugurale da neo-Presidente del consiglio, ha inquadrato la sua
elezione a prima premier donna in Italia come il risultato di quel tetto di cristallo finalmente infranto.
La presenza di un numero sempre maggiore di donne a capo di istituzioni chiave, allora sembrerebbe testimoniare il successo di questa operazione di vera e propria scalata verso i piani alti da parte dei colletti bianchi al femminile.
Ma cosa succede ai piani bassi della casa? È possibile immaginare che dall’attico di questa dimora metaforica del potere le donne che lo occupano portino beneficio a tutte le altre?
In un bel libro del 2011, la teorica femminista americana Kathi Weeks sosteneva che la maggior parte delle donne (negli Usa, così come altrove) non è tanto preoccupata di rompere il tetto di cristallo, quanto di non scivolare tra le faglie di un pavimento strutturalmente instabile.
Invece di stuoli di donne in fila per salire sulla scala che le porterà ai piani alti, la casa del potere sembra sovraffollata soprattutto al piano terra. È qui che troviamo il numero maggiore di donne, impegnate non solo nell’impresa di non scivolare, ma anche nel compito arduo e poco riconosciuto di tenere quel pavimento pulito e sicuro per le più fragili.
I dati dell’ultimo rapporto Inapp 2022 in Italia parlano chiaro. Il lavoro domestico e di cura non solo rappresenta il pilastro dell’assistenza in Italia, ma è anche il comparto economico di importanza chiave nella crescita dell’occupazione femminile «sia per la delega alla cura da parte di donne occupate, sia per la percentuale significativa di donne occupate nel settore». Con più di due milioni di lavoratori e lavoratrici tra regolari e in nero, il lavoro
domestico e di cura impiega la quota maggiore di lavoro subordinato nel nostro paese.
Sebbene si tratti di un lavoro di importanza cruciale, il lavoro domestico e di cura è anche uno dei meno pagati e sicuri, aspetto quest’ultimo che sembra caratterizzare i settori che impiegano le donne più in generale. Ma c’è di più. Se finora abbiamo prestato attenzione soprattutto alla dimora del potere, la realtà è che un segmento molto numeroso di donne non sta affatto dentro quella casa, ma fuori.
Secondo il Gender Policies Report redatto dall’Inapp nel 2022, il tasso di disoccupazione femminile (al 9,2%) è più alto di quello maschile (al 6,8%), e il divario è ancora più alto tra la popolazione tra i 15 e i 24 anni con tassi di disoccupazione del 32,8% per le ragazze, e del 27,7% per i ragazzi. Le donne sono anche quelle più spesso impiegate in lavori part-time, con contratti precari o in settori poco remunerati e poco strategici.
Ma il dato più eclatante è legato ai tassi di inattività, quasi doppi per le donne (43,3%) rispetto agli uomini (25,3%). E se tante donne sono ufficialmente “inattive” – ovvero non occupate e non impegnate nella ricerca di un lavoro – lo si deve largamente al fatto che il lavoro di cura non pagato ricade principalmente sulle loro spalle. In un paese in cui gli asili nido per i bambini al di sotto dei tre anni, o le case di cura per anziani, sono prevalentemente private o inaccessibili per via dei costi elevati, sono le donne (incluse tante immigrate) a prendersene carico fornendo un servizio vitale e tuttavia non riconosciuto, o socialmente svalutato e sottopagato.
Dobbiamo chiederci allora se veramente il fatto che diverse donne ormai occupino posizioni di potere, e addirittura la premiership del Paese, costituisca un vantaggio per quelle che invece continuano a occupare i piani bassi o che si trovano nel cortile della disoccupazione e della cura non pagata.
L’esempio di Giorgia Meloni è piuttosto chiaro. Salutata da tante come un esempio e una fonte di ispirazione per le donne italiane, la sua elezione alla più alta carica dello stato in realtà rischia di mettere a repentaglio molte conquiste dei movimenti femministi degli ultimi cinquanta anni. Nella regione Marche guidata dal partito di Meloni, il diritto all’aborto è praticamente negato e la regione si è opposta all’introduzione della pillola abortiva. Di più, sebbene Meloni parli di introdurre misure pro-natalità e abbia promesso di proteggere il meccanismo che consentirebbe più flessibilità in uscita per le donne che vanno in pensione, Fratelli d’Italia da una parte minaccia di eliminare il reddito di cittadinanza che consente a molte donne povere di pianificare una
gravidanza, e dall’altra parte rende “Opzione Donna” più difficile soprattutto per le donne senza figli. Che l’invocazione meloniana della centralità femminile fosse puramente strumentale in un quadro fondamentalmente nazionalista e anti-immigrazione, del resto lo si era capito bene nel momento stesso in cui Giorgia Meloni ha messo piede in Parlamento come Capo del governo. Appena salita sull’attico del potere si è circondata di uomini nei ministeri chiave, chiamando pochissime donne a guidare ministeri considerati secondari; ha omesso i cognomi delle donne che a suo dire hanno costruito la scala che le ha consentito di rompere il tetto di cristallo (così negando la sfera pubblica di queste donne e relegandole nell’anonimato); e ha insistito perché la si chiami il, e non la, presidente, quasi a rassicurare l’entourage e la base del partito che il suo genere non rappresenta una minaccia, ma anzi un rafforzamento dei simboli patriarcali del comando.
La realtà è che Giorgia Meloni, così come Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, o prima di loro Theresa May, non rappresentano un generico femminile accomunato da interessi uguali per tutte. Queste “leader” rappresentano in realtà gli interessi politici della formazione che le ha portate al potere, così come gli interessi della classe media e agiata cui appartengono. Non sono loro a tradire le donne, è il mito della sorellanza universale già denunciato dalle donne afroamericane e dal femminismo di ispirazione socialista e intersezionale, che non dovrebbe più essere preso sul serio nelle nostre discussioni.
Come dicevano bene Angela Davis, o Gloria Wekker, il mito della sorellanza tra donne non fa che riflettere i bisogni e le rivendicazioni delle donne bianche di classe media. Credere che le donne in cima possano tendere la mano, o favorire le donne che stanno più in basso, sarebbe come riproporre una forma di essenzialismo e naturalizzazione dei ruoli femminili contro cui il movimento femminista ha lottato dai suoi albori. ■
SARA R. FARRISÈ professoressa associata alla Goldsmiths University of London, si occupa di immigrazione e questioni di genere, nazionalismo/razzismo, teorie della cura e della riproduzione sociale. In italiano ha scritto per Jacobin, la rivista de Il Mulino, Il Manifesto, ed è autrice di Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (Alegre, 2019).
La Macchia e il Diagramma possono essere considerati l’espressione di poli opposti delle nostre facoltà: si potrebbe argomentare che la connessione tra i due ha prodotto ciò che chiamiamo arte. Questo concetto riflette le idee estetiche espresse negli scritti di Benedetto Croce, in particolare la convinzione che l’arte sia collegata alle nostre facoltà razionali anziché a quelle intuitive. Rappresenta il ritorno a un’idea molto antica. Molto prima che Leonardo consigliasse all’artista di trarre ispirazione dalle macchie sui muri, gli uomini avevano percepito la natura dionisiaca dell’arte. I cinesi hanno prodotto alcuni dei paesaggi più belli mai dipinti senza alcuna conoscenza sistematica della prospettiva. La scultura di figure greche ha raggiunto il proprio apice prima dello studio analitico dell’anatomia. Non è forse la totalità illogica, l’unione mistica della macchia e della griglia, o dell’istintivo e del razionale, che ha conferito vera importanza all’arte? L’esplorazione e l’attuazione di questo matrimonio di facoltà mentali apparentemente esclusive ma complementari sono stati il mio obiettivo principale da quando sono stato invitato a insegnare alla Virginia Commonwealth University School of the Arts nell’autunno del 2010.
L’analisi richiede tempo, diligenza e pazienza. Inevitabilmente, il processo di valutazione e trascrizione delle proprie osservazioni su una superficie bidimensionale necessita di innumerevoli interruzioni della coordinazione occhio-mano, la stessa coordinazione su cui dipende l’espressione artistica spontanea. Queste sono le meccaniche del disegno osservativo. Purtroppo, un eccessivo
controllo e trascrizione, una volta esaltati nelle scuole di Belle Arti di tutto il mondo, possono soffocare gli impulsi intuitivi nel nome della precisione e dell’accuratezza, specialmente negli studenti che disegnano un modello dal vivo. Anziché impegnarsi nella pratica secolare del disegno dal vero, gli studenti sono costretti a praticare una sorta di disegno “della morte”. Quell’importante risultato intellettuale noto come prospettiva, attraverso cui le figure possono essere collocate l’una rispetto all’altra in un sistema spaziale plausibile e misurabile, può anche paralizzare l’intuizione visiva e la vivacità. Senza il giusto equilibrio tra analisi e intuizione, c’è il pericolo che una freddezza impersonale e diagrammatica prevalga a discapito della tattilità e del calore umano.
L’IRREFRENABILE VELOCITÀ DELLA VISTA
Come insegnante, mi sforzo di fornire ai miei studenti un’alternativa salutare a questa dicotomia nell’educazione artistica. Dedicando l’inizio di ogni semestre ai fondamenti della valutazione e della trascrizione, fornisco una base in grado di precorrere gli approcci più interpretativi che seguono: gli elementi dello spazio, della luce e del tempo. La transizione graduale lungo tutto il semestre dai processi analitici di trascrizione a pratiche di realizzazione di segni sempre più intuitive culmina con una visita al Dipartimento di Musica dove gli studenti sono sfidati a disegnare gli studenti di musica mentre si allenano e fanno prove, disegnando quindi la figura umana in movimento continuo. Sperimentano così l’antitesi dell’approccio inanimato e statico che è diventato sinonimo di istruzione convenzionale nel disegno di figure. Invece, vengono introdotti al disegno alla velo-
cità del suono. Una tale pratica esclude un’interruzione del processo di tracciamento della linea. L’uso di una singola linea continua è uno dei mezzi attraverso i quali si può raggiungere un livello di fluidità commisurato allo spirito cinetico di questi soggetti. Non sollevando lo strumento di disegno, il ritmo calligrafico viene più facilmente raggiunto: una linea diventa l’incarnazione della figura in movimento. L’incapacità di mettere in pausa e riflettere sui segni incoraggia gli studenti ad agire rapidamente e con decisione. L’economia di mezzi favorisce una consapevolezza del valore nella creazione di una scrittura grafica che esprime con poche linee l’essenza del soggetto.
Da Vinci, Tintoretto, El Greco, Rembrandt, Hokusai, Degas, Cezanne, Picasso e Kollwitz hanno dimostrato che è possibile raggiungere un modo coerente e completo di disegno con un grado di definizione non maggiore di quello di un disegno preistorico. La storia del disegno dimostra che l’eloquenza grafica può essere raggiunta attraverso la suggestione, piuttosto che la descrizione, e che alcuni suggerimenti spontanei possono essere tanto rivelatori quanto un accumulo di trascrizioni fattuali.
I disegni presentati in questo articolo sono emblematici del mio desiderio di celebrare i legami che uniscono la musica e il disegno. Anche se sono discipline diverse, il disegno e la musica condividono la necessità di raggiungere un’unione di analisi e intuizione. Come un musicista, attraverso questi disegni ho cercato di promuovere e celebrare un flusso di coscienza, e non la sua interruzione. Sono immensamente grato per il privilegio di disegnare dal vivo all’interno del vitalissimo Dipartimento di Musica. ■
Gli studi qui riprodotti sono solo alcuni tra le centinaia che Stephen Alcorn ha creato direttamente nella primavera del 2022, al culmine della pandemia. Traendo ispirazione dal pennello cinese e dai disegni a inchiostro di china di Rembrandt e Hokusai, Alcorn ha cercato in primo luogo di realizzare una vivida documentazione delle sue visite periodiche agli ambienti di apprendimento vibranti e stimolanti del Dipartimento di Musica, gestiti dai professori Susanna Kleinm, Rex Richardson, Antonio Garcia e Taylor Barnett. Allo stesso tempo, l’autore ha voluto esplorare e sperimentare in prima persona i legami indelebili che legano le discipline universali e senza tempo come la musica e il disegno. Tutti i disegni misurano 11 x 14 pollici (in centimetri, 27,94 x 35,56); le immagini in bianco e nero sono state create con pennello cinese e inchiostro di china su carta di riso, mentre le immagini policrome con pastelli a olio e su carta di straccio di cotone al 100%. Le opere sono esposte permanentemente nel James W. Black Music Center della Virginia Comnonwealth University.
Circuiti nervosi elementari, organismi capaci di movimento. Alcuni studi e una solida osservazione conducono a un’ipotesi radicale: la coscienza è un fenomeno diverso dal pensiero.
Quando si interrogano sulla presenza di una coscienza in altri organismi, le persone di solito fanno riferimento alle capacità mentali - ragionare, risolvere problemi, prendere decisioni - quali si evincono dal comportamento. L’ipotesi sembra essere che se un animale mostra capacità mentali sofisticate allora debba essere cosciente, con il corollario che la possibilità di mostrare abilità mentali sofisticate sia collegata con il possedere cervelli complessi.
Molte teorie che godono di grande consenso nella comunità scientifica sembrano condividere il medesimo presupposto, l’idea cioè che la complessità del sistema nervoso spieghi, in qualche modo, l’emergere della coscienza. A me pare, tuttavia, che quest’idea sia sbagliata.
L’attività mentale non è consustanziale alla coscienza. Una delle acquisizioni più importanti delle moderne neuroscienze è stata proprio la realizzazione che gran parte della nostra vita mentale è inconsapevole. L’inconscio cognitivo non è limitato, come si potrebbe credere, alle risposte automatiche e istintive, bensì opera negli aspetti più raffinati della nostra vita mentale.
Gli esempi sono innumerevoli. Mi limiterò a illustrarne brevemente un paio. Gli psicologi cognitivi impiegano una tecnica nota come Continuous Flash Suppression (CFS) per indagare i processi mentali consapevoli e inconsapevoli.
Funziona così: a un occhio viene mostrato uno stimolo facilmente riconoscibile, per esempio un volto ben noto, mentre simultaneamente all’altro occhio viene presentata in rapida sequenza, diciamo ogni 100 millisecondi, una serie di immagini, sempre diverse, costituite da dei rettangoli variamente colorati ispirati a quelli che dipingeva Mondrian. Quel che accade in tali condizioni è che il volto non viene veduto. Per meglio dire: non viene consciamente veduto, perché si può osservare che un’elaborazione cognitiva, anche profonda, viene condotta comunque in presenza della soppressione causata dal continuo susseguirsi di immagini a là Mondrian. Questo lo si può provare misurando i tempi di risposta agli stimoli percepiti. Supponete di osservare una semplice sottrazione con tre numeri, 9 – 3 – 4. Poiché lo stimolo è stato presentato in condizioni di CFS voi non avete avuto alcuna coscienza di vedere i tre numeri e i simboli della sottrazione, e men che meno perciò di aver calcolato il risultato dell’equazione, pari a 2. Successivamente, però, vi viene chiesto di leggere ad alta voce dei numeri, rispondendo il più velocemente possibile: quel che si osserva è che siete più veloci a leggere 2 che non, ad esempio, a leggere 3. Tutto avviene, cioè, come se un calcolatore del cui
operare siete ignari si fosse preso il compito di svolgere l’equazione e di rendere prontamente disponibile la risposta corretta alle vostre labbra. In questo esempio la dissociazione riguarda l’esecuzione di un’abilità cognitiva di alto livello, come risolvere un’equazione aritmetica, e il riferimento psicologico all’essere consapevoli o meno di aver percepito gli stimoli. Ma la medesima dissociazione può essere osservata tra l’esecuzione di un’abilità e i correlati neuronali che di norma sono associati all’esecuzione di quell’abilità.
RICONOSCERE GLI STIMOLI
Un paio di anni fa è stato riferito il caso di un paziente affetto da sindrome corticobasale, una malattia neurodegenerativa rara, che mostrava un’incapacità a leggere i numeri arabi dal 2 al 9, pur essendo in grado di leggere normalmente le lettere dell’alfabeto. Quando gli veniva mostrato un numero, poniamo 8, il paziente era incapace di riconoscerlo e richiesto di disegnare quel che stava osservando produceva un’accozzaglia di
segni grafici la cui forma assomigliava a un groviglio caotico di spaghetti. Curiosamente, il deficit non si manifestava per lo 0 e per l’1 (forse perché simili a delle lettere). Ma quello che è importante notare qui è che l’incapacità a riconoscere gli stimoli si applicava anche a ciò che veniva mostrato dentro o a un dipresso dei numeri da 2 a 9. Ad esempio, un volto inserito nel segno grafico del numero 8, raffigurato in modo ben visibile e riconoscibile in circostanze normali, risultava essere non esperito dal paziente. E tuttavia l’esame elettroencefalografico mostrava che la firma caratteristica del riconoscimento di un volto, un segnale negativo noto agli specialisti come N170 era osservabile nel tracciato elettroencefalografico. Tutto questo rivela che i processi mentali di alto livello sono distinti dalla coscienza, si possono osservare i primi in assenza della seconda. Viceversa, si può osservare coscienza in assenza di processi mentali di alto livello. Intuitivamente, questo lo sappiamo bene perché abbiamo adeguato a criteri prudenziali la nostra considerazione per chi soffre di deficit co-
gnitivi anche importanti: riteniamo che essere privati di intelligenza e raziocinio non corrisponde a essere privi di sensibilità, si può sentire qualcosa, per esempio dolore, anche quando le capacità mentali siano gravemente compromesse.
Insomma, essere coscienti, nella sua manifestazione primeva, ovvero sentire qualcosa, provare qualcosa – come, per me in questo momento, fare esperienza della durezza dei tasti del computer, del bianco e del nero nello schermo dove scrivo, e del vago sentore di disinfettante nell’ufficio appena pulito – non si identifica con pensare, ragionare o prestare attenzione. Coscienza è prima di tutto esperienza.
Grazie agli studi condotti su una varietà di animali dotati di cervelli miniaturizzati, in questi anni abbiamo imparato che le operazioni cognitive più basilari possono essere condotte con una manciata di neuroni. Le api, il cui ganglio encefalico conta meno di un milione di neuroni, sono capaci di discriminare i volti
Professore di Neuroscienze presso il Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento, di cui è stato anche direttore, è autore di più di 300 articoli scientifici su riviste internazionali e di alcuni libri a carattere divulgativo: Cervello di gallina, BollatiBoringhieri, 2005; Nati per credere (con V. Girotto e T. Pievani) Codice, 2008; La mente che scodinzola, Mondadori, 2011; Cervelli che contano (con N. Panciera) Adelphi, 2014; Piccoli equivoci tra noi animali (con L. Vozza) Zanichelli, 2015; Lettera dalla fine del mondo (con M. Parente), La Nave di Teseo, 2021. Nel 2013 ha pubblicato la monografia Divided Brains con L.J. Rogers e R.J. Andrew per Cambridge University Press, tradotta da Mondadori Education con il titolo Cervelli divisi, 2017. Tra i libri più recenti, Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi, 2021), Born Knowing pubblicato nel 2021 da MIT Press, Cambridge, e Il pulcino di Kant (Adelphi, 2023). Nel 2016 ha ricevuto il Premio internazionale Geoffroy Saint Hilaire per l’etologia e una Laurea Honoris Causa dall’Università della Ruhr, in Germania. È Fellow della Royal Society of Biology. Collabora con Il Sole 24 Ore e Le Scienze
I piccolissimi cervelli non alienano la facoltà di “sentire”, di provare qualcosa.
umani, di categorizzare in maniera astratta l’uguale e il diverso, di condurre operazioni aritmetiche approssimate e di riconoscere dopo un breve addestramento su un numero limitato di esemplari lo stile grafico di Picasso rispetto a quello di Monet in immagini mai vedute in precedenza. Le limitazioni dei cervelli miniaturizzati riguardano semmai i magazzini di memoria o la possibilità di condurre analisi percettive in parallelo anziché in maniera sequenziale (quest’ultima infatti è la modalità con cui di solito gli insetti muovendosi esplorano attivamente le scene visive).
Che ragionare, decidere o risolvere problemi richieda o meno dei cervelli grandi e complessi è comunque irrilevante rispetto al tema della coscienza. L’idea che la coscienza emerga spontaneamente come risultato della complessità del sistema nervoso, in particolare della corteccia, mi sembra un modo di pensare magico anziché scientifico, e soprattutto collide con fatti ben acclarati.
Il dogma della corteccia (o dei suoi equivalenti in altre specie) come generatrice della coscienza è messo in dubbio dalle classiche risultanze del neurochirurgo canadese Wilder Penfield, il quale aveva notato come l’escissione di porzioni anche grandi della corteccia, realizzata in anestesia locale per il trattamento di forme intrattabili di epilessia, lasciasse i pazienti
consci e comunicativi (anche durante l’esecuzione stessa dell’intervento). Persino un intervento radicale come un’emisferectomia (la rimozione completa di un intero emisfero cerebrale) non fa venire meno la coscienza, ma si limita a danneggiare certe capacità discriminative e abilità motorie o linguistiche del paziente. Ovviamente sappiamo che un danno bilaterale massivo della corteccia dà luogo a una condizione di stato vegetativo persistente, ma, come ha notato il neuroscienziato Bjorn Merker, questo non dimostra che la funzione corticale sia essenziale per la coscienza, perché il danno corticale inevitabilmente distrugge i numerosi circuiti del tronco dell’encefalo che in condizioni normali ricevono degli input dalla corteccia.
Ancora più drammatica è l’evidenza raccolta dallo stesso Merker a favore del fatto che i bambini affetti da idranencefalia, una condizione rara in cui mancano in larga misura e in alcuni casi del tutto gli emisferi
prosencefacili e la cavità cranica corrispondente è riempita di liquido cerebrospinale, sarebbero coscienti (ancorché gravemente deficitari sul piano sensoriale, motorio e intellettivo). La coscienza primaria, il fatto di provare qualcosa, sarebbe sostenuta secondo Merker da strutture del tronco dell’encefalo.
Ma quando e perché nella storia evolutiva degli organismi è accaduto che fosse necessario provare qualcosa? In fin dei conti sappiamo che in varie circostanze il comportamento parrebbe potersi svolgere compiutamente in assenza di accompagnamento cosciente. Si possono osservare al riguardo i filmati impressionanti di soggetti (sia umani che non) affetti da una condizione detta di «visione cieca» che si muovono con agio nell’ambiente senza urtare gli oggetti o addirittura manipolandoli correttamente anche se, a seguito di una lesione più o meno estesa alle aree della corteccia visiva primaria, sono corticalmente ciechi e dichiarano (i pazienti umani) o mostrano in opportuni test (le scimmie) di non esperire alcunché.
Il saggio Pensieri della mosca con la testa storta, edito nel 2021 da Adelphi, sarà nei prossimi mesi disponibile in lingua inglese grazie alla pubblicazione della casa editrice Routledge di Londra . Giorgio Vallortigara fa parte della Direzione Scientifica di Prometeo.
Alcuni filmati sul comportamento dei soggetti con «visione cieca» si possono osservare a questi link:
https://www.youtube.com/watch?v=rDIsxwQHwt8
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/ S0960982208014334
Poco o nulla sappiamo dire al momento dei contenuti specifici del sentire di altri organismi, che potrebbero essere incommensurabili ai nostri (come osservava il filosofo Thomas Nagel, che cosa potrebbe provare un pipistrello quando fa esperienza della forma di un oggetto con il suo sonar?). Tuttavia io credo che possiamo utilmente interrogarci sul perché provare qualcosa sia stato necessario a un certo momento della storia evolutiva. In particolare ritengo che il momento di transizione importante sia occorso quando gli organismi hanno preso a muoversi nell’ambiente in maniera attiva, e di conseguenza si sono trovati di fronte al problema di riconoscere nelle stimolazioni sensoriali ciò che risulta accadere come sottoprodotto dei loro stessi movimenti. Per cogliere il punto, immaginate di stimolare una talpa fuori dalla sua tana con un lancio di terriccio che vada a colpirne i fianchi: l’animale reagirà con un’adeguata manovra difensiva. Tuttavia la stessa manovra difensiva non sarà messa in atto dall’animale mentre scava sottoterra, a dispetto del fatto che a seguito del suo muoversi accadrà che egli sia stimolato sensorialmente dal terriccio.
LA COPIA CARBONE
La soluzione del problema, che ha avuto una lunga genesi sia teoretica sia sperimentale, ma che è legata in particolare alle ricerche del fisiologo del comportamento Erich von Holst, si basa sull’idea che ogni volta che il sistema nervoso invia un segnale al sistema motorio per generare un’azione corporea, un secondo
segnale in copia carbone (noto come «copia efferente» o «scarica corollaria») venga inviato a un sistema che provvede a confrontarlo con il segnale sensoriale che sta per sopraggiungere, come in una sorta di previsione sui possibili esiti sensoriali dell’azione. Io ho argomentato recentemente che se, come hanno sostenuto teorici quali lo psicologo evoluzionista Nicholas Humphrey, la risposta iniziale agli stimoli sensoriali doveva avere la forma di una reazione corporea, la copia carbone (la copia efferente) di questo segnale è proprio ciò che conferisce autorialità alla reazione corporea, cioè il fatto che venga sentita, che sia propria, ovvero che sia cosciente. La presenza di circuiti che realizzino il genere di meccanismo feedforward che è alla base di quello che von Holst ha etichettato come «principio di riafferenza», potrebbe rappresentare quindi una condizione minima, ma necessaria, perché si provi qualcosa a essere un particolare tipo di creatura, ad esempio un verme. Sui contenuti qualitativi specifici di questo provare qualcosa al momento possiamo solo dire che li ignoriamo. Ma se riuscissimo a riprodurre fedelmente la circuiteria cellulare che li sostiene nulla vieterebbe, in linea di principio, di farli propri, ad esempio in una protesi, e sapere per la prima volta che cosa si provi a essere un verme quando lo tocca la terra o, se aveva ragione Maurice Merlau-Ponty quando notava che vedere è palpare con lo sguardo, ad essere un’ape che sente il tocco della luce ultravioletta riflessa dai petali di un fiore. ■
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Suonava la lira e convertiva i giapponesi. In quel secolo e in quell’Estremo Oriente dove alcuni gesuiti avventurosi hanno lasciato una traccia, ma spesso anche la vita.
Sabina PavoneIl 19 agosto 1605, verso la mezzanotte, «a lume di torcia», due ufficiali di Morindono, daymiō di Yamaguchi, fecero salire su un cavallo Damiano il cieco, suonatore di lira, e con il favor delle tenebre lo portarono fuori città. Giunti sulla riva del fiume, ancor prima di smontare da cavallo, Damiano comprese quale fosse l’intento dei suoi “custodi”: egli si era da tempo convertito al cristianesimo grazie alla predicazione dei missionari gesuiti ma l’avvento dei Togukawa allo shōgunato aveva condotto a una violenta scristianizzazione del Giappone. I gesuiti erano stati allora cacciati da molte città, tra cui Yamaguchi, e Damiano si era trovato a svolgere una funzione di supplenza presso la comunità dei convertiti giapponesi (kirishitan) «cathechizando i gentili, predicando a’ fedeli, battezzando i bambini, sepellendo i morti et procurando […] di conservarli nella fede» (Vita e gloriosa morte di Damiano, cieco giapponese). Morindono però – «spinto da un canto dall’odio antico e rabbioso contra i fedeli di Christo, et dall’altro stimolato importunamente dai Bonzi et sacerdoti degli’idoli» – «deliberò di cavare Damiano dal mondo», così da interrompere ogni impresa di evangelizzazione delle sue terre.
Come per tanti altri convertiti il destino di Damiano poteva dunque essere solo la morte. Il suonatore di lira ne era ben cosciente e già lungo la strada si era rivolto ai due ufficiali ricordando loro che «benché cieco so che mi conducete al luogo pubblico della giustizia per togliermi come a cristiano la vita» ma questo timore non lo aveva affatto scoraggiato né spinto ad abiurare la fede cristiana. Anzi, per usare l’appassionata prosa barocca che lo storico gesuita Daniello Bartoli attribuì a Damiano, il suonatore
SABINA PAVONEdi lira avrebbe risposto con foga: «Eccomi a morire. Friggetemi, bollitemi vivo, arrostitemi e se avete che peggio farmi, quel fate» (L’Asia, 1825, l. III, p. 121). I suoi carnefici gli tagliarono dunque la testa e tagliarono anche il suo corpo «in minuti pezzi, gittandone parte nel fiume e parte in una selva vicina, acciò non venissero alle mani di Cristiani». L’accorgimento non fu però sufficiente e la mattina alcuni di quei cristiani «con l’aiuto di Dio» recuperarono la testa e il braccio sinistro che vennero poi portati nella chiesa dei gesuiti di Nagasaki, allora ancora attiva, affinché venissero venerati come sante reliquie.
L’IMPREVISTA INVOLUZIONE ANTICRISTIANA
Come era stato possibile che la situazione si fosse deteriorata a tal punto rispetto al 1549, anno in cui Francesco Saverio era sbarcato in Giappone? “L’apostolo delle Indie” aveva scritto allora a Ignazio di Loyola che i giapponesi non potevano essere trattati alla stregua delle scarsamente civilizzate popolazioni del Nuovo Mondo e che bisognava avere rispetto per la loro cultura e adattarsi alle regole del loro vivere sociale. La lezione di Saverio era stata ripresa dalla generazione successiva di missionari e Alessandro Valignano nel Cerimoniale per i missionari del Giappone (1583) aveva formalizzato la sua proposta suscitando una significativa adesione al cattolicesimo di alcuni signori della guerra. La grande ambasceria in Europa di alcuni di questi giovani convertiti (1585), ricevuti dallo stesso Gregorio XIII, aveva rappresentato un’ulteriore tappa nella strategia di propaganda della Compagnia di Gesù, volta a esaltare la politica missionaria dell’ordine. Questa fase era però durata assai poco. Salito allo shōgunato, Toyotomi Hideyoshi
Professoressa ordinaria presso l’Università di Napoli L’Orientale, insegna Storia del Cristianesimo e Storia delle Missioni. Fa parte della Direzione Scientifica di Prometeo. Dal 2011 fa parte del Comitato Scientifico del Journal of Jesuit Studies, della serie della casa editrice Brill Jesuit Studies. Dal 2020 è nel Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana di Public History (AIPH) e dal 2014 del Bureau executif della Société internationale d’études jésuites con sede a Parigi. È coinvolta in progetti di Digital and Public History e fa parte del comitato scientifico del Digital Indipetae Database (Boston College). È autrice con Franco Motta del Lessico della storia moderna (Carocci 2024) e ha curato con Giuseppe Capriotti e Pierre-Antoine Fabre, Eloquent Images. Evangelization, Conversions and Propaganda in the Global World of the Early Modern Period, (Leuven UP 2022).
La storia di Damiano il cieco è una delle storie di conversione raccolte nel volume di Chiara Petrolini, Vincenzo Lavenia e Sabina Pavone intitolato Sacre metamorfosi. Roma e i racconti di conversioni di infedeli e pagani (secoli XVI-XVIII), Viella 2022.
aveva espulso una prima volta i gesuiti nel 1587. Eppure, proprio in quegli anni si erano andate però moltiplicando le conversioni: tra l’ottobre 1589 e l’ottobre 1590 erano state battezzate 21mila persone; quindi lo stesso Valignano nel 1591 – al ritorno della grande ambasceria – era stato ricevuto a corte, offrendo allo shōgun una serie di doni. In quella occasione Hideyoshi, pur non revocando gli editti, aveva però concesso a dieci missionari di risiedere a Nagasaki, cosa che permise ai gesuiti di mantenere alcune basi in semiclandestinità che favorirono le conversioni. La crescita della comunità kirishitan (coinvolta in taluni casi nei conflitti locali tra signori della guerra) esacerbò l’ostilità del potere centrale cosicché, tra gli anni Dieci e gli anni Trenta del Seicento, al tempo dello shōgunato di Tokugawa Ieyasu, un numero significativo tra missionari (gesuiti e francescani) e convertiti giapponesi subì il martirio a fronte del rifiuto di abiurare la fede cristiana. Tra i molti casi di martirio (non solo in terra di missione, ma anche negli stati protestanti), quello del Giappone ebbe senza dubbio la maggiore risonanza in Europa, non solo per i numeri e l’efferatezza delle pene, ma perché già nel 1627 Urbano VIII beatificò i primi 26 martiri (canonizzati però da Pio IX solo nel 1862), tra cui
Paolo Miki, il giapponese convertito poi entrato nella Compagnia di Gesù. Tra i più noti martiri giapponesi vi fu Marcello Mastrilli, il quale a seguito di un grave incidente, durante la malattia ebbe una visione di Francisco Xavier che lo incoraggiava a partire per il Sol Levante anziché a morire. Si può dire che Mastrilli – desideroso di recarsi in un Giappone ormai chiuso agli europei e ai cristiani – progettò il proprio futuro martirio, che si verificò puntualmente nel 1637. Tra i convertiti giapponesi che si votarono al martirio, il caso di Damiano il cieco, la cui professione di suonatore di lira e cantastorie fu adattata alla predicazione cristiana, è un tipico esempio di quella ibridazione e adattamento tra culture che i gesuiti utilizzarono in Oriente. Tale ibridazione coinvolse peraltro anche l’arte e l’architettura: se Valignano nel Cerimoniale dedicò un capitolo alla costruzione di chiese secondo lo stile giapponese, anche l’iconografia religiosa risentì di forme di sincretismo tra l’arte rinascimentale e quella nipponica come nella famosa Madonna delle nevi dipinta all’interno del Seminario dei Pittori fondata dal gesuita Giovanni Niccolò all’inizio del Seicento. Nel momento in cui i gesuiti cominciarono a essere perseguitati e furono costretti ad abbandonare le loro residenze in Giappone, i convertiti, e in particolare
i suonatori di lira che assieme ai catechisti locali conoscevano bene la lingua, esercitarono un ruolo di supplenza dei missionari. Se infatti una parte della comunità cristiana, non ancora sufficientemente consolidata, si sciolse come neve al sole, chi perdurò nella nuova fede si dovette adeguare a vivere la propria condizione in clandestinità confidando nei pochi rudimenti della fede cristiana appresi fino a quel momento. Alcune comunità di kakure kirishitan, mancando di una vera e propria guida religiosa, instaurarono una forma ibrida di cristianesimo che vedeva appaiati i dogmi cristiani con aspetti della preesistente cultura giapponese. Questo non li salvò comunque dalla persecuzione. Gli inquisitori giapponesi escogitarono un sistema infallibile per individuare i convertiti: coloro che erano sospettati di criptocristianesimo erano invitati – spesso costretti – a calpestare alcune tavolette su cui era inciso il crocifisso o altre immagini sacre (fumie). Coloro che si rifiutavano venivano denunciati incorrendo in terribili torture e talvolta in una vera e propria condanna a morte. La storia dei martiri giapponesi è stata recentemente portata al cinema anche da Martin Scorsese con il film Silence (2016) – tratto dal romanzo scritto nel 1966 da Shusaku Endo – dove la grandezza del film sta proprio nel porre, senza facili soluzioni, il problema del significato dell’evangelizzazione laddove la conversione diventa certezza di persecuzione come nel caso di Damiano il cieco.
Nel suo caso ci troviamo appunto a Yamanguchi (Amanguci, nelle fonti dell’epoca), vicino a Fukoshi-
ma, dove regnava ai primi del Seicento il daimyō Mōri Terumoto (1553-1625), nipote del più noto Mōri Motonari (1497-1571). L’apertura di una residenza gesuita aveva suscitato l’ostilità dei bonzi del luogo e quando Motonari, ostile ai cristiani, conquistò Yamaguchi tutte le proprietà appartenute ai gesuiti furono confiscate e cedute ai buddisti. Tra il 1586 e il 1587 fu quindi temporaneamente restaurata la missione e Morindono (come è chiamato nelle fonti gesuitiche Terumoto) fece qualche concessione ai padri della Compagnia, che riaprirono le loro case tra il 1599 e il 1602, anno in cui la missione decadde definitivamente. Ancora nel 1601 il provinciale del Giappone, Francesco Pasio, scriveva da Nagasaki al generale Acquaviva del buono stato di quella comunità e della disponibilità di Morindono verso i convertiti; ma in quegli stessi mesi il suo confratello Valentim Carvalho registrava invece i primi mutamenti nella politica del signore locale, che aveva modificato il suo atteggiamento verso i cristiani conformandosi alla politica di persecuzione portata avanti dal clan dei Togukawa assurti alla carica di shōgun.
IL PROSELITISMO DEI SUONATORI DI LIRA
La tradizione giapponese dei suonatori di lira (BiwaHōshi), paragonabili ai trovatori provenzali per il loro talento nell’unire versi e musica, si consolidò nel XIII secolo; non era necessario essere ciechi, ma molto spesso queste figure lo erano e, pur provenendo per lo più da un ceto sociale non elevato, avevano uno statuto riconosciuto all’interno della società nipponica. Al loro arrivo in Giappone, Francisco Xavier e il confratello Cosme de Torres intuirono immediatamente il potenziale che i suonatori di lira potevano rappresentare per l’evangelizzazione di quelle terre, e proprio a Yamaguchi, nel 1551, convertirono il trovatore Ryōsai, che prese il nome di Lourenço, entrò poi nella Compagnia come fratello coadiutore e fu il primo a unire musiche indigene con versi tratti dalla Bibbia per indurre alla conversione e insegnare la dottrina cristiana non solo in latino ma anche in giapponese. Suo discepolo fu il giovanissimo Tobia, e quindi Damiano, «personaje bastante sui generis» (come lo definisce Luís Fróis in una lettera del 20 settembre 1589) nonché figura poliedrica, che riuscì a trovare una sintonia tra le due culture, la cristiana e la giapponese. Alla fine degli anni Ottanta del Cinquecento, dopo l’espulsione dei gesuiti da Yamaguchi, Damiano si trovò infatti a esercitare una funzione di supplenza dei missionari, non solo predicando
le verità della fede cristiana ma anche intervenendo pubblicamente contro i bonzi della setta di Shaka (Xaca) per ribadire che l’unica salvezza poteva aversi con il cristianesimo, cosa che gli costò una prima denuncia presso il “viceré” di quelle terre, dalla quale riuscì peraltro a uscire indenne. Damiano tenne i rapporti con il viceprovinciale Alessandro Valignano, che si trovava a Nagasaki ed esercitò anche una funzione tipica dei missionari in Oriente, quella di esorcizzare indemoniati e indemoniate. Sebbene non vi sia un’opinione concorde sulla data e il luogo esatto del suo martirio, l’ipotesi più accreditata è che sia avvenuto il 19 agosto del 1605, vicino a Yamaguchi, sulla riva del fiume Fushinogawa. La sua testa e un braccio furono trovati dal cristiano Bento e inviati a Nagasaki a testimonianza del suo supplizio, prova che ha permesso di includere Damiano nella lista dei 188 martiri del Giappone (quasi tutti laici) beatificati nel 2008 da Benedetto XVI.
La storia del suonatore di lira Damiano il cieco circolò in Italia a pochi anni dagli avvenimenti descritti, come è testimoniato dalle numerose versioni del suo martirio. La fonte originale è una littera annua dal Giappone, una di quelle lettere che i missionari mandavano appunto annualmente a Roma per rendicontare le loro imprese. L’autore della lettera era il gesuita portoghese João Rodrigues Girão ma
essa riportava il testo di un’ulteriore missiva redatta dal vescovo ausiliario di Funai, il gesuita Luís de Cerqueira. Le litteræ annuæ utilizzavano i racconti di conversione come segno tangibile dei successi ottenuti nelle più remote parti del mondo sia con l’intento di favorire l’intensificarsi delle vocazioni all’interno dell’Ordine sia per propagandare tali imprese presso il più ampio pubblico europeo. Molto spesso infatti estratti di queste lettere venivano dati alle stampe, specie a Roma e a Venezia, due dei principali luoghi di stampa nell’Italia della prima età moderna. Nel caso di Damiano la sua storia fu pubblicata insieme ad altre epistole sul Giappone nel 1608 ma fu poi ripresa da Giovanni Battista Jacobilli, chirurgo umbro vicino all’ambiente oratoriano della Vallicella, in una raccolta manoscritta di vite di uomini e donne in odore di santità. A fine Seicento, il gesuita Jean Crasset la riprese nella sua storia della Chiesa del Giappone, e più tardi sant’Alfonso de’ Liguori la ripubblicò ancora una volta, a testimonianza dell’attenzione che circondava ancora la memoria dei martiri del Sol Levante. Anche la letteratura kirishitan dell’epoca enfatizzò la vocazione al martirio dei convertiti e delle convertite giapponesi, richiamando soprattutto il modello degli antichi martiri cristiani in un ulteriore cortocircuito tra la tradizione giapponese e quella europea. ■
Un secolo fa, nel 1921, Einstein era in visita a Bologna. Tre conferenze all’Archiginnasio, a fare luce su una teoria che era epocale per tutti (ma non per il Comitato Nobel).
«Siamo qui [con la sorella Maja] insieme a Firenze», scriveva Einstein in una cartolina all’amico Besso il 20 ottobre 1921, «domani partirò [...] per Bologna dove devo tenere una conferenza in italiano, poveretti!».
Si trattava della sua visita a Bologna, l’unica città italiana ove Einstein tenne tre conferenze sulla relatività aperte al pubblico. Einstein vi giungeva dietro invito di Federigo Enriques, l’illustre matematico allora professore a Bologna, intraprendente organizzatore di imprese culturali e antico direttore della rivista Scientia A proposito di queste conferenze Einstein ed Enriques si erano scritti a lungo. Pare, fra l’altro, che i loro contatti risalissero a ben prima della lettera di saluti scritta dall’amico comune Heinrich Zangger nel 1917, direttore dell’Istituto di medicina legale di Zurigo.
In ogni modo, nel 1920, Enriques si scusava di non aver potuto rispondere a una cartolina di Einstein a causa «della malaugurata guerra» e si augurava di venir perdonato esprimendo «consenso e stima» ad «uno spirito superiore come il suo». Nel proseguire, Enriques, dopo qualche convenevole, esprimeva, per un verso, la più fervida ammirazione nei confronti dell’ultimo grande successo di Einstein, la relatività generale; per l’altro, confessava di «non aver ben assimilato lo spirito delle sue idee direttive», augurandosi di poterlo incontrare «in condizioni favorevoli ad una riposata conversazione».
L’occasione per appagare questa «vivissima aspirazione» si presentò neanche un anno dopo: in una lettera del 19 gennaio 1921, Enriques informava Einstein che si era pensato di far inaugurare proprio a lui («Nessun nome è sembrato pari al suo e nessun
LUISA CIFARELLILuisa Cifarelli è oggi professoressa emerita dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca sono sempre stati nel campo della fisica subnucleare ad altissime energie, con esperimenti presso i principali laboratori europei come il CERN di Ginevra. Si occupa anche di attività editoriali come La Rivista del Nuovo Cimento, EPJ Plus, Scientific Reports, Il Nuovo Saggiatore, fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo. È stata Presidente del Centro Fermi (2011-19), della Società Europea di Fisica (2011-13), e Società Italiana di Fisica (2008-19).
soggetto così appassionante per il mondo scientifico come la relatività») un ciclo di incontri promosso dall’Università per invitare nel nostro paese intellettuali stranieri di chiara fama.
Einstein rispose affermativamente ricordando nostalgicamente i suoi «bei ricordi della giovinezza», ovvero i periodi trascorsi a Milano, Pavia, Casteggio tra il 1895 e il 1902. Enriques fu entusiasta anche del fatto che le conferenze sarebbero state in italiano; il che avrebbe reso ancor più «fruttuosa la Sua parola».
A fine settembre Enriques passava alla fase organizzativa: «Caro e illustre collega, ricevo con grande interesse la gentilissima Sua, dalla quale ho la conferma della Sua venuta a Bologna, nella seconda metà del mese prossimo. In seguito ad essa le Sue tre conferenze rimangono stabilite per i giorni: Sabato 22, Lunedì 24 e Mercoledì 26 Ottobre. In tal guisa vi sarà agio, come Ella gentilmente accenna, [...] di disporre qualche riunione en petit comité; giacché molti di noi sono ansiosi di avere da Lei tante spiegazioni, come può ben immaginare [...]. In ogni caso La prego di favorire in casa mia, a prendere un thè, la sera del giorno di Venerdì 21 alle ore 9 (ossia 21) [...]. S’intende che verrà con Lei il suo figliuolo, che ha proprio l’età del mio».
Fu così che Albert Einstein tenne nei giorni 22, 24, 26 ottobre 1921 tre conferenze presso l’Archiginnasio, sede dell’Antico Studio, che ebbero un grande successo di pubblico.
Di quelle conferenze restano tre memorabili fotografie che ritraggono una, Albert Einstein e Federigo Enriques nelle logge dell’Archiginnasio; l’altra, da solo; la terza Einstein, Enriques e un gruppo di professori dell’Ateneo, scattate entrambe, pare, dal
Mancata nell’agosto 2022, era professoressa emerita di Storia della scienza presso l’Università di Bologna. Tra i suoi interessi, la storia della scienza e della cultura, delle istituzioni scientifiche in Italia dopo l’Unità, di prospettive di genere. È stata Presidente emerito della Società Italiana di Storia della Scienza e Life Member di Clare Hall (Cambridge, UK). È stata Visiting Fellow in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ha curato, insieme a Sandra Linguerri, il volume Einstein parla italiano (Pendragon, 2008).
figlio giovinetto di Enriques, Giovanni, con una macchina Kodak.
Successivamente, egli si recò all’Università di Padova per rendere omaggio all’artefice del calcolo differenziale assoluto Gregorio Ricci-Curbastro e per manifestargli personalmente tutta la sua stima e la sua più profonda gratitudine. Albert Einstein – così la cronaca locale – «parlò per un’ora, lentamente, accuratamente, in lingua italiana, con una precisione scientifica che pareva quasi acquistasse risalto e perfezione dalla precisione linguistica dell’oratore, buon padrone, assoluto e dovizioso, della nostra favella».
Accogliere Einstein padre e figlio al loro arrivo a Bologna toccò alla secondogenita di Enriques, Adriana, allora matricola di matematica. «Sotto la pensilina della stazione di Bologna, Anselmo Turazza, Emilio Supino ed io coi nostri berretti goliardici, attendevamo l’arrivo del treno. Come faremo per riconoscerlo? Viaggerà in prima o in seconda classe? Parlerà in italiano? A noi modeste matricole dell’Università, sembrava che il compito di ricevere Einstein fosse troppo superiore ai nostri meriti».
Ma ecco, proseguiva il suo racconto. «Si udì un fischio prolungato: il treno entrava in stazione. Emilio doveva osservare i viaggiatori di seconda classe, Anselmo quelli di prima. Io vagavo qua e là smarrita e trepidante. Ma quando da un vagone di terza classe scese un alto signore coll’aspetto imponente, il cappello nero a larghe falde come quello che portavano
gli artisti, i capelli ricadenti fin su le orecchie, non avemmo alcun dubbio. Tutti e tre, aprendoci un varco tra la folla che gremiva la stazione, ci precipitammo verso quel signore. Era lui, non poteva che essere lui, Alberto Einstein. Non lo conoscevamo nemmeno in fotografia, eppure lo avremmo riconosciuto fra migliaia di viaggiatori. L’impronta del genio sembrava scritta sulla sua fronte».
Alla soirée del 21 organizzata a casa Enriques in onore del grande scienziato parteciparono pure alcuni giornalisti: «È arrivato oggi a Bologna il prof. Alberto Einstein proveniente da Firenze», scriveva l’inviato del Corriere della Sera, raccontando del ricevimento offerto in casa del prof. Enriques dove questi aveva raccolto con larga e brillante ospitalità attorno al suo illustre invitato «il meglio dell’intellettualità bolognese [...] pochi minuti dopo essere giunto egli si era già ingolfato in una discussione con due luminari della scienza italiana, il [Tullio] Levi-Civita e il [Quirino] Majorana, fortissimo matematico l’uno, fortissimo fisico l’altro».
Le cronache delle sue conferenze ebbero una vasta eco sui principali quotidiani locali e nazionali.
Per stare ai loro resoconti, l’impatto di Einstein sul pubblico fu teatrale, simile «a quella di un divo del bel canto su una scena lirica». Alla prima conferenza la curiosità «fra tutti coloro che vogliono poter dire in ogni occasione ci sono stato anch’io» si era talmente acuita che la Stabat Mater, l’Aula Magna dell’Archi-
ginnasio, risultò del tutto insufficiente. Anche nei giorni successivi l’interesse per le conferenze sulla relatività continuò ad aumentare richiamando il solito «pubblico numeroso», soprattutto di studenti, che avevano preso l’abitudine di sparpagliarsi nell’androne dell’Archiginnasio e sotto il portico del Pavaglione.
Secondo Adriana Enriques, quasi nessuno comprendeva la teoria della relatività, tuttavia l’Archiginnasio era gremito non solo di scienziati venuti da ogni parte d’Italia, ma anche di studenti di tutte le Facoltà, di umili artigiani, di operai. Il popolo commosso faceva ala al passaggio di Einstein e lo seguiva in lunghe colonne come per manifestargli la riconoscenza di aver prescelto Bologna per un primo contatto con l’Italia, dopo tanti anni di assenza.
«Alberto Einstein non ha bisogno di esservi presentato», così esordiva pomposamente Enriques in apertura del suo discorso di presentazione, secondo un’abile regia di cui egli era ormai consumato esperto avendola a suo tempo sperimentata con successo al Congresso internazionale di filosofia del 1911, «la fama che è, in questo caso, annunciatrice di gloria, vi ha già gridato il suo nome».
Le sue teorie «fra le più astruse [...] sollecitano oggi l’attenzione di tutto il mondo, e non soltanto dei matematici o dei filosofi, ma del grande pubblico» giacché, continuava Enriques, egli sovverte colla sua critica i comuni concetti dello spazio, del tempo e del movimento [...] la ragione non ha limiti necessariamente segnati, [...] non offre ai dati sperimentali un ordine prestabilito, ma trova in sé il potere di allargare i quadri in cui si compone l’esperienza famigliare delle cose vicine [...]. Certo vi è qualcosa di sorprendente e quasi di pauroso in questo progresso del pensiero che supera i limiti della propria intuizione [...].
La sua dottrina «rivoluzionaria» ha offerto «nuova occasione per gridare alla bancarotta della scienza», sottolineava Enriques ribadendo posizioni polemiche già assunte in passato, ma «chi giudica in tal guisa è lontano, non solo dal pensiero di Einstein, ma dal concetto storico della scienza [...]». «Così la teoria di Einstein non significa la morte della teoria di Newton, anzi la conquista di una verità più vera [...]». Ecco, concludeva Enriques in nome di quel vessillo fatto di ragione e di libertà da lui sempre praticato nel corso del suo iter intellettuale, «il vero motivo della commozione suscitata da Alberto Einstein. Egli ci ridà fiducia nella ragione» ovvero «c’invita» a «volgerci alla contemplazione dell’ordine che la mente riesce a scoprire fuori di sé, nella meravigliosa
opera d’arte della natura». È per questo che occorreva ascoltare «reverenti la parola del Maestro: con quella reverenza che si deve ai liberi spiriti e che vuol essere libera discussione delle idee».
Presa la parola in italiano, il Maestro spiegò anzitutto come la teoria della relatività fosse sorta da problemi collegati direttamente o indirettamente dall’esperienza quali il concetto di contemporaneità dato per autoevidente nonché il presupposto dell’abitudine che consiste nel ritenere che la forma dei corpi sia indipendente dal movimento di essi.
Si addentrava poi nell’illustrazione della teoria della relatività ristretta partendo dal principio di relatività in senso stretto e dalla legge della costante velocità di propagazione della luce nelle diverse direzioni, indipendentemente dal moto della sorgente luminosa, allo scopo di mostrare come queste due leggi valide e derivanti dall’esperienza solo apparentemente risultino in contrasto fra loro.
Nella seconda, mentre riassunse brevemente i concetti della relatività ristretta esposti nella prima conferenza, affrontò i problemi connessi alla relatività generale mettendo in evidenza, fra l’altro, come ad essa fossero collegati metodi di misura forniti dalla geometria non euclidea e come fosse possibile estendere ai sistemi accelerati (o non inerziali) i risultati della teoria ristretta della relatività e giungere alla conoscenza della legge generale del campo gravitazionale. Tale legge è una legge non nuova rispetto alla
classica legge di Newton, bensì più ampia, in quanto rende conto di certe anomalie relative ai pianeti che la legge di Newton da sola non riesce a spiegare.
Nella terza si soffermò su una conseguenza della teoria, suscettibile di conferma sperimentale, per passare ad esporre, sulla base di tutti i risultati ottenuti, la concezione «relativistica» dell’universo. Al termine di questa conferenza, Einstein non mancò di aggiungere che lo strumento matematico di cui si era servito derivava dai calcoli di Gauss e Riemann nonché di Ricci-Curbastro e Levi-Civita.
Quest’ultimo venne intervistato al termine delle conferenze dall’inviato del Messaggero, il quale accennava naturalmente al carattere rivoluzionario della teoria nonché al contributo italiano di RicciCurbastro e Levi-Civita, esteso per amor di patria a Guido Castelnuovo, Roberto Marcolongo, Gian Antonio Maggi, Attilio Palatini.
Tornando alle giornate bolognesi, quel grande scienziato di Einstein prendeva commiato dalla città anche con una riunione presso l’Accademia delle Scienze, ove si tenne una seduta straordinaria ai fini di approfondire alcuni punti della teoria della relatività.
Il presidente, Giuseppe Ruggi, porse un saluto di benvenuto ad Einstein, che era stato eletto socio straniero nell’aprile 1921, mentre Enriques espose le linee della discussione. Intervennero Burgatti, Ciamician, Majorana, Amaduzzi, Levi-Civita, Castelnuovo e naturalmente Enriques. A tutti, stando al verbale, rispose brillantemente Einstein, il quale si guadagnò così i più vivi ringraziamenti del presidente.
Pochi mesi dopo, Enriques, il quale era fin dal 1906 consulente scientifico della casa editrice Zanichelli, promosse la prima traduzione italiana dell’opera di Einstein del 1917, Sulla teoria speciale e generale della relatività, con una prefazione di Levi-Civita.
Di lì a poco, uscirono due volumi di Roberto Marcolongo: il primo, Relatività (1921), raccoglieva le lezioni tenute all’Università di Napoli ove era professore ordinario; il secondo, Uno sguardo sintetico alla teoria speciale e generale della relatività (1922), si proponeva di esporre in maniera sintetica e divulgativa la relatività ristretta e quella generale.
Un anno dopo, edito sempre da Zanichelli, usciva l’ampio trattato di Castelnuovo sui fondamenti della relatività dal titolo Spazio e tempo secondo le vedute di Albert Einstein.
A segnare una continuità dell’interesse bolognese nei confronti della relatività furono le conferenze di Luigi Donati, professore di fisica matematica, tenute
fra il dicembre 1921 e febbraio 1922, alle quali seguirono un anno dopo quelle di Paul Langevin sulla struttura dell’atomo e le proprietà magnetiche, presso l’Archiginnasio e l’Istituto di Fisica. Collega e amico tanto di Enriques quanto di Einstein, Langevin fu invitato nell’ambito delle iniziative del medesimo Comitato che si era fatto promotore della visita di Einstein.
2. STOCCOLMA
Il 1921 è anche ricordato come l’anno del Premio Nobel per la fisica di Albert Einstein. In realtà il premio gli fu conferito solo nel 1922 e quell’anno Einstein non poté nemmeno recarsi a Stoccolma per ritirarlo. Quando la notizia lo raggiunse, si trovava infatti in mare, tra gli Stati Uniti e il Giappone dove era diretto, e gli fu assolutamente impossibile partecipare alla cerimonia di Stoccolma. Ma poiché per poter ricevere il premio in denaro, non soltanto il riconoscimento, era indispensabile tenere una Nobel Lecture, Einstein giunse finalmente in Svezia nel 1923.
Invitato da Svante Arrhenius (Premio Nobel 1903 per la Chimica) a Göteborg, l’11 luglio 1923 vi tenne una celebre lezione su Idee e problemi fondamentali della teoria della relatività, lezione che tuttavia non illustrava il lavoro per il quale gli era stato attribuito il Premio Nobel. Ma poiché la gente era ben più interessata alla nuova e straordinaria teoria della relatività che all’effetto fotoelettrico (la motivazione ufficiale del premio), gli fu espressamente chiesto di parlarne. Ciò che fece ben volentieri di fronte al re di Svezia
Gustavo V, in un’aula gremita, alla 17ma Conferenza Scandinava delle Scienze Naturali organizzata durante l’esposizione mondiale per il giubileo di Göteborg (in svedese Jubileumsutställningen i Göteborg), tenutasi in occasione del 300° anniversario della fondazione della città.
Questa tardiva lezione tenuta nel 1923 a Göteborg, invece che a Stoccolma, su un argomento estraneo al premio, divenne tuttavia la Nobel Lecture di Einstein (e fu pubblicata come tale) per il suo Premio Nobel del 1921 vinto nel 1922!
Ora che le carte della Reale Accademia Svedese delle Scienze sul caso Einstein non sono più secretate, scoprire quanto fu difficile premiare il plurinominato e famosissimo fisico teorico è quasi surreale. Il motivo per cui il Premio Nobel venne sospeso nel 1921 e non venne attribuito a nessuno fu proprio l’accesa controversia in seno al Comitato Nobel sulle rivoluzionarie teorie di Einstein della relatività ristretta e della relatività generale (cioè della gravità). Il problema fu brillantemente risolto da Carl Wilhelm Oseen (fisico matematico dell’Università di Uppsala, entrato a far parte del Comitato Nobel per la fisica nel 1922) che riuscì a proporre un duo i cui lavori erano a suo modo di vedere correlati: il professor Albert Einstein, di Berlino, come Premio Nobel 1921 per l’effetto fotoelettrico («indipendentemente dal valore che, previa conferma, potrebbe essere attribuito alle teorie della relatività e della gravità») e il professor Niels Bohr, di Copenhagen, come Premio Nobel 1922 per la struttura dell’atomo.
Einstein è l’unico Nobel la cui motivazione del premio indica anche per cosa non risultò vincitore. Forse si trattò di una deliberata scelta degli accademici svedesi per lasciargli la chance di poterne poi ottenere un altro. Il che però non avvenne.
Alcuni mesi prima delle conferenze bolognesi di Langevin, e precisamente l’8 febbraio 1923, Enriques aveva preso di nuovo la penna per scrivere ad Einstein. Questa volta però per gravi ragioni. Enriques, infatti, nel richiamare gli «indimenticabili giorni» di Bologna e nell’informarlo del suo trasferimento a Roma, gli ricordava il «desiderio che molti avrebbero in Italia di averLa qui stabilmente fra noi [...]» anche perché circolavano voci che le condizioni a [Berlino] fossero mutate e che per ragioni di antisemitismo Einstein non si trovasse più bene e stesse per lasciare quel posto e anche la Germania. «Se così è» – egli prose-
guiva – «rinasce la speranza di poterLa guadagnare, in qualche modo al nostro Paese. [...] Io mi sono limitato a parlarne col Ministro della P. Istruzione, che è il filosofo idealista prof. Gentile, ed egli mi ha autorizzato – sebbene in stretta confidenza – a dirLe che è per parte sua disposto ad accogliere molto volentieri una iniziativa in proposito».
Einstein, profondamente commosso, rispose pochi mesi dopo declinando l’invito:
«Caro collega, la Sua lettera mi ha molto commosso, e devo confessarLe apertamente che preferirei la compagnia Sua, e di Levi-Civita, a quella dei mie colleghi qui. Ma [...] sono molto legato al mio attuale ambiente da rapporti famigliari, d’amicizia e d’affari. Alla mia età non è poi così facile cambiare ambiente [...] Ma se in futuro mi sentirò costretto, per l’aggravarsi della situazione, ad abbandonare questo mio nido, mi rivolgerò subito a Lei con gioia e fiducia». Grande – nei ricordi di Adriana Enriques – fu la delusione dello stabile romano di via Sardegna ove abitavano tanto gli Enriques quanto i Levi-Civita; e tuttavia occorreva informare celermente – lo sapeva bene Enriques – il ministro Gentile, un personaggio da non offendere!
«Caro Ministro, mi affretto a comunicarLe la risposta ricevuta da Einstein […] Einstein esprime la più viva gratitudine per l’idea avuta a suo riguardo e anche la maggior simpatia pei colleghi con cui qui si troverebbe, ma dice che ormai egli si è foggiato a Berlino un circolo ristretto nel quale vive e che gli sarebbe difficile di lasciare. Alla mia età in genere non è così facile cambiare ambiente, perché non si è più abbastanza elastici per amalgamarsi con uno nuovo. Einstein aggiunge espressioni di simpatia per il nostro Paese e finisce la lettera dicendo che – se in avvenire – dovesse pensare a cambiare ambiente si rivolgerà a me in tutta confidenza».
Secondo Adriana, il tentativo di chiamare Einstein in Italia fu ripetuto dieci anni dopo. Ma questa volta – come ebbe a precisare – fu Mussolini in persona ad opporsi; a quel tempo l’atmosfera politica era profondamente mutata da quando il regime fascista nel 1925 si era tramutato in una vera e propria dittatura. A metà ottobre del 1933 Einstein perseguitato dal regime nazionalsocialista, emigrò negli Stati Uniti per non tornare mai più in Europa, senza dimenticare, però, l’Italia, come ebbe modo di scrivere a Benedetto Croce nel 1944 augurandosi «che la sua bella patria» che «amava tanto da fanciullo fosse presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro». ■
Niels Bohr e Albert Einstein nel 1925, premi Nobel per la fisica nel biennio 1921-22.
«Non è un libro divulgativo destinato al grande pubblico, è un libro di testo che nasce dalle mie note per il corso universitario di introduzione alla teoria della relatività, che ho insegnato per molti anni, prima negli Stati Uniti e poi in Francia. Un manualetto introduttivo, sintetico. Cerca di presentarne in modo profondo ma semplice le basi concettuali, filosofiche, fisiche e matematiche, e riassumerne la struttura e i risultati più importanti: onde gravitazionali, espansione dell’universo, buchi neri… gli straordinari fenomeni previsti dalla teoria, la cui verifica in anni recenti ha fatto piovere premi Nobel sulla comunità di ricerca dei «relativisti». Per me la relatività generale è stata un grande amore. Ma lo sforzo di «capirla» è stato un lungo percorso che non si è mai davvero concluso. Come capire un grande amore, d’altronde.
La teoria è un salto avanti strepitoso nella nostra comprensione del mondo, di quelli che ci vuole tempo per digerire a fondo. Einstein, dopo averne completato le equazioni nel 1917, è tornato molte volte sul significato della sua teoria, cambiando ripetutamente idea sul modo in cui intenderla. A mio giudizio, la versione migliore che ne dà è in uno scritto tardo, degli anni Cinquanta. Oggi non si discute più su cosa la teoria predica. Ma si discute ancora su come meglio pensarla.
In sintesi, la relatività generale è la scoperta che due entità che credevamo essere diverse sono in realtà
la stessa. Una è il campo gravitazionale, il fratellino del campo elettrico, che trasmette la forza di gravità come il campo elettrico trasmette la forza elettrica. L’altra è lo spazio in cui siamo immersi. Anzi, lo «spaziotempo», che è un po’ la casa dentro cui vive la realtà. Quando si scopre che due cose sono in realtà la stessa, se ne può eliminare una. Molti, tra cui all’inizio anche Einstein, hanno esclamato «Ah! Ma allora il campo gravitazionale in realtà è lo spaziotempo (che si incurva)». Qualcun altro però preferisce guardare la cosa dal punto di vista opposto: «Ah! Ma allora lo spaziotempo, la casa dentro cui succedono le cose, non è altro che il campo gravitazionale!». Tra questi c’è Einstein nelle sue riflessioni più mature. Secondo me questa seconda prospettiva, forse meno comune, è più lungimirante. Non perché i due punti di vista portino a predizioni diverse. In fondo si tratta solo di nomi. Ma ai nomi sono associate immagini intuitive potenti, i nomi si legano naturalmente ad altre idee, e orientano il pensiero in un modo o nell’altro. Il grande fisico americano Richard Feynman ha scritto che un buon scienziato tiene in mente modi equivalenti per comprendere gli stessi fenomeni, perché uno fra gli altri si rivelerà poi più efficace. Il lavoro della mia vita è cercare di estendere la teoria di Einstein per includere anche gli aspetti quantistici della gravità. Per farlo, è necessario prendere la teoria dal verso giusto». (Carlo Rovelli)
Colpi di scena, svolte imprevedibili e scenari alternativi. Molti storici, antichi e moderni, non hanno saputo resistere al fascino di un esercizio controfattuale.
Luca FezziCon i “se” e con i “ma” la storia non si fa», recita un noto proverbio.
Anche Benedetto Croce, ne La storia come pensiero e come azione (Bari, 1938), ragionando sul significato storico della necessità, criticò pesantemente il “se”, antistorico e illogico. Esso, infatti, divide «arbitrariamente l’unico corso storico in fatti necessarî e fatti accidentali», come un «giocherello che usiamo fare dentro noi stessi, nei momenti di ozio o di pigrizia, fantasticando intorno all’andamento che avrebbe preso la nostra vita se non avessimo incontrato una persona che abbiamo incontrata, o non avessimo commesso uno sbaglio che abbiamo commesso». Come sarebbe possibile esprimere giudizi su ciò che non è stato, magari da parte di chi, in seguito a diverse esperienze di vita, avrebbe fatto in tempo a maturare altra sensibilità? Al ragionamento di Croce si potrebbe più prosaicamente aggiungere che molti giudizi paiono mutare con disinvoltura in base al momento, individuale e storico.
Bersaglio dichiarato del filosofo era l’opera di CharlesBernard Renouvier. Il pensatore francese, anch’egli liberale, aveva dato alle stampe, nel clima di disfatta dei primi anni della Terza Repubblica, l’Uchronie, ovvero l’utopie dans l’histoire, il cui eloquente sottotitolo recitava: Esquisse historique apocryphe du développement de la civilisation européenne tel qu’il n’a pas été, tel qu’il aurait pu être (Parigi, 1876).
Il fatto storico arbitrariamente modificato, e posto alla base di esiti straordinari, era la successione all’imperatore filosofo Marco Aurelio. Essa non sarebbe avvenuta con il figlio naturale Commodo – che godette sempre di “stampa” pessima, peraltro rilanciata dall’ormai ventennale successo del film Il Gladiatore di Ridley Scott –, bensì con Avidio Cassio, in realtà usurpatore ucciso nel 175 d.C. dai suoi stessi soldati, ma che, si dice, Marco Aurelio avrebbe voluto perdonare. Renouvier sviluppò quest’ultima possibilità. Il ribelle spiegò all’imperatore che voleva affrontare con decisione i molti problemi di Roma. Tra questi, l’estinzione della plebe, l’usurpazione dell’elemento militare, il fanatismo antiromano dei cristiani. Avidio Cassio chiedeva di essere adottato, mettendo così da parte Commodo, che accusava di essere figlio di un gladiatore. L’imperatore finì con l’accettare, e i due diedero vita a grandi riforme. Tra esse, la cittadinanza per ogni uomo libero o affrancato delle provinciae occidentali, vantaggi per i coltivatori, servizio militare obbligatorio con riduzione della ferma a soli tre anni (per i soldati, allora solo professionisti, era di più di venti), introduzione di diritti civili per le donne, revoca della cittadinanza per i cristiani. Costoro,
durante i regni dei successori, finirono per concentrarsi nelle provinciae orientali. A mutare fu la stessa religione pagana, da culto delle divinità a culto dei lari dei grandi imperatori. Quando, infine, l’impero si dissolse, in Oriente trionfarono le “sette” cristiane, in perenne conflitto tra loro. Nel frattempo, ebbero luogo le invasioni barbariche e si sviluppò la religione maomettana. Mentre l’Occidente, ormai diviso in repubbliche, manteneva il dominio sul mare, contro di esse dall’Asia partirono crociate di cristiani, per l’occasione alleati con i musulmani. Si ebbero poi la scoperta del Nuovo Mondo, le guerre commerciali, gli scontri sociali. Il pensiero greco e romano, però, mai venuto meno, plasmò l’Occidente in forma politica di federazione.
L’Uchronie – neologismo creato a partire dal greco antico, a indicare il “non tempo”, speculare all’utopia, il “non luogo” – diede nome a un genere letterario, quello delle “ucronie”, ora meglio note come storie “virtuali”, “alternative” o, nella loro declinazione meno narrativa e più storiografica, “controfattuali”. Gli diede anche nuovo impulso, sebbene il ragionamento controfattuale fosse già diffuso nella letteratura e nella storiografia a partire dall’antichità greco-romana, e avesse trovato nuova fortuna da almeno un secolo. Ma ricordiamo che già nella seconda metà del Seicento un altro francese, il filosofo Blaise Pascal aveva formulato, nelle Pensées, due ipotesi celebri. La prima riguardava Oliver Cromwell, il quale, se un granello di sabbia non fosse entrato nella sua uretra, avrebbe avuto la meglio sulla cristianità e sulla famiglia reale inglese. La seconda riguardava gli effetti dell’amore e della vanità: «Se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata».
Bersaglio di Renouvier erano, evidentemente, le letture storiche deterministiche, finalistiche, in voga almeno sino a quando l’idea di “progresso” pareva ancora percorribile. Circa sessant’anni prima, il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel, durante i corsi universitari sulla filosofia della storia, pubblicati postumi, aveva addirittura plasmato l’immagine di una Storia mossa dalla Ragione, dove Roma giocava, nei destini del mondo, un ruolo decisivo quanto predeterminato. E a sua volta Croce, liberale ma storicista e influenzato da Hegel, attaccò Renouvier.
Ma già da subito, prima ancora la storia stessa mettesse in crisi la fiducia nella Ragione, Hegel si era attirato le critiche di due illustri colleghi e connazionali, Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche. Il primo, ritenendo le scelte umane, sì, obbligate, ma dall’ingestibile volontà individuale, chiarì la funzione tranquillizzante del concetto di “necessità”: «un male che ci incolga è
meno tormentoso che il pensiero delle circostanze in cui avremmo potuto evitarlo […] non c’è dunque altra consolazione che il fatalismo» (Il mondo come volontà e rappresentazione, Lipsia, 1819). Il secondo si spinse a scrivere che «né gli eventi nella vita del singolo né quelli della storia hanno un corso necessario, il corso cioè di una necessità razionale» (Appunti filosofici 1867-1869) e che, di conseguenza, «tutta la storia è stata scritta sinora dal punto di vista del successo» e la «domanda: “Che cosa sarebbe accaduto se non fosse sopravvissuta questa o quest’altra cosa?” viene respinta quasi concordemente, e tuttavia è proprio la domanda cardinale, attraverso cui tutto si trasforma in qualcosa d’ironico» (Frammenti postumi, 1875-1876).
Eironeía nel senso greco, originario, di “dissimulazione”, perché il rapporto tra storia e destino, si sa, è un problema da prendere sul serio. Ciò vale anche nel caso di Roma, sebbene proprio il suo successo storico, che l’ha portata a divenire “città eterna”, renda la controfattualità particolarmente straniante, e per questo utile, non solo a comprendere ma anche a movimentare un’immagine cristallizzata.
Già nei tempi antichi il contemporaneo successo di Roma aveva suscitato riflessioni, spesso provocatorie, sulle “svolte” che avevano determinato la fortuna della città e del suo impero. Proviamo a passare in rassegna le maggiori.
Il carattere casuale del momento stesso della “fondazione” fu ben messo in luce ne La fortuna dei romani, opera del filosofo greco Plutarco di Cheronea, sincero ammiratore dell’Urbe. In essa si conteggiava, tra i molti casi positivi vissuti dalla città dei sette colli, la sopravvi-
venza del fondatore Romolo a un tentato infanticidio. Si trattava però, dicevamo, di una provocazione. Un mondo senza Roma era già allora – e sarebbe, a maggior ragione, oggi – inimmaginabile. Nessuno di noi sarebbe venuto alla luce, perlomeno negli stessi tempi e luoghi. E questa è una considerazione puramente probabilistica, biologica. Se poi teniamo conto dell’apporto culturale, senza la città di Romolo non ci sarebbero stati Medioevo, Rinascimento, Modernità e molto altro.
Se ragioniamo da storici possiamo, però, dire che un mondo senza Roma sarebbe, comunque, improbabile. Il luogo dove essa sorse, all’incrocio tra la via costiera che andava dalla Campania all’Etruria e il Tevere, il maggiore fiume dell’Italia centrale, e ai confini tra mondo etrusco, latino e sabino, si prestava troppo bene ad accogliere una città di successo. Un polo alternativo avrebbe potuto affermarsi sempre sul Tevere ma più all’interno, senza potere però contare sul guado dell’isola Tiberina e sulla fortezza naturale del Campidoglio.
Altro momento-chiave fu il passaggio da monarchia a res publica, ciò che avvenne, secondo la leggenda, nel 509 a.C., quando l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, fu scacciato dalla città. La ribellione, ricorda Tito Livio, era nata dalla violenza compiuta dal figlio di Tarquinio nei confronti di Lucrezia, moglie del patrizio Collatino. Ma a tale violenza, sempre secondo lo storico latino, si era giunti a causa di una futile contesa tra i due uomini, dovuta anche a qualche bicchiere di troppo.
In realtà il passaggio verso ordinamenti “democratici” era una tendenza in atto in molte città d’Italia e Grecia.
Durante il sacco gallico di Roma, nel 390 a.C., il caso, almeno secondo Livio e Plutarco, giocò un ruolo ancora
maggiore. Allora le oche del Campidoglio, svegliate da un gruppo di celti che tentava, attraverso una scalata notturna, d’impadronirsi della rocca, diedero l’allarme, salvando la città e il suo onore.
Anche in questo caso, in realtà, le cose andarono forse in altro modo. Quella dei celti fu una scorreria, non un’invasione, e non è neppure certo che il Campidoglio fosse riuscito a resistere e che l’Urbe non fosse stata recuperata grazie a un lauto riscatto.
Ulteriore “fortuna” di Roma, sempre secondo Plutarco, fu la prematura morte di Alessandro il Grande, il quale, se non si fosse spento nel 323 a.C., dopo la conquista dell’Oriente avrebbe intrapreso quella dell’Occidente. Anche Livio si chiese cosa sarebbe avvenuto, per concludere invece, patriotticamente, che i romani avrebbero vinto.
A partire da questa celebre “ucronia” lo storico inglese Arnold Toynbee produsse un vero e proprio racconto (Se Alessandro il Grande fosse sopravvissuto, Oxford, 1969). Seguiamolo. Il Macedone, ripresosi dalla malattia, s’impegnò nell’espansione marittima, e Alessandria d’Egitto divenne capitale. Cartagine cadde, dopo un’eroica resistenza, nel 319 a.C. L’avanzata in Occidente, tuttavia, incontrò ostacoli, e Alessandro scoprì una verità scomoda: il suo primo successo era stato “costruito” dai persiani, grazie alle strade. L’India ne era sprovvista, così come la Penisola iberica. Tornò allora indietro, per invadere quella italica attraverso il canale di Otranto, ciò che avvenne nel 317 a.C., con un attacco al Sannio. Era questa – nell’ucronia di Toynbee – la potenza che controllava la Penisola, dopo avere intrappolato, nel 320 a.C., le forze dei romani. Spedizioni partirono poi per l’odierno Punjab; il loro successo aprì la via dell’Occidente ai missionari buddhisti. Furono poi annessi, ancora più a Oriente, i Ch’in; nel 308 a.C., infine, una flotta giunse alla foce del Fiume Azzurro. Quando ormai l’intero mondo avrebbe dovuto solo essere governato, la salute di Alessandro crollò, portandolo a morire nel 287 a.C., a 69 anni. Il governo mondiale, però, gli sopravvisse.
Annibale, nato a Cartagine sotto il dominio macedone, non fu il generale che tutti conosciamo, ma un esploratore dell’Africa e un navigatore oceanico. Parimenti, Erone di Alessandria, scienziato realmente vissuto nel I secolo d.C., produsse invenzioni decisive, come la locomotiva e la nave a vapore. Una spedizione navale raggiunse così la foce dell’odierno Rio delle Amazzoni (scoprendo il Nuovo Continente). Fu poi costruita la prima ferrovia, da Alessandria all’odierna Suez, a fianco dell’antico canale che collegava il mar Rosso al Nilo e, dopo un decennio, la linea Nilo-Eufrate.
Al di là della fantasia di Toynbee, tra gli studiosi moderni c’è chi sostiene che l’avanzata verso ovest fosse nei piani di Alessandro. Ciò lo avrebbe condotto a una guerra non solo contro Roma ma anche contro Cartagine, soprattutto nel caso in cui egli avesse attaccato la Sicilia, in buona parte punica. Non sappiamo se sarebbe stato all’altezza della prova, non avendo egli mai condotto battaglie per mare. Inoltre, Cartagine si sarebbe alleata con Roma, così come avvenuto una quarantina di anni dopo, quando a puntare sulla Sicilia sarebbe stato Pirro, re dell’Epiro. E poi Alessandro avrebbe dovuto mettere in atto un non facile assedio dell’Urbe, impresa che neppure Annibale, più di un secolo dopo, si sarebbe sentito di affrontare.
A quest’ultima vicenda Livio dedicò un’altra celebre riflessione controfattuale. Al Cartaginese, il giorno stesso della vittoria di Canne, il 2 agosto 216 a.C., il comandante della cavalleria, Maarbale, propose di marciare sull’Urbe, che sarebbe stato possibile raggiungere, prometteva, in soli cinque giorni. Il condottiero, prese tempo per decidere e l’altro, stizzito, lo accusò di non saper approfittare della vittoria sul campo. Sempre secondo Livio, quando Annibale, cinque anni dopo, marciò davvero contro Roma ma si trovò a mal partito, ammise che la prima volta gli era mancata la volontà, la seconda, invece, l’occasione.
Ma da Canne, oggi Canne della Battaglia, nella lontana Puglia, sarebbe stato possibile giungere a Roma
Docente di Storia romana all’Università degli Studi di Padova, ha all’attivo numerosi contributi specialistici su temi di storia, economia e diritto del mondo greco e romano, e di ‘fortuna’ dei modelli antichi nel pensiero politico moderno e contemporaneo. Tra le sue pubblicazioni: Cesare. La giovinezza del grande condottiero, Mondadori 2020; Pompeo, Salerno editrice 2019; Il dado è tratto. Cesare e la resa di Roma, Laterza 2017. Il suo ultimo libro è Roma in bilico, Mondadori 2022.
così rapidamente e, soprattutto, ciò sarebbe servito?
Come ha sottolineato la critica moderna, l’impresa avrebbe potuto essere realizzata solo dalla cavalleria, inadatta ad assediare una città. Ogni effetto-sorpresa, poi, sarebbe stato vanificato dalle staffette romane. Per tale ragione c’è chi colloca il progetto un anno prima, dopo la battaglia vinta dai cartaginesi sulle sponde del ben più vicino lago Trasimeno. In ogni caso, l’impresa di Annibale si sarebbe impantanata in un assedio, reso difficile dalla logistica e dalla fedeltà degli alleati italici. A tale proposito il generale Bernard Law Montgomery, nella sua Storia delle guerre (Londra, 1968), si lascia sfuggire un sibillino «Maarbale aveva ragione», non perché il consiglio di marciare su Roma fosse buono, ma perché il condottiero cartaginese non era preparato per un assedio. Con una flotta ormai drammaticamente ridotta, il Cartaginese era giunto via terra dalla Spagna per portare lo scontro a est, sperando che le popolazioni locali si sollevassero contro i romani. Alcune lo fecero, ma l’insieme di alleanze, nel complesso, resse. Forse Annibale attendeva Filippo V di Macedonia, la cui flotta avrebbe potuto creare un blocco navale sull’Urbe. Ma sempre Livio narra che il discendente di Alessandro, per circostanze casuali ma soprattutto mancanza di coraggio, non prestò fede agli accordi. E così Annibale, dopo altri tentativi e vicende, si trovò infine costretto ad abbandonare la Penisola italica.
Per quanto riguarda poi le guerre civili, le “ucronie” si sprecano. Lo stesso Cesare constatò che «la fortuna, potentissima in tutto e specialmente in guerra, produce in pochi istanti profondi sconvolgimenti» (Guerra civile, 3,68,1). L’inarrestabile condottiero giunse ad ammettere che a Durazzo, nel 48 a.C., sarebbe stato sconfitto, se solo il nemico Pompeo Magno avesse usato minore prudenza. Ma anche Napoleone sostenne che, se Pompeo non avesse abbandonato Roma, avrebbe vinto contro Cesare (Le guerre di Cesare, pubblicato postumo nel 1835). Plutarco – seguito da altri autori – presuppone inoltre che il dittatore avrebbe potuto scampare ai suoi assassini, i “repubblicani”) e vincere la battaglia di Filippi (42 a.C.), così come Marco Antonio e Cleopatra VII quella di Azio (31 a.C.).
Intendiamoci: da un punto di vista storico, il destino della res publica, segnato da insufficienze istituzionali ben chiare, era segnato: alcuni episodi accelerarono semplicemente il decorso. Tra questi, le inaspettate sconfitte di Pompeo nella piana di Farsaglia (48 a.C.) e dei “repubblicani” presso Filippi.
Spostandoci nell’età del principato, molte fonti antiche, sempre con il senno del poi, evidenziano l’eccessiva fiducia
del governatore Publio Quintilio Varo nei confronti del cherusco Arminio, il quale – vincendo anche i consigli degli amici – permise, nel 9 d.C., in Germania, nella selva di Teutoburgo, l’annientamento di ben tre legioni.
Le conseguenze del disastro furono immense. La reazione romana fu resa inutile da una seconda sciagura, avvenuta sette anni dopo: il naufragio di una flotta nel mare del Nord. A quel punto l’imperatore Tiberio decise di ridimensionare le ambizioni geopolitiche di Roma, arretrandone la sfera d’influenza dal fiume Elba al più occidentale Reno. Se Varo avesse ascoltato i consigli, non sarebbe caduto nella trappola. Il problema però è: ciò sarebbe stato sufficiente a garantire l’espansionismo di Roma? La geografia della Germania e il suo popolamento favorivano agguati e imboscate. Quindi, se non Varo, un altro dopo di lui avrebbe potuto fare la stessa fine. A meno che, naturalmente, la “romanizzazione” della Germania non fosse avvenuta, come già osservava una fonte antica, in maniera molto graduale. Ciò avrebbe potuto rallentare il crollo definitivo dell’Impero romano d’Occidente, la nascita dei regni romano-barbarici, l’occupazione longobarda dell’Italia, andando a mettere in forse ogni successivo fenomeno ed evento storico riguardante la Germania, sino al Secondo e al Terzo Reich e, a cascata, i due conflitti mondiali e la Guerra fredda. Le ricadute linguistiche e culturali sarebbero state altrettanto grandi. Molto più verosimilmente, l’irrevocabile decisione di Tiberio fu, allora e ancora per qualche decennio a venire, la più logica.
Molti ragionamenti controfattuali interessano, infine, il declino della romanitas occidentale.
Più volte il grande storico inglese Edward Gibbon, nella Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-1788) si chiese cosa sarebbe stato “se”, in particolare riguardo agli errori di Massenzio prima della battaglia di Ponte Milvio (312 d.C.) e a quelli di Valente prima di quella di Adrianopoli (378 d.C.). Parimenti, lo storico svizzero Jacob Burckhardt, nelle Considerazioni sulla storia universale (pubblicate postume nel 1905), ha sostenuto che, senza la legislazione di Costantino e quella di Teodosio, il paganesimo sarebbe sopravvissuto sino a oggi. Se si considerano poi le teorie, antiche e moderne, sulla fine della romanitas occidentale, esse superano il numero di duecento, rendendo il “gioco” controfattuale, potenzialmente, infinito. Ma non è un male, perché, tutto sommato, i “se” alla storia non nuocciono più di tanto; spesso, anzi, confermano quanto avvenuto, isolando gli irrealizzati possibili di un passato unico e immutabile. ■
L’Italia è disseminata di storie di ricerca e di passione. Il nostro è infatti un Paese di eccellenze spesso ignorate dalla società e dalle istituzioni. Questa rubrica aspira a diventare il luogo dove raccontare storie di donne e uomini di scienza e delle loro domande. Iniziamo con l’etologo Donato Grasso.
Elena CattaneoUno degli aspetti più affascinanti della scienza
è l’incredibile varietà delle attività di ricerca, accomunate da un solo metodo. Ci sono studiosi alle prese con la decifrazione delle scritture antiche, altri con la ricerca sull’intelligenza artificiale, altri ancora mossi dal tentativo di raggiungere le stelle più lontane o capire gli insetti più piccoli, una malattia o le eruzioni vulcaniche. Alla base di tutto c’è una domanda. Ma come nasce la scintilla che illumina il primo istante di una ricerca? E come si accumulano le prove per rispondere con un “sì” o con un “no” a quella domanda e arrivare a conoscere domani ciò che oggi non conosciamo?
«Fin da bambino ho manifestato una particolare attrazione nei confronti dei comportamenti degli animali, con un’attitudine alla ricerca, alla volontà di comprendere i fenomeni e i meccanismi che li generano e li caratterizzano». Risponde così Donato Grasso, etologo, professore ordinario dell’Università di Parma, autore del libro Il Formicaio intelligente (Zanichelli, 2018), esperto di mirmecologia (la branca dell’entomologia che si occupa della vita e dei comportamenti delle formiche) i cui studi ci rivelano meccanismi relazionali individuali e collettivi a tratti traslabili anche alle organizzazioni sociali umane. Complice il giardino di casa («che offre spunti di ricerca e di esplorazione quanto la foresta tropicale»), l’interesse di Grasso si è concentrato sugli insetti, che rappresentano oltre il 60% delle specie descritte del mondo animale.
«Le formiche sono animali familiari a tutti, ma sconosciuti in molte delle loro abitudini. Studiarle è un modo per sperimentare un principio generale dell’avventura scientifica: indagare l’inesplorato, ovunque si trovi, ai confini della conoscenza. Secondo il grande biologo E.O. Wilson, uno dei miei mentori, sarebbe possibile dedicare un’intera vita a un viaggio, simile a quello di Magellano, ma intorno al tronco di un solo albero». Studiando il loro variegato mondo, apprendiamo che questi piccoli insetti comunitari sono tra i più diffusi: miliardi di individui distribuiti nelle oltre 14mila specie attualmente descritte, di cui 270 in Italia. Meno diffusa è la consapevolezza di quanto, nel loro piccolo, possano insegnarci. Ma come si “studiano” le formiche?
Proviamo a immaginarle nel nido, a migliaia, in movimento, dentro e fuori. Dormiranno? Quanto? Come? E chi le comanda? Io pensavo le comandasse una “monarca” e invece gli studiosi hanno capito che non è così. Quella delle formiche resta una società
matriarcale dove i maschi, utili quasi solo alla riproduzione, vivono poche settimane, ma sono le decisioni (a volte persino casuali) di pochi individui a produrre un effetto collettivo sulla massa che poi si auto-organizza. Questi insetti, infatti, alla dimensione individuale ne affiancano una sociale straordinariamente avanzata. Per capire come funzionano le loro colonie è necessario letteralmente “zoomare” nel corpo, nel cervello di questi singoli organismi e studiarne i meccanismi, penetrando nel mondo cellulare e in quello molecolare per poi ritornare alla dimensione collettiva che ingloba il singolo. Così è possibile capire le regole che governano le loro società e le conseguenze importanti persino nelle dinamiche ecologiche.
Come ogni ricercatore anche Grasso aveva la “sua domanda”, l’interrogativo che ha tormentato le sue giornate alla ricerca di una risposta che, nell’attimo in cui arriva, fa quasi esplodere il cuore. «Per me si trattava di capire come certe formiche organizzassero le loro scorrerie per saccheggiare le colonie di altre specie allo scopo di catturarne la prole da cui ottenere delle “schiave”; come individuassero il nido bersaglio e come lo saccheggiassero senza opposizione da parte delle residenti. Erano interrogativi a cui nessuno aveva dato una risposta convincente».
Appare avvincente, questa storia che riecheggia le “gesta predatorie” di tante popolazioni del nostro passato. Ho chiesto a Grasso di raccontarmela.
«Le Polyergus rufescens, le Amazzoni (tutte femmine guerriere), sono formiche schiaviste (più tecnicamente “dulotiche”, dal greco dulos, schiavo). Si muovono in migliaia, ben organizzate, in una schiera compatta a formare un serpentone rosso lungo alcuni metri. Giunte al nido bersaglio, entrano in un sol colpo, scomparendo improvvisamente; in pochi minuti ne riemergono, ciascuna portando tra le mandibole le pupe delle formiche residenti, a centinaia. La prole razziata viene “allevata” nella nuova colonia; le operaie che ne emergeranno una volta adulte saranno completamente integrate nella nuova società e utilizzate come forza lavoro nella colonia adottiva. Svolgeranno mansioni domestiche, a cui le operaie parassite non sono adatte: dalla cura della prole e della regina alla manutenzione e difesa del nido, alla raccolta del cibo. Si forma quindi una colonia mista fatta di due specie diverse: le razziatrici guerriere e parassite e le loro schiave lavoratrici “inconsapevoli” che la loro cooperazione è stata carpita con l’inganno». Provo a
immaginarlo, Grasso, mentre conduce le sue osservazioni e gli esperimenti sul campo, mesi in natura a sporcarsi le mani, per poi rientrare in laboratorio a elaborare ipotesi, condurre esperimenti, analisi matematiche e chimiche, fino a sbrogliare l’enigma. Lui e il suo gruppo hanno impiegato anni a sperimentare, insieme a scienziati di diverse discipline. Dapprima hanno marcato le formiche per poterle identificare individualmente tramite codici di colori applicati sul loro dorso. Operazione non semplice e degna di un miniaturista: bisogna letteralmente catturare gli individui, uno a uno, trattenerli delicatamente, poi con pennarelli non tossici applicare la combinazione di colori identificativa (rosso-rosso, rosso-bianco e così via), il tutto in modo rapido, preciso, sperimentalmente documentabile. Seguendone il percorso anche per 200 metri, registrandone il tragitto e manipolandone il comportamento hanno dimostrato che le colonie di Amazzoni si affidano ad operaie esploratrici (scout) per la scelta del nido da razziare. «Si tratta – spiega Grasso – di operaie con dotazione sensoriale e capacità percettive e elaborative fuori dal comune: sanno valutare la posizione del nido bersaglio rispetto a casa, la specie e anche il grado di reattività. Partono in tarda mattinata per le loro lunghissime esplorazioni»”.
Una volta che le scout hanno identificato il nido, le Amazzoni razziatrici, per saccheggiare senza essere contrattaccate, utilizzano una piccola ghiandola situata alla base delle mandibole che produce una secrezione di “propaganda”: l’effetto è disorientare le formiche residenti al momento dell’incursione. «Ogni razziatrice ne produce piccole quantità; quando sono migliaia, l’effetto nel nido è un fuggi-fuggi generale che favorisce il saccheggio della prole lasciata incustodita dalle residenti, prese dal panico».
COME TORNANO A CASA?
Un altro aspetto curioso delle esplorazioni mattutine delle Amazzoni scout è che il percorso del ritorno a casa è sempre più breve e rettilineo dell’andata.
Ecco quindi un secondo interrogativo: come fanno a sapere dov’è “casa” in qualunque punto si trovino? Le Amazzoni (scoprono Grasso e collaboratori), al pari delle formiche deserticole del genere Cataglyphis, tornano al nido usando un meccanismo di orientamento chiamato path integration (integrazione del percorso) che si basa su un calcolo vettoriale: nel percorso di andata la formica registra e integra nel suo sistema nervoso centrale ogni spostamento; ciascun tratto può essere considerato come un vettore (definibile dalla
distanza percorsa e dalla direzione di movimento). Quando la formica decide di tornare a casa, l’integrazione di questi vettori produce un vettore “di rientro” che indica direzione e distanza da seguire per rientrare al nido in linea retta, indipendentemente da quanto tortuoso sia stato il percorso di andata. Per calcolare le direzioni degli spostamenti, queste formiche si servono della posizione del sole o, se coperto, di un parametro a essa correlato, il pattern di polarizzazione della luce nel cielo. Per quanto riguarda la lunghezza dei vettori e quindi il calcolo della distanza percorsa, il meccanismo utilizzato da Polyergus non è ancora noto ma potrebbe essere simile a quello evoluto da altre specie. Ad esempio, si è scoperto che le formiche del deserto sahariano Cataglyphis fortis, per calcolare le distanze percorse, fanno affidamento su una specie di contapassi interno. L’esperimento congegnato dagli studiosi consisteva nel disporre cibo a circa 10 metri di distanza dal nido delle formiche e poi nel modificare la lunghezza delle loro zampette. Ad alcune le hanno allungate con dei “trampoli”, ad altre accorciate. Ebbene, le formiche con le zampe più corte si fermavano prima di raggiungere il nido: i passi erano giusti nel numero ma insufficienti in lunghezza. Quelle con le zampe più lunghe, invece, superavano il nido perché ad ogni passo percorrevano più strada.
Sembra tuttavia che questo non sia il solo modo di calcolare le distanze. Una specie affine, Cataglyphis bicolor, non si basa solo sulla conta dei passi ma anche sul flusso ottico percepito durante i movimenti, in pratica la velocità di spostamento dei riferimenti visivi intorno a sé. Come si è capito? A volte accade che alcuni individui ne trasportino altri verso un luogo dove c’è bisogno di forza lavoro, sollevandoli
ELENA CATTANEO«Da circa trent’anni dedico la mia vita alla ricerca su una malattia ereditaria neurodegenerativa, la Còrea di Huntington: molti progetti, molti giovani coinvolti, molti risultati – raggiunti anche dopo vari fallimenti – di cui sentiamo, come ogni studioso sente, tutto l’orgoglio e la responsabilità. Nel 2013 sono stata nominata dal Presidente della Repubblica Senatrice a vita per meriti scientifici. Su queste pagine proverò a portare un po’ di luce nei tanti “coni d’ombra” in cui si trova confinato lo straordinario mondo della ricerca italiana». Nel 2021 Elena Cattaneo ha pubblicato Armati di scienza, Cortina Editore.
tra le mandibole (si parla di social carrying). In questo caso, l’individuo trasportato, sebbene non abbia camminato attivamente, riesce comunque a calcolare la distanza grazie a questo meccanismo basato sul flusso di immagini. In alcuni esperimenti, infatti, si è verificato che, pur separato dalla compagna che lo stava trasportando, riesce a ritornare correttamente a casa senza aver “mosso” (e quindi contato) neanche un passo durante l’andata.
Una molteplicità di capacità computazionali e di orientamento così sofisticate da lasciare attoniti, per un cervello più piccolo della punta di uno spillo.
UNA NUOVA SPECIE DI FORMICA ITALICA
Può sembrare strano che, ancora oggi, nel nostro territorio apparentemente esplorato in ogni minimo anfratto, ci siano specie non note all’uomo. Eppure, non di rado, grazie a tecniche di analisi sempre più sofisticate, i ricercatori ne scoprono di nuove. Un lavoro del 2021 del team guidato da Grasso all’Università di Parma, tratta proprio della scoperta e descrizione di una nuova specie di formiche in Italia. Mi racconta con orgoglio come è avvenuta la scoperta: «Il punto di partenza è stata l’etologia che ha permesso di evidenziare peculiari comportamenti mai studiati e descritti prima. Questo ha innescato la miccia. L’ipotesi che si trattasse di una nuova entità tassonomica separata da un’altra specie simile presente in Italia e con la quale è sempre stata confusa (Colobopsis truncata) è stata confermata da evidenze etologiche, morfologiche, ecologiche, genetiche e biogeografiche. Questa nuova specie è stata denominata Colobopsis imitans. Il nome specifico “imitans” è dovuto proprio ad alcune caratteristiche di queste formiche che imitano nel colore e nel comportamento un’altra specie di formiche arboricole molto comuni (Crematogaster scutellaris). In pratica si muovono lungo le loro piste di foraggiamento e ne seguono i percorsi intrufolandosi tra le fila delle foraggiatrici, forse per godere della protezione del numero (una diluizione del rischio di subire predazione) o del vantaggio di assomigliare a un modello aggressivo e poco appetibile per un predatore».
Il lavoro è stato pubblicato sulla stessa rivista su cui nel 1858 Charles R. Darwin e Alfred R. Wallace pubblicarono per la prima volta la teoria evolutiva per selezione naturale. «Una pietra miliare per la biologia moderna – commenta Grasso – fondamento anche della scoperta di cui siamo stati protagonisti. Senza quella teoria raccontata a tutto il mondo non saremmo mai giunti a questa scoperta».
Nel riflettere sugli inaspettati comportamenti sociali delle formiche, funzionali alla sopravvivenza del gruppo, viene spontaneo antropomorfizzare il mondo degli animali e di questi insetti in particolare. Ma Grasso mi avverte che sarebbe errato considerare il mondo delle formiche una versione miniaturizzata del nostro, in quanto l’uomo basa le proprie relazioni sulla conoscenza reciproca e la partecipazione emotiva, e organizza le attività in modo verticistico e gerarchizzato; nel “mondo delle formiche” invece la parola chiave è decentralizzazione. «Le loro attività collettive – puntualizza – sono svolte da individui ciascuno dei quali contribuisce al tutto con una azione guidata da regole. L’azione del singolo influenza le attività degli altri che adottano a loro volta la stessa o altre regole. Il prodotto finale ha proprietà superiori alla somma delle parti. Ma non c’è nessuno che dirige i lavori. Il cervello che governa il tutto è il gruppo. In ogni caso penso sia possibile comunque trarre qualche utile spunto di riflessione dalla loro peculiare organizzazione sociale. Penso ad esempio a questa cooperazione estrema: la “lotta” per l’esistenza si può vincere anche collaborando con gli altri».
Concordiamo che sia arrivato, per noi “Sapiens”, il momento di dimostrare di essere degni dell’appellativo che ci siamo dati. La natura offre storie avvincenti, che hanno attraversato il tempo e lo spazio fino a giungere a noi. Da oltre 3,5 miliardi di anni la diversità biologica è frutto di processi evolutivi irripetibili; ogni specie è un’esperienza singolare della storia della vita che vale la pena conoscere. È nostra responsabilità custodirle e salvaguardarle per le generazioni future. ■
Una poetica che, dal Medioevo fiorentino, si è irradiata ovunque: nella geografia, nella storia e nel tempo. Come sarebbe una storia universale della Divina Commedia?
Al termine dell’Epistola XII, cosiddetta All’amico fiorentino, Dante sigilla così il suo rifiuto di pagare una somma in denari per essere accolto nuovamente nella sua amata Firenze, dopo quindici anni di esilio: «Quidni? Nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? Nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium ymo ignominiosium populo Florentineque civitati me reddam?» (E che? Forse che non vedrò ovunque la luce del sole e delle stelle? Forse che non potrò da qualsiasi luogo sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi senza gloria e anzi con ignominia al popolo e alla città di Firenze?).
In queste parole, dettate ugualmente da profondo amore, spossatezza e orgoglio ferito verso la propria patria particolare, c’è già tutto il destino universale di Dante. Le sue speranze giovanili di amore e carriera politica si risolsero in catastrofe, ma la sua condizione di uomo in esilio fu ciò che permise alla sua visione particolare di acquisire una dimensione universale.
Non solo. Fu ciò che permise alla sua visione universale di acquisire una dimensione particolare nella vita e nelle opere di innumerevoli altre persone. Forse che la sua opera non è stata letta, tradotta, riscritta ubique sotto il cielo? È inutile speculare su cosa ne sarebbe stato della Commedia se Beatrice Portinari non fosse morta così prematuramente e se la carriera politica di Dante avesse inanellato un successo dopo l’altro. Ma l’uomo che visse la sua vita come «legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade» (Convivio I, 3, 5), è anche l’uomo che ha potuto scrivere: «Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor» (Ma noi, che abbiamo per patria il mondo come i pesci hanno il mare, De vulgari eloquentia, I, 6, 3). È una rimodulazione di un verso di Ovidio, poeta esule anch’egli, ma non ha nulla a che vedere con un’allegoria astratta o il citazionismo didascalico: vi si può sentire l’anima stessa di Dante.
PER UNA STORIA GLOBALE DELLA COMMEDIA
Le varie vicende della Commedia su «questo globo» (Paradiso XXII, 134) sono ormai da anni e sempre più al centro delle ricerche di diversi dantisti in tutto il mondo. Tutte queste letture rappresentano importanti momenti di una futura visione globale che, seppure difficilmente immaginabile, sarebbe quanto di più vicino al rendere dovuta ragione della presenza di Dante e della sua opera ovunque, nello spazio e nel tempo. In questo senso, Dante non ha mai smesso di
essere in esilio. Ma proprio questa sua condizione lo ha reso e lo rende tuttora ospite multiforme e illustre nelle più diverse vie della letteratura mondiale. Una vera e propria storia globale della Commedia, se mai possibile, dovrà seguire traiettorie nello spazio e nel tempo mai viste prima, inseguire Dante in tutte le letterature e in tutte le lingue, almeno quante più possibili. Nel 1933 il poeta Mandel’štam, che aveva imparato l’italiano dai versi del poema, auspicava nella sua pirotecnica Conversazione su Dante l’avvento futuro di una fusione fra l’esegesi dantesca e le scienze naturali. Analogamente, oggi, una sintesi globale della Commedia può essere concepita unicamente nella consapevolezza cosmica a cui conducono le immagini della nostra Terra nello spazio. Come Mandel’štam va meditando le verità geologiche della poesia, raccogliendo sassi sulle rive del Mar Nero, così noi, da Marte e ancora più in là, non possiamo non vedere la Commedia e la sua storia in un modo nuovo, mentre raccogliamo con lo sguardo, riguardando in giù, le tante isole-mondo nel mare nero e luminoso dell’universo.
Oppure basterebbe scendere in cantina. Quando Borges, protagonista del suo celebre racconto El Aleph, scende le scale ed entra nella stanza sottoterra si trova davanti a uno spettacolo impossibile da rendere a parole: «Arribo, ahora, al inefable centro de mi relato; empieza, aquí, mi desesperación de escritor» (Arrivo, ora, al centro ineffabile della mia storia; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore). Quello che il protagonista trova davanti a sé è un Aleph. Scoperto e gelosamente custodito dall’amico Carlos Daneri, si tratta di uno dei punti dello spazio in cui sono contenuti, in modo distinto, tutti i punti dello spazio visti da ogni possibile prospettiva. Sono queste alcune delle pagine più vertiginose dell’autore argentino. Forse, uno di questi Aleph coinciderebbe proprio con questa impossibile storia globale della Commedia, questa visione sintetica di Dante nella letteratura mondiale, questa visione sintetica della letteratura mondiale attraverso Dante. Ficcare il viso lì dentro, in questo nodo universale, in questo punto, significherebbe gettare uno sguardo vertiginoso all’insieme di tutte le tracce e di tutte le copie del poema in tutte le biblioteche e scrivanie, mentali e non, della storia.
Ecco, forse, cosa si vedrebbe: in New England, su un tavolo, c’è una copia della traduzione inglese principe dell’Ottocento, ad opera di Henry Francis Cary: The Vision, or Hell, Purgatory, and Paradise. Su
di essa un lettore sta scrivendo a penna, alla pagina iniziale di Inferno I, alcuni versi della traduzione di Alexander Pope del libro XI dell’Odissea di Omero. È un lettore attento. Sta cogliendo il legame fra la prima discesa agli inferi della letteratura occidentale, quella di Odisseo, e il poema di Dante. Quel lettore si chiama Herman Melville. In un teatro di Buenos Aires, nel 1977, un autore argentino di nome Borges continua i fili di quel legame accostando in rapporto genealogico l’Ulisse dantesco e il protagonista di un’altra discesa negli inferi della follia, il capitano Achab di Moby Dick. Il punto-Aleph sfavilla nel suo turbinio. Nell’ottavo capitolo del terzo libro della quarta parte de Les Misérables, Jean Valjean assiste pietrificato assieme a Cosette alla processione infernale dei carri dei condannati ai lavori forzati per le vie di Parigi. Così chiosa la scena Victor Hugo: «Dante eût cru voir les sept cercles de l’enfer en marche» (Dante avrebbe creduto di vedere i sette cerchi dell’inferno in marcia). Il narratore, nel Prologue del romanzo Invisible Man di Ralph Ellison – continuiamo a fissare il punto luminoso – sta ascoltando il brano jazz di Louis Armstrong What Did I Do to Be so Black and Blue: «That night I found myself hearing not only in time, but in space as well. I not only entered the music but descended, like Dante, into its depths» (Quella notte mi ritrovai ad ascoltare non soltanto nel tempo, ma pure nello spazio. Non soltanto entravo nella musica ma scendevo, come Dante, nelle sue profondità). Non si tratta semplicemente di una generica dichiarazione di intensità, ma di un momento importante del rapporto della narrativa afroamericana non solo con Dante ma con l’intero canone europeo. La nota in Les Misérables, invece, non dice tanto della reazione psicologica di Valjean quanto della fascinazione per l’Inferno dantesco come galleria del grottesco da parte di Hugo e del romanticismo francese. Vediamo così che comprendere la funzione del nome di Dante in una frase può essere una via d’accesso feconda non solo alla singola scena ma ad un intero momento culturale della storia di «questo globo». Il punto-Aleph continua a turbinare. Nella sua Historia de los Incas del 1572, il navigatore, cosmografo e poeta spagnolo Pedro Sarmiento de Gamboa riferisce del viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole: dopo aver distrutto Troia e fondato Lisbona, l’eroe «quiso probar su ventura por el Mar Atlántico Océano por donde ahora venimos a las Indias, y desapareció, que jamás se supo después qué se hizo. Esto dice Pero Antón Beuter, noble historiador valenciano, y, como el mismo refiere, así lo
Specializzata nel Paradiso fin dalla tesi di laurea, Anna Maria Chiavacci Leonardi è stata un’autorevole dantista italiana ed è ancora oggi una dei coautori di questa versione del terzo Libro della Commedia che la collana Mondadori Draghi ha appena pubblicato. Oltre a Giacomo Berchi, che firma questo articolo (a pag. 90 c’è una sua sintetica biografia), anche un terzo coautore, Massimo Scorsone, prolifico autore (e critico) del fantasy di qualità, ha partecipato alla
stesura collettanea del volume. Questa edizione del Paradiso - La divina trilogia è accompagnata da altri due volumi dedicati alle altre due cantiche, con introduzioni di Jorge Luis Borges e Fabio Camilletti.
Gabriella Piroli
siente el Dante Aligero, ilustre poeta florentino» ([Ulisse] volle provare la sua ventura per l’oceano Atlantico attraverso il quale ora arriviamo alle Indie, e sparì, poiché nessuno seppe cosa gli accadde dopo. Questo dice Pero Antón Beuter, nobile storico di Valencia, e, come riferisce lo stesso, così afferma Dante Alighieri, illustre poeta fiorentino). Forse, Ulisse ha mentito a Dante e a Virgilio e non è mai naufragato, ma ha scoperto un nuovo continente. Poesia, storia e mistero si intrecciano, all’insegna dell’ultimo viaggio di Inferno XXVI.
Alcuni versi di questo stesso canto, come relitti a cui aggrapparsi, riaffiorano sulle labbra di un ebreo italiano, prigioniero nel buco nero del Novecento, Auschwitz. È la testimonianza di Primo Levi in Se questo è un uomo. E forse è proprio questa la cantica che più facilmente si presta a infinite rifrazioni e riscritture. Nel canto X del poema epico ottocentesco Guesa del brasiliano Sousândrade, pseudonimo di Joaquim de Sousa Andrade, l’indio errante protagonista arriva al New York Stock Exchange e scopre l’inferno, da cui lui, amerindo, deve uscire: «Orpheu, Dante, Æneas, ao inferno / Desceram; o Inca ha de subir… / = Ogni sp’ranza laciate, / Che entrate…». Il poeta caraibico Kamau Brathwaite – gli snodi del punto-Aleph sono
infiniti – intitola una sua raccolta di poemi Trench Town Rock, da un verso di Bob Marley, e vi racconta i disordini e la violenza nel mondo postcoloniale di Kingston negli anni Novanta come un inferno dantesco. Il quinto poema è appunto intitolato Short History of Dis, or Middle Passages Today, ovvero Breve storia di Dite, o Passaggi di mezzo odierni. Nel primo poema, quando tre soldati cercano di seguire i responsabili di una sparatoria («two shatts – silence –»), ecco fare capolino il verso: «So many now – I had not thought death had undone so many». Lo stesso verso, ed è da qui che con tutta probabilità lo ricava Brathwaite, descrive la Londra irreale di T. S. Eliot: «A crowd flowed over London Bridge, so many, / I had not thought death had undone so many» (The Waste Land). E così descrive Dante il suo primo incontro con gli abitanti dell’al di là: «[…] sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta» (Inferno III, 55-57). È infatti al livello matericamente testuale del singolo verso, della singola parola, del ritmo, che la presenza di Dante si irraggia ovunque. A partire dal Canzoniere e dai Trionfi di Petrarca. Nel madrigale 54, al verso 6, ad esempio, l’esclamazione: «Ahi, quanti passi per la selva perdi!», richiama immediatamente: «Ahi, quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte» di Inferno I, 4-5. A volte è il puro ritmo semantico del verso a essere imprentato della forza dantesca. Così il poeta svizzero Giorgio Orelli, dipingendo un’estate ticinese, a proposito di una “servetta” che canta mentre lava in acqua fredda: «e dopo il pianto ha più gioia di prima» (L’estate). Niente di più lontano dalla lupa infernale nella selva oscura. Eppure, di lei, con terrore, Dante aveva detto: «e dopo ’l pasto ha più fame che pria» (Inferno I, 99). La forza strutturale del verso è la stessa. Ugualmente, quando nella sua infinita caduta nel vuoto Qfwfq, protagonista delle Cosmicomiche di Italo Calvino, comprende la curvatura
GIACOMO BERCHI
È dottorando di italianistica e studi rinascimentali all’università di Yale. La sua ricerca principale si concentra sul rapporto fra cosmologia e poesia epica nella letteratura europea fra Dante e Milton. Ha pubblicato articoli su Dante e Leopardi e ha curato l’introduzione al Paradiso nell’edizione intitolata La Divina Trilogia per la collana Oscar Draghi Mondadori. Questo articolo è una parte dell’introduzione che ha per titolo Dante su Marte
dello spazio ammirando le curve femminili della sua compagna, l’eco dantesca potrebbe non limitarsi al fatto dell’apprendimento di verità cosmologiche attraverso la donna amata, ma potrebbe rintracciarsi nella stessa trama testuale: «Ma non fu concentrandomi su me stesso che mi venne quest’idea, bensì osservando con occhio innamorato Ursula H’x quant’era bella anche vista da dietro» (La forma dello spazio). Osservando con occhio innamorato, un endecasillabo. Di Matelda, nel giardino dell’Eden, recita il primo verso di Purgatorio XXIX: «Cantando come donna innamorata». Ma dentro questo nodo-Aleph, ancora, vediamo come a volte Dante e la sua poesia non vengono menzionati ma sono presenti come eco nella cultura di chi scrive e nella struttura stessa delle loro opere. È il caso del poemetto El sueño della poetessa messicana barocca Suor Juana Inés de la Cruz, appassionato tentativo di afferrare sinteticamente l’interno universo, e del romanzo Il cielo del sogno del coreano Shin Chae Ho, che, a inizio Novecento, conosce per via cinese il Dante patriottico del risorgimento italiano e lo propone al suo paese come modello di resistenza al dominio del Giappone. Sempre in Corea del Sud, nel 1926, Jeon Young-Taek pubblica su di una rivista una traduzione parziale del Paradiso, con tutta probabilità basandosi su di una versione giapponese. Si tratta della prima traduzione di Dante in coreano. Nel Convivio (I, 7, 14), Dante aveva ammonito contro la traduzione della poesia: «Nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia». È certamente vero. Ma quante vite ha cambiato una traduzione della Commedia? Quante volte è stata tradotta? Nel 2000, il brasiliano Haroldo de Campos scrive A Máquina do mundo repensada, un poema in terzine dantesche dove i versi di Dante, Camões, Drummond rimano con le fotografie spaziali del telescopio Hubble. Lo stesso Haroldo, nel 1976, traduce in portoghese di Brasile sei canti del Paradiso. Le traduzioni e gli adattamenti – ci insegna il punto-Aleph, una calamita – sono parte integrante della biblioteca di Babele. Nel 1515 appare a Basilea la prima edizione a stampa in versi castigliani dell’Inferno a opera di Pedro Fernández de Villegas: «En medio el camino que va nuestra vida». Nel 2018 ecco la prima traduzione islandese dell’Inferno (Víti) in versi a opera di Einar Thoroddsen. Nel 1814, un inglese di nome Henry Francis Cary, nato a Gibilterra, le Colonne d’Ercole, pubblica una traduzione della Commedia in pentametri giambici senza rima, “blank verse”: The Vision, or Hell, Purgatory, and Paradise. In
New England, un lettore di nome Herman Melville, la apre, vi annota qualcosa, posa la penna e inizia a leggere: «In the midway of this our mortal life…».Il protagonista-Borges termina la visione dell’Aleph fra vertigine e pianto, fra venerazione e compassione. Proprio in questo racconto Borges si misura direttamente con Dante. Si pensi alla desiderata e inarrivabile Beatriz Viterbo, al tentativo di poema totale di Carlos Argentino Daneri, all’Aleph stesso. Ma, con El Aleph, Borges riconosce allo stesso tempo che non può esistere un rapporto pari con la Commedia, ma sempre solo un rapporto obliquo, di rifrazione, di distanza, comunque di ammirazione profonda. Nessuno è stato poeta del mondo terreno come Dante Alighieri.
Per quanto riguarda la biblioteca di Babele della letteratura di «questo globo» e la multiforme presenza di Dante nelle sue infinite vie l’opera è appena agli inizi. È quanto ci invita a fare la visione di quel puntino luminoso, la Terra, visto da Marte. Ogni elemento che si è cercato di intuire “ficcando lo viso” nel nodo-Aleph che è la presenza della Commedia su «questo globo» potrebbe costituire l’avvio per una visione globale del poema e quindi della letteratura mondiale. Una sintesi globale non perché mappa 1:1 del mondo ma perché vorticoso moto della mente che conosce e afferra, nello svolgersi della storia laggiù «sotto li piedi», la sua intrinseca natura fatta per la vastità e per il dettaglio. Abbiamo già molte mappe. Molte altre mancano ancora. Molti territori sono stati attraversati. Moltissimi altri ancora attendono di essere scoperti – o visti con occhi nuovi. Di certo, non esiste uno schema astratto abbastanza largo per inseguire Dante nelle letterature e nelle arti. Non esiste una theory abbastanza ampia da rendere conto del nodo-Aleph Da rendere conto dell’affollatissimo olio su tela di Dai Dudu, Li Tiezi e Zhang An intitolato Discussing the Divine Comedy with Dante e delle illustrazioni di Botticelli e di Blake, delle lettere apostoliche dedicate al poema dai papi e dei versi danteschi nelle serenate rap dei cantanti, del commento di Boccaccio e della versione illustrata fra manoscritto e graphic novel di George Cochrane – altri snodi infiniti dell’infinito nodo-Aleph. Conviene tenere altro viaggio. E proprio il viaggio, come nel racconto di Borges sulla biblioteca di Babele, è ormai l’unica possibilità in questo grande mare aperto-immenso. Il viaggio mai finito, fra gli scaffali dell’universo, fra le biblioteche della vita e del mondo, che inizia sempre ogni volta che
qualcuno, ovunque si trovi sotto il cielo, sulla Terra o su Marte – ubique – tiene in mano, aperto, il vasto frammento totale della Commedia.
DANTE E LO SCIAMANO ESCHIMESE
C’è un racconto tramandato fra le popolazioni eschimesi della zona in cui il fiume Yukon sfocia nel Mare di Bering. Si tratta del mito all’origine della festività di Yu-Gi-Yhik, dove un manichino in legno viene appeso sotto la volta della kashim, o sala delle assemblee, attaccato a un sistema di rami intrecciati e piume d’uccello, indicante la volta celeste – o Qilak. È una festività legata alle previsioni per la stagione della caccia e della pesca. Così recita la parte centrale del racconto: uno sciamano uscì dal suo villaggio, salì in cima alla collina e s’addormentò. In sogno, vide il cielo riempirsi di stelle cadenti e sprofondare lentamente in basso. Il cielo cadde fino a fermarsi contro la collina, tanto che lo sciamano non poteva quasi più muoversi. Da quella distanza ravvicinata, le stelle si rivelarono a lui come buchi rotondi nel cielo. Attraverso di essi, filtrava una luce. Lo sciamano si avvicinò a uno di questi pertugi tondi, ci ficcò il viso, e vide sopra di lui altre, nuove stelle, mai viste prima. Questo nuovo cielo, come il primo, cominciò a sprofondare lentamente in basso. Lo sciamano entrò di nuovo in un altro pertugio tondo, un’altra stella. Sopra di lui, un altro immenso cielo stellato, mai visto prima. Questo nuovo cielo cominciò a sprofondare lentamente in basso. Alla terza volta, lo sciamano entrò in un’altra stella e, con questo terzo cielo ormai all’altezza del petto, si ritrovò in un villaggio simile al proprio, accanto alla kashim. Si alzò, vi entrò, e vide cose mai viste prima. Lo sciamano si risvegliò alle prime luci dell’alba, sulla collina dove si era addormentato. Scese nel villaggio e cominciò a raccontare. Come risuonò quel primo racconto non ci è dato sapere. Ma certo, questa storia fu tramandata ancora e ancora. E fu così che venne a fare parte delle infinite storie di «questo globo», questo punto nello spazio, la nostra casa. Il pianeta – unico nell’universo – dove è stato scritto il viaggio cosmico dello sciamano eschimese e il Paradiso di Dante. Il fuoco è acceso. C’è silenzio fra chi ascolta. C’è silenzio in biblioteca. Il lettore sta per aprire il libro. Il romanziere sta per scrivere. L’aedo sta per intonare il suo canto. Rimbomba il verso nella mente del poeta. L’astronomo ha puntato il telescopio. C’è un punto luminoso nel cielo: è la Terra. Continua ancora per la prima volta la storia che ci ha portato fino a qui. ■
Un delitto politico eclatante, sullo sfondo di una grande tragedia internazionale. Muore Saïd Halim Pascià sotto i colpi di una pistola. Non è stato un gesto isolato ma un disegno che ha attraversato l’Europa e la storia degli armeni.
L’omicidio politico che ha luogo a Roma nel tardo pomeriggio del 5 dicembre 1921, in via Bartolomeo Eustachio (vicino a via Nomentana e a Villa Torlonia), non è simile ai troppi (ben 425) assassinii compiuti dai fascisti che, in quell’anno, stanno insanguinando non solo la capitale ma l’Italia intera: è un delitto politico che è figlio della guerra e delle complicate relazioni internazionali che la Conferenza di pace di Parigi non è ancora riuscita a risolvere.
La vittima è Saïd Halim, ex Gran visir dell’impero Ottomano dal 1913 al 1917, per quasi tutta la durata della guerra condotta a fianco della Germania e dell’impero austro-ungarico. A uccidere il «principe turco», come lo definiscono i giornali italiani, è un giovane straniero, piccolo e vestito di nero, probabilmente – si ipotizza – un armeno, visto l’odio che gli armeni nutrono verso i politici turchi e ottomani. Un odio, riconoscono quasi tutti i giornali, motivato e giustificato dalle violenze subite dal governo ottomano soprattutto nel 1915-16 e proseguite poi fino al termine del conflitto, quando la Sublime Porta si arrese alle truppe inglesi e francesi.
Il Corriere della sera, che indica come strada dell’uc-
cisione via Eustachi (che è il nome della via a Milano, mentre a Roma si chiama Eustachio, come era anche conosciuto l’anatomista italiano del secolo XVI), ipotizza una congiura «studiata in tutti i suoi particolari», preparata «da lontano» e difficile da accertare, anche se «le indagini continuano attivamente». L’Avanti! informa i suoi lettori che Saïd Halim è uno «dei prigionieri turchi fatti dall’Inghilterra nell’ultima guerra e internati a Malta», poi liberato e riparato a Roma, e che «era molto odiato per alcuni atti di persecuzione compiuti in danno degli armeni».
Il responsabile dell’omicidio, Arshavir Shiragian, mai arrestato, inquisito o condannato per la sua azione, così descrisse nelle sue memorie, pubblicate nel 1973, oltre mezzo secolo dopo i fatti, il momento in cui, attraversando la strada in cui sta giungendo la carrozza dove si trova Saïd Halim con la sua guardia del corpo Tevfik Azmi, salta sul predellino della vettura: «Scivolai ma riuscii con una mano ad aggrapparmi al supporto posteriore. Ignorando ancora la mia presenza la guardia del corpo si sporse per chiedere al cocchiere perché i cavalli si impennavano. In quel momento Saïd Halim si girò e i nostri occhi s’incontrarono». “Yeren…” [caro mio], ha gridato
alla sua guardia con voce supplichevole. Fu l’ultima parola pronunciata da colui che era stato il gran vizir dell’Impero ottomano. «Ho letto il terrore nei suoi occhi quando ho puntato la canna della pistola alla sua tempia destra. Ho premuto il grilletto. È stato sufficiente un colpo solo questa volta. Ha emesso un grido soffocato ed è piombato sul pavimento della vettura».
Il racconto autobiografico di Shiragian si legge come un romanzo d’avventura: dopo il colpo mortale grida alla guardia del corpo di gettare la pistola perché non vuole ucciderla, fugge a piedi inseguito e in modo rocambolesco raggiunge la stanza d’affitto; il giorno dopo la sua affittuaria, Maria, le mostra i giornali con la foto del mantello e del cappello che ha perduto durante la fuga e lo convince a nascondersi nella sua villa sul lago per qualche giorno; al suo rientro a Roma incontra Elena, una ragazza che vive di fronte alla casa di Saïd Halim, con cui aveva iniziato una relazione e che aveva incontrato proprio pochi minuti prima di compiere la sua vendetta, per salutarla e chiederle di non riferire nulla del loro rapporto, e di strappare le loro foto insieme; prende il treno per Vienna e da lì parte per Costantinopoli, venendo fermato alla frontiera bulgara e salvandosi fortunosamente; nella capitale turca si nasconde presso la famiglia della fidanzata Gaiané, partendo poi in barca verso la Romania, e di nuovo a Vienna e poi a Berlino. Da lì Shiragian è coinvolto nella caccia e nell’uccisione di Behaeddine Shakir, uno dei fondatori del Comitato Unione e Progresso (CUP), il partito al potere nell’impero ottomano e responsabile della Organizzazione Speciale, una forza paramilitare che si era distinta nei massacri degli armeni durante la guerra e Djemal Azmi, noto come «il mostro di Trebisonda», che vengono entrambi giustiziati nel 1922 nella capitale tedesca. Nel 1923 parte per New York, dove lo raggiunge Gaiané, che sposa e con cui avrà una figlia, Sonia, diventando un imprenditore e decidendo quarant’anni dopo di scrivere le proprie memorie (nel 1965 in armeno, e poi in inglese nel 1973).
Arshavir Shiragian faceva davvero parte di un complotto? Così lo descrissero i giornali, incapaci di immaginare il piano ben congegnato che stava dietro alla Operazione Nemesi, il progetto che aveva
coinvolto, insieme ad Arshavir, altri giovani armeni sopravvissuti alla guerra e ai massacri compiuti dai turchi ottomani contro il popolo armeno. Forse, è stato scritto, l’Operazione Nemesi ha rappresentato la più straordinaria caccia all’uomo del XX secolo, che i suoi organizzatori non hanno mai raccontato e di cui conosciamo le vicende grazie agli archivi e alle memorie di alcuni dei suoi protagonisti ed esecutori.
La caccia ai dirigenti ottomani responsabili dei massacri armeni nel corso della prima guerra mondiale si organizza e si compie nel mondo intero: è decisa a Erevan, nella capitale della Repubblica d’Armenia, indipendente dopo il tracollo dell’impero russo con la guerra e la rivoluzione, che sopravvive per due anni dopo la guerra, travolta nel dicembre 1920 dall’avanzata sovietica che la riduce successivamente a una delle repubbliche socialiste dell’Urss, dopo essersi difesa dall’attacco dell’esercito nazionalista turco del generale Karabekir, agli ordini di Mustafa Kemal, che grazie all’acquiescenza franco-inglese occupa i territori orientali dell’Armenia. Se è a Erevan e a Costantinopoli, ancora occupata dagli Alleati, che si decide la vendetta armena, è a Boston e Ginevra che si organizza e finanzia, ma è a Berlino, Roma, Tbilisi e in Asia centrale che essa si compie.
L’obiettivo principale dell’Operazione Nemesi sono i triumviri che hanno guidato il governo ottomano dal colpo di stato con cui, nel gennaio 1913, il loro partito, il CUP, si sbarazza del governo che ha firmato il trattato di pace di Londra, con cui si era chiusa la fallimentare – per l’impero ottomano – prima guerra balcanica: Talât, Cemal ed Enver, rispettivamente ministro dell’Interno, della Marina e della Guerra sono anche – il primo in modo particolare, che è l’uomo forte del governo – gli ispiratori e organizzatori della violenza antiarmena. Insieme a loro sono indicati come bersagli della vendetta il Gran Visir Saïd Halim, nominato nel giugno 1913 in seguito all’uccisione del suo predecessore, il fondatore dell’Organizzazione Speciale Behaeddine Shakir, Cemal Azmi, governatore di Trebisonda, e l’ideologo più radicale del nazionalismo turco, il dottor Mehmed Nâzim.
A immaginare e pianificare l’Operazione Nemesi sono tre uomini: il primo è Armen Garo, che nella conferenza di pace di Parigi ha rappresentato la delegazione armena, il secondo è Aaron Sachaklian, responsabile finanziario, della logistica e dell’addestramento e Shahan Natalie, il coordinatore operativo. Proprio
da Parigi, convinto che la giustizia internazionale sarebbe rimasta nel limbo delle buone intenzioni, Garo aveva scritto a Boston, dove si trovava il comitato centrale della Federazione rivoluzionaria armena (il partito conosciuto come Dashnak, membro fino alla guerra della Seconda Internazionale) per parlare di un progetto di «debito», con cui intendeva il debito di sangue da far pagare ai dirigenti turchi. Il partito Dashnak, che nell’estate 1919 guida il governo di
Erevan elabora con l’aiuto di avvocati due liste, una di cinquanta nomi, l’altra di 650. Quest’ultima comprende esecutori e collaboratori dei massacri mentre la prima è formata da dirigenti politici (di governo e di partito) e militari che sono stati condannati a morte in contumacia perché fuggiti al termine del conflitto e della resa ottomana grazie soprattutto all’aiuto tedesco.
Il tentativo delle potenze vincitrici di creare una
corte penale internazionale per giudicare i responsabili di crimini di guerra sembrava la conclusione coerente della famosa “Dichiarazione Alleata” del 24 maggio 1915, sottoscritta dai governi di Parigi, Londra e Pietrogrado: «Di fronte a questo nuovo crimine della Turchia contro l’umanità e la civiltà i governi alleati mettono pubblicamente al corrente la Sublime Porta che essi riterranno personalmente responsabili tutti i membri del governo turco e i funzionari che avranno partecipato a questi massacri».
I massacri erano quelli iniziati almeno un paio di mesi prima contro gli armeni e che avevano conosciuto una rapida accelerazione il 24 aprile con l’arresto e l’uccisione di numerosi leader politici, intellettuali, religiosi della comunità armena a Costantinopoli. Il 27 maggio, solo tre giorni dopo la Dichiarazione alleata viene promulgata la Legge di Deportazione, che legittima giuridicamente la deportazione e i massacri degli armeni che hanno avuto luogo da aprile e che conosceranno un incremento crescente in giugno e luglio. Due settimane dopo, il 10 giugno, la Legge di Esproprio e Confisca rende chiara l’intenzione di sradicare dall’Anatolia e dalla Cilicia il popolo armeno. Il numero totale di armeni sopravvissuti alle deportazioni nell’estate e nell’autunno del 1915 – rinchiusi nei deserti della Siria e nei campi di prigionia – è di circa 800 mila, poco più del 40% degli armeni che vivevano nell’impero ottomano. Altrettanto numerosi sono quelli che sono già stati uccisi finora e circa 300 mila quelli che sono riusciti a scappare. Una nuova legge stabilisce che la presenza di minoranze, compresi gli armeni, nei diversi distretti, non possa superare il 5% e il 10% nella zona di Aleppo. Poiché i campi di detenzione dove sono rinchiusi gli armeni sono tutti vicini ad Aleppo, questa legge, di fatto, permetterà tra la fine del 1915 e l’estate del 1916 l’uccisione di circa altri 500 mila armeni.
Paradossalmente sono dei tribunali ottomani a mettere sotto accusa i responsabili dei massacri, creati con decreto del dicembre 1918 dal governo che, sostenuto dagli inglesi, cerca di ricondurre l’impero ottomano nell’ambito di un liberalismo costituzionale, anche se verrà presto sconfitto dal nazionalismo di Mustafa Kemal che nel 1922 abolisce il sultanato ottomano e l’anno successivo crea la Repubblica di Turchia.
I tribunali militari emanano le prime condanne nel 1919: il 5 luglio a Istanbul sono condannati a morte in contumacia Talât, Cemal, Enver e Nâzim,
precedentemente è stato condannato dalla corte di Harput Behaeddine Shakir e decine di altre sentenze colpiscono i maggiori dirigenti del CUP e dell’Organizzazione Speciale, comandanti delle armate coinvolte nei massacri, ideologi e membri dell’apparato statale.
È a questa giustizia, comminata in gran parte in contumacia, almeno per quanto riguarda i principali dirigenti, che si rivolge l’Operazione Nemesi. Gli esecutori del suo piano, infatti, devono uccidere soltanto chi è stato condannato a morte in modo giusto e regolare da un tribunale ottomano. Non si tratta, quindi, di vendetta, come troppo facilmente si fu portati a credere un po’ da tutti. Arshavir Shiragian, su questo, è categorico: «Il pensiero di servirmi della mia arma contro degli innocenti non mi aveva mai sfiorato. La polizia mi aveva spesso braccato e tuttavia mai avevo sparato su un agente, tanto meno turco. Io non volevo diventare un assassino. E il giorno dell’esecuzione di Saïd Halim non avevo pensato
La prima pagina del quotidiano ottomano Ikdam, 4 novembre 1918, dopo “la fuga dei tre pascià”, al termine della Prima Guerra Mondiale (persa, assieme agli Imperi Centrali a cui gli ottomani erano alleati).
Storico, si è occupato della storia del comunismo, del XX secolo, del genocidio degli Armeni durante la Prima Guerra Mondiale, dei diritti umani e delle vittime di guerre. Ha fatto parte del comitato scientifico-editoriale per la monumentale Storia della Shoah e del comitato scientifico per la pubblicazione dei documenti diplomatici italiani sull’Armenia. Ha insegnato all’Università degli Studi di Siena e di Trieste e diretto il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies. Tra i suoi ultimi libri, Il Genocidio (Il Mulino, 2021) e, con Giovanni Gozzini, ll vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano, Laterza 2021.
nemmeno per un istante di colpire la guardia del corpo Tevfik Azmi […] La nostra organizzazione non aveva un progetto di sterminio. Puniva quegli individui che erano stati giudicati in contumacia e riconosciuti colpevoli di assassinii di massa».
Shiragian, come poi gli esecutori dell’uccisione di Cemal a Tbilisi, di fronte all’edificio della polizia politica, la Ceka, e di Shakir a Berlino, non viene arrestato e nemmeno riconosciuto, mentre due dei nomi di maggior rilievo presenti nella lista dei condannati non vengono uccisi dai giovani giustizieri armeni. Enver, il ministro della Guerra che era scappato al termine della guerra nella Mosca comunista, era sfuggito a un paio di tentativi di ucciderlo ma sarebbe morto il 4 agosto 1922 alla guida di una banda di rivoltosi islamici per mano di una squadra di bolscevichi armeni, non lontano da Samarcanda, nell’emirato di Bukhara. Il famigerato dottor Nâzim, sfuggito in più occasioni ai vendicatori armeni, viene impiccato ad Ankara il 26 agosto 1926 per ordine di Kemal Ataturk, contro il cui governo venne accusato di complottare.
Ad essere arrestato, invece, è Soghomon Tehlirian, giustiziere del responsabile principale dei massacri armeni, che sulla Hardenbergstrasse, a Berlino, nel quartiere di Charlottenburg, uccide il 15 marzo 1921 Talât Pasha. Bloccato dalla folla e ferocemente picchiato, Tehlirian è processato tre mesi dopo il delitto e dopo due giorni di dibattimento ritenuto «non colpevole» dalla giuria della nuova Repubblica di Weimar. Il giovane, che aveva inizialmente confessato di aver premeditato l’uccisione di Talât, ritratta in aula su suggerimento del difensore, che racconta di
una improvvisa «tempesta emotiva» che coglie il suo assistito quando, casualmente, incontra per le strade di Berlino il responsabile della deportazione e la morte di 85 suoi parenti e di centinaia di migliaia di armeni. Il problema, quindi, non era se Tehlirian avesse o no ucciso Talât, ma se fosse «colpevole»: mentre era certo che il responsabile dei massacri armeni era stato condannato a morte da una corte marziale turca e si nascondeva in un paese che voleva dimenticare al più presto quella classe militarista che aveva condotto l’Europa nel baratro della guerra mondiale.
Il processo di Berlino, che giustifica moralmente una violenza vendicatrice, fu anche, indirettamente, alla base dell’invenzione del termine «genocidio», che il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, riparato con la guerra negli Stati Uniti, avrebbe proposto nel 1944 imponendolo all’attenzione non solo dei giuristi e a un uso sempre più diffuso. Lemkin era studente di legge a Kiev e nel discutere col suo professore il processo a Tehlirian aveva chiesto perché Talât non fosse stato arrestato per i massacri ordinati, ricevendo la risposta che non esisteva un crimine di cui imputarlo e per cui condannarlo. Proprio nella lunga ricerca di un termine – da concretizzare in crimine riconosciuto dal diritto internazionale – capace di individuare chi fosse stato responsabile di uccisioni di massa, Lemkin giunse alla conclusione, mentre era in corso la Shoah che aveva decimato la propria famiglia, che un termine greco e un suffisso latino potevano combinarsi in una parola che non aveva bisogno di essere tradotto in alcuna lingua: genocidio. E i massacri degli armeni avevano costituito il primo grande e terribile genocidio del XX secolo. ■
T. AKÇAM, Killing orders. I telegrammi di Talat Pasha e il genocidio armeno, Guerini e Associati, 2020.
E. BOGOSIAN, Operation Nemesis: The Assassination Plot that Avenged the Armenian Genocide, Little, Brown & Company, 2015.
J. DEROGY, Opération Némésis. Les vengeurs arméniens, Fayard, 1986.
M. FLORES, Il genocidio degli armeni, Il Mulino, 2015
H.L. KIESER, Talaat Pasha: Father of Modern Turkey, Architect of Genocide, Princeton University Press, 2018.
M. MESROBIAN MACCURDY, Sacred Justice. The Voices and Legacy of the Armenian Operation Nemesis, Routledge, 2016.
A. SHIRAGIAN, Condannato a uccidere, Guerini e Associati, 2005.
Oggi gli armeni lo chiamano Medz Yeghern (“Il grande crimine”) e ogni 24 aprile commemorano l’olocausto del 1915-16, a regia turca. Oltre il 40% della popolazione è stata sterminata, molti hanno lasciato il Paese dando vita all’esodo armeno
Le foto sono gentile concessione dell’Archivio Armin Wegner.
La coscienza è una funzione del e nel cervello? Lo pensano in molti, ma non c’è alcuna evidenza scientifica.
Quando pensiamo a popoli e culture che attribuiscono un’anima o un principio senziente a un oggetto, spesso sorridiamo con compiaciuta superiorità. Come è possibile, ci chiediamo, assegnare a un oggetto, sia pure un totem finemente scolpito, quella dimensione mentale che consideriamo essere la prerogativa più intima e preziosa degli esseri umani (e forse di qualche animale)? Non è ingenuo attribuire a un oggetto quella capacità che, in filosofia e psicologia, si chiama coscienza fenomenica? Lo è. Eppure, mutatis mutandis, è quello che succede nelle neuroscienze: molti autori sono convinti che un oggetto, non fatto di legno ma pure sempre fatto di materia, sia senziente. L’oggetto in questione, l’avete sicuramente capito, non è altro che il cervello. È il totem delle neuroscienze.
Secondo la Treccani, il termine “animismo” indica la «credenza dei primitivi in esseri spirituali che animerebbero gli oggetti nella natura; alla base dell’animismo si troverebbero le esperienze oniriche, da cui l’uomo primitivo trarrebbe l’idea di anima, attribuita anche a oggetti inorganici e inanimati, poiché riconosciuti capaci di agire». Questo è esattamente quello che fanno le neuroscienze. Buttata via la nozione di mente immateriale (giustamente), suppongono che alcuni oggetti speciali siano senzienti, cioè, siano contemporaneamente sia oggetti che soggetti. Questi oggetti speciali, si diceva sopra, sono i cervelli. Il nuovo totem, non è un palo di legno scolpito al centro del
villaggio, ma è un organo all’interno del nostro corpo; un organo opportunamente invisibile nella maggior parte dei casi (e quindi opportunamente misterioso e nascosto allo sguardo diretto delle persone). Di solito questo organo non viene mostrato direttamente, ma attraverso “sacre” rappresentazioni dove, grazie ad animazioni e altre vestigia, è trasfigurato sotto forma di immagini digitali dove una rete di luci colorate percorre le sue sinapsi e reti neurali.
Affiancare neuroscienziati e animisti – cervelli e totem – può apparire irriverente e tuttavia l’analogia è perfettamente calzante. Le neuroscienze propongono, sia pure all’interno dei rituali propri del metodo scientifico (Latour 1993), un modello totemistico o animistico. Credere che un palo di legno finemente intagliato abbia uno spirito implica una confusione di categorie non dissimile da quella necessaria per credere che un organo biologico, sia pure estremamente complesso, abbia la coscienza. Si tratta di un salto ontologico, di un atto di fede. Nel caso delle neuroscienze non si ricorre a un rito magico, ma si fanno delle liturgie che invocano concetti nebulosi come “complessità”, “emergenza”, “livelli di realtà”; parole magiche prive di reale sostanza empirica tanto quanto dire abracadabra!
Per esempio, nessuno ha la minima idea del perché l’aumento di complessità di un sistema debba, a un certo punto, tradursi nell’apparizione dell’esperienza soggettiva: più complessità=coscienza? E perché mai?
Anche il difensore più sofisticato di questo approccio, il neurologo Giulio Tononi, è costretto ad ammettere che il suo ricorso alla complessità (nel suo caso definita in termini di informazione integrata) si arresta di fronte all’aspetto fenomenico, che è il problema vero. Secondo la formulazione originale della sua teoria, «la coscienza dipende/corrisponde alla capacità del sistema di integrare informazione» (Tononi 2004) o, persino, che la coscienza è tutt’uno con l’informazione integrata (Tononi et al. 2016), ma in nessun dei suoi lavori si spiega come mai e perché dall’informazione integrata si debba passare all’esperienza soggettiva. Ancora una volta, abbiamo un oggetto spiegabile in termini fisico-quantitativi cui viene attribuito, dopo qualche formula magica ...pardon! matematica... uno spirito. Nel caso di Tononi, il totem di Tononi è l’informazione integrata all’interno del cervello; sicuramente più sofisticato dei neuroni, ma pur sempre un totem.
Potremmo fare considerazioni analoghe per tutte le altre soluzioni proposte all’interno del cervello: dalla frequenza a 40 Hz al claustrum, dal global workspace ai microtubuli. In quanto oggetti o processi fisici all’interno di un oggetto, sono altrettanti totem che non hanno alcuna delle caratteristiche della coscienza, ma cui si attribuisce, per autorità più che per altro, la capacità di sentire.
Ovviamente, alla pari dei popoli primitivi che erano abituati a credere che un particolare oggetto potesse essere dotato di una mente, così noi – che forse non siamo tanto diversi – siamo indotti a credere che il cervello sia dotato di coscienza. Ci è stato detto a scuola e ripetuto all’università. Ci viene continuamente mostrato in film di fantascienza e in programmi divulgativi. E, soprattutto, non si vedono alternative. Dove potrebbe essere il nostro io se non in quell’oggetto misterioso, convenientemente posto al centro della testa, che chiamiamo cervello? Poco importa se non si è mai trovato alcunché assomigliasse alla nostra esperienza o se non esiste alcuna teoria che spieghi come «trasformare l’acqua dei neuroni nel vino della coscienza» (McGinn 1999). La maggior parte di noi crede, con fede sincera, che il cervello sia il miglior candidato fisico per la nostra mente. Ma questa tradizione, allo stato dei fatti, è semplicemente una superstizione animistica, ovvero qualcosa in cui si crede senza essere in grado di difenderlo o con un ragionamento deduttivo o con una serie di prove empiriche.
Se non siete ancora convinti, consultate una rivista fondamentale come Nature e scoprirete che non ha pubblicato un solo articolo sui meccanismi che dovrebbero produrre la coscienza. Molti articoli, ovviamente, descrivono i processi neurali correlati alla coscienza, ma è un’altra cosa. La conoscenza scientifica richiede una spiegazione causale da sottoporre a verifica sperimentale. Persino Tononi non propone una spiegazione causale che va dal fisico al mentale, ma ci mette di fronte a dei postulati. Le tesi delle neuroscienze circa la coscienza non sono equiparabili a credere che la penicillina uccida lo pneumococco. In questo caso, infatti, si è in grado di spiegare il meccanismo causale attraverso il quale gli antibiotici inibiscono la sintesi della parete cellulare dei batteri. Nel caso della coscienza, non si ha la più pallida idea di cosa succeda. Tra i neuroni e la nostra esperienza c’è uno spazio che, da un punto di vista epistemico, possiamo tranquillamente definire infinito. Niente di quello che avviene dentro il sistema nervoso, se non sapessi (o volessimo) che è collegato alla coscienza, suggerisce la dimensione fenomenica. Detto brutalmente, ma con onestà: le neuroscienze incoraggiano una forma di superstizione animistica. La prova di questo fatto è che non esiste una spiegazione scientifica disponibile. Tutti i casi citati non costituiscono teorie empiricamente verificabile, ma neppure spiegazioni intellegibili (per esempio, perché la complessità dovrebbe diventare esperienza? Invece che semplicemente “più complessità”? Mistero). Quindi
RICCARDO MANZOTTIFilosofo e ingegnere, è professore di Filosofia teoretica all’università Iulm di Milano. In passato è stato Fulbright Visiting al Department of Philosophy del Massachusetts Institute of Technology, MIT (Boston). Si occupa principalmente delle basi fisiche della coscienza, di intelligenza artificiale, percezione, psicologia dell’arte.
È executive editor del Journal of Artificial Intelligence and Consciousness, ha pubblicato numerosi libri ed articoli sui temi della coscienza, della coscienza artificiale, della filosofia della mente, della percezione, dei media e della psicologia dell’arte. Tra i suoi ultimi libri: La mente allargata (Il Saggiatore, 2020); The Spread Mind: Why Consciousness and the World Are One e Dialogues on Consciouness (entrambi editi da ORBooks, 2018).
credere che il cervello sia cosciente implica credere in qualcosa che la scienza stessa dichiara di non poter spiegare, per lo meno al momento. E quindi si fa una professione di animismo.
Rispondo subito a un grido che sento si sta alzando tra molti lettori: ma come? E tutti i dati raccolti dalle neuroscienze con tecnologie sempre più sofisticate (fMRI, PET, EEG, MEG, etc.)? Sono dati che riguardano l’attività neurale e, in questo senso, hanno permesso di comprendere in modo sempre più preciso il funzionamento del nostro sistema nervoso (Rossi 2020).
Le neuroscienze non hanno mai superato un livello correlativo, ovvero studiano fenomeni che hanno una correlazione con il nostro essere coscienti. Per esempio, il fatto ben noto che l’anestesia, agendo sul cervello, determina la scomparsa della nostra esperienza soggettiva non è, scientificamente, più illuminante del fatto che, togliendo le batterie da un
cellulare, non si senta più la voce dell’interlocutore: non è la prova che stiamo parlando con qualcuno dentro il cellulare o, ancora più assurdo, che stiamo parlando con il cellulare stesso. E tuttavia, nel caso del cervello, la maggior parte dei neuroscienziati e dei loro lettori accetta questo modo di ragionare... Un’altra cosa importante da sottolineare è che la tesi secondo cui il cervello è cosciente è una tesi straordinaria e non è simmetrica con la sua negazione. Cioè, dire che esiste un oggetto, il nostro cervello, che fa qualcosa che nessun altro oggetto fa – o è in grado di fare – in quanto oggetto è qualcosa di miracoloso. Trattandosi di una affermazione straordinaria, come potrebbe essere quella di sostenere che dentro la terra ci sono gli elfi, avremmo bisogno di una prova straordinaria, che però continua a mancare. Quando Alfred Wegener sostenne che i continenti andavano alla deriva dovette produrre prove consistenti
(Wegener 1929), non si limitò a chiedere fondi di ricerca promettendo che un giorno si sarebbe visto un continente muoversi. In modo analogo, per quanto riguarda la coscienza, l’onere della prova dovrebbe cadere sulle spalle delle neuroscienze. E finora non solo questa prova non è stata trovata, ma non si sa neppure dove cercarla.
In questo senso, l’assenza di una prova della coscienza all’interno del cervello, a valle di decenni di investimenti ingenti e di schiere di ricercatori, dovrebbe cominciare a costituire, anche per i più convinti difensori del “cranialismo”, una prova di assenza (Miller 2005; Rockwell 2005). O, per lo meno, dovrebbe spingere a considerare alternative, anche radicali. Tuttavia questa presa d’atto non avviene: troppi investimenti (economici, personali e sociali) sono stati fatti sul cervello e l’identificazione tra le neuroscienze e le scienze della mente (per esempio nel neuromarketing) spinge tantissimi a difendere questa linea di pensiero.
È sorprendente vedere come le neuroscienze se la cavino distribuendo molto generosamente quelle che il filosofo Daniel Dennett definiva «cambiali epistemiche», ovvero degli «spiegherò» (Dennett 1991). Nonostante che l’esperienza rimanga incongrua rispetto alla descrizione standard del mondo fisico, leggiamo continuamente che le neuroscienze hanno fatto grandi progressi, hanno accumulato grandi quantità di dati e sono sempre più vicine a una soluzione (Melloni et al. 2021; Anil K. Seth et al. 2015; A. Seth 2021; A.K. Seth and Bayne 2022). Sono decenni che accettiamo fiduciosi queste promesse e siamo sempre allo stesso punto. La coscienza è un mistero e il cervello è un totem.
Ci sono due alternative a questo stato di cose: una è nota e una è generalmente trascurata. Partiamo dalla prima. L’alternativa all’idea che la coscienza sia un attributo del cervello è, secondo molti necessariamente, una forma di dualismo o di spiritualismo. La coscienza non sarebbe nel cervello perché sarebbe la manifestazione di uno spirito, anima o mente immateriale. Purtroppo, da un punto di vista scientifico, questa soluzione è peggio dell’animismo delle neuroscienze. Almeno quello dà la speranza che si possa, un giorno lontano, trovare la coscienza nel mondo degli oggetti. L’anima, invece, è fuori dal mondo dei fatti, potremmo dire, per vocazione. Non va bene.
L’altra opzione, che mi sento in obbligo di citare, consiste nel riconsiderare il punto di partenza, ovvero che soggetti e oggetti siano due livelli incommensurabili e alieni a meno che, bontà loro, qualche oggetto speciale, totem o cervello che sia, non ci faccia la grazia di fare un miracolo. Ma sappiamo che i miracoli non fanno parte della natura. E quindi per trovare una soluzione si dovrebbe avere il coraggio di riscrivere il libro della natura in modo che la nostra esistenza non sia più un’eccezione, ma qualcosa di ovvio e, da un punto di vista ontologico, innocuo. Ma di questo ho parlato altrove (Manzotti 2019).
Le neuroscienze sono condannate, come Mastro Ciliegia nelle Avventure di Pinocchio, a stupirsi di un fatto miracoloso, e cioè che un pezzo di legno o di neuroni possa vedere, sentire, agire. Le neuroscienze non possono trovare una spiegazione perché si muovono all’interno di una cornice ontologica rigida che divide il mondo in soggetti e oggetti. I soggetti sono dotati di esperienza, mentre gli oggetti no. Se si parte da questo assunto è inutile sperare di poter trovare in qualche oggetto, come il cervello, quell’esperienza che si è stabilito non faccia parte della natura. In questo contesto, il sistema nervoso centrale (il cervello) rientra nella categoria degli oggetti e quindi non può avere esperienza, altrimenti sarebbe un soggetto. In questo quadro ontologico, le neuroscienze sono condannate all’animismo e quindi, per quanto riguarda la coscienza, al fallimento.
La buona notizia è che questo stato di cose non è obbligatorio anche se, per essere superato, richiederà un passo indietro: la coscienza non è una proprietà degli oggetti, ma neppure fuori dal mondo fisico. In questa contraddizione apparentemente insolubili si nasconde un orizzonte di ricerca nuovo e ancora in gran parte inesplorato. In una celebre storia dei paperi del 1973, sceneggiata da Guido Martina, Il segreto del totem decapitato, Paperon de' Paperoni decide di mettere una somma di denaro a chi scoprirà il segreto e prezioso contenuto di un totem. Molti personaggi si sforzano di indovinare, alla fine si scoprirà che il contenuto prezioso era Paperone stesso. Questo processo non è diverso da quanto accade nelle grandi crisi della scienza quando si scopre spesso che la natura era misteriosa solo perché la si affronta con pregiudizi sbagliati. Spesso la soluzione era sempre a portata di mano e visibile a tutti. Non come un totem però. ■
Civiltà autoctone si sono accese lungo le coste del Danubio, con forti segnali di cultura paritaria e comunitaria. Un omaggio a Marija Gimbutas, archeologa visionaria.
Alla scoperta dell’Antica Europa. Nella prefazione alla sua opera fondamentale intitolata The Civilization of the Goddess (1991; trad. it.: La civiltà della Dea, 2012-13), Marija Gimbutas, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, incluso nei festeggiamenti ufficiali Unesco per il 2020-21, riassume l’aspetto essenziale di tutto il suo progetto accademico al fine di mettere in evidenza gli strati più profondi della storia europea, che custodiscono i componenti costitutivi della civiltà occidentale. «Con quest’opera intendo riportare alla nostra coscienza aspetti della preistoria europea rimasti nell’ombra o semplicemente non abbastanza metabolizzati a livello paneuropeo. L’acquisizione di tale materiale potrebbe finalmente modificare la nostra visione del passato, nonché la nostra percezione delle potenzialità del presente e del futuro» (Gimbutas 2012, p. 7).
Un aspetto cruciale per le prospettive di ricerca da lei ispirate consiste nell’identificazione dell’Antica Europa neolitica come civiltà vera e propria. Nella prefazione al suo libro più importante l’archeologa confronta le proprie scoperte con l’antiquato modello vigente: «Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche.
Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini, nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i sessi. [...] Il Neolitico europeo non è stato un tempo “prima della Civiltà” [...] È stato invece una vera e propria civiltà nella migliore accezione del termine» (cit., p. 8).
Fino ad oggi, la maggior parte degli studiosi tradizionali riconosce la civiltà androcratica come unico modello valido della nostra storia culturale. I pochi sostenitori di ipotesi diverse con modelli privi di gerarchia sociale, tuttavia, ignorano l’Antica Europa (ad esempio, Maisels 1999). Anche nell’opera monumentale di Cyprian Broodbank (2013) non si fa alcuna menzione dell’Antica Europa. Solo di recente si va elaborando un nuovo paradigma onnicomprensivo di modelli differenziali di civiltà, includendo l’Antica Europa (Haarmann 2011, 2020).
È merito di Gimbutas aver messo in rilievo l’importanza della fase preparatoria di qualsiasi civiltà e, in particolare, dell’Antica Europa: «Tutto questo
non è spuntato fuori ex nihilo. […] L’ampia varietà del simbolismo religioso fiorito in Anatolia centrale e nell’Antica Europa è parte integrante di un’evoluzione ininterrotta avviata ai tempi del Paleolitico superiore» (Gimbutas 2013, p. 8).
«La civiltà fiorita nell’Antica Europa tra il 6500 e il 3500 a.C., e a Creta fino al 1450 a.C., ha goduto di un lungo periodo pacifico senza interruzioni, che ha prodotto espressioni artistiche di graziosa bellezza e raffinatezza, dimostrando di poter garantire una qualità della vita superiore rispetto a molte società androcratiche e classiste» (Gimbutas 2012, pp. 7-8). Questa condizione di esistenza pacifica è stata riconosciuta da numerosi archeologi che mettono in rilievo come negli insediamenti dell’Antica Europa non si trovano depositi di cenere attribuibili a incendi dolosi. L’elemento distruttivo entra in gioco con l’arrivo dei pastori indoeuropei durante le migrazioni che si irradiano dalla steppa eurasiatica (Gimbutas 2010). Nonostante la ricchezza delle intuizioni e l’affidabilità documentaria, l’eredità di Marija Gimbutas non è stata prontamente accolta. Al contrario, negli anni Ottanta del secolo scorso, si è sviluppato un acceso dibattito nel corso del quale i suoi oppositori hanno messo in discussione l’autorità di questa ricercatrice visionaria, riducendo i suoi risultati a contestabili ipotesi. Dopo anni di futili controversie la reputazione di Marija Gimbutas è stata finalmente ristabilita e la sua eredità intellettuale sta vivendo una rinascita
senza precedenti. È rimasta memorabile la conferenza di Colin Renfrew: Marija Rediviva, The Oriental Institute, 2017 – visibile in Youtube; per un bilancio del suo contributo complessivo all’archeologia si veda Elster 2013. Il suo magistero continua a illuminare circoli accademici sempre più ampi.
La studiosa è diventata fonte di ispirazione per diversi progetti di ricerca ispirati dalle sue intuizioni visionarie basate su una metodologia all’avanguardia (datazioni al radiocarbonio, approccio interdisciplinare), un solido corpus documentario e una ricca collezione di reperti, in gran parte provenienti dagli scavi da lei diretti nei siti neolitici dell’Europa sudorientale (1967-80: Obre, Achilleion, Anza, Sitagroi, Grotta Scaloria e altri). Tuttavia, come vedremo in una breve panoramica nei prossimi paragrafi, la via verso il nuovo paradigma di ricerca sulle civiltà antiche è ancora disseminata di ostacoli.
Il prototipo universale di civiltà gerarchica è un cliché da superare. Secondo il nuovo paradigma inaugurato da Marija Gimbutas esistono almeno due modelli elementari di civiltà, quello apolide di società egualitaria (rappresentato dalla Civiltà dell’Antica Europa, o Civiltà danubiana, e dalla Civiltà della valle dell’Indo) e quello statale basato su una gerarchia sociale (rappresentato dalla Mesopotamia, dall’Antico Egitto e dai Maya nella Mesoamerica precolombiana). L’aspetto tipico caratterizzante del modello privo di stato è l’uguaglianza economica e di genere. Nel corso della transizione neolitica dalla caccia e dalla raccolta alla produzione vegetale (con agricoltura e orticoltura pienamente sviluppate), le attività di donne e uomini furono ripartite in modo equilibrato. Gli uomini andavano ancora a caccia ma aiutavano anche le donne che si dedicavano principalmente alla semina, alla coltivazione e al raccolto. Il risultato di questo processo graduale è una fase di sviluppo equilibrata. Proprio ciò che Marija Gimbutas ha descritto nelle sue pubblicazioni. Il vecchio paradigma dello sviluppo lineare e unilaterale della società patriarcale come espressione inevitabile di “progresso” sociale è ormai obsoleto e va dunque rigettato.
Ci sono altri cliché da superare. L’idea della Mesopotamia come centro di irradiazione culturale (ex oriente lux) è infatti antiquata, visto che la ricerca moderna ha scoperto che le innovazioni tecnologiche principali hanno avuto provata origine altrove: • le prime ceramiche altamente raffinate con decora-
zioni eleganti appaiono nell’Antica Europa alla fine del Quinto millennio a.C. La produzione ceramica raggiunse il suo acme nella cultura regionale Cucuteni, almeno un millennio prima che raggiungesse un livello avanzato nell’antico Egitto e in Mesopotamia. Marija Gimbutas ha documentato la modalità degli stili di ceramica a partire dal sesto millennio a.C. (Gimbutas 2012). «Prova certa che lisciatura e decorazione fossero compiute dalle donne viene dalla necropoli di Basatanya (fase Bodrogkeresztúr), in Ungheria orientale, dove in un certo numero di sepolture femminili è stato rinvenuto un set di arnesi per la lisciatura, pittura e incisione della ceramica, consistente di un sasso, una lisca (osso di pesce), un arnese per lucidare le ossa, un cofanetto e un mestolo» (Gimbutas 2012, p. 143);
• la prima scrittura emerge nell’ambiente culturale della civiltà danubiana (Gimbutas 2013);
• i primi esperimenti di fusione del metallo sono attestati nell’Europa sudorientale (Serbia meridionale). Gli inizi della fusione del rame nell’Antica Europa
risalgono al 5400 a.C. ca. (Pernicka e Anthony in Anthony 2010). Il che significa che questa tecnologia ha iniziato a diffondersi in Europa centinaia di anni prima che in Anatolia.
• le prime case dotate di struttura solida (singole) e l’inizio di stili architettonici diversi sono attestati in Tessaglia a partire dal 6500 a.C. ca.;
• l’emergere delle prime infrastrutture urbane nella regione di Cucuteni-Trypillya risale al Quarto millennio a.C. (Gimbutas 2012: p. 10 e p. 117 ss.).
Tramonta anche il cliché di un prototipo universale della prima scrittura associato a funzioni economiche. La scrittura cuneiforme sumera non è la prima scrittura della storia dell’umanità. Le prime prove dell’uso dei geroglifici egizi risalgono ad almeno 150 anni prima dei testi sumeri più antichi (fine del Quarto millennio a.C.). Le origini di una tecnologia della scrittura nell’Antica Europa risalgono alla fine del Sesto millennio a.C. (Haarmann 1995, Marler
2008). La presunta prima scrittura dell’umanità rivestiva funzioni economiche. La scrittura anticoeuropea, invece, era al servizio delle credenze religiose e delle pratiche rituali. I segni della scrittura sono incisi e/o dipinti sui corpi delle figurine, sulla superficie dei vasi di culto e sui lati degli altari in miniatura. Marija Gimbutas la definisce giustamente “scrittura sacra” (2013: pp. 99-115). L’uso dei segni lineari all’epoca dell’Antica Europa corrisponde a quello riscontrato nei primi sistemi di scrittura: segni intenzionali, forme convenzionali, allineamento sistematico, organizzazione interna, un ricco repertorio (i motivi delle ceramiche sono invece un numero limitato).
La prima rete commerciale del mondo si è sviluppata in Medio Oriente? Le prime navi sono state costruite nel Golfo Persico? Il commercio su piccola scala nell’arcipelago dell’Egeo e in Anatolia ha avuto inizio più di diecimila anni fa. Lo sviluppo di reti commerciali di maggiore ampiezza risale però a un’epoca successiva, al Quinto millennio a.C., mentre la fioritura si è avuta nel corso del Quarto.
La prima rete non si è sviluppata in Medio Oriente, le rotte commerciali collegavano le regioni principali dell’Europa (e i centri dell’Antica Europa corrispondevano ai punti di scambio) e il commercio si estendeva fino alla steppa eurasiatica e alla regione dell’Anatolia. Quest’ampia rete commerciale comprendeva anche le estremità del Nord Africa.
La rete commerciale del Medio Oriente, che collega i centri commerciali sumeri con l’Egitto, Dilmun e l’antica civiltà dell’Indo, è stata istituita in un’epoca successiva: nel corso del Terzo millennio a.C. La costruzione delle prime navi si deve agli abitanti dell’Antica Europa che navigavano nel Mediterraneo e nel Mar Nero (Haarmann 2018), fra Sesto e Quinto millennio a.C., ovvero migliaia di anni prima dei navigatori del Vicino Oriente.
Il mondo dell’Antica Europa è sparito senza lasciare traccia? Il tessuto originale dell’Antica Europa non esiste più, tuttavia, questo non significa che le sue tradizioni siano svanite. Le descrizioni di un “mondo perduto dell’Antica Europa” (Anthony 2010) risultano fuorvianti. Al contrario, le conquiste culturali e le tradizioni della prima grande civiltà europea sono sopravvissute nelle culture successive con molteplici trasformazioni. Le civiltà dell’antico Egeo (ovvero la
civiltà minoica dell’antica Creta e quella di Thera) sono emerse dal ceppo dell’Antica Europa (Haarmann 1995). La cultura pelasgica nella penisola balcanica è stata identificata come “pre-greca” (Beekes 2014), quindi non di origine indoeuropea. La cultura e la lingua pelasgiche rappresentano l’ultima propaggine dell’Antica Europa.
All’indomani delle migrazioni indoeuropee verso l’Europa sudorientale il vecchio tessuto culturale non è stato sostituito da modelli di stampo indoeuropeo. Inizialmente i migranti si sono stabiliti nelle vicinanze della popolazione pre-greca, i Pelasgi (“persone che vivevano qui prima di noi”, da pelas, “nelle vicinanze, nel quartiere”), dando origine a un processo di fusione culturale con vari modelli innovativi. Uno di questi, il culto degli eroi, mostra le modalità di funzionamento delle dinamiche della fusione, fungendo da pilastro nella fondazione della civiltà occidentale. Gli eroi patriarcali indoeuropei hanno avuto legittimità divina per l’esercizio del potere dalle dee pre-greche.
Marija Gimbutas ha vivamente sostenuto i progetti di ricerca per la prosecuzione della sua opera, in particolare gli studi sulla sopravvivenza delle caratteristiche culturali dell’Antica Europa nelle fasi successive, e cioè nel cosiddetto mondo antico. Un vasto panorama di tradizioni – negli ambiti del folklore e della mitologia, in vari settori artigianali, nel contesto delle istituzioni sociali e negli stili artistici – può essere identificato nelle culture regionali dell’Europa sudorientale (Haarmann 2011, p. 257 ss.; 2014).
Il linguaggio e la scrittura dell’Antica Europa sono andati persi? Nel lessico greco antico sono state identificate circa 1700 parole che si possono associare alla lingua del substrato, cioè alla lingua parlata nella regione dell’Ellade prima della migrazione indoeuropea (Beekes 2010).
I prestiti pre-greci non sono sparsi in modo casuale, i più antichi sono organizzati in domini lessicali pertinenti che rivelano le varie incursioni dell’influenza
Ricercatrice indipendente e autrice, collaboratrice editoriale, traduttrice freelance (letteratura, saggistica) da polacco e inglese. Dal 2004 fa parte del Comitato editoriale di Prometeo e dal 2008 del Comitato scientifico di Traduttologia
Harald Haarmann è un ricercatore nel campo della linguistica e degli studi culturali. Ha pubblicato più di cinquanta opere in lingua tedesca e inglese, tradotte in molte lingue, fra cui spagnolo, cinese e coreano. Ha scritto undici volumi sulle lingue e sulle culture del mondo. Ha ricevuto il “Prix logos 1999” e il “Premio Jean Monnet 1999”. Attualmente è il vicepresidente dell’Istituto di Archeomitologia con sede in California e anche direttore della sezione europea con sede in Finlandia.
culturale dell’Antica Europa (ad esempio: ceramica, tessitura, olivicoltura, lavorazione dei metalli, costruzione navale, commercio, religione, istituzioni democratiche) (Haarmann 2014).
La scrittura danubiana (o dell’Antica Europa) ha avuto vari esiti nelle culture dell’Egeo: la scrittura lineare A (scrittura minoica dell’antica Creta) e la successiva derivazione, la scrittura lineare B per il greco miceneo; la scrittura cipro-minoica e cipriotasillabica; i segni aggiuntivi dell’alfabeto greco: chi, phi, psi (Haarmann 1995).
Cosa è stato della Dea dell’Antica Europa dopo l’arrivo dei migranti indoeuropei? L’interruzione nella produzione di figurine della Dea neolitica nel tumultuoso periodo delle migrazioni indoeuropee dopo il Terzo millennio a.C. è solo apparente, perché al posto della tradizionale argilla si cominciò a usare la cera. Essendo questa biodegradabile, gli scavi archeologici non ne hanno conservato traccia.
La continuità della produzione di figurine in argilla della Dea nell’arcipelago dell’Egeo (nella Creta minoica e nelle antiche isole Cicladi) non si interrompe per tutto il corso dell’età del Bronzo e in epoca micenea. Anche sulla terraferma la produzione di figurine fittili si mantiene in alcuni luoghi, ad esempio a Lerna nel Peloponneso, nel corso del Terzo millennio a.C.
L’eredità monoteistica della Grande Dea neolitica non è nemmeno svanita nel confronto con la visione patriarcale del mondo degli indoeuropei immigrati, dando luogo a un processo prolungato di fusione. La mitologia classica, per esempio, è un ambito culturale che nonostante l’abbondanza di figure, motivi e strategie narrative pre-greche viene a torto ascritto in blocco alla cultura greca.
La Grande Dea riappare nella veste delle sue “figlie”, cioè le potenti dee del pantheon “greco”, i cui nomi e culti risalgono perlopiù all’epoca pre-greca. La loro origine è dunque antecedente al periodo greco arcaico e a quello greco-miceneo (Dexter 1990). Le narrazioni mitiche riflettono diverse fasi del processo di fusione nel corso del quale i protagonisti maschili del pantheon greco hanno esteso il loro ambito di potere a spese delle controparti femminili (Yasumura 2011).
Quando gli antenati dei greci hanno portato il loro dio del cielo, Zeus, nella regione ellenica, questi aveva una moglie indoeuropea, Divia, che veniva ancora venerata in epoca micenea con un santuario a Pylos. Tuttavia, in seguito, la dea indigena Hera l’ha sostituita. In senso metaforico l’unione di Hera e Zeus può essere considerata un motivo guida mitologico che riflette la fusione di due diverse visioni del mondo avvenuta nell’Europa sudorientale.
La più gloriosa di tutte le dee pre-greche è Atena, icona dello stato ateniese: con la sua ampia gamma di abilità sia in ambito artigianale che intellettuale, ricorda la sua antenata divina, la Dea dell’Antica Europa. Il più grande tempio dell’Acropoli, il Partenone, non era dedicato a Zeus ma a lei, che dominava la vita pubblica e privata degli ateniesi.
GLI STILI ARTISTICI NEOLITICI
La storia dell’arte non è riuscita a identificare le fonti di ispirazione di molti artisti le cui creazioni vengono etichettate come “arte moderna”. Nel caso di Constantin Brancusi (1876-1957), ad esempio, si ricorre all’arte tradizionale africana. Dalla sua biografia si può invece dedurre che a ispirarlo maggiormente è l’immaginario tradizionale del paese natale, la Romania dell’inizio del Ventesimo secolo (le ceramiche tradizionali di Oltenia e Dobrogea riprendono forme dell’epoca neolitica). Il successo di alcuni scultori moderni decretato da una parte di critici e storici dell’arte è stato attribuito all’originalità delle loro opere che si discostano dalla tradizione greca classica. Oltre a Brancusi, a questo proposito si possono citare Henry Moore, Barbara Hepworth e Alberto Giacometti (Haarmann 2013: p. 275 ss.).
La loro originalità scaturisce dalla rivitalizzazione e rimodulazione di forme e stili di una tradizione artistica locale extracanonica, non da un presunto impulso innovativo.
In molti luoghi in cui si erano stabiliti gli antenati degli immigrati greci esistevano comunità più antiche: i discendenti dell’Antica Europa. Questi insediamenti
avevano una designazione pre-greca, ovvero kome (termine che risale alla lingua del substrato). Non erano governati da capi locali, ma venivano amministrati da un consiglio di villaggio. In effetti, si trattava di un tipo di autogestione comunitaria.
La maggior parte dei kome più antichi si è mantenuta nell’antichità greca classica fungendo da modello per il governo democratico. Ad esempio, Thorikos, una comunità a sud-est di Atene, famosa per le sue miniere d’argento di proprietà collettiva, che si è arricchita al punto da potersi permettere un proprio teatro in concorrenza con quello di Dioniso ad Atene.
Nella filosofia antica il mito è stato sostituito dalla ragione: una convinzione errata. L’Illuminismo europeo del Diciottesimo secolo ha favorito l’affermazione del culto della ragione. Questa tendenza che ha opposto la ragione al mito non ha reso un buon servizio alla conoscenza della vita intellettuale presso gli antichi greci. Le distorsioni dell’Illuminismo hanno condizionato il nostro approccio all’educazione, facendoci privilegiare la ragione come modalità di indagine fino ai giorni nostri.
Gli antichi intellettuali greci (cioè i filosofi presocratici, i primi storiografi, i filosofi dell’età classica) non postulavano un’opposizione tra mito (mythos) e ragione (logos). In effetti, erano considerate due modalità di indagine diverse, ciascuna dotata del proprio valore (Morgan 2000, Haarmann 2017).
In uno dei suoi dialoghi Platone ha persino coniato un neologismo per spiegare come gli argomenti e i motivi di tipo mitico celassero fonti di conoscenza. Il termine è mythologia e ricorre per la prima volta nella Repubblica (394b).
I testi narrativi riguardanti la tradizione mitica nell’antichità greca contengono numerosi concetti e motivi che rimandano al patrimonio culturale dell’Antica Europa. Inoltre, vi sono alcuni miti che gli stessi greci riconoscevano come pre-greci, quali ad esempio il “mito pelasgico” della dea primordiale Eurinome come Creatrice di tutti gli esseri viventi. A torto si è considerato Platone un autore “patriarcale”: nella sua teoria politica della società ideale si esprime a favore dell’uguaglianza di genere. Il filosofo onora in special modo Atena, dea pre-greca. Platone le assegna il ruolo di “intelletto divino” per l’ordine mondiale. Nessun altro dio del pantheon greco godeva di un simile privilegio. Nel suo sforzo filosofico riecheggia lo spirito dell’Antica Europa.
Quale conclusione? Potremmo ancora continuare a lungo, ma in questa sede ci basti una panoramica orientativa delle possibili vie di ricerca che si sono aperte e si potrebbero aprire in futuro a partire dal lavoro di Marija Gimbutas (vedi anche Pelaia 2016). Una vita non basta per esplorare tutti gli orizzonti aperti da questa ricercatrice visionaria. ■
D.V. ANTHONY (a cura di), The lost world of Old Europe - The Danube valley, 5000 - 3500 BC, Princeton University Press, 2010.
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M. GIMBUTAS, La civiltà della Dea. Il mondo dell’Antica Europa, traduzione e cura di M. Pelaia, Stampa Alternativa, 2012 e 2013.
M. GIMBUTAS, Le dee e gli dei dell’Antica Europa, traduzione e cura di M. Pelaia, Stampa Alternativa, 2016.
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M. PELAIA, Traducendo e curando libri di Marija Gimbutas. Divagazioni da scritture e letture parallele, in “Traduttologia”, luglio 2016-gennaio 2017, fascicoli 15-16, pp. 57-84.
Da alcune ricerche empiriche emerge come trame e personaggi fittizi della narrativa possano orientare il modo in cui si affronta la vita di tutti i giorni.
Una di queste persone lavora in banca, con un certo successo; ma ha problemi di alcolismo e depressione. Un’altra, chef de cuisine, sulla scia del successo ottenuto con il primo ristorante, ne ha appena aperto un secondo. La terza persona insegna marxismo all’università.
Il lettore medio impiega dodici secondi a leggere le sei righe qui sopra – la lettrice media, anche meno. Un’altra manciata di millisecondi, e la mente ha già creato immagini a partire da queste parole. Le neuroscienze ci dicono, con grande certezza, che il processo è automatico e quindi che avete formato tali immagini, per quanto, almeno inizialmente, sfocate. La psicologia sociale, forse con meno certezza, va un passo più in là, e ci dice quali immagini sono emerse nella vostra mente.
La prima è di un individuo con la camicia elegante ma un po’ sfatta, e la cravatta allentata. Lo chef è, una volta su due, Gordon Ramsay se siamo nel mondo anglosassone, o Carlo Cracco per noi in Italia. L’immagine dell’insegnante marxista è meno personalizzata, ma ricca in dettagli: barba, giacca con le toppe sui gomiti, e l’immancabile pipa.
Indovinare quali immagini saranno evocate da queste minime descrizioni è possibile perché esse fanno parte
del nostro immaginario collettivo; sono immagini stereotipate di queste categorie sociali: il bancario, l’accademico, lo chef. L’esercizio può essere ripetuto con altre descrizioni, ma la mia scelta non era casuale, questi sono i tre personaggi che un autore già ce l’hanno: Jonathan Franzen.
Quando, nelle prime pagine del suo romanzo Le Correzioni, questi tre personaggi vengono introdotti, i lettori evocheranno con tutta probabilità queste immagini stereotipiche. Dopo qualche decina di pagine, però, saranno costretti ad abbandonarle. Innanzitutto, lo chef è una donna – anche tra la audience tipicamente progressista dei contesti in cui presento queste idee, mai nessuno ha menzionato di aver immaginato lo chef, e nemmeno uno degli altri due personaggi, come una donna. Il bancario è… Mi fermo qui, in caso non abbiate letto il libro.
Il punto è il seguente: Franzen ci obbliga a costruirci delle immagini diverse da quelle che inizialmente, spontaneamente si formano nella nostra mente. Così facendo, Franzen non conferma le nostre aspettative, i nostri schemi culturalmente appresi, i nostri stereotipi. Li demolisce. Se il romanzo lo avesse scritto Danielle Steel, ciò non succederebbe: dopo seicento pagine, mille colpi di scena si saranno prodotti, ma i tre personaggi rimarranno più o meno fedeli alle immagini stereotipate; invece di demolizione, troveremmo
conferma delle nostre aspettative. E questo è perché Franzen scrive romanzi letterari, mentre Danielle Steel scrive romanzi popolari.
Categorizzare i romanzi come letterari o popolari può apparire come elitario. In realtà, la distinzione che propongo non vuole essere un giudizio di valore; è una semplice distinzione, una tassonomia euristica. In questo scritto passerò in rassegna una serie di risultati emersi nell’ultimo decennio nelle scienze cognitive letterarie e nella linguistica computazionale, i quali suggeriscono che tale distinzione ha, continuando con i francesismi, una sua raison d’être
Cominciamo con una semplice domanda: i personaggi dei romanzi letterari sono davvero meno stereotipici e prevedibili di quelli popolari?
Alcuni esperimenti condotti, come la quasi totalità degli studi discussi qui, negli Stati Uniti, suggeriscono una risposta positiva. In tali esperimenti, ottocento partecipanti vennero aleatoriamente assegnati a leggere uno tra dodici testi. Vista l’impossibilità di leggere un intero romanzo nel contesto di un esperimento, i testi erano novelle, previamente categorizzate come letterarie o popolari sulla base della loro inclusione in omonime antologie. Tra le storie brevi figurano Corrie, del premio Nobel Alice Munroe e Uncle Rock, di Dagoberto Gilb. Tra quelle popolari troviamo Jane di Mary Roberts Rinehart e Space Jockey di Robert Heinlein. Dopo aver letto la novella a loro assegnata, i partecipanti completavano una serie di compiti. In uno di questi, i partecipanti rispondevano ad una serie di domande sul personaggio principale. Dalle loro risposte, emerse che i personaggi delle novelle letterarie venivano percepiti come meno chiari e meno prevedibili di quelli dei romanzi popolari. Tale risultato può apparire irrilevante: in fin dei conti, che cosa importa come questi personaggi fittizi vengano percepiti dai lettori? Di per sé, in effetti, importa poco. Ma tale percezione ha delle conseguenze profonde. Immersi in un romanzo o in una novella, così come in un film o in una serie televisiva, elaboriamo ipotesi sui personaggi, e sulla trama, attribuiamo cause ad eventi, creando analogie con altre informazioni che abbiamo in memoria riguardanti esperienze passate (esse stesse fittizie, o realmente accadute), desideri e paure, compiamo inferenze e le aggiustiamo in modo continuo alla ricerca di coerenza e di significato. Tutti questi processi mentali, che definiamo come “cognizione sociale”, sono gli stessi che adoperiamo nella
vita, reale, di tutti i giorni. La nostra mente, in altre parole, non differenzia necessariamente tra finzione e realtà. È allora non solo possibile ma alquanto probabile che le caratteristiche dei personaggi fittizi, e più in generale dei contesti sociali, economici e politici, dei romanzi che leggiamo, finiscono per influenzare cosa (contenuti) e come (processi cognitivi) pensiamo del mondo reale.
Se il cattivo del romanzo, alla fine, viene sempre sconfitto e l’eroe buono prevale, formerò delle credenze che il mondo (reale) è giusto – o non lo è. Se i personaggi fittizi che popolano le mie letture, o i film che guardo, hanno caratteri ben definiti e coerenti, tale è l’immagine che avrò degli esseri umani. Se le donne dei romanzi che leggo sono altamente emotive, distratte alla guida, e manipolative, nella mia mente si formerà un’associazione tra il concetto “donna” e queste caratteristiche, e tali associazioni verranno attivate, automaticamente, quando incontro una donna nella mia vita reale. Inoltre, la distinzione donna/uomo acquisirà maggiore significato e maggiore importanza, maggiore potere esplicativo, e la utilizzerò quindi più spesso per interpretare ciò che accade intorno a me. Poco importa che corrisponda o no alla verità, che le caratteristiche attribuite alle categorie sociali, in questo caso il genere, siano effettivamente così distribuite. Le nostre stesse aspettative, come ben sappiamo da decenni di ricerche nell’ambito della psicologia sociale e cognitiva, creeranno tale realtà.
L’essenzialismo psicologico è la tendenza ad interpretare le caratteristiche di una persona come causate da una qualche proprietà interna invisibile, l’essenza. Applicato alle categorie sociali, consiste nel percepire i membri di una categoria sociale come accomunati da tale essenza: gli italiani hanno una loro italianità, e i francesi una loro francesità. Tali credenze hanno conseguenze significative sul modo in cui approcciamo temi quali la criminalità, il genere, l’immigrazione, o l’integrazione europea. Una più marcata tendenza all’essenzialismo psicologico porta a vedere il carcere come ruolo di punizione più che di ri-educazione, a considerare ruoli come diversamente adatti a uomini e donne, a percepire gli immigrati come una minaccia all’italianità, la legislazione europea come interferenza. Così come in altri stili di pensiero e credenze, le persone variano significativamente nelle loro tendenze all’essenzialismo psicologico. A cosa sono dovute tali differenze?
Una ricerca di recente pubblicazione suggerisce che una delle cause sia proprio il tipo di romanzi che leggiamo. In due studi con un totale di circa mille partecipanti si riscontrò che una maggiore familiarità con romanzi di tipo letterario era associata con una minore tendenza al pensiero essenzialista. Maggiore familiarità con i romanzi popolari mostrava la tendenza opposta. Ricordate il bancario, lo chef ed il professore marxista? Se tali personaggi, nel corso del romanzo, confermano le nostre aspettative, schemi e stereotipi rispetto alle categorie sociali, in questo caso professionali, il pensiero essenzialista verrà fortificato: gli chef sono tutti così, e ciò che li accomuna è appunto la loro essenza. Se, come nel caso di Franzen, tali aspettative vengono deluse, la percezione di omogeneità delle categorie sociali viene erosa, e con essa il pensiero essenzialista.
Alcuni psicologi sociali hanno seguito per nove mesi un gruppo di studenti bianchi americani che per studiare all’università si sono trasferiti dall’entroterra alle isole alle isole Hawaii – caratterizzate da una popolazione fortemente multirazziale. Dallo studio emerse che frequentare tale popolazione causa in questi studenti una riduzione nel grado di convinzioni essenzialiste sulla razza. Secondo gli autori di questi studi, l’esposizione alla diversità crea incertezza
e sfida i confini delle categorie, riducendo così l’essenzialismo psicologico. Quando il mondo sociale è complesso e non facile da classificare, l’essenzialismo cessa di essere una valida euristica per interpretarlo e dargli un senso.
L’essenzialismo psicologico è fondamentalmente un’euristica – un escamotage mentale che ci aiuta a trarre conclusioni velocemente, con il minimo sforzo cognitivo. Il prezzo che paghiamo quando utilizziamo euristiche è la qualità delle conclusioni: psicologicamente soddisfacenti, ma poco accurate. L’efficienza richiede semplificazione, e la semplificazione è nemica dell’accuratezza. Particolarmente per quanto riguarda la spiegazione del comportamento umano, il contrario dell’essenzialismo psicologico consiste nel prendere in considerazione i molteplici fattori, sia interni alla persona sia dovuti alle circostanze immediate e del più ampio contesto, che lo causano. Gli psicologi sociali hanno uno strumento per misurare tale propensione: la scala di complessità dell’attribuzione. Come per l’essenzialismo psicologico, l’inclinazione a pensare in modo più o meno complesso varia da persona a persona. E come per l’essenzialismo psicologico, la ricerca dimostra differenti associazioni con il tipo di romanzi che si leggono. Parafrasando i risultati di tale ricerca per il contesto italiano, diremmo che chi ha
letto Resistere non serve a niente è probabile che veda il comportamento umano come causato da una fitta rete di fattori che interagiscono in modo complesso. Chi ha letto Scusa ma ti voglio sposare, opterà per spiegazioni più semplici.
Il carattere correlazionale delle ricerche che hanno evidenziato il legame tra il tipo di letture che si predilige da una parte, ed il pensiero essenzialista e la tendenza a riconoscere la complessità delle cause del comportamento umano dall’altra, ci spinge ad essere cauti nell’interpretazione degli stessi. Leggere romanzi letterari inibisce e leggere romanzi popolari stimola l’essenzialismo psicologico, o le persone che hanno una propensione per tale pensiero leggono romanzi popolari, mentre gli altri preferiscono quelli letterari?
È il vecchio dilemma dell’uovo e della gallina. Alla luce di altre ricerche in questo campo, possiamo considerare come probabile che persone con dei profili psicologici diversi scelgano tipi di romanzi diversi, e quindi l’ipotesi più probabile è che la causalità tra letture e pensiero non sia unidirezionale, ma bensì circolare.
Inoltre, visto che si tratta di dati correlazionali (e non sperimentali) potrebbero esserci variabili cosiddette intervenienti: variabili che co-variano con quelle di interesse, e che possono causare correlazioni “spurie”. Nelle ricerche qui descritte alcune di queste variabili sono state prese in considerazione ed il loro effetto eliminato tramite procedure statistiche. Tra loro troviamo il livello di educazione, il sesso e l’ideologia politica dei partecipanti. Tanto per fare un esempio, è possibile che per qualche ragione che non possiamo necessariamente anticipare, le persone che hanno una predilezione per i romanzi letterari siano ideologicamente più a sinistra, e per altre ragioni, le persone ideologicamente più a sinistra abbiano una tendenza minore all’essenzialismo psicologico. Dalla relazione tra tipo di letture che le persone fanno e, per esempio, la tendenza al pensiero essenzialista, possiamo eliminare, con delle procedure statistiche, la parte dovuta all’ideologia. Le ricerche discusse qui sopra hanno utilizzato queste tecniche, migliorando la nostra fiducia nei risultati.
Queste precisazioni di natura metodologica riflettono la difficoltà di studiare in modo rigoroso l’impatto che i romanzi, o altri prodotti culturali, hanno sulla nostra cognizione sociale. Non è pratico, e tantomeno etico, isolare per un mese cento persone e far loro leggere esclusivamente testi letterari o testi popolari al fine di studiare gli effetti di tale dieta. Mini versioni
di questo improbabile esperimento, però, esistono, ed hanno evidenziato gli effetti di leggere romanzi letterari o romanzi popolari su un altro processo di cognizione sociale: la Teoria della mente.
IO CREDO CHE LEI SAPPIA CHE TU L’AMI
Una delle caratteristiche che viene considerata se non unicamente, almeno squisitamente umana, è la capacità di inferire i processi mentali altrui; le emozioni, credenze e aspirazioni delle altre persone, i loro pensieri, dubbi, desideri. In altre parole, capirne la mente.
Per capire la mente di un’altra persona dobbiamo possedere una serie di concetti chiave (per esempio una chiara concezione delle diverse emozioni), dispiegare una serie di processi cognitivi (dall’attenzione alla memoria), ed essere motivati a compiere uno sforzo inferenziale per capire cosa passa nella testa di questa specifica persona – anche se alcuni dei processi di base avvengono in modo spontaneo ed automatico, e senza richiedere sforzo cognitivo, formare un pensiero rispetto allo stato mentale dell’altro necessita sempre una motivazione a farlo.
Nelle scienze cognitive, questa capacità è chiamata Teoria della mente – un costrutto simile, ma distinto dall’empatia. Come abbiamo appena visto, la Teoria della mente è un concetto poliedrico, ed è quindi stato misurato in vari modi che vanno dall’indovinare quale emozione la persona rappresentata in una fotografia (o in un video) sta provando, al tenere in conto le intenzioni di una persona quando si deve giudicare il suo operato. Questi ed altri test di Teoria della mente sono stati utilizzati in vari esperimenti, nei quali, però, ai partecipanti veniva prima chiesto di leggere novelle o parti di vari romanzi. Ogni testo era stato precedentemente classificato come letterario o popolare – con criteri sui quali ritorneremo. Ogni partecipante leggeva solo un testo; non era a conoscenza del fatto che i diversi partecipanti leggevano altri testi, né, tantomeno, del fatto che il “suo” testo era stato classificato come letterario o popolare. Inoltre, non era il partecipante a scegliere quale testo leggere; è sempre lo sperimentatore, o un algoritmo, che assegna un testo a caso ad ogni partecipante. L’assegnazione aleatoria è una componente essenziale della ricerca sperimentale, in quanto garantisce, con un numero di partecipanti adeguato, che i due gruppi non siano, in partenza, diversi tra loro. Eventuali differenze tra i gruppi che emergono in seguito alle diverse attività che svolgono, possono essere quindi attribuite a tali
attività. Nel caso specifico, al fatto che avessero letto un testo letterario o popolare. Quello che emerge da questi esperimenti è che i partecipanti che leggono un testo letterario hanno successivamente una performance migliore sui test di Teoria della mente, rispetto a quelli che hanno letto un testo popolare. Notiamo anche che lo stesso risultato emerge da studi correlazionali, come quelli citati precedentemente, in cui si trova che una maggiore familiarità con testi letterari è associata con una migliore performance ai test di Teoria della mente. È vero: lei lo sa che tu l’ami.
Un esperimento ha esteso questa linea di ricerca ai film. L’equivalente della distinzione usata finora per i romanzi, letterari versus popolari, nei film è quella tra i film d’autore e film hollywoodiani. In questo caso, metà dei partecipanti guardavano film che avevano riscosso poco successo al botteghino ma che erano stati finalisti o vincitori del festival di Cannes (film d’autore), mentre l’altra metà guardava film che, pur non avendo vinto nessun premio, avevano riscosso un grande successo commerciale (film hollywoodiani). Dopo aver guardato il film a loro assegnato, i partecipanti completavano dei test di Teoria della mente.
Anche in questo caso una differenza emerse: quelli che avevano guardato film d’autore ottenevano punteggi migliori rispetto a quelli che avevano guardato film hollywoodiani.
La ricerca discussa fin qui suggerisce che leggere romanzi letterari ha effetti diversi sul modo in cui pensiamo, rispetto a leggere romanzi popolari. Questa tassonomia dei romanzi è usata comunemente da accademici, critici letterari, editori/biblioteche, giornalisti, così come nella vita di tutti i giorni. La tassonomia è basata principalmente su intuizioni, aneddoti, e riflessioni di studiosi estremamente qualificati a fare una lettura approfondita di tali testi. Da tutto ciò emerge l’idea che perlomeno l’esperienza che lettori e lettrici fanno di questi testi è diversa. Ma l’esperienza da cosa è influenzata? Esistono differenze oggettive tra i testi letterari e popolari?
IN PRINCIPIO ERA IL VERBO – LINGUAGGIO E STRUTTURA DELLA NARRATIVA
La magia dei romanzi sta nel fatto che a partire da semplici parole, la nostra mente crea dei mondi. In questi mondi ci immergiamo, soffrendo e gioendo
con i personaggi, anticipandone le vicissitudini, riflettendo sul loro significato. È la nostra capacità di immaginazione che trasforma le parole in qualcosa di così straordinario. In principio, però, rimane il verbo.
Essendo il verbo, inteso come linguaggio, l’unica realtà oggettiva di cui i romanzi sono fatti (al contrario, per esempio, dei film, che hanno suoni, immagini, movimento, tempi strutturati, ecc.), è sul linguaggio che dobbiamo concentrarci per capire se esistono differenze tra romanzi letterari e popolari. Come abbiamo visto, le ricerche suggeriscono che leggere romanzi letterari elicita, tra le altre cose, una maggiore capacità di leggere la mente altrui. Gli psicologi dello sviluppo, che da decenni studiano lo sviluppo della Teoria della mente negli anni dell’infanzia, hanno da sempre osservato come tale capacità sia collegata all’acquisizione e sviluppo del linguaggio. Andando più nello specifico, esiste una correlazione tra capacità nella Teoria della mente e abilità a comprendere strutture sintattiche complesse. È possibile che il linguaggio dei romanzi letterari sia caratterizzato da strutture sintattiche più complesse? Ebbene, una ricerca fresca di stampa dimostra proprio questo. Analizzando un corpus di romanzi in lingua inglese pubblicati negli ultimi vent’anni, si è riscontrato che rispetto ai romanzi popolari (cioè romanzi che senza vincere alcun premio hanno però conquistato le vette delle classifiche di vendita), i romanzi letterari (vincitori o finalisti del premio statunitense National Book Award) hanno una struttura sintattica più complessa. Ma c’è di più.
Già Aristotele notò come le storie tendessero a seguire una struttura comune, fatta di inizio, svolgimento, ed epilogo. Da allora, varie strutture prototipiche sono state identificate e studiate dagli studiosi letterari, e recentemente, grazie agli sviluppi della linguistica computazionale, possiamo anche estrarre degli indici matematici che le rappresentano. Alcuni anni fa, degli psicologi sociali hanno sviluppato indici per tre di queste strutture, chiamati messa in scena, progressione della trama, e tensione cognitiva. Attraverso l’analisi di migliaia di testi, tra cui romanzi, questi autori hanno dimostrato che l’indice che riflette la messa in scena ha valori elevati all’inizio della storia, e diminuisce linearmente con il progredire della stessa, mentre l’indice della progressione della trama mostra il trend opposto: all’inizio del romanzo è molto basso ed aumenta in modo lineare col susseguirsi delle pagine. Il terzo indice mostra un vero e proprio arco: la tensione
cognitiva aumenta dall’inizio fino a circa metà del romanzo (svolgimento), per poi cominciare a diminuire tornando ai livelli iniziali verso la fine (epilogo). Questi tre indici sono considerati come una misura di quanto la struttura della storia corrisponde alle aspettative del lettore, sia cioè tipica (perlomeno nella tradizione culturale dell’Occidente; in altre tradizioni, particolarmente in quelle orientali, il finale tende ad essere meno risolto, per dare spazio alla riflessione). Ebbene, anche a questo riguardo, i romanzi letterari e quelli popolari sembrano differire. I risultati preliminari di una ricerca effettuata sullo stesso corpus utilizzato per studiare differenze nella sintassi, suggeriscono che gli andamenti degli indici appena descritti emergono sia nei romanzi popolari che in quelli letterari, ma che per questi ultimi l’andamento non è così marcato: la messa in scena inizia a livelli più bassi e non dissipa in modo così chiaro, e la progressione della trama aumenta sì nel corso del romanzo, ma non così marcatamente. Infine, l’arco della tensione cognitiva non è così accentuato. Anche per quanto riguarda la struttura stessa della trama, quindi, romanzi popolari e letterari sembrano differire, e la differenza è anche qui nel loro corrispondere o meno alle aspettative; a come lettori e lettrici si aspettano che la storia si evolva.
EPILOGO RAGIONATO
Le storie, il loro contenuto e la loro struttura, così come il loro ruolo nell’evoluzione umana, sono da secoli oggetto di riflessione. La ricerca empirica che ho qui sintetizzato, però, è solo agli albori. Negli anni a venire le tecniche utilizzate in queste ricerche
Esperto di scienze cognitive, psicologia politica e sociale, ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’università cattolica di Lovanio (Belgio) ed insegnato in prestigiose università di Scozia, Inghilterra e Stati Uniti, dove nel 2014 è stato nominato professore ordinario. Docente nel Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’università di Trento, e associato dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, nell’ultimo decennio ha studiato l’impatto dei prodotti culturali, e in particolare dei tipi di narrativa, sui processi di cognizione sociale.
verranno raffinate, e nuovi strumenti emergeranno –già intravediamo il ruolo dell’intelligenza artificiale, non solo per lo studio dei testi, ma anche nella loro produzione. Vale tuttavia la pena di trarre alcune conclusioni.
Partiamo dall’evidenza che testi popolari e letterari differiscono in termini di complessità sintattica e della struttura della storia stessa. Significa dunque che è lecito, o opportuno, parlare di letteratura alta e letteratura bassa? Invece di creare una gerarchia della narrativa, credo sia opportuno riflettere sul significato di queste differenze, soprattutto in luce dei risultati delle ricerche qui riassunte che suggeriscono un’associazione tra tipi di narrativa da una parte, e processi di percezione sociale e stili cognitivi dall’altra. Alcuni di questi, quali l’essenzialismo psicologico e la tendenza a percepire gli altri in base a categorie sociali di appartenenza, permettono di immaginare, costruire e mantenere gruppi sociali, e con loro lo sviluppo di identità e di ruoli, semplificando il mondo sociale. Altri processi di percezione sociale e stili cognitivi favoriscono, al contrario, una visione del mondo più complessa; spingono non alla categorizzazione sociale ma all’individualizzazione, enfatizzando la soggettività, idiosincraticità ed inscrutabilità di ogni essere umano. E così facendo possono erodere l’idea del gruppo come avente una sua realtà propria, una sua essenza.
Semplificazione e certezze da una parte; complessità e dubbio dall’altra. Possiamo concludere che una di queste configurazioni abbia più valore dell’altra? E come definiamo il valore? Dal punto di vista della vita intrapsichica, dell’equanimità psicologica, insomma, di quanto stiamo bene nella nostra pelle, ma anche dal punto di vista dell’economia di risorse cognitive, la ricerca in psicologia suggerisce che certezze e semplificazione possono risultare più adattive. A causa del loro non essere accurate, del fatto che se non ci restituiscono un’immagine “vera” della realtà, possono però poi diventare disadattive nel medio o lungo termine, sia nell’ambito delle nostre relazioni interpersonali che nella nostra vita sociale. Molte illusioni ci aiutano a vivere, ma a volte, anche se non sempre, veniamo confrontati con la realtà.
Altrettanto complesso è giudicare ciò che è desiderabile, di valore, per quanto riguarda la società nel suo complesso. La semplificazione della realtà sociale può aiutare a creare coesione sociale – mi azzarderei anche a dire che la coesione, intesa come formazione di identità collettive e quindi di
coordinamento e collaborazione, richiede le forze centripete della semplificazione, un certo glissare sulle differenze individuali. Tuttavia, una coesione senza limiti porta una società all’ossificazione, alla chiusura; che va quindi contrastata con la complessificazione delle strutture esistenti, sia sociali che concettuali. La storia dell’umanità è caratterizzata, ed infatti costituita, anche da queste forze centrifughe.
Per prosperare, una società umana deve quindi non solo consentire ma anche proteggere l’esistenza di questi due tipi di forze, assicurando una continua tensione tra di esse.
Questo avviene in modo esplicito nella contrapposizione ideologica tra conservatorismo e progressismo; forse, ma solo in apparenza, meno esplicitamente nelle arti visive e performative, dove si contrappongono tradizione ed avanguardia; e, come ho proposto, nella narrativa, in quella distinzione, forse solo contemporanea, e quindi forse anche temporanea, tra la narrativa popolare e letteraria. ■
L. BARTOLOMEO, L. CERNIGLIA, M. CAPOBIANCO, Empatia e Teoria della Mente: una review narrativa su differenze e convergenze concettuali alla luce delle recenti scoperte neurobiologiche, pubblicato in Ricerche di Psicologia 41, 19–54. doi: 10.3280/RIP2018-001003 (2018).
R.L. BOYD, K.G. BLACKBURN, J.W. PENNEBAKER, The narrative arc: Revealing core narrative structures through text, (2020).
E. CASTANO, J. ZANELLA, F. SAEDI, L. ZUNSHINE, L. DUCCESCHI, On the Complexity of Literary and Popular Fiction, pubblicato in Empirical Studies of the Arts, 02762374231163483, (2023).
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K. PAUKER, C. CARPINELLA, C. MEYERS, D.M. YOUNG, D.T. SANCHEZ, The role of diversity exposure in Whites’ reduction in race essentialism 1007 over time pubblicato in Soc. Psychol. Pers. Sci. 9, 944–952 (2018). doi: 10.1177/19485506177 1008 31496.
Chi erano davvero gli indios? E chi eravamo noi? Passa dal corpo come sede dell’anima una nuova metafisica.
Gianfranco Marrone
Sembra che nelle Grandi Antille, pochi anni dopo la scoperta dell’America, accadessero strani incroci, sanguinose inversioni metafisiche. Gli spagnoli, incuriositi dagli abitanti di quei luoghi, istituivano commissioni d’inchiesta per decidere se gli indios avessero o meno un’anima, e se si potessero considerare a tutti gli effetti persone umane. Come noi. Gli indios, dal canto loro, immergevano i prigionieri bianchi sott’acqua, per esaminare con grande attenzione le trasformazioni fisiche dei loro cadaveri, in modo da capire se quei corpi andassero o meno in putrefazione; e se, per questo, si potessero considerare a tutti gli effetti persone umane. Come loro.
Questo aneddoto, ricavato dalla Historia de las Indias di Gonzalo Fernandez de Oviedo (1526), circola molto fra gli antropologi, soprattutto americanisti, funzionando come una specie di parabola teorica. Claude Lévi-Strauss, in Razza e storia, lo citava per ricordare il fatto che la natura umana, volente o nolente, tende a negare la propria generalità, preferendo semmai distinguere, al suo interno, fra uomini “veri e propri” e loro eventuali sottoprodotti, con tutte le orride – troppo umane – conseguenze del caso: razzismi, persecuzioni, stermini di massa e così via.
Lo stesso studioso, tornando sulla questione in Tristi tropici, ha inoltre sottolineato come, al di sotto dell’apparente simmetria fra i due comportamenti degli spagnoli e degli indios alla ricerca di una peculiare risposta al medesimo interrogativo, ci sia tra essi una forte differenza d’intenti. Gli europei, usando i modelli della teologia, sostenevano che gli ‘altri’, gli indios, non fossero altro che animali, dunque da perseguire, maltrattare, uccidere. Gli abitanti delle Antille invece,
Saggista e scrittore, lavora sui linguaggi e i discorsi della contemporaneità. È professore ordinario di Semiotica nell’Università di Palermo. Ha tenuto corsi, fra le altre, nelle università di Bologna, Bogotà, IULM, Jyväskylä, Limoges, Madrid, Meknès, Paris Descartes, Pollenzo, São Paulo. Dirige il Centro internazionale di scienze semiotiche di Urbino e la rivista E/C (www.ec-aiss.it). È Presidente del Circolo semiologico siciliano. Pubblicista, collabora a Tuttolibri, doppiozero e altre testate. Fa parte del Comitato scientifico di Versus, Carte semiotiche, Lexia, Actes Sémiotiques, Ocula, LId’O. Dirige la collana “Insegne” di Mimesis e la “Biblioteca di Semiotica” presso Meltemi.
usando i loro modelli scientifici, sospettavano che gli spagnoli fossero spiriti, idoli, veri e propri dèi. Il gioco, insomma, è a tre termini (uomini, animali, dèi), non a due (uomini e no). Come dire che l’alterità a cui pensano gli occidentali non è la stessa che hanno di mira i cosiddetti primitivi: laddove questi ultimi innalzano l’uomo verso la divinità, gli altri riducono l’uomo a pura bestia. In altre parole: non solo dalle due sponde dell’Atlantico si pensava, e si agiva, in termini assai diversi, ma questi comportamenti facevano riferimento a principi metafisici disuguali, a differenti modi di pensare la realtà, l’esistenza, il cosmo, la coscienza umana e la sfera del divino. Metafisica, dunque, in entrambi i casi . Questa amara storiella è ripresa e ridiscussa in Metafisiche cannibali (2009, trad. it. Ombre corte, 2017), libro chiave di Eduardo Viveiros De Castro, arcinoto antropologo brasiliano, cattedra al Museo antropologico di Rio de Janeiro, che da alcuni anni a questa parte sta portando avanti ampie e innovative riflessioni non solo nel campo dell’etnologia e dei suoi metodi, ma, ben più in grande, in quello della critica filosofica. Provando a intrecciare, tanto per fare nomi, la cosiddetta “svolta ontologica” in antropologia (Descola, Ingold, Latour, Strathern… ma anche Sahlins e Wagner) con, da una parte, lo strutturalismo sistematico di Lévi-Strauss e, dall’altra, il post-strutturalismo dinamico di filosofi come Foucault e, soprattutto, Deleuze e Guattari. Il suo scopo, come ha dichiarato più volte (si veda per esempio Lo sguardo del giaguaro, Meltemi 2023, utilissima raccolta di interviste in cui Viveiros sintetizza e chiarisce alcuni spunti del pensiero), è quello di scrivere un libro che, parallelamente all’Anti Edipo di Deleuze-Guattari, possa intitolarsi L’Anti Narciso. Un libro che forse non vedrà mai la luce, ma il cui intento centrale – dissolvere la sedicente centralità del pensiero occidentale, decolonizzando il resto del mondo – circola dappertutto nei suoi scritti e nei suoi detti (fra gli altri, si veda anche il prezioso Esiste un mondo a venire?, con Déborah Danowski, Nottetempo 2017).
Ma cos’è una metafisica cannibale? Già in quel titolo, apparentemente ossimorico, si coglie l’allusione a uno dei testi più noti dello stesso Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, che sessant’anni fa attribuiva ai cosiddetti primitivi forme complesse di attività filosofico-scientifica, classificatoria, speculativa.
Analogamente, Viveiros sostiene che gli antropofagi (voluto stereotipo per indicare, fra il letterale e il metaforico, le popolazioni studiate dagli etnologi) praticano addirittura una metafisica, o se si vuole una cosmologia, che è cosa al tempo stesso più ampia e più precisa della famigerata “cultura” di cui essi, si dice, sarebbero portatori. Avendo a lungo lavorato sulle (ma
sarebbe meglio dire con le) popolazioni amazzoniche, Viveiros ha riscontrato in esse un radicale animismo, e cioè una tendenza ad attribuire a un gran numero di esseri viventi o cose del mondo una spiritualità, dunque un’umanità. Per gli Jivaros, ad esempio, le scimmie, i pecari o certi uccelli possono far parte della famiglia allargata, come i parenti acquisiti. E
se tutti (uomini e animali e piante, ma anche spiriti o entità oniriche) hanno potenzialmente un’anima, a distinguere fra loro gli esseri viventi sarà il corpo: è nel corpo che si istituiscono le differenze di specie; è il funzionamento fisiologico a determinare la separazione fra esseri propriamente umani e altri esseri viventi, più o meno fantastici.
In origine, secondo l’immaginario amazzonico, gli esseri viventi – uomini, animali e spiriti – erano uomini a tutti gli effetti; poi, poco a poco, alcuni di essi hanno cambiato corpo, diventando ora animali ora spiriti, mantenendo però tutta la loro interiorità, la coscienza, il loro essere persona umana. Si capisce così il senso profondo di quello che gli indios, nella parabola lévistraussiana, stavano facendo con i loro detenuti spagnoli: studiando le reazioni fisiologiche dei loro corpi, andavano in cerca in essi di forme di umanità, per poter con -
seguentemente respingere la loro supposta natura divina. Gli europei non avevano mai negato che gli amerindi avessero un corpo; dubitavano piuttosto della loro anima. Gli indios, al contrario, sapevano già che gli spagnoli avessero un’anima; ma non erano certi del senso dei loro corpi. Osservarne il comportamento post mortem (le forme di decomposizione dei cadaveri) era allora il miglior modo per valutarne la reale umanità.
Da qui, per farla breve, l’idea di fondo del libro di Viveiros: non esiste la natura, non esiste la cultura, così come, più che altro, non esiste una maniera univoca di separare questi due ambiti. Per noi occidentali la natura è una e una sola, base fisica e biologica a partire da cui le varie culture si costituiscono come altrettanti modi per distaccarsi da essa. Per molte altre etnie le cose non stanno però così. Per loro a essere univoca è la cultura, mentre molteplici sono le nature.
Eduardo Viveiros De Castro insegna dal 1984 antropologia presso il Museu Nacional dell’Università federale di Rio de Janeiro. È stato anche professore di Latin American Studies presso l’Università di Cambridge tra il 1997 e il 1998 e direttore della ricerca al CNRS tra il 1999 e il 2001. Nel 1998, a partire da un ciclo di lezioni tenute a Cambridge, segna l’inizio della cosiddetta Ontological Turn. Il suo lavoro ha offerto un’inedita riflessione sulle comunità amerinde. Avanzando l’idea di un multi-naturalismo, Viveiros De Castro ha tentato un approccio in grado di aprire l’antropologia alla filosofia. Ha anche teorizzato, chiamandolo“prospettivismo” o “multi-naturalismo”, che alcuni popoli non solo credano che gli animali si comportino come gli esseri umani, ma che gli animali stessi percepiscano gli esseri umani come animali, come se il punto di vista di una specie sulle altre dipendesse sempre dal corpo in cui questa risiede. L’Ontological Turn è oggetto di accesi dibattiti accademici. Autore di molte pubblicazioni scientifiche e saggi divulgativi, la bibliografia completa è su Wikipedia.
Così, dal canto nostro, è abbastanza ovvio il concetto di multiculturalismo: una natura, tante culture. Per gente come gli Achuar amazzonici, ma per molti altri popoli nel mondo, a essere invece moneta coerente è il multinaturalismo – una cultura, tante nature –, nozione che gli europei occidentali fanno grossa fatica anche soltanto a intendere, se non addirittura a percepire.
PROSPETTIVISMO VERSUS RELATIVISMO
Proviamo a spiegare, ricorrendo al concetto chiave del pensiero di Viveiros de Castro: il prospettivismo. Da non confondere, come lo studioso brasiliano sottolinea puntualmente, con il relativismo. Quest’ultimo esiste perché s’oppone all’universalismo (e viceversa). Il prospettivismo invece agisce trasversalmente, decostruendo sia il relativismo sia l’universalismo. Seguendo le narrazioni mitologiche degli indigeni, ascoltando i resoconti etnografici, osservando con attenzione i comportamenti di tribù e clan d’ogni tipo, emerge con chiarezza come al centro d’ogni pensiero e azione ci sia quella che Viveiros chiama metafisica della predazione: in fondo siamo tutti o prede o predatori (oggetti mangiati o soggetti mangianti, come ha tradotto il grande matematico francese René Thom). Da cui la molteplicità e la variazione costante dei punti di vista, i quali a loro volta dipendono dalla posizione e dal ruolo dei corpi in circostanze date. Così, spiega Viveiros, in condizioni normali gli umani vedono sé stessi come umani e gli animali come animali; se in trance e perché malati gli umani vedono anche gli spiriti come spiriti. A loro volta invece gli animali predatori e gli spiriti vedono gli umani come prede, mentre le bestie preda vedono gli umani ora come spiriti ora come predatori. Così facendo, predatori e prede animali vedono se stessi come umani, e il cibo animale come cibo umano. I giaguari vedono nel sangue umano birra di mais, gli avvoltoi percepiscono i vermi di una carogna come pesce grigliato. Da cui tutta la rilevanza metafisica e la complessità tematica del tema cannibalico. Allo stesso modo gli ornamenti umani (vestiti, gioielli, trucco) sono per gli animali altrettante forme di apparenza animale, mentre per gli umani piumaggio, pelame, unghie o becchi animali diventano forme d’abbigliamento.
In fondo, spiega Viveiros appoggiandosi alle teorie di Benveniste, il punto di vista degli esseri viventi è analogo al sistema pronominale delle lingue: così come io è chi dice “io”, e diviene “tu” se si inverte la prospettiva dell’interlocuzione, lasciando a tutti gli
altri, non inclusi, il ruolo di “egli”, analogamente accade nel prospettivismo amerindio: le persone che agiscono in quella cosmologia non sono sostantivi ma, appunto, pronomi, che cambiano incessantemente sulla base della posizione che occupa il loro corpo, hic et nunc, nel mondo. La persona di cui parla Viveiros non è allora quella, spiritualmente sovraccarica, del personalismo filosofico ma quella della grammatica: come quando diciamo prima, seconda o terza persona a seconda della posizione momentanea dei soggetti dell’enunciazione linguistica.
Lo sguardo del giaguaro è il momento in cui questo animale dice “io”, vedendo prede dappertutto: gli umani per esempio diventano maiali o pecari, e il sangue che scorre nelle vene, s’è detto, ottima birra. Accade però che il giaguaro divenga un “tu”, o peggio ancora un “egli”, iniziando così a pensare che i veri cannibali siamo noi, stupidi animali che pretenderemmo, chissà come, di farlo arrosto per papparcelo.
Per questa ragione il prospettivismo non ha nulla del relativismo. Per il relativista – personaggio tipicamente occidentale – è il punto di vista a creare l’oggetto. Per il prospettivista è l’oggetto, la sua posizione corporea nel mondo, a produrre il punto di vista. Che si modifica continuamente. Ecco l’Anti Narciso: non solo la cultura occidentale non ha nulla di superiore rispetto alle altre, non solo le culture altre hanno strutture concettuali altrettanto complesse della nostra, ma, di più, nel momento in cui la nostra cultura vuole specchiarsi nelle altre ci cade dentro e sparisce. Si dissolve. Muore. Come quei cadaveri di bianchi immersi nel mar dei Caraibi per osservarne, con piglio scientifico, le mutazioni somatiche.
La sfida lanciata dal prospettivismo di Viveiros è insomma duplice: da una parte, ricostruendo le cosmologie amerindie, ne rivendica la specificità; dall’altra spinge la nostra cosmologia e rivedere se stessa sino a dissolversi. Emergono del resto anche chez nous contrasti manco tanto nascosti fra modi diversi di relazionarsi con gli esseri naturali, considerandoli sempre meno tali. Basti pensare al veganesimo o all’animalismo, e ai conflitti che ne derivano all’interno delle nostre vite quotidiane. Per sempre più persone, come per gli Jivaros, certi animali fanno parte della famiglia. Sono come figli, nipoti, fratelli, cugini. Non si spiegherebbe altrimenti il gesto dell’allattare con un biberon un tenero agnellino. Il marketing dei cibi per pet è oggi fiorente più che mai. Questione di punti di vista. ■
Riprodurre un’opera o ispirarsi a immagini di successo è oggi riprovevole. Ma non è sempre stato così: l’omaggio ai Maestri lo prevedeva. E adesso c’è chi intende resuscitare la prassi dei “rifacimenti”.Un artista contemporaneo, Barry X Ball, ricrea statue celebri. Perché, come la rosa di Gertrude Stein, una copia è una copia è una copia è una...
Sara Piccinini
Barry X Ball, Sleeping Hermaphrodite, 2008-2017, in onice rosa iraniano translucente. Nella pagina a fianco, Sleeping Hermaphrodite, 2008–2010 in marmo nero belga. Le opere riproducono il modello tratto dall’Ermafrodito Borghese, Museo del Louvre, Parigi (ex Collezione Borghese, Roma), che era stato scoperto nei pressi delle Terme di Diocleziano nel 1608: figura e panneggio sono attribuiti al Periodo imperiale romano (II secolo d.C.) da originale greco (II secolo a.C.), con restauri di David Larique (1619) e l’inserimento del letto di Gianlorenzo Bernini (1619). Courtesy e copyright di Barry X Ball per tutte le immagini delle sue opere.
Percorrendo le sale settecentesche di un celebre palazzo veneziano affacciato sul Canal Grande, in un passato piuttosto prossimo, il visitatore un poco distratto avrebbe potuto temere di essere affetto da diplopia, giungendo al cospetto di uno spazio-soglia compreso tra due sculture guardiane. Su un piedistallo, la Dama velata (Puritas), 1720 ca. di Antonio Corradini, delicato busto allegorico della Fede cristiana, in cui la compattezza del marmo si fa velo, grinza, quasi morbida pelle cadente; a breve distanza, una seconda “Purezza”, ugualmente bianca e raffinata, ma più traslucida, luminosa, e con la testa specularmente inclinata rispetto alla prima, a creare una linea di consonanza di intimo e congiunto
abbandono, insieme a uno spazio di tensione quasi sacrale tra le due.
A partire dal 2008 Barry X Ball, artista americano già dedito all’utilizzo di materiali preziosi e di tecnologie avanzate, ha iniziato a rivolgere il suo interesse alla statuaria antica. Dalle prime Purity, realizzate in onice iraniano bianco, rosa e in marmo nero del Belgio, ha proseguito la sua ri-produzione contemporanea, sempre citando i modelli di partenza, con capolavori come L’invidia (1660-1670) di Giusto Le Court – da lui elaborato anche in pietre esuberanti come l’onice messicano e la calcite Americana “Golden Honeycomb” –, la Pietà Rondanini (1552-1564) o il San Bartolomeo scorticato (1562)
Barry X Bal, Purity, 2008-2021, in marmo nero belga; a fianco, Purity 2008-2011, in onice rosa iraniano. Nella pagina a destra, sempre di Barry X Ball, Purity, 2008–2019 in onice bianco iraniano translucente. Le opere sono ispirate a La Purità di Antonio Corradini, 1720-1725, Ca’ Rezzonico, Venezia.
di Marco d’Agrate. Ma forse qui l’opera di Ball che più si presta a una riflessione sul concetto di “copia” è Sleeping Hermaphrodite (Ermafrodito dormiente, 2008-2010), che l’artista ha modellato in total black (marmo nero del Belgio, quasi un contraltare al colore bianco dell’originale) e total pink (onice iraniano rosa, quasi a ricostruire con il materiale la tonalità e la consistenza del giovane incarnato).
La scultura di riferimento di Ball è qui il cosiddetto “Ermafrodito Borghese”, rinvenuto nei pressi delle terme di Diocleziano nel 1608 e subito acquisito dal Cardinal Borghese, che poi commissionò a Gian Lorenzo Bernini la realizzazione del realistico letto in marmo capitonné su cui adagiare il/la fanciullo/a. Questa antica scultura, finita al Louvre nell’Ottocento, era ab origine una copia romana del II secolo
d.C. da un originale ellenistico del II secolo a.C., così come nei secoli successivi sono state rinvenute altre sorelle e varianti del medesimo soggetto, ora esposte in musei tra cui la Galleria Borghese, gli Uffizi e l’Ermitage. Alcuni artisti moderni hanno poi lavorato su questa stessa iconografia, fino a giungere al lavoro di Barry X Ball che, pur mantenendo l’intensità e tutti i tratti fondamentali espressi dai Maestri nelle creazioni originarie, apporta centinaia di cambiamenti più o meno visibili – dalla scelta del materiale alla sottrazione di dettagli, dalla modifica di intere parti dell’opera originaria alle più sottili variazioni della superficie – trasportando quelle immagini in un altro tempo e in altri spazi, invitandoci a ri-appropriarcene e a spingerle oltre.
Seguendo il percorso dell’Ermafrodito, è possibile
San Bartolomeo Scorticato (1562) di Marco d’Agrate, Duomo di Milano. Nella pagina a fianco, la riproduzione di Barry X Ball, Saint Bartholomew Flayed, 2011–2020, in marmo francese Rouge du Roi
tracciare una cronologia sintetica del concetto di copia
dall’antichità ad oggi. Nell’antica Roma nascono i primi imitatori fraudolenti, principalmente di arte greca, molto ambita dai collezionisti; ma in quell’epoca, come per tutto il Medioevo, la copia è stata primariamente un mezzo di divulgazione di modelli, di diffusione della conoscenza, in un contesto storico in cui l’originalità non era un valore primario e copiare non era ritenuto in sé disdicevole. Ciò che assomiglia all’originale, e presenta quindi un grado adeguato di abilità artigianale, è considerato vero (e, nel caso delle reliquie, assolutamente efficace e funzionale).
Con l’aumentare del numero dei collezionisti e del valore dell’antico a partire dal Rinascimento, cresce anche il numero di commissioni di imitazioni e di copisti; ma ancora, spesso, queste imitazioni, o i rimaneggiamenti (come nel caso del letto di Bernini per l’Ermafrodito), non erano mossi dalla volontà di ingannare, quanto di omaggiare i capolavori del passato, di prolungare, su un modello classico, quello che era il proprio ideale di arte.
Il fenomeno si è ulteriormente sviluppato, con proporzioni inedite, nel XVIII e XIX secolo, quando insieme al collezionismo sempre più diffuso nasce la vera
Barry X Ball, Envy, 2008-2010, in calcite a nido d’ape dorata. A fianco, sempre Envy, 2008-2013, in onice messicano. Il modello è tratto da L’invidia di Giusto Le Court, circa 1670.
industria del falso. È in quel momento che inizia la forte distinzione, percepita e sostenuta a livello collettivo nel mondo occidentale, tra originale e falso, tuttora parte del sistema dell’arte contemporaneo.
Barry X Ball mantiene il titolo dell’opera (tradotto in inglese) e menziona il modello originale nelle descrizioni delle sue opere – preceduto da “after” (d’après).
In un presente di grande complessità, le sue sculture promanano, in modo estremamente consapevole, dalla tradizione più antica della copia, intesa come forma di omaggio e come modello per l’apprendimento. Ma allo stesso tempo, questi “specchi degli originali” incarnano la testimonianza di un intrigante e perpetuo interrogativo: cosa e come può definirsi una “copia”? ■
Ha studiato semiotica all’Università di Bologna, trascorrendo un periodo di Erasmus all’Université Libre di Bruxelles nel 2005. Dopo l’internship alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia (2006), si è perfezionata con un corso di comunicazione dell’arte al Sotheby’s Institute of Art di New York (2012). La Collezione Maramotti di Reggio Emilia, della quale è direttrice dal 2021, la vede al suo interno fin dall’apertura nel 2007. Dal 2018 ne è Coordinatrice, assumendo piena responsabilità dell’organizzazione e programmazione di attività interne ed esterne.
Barry X Ball, Pietà, 2011–2022, in onice bianco iraniano translucente. Opera ispirata alla Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti, Castello Sforzesco di Milano, 1552-64.
«Nuova realtà dell’essere» per Heidegger, la téchne è stata ampiamente “repressa” nel pensiero occidentale, dai greci presocratici a Marx e Derrida. E se invece ciò che è il veleno fosse anche il farmaco? A questa tesi ha lavorato a lungo un grande teorico come Stiegler, mancato troppo presto.
Carlo BordoniContrariamente a ogni nostra aspettativa –ciò che costituisce l’essere della tecnica alberga in sé il possibile sorgere di ciò che la salva.
Martin HeideggerL’appuntamento era in un piccolo ristorante di Milano, non lontano dalla sede dell’Università Cattolica, dove il giorno successivo, l’11 ottobre 2018, si sarebbe tenuto un convegno internazionale (rigorosamente in inglese) sul tema Social Generativity È in quell’occasione che incontrai Bernard Stiegler, preceduto dalla fama di grande pensatore, filosofo, sociologo, epistemologo, collaboratore di Jacques Derrida e, come questi, autore non facile. Il suo linguaggio complesso, ricco di neologismi, assonanze, giochi verbali, era pregnante, ricco, profondo e proprio per le difficoltà di traduzione, poco noto in Italia. Eppure famoso in tutto il mondo.
Nato nel 1952 a Villebon-sur-Yvette, aveva avuto una giovinezza drammatica: a 24 anni, spinto da problemi economici, aveva compiuto quattro rapine a mano armata. Colto in flagrante, era stato condannato a otto anni di reclusione (ridotti poi a cinque per buona condotta) e in carcere si era messo a studiare, laureandosi in Filosofia ed entrando in contatto con Jacques Derrida. Uscito dal carcere nel 1983, aveva iniziato una brillante carriera universitaria, fino a divenire direttore di ricerca al Collège Internationale de Philosophie, professore associato all’Università di Compiègne e responsabile del dipartimento per lo sviluppo culturale del Centro Georges Pompidou di Parigi. Aveva insegnato al Goldsmith College di Londra, fondato il gruppo Ars Industrialis e una scuola di filosofia a Épineuil-le-Fleuriel.
Al nostro incontro Stiegler si dimostrò subito affabile e disponibile; così il giorno dopo, alla conclusione del convegno, gli proposi un’intervista
per la Lettura del Corriere della Sera . Iniziammo una conversazione amichevole che si protrasse fino a notte inoltrata, per proseguire mentre rientravamo in albergo a piedi, perdendo la strada almeno un paio di volte e ritrovandoci poi la mattina per colazione, prima che rientrasse a Parigi.
Da parte mia non c’era solo la curiosità per il suo pensiero – avevo letto poco di lui, solo qualche pagina dal primo volume de La Technique et le Temps (1994) e di Dans la Disruption (2016) – ma soprattutto per l’uomo. Stiegler non aveva avuto una vita facile e, a sentirlo parlare, non sembrava fosse la stessa persona che si era fatta cinque anni in galera: un’esistenza segnata duramente che, a differenza della maggior parte dei casi meno fortunati, aveva riscattato attraverso lo studio. Da qui la sua fiducia nel sapere.
Durante il colloquio si è paragonato al poeta Joë Bousquet, paralizzato da una ferita durante la prima guerra mondiale, che passò la vita in una stanza dalle finestre chiuse. Con questo esempio intendeva chiarire quanto un’esperienza tragica possa tradursi in qualcosa di positivo. L’immobilità come ragione del cambiamento. Bousquet era riuscito a trasformare la sua infermità in capacità poetica: quasi come se la malattia fosse una necessità, una prova iniziatica, una forca caudina, un prezzo da pagare per uscire dallo stato di minorità.
«Sono stato in prigione e ho cercato di trasformare la prigione in una chance. Mi sono riconosciuto in ciò che Gilles Deleuze dice di Bousquet: ero un “infermo” come lui. Ma Deleuze, a differenza di Derrida, ha prodotto una farmacologia positiva, sostenendo che bisogna trasformare la malattia in salute».
Nessun tentativo di cancellare e neppure di nascondere il suo passato, a dimostrazione che quella condanna, ormai, faceva parte integrante dell’uomo che era diventato uno dei più importanti filosofi contemporanei.
Abbiamo parlato del suo ultimo libro in uscita in Francia, Qu’appelle-t-on panser? , con un’assonanza intraducibile tra “penser” (pensare) e “panser” (curare). Un testo che rivela l’anima ecologista dell’autore e l’urgenza di una nuova politica economica.
«Dopo duecentocinquant’anni di economia industriale – ha spiegato – che ci ha trascinati nell’Antropocene, dobbiamo fare i conti con i danni provocati al nostro pianeta. Bisogna ripensare l’economia, lottare contro l’entropia che minaccia
ogni forma vivente. C’è bisogno di una cura. Per questo si può ricorrere all’entropia negativa, la neghentropia, e fare della tecnica lo strumento di salvezza per l’umanità».
Come già ricordato, Stiegler non è molto conosciuto in Italia, anche perché non tutti i suoi lavori sono stati tradotti, a cominciare dal fondamentale La Technique et le Temps in tre volumi (1. La Faute d’Épiméthée; 2. La Désorientation; 3. Le Temps du cinéma et la question du mal-être), ristampati assieme da Fayard nel 2018.
Qui Stiegler osserva come la filosofia, fin dalle origini, sia fondata sulla repressione della tecnica. Quest’opera, da Socrate a Deleuze, da Heidegger a Derrida, attraverso Marx, che fa della tecnica il punto di partenza, può essere letta come il manifesto programmatico del suo pensiero, che in tutte le opere successive non farà che approfondire e sviluppare questo concetto fondamentale.
Stiegler non condanna mai la tecnica, anzi ne mette in risalto la capacità di contribuire alla continuità dell’esistenza, rifiutando quell’indirizzo del pensiero occidentale che l’ha sempre screditata, preferendole l’episteme.
Per sostenere questa tesi ricorre ai classici greci, da Platone ad Aristotele, precisando che la tecnica, come ogni Pharmakon, è allo stesso tempo cura e veleno. Diventa negativa quando se ne fa un uso inadeguato, specie quando il capitalismo se ne appropria per usarla quale strumento di oppressione e di controllo dell’individuo. Il pensiero greco arcaico, presocratico e tragico, riconosceva che la tecnica condiziona la sorte dei mortali. Si trova traccia di questa esperienza del tragico in Socrate, anche se poi Platone la sopprime. La sua tossicità non può essere completamente eliminata e ritorna sempre nel tempo, ma solo attraverso la conoscenza è possibile limitarla e trasformarla in una cura. In questo Stiegler prende le distanze dal pensiero di Derrida, che manca di una farmacologia positiva. Nel pensiero comune l’essere umano è considerato malato in conseguenza della tecnica, ma la malattia può essere trasformata in nuova salute, riconoscendo a Martin Heidegger il merito di aver sostenuto che «la tecnica è la nuova realtà dell’essere».
La memoria, in Stiegler, assume un’importanza fondamentale per il simbolico e per la costruzione dell’io, nello sviluppo dell’individuazione psichica e collettiva di Gilbert Simondon. In quanto oggetto
Bernard Stiegler (Villebon-sur-Yvette, 1º aprile 1952 – Épineuil-le-Fleuriel, 6 agosto 2020) è stato un filosofo francese e ha dedicato il suo lavoro teorico principalmente ai temi della tecnologia. Ha avuto una vita travagliata: negli anni giovanili è stato anche in carcere per rapina a mano armata, ma ha poi conseguito brillanti risultati, tanto da diventare direttore del Collège international de philosophie e professore all’Université de Technologie di Compiègne, nonché visiting professor alla Goldsmiths College di Londra e successivamente anche direttore del Dipartimento per lo sviluppo culturale del Centro Georges Pompidou di Parigi. Nel 2010 ha aperto una propria scuola di filosofia nella città francese di Épineuil-le-Fleuriel.
temporale (Edmund Husserl), la coscienza è formulata dal tempo del suo scorrere – “appare solo scomparendo” – ed è costituita dalle ritenzioni primarie della memoria. Non tutto è ritenuto, ma filtrato attraverso le ritenzioni secondarie, in quanto residuo delle primarie. Assieme formano gli ipomnemata, che si potrebbero definire i taccuini della memoria: ciò che resta sotto traccia e può essere riproposto attraverso l’anamnesi, la rievocazione del ricordo.
IL RICHIAMO A HEIDEGGER
Una conferma del legame temporale del pensiero di Stiegler con la sensibilità degli inizi del terzo millennio è fornita proprio dal primo volume di La Technique, cioè La Faute d’Épiméthée. Dimostra infatti come l’importanza della tecnica debba essere riconosciuta nel momento in cui le nuove tecnologie si stanno imponendo in ogni settore della vita quotidiana, oltre che nella pratica produttiva.
Ma mentre molte voci si alzano tra gli “apocalittici” a denunciare l’invadenza della tecnologia nei rapporti umani, col rischio di una disumanizzazione e di un isolamento sempre più crescente, tra gli “integrati” l’allievo di Derrida sostiene una tesi affascinante e alternativa al pensiero comune. La tesi di fondo di La Technique et le Temps (con un titolo che richiama esplicitamente il capolavoro di Heidegger, quasi a suggerire un’ideale continuità col filosofo che, per primo, ha riportato la tecnica al centro del dibattito critico) è che il pensiero occidentale, fin dalle sue origini, si sia basato sulla repressione della tecnica.
Nel filosofo tedesco il riferimento alla questione della tecnica torna con estrema, ripetuta e quasi ossessiva evidenza in tutta la sua vita, fino a quella decisiva osservazione del 1955, in cui si legge: «il mondo si trasforma in un completo dominio della tecnica» ( L’abbandono , 1959), che potrebbe ben essere utilizzata come esergo dell’intera opera di Stiegler.
Ma mentre Heidegger ne fa una presa d’atto, ne rileva la consistenza sul piano pratico, con tutti gli annessi e i connessi, – «l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo» – Stiegler va oltre e riconosce che la tecnica ha sempre fatto parte della natura umana e solo un errore di valutazione o una deliberata mistificazione hanno costantemente cercato di eludere questo dato di fatto, non tenendo mai conto del carattere originariamente “esosomatico” dell’essere
umano, da sempre dotato di caratteri e di organi artificiali. Questa attitudine non è culturale, non è indotta dall’apprendimento né dall’esperienza, ma assolutamente naturale. Propria del suo essere, fin dalle origini.
Stiegler richiama a testimone Socrate, assieme al pensiero greco arcaico e presocratico, quindi ancora privo del logos. Questo perché non è una questione legata alla ragione, bensì un’esigenza vitale, da cui dipende la sopravvivenza stessa. La condizione tecnica è dunque la sorte dei mortali.
All’origine di questo destino che ci lega alla tecnica c’è l’implicita debolezza dell’essere umano, l’animale non ancora stabilmente determinato (Das noch nicht festgestellte Tier), a cui accenna Nietzsche in Al di là del bene e del male (1886). Dalla cui consapevolezza nasce il mito di Prometeo. Ma questa debolezza congenita, questo stato di minorità, si è dimostrato vincente, dal momento in cui ha trovato un alleato nella tecnica e ha fatto della tecnica la sua forza.
Tutto deriva dal fatto che la debolezza umana è caratterizzata da una forte tendenza neotenica, cioè da caratteri permanenti di infantilismo, dalla presenza di caratteristiche giovanili anche nell’adulto.
Tra gli animali superiori, l’umano è il solo ad aver bisogno di un tempo più lungo per l’allevamento e per rendere autonoma la prole. Ma il neotenismo, sostiene Stiegler in La miseria simbolica (2. La catastrofe del sensibile, 2005), è responsabile anche dell’assunzione della posizione eretta, dunque di un nuovo equilibrio strutturale e funzionale del corpo, che ha come conseguenza una “protesizzazione”.
CARLO BORDONISociologo e saggista, scrive per il Corriere della Sera e per il supplemento La Lettura
Si occupa di sociologia dei processi culturali, dell’analisi dei fenomeni politici e dei mutamenti sociali.
Tra le sue ultime pubblicazioni: Post society (Polity, 2022); L’intimità pubblica (La Nave di Teseo, 2021); Il primato delle tecnologie (Mimesis, 2020); Il paradosso di Icaro. Ovvero la necessità della disobbedienza (Il Saggiatore, 2018); Fine del mondo liquido (Il Saggiatore, 2017). Con Zygmunt Bauman ha scritto Stato di crisi (Einaudi, 2015).
Cioè, l’abbandono della motricità degli arti superiori: le braccia non servono più per muoversi, come nei primati, ma assumono una funzione completamente diversa. La mano, grazie al pollice opponibile, può prendere, stringere, sollevare, fare. È la condizione ottimale per consentire il ricorso alla tecnica. Dal momento in cui un Australopitecus africanus ha scoperto di poter raccogliere un ramo o un osso (come nella scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio, il film di Stanley Kubrick), per spaccare, colpire o solo aumentare la forza della mano, si è aperto il ricorso alla tecnica. Nasce qui e si consolida col tempo il destino esosomatico dell’umanità. La tecnica modifica il modo di vivere: se finora gli umani erano sopravvissuti alla stregua degli animali, come raccoglitori-cacciatori, usufruendo di ciò che offre la natura, grazie alla tecnica possono intervenire sui processi naturali, modificare il paesaggio, a cominciare dalla prima e più semplice alterazione: la coltivazione del suolo. L’uomo sviluppa, di conseguenza, la presunzione di poter dominare la natura attraverso la tecnica, di cui è il solo possessore, il che lo induce a credere in un particolare favore divino.
Nel loro crescente senso di onnipotenza gli umani si affidano sempre più alla tecnologia, che della tecnica è il braccio operativo industrializzato, dimenticando che, come tutti i rimedi artificiali, anche la tecnica ha un lato positivo e uno negativo. È un Pharmakon, e come tale può rivelarsi tossico.
Ora, mentre per Derrida l’apporto tossico della tecnica è inevitabile, dato che fa parte della sua stessa essenza (in quanto artificio, non segue le leggi di natura), per Stiegler è invece possibile limitare il contenuto tossico della tecnica attraverso la conoscenza.
«Ciò che manca in Derrida – avverte Stiegler – è una farmacologia positiva. Proprio come in Georges Canguilhem (Il normale e il patologico, 1966), che era un medico e considerava l’uomo malato a causa della tecnica. Ma la malattia può essere rovesciata in una nuova salute, per usare le parole di Nietzsche: il Pharmakon è un veleno, ma può essere anche un rimedio, dimenticando l’essenziale. Che il sapere è una cura».
Il sapere può essere il formidabile strumento di contenimento degli effetti negativi della tecnica. Un sapere, dunque, che domina la tecnica con l’intelletto. Non solo attraverso la creatività, l’ideazione,
il progetto e i processi mentali – come spiega Marx con l’allegoria dell’ape e dell’architetto, – ma la comprensione profonda del suo condizionamento, degli effetti prevedibili e delle conseguenze che possono derivare dal suo utilizzo. Il sapere può essere il vero dominatore della tecnica, benché finora la tecnica sia stata dominata da altra tecnica.
Se la tecnica è un prodotto dell’uomo, mentre il sapere è inerente all’uomo, si conferma il prevalere del sapere sulla tecnica, la sua controllabilità, la sua dipendenza dalla conoscenza, ma solo finché il sapere è coltivato e ritenuto la forma più alta della produzione umana. Questo è il limite che non è lecito superare: il disconoscimento del primato della scienza.
Quando invece si crede nel potere indipendente della tecnica, distaccata dal sapere, oppure in funzione del non-sapere, prevarrà il lato tossico del Pharmakon, con la conseguente disumanizzazione.
DOPO L’INCONTRO MILANESE
Lo scambio con Stiegler è proseguito via mail e ho approfondito lo studio dei suoi lavori, traducendo il brano Nuova genealogia della morale all’epoca dell’antropocene per il volume Il primato delle tecnologie (Mimesis, 2020). Purtroppo nello stesso anno, il 6 agosto, è giunta la notizia della sua prematura morte, avvenuta nel villaggio di Épineuil-le-Fleuriel, dove aveva stabilito la sede della sua scuola di filosofia. Con lui è scomparsa una delle voci più originali del XXI secolo. Il filosofo che ha restituito alla tecnica la sua umanità, in un tempo in cui le nuove tecnologie sono divenute un punto di riferimento irrinunciabile. ■
B. STIEGLER, La società automatica, volume 1. L’avvenire del lavoro, a cura di S. Baranzoni, I. Pelgreffi, Meltemi editore, 2019
B. STIEGLER, La Miseria Simbolica, volume 1. L’epoca iperindustriale, Meltemi editore, 2021.
B. STIEGLER, La Miseria Simbolica, volume 2. La catastrofe del sensibile, Meltemi editore, 2021.
B. STIEGLER, Amare, amarsi, amarci, a cura di A. Porrovecchio, Mimesis editore, 2014.
B. STIEGLER, Reincantare il mondo, a cura di P. Vignola, Orthotes editore, 2012.
B. STIEGLER, Il chiaroscuro della rete, a cura di Paolo Vignola, Orthotes editore, 2014.
B. STIEGLER, R. RONCHI, L’ingovernabile, il Melangolo, 2019.
B. STIEGLER, P. VIGNOLA, Prendersi cura della gioventù, Orthotes editore, 2014.
La Fondazione Lorenzo Valla e Pietro Citati. Due destini che si incrociano all’altezza della migliore letteratura e prendono il largo sull’onda del mito. Ulisse, Elena, Ermes, e poi Goethe, Manzoni, Gadda e Fenoglio. Ma anche lo Zeitgeist e quella temeraria missione di far crescere il mondo con le parole.
Era il 22 novembre del 2021 quando l’assemblea della Fondazione Valla, su proposta di Piero Boitani, ha acclamato all’unanimità Pietro Citati Presidente Fondatore della Valla, con lungo applauso. Nulla di più naturale, poiché Citati l’ha inventata e costruita. Ma non se ne comprende l’impianto e la minuziosa, accurata, ramificata struttura, senza rintracciarne i disegni nella mente di Citati, che cerca un sistema mitico-simbolico con la concretezza di un artigiano, intrecciando libri, progetti editoriali e giornalismo, tra classici e modernità, all’interno del presente.
In questo intreccio, la Valla è una necessità dell’antico filologo romanzo, che va sempre più indietro, alla ricerca delle origini della letteratura, e non accetta di vederne i libri più antichi disadorni del sostegno filologico indispensabile, in questa strana lotta tra il vero e il falso, che ingaggia la letteratura.
La Fondazione Valla sta dalla parte del vero, sebbene il suo ambiguo inventore, un Giano bifronte, stia da tutte e due le parti. Lo racconto attraverso la testimonianza di Pietro Citati stesso.
Nel marzo 1970 Citati pubblicò con Mondadori il suo libro su Goethe incentrato sul Meister e il secondo Faust: dieci anni di studio, e una ricostruzione capillare delle fonti, con capitoli mirabili sulla rugiada lunare, sul tema di Elena e la discesa alle Madri, su Ermes e l’origine della poesia. Continuamente riapprofonditi, i fondamenti del mito classico sareb-
bero confluiti ne La mente colorata. Ulisse e l’Odissea (Mondadori, 2002). Riguardo al Goethe, Calvino gli scrisse che faceva quella che forse «è la sola letteratura possibile oggi – insieme creativa e critica». Citati aveva quarant’anni, vinse il Viareggio (lo Strega sarebbe andato al Tolstoi, 1983). Per Garzanti aveva curato collane, seguito le opere di Gadda e altri scrittori come Fenoglio e Zolla, costruito la monumentale Storia della letteratura italiana Cecchi-Sapegno. Nel 1966, lasciato Garzanti, era stato assunto da Alberto Mondadori (e Vittorio Sereni), per curare con Giovanni Pozzi una collana di letteratura religiosa. Essa non fu approvata perché “non commerciale”, ma sarebbe stata una base per la futura Fondazione Valla, e da quel momento iniziò con l’editore un rapporto di consulenza e di progetti che si sarebbe esteso anche all’ideazione di diversi Meridiani.
Proveniente da una famiglia ligure-piemontese, con ascendenze siciliane ed emiliane, dove tragedie e crisi erano ricorrenti, e che avrebbe raccontato attraverso le lettere dei bisnonni nella Storia prima felice, poi dolentissima e funesta (1989), Citati si legava e si sarebbe legato ad amici di elezione. Erano ora coetanei, ora maestri che diventavano figure fraterne; tra essi Zolla, Calvino, Arbasino, Fenoglio, Cassola, Merlini, Pasquali, Contini, Leo Spitzer, Emilio Cecchi, Pasolini, Elsa Morante e Moravia, Manganelli, Bertolucci,
Gadda, Elena Croce e Raimondo Craveri con i loro figli, Raffaele Mattioli, Alfredo Schiaffini, Roberto Longhi, Anna Banti, Francesco Arcangeli, Giuliano Briganti, Eugenio Scalfari, Alberto Ronchey, Giuliano Gramigna, Giulio Cattaneo, Enzo Forcella, Bassani, Vittoria Guerrini, Mario Praz, Giovanni Macchia, Niccolò e Dinda Gallo, Vittorio Sereni, Roberto Calasso, Giovanni Mariotti, Sergio Fruttero e Franco Lucentini, Giorgio Caproni, Mario Trevi, Anna Ma-
ria Ortese, Piero e Landa Crommelynck, Fumaroli, Cioran, Gérad Macé, Bianciotti, Santo Mazzarino, Carlo Diano, Marino Barchiesi, Carlo Gallavotti, Christine Mohrmann, Manlio Simonetti, Francesco Sisti, Federico Fellini...
Gli anni Cinquanta-Settanta discendevano dalla Normale di Pisa (non del tutto idilliaca: «adoravano
Togliatti come modello di uomo politico, di studioso, di uomo immensamente buono», «la vita era poverissima; facevamo la fame»). Citati vi aveva studiato Leopardi e l’illuminismo lombardo, e si affezionò a Giorgio Pasquali. Seguirono gli studi romanzi a Zurigo, come assistente del grande romanista Reto Raduolf Bezzola, tradusse tutto Arnaut Daniel, che «ebbe molto successo». Allora conobbe Gianfranco Contini, che lo inviò da Gerhard Rohlfs, al lettorato di Monaco di Baviera.
Se scrive su Parini - dalla sua antica geniale tesi e scoperta - e su Marivaux; se cura Spitzer per Einaudi - tutto dipende da quegli antichi studi. Di quegli anni tra Zurigo e Monaco non conosciamo né il suo Arnaut, né gli scritti che comparvero su Neue Zürcher Zeitung, su un giornale americano di Berlino, Die Neue Zeitung, oltre che sulla bavarese Süddeutsche Zeitung. Nessuno li ha più cercati negli archivi.
Sempre negli anni Cinquanta collabora a riviste importanti; poi, «via Bassani», al Punto, quindi al quotidiano Il Giorno di Pietra e Murialdi 1960-1973 (da cui in parte nascerà Il tè del cappellaio matto, Mondadori, 1972: «letteratura come un’infinita mutabilità intorno a un tempo che non muta»). Approda al Corriere della sera (1973-1988) inaugurato dagli scritti su Manzoni, che hanno successo e si trasformano in libri, poco graditi dai moralisti che vedono frantumarsi un’immagine sacra; fulminea è l’uscita di Alessandro con appendice di documenti curata da Francesco Sisti (Mondadori, 1974) - modello della vita interamente mitica: Pasolini ne fece l’unica recensione gender, folta di implicazioni personali.
Dagli anni Cinquanta, e su su fino ad oggi, è all’interno del presente, che Citati matura un sistema miticosimbolico fondato sugli archetipi, oltrepassando ogni revisione analitica. Presentando i miti della Luce della notte (Mondadori, 1996) - miti scitici, classici, cinesi, islamici, ebraici, dell’Europa moderna fino alla condizione schizofrenica, ossia la tenebra che li rovescia - dice a Benedetta Craveri: «Pensare miticamente significa giungere al di là del principio di contraddizione: un mito può significare venti, trenta cose opposte contemporaneamente; e noi possiamo interpretarlo in modi molto diversi. Eppure ogni mito è meravigliosamente unitario: Apollo o Ermes o Dioniso, malgrado le loro facce opposte, sono ognuno una figura unica. Proprio del mito è il suo infinito potere di irradiazione: non si esaurisce mai, mentre possiamo immaginare che la poesia si esaurisca. Nel libro c’è un filo conduttore. Noi non possiamo contemplare la luce (o solo una
volta nella vita, in una rivelazione estatica): possiamo contemplarla moltiplicata e riflessa nella luce della notte: questa è l’esperienza di Lucio e di Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio. [...] Dobbiamo confrontarci [...] con la dimensione mitica. Dobbiamo vivere come se Apollo ed Ermes fossero nostri contemporanei [...] rendendo contemporanei alla nostra mente tutti i miti della storia dell’umanità. Perché questo è l’unico modo di vivere veramente nell’io. L’io fatto di sentimenti e di sensazioni è un io apparente, che non ha una struttura. Soltanto se viviamo in un io moltiplicato dove affrontiamo continuamente tutti i miti ci sarà possibile conoscere l’esperienza di un vero io» (La Repubblica, 13 settembre 1996).
Questa contemporaneità e simultaneità che rischia la schizofrenia - e assomiglia alla mente variegata e policroma di Ulisse, il “polipo” e il camaleonte - ha la proprietà di spingersi in tutte le direzioni del finito, come suggerisce Goethe a chi cerca l’infinito. È amore della natura e del presente, che il dèmone analogico continua a sentire ancora collegato con il tutto, malgrado catastrofi, morti degli dèi e rovine: è quella sua fragile continuità, scintilla inestinguibile, che non muore, infinita. Ma paradossalmente, esso coincide con la passione per l’infinità del passato. Da un lato non ha bisogno del passato per sostenersi, per puntellarsi. Eppure, dall’altro, più è contemporaneo e simultaneo, più ingloba il passato, e lo riporta alla luce. Non un solo passato delimitato. Ma tutto. Partendo comunque da quello più vicino, più diretto: il mondo classico greco latino con l’innesto cristiano dei primi secoli, fino al Medioevo.
L’immaginazione viaggia veramente soltanto dalle aeree presenze dei testi riletti nelle loro identità, vivi sempre... Stupiva che mentre gli altri dichiaravano la morte del romanzo - in nome dell’afasia dell’incomunicabilità, e per pavidità - o negavano la natura e il mito in nome delle ideologie della mercificazione, Citati continuasse imperterrito a vedere gli dèi, gli spiriti del romanzo, delle avventure teologiche, dovunque, anche negli autori di quel “moderno” che pareva negarli. Il dono ermeneutico, questa proprietà di Ermes che possiede, e che dovrebbe dipendere dalla mancanza di barriere e pregiudizi, è una perla lungamente rotolata dalle acque del profondo, e dalla conoscenza filologica, trasportata nella restituzione della letteratura. Non è un dono gratuito, anzi è pericoloso, perché non di rado impone scelte che rischiano sfide. Libri personali, collane editoriali - come le più recenti dei Classici Rizzoli e l’Islamica di Mondadori, oltre alla
Valla - sono imprese affidate alla preminenza dei testi e all’eccellenza dei collaboratori, antitetiche alle semplificazioni deliranti di questi nostri ultimi anni. Citati segue la propria “natura originale”, secondo l’idea di Goethe: le è fedele. Che si occupi degli Incas o di santa Teresa, di Cosroe e Suhrawardi, di gesuiti in Cina e di Monet, di Kafka o dell’armonia del mondo tra gatti bambini viaggi politica lingua chiacchiere lingua italiana; del “migliore dei mondi possibili” o di Leopardi, della Mansfield e di Fitzgerald, di don Chisciotte e dei Vangeli, della malattia dell’infinito che ammala gli ultimi secoli, del silenzio e dell’abisso che i miti gnostici ricordano sempre, o come nell’ultimo libro ancora inedito, di un percorso amplissimo dall’antichità ai nostri giorni con essenziali campiture dei più accesi visionari che costellano la letteratura e l’arte, sappiamo che Citati sarà sempre l’Ermes di viaggi che stupiscono e incantano, perché ci tiene sulla soglia di un’attesa e di uno stupore che sono i suoi.
NASCE LA FONDAZIONE VALLA
Pur nella continuità, Goethe nel 1970 è uno spartiacque. Concentra competenze, interessi, mito. Nello strillo di copertina Mondadori segnala già che l’autore «dirige, insieme ad altri studiosi, una collana di Scrittori greci e latini di prossima pubblicazione». Abituato com’è a fabbricare collane editoriali, Citati sente il bisogno di una collana di classici che unisca ai greci e ai latini i cristiani, in edizioni critiche, introduzioni, apparati e commento scientifici, traduzioni nitide e testo a fronte, in un insieme accessibile non solo agli specialisti, ma anche al lettore che voglia accostarsi ai testi fondamentali delle nostre origini con una guida sicura e autorevole.
Una collana così non esiste nemmeno all’estero, e l’Italia ha perso da secoli il primato del suo Umanesimo. Il 25 marzo 1970 Citati va dal notaio con Santo Mazzarino e Carlo Gallavotti, e firma l’atto costitutivo di quell’Associazione, poi Fondazione assunta da Mondadori, che diventerà fino a oggi un orgoglio nazionale per la qualità delle traduzioni e delle edizioni, dovute ai migliori specialisti. La intitola a Lorenzo Valla, simbolo della filologia che smaschera le falsità, strumento di verità in ogni campo, anche religioso e politico, dato che Valla dimostrò la falsità della donazione di Costantino, su cui la Chiesa aveva architettato il proprio dominio e il proprio potere temporale. Mazzarino è l’Ermes che conosce tutto. Non solo il più grande storico romano. «Nessuno gli è pari. Pieno di libri, da san Paolo ad Asoka, nemmeno gli immensi Pasquali,
Ha scritto libri di poesia e prosa, drammi e testi storici; curato e tradotto opere di Saffo, Yeats, Leopardi, Goethe, Flaubert, Fellini. Ha diretto la rivista L’altro versante (1979-1989). Tra i libri di poesia: Splendida lumina solis, Forum 1979; Furore delle rose, Guanda 1989; Elena, Guanda 1996; Il postino fedele, Mondadori 2008; Le acque della mente, Mondadori 2016; Le figlie di Gailani e mia madre, Franco Maria Ricci 2020; Elena Nemesi, MC 2021; I fanciulli dietro alle porte, Vallecchi 2022. Tra quelli di prosa: I giardini dei popoli sotto le onde, Guanda 1991; Il fuoco dell’Eden, Tema celeste 1992; La previsione dei sogni, Medusa 2002; Il nostro sistema solare, Medusa 2013; con Vallecchi: Gli occhi di Fellini, 2020; La voce di Sergio Zavoli, 2021; Simbolo, 2022.
Spitzer, Diano, Praz, gli tengono testa». Mazzarino è un grande consigliere, un puer con una «fantasia prodigiosa, un senso analogico simile a quello di un poeta, e metteva in rapporto tutti i particolari, che si illuminavano a vicenda tra loro, Roma e la Cina, il Medioevo e il Messico».
Citati per prima cerca la Mohrmann, la maggiore esperta di latino cristiano, va a Nimega, costruiscono il primo volume sui santi, dove Citati traduce la vita di Antonio, e altri sono reclutati a tradurre: Marino Barchiesi (al cui figlio Alessandro andrà il compito di commentare e curare con altri le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio), Luca Canali, che poi avrebbe tradotto l’Eneide, Carlo Carena, che si sarebbe occupato di Plutarco, Claudio Moreschini. La Mohrmann, «grassa e ridanciana», che nelle missioni del Congo «temeva di essere mangiata», scherza Citati, diventa una grande collaboratrice, con i suoi assistenti Bartelink, Bastiaensen e van Smit. Tra gli altri primi libri sono la Poetica di Aristotele (1974) ed Empedocle (1975), curati da Gallavotti, La guerra giudaica di Giuseppe Flavio, curata da Giovanni Vitucci in due volumi (1974). Da allora, a quattro per anno, sono diventati 175.
Per Citati l’invenzione originaria dei volumi non riguarda singoli autori soltanto, ma antologie e grandi serie (i Santi, le Storie di Alessandro, la Democrazia in Grecia) il Cristo, l’Anima Mundi, il Francescanesimo, i Viaggi dell’Anima, le Fonti di Roma, solo per citare le principali di un programma variegato dove tutto si tie-
ne, legatissimo, intorno ai “fondamenti” approfonditi in modo unico, nei loro allargamenti pressoché infiniti, affascinanti. Qualcosa che solo i serial di ottima fattura (e possiamo metterci Chesterton) possono concepire in formato filologico.
Con un sistema tanto artigianale quanto complesso, Citati controlla, riscrive, taglia, esercita con somma auctoritas tutti i libri. Nessun gran professore fiata, e lui lavora nascosto, come gli ha insegnato il sacrosanto lathe biosas, che questo mondo ha dimenticato. Stile condiviso da un principale collaboratore, Francesco Sisti, condirettore ufficiale dal 1974 al 2011, che in particolare curò Arriano, ed è scomparso nell’estate 2021. E ora da Piero Boitani, chiamato d’imperio nel 2005 come direttore per le sue competenze vaste e uniche, poi vice-presidente esecutivo nel 2014, oggi ancora direttore della collana di “Scrittori greci e latini”: nel 2016 ha devoluto alla Valla la metà del Premio Balzan, iniziando le annuali “Balzan-LinceiValla Lectures”, e ha messo in cantiere un programma a lunghissima durata, esteso all’ebraico e all’Umanesimo quattro-cinquecentesco. La dinamica della Valla è un’anomalia creativa e artigianale che ricorda le botteghe di artisti filologi capaci di ricostruire, come Pinturicchio e Raffaello, le grottesche della Domus Aurea, un unicum di tale preziosità e prestigio, che da nessuna parte del mondo ne esiste nemmeno un pallido – non equivalente – somigliante.
Per cancel culture, revisioni-attacchi ai classici, rintocchi di falsi problemi tra scienza-tecnologia e umanesimo, scuole pratico-democratiche e classico-reazionarie (riscaldato ma sempre appetitoso gourmet gramsciano, poi pasoliniano), catastrofiche riforme universitarie, è vero che nei decenni la cultura classica soffre e langue, mentre tutte le grandi collane di classici estere – tranne le Belles Lettres francesi – sono morte o vanno a estinguersi. In questa decadenza dell’istruzione e della cultura, non soltanto italiana, la Valla è come la nave Sidonia che porta Elena in patria, veleggiando impavida, mentre i Dioscuri la scortano sui grandi cavalli celesti.
Dai primi anni Citati estendeva agli scrittori amici un coinvolgimento per la Valla che poteva avere molte forme: dirette, consultive, spirituali, giornalistiche, simpatetiche, e via di seguito, nel sistema delle corrispondenze analogiche. Sguinzagliava gli “amici” della Valla come recensori sui giornali, in modo da costituire un drappello fedele di sostenitori. Io fui associata dai primi anni Ottanta, e la mia forma di sostegno consisté in recensioni; ma nel 2000, quando organizzai per
alcuni anni a Rimini il Festival di poesia medievale, chiesi la collaborazione della Valla. Da conterranea di Serra, e da anomala poeta con una buona dose di fissazione filologica (Filologia anarchica dell’immaginazione simbolica fu il titolo di un mio saggio teorico), so che anche la memoria filologica appartiene alle Muse.
Nel 1970, quando licenziava Goethe, Citati avvertiva che il libro portava acqua in un momento in cui tutto stava esplodendo nel fuoco. L’acqua era anche quella della Valla. Fonti alimentatrici, rinfrescanti, che pochi contemporanei, soprattutto poeti di generazioni successive, cercavano di rianimare. Nel 1975, pronti i volumi sui santi, Citati li spedì a Fellini, chiedendogli se poteva continuare a mandargli le pubblicazioni della Valla. Fellini lo cercò, con entusiasmo. Fu l’inizio di una delle amicizie più intense, uno scambio reale, che affiancava a Citati e alla Valla l’artista più completo e profetico del Novecento, secondo Kundera; di certo il più alato compagno di strada nella visione della catastrofe, come nella rifondazione di letteratura, poesia, arte e filologia. ■
Goethe, Mondadori 1970 (ed. def. Adelphi 1990); Il tè del Cappellaio matto, Mondadori 1972; Immagini di Alessandro Manzoni, Mondadori 1973 (col titolo La collina di Brusuglio, 1997); Alessandro, Rizzoli 1974 (col titolo Alessandro Magno, 1985); La primavera di Cosroe, Rizzoli 1977; I frantumi del mondo, Rizzoli 1978; Il velo nero, Rizzoli 1979; Vita breve di Katherine Mansfield, Rizzoli 1980; Il migliore dei mondi impossibili, Rizzoli 1982; Tolstoj, Longanesi 1983; Il sogno della camera rossa, Rizzoli 1986; Kafka, Rizzoli 1987; Storia prima felice, poi dolentissima e funesta, Rizzoli 1989; Ritratti di donne, Rizzoli 1992; La colomba pugnalata, Mondadori 1995; La luce della notte, Mondadori 1996; L’armonia del mondo, Rizzoli 1998; Il Male Assoluto, Mondadori 2000; La mente colorata, Mondadori 2002; Israele e l’Islam, Mondadori 2003; La civiltà letteraria europea, Mondadori 2005; La morte della farfalla, Mondadori 2006; La malattia dell’infinito, Mondadori 2008; Leopardi, Mondadori 2010; Elogio del pomodoro, Mondadori 2011; Il Don Chisciotte, Mondadori 2013; I Vangeli, Mondadori 2014; Sogni antichi e moderni, Mondadori 2016; Il silenzio e l’abisso, Mondadori 2018; Dostoevskij senza misura, in La Repubblica 2021; La ragazza dagli occhi d’oro, Adelphi 2022.
RosieVela non era un’esordiente sconosciuta. Anzi, calcava le scene della moda nei pirotecnici anni Ottanta, essendo molto bella. Ma questo ha offuscato, forse per sempre, il suo talento di musicista sofisticata e sperimentale. Da riscoprire.
Carlo Boccadoro
Nel 1986 apparve nei negozi di dischi un album molto particolare. La foto in copertina mostrava il volto di una giovane donna circondato da una massa di capelli ricci degni di una Gorgone ma, a differenza dalle sue mitiche antenate, dallo sguardo sognante e inoffensivo.
Il titolo del disco, Zazu, era di per sé bizzarro e sull’autrice esordiente, Rosie Vela, non si avevano particolari notizie come musicista: fino a quel momento era conosciuta più che altro grazie alla sua attività di modella apparsa con successo su decine di copertine di Vogue, e per una breve apparizione cinematografica nel capolavoro di Michael Cimino Heaven’s Gate
Per Rosie queste attività erano però secondarie rispetto al suo reale interesse nello scrivere canzoni dalla struttura inusuale, con progressioni armoniche molto raffinate e melodie serpentine che non seguivano nessuno dei dettami necessari per arrivare al successo commerciale. Ci vollero molti anni di lavoro per affinare questa abilità; nel frattempo l’attività nel mondo della moda era un modo di sostenersi in attesa che ci si accorgesse del suo talento musicale.
Gli appassionati di dischi dell’epoca drizzarono subito le orecchie quando videro che la produzione del disco era affidata a Gary Katz, ovvero l’artefice di molti lavori degli Steely Dan, leggendaria band di rock con raffinate influenze pop/jazz che all’epoca non incideva nulla da oltre sei anni ed era considerata ormai defunta a causa delle liti tra
i suoi fondatori Walter Becker e Donald Fagen. Invece le note di copertina rivelavano la presenza di entrambi come inaspettati collaboratori di Zazu, impegnati a rivestire di raffinatissime textures di sintetizzatori le canzoni di un’artista al suo primo album. Anche tutti gli altri musicisti presenti erano tra i migliori sessionmen statunitensi, il disco doveva avere un budget certamente fuori dal comune per potersi permettere un cast del genere, il che rendeva ancora più strano questo esordio dato che generalmente le case discografiche, per evitare rischi, non riservano grandi risorse agli artisti emergenti.
L’ascolto della prima canzone, poi, non sembrava discostarsi molto dalle consuete strade pop tipiche degli anni Ottanta. Fool’s Paradise è senz’altro il brano più convenzionale di un disco totalmente anticonvenzionale e può ingannare chi si accosti a Zazu per la prima volta: ma fin dalla seconda traccia, Magic Smile, sostenuta da uno shuffle elastico e sornione e dalle colorate tastiere di Fagen si capisce che Rosie Vela possiede un talento molto originale per la scrittura di pezzi che apparentemente appartengono al pop/rock sofisticato e tirato a lucido dell’epoca ma che a ogni ascolto si rivelano ben più interessanti e bizzarri,vere e proprie matrioske musicali contenenti multipli strati di significato.
La voce di Rosie è anch’essa originalissima, un contralto denso e sensuale del tutto privo di virtuosismi tecnici ma in grado di affrontare queste strane canzoni con una personalità che si impone fin dall’inizio. Infine i testi (sempre scritti da lei) sono
decisamente fuori dal comune e comprendono diverse parole inventate di sana pianta mescolate all’inglese. All’epoca non esistevano come oggi siti Internet in grado di contenere le parole di migliaia di canzoni e sulla copertina era presente un solo testo, quello di Zazu, canzone apparentemente d’amore in cui però si parla di «Decarbonizzare il diamante», «Techno-data», e in cui dirigenti di «Homocorporazioni» distribuiscono «stipendi nella notte per sopravvivere»: come si vede, si vira decisamente dalla parte del surreale.
Il resto delle parole bisognava intuirlo all’ascolto ma non c’era modo di svelare completamente l’ambiguità testuale di Rosie, che interpolava parole e frasi assurde come «Keenovay», «Nageebookakay», e persino «A can na vee can a bot a set you zee a de dy cu no zy su no» e «Hootchikoo» all’interno di testi che spesso sembravano parlare di rimpianto, addio, ricordi e malinconia, forse ispirati dalla morte precoce del marito Jimmy Roberts, musicista scomparso giovanissimo a causa di un tumore.
Le melodie dei brani appaiono elusive all’inizio ma con il tempo finiscono per incollarsi al cervello in modo indelebile proprio come i tormentoni pop più semplici, la struttura dei versi non rispetta in alcun modo le simmetrie rassicuranti di tanta musica popolare e in brani come Interlude e Tonto, sembra seguire liberamente il flusso visionario delle parole, offendo talvolta suggestioni maggiormente funk e rock che però la produzione patinata di Katz e i suoni di cristallo del tecnico Eliot Scheiner tengono a distanza da qualsiasi tentazione di visceralità, offendo uno sguardo come dall’alto, in voluto contrasto con
CARLO BOCCADOROCompositore e direttore d’orchestra, è nato nel 1963. Collabora con orchestre e gruppi da camera in diverse parti del mondo. È autore di dieci libri pubblicati da vari editori, tra i suoi ultimi, Bach-Prince, vite parallele, uscito per Einaudi nel 2021, mentre è in libreria da pochi mesi Battiato, Cafè Table Musik (La Nave di Teseo), una biografia musicale di Franco Battiato.
Dal 2017 è Direttore artistico dei Concerti della Scuola Normale di Pisa, dal maggio 2023 è consulente musicale del Teatro Bonci di Cesena. Dal 2021 è Direttore editoriale della collana di saggistica musicale “Correnti”, pubblicata da Edizioni Curci. Dal 2023 è Accademico di Santa Cecilia.
la natura personale dei brani.
Gary Katz incoraggia anche Rosie a cantare in modo apparentemente distaccato (quasi a voler allontanare il rischio di sottolineare troppo la sofferenza implicita di molte delle canzoni) ma uno dei pochissimi filmati che ci rimane delle sue esibizioni dal vivo, registrato al David Letterman Show il 14 Ottobre 1986, vede Rosie alle prese con Magic Smile e rivela intenzioni molto più espressive, dirette e partecipi nella sua voce.
La reazione del mondo musicale a Zazu fu di intensa ammirazione da parte della critica e dei musicisti (Don Henley degli Eagles la chiamò per cantare assieme a Joni Mitchell nella canzone Who owns this place?, realizzata per il film Il Colore dei soldi di Martin Scorsese) ma di indifferenza più assoluta da parte del pubblico statunitense, che decretò un clamoroso insuccesso commerciale al lavoro.
Le cose andarono meglio in Inghilterra, dove il disco entrò in classifica nei Top 30 vendendo un discreto numero di copie: tuttavia questo non bastò alla casa discografica A&M, che di fronte al disastro commerciale statunitense decise di non pubblicare il secondo album di Rosie realizzato l’anno successivo e intitolato Sun upon the altar. Nessun brano di questo album è mai apparso nemmeno in rete o sotto forma di bootleg pirata e questo ha dato al lavoro un’aura mitica e misteriosa. Sembra che Rosie lo considerasse anche migliore di Zazu ma sul disco è sceso un silenzio totale e non si sa se un giorno se ne preveda la pubblicazione.
Certo non ha aiutato il fatto che fin da subito Rosie si sia ribellata alla parte della modella di successo impegnata solo per hobby nella musica: rifiutò le foto originali realizzate da Herb Ritts per la copertina dell’album che la ritraevano in pose sexy e che rimandavano all’immagine di Madonna, mandò a quel paese stilisti e manager discografici che volevano rinchiuderla in una immagine da fatalona priva di cervello, nelle interviste dichiarava che non voleva essere “una Barbie” ma solo venir giudicata per il proprio talento artistico dichiarando la propria indipendenza. «La gente mi vede come Cenerentola e crede che qualche Genio delle lampada abbia agitato una bacchetta magica su di me per far nascere queste canzoni. Invece io sono una persona seria che lavora duramente e si applica a quello che decide di fare», ha dichiarato in una intervista al New York Magazine del novembre 1986.
All’epoca era decisamente difficile convincere le persone che una ragazza avvenente potesse anche essere
dotata di intelligenza o talento (e, con l’eccezione di figure come Kate Bush, Björk o Joni Mitchell, non mi pare che le cose siano molto cambiate nell’ambiente musicale): questo probabilmente è stato l’ostacolo maggiore che Rosie Vela ha dovuto affrontare e che ha impedito il proseguimento della sua carriera.
Da questo momento di lei si sa poco o nulla: riappare in anni successivi come corista della Electric Light Orchestra, celebre gruppo di bubblegum pop (le cui composizioni rispetto a quelle di Rosie sembrano scritte da un bambino delle scuole elementari) ma subito dopo scompare di nuovo e non si hanno più notizie. A tutt’oggi non esistono sue fotografie degli
anni Novanta o Duemila, anche cercando in Rete. Su Facebook ci sono due siti a suo nome dove si vendono quadri orrendi e non si fa cenno alla sua attività musicale; saranno veri o falsi? Nessuno può dirlo.
L’album di Rosie Vela è rimasto fuori catalogo per molti anni e solo nel 2011 è stato ristampato su Cd. La sua musica continua ad interessare un gruppo microscopico di persone (su Spotify ha poco più di tremila ascoltatori contro gli oltre 69 milioni di Taylor Swift o i 51 milioni di Elton John, per dire) eppure la stella di Zazu continua a brillare, seppure in lontananza, ancora a decenni della sua uscita. ■
I neuroni specchio non sono così “speciali”: si trovano in gran parte del nostro cervello di primati (e non solo).
Corrado Sinigaglia e Giacomo Rizzolatti
I neuroni specchio sono stati registrati per la prima volta all’inizio degli anni Novanta nella corteccia premotoria del macaco. Studiando le proprietà del sistema motorio dei primati, un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma – guidato da Giacomo Rizzolatti e di cui facevano parte Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese e, inizialmente, Giuseppe di Pellegrino – ha scoperto che in un’area della corteccia premotoria esistevano neuroni dotati di una proprietà particolare: essi si attivavano, infatti, sia quando il macaco eseguiva una determinata azione sia quando osservava quel tipo di azione mentre era eseguita da altri (uno sperimentatore o un altro macaco).
Negli anni successivi, neuroni con la stessa proprietà specchio sono stati registrati in molte altre aree non solo frontali, ma anche parietali e prefrontali. Risultati analoghi sono stati ottenuti nell’uomo. Usando tecniche molto diverse – quali, per esempio, la tomografia a emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la magnetoencefalografia (MEG), la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e, infine, la stimolazione e registrazione intracranica – numerosi studi hanno trovato risposte specchio in molte aree frontali e parietali. L’aspetto interessante è che sono state riscontrate risposte siffatte anche nell’insula, nell’amigdala e nel giro del cingolo – tutti centri implicati in reazioni emotive come il disgusto, la paura o l’ilarità. Oggi sappiamo che la proprietà specchio caratterizza non soltanto una parte consistente del nostro cervello di primati, ma anche aree e strutture cerebrali di altre specie come, per esempio, le scimmie del nuovo mondo (le marmoset), gli uccelli canterini, i ratti, i topi e i pipistrelli. Due studi, apparsi su Science qualche anno
Professore ordinario di Filosofia della Scienza, dirige il laboratorio PhiLab presso l’Università degli Studi di Milano. È noto a livello internazionale per il tentativo di coniugare in modo nuovo filosofia della mente e neuroscienze cognitive. Le sue ricerche vertono principalmente sul ruolo dei processi motori nella cognizione sociale. È autore di numerosi articoli su riviste internazionali. Insieme a G. Rizzolatti ha pubblicato, presso l’editore Raffaello Cortina, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio (2006) e Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno (2019).
fa, hanno registrato nell’ippocampo, rispettivamente del ratto e del pipistrello, l’attività delle cosiddette cellule di posizione (place cells) – note per avere un ruolo chiave nell’orientamento spaziale – mostrando come esse si attivassero non solo quando l’animale registrato si trovava in una data posizione, ma anche quando quella posizione era occupata da un altro animale conspecifico. Ed è di pochi mesi fa la pubblicazione su Cell di uno studio, condotto da un gruppo di ricercatori di Stanford, che evidenzia come esistano neuroni nell’ipotalamo del topo che si attivano selettivamente durante sia l’esecuzione sia l’osservazione di determinati comportamenti aggressivi, manifestando così una chiara proprietà specchio.
Tutto questo ci dice che la proprietà specchio è diversa da tutte le proprietà funzionali che caratterizzano le varie strutture cerebrali. A differenza di queste ultime, infatti, la proprietà specchio non si identifica per la risposta a un dato stimolo in entrata o in uscita, né per il fatto che quello stimolo sia elaborato da un determinato circuito. Piuttosto, quello che caratterizza la proprietà specchio è il fatto che un neurone o una popolazione di neuroni esibisca le proprie caratteristiche funzionali non solo durante l’esecuzione di un dato comportamento, ma anche durante l’osservazione di quel tipo di comportamento eseguito da altri. Si pensi ai diversi tipi di neuroni che abbiamo sopra ricordato avere la proprietà specchio. Tale proprietà caratterizza quei neuroni non perché fanno quello fanno, ma perché lo fanno due volte, nel senso che si attivano sia quando il tipo di comportamento a cui sono legati è prodotto in prima persona sia quando è osservato in altri.
Fin qui la proprietà specchio. A tale proprietà è associato un meccanismo, cui è stato dato il nome di
GIACOMO RIZZOLATTI
Dirige l’Unità di Ricerca del CNR dell’Istituto di Neuroscienze presso l’Università di Parma. Neuroscienziato di fama mondiale è membro dell’Academia Europaea, dell’Accademia dei Lincei, dell’American Academy of Arts and Sciences, dell’Académie des Sciences ed è stato di recente eletto Foreign Member della Royal Society. I suoi studi sul sistema motorio e sulle proprietà del meccanismo specchio gli sono valsi numerosi premi molto prestigiosi, tra i quali il Premio Golgi per la Fisiologia, il George Miller Award of the Cognitive Neuroscience Society e il Brain Prize Lundbeck Foundation Award.
“meccanismo specchio”. Per comprendere la natura di questo meccanismo, considerate per un momento cosa succede quando un neurone della corteccia premotoria esibisce una risposta specchio. Supponiamo che quel neurone si attivi durante l’esecuzione di un’azione di prensione. Quale che sia l’aspetto dell’azione rappresentato, l’attivazione del neurone innesca rappresentazioni e processi motori non dissimili da quelli che sono innescati dall’attivazione di qualsiasi altro neurone della corteccia premotoria. Che cosa accade se il neurone risponde quando l’azione di prensione è osservata invece che eseguita? Naturalmente, le rappresentazioni in entrata (input) sono di tipo diverso, perché un conto sono le prese di decisione che innescano la pianificazione ed esecuzione di un’azione e un altro sono le rappresentazioni visive indotte dall’osservazione di quel tipo di azione. Quanto alle rappresentazioni in uscita (output), invece, esse non possono che essere dello stesso tipo, dal momento che il neurone si attiva in modo simile durante l’esecuzione e l’osservazione dell’azione. Ciò significa che la risposta specchio comporta una trasformazione delle rappresentazioni sensoriali in entrata nelle rappresentazioni motorie e, più precisamente, nelle stesso di tipo di rappresentazioni motorie che sono innescate quando l’azione è pianificata ed eseguita invece che osservata.
Lo stesso vale per le risposte specchio registrate nelle altre strutture cerebrali, siano esse localizzate nelle cortecce parietali, prefrontali, nell’insula oppure appartenenti a centri sottocorticali come l’amigdala. Naturalmente, in questi casi cambiano non solo le rappresentazioni sensoriali in entrata, ma anche quelle motorie o viscero-motorie in uscita. Come abbiamo visto, possono avere risposte specchio neuroni e popolazioni di neuroni con proprietà anatomo-funzionali molto diverse tra di loro. Quello che è comune a tutti i neuroni che godono della proprietà specchio è il fatto di istanziare il medesimo meccanismo di trasformazione che fa uso delle rappresentazioni coinvolte nella produzione dei comportamenti in prima persona per elaborare l’informazione relativa a comportamenti dello stesso tipo quando questi sono osservati in altri – un meccanismo che, data la natura e pervasività delle risposte specchio, pare costituire un principio basilare dell’organizzazione e del funzionamento del sistema nervoso dei primati umani e non umani, ma non solo.
Che il meccanismo specchio sia presente in regioni cerebrali diverse e che le trasformazioni che esso com-
porta dipendano dalle strutture e dai circuiti cerebrali coinvolti, consente di comprendere perché le risposte specchio possano avere caratteristiche funzionali diverse. Per ragioni di spazio, ci limiteremo a qualche cenno relativo ai domini dell’azione e delle emozioni, prendendo in considerazione soltanto dati relativi ai primati umani e non.
Fin dalla fine degli Ottanta, registrazioni di singoli neuroni nella corteccia premotoria del macaco hanno evidenziato che una buona parte di questi neuroni rispondeva selettivamente allo scopo a cui era diretta l’azione che veniva eseguita. Vi erano, per esempio, neuroni che si attivavano durante un’azione di prensione indipendentemente dal fatto che tale azione fosse eseguita con la bocca o con la mano sinistra o destra. Studi successivi hanno mostrato che neuroni che rispondevano in maniera selettiva durante atti di prensione, lo facevano anche quando questi atti erano eseguiti tramite l’uso di una pinza e, cosa ancora più importante, lo facevano anche quando la pinza usata richiedeva – come sa chi è avvezzo a usare le speciali pinze “inverse” impiegate per sgusciare le lumacheuna sequenza di movimenti opposta a quella classica della prensione. Per afferrare del cibo con la pinza “inversa” la scimmia doveva, infatti, aprire le dita della mano, invece di chiuderle: i neuroni che si attivavano durante la chiusura delle dita quando l’atto di prensione era compiuto senza la pinza o con la pinza normale, rispondevano anche durante l’apertura delle dita quando la prensione era compiuta con la pinza inversa. Infine, uno studio pubblicato su Science ha rivelato come non solo la risposta dei neuroni possa rimanere la stessa quando azioni compiute con movimenti diversi sono dirette allo stesso scopo, ma anche come tale risposta possa cambiare quando movimenti molto simili sono diretti a scopi diversi. Una buona percentuale dei neuroni registrati rispondeva, infatti, in modo diverso a seconda che un atto di prensione fosse eseguito con lo scopo di portare del cibo alla bocca o di riporre un oggetto simile per taglia e consistenza in un contenitore posto vicino alla bocca.
L’aspetto più importante è che una parte consistente dei neuroni parieto-frontali selettivi allo scopo delle azioni ha proprietà specchio, rispondendo allo scopo o agli scopi di un’azione, sia quando questa compiuta in prima persona sia quando è osservata mentre viene compiuta da altri. Sin dai primi studi si è scoperto che la risposta specchio non richiede l’osservazione dell’intero svolgimento dell’azione: per innescarla è, infatti, sufficiente che sia presente l’informazione
relativa allo scopo cui l’azione è diretta. Inoltre, la risposta specchio non risulta limitata all’osservazione visiva: vi sono, infatti, neuroni che rispondono non solo all’osservazione di un’azione come lo strappare un foglio di carta, ma anche alla presentazione dei soli suoni associati a quell’azione. Infine, studi più recenti hanno mostrato che la risposta specchio può codificare l’azione osservata anche quando questa è eseguita con una pinza, normale o inversa che sia o quando essa è diretta a scopi diversi come il portare alla bocca e il riporre in un contenitore.
Risultati analoghi sono stati ottenuti nell’uomo. Numerosi studi di fMRI hanno evidenziato come le risposte specchio nelle aree parieto-frontali siano selettivamente legate agli scopi delle azioni osservate. Nella stessa direzione vanno anche alcuni studi di TMS. In uno di questi, in particolare, si è usato un paradigma simile a quello impiegato nel macaco, mostrando come la risposta specchio sia legata allo scopo di prendere, indipendentemente che questo scopo sia ottenuto con una pinza normale o con una pinza inversa.
Gli studi sull’uomo hanno anche consentito di indagare in modo più dettagliato le risposte specchio nel dominio delle emozioni. Uno studio di fMRI ha mostrato come l’insula rivesta un ruolo chiave tanto nell’esperire il disgusto in prima persona quanto nel rilevarlo quando provato da altri. Questo studio ha, infatti, evidenziato una sovrapposizione nelle attivazioni dell’insula anteriore durante l’esposizione in prima persona a stimoli disgustosi e l’osservazione di persone che esibivano smorfie di disgusto.
Risposte specchio sono state registrate anche nell’amigdala. Vari studi di fMRI hanno riscontrato una attivazione dell’amigdala all’osservazione di espressioni del volto o del corpo tipicamente associate alla reazione di paura. Lo stesso dicasi per alcuni studi di registrazione intracranica in pazienti con epilessia farmaco resistente, che hanno mostrato come l’osservazione di espressioni di paura determini una risposta significativa dei potenziali evento-correlati registrati nell’amigdala. Infine, studi recenti di registrazione intracranica hanno evidenziato risposte specchio nella corteccia pregenuale del cingolo associate alla produzione e osservazione di espressioni di ilarità.
La selettività delle risposte specchio nelle aree parietofrontali ha fatto ipotizzare che esse abbiano un ruolo nella capacità di comprendere le azioni osservate, contribuendo in maniera distintiva all’identificazione
degli scopi a cui quelle azioni sono dirette.
Tale ipotesi è stata corroborata nel corso degli anni da più linee di evidenza. Una di queste, per esempio, è rappresentata da una serie di studi che mostrano come al variare delle rappresentazioni motorie dell’osservatore vari anche il contenuto del suo giudizio percettivo circa lo scopo dell’azione osservata. Un’altra linea di evidenza fa riferimento a studi che hanno individuato una stretta associazione tra la capacità che chi osserva ha di comprendere e predire lo scopo di un’azione osservata e il livello di competenza motoria che l’osservatore possiede rispetto a quell’azione. La cosa importante è che la competenza motoria risultava avere un impatto significativo a parità di competenza visiva e di conoscenza in generale dell’azione osservata. Una terza linea di evidenza, infine, rimanda a numerosi studi di TMS ripetitiva che, se applicata a bassa frequenza, riduce l’eccitabilità corticale sia nel sito stimolato, sia nelle regioni a esso correlate. Questi studi hanno mostrato che la stimolazione ripetuta di aree della corteccia premotoria dotate di proprietà specchio interferisce con la capacità di riconoscere le azioni rispetto ai loro possibili scopi.
Presi nel loro insieme, questi dati supportano l’ipotesi che le risposte specchio abbiano un ruolo distintivo nella comprensione dell’azione. L’osservazione di un’azione determinerebbe in chi osserva la trasformazione delle rappresentazioni sensoriali inerenti a quell’azione nelle rappresentazioni motorie analoghe a quelle che sarebbero reclutate qualora l’azione venisse pianificata ed eseguita con quel determinato scopo. Questa trasformazione faciliterebbe la comprensione dell’azione osservata, fornendo la rappresentazione dello scopo a cui è diretta. Lo stesso vale per l’osservazione di espressioni emotive come quelle di disgusto, paura o ilarità. La trasformazione delle rappresentazioni sensoriali, concernenti le espressioni emotive, osservate nelle rappresentazioni viscero-motorie, che si produrrebbero se l’osservatore provasse disgusto, paura o ilarità, faciliterebbe la comprensione di quelle emozioni fornendo le rappresentazioni che vengono elaborate quando vissute in prima persona.
L’esistenza di questo meccanismo è confermata dallo studio di pazienti con lesioni focali dell’insula anteriore o della amigdala. Damasio e colleghi hanno riportato il caso di una paziente che dall’età di dieci anni aveva sviluppato il morbo di Urbach-Wiethe, con calcificazione dell’amigdala in entrambi gli emisferi. Il suo comportamento sociale denotava uno squilibrio affettivo, con una chiara difficoltà a identificare situazioni
potenzialmente pericolose e ad agire di conseguenza. A livello concettuale sapeva cos’era la paura, quali situazioni potevano indurla. Eppure, pur sapendolo, in quelle situazioni non sembrava provare paura come la provavano gli altri. Cosa altrettanto importante, la paziente aveva grandi difficoltà a riconoscere le espressioni di paura altrui – difficoltà, che non aveva con altri tipi di espressioni emotive. Pazienti con deficit simili nell’esperienza in prima persona e nel riconoscimento delle espressioni altrui sono stati osservati anche nel caso delle reazioni di disgusto.
Per capire fino in fondo il contributo del meccanismo specchio alla comprensione delle azioni e delle emozioni altrui resta ancora un passo da fare. Questo passo non riguarda tanto i dati sperimentali quanto, piuttosto, la chiarificazione della nozione di comprensione. A questo proposito occorre distinguere tra una comprensione basilare e una comprensione piena delle azioni e delle emozioni. Mentre la prima presuppone l’identificazione dello scopo dell’azione osservata o del tipo di emozione espressa, la seconda implica tra le altre cose, che si abbia una qualche conoscenza degli stati mentali che possono aver indotto l’agente a compiere quel tipo di azione o ad avere quel tipo di reazione emotiva. Le varie linee di evidenza sopra accennate indicano che il meccanismo specchio è sufficiente, a parità di condizioni, perché si abbia qualcosa come una comprensione basilare di un’azione o di una reazione emotiva, influenzando al contempo la stessa capacità che chi osserva ha di giudicare quelle azioni o quelle reazioni.
Ciò non significa, ovviamente, che questo sia l’unico modo che abbiamo di comprendere azioni ed emozioni altrui. Al contrario. Quello che caratterizza la comprensione basata sul meccanismo specchio è che si tratta di una comprensione dall’interno. Con questo termine non si intende nulla di misterioso o di mistico. Piuttosto, si tratta di quel tipo di comprensione cui già Marc Jeannerod accennava quando sottolineava come il reclutamento delle rappresentazioni motorie consentisse di catturare le “componenti intrinseche” dell’azione osservata, andando al di là della superficie sensoriale. Jeannerod si riferiva al dominio dell’azione, ma i dati suggeriscono che questo tipo di comprensione vale anche nel dominio delle emozioni. Sono le “componenti intrinseche” delle reazioni emotive osservate che i pazienti con lesioni all’insula o all’amigdala non riescono a cogliere, potendo disporre soltanto dell’informazione sensoriale e di quella concettuale.
Proprio il riferimento al dominio dell’emozione consente di apprezzare meglio un’accezione ulteriore della nozione di comprensione dall’interno. Ciò che caratterizza siffatta comprensione non è soltanto l’uso di rappresentazioni che sono di norma coinvolte nell’agire o nel provare emozioni in prima persona. È anche il fatto che tali rappresentazioni possono plasmare l’esperienza che si ha di un’azione o di un’emozione di un certo tipo, non solo quando la si compie o prova in prima persona, ma anche quando la si osserva mentre è compiuta o provata da qualcun altro. I dati sopra riportati suggeriscono che il modo in cui si fa esperienza di un’azione o di un’emozione cambia al cambiare del modo in cui quell’azione o quell’emozione è rappresentata in termini motori o visceromotori. E questo non solo quando si agisce o si prova un’emozione in prima persona, ma anche quando azioni ed emozioni sono osservate mentre vengono eseguite o espresse da altri. Stando così le cose, una comprensione dall’interno delle azioni e delle emozioni presupporrebbe un’esperienza di tali azioni ed emozioni che, pur essendo chiaramente diversa dall’esperienza che sottende l’agire o il provare un’emozione in prima persona, ne condividerebbe comunque alcuni aspetti fondamentali. Quello di cui facciamo esperienza quando osserviamo gli altri agire o provare un’emozione sarebbe, dunque, in parte simile a quello di cui facciamo esperienza quando siamo noi ad agire o a provare un’emozione in prima persona. È proprio questo che caratterizza il rispecchiare le azioni e le emozioni altrui: esso consente di condividere non solo processi e rappresentazioni, ma anche, e soprattutto, esperienze. ■
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Voleva solo dire che il Dna dell’uomo di Neandertal non è come il nostro. È iniziata così, 25 anni fa, una vera svolta nell’antropologia evoluzionistica. Porterà poi Svante Pääbo e il Max Planck Institute a ridefinire i rapporti fra tante forme umane che hanno contribuito alla nostra storia e alla nostra evoluzione. E anche, partendo dal confronto fra fossili e geni, a rielaborare il concetto di specie.
Il premio Nobel a Svante Pääbo non è solo una bella notizia in sé, ma rimedia a una brutta dimenticanza. Nel 1901, quando il Nobel è nato, la definizione “medicina o fisiologia” abbracciava praticamente tutte le scienze mediche e biologiche; restavano fuori zoologia e botanica, e pazienza. Ma in un secolo e passa sono cambiate molte cose. Oggi per comprendere come sono fatti e come funzionano gli organismi viventi abbiamo a disposizione la biochimica, la biologia molecolare, la genetica, la biologia evoluzionistica: discipline i cui progressi sono stati spettacolari. Nel corso degli anni, il Karolinska Institut che assegna il premio ne ha preso atto, attribuendolo, tanto per fare qualche esempio, al biochimico Hans Krebs (1953) per aver scoperto il ciclo di utilizzo degli zuccheri nella cellula; ai biologi molecolari François Jacob e Jacques Monod (1965) per aver chiarito come i batteri regolano la sintesi dei loro enzimi; e, nella genetica, a James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins (1962) per la struttura a doppia elica del Dna. Nessuna di queste ricerche aveva direttamente a che fare con la pratica clinica.
Restava da premiare la biologia evoluzionistica, anche se non mancavano né ottimi candidati – un nome per tutti: il nostro Luca Cavalli-Sforza – né ottimi motivi per farlo. Dallo studio dell’evoluzione, dallo sforzo di ricostruire la storia degli organismi viventi e della loro diversità, sono infatti derivate conoscen-
ze fondamentali, ma anche applicazioni cliniche di grande importanza. Una delle più formidabili novità tecnologiche degli ultimi anni è il metodo CRISPR/ Cas9, che promette di prevenire molte malattie correggendo gli errori del Dna. È una tecnica di laboratorio nata, letteralmente, in campagna: dalle osservazioni di un microbiologo spagnolo, Francisco Mojica, su batteri del suolo non patogeni per l’uomo. Insomma, la ricerca biomedica si è differenziata e oggi abbraccia campi diversi; tutti però hanno qualcosa in comune: descrivono i risultati di un processo evolutivo iniziato miliardi di anni fa, che riguarda tanto noi quanto i microorganismi che ci fanno ammalare. Come ha scritto un grande genetista del Novecento, Theodosius Dobzhansky, niente in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione. Applicata alla medicina, questa frase significa che per capire perché ci ammaliamo e come curarci bisogna capire come siamo arrivati a essere quello che siamo.
Luca Cavalli-Sforza ci ha lasciati nel 2018, e penso che Svante Pääbo sia il suo erede più degno, anche se indiretto. Nel corso di un quarantennio, il lavoro di Pääbo ha ridisegnato metodi e obiettivi della ricerca sull’evoluzione umana, aprendola su scenari prima inesplorati. Solo una volta in questo secolo, nel 2016, il Nobel per la medicina o la fisiologia è stato attribuito a un singolo candidato; anche questo dà un’idea della statura scientifica del vincitore di quest’anno.
Nella sua autobiografia uscita qualche anno fa (L’uomo di Neanderthal, Einaudi, 2014), Pääbo comincia con una telefonata nel cuore della notte. Siamo nel 1997. Un suo collaboratore, Matthias Krings, ha isolato per la prima volta un pezzetto di Dna dell’uomo di Neandertal (si può scrivere con l’acca o senza, ma il nome scientifico è Homo neanderthalensis). «Non è umano», gli dice. Pääbo salta giù dal letto e corre in laboratorio a stappare la bottiglia di champagne pronta in frigo per l’occasione. È un piccolo aneddoto, ma descrive bene lo stile dell’uomo: si lavora tanto, anche di notte se serve, ma l’atmosfera nel gruppo di ricerca è informale, scanzonata. Lipsia non è esattamente un posto da passarci le vacanze, ma nei laboratori dell’Istituto Max Planck di Antropologia evoluzionistica
si respira l’aria frizzante della California, dove questa storia è cominciata, nel 1987. In quell’anno Pääbo va a lavorare con Allan Wilson, a Berkeley. Ha già un dottorato dell’Università di Uppsala, ma adesso ha obiettivi ambiziosi: vuole vedere se e come si possa studiare il Dna delle mummie egizie, la sua passione fin da bambino.
Allan Wilson è l’uomo giusto da cui imparare. Nel suo laboratorio si è riusciti per la prima volta a ottenere Dna dalla pelle di un pezzo da museo: un quagga per la precisione, un equino africano a metà strada fra l’asino e la zebra, estintosi nell’Ottocento; quel Dna ha dimostrato che il quagga era una zebra con poche strisce, e non il frutto di un’ibridazione con l’asino. Ma il quagga ha 150 anni, le mummie migliaia. Come tutte le molecole biologiche, il Dna si deteriora
dopo la morte, e quindi i problemi tecnici sono tanto
più complessi quanto più antichi sono i reperti da studiare. Insieme a Wilson, Pääbo mette a punto le metodiche che, un po’ alla volta, permetteranno di guardare dentro alle cellule delle mummie, ma anche del mammut, della tigre dai denti a sciabola e di tanti altri organismi, vissuti migliaia o centinaia di migliaia di anni fa. Nello stesso tempo, definisce i criteri da rispettare perché i risultati siano credibili. Chiunque tocchi i campioni fossili, o anche solo ci respiri sopra, può lasciarci il proprio Dna: un Dna in ottimo stato che a quel punto è facile scambiare per quello autentico. Una sequenza attribuita a un dinosauro, e pubblicata su una prestigiosa rivista scientifica inglese, si è poi dimostrata in realtà umana: ce l’aveva lasciata qualcuno, chissà se un paleontologo o un genetista, manipolando il fossile magari con tanto entusiasmo, ma certo con poco discernimento. Grazie a Pääbo prende forma il moderno laboratorio per lo studio del Dna antico: stanze perfettamente isolate, nelle cui attrezzature non entrano mai campioni moderni, e i ricercatori sono bardati con camici, guanti, soprascarpe e mascherine sterili.
Ma c’è di più. Nel corso del suo lavoro, Pääbo ha anche progressivamente ridefinito la natura della ricerca antropologica e ne ha allargato i confini. Tradizionalmente l’antropologia si articolava in quattro campi: antropologia culturale, archeologia, linguistica e antropologia fisica; nel mondo anglosassone, per dire che uno è bravo, si diceva e ancora si dice che è “versato nei quattro campi”. Nel 1997 la Società Max Planck, la più prestigiosa istituzione scientifica tedesca, si rivolge a Pääbo per creare un nuovo istituto di cui gli affiderà la direzione. Lui accetta, ma vuole fare a modo suo e pone condizioni precise. Chiede che gli venga progettato un edificio a cinque piani, e a ciascun piano un dipartimento: Evoluzione, Genetica, Neuroscienze, Linguistica e Primatologia. Ci sarà una rampa a spirale a collegarli, e in cima un tetto di vetro da cui scende la luce. Le neuroscienze per capire le basi della cultura e del comportamento, paleontologia e archeologia riunite insieme nell’ambito dell’evoluzione, e lo studio dei primati perché solo confrontandoci con loro possiamo definire cosa ci renda umani. All’inizio la sede dell’Istituto doveva essere Rostock; ma Pääbo pretende una città con un aeroporto internazionale (sarà Lipsia) perché solo così potrà attrarre collaboratori e visitatori da tutto il mondo. E poi ci fa mettere una foresteria per gli ospiti, che saranno tanti e contribuiranno con le loro idee a
sviluppare un dibattito vivacissimo, a beneficio della ricerca e degli studenti; una sauna per distendersi e ragionare meglio; e infine (e qui forse c’è un tocco, un piccolo tocco di megalomania) una parete attrezzata su cui, volendo, ci si può arrampicare per accedere ai piani superiori: gli è venuta la passione dell’alpinismo. E siccome la Germania è sempre la Germania, l’ultima volta che sono stato a trovarlo una tabella bilingue stabiliva gli orari (diversi) in cui potevano cimentarsi con la parete i ricercatori dell’istituto, gli studenti o i semplici visitatori.
INCONTRI RAVVICINATI
Ma torniamo a noi. Nel lungo, e alla fine fortunato, sforzo di conoscere Dna sempre più antichi (e quindi sempre più malridotti) lo studio dell’uomo è partito in ritardo. Il motivo è semplice, ne abbiamo già parlato: se salta fuori che il Dna di un dinosauro è come il nostro, non significa che abbiamo scoperto una sbalorditiva parentela, ma solo che qualcuno ha pasticciato. Quando si studiano esseri umani, però, capire se nella nostra provetta c’è il Dna (antico) del fossile o quello (moderno) di chi lo ha maneggiato può essere impossibile. Paradossalmente, il problema non si è posto nel 1997, nella prima analisi genetica dell’uomo di Neandertal. Come efficacemente sintetizzato da Matthias Krings nell’eccitazione della telefonata, il Dna di Neandertal «non è umano», cioè ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun contemporaneo. Onestamente, Pääbo ammette che se non fosse stato così, se le analisi avessero prodotto un Dna uguale al nostro, non avrebbe saputo quanta fede prestare ai suoi risultati, e forse non li avrebbe neanche pubblicati. Oggi il problema è stato risolto grazie a nuove tecnologie di sequenziamento del Dna, che permettono di separare i frammenti malridotti (e cioè antichi) da quelli in buono stato (cioè moderni, che si buttano via).
Naturalmente non finisce lì. Ogni scoperta risponde a una domanda, ma ne solleva altre; per esempio, che relazioni ci sono state fra Neandertal e noi? In passato, qualcuno ha sostenuto che Neandertal fosse l’antenato degli europei, mentre gli antenati di asiatici, australiani e africani erano altre specie arcaiche (l’uomo di Pechino, l’uomo di Giava e una terza specie, sconosciuta), poi confluite tutte insieme a formare Homo sapiens. Si chiama teoria multiregionale e non sta in piedi: nel mondo animale non c’è alcun esempio di specie diverse che a un certo punto si fondono nella stessa. Oggi è stata abbandonata, senza rimpianti,
e per qualche decennio si è pensato, al contrario, che Neandertal e noi, così diversi nell’aspetto, con scheletri e crani ben distinguibili, rappresentassimo due rami ben separati dell’albero evolutivo umano: cugini, perché tutte le forme umane fanno parte della stessa genealogia, ma specie diverse, una delle quali estinta poco dopo l’arrivo dell’altra dall’Africa. I primi dati genetici su Neandertal rafforzavano questa convinzione, ma erano dati ricavati da un pezzo di Dna molto particolare: il Dna dei mitocondri, trasmesso dalle madri a tutti i figli, e tecnicamente più semplice da studiare.
C’è voluto qualche anno per fare il passo successivo, per trovare il modo di descrivere in Neandertal tutto il Dna delle cellule, quello che chiamiamo genoma, o per meglio dire una sua parte significativa. Nel 2010 Pääbo ha dimostrato che non era esattamente come si pensava. I Dna di noi sapiens e quelli dei Neandertal hanno parti in cui siamo diversi, ma anche tanto in
comune. Non basta: di poco, ma regolarmente, i Dna neandertaliani (il primo, e quelli che sono seguiti) dimostrano di essere più vicini a quelli degli europei, asiatici e melanesiani, rispetto ai Dna africani. Una differenza da poco, un 2 o 4 per cento del totale delle varianti conosciute, ma costante. Cosa vorrà dire?
Può voler dire che i sapiens che hanno colonizzato il resto del mondo, uscendo dall’Africa forse 100mila anni fa, erano parenti più stretti dei Neandertal di quanto non lo fossero quelli che sono rimasti in Africa, gli antenati degli africani di oggi. E parenti più stretti dei Neandertal significa che hanno in comune antenati più recenti. Per lo stesso motivo, siamo più simili agli scimpanzé che ai canguri: l’antenato comune nostro e degli scimpanzé è vissuto 6 o 7 milioni di anni fa, quello nostro e dei canguri molto prima. In alternativa, può voler dire che i Sapiens usciti dall’Africa forse 100mila anni fa hanno incontrato i Neandertal, si sono ibridati con loro, e in seguito hanno portato con sé
un po’ di Dna neandertaliano nelle loro migrazioni, anche in posti (l’estremo oriente, la Melanesia) in cui Neandertal non si è mai sognato di andare. Entrambe le teorie sono sostanzialmente coerenti con i dati a nostra disposizione.
Pääbo propende decisamente per la seconda spiegazione, ma qualche dubbio rimane. Non riguarda l’ibridazione in sé, come vedremo fra un momento, ma le sue conseguenze a lungo termine. Infatti, fra il 2015 e il 2021 il gruppo di Pääbo ha pubblicato le analisi di tre fossili umani rinvenuti in Romania (Oase), Bulgaria (Bacho Kiro), e Repubblica Ceca (Zlaty Kun), risalenti al periodo in cui noi e Neandertal coesistevamo in Europa. Tutti e tre i fossili hanno una percentuale elevata di Dna neandertaliano, che dimostra come fosse neandertaliano un loro antenato: un bisnonno o un trisavolo. Sono fossili incompleti e non sappiamo bene che aspetto avessero, ma dimostrano che le nostre relazioni con i vecchi europei sono state (anche) molto strette, al punto che ne sono nati figli ibridi; e questi figli ibridi non erano sterili (come per esempio quelli di cavalli e asini, i muli), tanto è vero che hanno avuto figli a loro volta. È meno chiaro, invece, se davvero questo lascito neandertaliano sia presente anche oggi nelle nostre cellule. Forse sì, ma forse no: l’altra componente dei genomi di Oase, Bacho Kiro e Zlaty Kun, quella sapiens, non assomiglia a quella degli europei odierni, e quindi non è chiaro se fra i nostri antenati diretti c’erano anche loro, o se invece discendiamo da un altro gruppo di sapiens, arrivato dall’Africa più tardi.
COS’È UNA SPECIE, E COS’ERA
La ricerca va avanti, e con lo studio di nuovi fossili ne sapremo sempre di più. Il fatto che esistano ipotesi differenti, sia sulle relazioni fra noi e le altre forme umane, sia sulle date e sulle rotte seguite da Sapiens quando si è espanso dall’Africa su tutto il pianeta, non è affatto imbarazzante, anzi: è segno della vitalità di un dibattito che ci riguarda tutti, che spinge a nuove analisi e solleva nuovi interrogativi. Uno fra tutti merita di essere affrontato, anche se in poche righe. Parlando di Neandertal, o dell’uomo di Pechino e di Giava, oggi classificati entrambi come Homo erectus, ho usato con una certa leggerezza la parola specie. Meglio allora dire che il concetto di specie va un po’ precisato. Nel Settecento, quando il grande naturalista svedese Linneo propone per primo di dare cognome e nome ad animali e piante, cioè genere e specie (Homo Sapiens, Canis lupus, Quercus robur, eccetera)
gli scienziati sono tutti creazionisti: sono convinti che gli organismi siano sempre stati identici a come li conosciamo oggi, fin dal momento della creazione. Classificarli è un compito vastissimo, ma concettualmente semplice: basta applicare a ciascuno l’etichetta giusta, cioè attribuire alla stessa specie individui che, riproducendosi, producono figli fertili, punto (quindi, non asino e cavallo). Già a metà dell’Ottocento, però, ci penseranno Jean-Baptiste Lamarck e Charles Darwin, in questo concordi, a mettere in crisi questa idea. I fossili dimostrano come gli organismi vissuti nel passato siano abbastanza simili a quelli attuali da suggerire parentele, e abbastanza diversi da testimoniare che nel corso del tempo sono cambiati: in altre parole, si sono evoluti. Dunque, osserva per primo Lamarck, specie diverse discendono, con modifiche, da antenati comuni; se risaliamo a marcia indietro nel tempo, quelle che oggi vediamo come specie distinte confluiscono nella stessa. E allora ci sarà per forza stato un momento in cui questi gruppi di organismi erano già abbastanza diversi nell’anatomia da poterli distinguere (cioè da poter dare loro un nome diverso), ma ancora abbastanza simili da poter generare prole fertile (cioè da non rientrare nella definizione di specie di Linneo). Le specie cambiano, e
Professore ordinario di Genetica all’Università di Ferrara, ha insegnato anche alla Stony Brook University e alle Università di Padova e Bologna. Dal 2011 al 2014 è stato presidente dell’Associazione Genetica Italiana. Nel 2007 con L’invenzione delle razze (Bompiani) ha vinto il quinto Premio letterario Merck Serono, nel 2014 il Premio Napoli, nel 2017 è stato nominato socio onorario Cicap. Oltre alle numerose pubblicazioni scientifiche, è attivo nella divulgazione e ha scritto molti saggi. Tra gli ultimi: Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigrati (Bompiani, 2008); Sono razzista, ma sto cercando di smettere (Laterza, 2008); Morti e sepolti (Bompiani, 2010); Lascia stare i santi. Una storia di reliquie e di scienziati (Einaudi, 2014); Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo (Laterza, 2016); Il giro del mondo in sei milioni di anni (il Mulino, 2018, con Andrea Brunelli); Tutto il resto è provvisorio (Bompiani, 2018); Sillabario di genetica (Bompiani, 2019); Soggetti smarriti (Einaudi, 2022); Come eravamo (Laterza, 2022).
definizioni troppo rigide non colgono la sostanza del loro cambiamento. Se abbandoniamo un concetto di specie come entità ben definita una volta per tutte, scrive Darwin, bisognerà solo «decidere (non che sia semplice) se ciascuna forma sia sufficientemente costante e diversa dalle altre da meritare un nome».
Così «smetteremo di guardare gli esseri viventi come i selvaggi guardano le navi, come oggetti del tutto al di sopra della loro capacità di comprendere; guarderemo ad ogni prodotto della natura come a qualcosa che ha una storia». Oggi forse non useremmo la parola selvaggi, ma il concetto è chiaro.
E quindi non ha molto senso chiedersi, come pure è stato autorevolmente fatto, se, alla luce delle conoscenze fornite dal Dna antico, Neandertal e noi facciamo parte della stessa specie. Siamo abbastanza diversi da meritare nomi diversi, e infatti i paleontologi non hanno difficoltà a classificare i fossili in un modo o nell’altro, se hanno a disposizione un cranio abbastanza integro; eravamo abbastanza simili da produrre ibridi fertili, il cui Dna neandertaliano è arrivato, secondo molti, fino a noi.
Il lavoro di Pääbo e del suo gruppo è proseguito e prosegue. Nel 2008, nel corso di scavi nella grotta di Denisova, sui monti Altai, in Siberia, sono emersi due denti e un frammento di osso, la falangetta di un dito mignolo. Al freddo della Siberia il loro Dna si era conservato molto bene, ed era un Dna diverso sia dal nostro sia da quello di Neandertal. L’uomo di Denisova è la prima specie (spero che ormai sia chiaro
quanta ambiguità ci sia in questa parola) definita non sulla base della sua anatomia, che non conosciamo, ma del suo genoma. Denisovani e neandertaliani si sono incontrati, e anche il loro incontro ha prodotto una prole, non sappiamo quanto vasta: una ragazza di 90mila anni fa aveva la mamma neandertaliana e il padre denisovano, e anche questo è il risultato di uno studio di Pääbo. E poi (ma si potrebbe proseguire a lungo), in collaborazione con Wieland Huttner che lavora a un altro istituto Max Planck, quello di Dresda, hanno inserito in colture di cellule cerebrali di Sapiens un gene di Neandertal, TKTL1, che è come il nostro, a parte una sola, piccola differenza. Hanno visto che la moltiplicazione delle cellule ne risulta rallentata, e quindi probabilmente anche lo sviluppo del cervello. Siamo solo agli inizi, se ne vedranno ancora delle belle. Gli studi su Neandertal stanno quindi aprendo nuove prospettive di ricerca, utili a definire meglio quanto avevamo in comune con questi parenti preistorici, e in definitiva a capire meglio chi siamo noi. Ma non solo: confrontandoci con forme umane arcaiche, e vedendo cosa succede quando sostituiamo ai nostri geni i loro, stiamo comprendendo meglio come funziona il nostro organismo, a partire dall’organo più misterioso e complicato di tutti, il cervello. Ancora una volta, e gli studi che proseguono nel laboratorio di Pääbo ne sono una magnifica conferma, la buona ricerca di base pone fondamenta su cui tanti altri, psicologi sperimentali e neurobiologi e clinici, potranno costruire. ■
Al Museo degli Innocenti di Firenze, fino al 7 aprile.
Nella pagina di sinistra, in alto: Le stagioni: Calendario per i negozi Dewez Enseignes, Parigi, 1903, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023. Sotto a sinistra: Lance Parfum RODO, 1896, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023. Sotto a destra: Job, 1896, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023.
In questa pagina, in alto: Nestlé’s Food for Infants, 1897, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023. A destra: Moët & Chandon: Champagne White Star, 1899, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023.
Con il patrocinio del Comune di Firenze e dell’Ambasciata della Repubblica Ceca, la mostra viene organizzata in collaborazione con la Fondazione Mucha e In Your Event by Cristoforo, ed è curata da Tomoko Sato con la collaborazione di Francesca Villanti. La mostra ha come sponsor Generali Valore Cultura, partner Mercato Centrale Firenze, I Gigli, Samsonite e Unicoop Firenze, mobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale, media partner QN La Nazione, educational partner Laba e technical support Mucha Trail, Prague City Tourism.
Les Amants, 1895, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023. Sotto a sinistra Bières de la Meuse, 1897, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023. A destra, Le pietre preziose: Rubino, 1900, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023. Nella pagina a fianco, Chocolat Idéal, 1897, Litografia a colori, © Mucha Trust 2023.Insetti straordinari. Per le modalità di apprendimento e comunicazione, per la produzione (di miele, cera, propoli), per l’impollinazione del 35% delle culture alimentari mondiali. Ma sono minacciate da inquinamenti e CO2.
Le api costruiscono le complicate strutture dei favi un passo dopo l’altro. Fatti di cera, i favi da miele sono tra le strutture in natura meglio costruite dal punto di vista ingegneristico; pesano meno di un foglio di carta quando sono vuoti, ma molti chili quando sono pieni di api, miele e nettare.
L’immagine convenzionale mostra le celle esagonali, ma attraverso raggi X ad alta energia è stato possibile creare immagini in 3D. Rahul Franklin e collaboratori hanno scannerizzato un favo crescente ogni due ore e mostrato che la costruzione procede dall’alto verso il basso. Opportunamente, le api rinforzano le fondamenta con più cera, via via che il favo cresce.
In primo luogo, comunque, prima creano una struttura verticale corrugata. Le sue protuberanze e depressioni formano la sequenza di esagoni in cui le api depongono il grosso della cera. Poi strizzano la cera come l’impasto di una pizza per costruire le mura delle celle del favo (ADV. Mater, https:// doi.org/dfq, 2022).
Sono importanti insetti sociali nella produzione agricola, poiché non solo impollinano le corolle, ma creano anche prodotti, come miele, pappa reale, propoli, polline e cera.( J. Zhou e al, Journal of Agricultural and Food Chemistry 2022, 70,1358).
Le api da miele (Apis mellifera ligustica) sono i più importanti impollinatori naturali ed economici al
mondo e, come vedremo, impollinano il 35% delle colture alimentari mondiali. Offrono dei benefici economici che sono essenziali per la diversità delle specie e che non possono essere ignorati. All’interno delle loro colonie vi sono caste morfologiche (regina e lavoratrici) e temporali. (X. Li e al, Journal of Agricultural and Food Chemistry 2022, 70, 6097).
Le caste temporali sono cinque: pulitrici dell’alveare, balie, forgiatrici, costruttici dell’alveare e trasformatrici dell’alimento.
Molti esperimenti che le riguardano sono basati sul loro comportamento e sulla tossicologia che le riguarda: molti comportamenti delle api da miele sono regolati dal sistema endocrino.
IL RUOLO DEGLI ORMONI
L’ormone juvenile (JH) gioca un ruolo essenziale in queste regolazioni. Ciascuna casta ha una distinta base fisiologica associata a titoli unici JH, che istruiscono ad esempio un’operaia per le mansioni specializzate che deve compiere.
Gli ormoni JH giocano un ruolo cruciale nella metamorfosi, differenziazione delle caste e migrazione degli insetti. Sono stati confermati sette diversi JH negli insetti, e i diversi omologhi mostrano diverse azioni e attività. È noto che che i JH hanno una serie di composti
stereoisomerici e che vi sono grandi differenze nelle bioattività dei diversi stereoisomeri.
Le api mellifere hanno solo JHIII e lo stereoisomero R è quello che ha una più alta attività biologica nel regolare la loro attività.
Gli insetti sociali hanno bisogno di un sistema di comunicazione molto raffinato, specialmente quando migliaia di individui sono organizzati in modo gerarchico nei loro alveari. Gli insetti individuali possono invece comunicare attraverso i segnali chimici, le danze, le vibrazioni toraciche e il contatto diretto, tutte attività che aiutano a riconoscere le loro compagne di alveare.
Esse hanno una forma particolare di comunicazione che consente loro di segnalare alle compagne dell’alveare una fonte di cibo attraverso dei simboli.
Le loro coordinate sono codificate attraverso una danza intricata e sofisticata chiamata waggle dance sul favo verticale, usando la gravità e il tempo come riferimento (L. Chittka e al, Science 2023, 379, 985).
I movimenti sono seguiti da principianti nel buio dell’alveare, successivamente questi decodificano l’informazione vettoriale e seguono le istruzioni della danza una volta usciti.
Come molti altri comportamenti di insetti sociali, si pensava che questo sistema di comunicazione fosse innato. Tuttavia Dong e collaboratori hanno rivelato che le api da miele forniscono precise informazioni spaziali solo se esse hanno avuto la possibilità di seguire le danze sperimentando modelli di ruolo – in altri termini, il sistema di comunicazione deve essere appreso in parte in modo sociale (S. Dong e al, Science 2023, 379, 1015).
Dopo aver scoperto una ricca fonte di cibo, le api da miele foraggiatrici possono informare le compagne dell’alveare atraverso una danza a forma di otto (composta da danza waggle centrale, seguita da semicircoli alternati a sinistra e a destra) sui favi di cera all’interno dell’alveare, con gli allievi che toccano l’addome dei danzatori con le antenne.
La durata della danza informa le api neofite sulla distanza della fonte di cibo. Essa viene ripetuta più volte.
L’apprendimento sociale precoce è essenziale per le api da miele. Dong e collaboratori hanno creato colonie composte esclusivamente da api novizie; senza guida di tutori, queste incominciano a fare le danze waggle una settimana o due dopo essere emerse dalla pupa.
Ma le indicazioni del luogo da parte di queste api inesperte sono più imprecise: variano da una danza all’altra e indicano distanze maggiori di quelle reali.
Quando però acquistano esperienza nei venti giorni successivi, i loro codici di posizione raggiungono gra-
dualmente livelli normali. Tuttavia le indicazioni della distanza rimangono per tutta la vita sovradimensionate in maniera anomala, indicando che dopo una finestra di tempo critica, non sono più possibili correzioni attraverso l’apprendimento sociale.
Le api di controllo, che sono state esposte alle danze da api foraggiatrici esperte prime di iniziare a fornire i loro segnali, non presentano nessuno di questi inconvenienti.
Lo studio di Dong e altri aggiunge un’ulteriore evidenza al fatto che i comportamenti complessi sono di rado completamente innati. Per esempio, benché la regolarità e l’ottimizzazione della costruzione dell’alveare delle api fosse vista da Darwin come il «più meraviglioso di tutti gli istinti noti», è venuto fuori che le modalità con cui le api operaie costruiscono l’alveare sono influenzate dalle strutture degli alveari sperimentate quando erano giovani (G. von Oelsen, Adipologie 1979, 10, 175).
È perciò plausibile che alcune delle più avanzate innovazioni comportamentali (includendo elementi del linguaggio della danza) possano essere emersi almeno in parte da innovazioni individuali, diventando istintuali successivamente nel tempo evolutivo.
L’ Apis mellifera ligustica (A. mellifera ) e l’Apis cerane (A. cerana) sono le maggiori specie di api in Cina e anche le maggiori produttrici nel mondo.
La A. mellifera presenta la più alta produttività. A sua volta l’A.cerana è stata domesticata nell’apicoltura cinese per la sua superiorità nel raccogliere sporadiche fonti di nettare, specialmente da medicine erbacee, per il suo lungo tempo di raccolta e per la sua resistenza alle malattie come il baco delle api.
In Cina è classificata come una specie appena al di sotto dell’A. mellifera e il suo miele è considerato superiore per l’alto valore nutritivo.
È prodotto dal nettare del fiore e dalle secrezioni delle piante, che sono raccolte dalle api, trasformate e maturate negli alveari con il rigurgito dei loro enzimi salivari.
Il miele è un prodotto miracoloso che arriva all’uomo da decine di migliaia di anni ed è il frutto della coevoluzione tra piante e api mellifere. È un dolcificante naturale che si origina dal nettare dei fiori, raccolto dalle api e successivamente maturato nell’alveare. I mutamenti del paesaggio-habitat naturale e la disponibilità ambientale e temporale delle risorse floreali possono influenzare le colonie ed è noto da tempo che la carenza di cibo, in particolare di polline, contribuisce al loro impoverimento (vedi oltre).
Le risorse floreali del paesaggio che circonda gli alveari determinano quindi la composizione del polline e del nettare, che costituiscono la base della dieta delle
api e del miele successivamente prodotto.
I suoi maggiori componenti sono i carboidrati, che ne costituiscono circa l’80% ; glucosio e fruttosio sono presenti in un rapporto di circa 0,5-2%, mentre il resto è dato da saccarosio, maltosio, turanosio e altri venti componenti (W. Cao e al, Journal of Agricultural and Food Chemistry 2022,7010194).
Data la loro alta quantità, fruttosio e glucosio favoriscono l’aumento di peso e la resistenza insulinica. Sono presenti anche vari fitochimici come composti fenolici e aminoacidi come la prolina, che hanno proprietà biologiche come antiossidanti e antinfiammatori.
Il miele da A. cerana contiene più enzimi e presenta maggiore valore nutrizionale e salutare, il che è dovuto alle sue secrezioni endogene e alle diverse fonti floreali.
Questo lo rende dalle 3 alle 19 volte più costoso di quello della A. mellifera.
Molti studi sperimentali e clinici hanno documentato l’effetto ipoglicemizzante del miele in forme animali di diabete e in pazienti diabetici. Recentemente, in uno studio condotto su 18281 pazienti è stato dimostrato che il suo consumo è inversamente associato col prediabete
In Cina il miele è largamente utilizzato non solo per il suo gusto unico, ma anche per le qualità salutari; si ritiene che possa proteggere contro l’insorgenza della sindrome metabolica grazie alla sua attività antiobesità, antidiabetica, ipolipedimica e ipotensiva. Vi sono inoltre numerose evidenze secondo cui il suo utilizzo può contribuire alla prevenzione della steatosi epatica non alcolica.
Le api sono insetti sociali e mostrano una complessa organizzazione coloniale basata sulla divisione del lavoro tra le api operaie dell’alveare, in particolare per l’acquisizione e l’immagazzinamento del cibo: costruiscono un favo sopra le celle dell’alveare per immagazzinare miele e polline. Il miele maturo (Mature Honey, MH) è coperto con cera bianca per la conservazione a lungo termine. Il surplus di polline, il nettare e la melassa sono conservati nelle celle del favo di cera costruite dalle api operaie. Servono alle api mellifere per superare i periodi “morti”, quando non è possibile il foraggiamento. I carboidrati che vengono
riportati all’alveare dalle api bottinatrici (specializzate nella raccolta di polline, nettare o acqua), sono ceduti alle api immagazzinatrici, che li distribuiscono fra le compagne affamate o li trasformano per produrre il miele. Le api immagazzinatrici normalmente aggiungono anche le sostanze come enzimi secreti dalle ghiandole ipofaringee, per convertire il saccarosio in glucosio e fruttosio. In quasi tutti i tipi di miele predomina il fruttosio e l’insieme di fruttosio e glucosio costituisce l’85-90% dei carboidrati presenti. Vi sono anche tracce di polisaccaridi e di sostanze volatili responsabili dell’aroma caratteristico. Gli acidi prodotti dallo stomaco di queste api abbassano il pH del miele immaturo e allo stesso tempo eliminano l’acqua, per aumentare la concentrazione dello zucchero.
Questo processo è guidato sia dal comportamento attivo delle api sia dall’evaporazione passiva del contenuto delle celle e dipende dalle specifiche condizioni dell’alveare. Utilizzando in modo mirabile la loro lingua, le api operarie concentrano, con i movimenti della loro bocca, le gocce del nettare rigurgitato e questo porta ad un aumento della concentrazione dello zucchero dal 10 al 25%, in poche ore.
Le dinamiche della maturazione del miele sono influenzate da vari parametri, come la dimensione della colonia, i movimenti e l’umidità dell’aria all’interno dell’alveare, le condizioni climatiche prevalenti e l’origine botanica che determina i rapporti di zuccheri e acqua contenuti nel nettare. La durata della maturazione varia da 1 a 11 giorni. Quando il miele è maturo, le api lo coprono con un coperchio di cera per proteggerlo, per impedirne una fermentazione indesiderata e il deterioramento.
Con la crescita della domanda mondiale di miele vi è stato un aumento delle adulterazioni ed esso è il terzo target più frequente delle frodi come riportato dall’US Pharmacopeia’s Food Fraud Database (J.C. More e al, J. Food Sci 2012, 77, R118-R126).
Per evitare frodi dovute all’introduzione del miele meno costoso è necessario sviluppare un metodo per identificare e verificare le origini entomologiche del miele stesso.
Questo viene realizzato attraverso metodi biologici che coinvolgono le analisi delle proteine e del DNA.
In alternativa si può ricorre a un approccio metabolico con cromatografia liquida-spettrometria di massa quantificando tre markers.
Come anticipato, le api sono gli impollinatori naturali più importanti ed economici, perché impollinano il 35% delle coltivazioni mondiali.
Nei soli Stati Uniti l’impollinazione delle colture da parte dell’ Apis Mellifera vale annualmente 20 miliardi di dollari (V. A. Ricigliano e al, The Journal of Agricultural and Food Chemistry 2022, 70, 9790).
Purtroppo gli apicultori stanno sperimentando ogni anno perdite nelle loro colonie di api – che tuttavia oggi sono il doppio di quelle storiche – rendendo incerta l’impollinazione e dunque la sicurezza del cibo.
Queste perdite sono attribuite a molti fattori, come parassiti e patogeni. Molte evidenze indicano che la causa principale è la malnutrizione.
Il nettare fornisce l’energia sotto forma di carboidrati, mentre il polline è a sua volta la fonte principale di proteine, lipidi e micronutrienti.
In condizioni ideali, per soddisfare le necessità nutrizionali delle api occorrono fonti molteplici: c’è bisogno di una certa varietà di fiori, poiché la composizione del polline varia a secondo delle specie di piante.
Sfortunatamente l’agricoltura intensiva è associata a una riduzione della biodiversità dei fiori. Le risposte delle piante ai cambiamenti climatici alterano a loro volta le risorse floreali disponibili e questo rende problematica le nutrizione e la salute delle api.
Per risolvere questi problemi nelle colonie di api allevate gli apicultori ricorrono a sostituti del polline.
Sono state usate diverse formulazioni come sostituti del polline naturale; queste spesso incorporano ingredienti ricchi in proteine, come soia, glutine di mais, caseina e uova, come fonte di aminoacidi essenziali.
Tuttavia, altri fattori nutrizionali potrebbero migliorare la dieta artificiale, introducendo ad esempio i fitochimici. Le microalghe sono ingredienti nutritivi usati per
È stato professore di Chimica organica all’Università degl Studi di Milano e ha fatto parte del Pôle Scientifique des Universités de Grenoble.
Autore di più di 200 pubblicazioni scientifiche, ha scritto tre libri sugli alimenti: Cucina e Scienza. Ingredienti processi e menù (con Fabiano Guatteri, Hoepli, 2008); I cibi della salute. Le basi chimiche di una corretta alimentazione (con Giancarlo Folco e Franca Marangoni, Springer, 2013), Alimenti vegetali e salute (Aracne, 2014) e La chimica nel piatto. Alimenti vegetali e l’arte di vivere sani (Aracne, 2014). È da poco in libreria l’ultimo saggio, scritto con Giancarlo Folco, Fatti e Misfatti delle diete (Springer Healthcare, 2022).
l’allevamento del bestiame e anche delle api. Microalghe del genus Chlorella e Arthrospira (comunente chiamata spirulina) sono una fonte eccellente di proteine, acidi grassi, sterili e sostanze bioattive con potenziale nutraceutico. Queste microalghe possono essere digerite dalle api da miele e riproducono le caratteristiche di crescita delle diete alimentate con polline naturale. Oltre alle proteine, il polline contiene una varietà di lipidi necessari, acidi grassi essenziali e composti bioattivi come vitamine e acidi fenolici.
Il nettare floreale arricchito in sodio aumenta le velocità di visita degli insetti impollinatori. Gli allevatori sanno da tempo che il bestiame e le pecore sono attratte dal sodio offerto sotto forma di “leccate di sale”. Non a caso molte piante aumentano la qualità o quantità di gratificazione nel polline o nel nettare per incoraggiare le visite degli impollinatori (C. N. Sanders e al, Biology Letters 2022, 19,1).
Diversi studi hanno esplorato come le concentrazioni di zuccheri e aminoacidi nel nettare possono attrarre gli impollinatori e favorire l’impollinazione, ma pochi hanno esplorato quali altri costituenti macro e micro possano influenzare il numero e la moltelicità degli impollinatori.
Gli erbivori in diversi ecosistemi si nutrono di piante con alto contenuto di sodio nelle loro foglie.
Nathan Sanders e collaboratori hanno applicato nettare artificiale arricchito con sodio a cinque specie di piante comuni nelle vallate del New England. E hanno verificato che quelli con il nettare arricchito hanno avuto quasi il doppio di visite da parte di diverse specie di impollinatori.
I visitatori più comuni sono state le api, compresa l’Apis mellifera) e i calabroni. Le piante utilizzate erano di cinque diverse specie, ma hanno dato gli stessi risultati.
Al momento non è possibile stabilire se gli impollinatori cercano il cloruro di sodio come tale o in combinazione con l’acido gamma-amminobutirrico (GABA), che gioca un ruolo importante nella neurotrasmissione.
Questi risultati suggeriscono che il sodio può attirare gli insetti impollinatori alle piante. Ci si aspetta che cambiamenti climatici alterino il ciclo dell’acqua e la disponibilità del sodio nelle piante; questo potrebbe avere effetti negativi sulle popolazioni delle piante e sugli insetti che visitano i loro fiori.
Le api, come detto, sono insetti specializzati, che si nutrono quasi esclusivamente di nettare e polline
dai fiori e in questo modo contribuiscono in modo sostanziale all’impollinazione delle piante selvatiche e delle colture (D. Goulson e al, Science 2022, 375,970).
Si sono adattate per individuare ed estrarre le risorse floreali, incluso un impressionante apprendimento, con abilità di navigazione e di comunicazione.
Tuttavia, gli adattamenti per il foraggiamento possono essere influenzati da fattori antropogenici. In particolare, la diffusione dell’agricoltura industriale ha profondamente alterato il paesaggio in larghe porzioni della Terra, riducendo spesso la disponibilità e la diversità delle risorse floreali.
Le coltivazioni più importanti (cereali come grano, riso e mais che comprendono il 79% dell’area coltivata) sono impollinate dal vento e perciò forniscono risorse minime per gli impollinatori. D’altra parte, alcune coltivazioni come la canola, i girasoli, e molti frutti e vegetali richiedono impollinazione e per questo offrono risorse floreali alle api, in particolare alle api da miele.
Un rischio per esse è rappresentato dall’esposizione ai prodotti chimici utilizzati in agricoltura. Campioni di miele analizzati hanno evidenziato che normalmente contengono dieci o più pesticidi in combinazioni complesse. Gli effetti di questi prodotti chimici includono problemi di navigazione per le api, aumentando la frequenza con cui esse si perdono durante il foraggiamento.
I neonicorticoidi danneggiano anche l’apprendimento dell’associazione tra profumi e ricompensa floreale, una abilità vitale per identificare i fiori più rimunerativi.
Anche certi erbicidi come il glifosato hanno un impatto negativo sul comportamento del foraggiamento, sulla memoria e sull’apprendimento in varie specie di api. Questo effetto è ancora più pronunciato per le api solitarie.
A causa della frammentazione degli abitati, le api devono volare più lontano per trovare il cibo ed evitare aree con grande traffico, inquinate da scarichi, che oltretutto degradano gli odori floreali. Un aumento nella concentrazione di CO2 può ridurre il contenuto di proteine nel polline, mentre eventi climatici estremi come ondate di calore, fuochi e siccità alterano la capacità dei fiori di produrre risorse floreali.
Iniziative per ridurre o eliminare l’uso di pesticidi nelle aree urbane aumentano il valore di queste ultime per il foraggiamento delle api.
Vi sono infine evidenze che suggeriscono come le colonie di api e calabroni vivano (paradossalmente) meglio nelle aree urbane rispetto alla campagna, in parte anche a causa della maggiore diversità e disponibilità di risorse floreali durante l’anno. ■
Una galleria e una casa editrice da cui sono passati i migliori illustratori italiani e internazionali. Ma in cosa consiste questa “nona arte”? Che rapporto ha con il testo?
Il racconto di chi ha dedicato la vita ai disegni d’autore.
Avevo solo 15 anni quando, con un ragazzo un po’ più grande di me, ho assistito a un recital di Jannacci al Teatro Odeon: una folgorazione. In quel momento ho deciso che Milano sarebbe stata per sempre la mia città, quella di origine è Alessandria.
È stato qui, in questa strana metropoli del Nord, che è successo tutto. Con una premessa: alla fine degli anni Settanta, dopo un incontro con Roland Topor –complici anche il mensile Linus e gli scritti di Umberto Eco sulla nona arte – mi sono appassionata al fumetto e all’illustrazione. Per questo qualche anno dopo ho dato vita alla Galleria Nuages e successivamente alle Edizioni Nuages, la nostra casa editrice. Avevo sentito la necessità di creare qualche cosa che restasse, che non finisse con l’esposizione e a quel punto sono riaffiorati i ricordi dei libri illustrati dell’infanzia, gli studi successivi di letteratura e la conoscenza dei libri della Olivetti curati da Giorgio Soavi, che era diventato nei primi anni Ottanta un caro amico.
Fondatrice della galleria Nuages di Milano, ha esposto opere di autori come Folon, Moebius, Paul Davis, Hugo Pratt, Andrea Pazienza a cui si aggiungeranno altri grandissimi artisti, Mattotti, Luzzati, Milton Glaser, Brad Holland, Matticchio, Guido Crepax, Muñoz, Pericoli. Nel 1989 Nuages diventa anche una casa editrice, tra le sue collane “I classici illustrati” e “Carnet de voyage”. Nel 1987 con l’esposizione I manifesti di Folon al Museo di Vicenza inizia anche l’attività di curatrice di grandi mostre pubbliche a Venezia, Siena, Palermo, Milano, Bruxelles, Varese, Lugano.
Ma come fare? Con quali criteri? Così ho chiesto ad Andrea Rauch, già allora bravissimo grafico oltre che autore, di aiutarmi a creare la collana dei “Classici illustrati” di Nuages che avrei voluto bella e normale. Non è un ossimoro, intendo solo dire che non dovevano essere libri di lusso: erano concepiti per dare risalto alle immagini senza diventare “libri oggetto”.
Rauch ha mescolato questi ingredienti: carattere Garamond Simoncini con le grazie, carta Tintoretto uso mano, formato cm 19,5 x 26,5, copertina con l’illustrazione inquadrata da un contorno colorato... Libri classici proprio come li avevo desiderati, sarebbero poi stati tutti seguiti, come quelli Olivetti, dallo stampatore Gianni Biolcati.
Mi dilungo su questi che sono dettagli tecnici per dare al lettore la sensazione della cura estrema che una certa editoria ha nel tempo riversato sui propri prodotti, uno strano mélange tra l’artigianale e il superprofessionale. Eravamo così, e credo siano rimasti ben pochi gli editori di questa schiatta. Avevamo una grande attenzione alle forme, ma anche ai contenuti. Per esempio, una cosa su cui sono stata perentoria era che le illustrazioni non venissero prima del testo a cui si riferivano. Dovevano apparire dopo, erano una specie di epifania di colori per concetti già espressi: perché la frase riportata nella pagina precedente l’illustrazione era quindi già stata letta e rimandava trionfalmente al racconto visivo.
L’abbinamento, l’avvicendarsi, tra testo e illustrazioni è stato ed è molto appassionante. Il più delle volte ho chiesto a un autore di illustrare un testo che ritenevo adatto a lui. Altre volte, soprattutto con Emanuele Luzzati, abbiamo pensato insieme a quale scegliere e, nel caso di Hugo Pratt, la proposta è arrivata da lui.
Molto divertente è stato quando avevo suggerito a
Jean Michel Folon di fare un classico per Nuages e lui
mi ha risposto: «L’uomo invisibile! Così è già fatto...». Il nostro è un mondo pieno di scherzi e di ironie.
In questi anni mi sono trovata spesso ad ascoltare opinioni differenti. Che cos’è, infine, un’illustrazione? Difficile trovare un autore che non abbia una sua personale teoria in proposito. Per il grande fumettista e illustratore argentino José Muñoz illustrare è dare lustro, luce. Alcuni hanno paura della definizione, altri ne sono fieri, altri ancora la usano con disinvoltura e senza pregiudizi.
Penso che in fondo si tratti di qualità e libertà. Il catalogo di una nostra mostra si intitolava Illustrazione libera. Protagonista: la libertà dell’autore di leggere e tradurre un testo, un argomento, appunto liberamente.
Si tratta sempre di interpretazioni che affiancano il testo. In fondo quando leggiamo un libro o anche un articolo su un giornale nella nostra mente si formano delle immagini, scorre un film della storia, nel caso dell’illustrazione vediamo il film di qualcuno che, dotato di grande talento lo mette su carta, lo colora e ce lo offre.
Questo è l’aspetto che mi ha sempre affascinata. Se penso ai classici Nuages, penso al Macbeth: avete visto l’immagine di apertura per questo mio articolo?
Io la trovo splendida! Comunque avevo chiesto a Ferenc Pinter di disegnare per noi quest≠’opera shakespeariana (ne era molto contento) e ancora oggi prendo questo libro come esempio perché offre ai lettori una grandissima illustrazione, coerente con una grandissima poetica.
Le parole di Shakespeare arrivano con la forza di una piena, immergono nella profondità delle passioni, negli stati d’animo, nelle sottigliezze del pensiero, nella confusione malata della colpa. Precise come bisturi svelano la complessità dei sentimenti. Come un lampo illuminano l’amicizia, come un riflesso di brace gettano una luce rossastra sul disegno assassino. Spalancano una porta sull’abisso dei desideri e dei rimorsi. L’arte di Shakespeare è natura, e come i fenomeni della natura arriva in modo diretto e coinvolgente. Le sue parole sono materia e forse solamente con un’altra materia potevano essere avvicinate. Per illustrare Macbeth, Ferenc Pinter ha fatto proprio questo: «Azioni così non vanno ripensate in questo modo, così ci faranno impazzire», sussurra Lady Macbeth al marito e la tempera vive sulla trama della tela rendendo il suo sguardo sgomento sulle mani insanguinate del re assassino.
La luce delle parole sempre si riflette nei dipinti. Lampi, bagliori, ombre, riflessi, chiarori, colpiscono lo
sguardo, il cuore, la mente. Pinter ha affiancato sempre le parole di Shakespeare in questo modo, riuscendo ad aggiungere forza attraverso un’altra percezione, quella visiva anche lei come le parole, diretta al cuore. Pinter in alcune tavole ha saputo illustrare il pensiero: non uno qualunque, ma il pensiero folle.
Credo che quasi tutte le illustrazioni dei classici Nuages raggiungano queste altezze. Hugo Pratt mi aveva proposto una scelta di lettere che Rimbaud scriveva dall’Africa alla famiglia, il libro ha avuto un grande successo. In seguito sarebbe arrivata anche una scelta di poesie di Rudyard Kipling, poesie che non erano ancora state pubblicate in italiano, un altro successo.
Un lungo sodalizio è stato quello con Emanuele Luzzati. Con lui, sette classici: Candido, Pinocchio, Alice, Decamerone 1 e, non ne avevamo abbastanza, Decamerone 2, poi Peter Pan e, ultimo, Il Milione. Quando usciva un libro Luzzati mi diceva sempre: «E ora cosa facciamo?».
Un altro grande illustratore che mi ha accompagnata per tanti anni è stato Jean Michel Folon, oltre al già citato Uomo invisibile ha disegnato per Nuages una scelta di Favole di La Fontaine
Ma gli autori dei nostri classici sono stati tanti: Altan, Milton Glaser, Moebius, Mattotti, Toppi, Loustal,
Perini. Mi sentirei di dire che tutti hanno creato opere straordinarie (così come lo è anche l’ultimo volume della collana, Il richiamo della foresta di Jack London, illustrato da Nicola Magrin).
Ai classici si affiancano molti altri libri, cataloghi di mostre, la collana “Carnet de voyage” e quella dedicata agli “Incontri”. In quest’ultima abbiamo pubblicato Hugo Pratt, Moebius e Emanuele Luzzati. Tutte opere che mi permettono di rivivere e di fare conoscere i contenuti dei miei incontri con gli autori: il prossimo sarà dedicato a Jean Michel Folon.
In quello di Hugo Pratt racconto lo svolgersi di un’amicizia attraverso vari episodi, una presentazione a Venezia in una giornata di neve, una primavera romana, una festa di capodanno a Losanna con cantanti e musicisti, un viaggio in Bretagna nella foresta di Broceliande. In un crescendo di emozioni con suggestioni musicali, acquarelli e fotografie.
Con Moebius va in scena una vacanza a Stromboli, con salita al vulcano in grande attività e l’amicizia vissuta nell’intimità di piccoli luoghi, sotto cieli stellati, tra profumi di ibisco e gelsomino delle Eolie e di frutti di mare della Bretagna.
Con Emanuele Luzzati scrivo del grande scenografo e illustratore e racconto lo svolgersi della nostra amicizia tra mostre, libri e viaggi. Un tempo ricco di aneddoti, confidenze e ricordi. L’incanto comune per la prima neve, per l’arrivo a Venezia e per la città, Parigi. Dopo tanti anni trascorsi a progettare e realizzare libri è arrivata anche per me la voglia di fissare questa bella storia, mi piace scrivere e cerco di farlo.
L’ultimo libro Nuages, Ancora poche lune. La risposta di capo Seattle, non fa parte dei classici illustrati ma nasce da stratificazioni emozionali di cui scrivo nel mio testo per arrivare alle parole profetiche di Capo Seattle pronunciate all’inviato del grande capo bianco che intendeva scacciare gli indiani dai loro territori per collocarli in vergognose riserve. Gli acquarelli di Magrin fanno vibrare quelle parole sulla carta che si svolge per quasi quattro metri in un formato che viene chiamato “Leporello” ricordando il servitore di Don Giovanni.
Sì, la vita in una galleria e in una casa editrice è una fucina straordinaria di incontri, anche sul piano umano. Di rimandi, anche. Di rimbalzi. Nuages e io abbiamo potuto contare su figure di grandissimo livello artistico, ma anche persone come mio padre, che prendeva il treno da Alessandria a Milano Porta Genova per sostenere con intelligenza, garbo e passione le nostre attività. La verità è che la bellezza vince sempre per contagio immediato. ■
Coniugare poetica e astrofisica, Genesi e Big Bang, Dante e Mallarmé. L’opera in versi di Haroldo de Campos.
Tra i tremila e i duemilacinquecento anni fa, la Grecia arcaica elaborò la prima meditazione sulla natura e la formazione del cosmo. Aristotele ci ha trasmesso nella Metafisica un elenco di pensatori che avevano proposto una serie di cause materiali della struttura del cosmo, i “principi”: Talete, l’acqua; Anassimene e Diogene, l’aria; Eraclito, il fuoco; Empedocle, tutti e quattro gli elementi; Anassagora, principi infiniti. Omero e altri avevano puntato su Oceano e Teti, Esiodo e Parmenide su Eros. Alcuni presocratici si erano accorti di quanto inutile fosse postulare solo principi materiali ed erano ricorsi alle cause che Aristotele chiamerebbe «efficienti», cioè a un livello di astrazione superiore. Empedocle aveva pensato alla Amicizia e alla Discordia, o Conflitto; Anassagora era andato ancora più in là, immaginando una Nous, un’Intelligenza ordinatrice. Nella recensione di Aristotele vengono poi gli Atomisti Leucippo e Democrito, e infine i Pitagorici.
È importante notare almeno un particolare: tra tutti questi autori, almeno quattro – Omero, Esiodo, Parmenide ed Empedocle – scrivono in versi, come del resto farà il romano Lucrezio nel suo bellissimo De rerum natura. Nessuno tra gli antichi si sarebbe scandalizzato del fatto che la «filosofia naturale», cioè la fisica e l’astrofisica, si servissero della poesia per esprimersi. E gli esempi non mancano, da Arato a Manilio nell’antichità, a Bernardo Silvestre, Alano di Lilla e Dante nel Medioevo, Scève e Du Bartas nel Rinascimento, sino a Erasmus Darwin nel Settecento, e oltre.
Ogni poeta di rilievo sentiva l’obbligo di descrivere e interpretare l’universo nella propria opera. Nella tradizione portoghese, questo obbligo viene assolto da Luis de Camões nei suoi Lusiadi, il poema che divenne il classico portoghese per eccellenza e che narra la spedizione di Vasco da Gama verso l’India. Nel Canto X, la dea Teti mostra a Vasco quella che chiama a máquina do mundo: «eterea, elementare, fabbricata / come fu dal Sapere alto e profondo / che principio non ha, né fine data». È la struttura del cosmo, con i cieli aristotelico-tolemaici e l’Empireo che tutti concentrici li contiene, le stelle splendenti e i pianeti, la Terra (e la sua geografia, dall’Europa all’India). Una visione, probabilmente, ispirata dal Tratado da Esphaera di Pedro Nunes (1537), esso stesso una rielaborazione del Sacrobosco e del Peurbach. Poesia “alta”, per molti versi sublime.
Negli anni Trenta del Novecento fu ripresa da Carlos Drummond de Andrade, il maggiore poeta brasiliano della prima metà del secolo, con una lunga lirica di inclinazione esistenzialista e a un tempo metafisica, A Máquina do Mundo, essa stessa entrata nel canone dei classici di lingua portoghese: una visione che si apre all’improvviso, con calma, per il poeta mentre percorre una strada petrosa nel Minas Gerais: «maestosa e circospetta», senza suono, «quella ricchezza / superiore ad ogni perla, / quella scienza sublime e formidabile, ma ermetica, / quella totale spiegazione della vita», e tutto ciò che è, l’«assurdità primordiale» con i suoi enigmi: ecco, appare «in quel frangente» e poi, quando lui è incapace di accoglierla
Piero Boitani, socio di Accademia dei Lincei, British Academy, Medieval Academy of America e Istituto Nazionale di Astrofisica, ha insegnato Letterature comparate alla Sapienza di Roma e all’Università della Svizzera Italiana. Dantista, anglista, studioso del mito e della Bibbia, ha svolto anche attività di traduzione. Dirige la Collana degli “Scrittori greci e latini” della Fondazione Lorenzo Valla. Scrive su L’indice dei libri del mese e Il Sole 24 ore. Ha vinto il Premio Feltrinelli dei Lincei per la Critica Letteraria, il Premio De Sanctis, il Premio Balzan Letteratura.
e di risponderle, e abbassa gli occhi rifiutando l’invito, allora la macchina del mondo, respinta, va rifacendosi nella «tenebra più stretta», mentre il poeta prosegue «vago», valutando ciò che ha perso, «con le mani abbandonate».
Quella di Drummond de Andrade è la cronaca di una sconfitta autoimposta, di una rinuncia alla conquista o all’accoglimento della scienza. Ma quando, nel 2000, il maggiore poeta brasiliano della seconda metà del secolo XX, Haroldo de Campos, pubblicò la sua A Máquina do mundo repensada, tutto cambia. Haroldo si prepara accuratamente per quell’impresa, dando alla luce Xadrez de estrelhas già nel 1976 e Signantia Quasi Coelum nel 1979, poi Galaxias nel 1984, e soprattutto traducendo – «transcreando», come diceva lui – Dante (Umberto Eco la definiva la migliore traduzione in assoluto della poesia dantesca) e studiando a fondo i Libri biblici della Genesi, di Giobbe e di Qohelet con Bere’shith. A Cena da Origem: mentre leggeva con entusiasmo le opere maggiori di Galileo, Newton, Laplace, Maxwell, Poincaré, Einstein, Planck e Monod. In Crisantempo, la raccolta immediatamente precedente alla Máquina, che alla fine comprese anche il bellissimo poemetto su Ulisse, Finismundo: a última viagem, Haroldo ha incluso una «transluminura» del frammento di Saffo sugli astri, e aperto la collezione con This planetary music for mortal ears, una lirica che prende il suo titolo dalla Defence of Poetry di Shelley per celebrare la musica delle sfere. Il tentativo di Haroldo non è dissimile da quello compiuto da un altro poeta latino-americano, il nicaraguense Ernesto Cardenal, col suo fenomenale Cántico cósmico del 1989, del quale mi sono occupato altrove. Tuttavia, mentre Cardenal compone un
lungo, possente poema, Haroldo sceglie la brevità di centocinquantadue terzine e un verso, la concentrazione di poesia, astrofisica e mito biblico per allusioni e immagini rapidissime e cangianti. Come Drummond de Andrade imposta in primo luogo l’opera in termini esistenziali, collocando nel suo settantesimo anno il mezzo del cammin dantesco e, su quel modello, il «varcare cantando» di Paradiso II: «vou cantando / e no cantar tresvairo». Distribuisce quindi la materia in tre sezioni: la prima legata al cosmo aristotelico-tolemaico di Camões, la seconda a quello di Copernico, Galileo, Keplero e Newton, la terza infine a quello di Einstein, di Planck e dell’astrofisica moderna: radiazione di fondo, Big Bang, espansione.
Non è facile far poesia della scienza di oggi, senza far uso dei suoi criteri quantitativi (matematici) e senza neppure toccare le impostazioni qualitative degli antichi, o le teorie dell’emanazione neoplatonica, oppure le categorie aristoteliche (forma e maeria, potenza e atto) impiegate da Dante in Paradiso XXIX. L’unica cosa sulla quale il poeta contemporaneo può fare affidamento è la lingua, fortemente improntata al Joyce di Ulisse e di Finnegans Wake: la variazione più o meno eclatante sul testo dei Lusiadi, l’invenzione di neologismi e sequenze verbali e ritmiche che intrighino e streghino il lettore. Per esempio, Haroldo asciuga, purifica, contrae la prima descrizione della máquina di Camões, quella del cerchio dello Zodiaco, mantenendo però, e anzi esaltando, i tratti più caratteristici.
Olha estoutro debaxo, que esmaltado
De corpos lisos anda e radiantes, Que também nele tem curso ordenado
E nos seus axes correm cintilantes.
Bem vês como se veste e faz ornado
Co largo Cinto d’ouro, que estelantes
Animais doze traz afigurados, Apousentos de Febo limitados
Vedine sotto un altro, che smaltato
è di lucidi corpi e rutilante: percorso, dentro lui, fanno ordinato e corron nei propri assi scintillanti. Osserva come sta vestito e ornato d’una cintura d’oro, che stellanti reca dodici fiere figurate, ch’offrono a Febo soste limitate.
Haroldo ‘transcrea’ al modo seguente (i corsivi indicano le mutuazioni): «i vivi // stellanti lumi risplendenti
/ nell’aurea cintura di smalto vario / a concatenare i segni sempremoventi»: os vivos estelantes luzeiros resplendentes em áureo cinturão de esmalte vário encadeando os sinais sempremoventes
Il modello dantesco lo porta a eliminare i versi (e i particolari) che giudica superflui o eccessivi, e un’intera ottava viene ridotta a terzina. Naturalmente, non manca il gioco di parole. Un momento divertente, ma non superficiale, di questo, sul piano filosoficopoetico, presenta l’azione del caso, citando la celebre frase di Einstein, «Dio non gioca ai dadi», e subito dopo invertendo quella altrettanto famosa di Mallarmé, «un coup de dés jamais n’abolira l’hasard», in «ao azar / jamais abolirá un coup de dés».
Trasposizioni ovvie fanno marciare il poemetto verso la modernità: la selva dantesca all’inizio dell’Inferno diventa il sertão di Guimarães Rosa, l’alfa cristiano alef ebraico e borgesiano. Ma è nella terza sezione del poemetto che Haroldo combatte la sfida decisiva, quello che Dante chiamava «aringo», la lotta con l’inespresso e sin lì inesprimibile. Sa che è la scommessa
Nato a São Paulo nel 1929 e morto a São Paulo nel 2003. Con il fratello Augusto e Decio Pignatari ha fondato negli anni
Cinquanta la «poesia concreta». Ha insegnato a lungo all’Università Cattolica della sua città, ma anche a Yale e alla University of Texas at Austin. Vincitore del Premio Octavio Paz per la poesia e la saggistica nel 1999, ha segnato la cultura brasiliana con la propria lirica e le proprie traduzioni, che comprendono l’Iliade, la Genesi e altri libri della Bibbia, brani della Divina commedia, di Joyce e Mallarmé.
definitiva della parola e della vita, tanto che richiama in una sola terzina «l’anno settuagesimo della sua età» e l’esplosione dell’uovo cosmico. Ed è qui che si incontrano l’astrofisica moderna e il Bereshit, il Principio (o «capo») della Genesi, le «estilahaços de fogo de primeva pulsão», le schegge di fuoco della pulsazione primeva, e il «fogoágua»: e la radiazione di fondo che ne è testimonianza «surge da lonjura / de galáxias perdidas como envio / de memória estelar revivescente»: sorge dall’oltre (ma anche: dalla lontananza) di galassie perdute come invio di memoria stellare che rivive.
Sono presenti qui, per dichiarazione esplicita dell’autore nel testo stesso, i libri «cabalistici» («no començar/no encabeçar») e il commento di Rashi di Troyes alla Genesi («shamáyin / “fogoágua”»). Come già in Bere’shith, Haroldo infatti segue il midrash che scompone shamayim (cielo) in ’esh (fuoco) e mayim (acqua), e legge in reshit, secondo una parte della tradizione, la forma del costrutto della parola rosh, che vuol dire «testa»: perciò «no encabeçar» insieme a «no començar».
È evidente però come il tessuto della poesia si avviluppi in grumi che, a partire dalla terzina 89 e sino alla 94, rendono il cammino accidentato prima di giungere allo scioglimento nella terzina 96. Vediamo: in 89, conclusa l’interiezione sulla sua età, il poeta affronta l’esplosione dell’uovo cosmico e il Big Bang; in 90, prosegue con l’eiezione delle schegge infuocate dalla «pulsione primeva», e subito vi associa il bereshit biblico, con le varianti interpretative che abbiamo visto – libri cabalistici e Rashi – le quali occupano tutte le terzine da 91 a 93 e forniscono le immagini del «mitico nome del cielo», «dal cielo alla
terra sopra-assente» e del «bruciante / cristallo che intorno fluisce al sublime / trono divino». Ritorna poi al Big Bang con lo straordinario enjambement concettuale tra la fine di 93 e l’inizio di 94. La «figura» del Big Bang rilevata dagli strumenti moderni nella radiazione di fondo occupa le terzine 94 e 95. Quindi, si scioglie nella 96.
Si tratta, nel complesso, di cinque balzi da un livello all’altro – da quello scientifico a quello biblico a quello esegetico a quello mitico e di nuovo a quello scientifico – che formano per il lettore una sorta di sequenza da montagne russe. Se ci si ferma a considerarla con calma, si vede la portata dell’invenzione di Haroldo, che parifica i cinque tipi di discorso, introducendo per di più in essi quello esegetico: in tutto alieno, normalmente, dalla poesia.
Alla fine, tuttavia, la scrittura s’impenna, e i primi due versi della terzina 96 segnano il culmine del poemetto nella fusione di poesia e scienza, quando il «bruciante / cristallo che intorno fluisce al sublime / trono divino» diviene Big Bang in figura «vermiglioestrema» di un «desvio / espectral da luz» che sorge «de galáxias perdidas como envio / da memoria estelar revivescente». Lo scostamento dello spettro luminoso si trasforma in deviazione spettrale della luce che scaturisce dalla distanza – dall’allontanarsi delle galassie perdute – quasi inviasse stellare memoria “rivivescente”. Il neologismo finale, di stampo dantesco,
suggella l’eco del lontanissimo lume astrale che pure si rinnova continuamente. Sono versi che personalmente associo ad alcuni fra i più belli di Giacomo Leopardi, che ne La ginestra descriveva il cosmo come appariva a chi sapesse d’astronomia all’inizio dell’Ottocento. Essi possiedono, in tutt’altro contesto, la medesima potenza evocativa: Sulla mesta landa in purissimo azzurro veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio il mare, e tutto per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, ch’a lor sembrano un punto, e sono immense ... e quando miro quegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo e non la terra sol, ma tutte in uno, del numero infinite e della mole, con l’aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o così paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa…
Chi guarda al Principio, però, non può non pensare anche alla Fine. La creazione iniziata nella Genesi
Si chiama Verso l’incanto (Laterza) e sfidando ogni tautologia possiamo dire che, in effetti, si tratta di un libro incantevole. Un’erudizione sconfinata ma senza affettazione, anzi sempre scorrevole, è la cifra stilistica di queste “lezioni sulla poesia”. Nell’introduzione Boitani, non senza un filo di compiaciuta ironia, cita quel Michael Longley che aveva detto: «Non ho la più pallida idea da dove venga la poesia, o dove vada quando scompare. Il silenzio fa parte dell’impresa».
Tuttavia, è una vera disamina quella che l’autore offre lungo 280 pagine alla ricerca del senso poetico. Da cosa scaturisce, per quali motivi? Come scrive l’autore, «c’è, nella poesia, un elemento consistente di follia: comune peraltro nei tempi più antichi anche alla filosofia e alla “scienza”. Nella Grecia arcaica, “scienziato” e poeta erano la stessa persona, e perfino a tener conto dell’avvertimento di Aristotele che mettere Erodoto in versi non fa poesia, nessuno nella
Grecia più antica avrebbe considerato pazzo un filosofo naturale».
Si potrebbe convenire che il farsi della poesia attraversi tre stadi. Il primo, come si può notare nel “tondo” che Raffaello le ha dedicato, parte come «Numine afflatur: è ispirata da un Nume». E quasi mai pacificamente. C’è del furore, benché nel sublime; c’è anche il Daimon che, come ha scritto William Butler Yeats, «è il nostro destino». Il secondo step è la meraviglia. Una linea di ammirato stupore che attraversa i millenni, dagli Inni Omerici a Shakespeare. Il terzo è l’incanto. Con ingiusta semplificazione, diciamo che ne costituisce la versione matura e stabilizzata, scevra dagli affondi degli dei irati Come scrive Piero Boitani: «L’incanto non comporta un colpo, una ekplexis, né uno “stordimento d’animo”, ma ha gradazioni che vanno dallo stregare all’addolcire, dal mitigare al sedurre, dall’avvincere al dilettare». (Gabriella Piroli)
termina soltanto con l’Apocalisse. Cosa, quindi, viene dopo? «Uma épica»? Un «desastre de astros»? La caduta di una «gigantesca stella blu»? Una «danzante poetica dell’universo»? Una «inestática vibrância»? L’universo si espande a partire dal Big Bang. Ma l’espansione finisce? E quando? E in qual modo? Forse è «ocaso de escarlate supernova» divenuta ora «estrela de nêutrons em vacância»: pronta a svanire quando sia messa alla prova di resistenza alla gravità e soccomba «à negra / voragem» di un buco nero. All’espansione potrebbe seguire la contrazione, verso l’entropia terminale: «stelle moriture / in una cadaverica oscurità / fredde tracce d’astro e fori-sepolture». «Desconsolada gesta», commenta Haroldo, «assim termina? / no fim do fim o que há? o que futura // no ante-início do início e o ilumina?».
La tensione espressiva di questa escatologia fisica è enorme, e il poeta, che sente farsi «meriggio / nel suo tempo terracqueo», rimpiange per un attimo la «via stretta» di Dante, il «sertão d’entro-sentieri» e il confortevole cosmo tolemaico di Camões e Vasco de Gama. Prosegue, invece, verso i neutrini, i processi urca, e, dopo un lungo excursus, verso i dubbi e le domande con i quali il poemetto si chiude: «dov’è il bereshit – il primo gene – / imbevuto di elohim»? Soprattutto, deve il poeta – l’uomo – «fingere un’ipotesi tra il no e il si», o guardarsi nello «specchio del perplesso»? Raccogliersi in sé oppure cercare il «nesso» esterno a tentoni. Osservare il paradosso dell’«allo stesso modo» o discutere «l’angelo e il sesso» dell’«all’altro modo». La conclusione è un’invocazione ripetuta e lasciata in sospeso nell’ultimo verso, quello che eccede le centociquantadue terzine: «O nexo o nexo o nexo o nexo o nex».
Fare poesia dell’astrofisica e della cosmologia dei nostri giorni – senza impiegare la matematica – è molto difficile. Ma Haroldo de Campos ci mostra che non è impossibile, che usando le parole come particelle elementari, torcendo il linguaggio in nodi e giochi, mescolando la Bibbia e Dante alla relatività e all’indeterminazione, Einstein e Mallarmé, si può riuscire a creare quella che egli chiama un’ombrapenombra dell’universo e a mostrarne l’importanza nella vita di ciascuno. Il cosmo del XXI secolo è, ancora una volta, aperto: gli scienziati cercano la Teoria del Tutto, il poeta invoca il «nesso».
Per inciso: la serata del 23 marzo 2001, quando Haroldo venne a casa mia a Roma portandomi in dono A máquina do mundo repensada, terminò abbastanza presto. Dopo cena, verso le 10, Haroldo
La costellazione di Cassiopea è nota dall’antichità e Tolomeo la include nell’elenco di 48 ammassi stellari.
si congedò. Aveva, disse, prenotato un taxi per le 4 di mattina per andare a Recanati a vedere il «Colle dell’Infinito», l’altura del Monte Tabor dalla quale Giacomo Leopardi tentava, oltre la siepe, di guardare verso «l’ultimo orizzonte» e immaginava «interminati spazi» e «sovrumani silenzi» e «profondissima quiete». Negli occhi di Haroldo brillava già un sorriso d’anticipazione. Forse si aspettava che l’Infinito concludesse la sua Máquina. ■
HAROLDO DE CAMPOS, L’educazione dei cinque sensi, a cura di Lello Voce, con testi a fronte e traduzioni di Daniela Ferioli (e due ricordi di Umberto Eco e Augusto de Campos), Edizioni Metauro, 2005.
HAROLDO DE CAMPOS, Traduzioni, transcreazioni, saggi, a cura di Andrea Lombardi e Gaetano D’Itria, nota introduttiva di Umberto Eco, Oèdipus, 2016
HAROLDO DE CAMPOS, Pedra e Luz na Poesia de Dante, Imago, 1998
HAROLDO DE CAMPOS, Bere’shith. A Cena da Origem, Edit. Perspectiva, 2000.
HAROLDO DE CAMPOS, Crisantempo, Perspectiva, 1998, che include anche il poemetto su Ulisse, Finismundo: A última viagem (1996).
HAROLDO DE CAMPOS, Depoimentos de oficina, Unimarco Editora, 2002.
La scienza ha sempre cercato linee di demarcazione tra le specie animali. I progressi della ricerca indicano invece confini più labili nella storia evolutiva che ha dato origine alla vita delle nostre menti.
Matilde PerrinoL’ambiente acquatico ci è scomodo: non consente di respirare ai nostri polmoni, la percezione del nostro peso muta e i movimenti sono ostacolati da un mezzo viscoso. In acqua siamo ospiti in un mondo di altri, di altre menti. E però, la nostra storia naturale affonda le radici in acqua, reca la relazione passata con questo medium dentro ognuna delle nostre cellule, nel e con il mare emerge la nostra biologia animale.
Ma cosa significa essere animali? E qual è l’origine della mente e dell’esperienza? Detto altrimenti, cosa significa avere una mente? Questo genere di interrogativi si lega facilmente a un altro tipo di domande più strettamente inerenti alla vita, con le quali molti scienziati e filosofi a partire dal XIX secolo si sono confrontati, in una sorta di caccia al tesoro per spiegare il passaggio dalla materia inorganica alla vita: cos’è la vita? Cosa distingue il vivente dalla materia inorganica? Chi come il fisico tedesco Erwin Schrödinger si concentrò sul carattere informativo di un “cristallo aperiodico” capace di spiegare l’emergenza di un ordine a partire da un disordine fisico di fondo, altri invece come il biologo Jacques Monod si soffermarono sulla capacità di tramandare un piano per la realizzazione di un progetto ( teleonomia ).
È con simili domande che si confrontarono due scienziati, Thomas H. Huxley e Ernst Haeckel. Alla ricerca di un ingrediente fondamentale che consentisse di distinguere il mondo biologico dalla materia inorganica, ritennero di averlo identificato in una sostanza trasparente gelatinosa chiamata protoplasma trovata in un organismo primigenio che chiamarono Bathybius haeckelii . La scienza nel tempo rivelò che si sbagliavano: la vita è il risultato dell’organizzazione a partire da elementi chimici comuni e non è identificabile in un materiale speciale comparso da un momento all’altro.
Tuttavia questa storia racconta del desiderio di avere in mano una soluzione netta, un marcatore speciale di fattura naturale, che permetta di tracciare i confini nell’intricato mondo biologico, a partire da un salto nel vuoto tra la conoscenza del mondo fisico e una proprietà di più alto livello come l’essere vivente. A esigenze siffatte rispondono alcuni tentativi, contemporanei e non, di risolvere quesiti sulla mente, le sue origini e i suoi termini ontologici. L’idea spesso è che la mente sia una facoltà singolare definita da taluni attributi, come avere una corteccia o possedere il linguaggio o provare del dolore. E che ognuno di questi sia ben definito e isolabile, così da consentire l’accesso
al mondo della mente, aprendo così le porte a una sorta di dualismo cognitivista in cui proprietà astratte sembrano indipendenti dalle strutture fisiche di fondo. Anche in questo caso, potrebbe trattarsi di un abbaglio.
Per sfuggire a questo tranello, che rischia di condurci a una metafisica che si inoltra nel sovrannaturale, una strada è quella suggerita da Peter Godfrey-Smith, nel suo recente lavoro dal titolo Metazoa (di imminente pubblicazione, nella traduzione italiana, per i tipi della collana Animalia di Adelphi): ripercorrere la storia di ciò che chiamiamo mente, ma che affonda le radici nell’evoluzione dei sistemi nervosi di quel gruppo di organismi pluricellulari chiamati animali o metazoi . Così, forse, l’apparente divario tra fisico e mentale sembrerà un po’ meno reale; per non dire che potrà dimostrarsi superabile.
Metazoa è infatti il regno animale, che comprende le spugne come le giraffe, rondini e meduse, l’homo sapiens come i tardigradi. È un mondo fatto di inseguimenti e sedentarietà, elettricità e metamorfosi, che ebbe inizio nell’Ediacarano circa 600-500 milioni di anni fa. Questo regno si divide in più di 30 phyla , come quello dei cordati cui apparteniamo o quello degli artropodi cui appartengono gli insetti. Ognuno di questi phyla condivide un comune antenato, rintracciabile nei nodi dell’albero filogenetico. Le sue trame non suggeriscono sovra o sub-ordinazione o una mag -
giore antichità dei viventi che troviamo sui rami più lontani dal nostro. Piuttosto, tutti gli organismi viventi lì rappresentati sono nostri contemporanei, recanti i segni dello stesso tempo evolutivo e quindi altrettanto evoluti.
Il filosofo subacqueo Peter Godfrey-Smith ci invita a compiere un cambio di prospettiva: non partire dall’umano per cercarne tracce di somiglianza in altri animali, bensì percorrere la storia del sodalizio tra cellule in un’operazione minimale, che procede per addizione a partire dagli organismi più semplici.
L’acqua, in effetti, è il punto da cui partire se si vogliono affrontare questi temi. Sott’acqua la maggior parte di ciò che ci circonda, sebbene in alcuni casi sia immobile, è animale. Abbiamo davanti – è l’Autore a dircelo mentre descrive i fondali delle sue immersioni – l’equivalente di una foresta, ma una foresta animale. È in acqua che i primi organismi viventi unicellulari sono nati; e sempre sott’acqua si trovano le specie animali più distanti evolutivamente da noi, e quindi – per gli scopi delle domande prima poste – i più interessanti.
I coanoflagellati sono il gruppo di eucarioti unicellulari che si ritiene essere l’antenato unicellulare più vicino ai metazoi. Sono organismi in grado di muoversi utilizzando il flagello di cui dispongono per spingersi attraverso l’acqua o radicarsi in un luogo, assumendo forma sessile. Sono soliti raggrupparsi in colonie; e analisi genetiche hanno rivelato la presenza di geni che codificano per alcune proteine, che aiutano le cellule ad attaccarsi l’una all’altra.
Professore di storia e filosofia della scienza all’Università di Sydney, si occupa principalmente di filosofia della biologia e di filosofia della mente. Il suo esordio italiano è avvenuto con Altre menti: il polpo, il mare e le origini profonde della coscienza (Adelphi), un saggio che ha portato l’attenzione sull’origine della sensibilità e dell’intelligenza nel regno animale, in modo particolare nei cefalopodi. Adesso arriva in libreria Metazoa (sempre Adelphi), un’appassionata ricognizione sottomarina tra spugne di mare, coralli molli e vermi simili a fiori, che ricordano più la vita vegetale di quella animale: «Eppure queste creature sono nostre cugine», racconta l’autore. «Come membri del regno animale, possono insegnarci le origini evolutive non solo dei nostri corpi, ma anche delle nostre menti».
Dalla possibilità di più cellule di unirsi, coordinarsi e quindi sentire il comportamento delle vicine, nascono gli organismi pluricellulari. Questo passaggio, com’è noto, determinò la nascita dei primi animali, i metazoi . Si pensa che i primi animali fossero molto simili alle spugne, appartenenti al phylum dei poriferi. Le spugne, tuttavia, sono degli animali sessili, ovvero rimangono fissi in un luogo e non dispongono di movimento durante la loro forma adulta. Una distinzione fondamentale tra le spugne e gli altri animali, che da un organismo comune si sono generati, è proprio la mancanza di un sistema nervoso.
AZIONE E SENSAZIONE NEI SOGGETTI PRIMIGENI
L’azione su scala corporea è un’innovazione che troviamo negli cnidari , come meduse e anemoni. Infatti, il movimento pluricellulare richiede una segnalazione veloce e una coordinazione del citoscheletro delle cellule. Si tratta di azioni semplici, ma che hanno un risvolto teorico fondamentale. I primi sistemi nervosi si svilupparono in questi animali per la prima volta al fine di consentire una maggiore possibilità di nutrimento e non accompagnavano organi di senso, come gli occhi. La forma originaria di conoscenza dell’ambiente è un’esplorazione casuale che segue scie chimiche, così consentendo all’organismo di proseguire l’azione nella stessa direzione, nel caso di ritorno energetico positivo, o di dirigersi altrove nel caso di esaurimento della fonte di cibo. Qualcosa simile ad un “processo stocastico markoviano”, in cui la probabilità di passaggio tra due stati dipende solo dallo stato immediatamente precedente del sistema. Solo nel Cambriano, a seguito dello sviluppo della predazione, la necessità di ricevere informazioni di pericolo fa fiorire organi Borsista di ricerca al Centro Interdipartimentale Mente-Cervello dell’Università di Trento. Laureata in Filosofia a Torino e poi in Neuroscienze a Trento, si è fin qui occupata delle basi neurobiologiche dell’elaborazione di quantità numeriche in modelli animali non umani. Si interessa di reti neurali artificiali e modelli computazionali applicati al comportamento e alla neurobiologia animale.
di senso, quali specchi di un ambiente complesso. I primi occhi appartengono agli artropodi , come i gamberi e anche le mosche, i quali ancora oggi detengono dei primati in merito alla vista. La conoscenza non sta più solo nel movimento, ma nel feedback tra ambiente e azione. La sensibilità consente così agli animali di trasformarsi in veicoli causali, capaci di influenzare in maniera condizionata l’ambiente, tramite meccanismi di feedback che intersecano il passato con il presente. Dalla comunione e sincronia di azione e sensibilità nasce quindi la capacità di distinguere l’animale dal mondo eteronomo.
Questo sguardo evolutivo sul sistema nervoso ci consegna un’informazione preziosa per chiarire e forse risolvere la domanda posta all’inizio. Questi animali hanno probabilmente il necessario per essere definiti soggetti di esperienza. Hanno un mondo che è misura delle azioni che possono compiere e dei sensi che più li guidano, ma soprattutto sanno distinguerlo da loro stessi.
Il passaggio al movimento di un corpo pluricellulare segna così la nascita del sistema nervoso e lo sviluppo di organi sensoriali distingue la comparsa di soggetti-agenti. E poi? Il resto è tutto un pullulare di sensibilità peculiari e corpi diversissimi che danno vita alla ricchezza comportamentale che meraviglia e insieme ossessiona gli scienziati.
Il polpo con il suo sistema nervoso decentralizzato è quanto di più simile a un alieno sulla terra. Le sue braccia agiscono in maniera indipendente, quasi come fossero tanti piccoli cervelli autonomi. In alcuni momenti l’attenzione è tutta rivolta verso l’esterno, nel tentativo esplorativo di assaggiare il mondo; in altri il cervello centrale chiama a raccolta le braccia indisciplinate per compiere azioni compatte e coordinate. Il polpo è l’incarnazione del problema della disgregazione dell’individuo.
Un altro caso interessante è quello dei pesci, un gruppo parafiletico che indica la maggior parte dei vertebrati in mare. Questi, infatti, posseggono un senso tattile che prende il nome di linea laterale. Tramite piccoli gruppi di cellule ciliate, chiamate neuromasti, i pesci sono sensibili alle vibrazioni dell’acqua e così dispongono di un’intensa sensibilità al movimento, stando immersi con tutto il corpo in un mezzo denso come l’acqua, capace di condurre vibrazioni in maniera molto più diretta
dell’aria. Immaginate di sentire qualsiasi spostamento d’aria prodotto da altri viventi intorno a voi: probabilmente vi sentirete sopraffatti dalla quantità di informazione che potreste ricevere ad ogni istante.
Ha senso chiedersi allora – come domanda Thomas Nagel in un articolo ormai famoso – Che si prova ad essere pipistrello? O polpo? O cernia? Il sospetto è che l’esperienza soggettiva non possa trovare una corrispondenza linguistica esaustiva. Descrivere sistemi nervosi incommensurabili partendo da un assunto antropomorfico rischia di chiudere la questione dentro dei confini infruttuosi. Una prova ne sono i risultati contraddittori, in merito alla capacità di provare dolore o di saper apprendere dei compiti, ottenuti in esperimenti condotti su animali diversi. Gli insetti, per esempio, conducono una vita breve, che rende poco utile la capacità di accorgersi e prendersi cura di lesioni al proprio corpo. Ancora, i polpi potrebbero non essere interessati a svolgere degli esercizi nel modo in cui riteniamo sia intelligente farlo. «I limiti del
mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», disse Wittgenstein; e in qualche maniera torna utile pensare che il modo in cui definiamo alcuni attributi “mentali” non sempre tiene in considerazione i corpi fisici che li sottendono. Tornando all’acqua, è possibile che sia proprio quella sensazione di inadeguatezza, scaturita dal muoversi in un mondo alieno silenzioso con la fatica di un respiro trattenuto, a legarci all’istante presente e a farci notare come vi stiano invece a proprio agio forme di vita diverse. E come allora i limiti del nostro corpo, superati da chi invece ha investito in pinne e tentacoli, possano talora aiutarci a rilevare le peculiarità di quegli altri soggetti e a studiarne le strutture nervose, o anche dette menti. ■
MONOD, J. Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970.
REHBOCK, P.F. (1975). Huxley, Haeckel, and the oceanographers: the case of Bathybius haeckelii. Isis, 66(4), 504-533, 1975.
SCHRODINGER, E. Che cos’ è la vita? Scienza e umanesimo. Sansoni, 1988.
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DULCIS IN FUNDO L’USIGNOLO E LA ROSA di Oscar Wilde
L’INARRESTABILE ASCESA DELLA COMPAGNIA DELLE INDIE ORIENTALI. DOCUMENTI ORIGINALI E FONTI RARE RACCONTANO COME SI SVILUPPA UN DOMINIO TOTALE E NON PREORDINATO. È IL CAPITALISMO,
di Gianluca Beltrame
Nel giugno 1602 la prima flotta della Compagnia delle Indie Orientali, quattro navi al comando di sir James Lancaster, gettava l’ancora ad Aceh. L’India contava 150 milioni di abitanti (circa un quinto della popolazione mondiale) e produceva un quarto della manifattura globale: era la locomotiva industriale del pianeta e la prima produttrice di manufatti tessili, responsabile di una quota del commercio mondiale più ampia di qualunque altra nazione. Dall’altra parte l’Inghilterra era, dopo la Riforma anglicana, uno Stato paria in Europa, isolato dalle grandi potenze cattoliche, abitato da agricoltori e allevatori, che doveva la sua (poca) ricchezza soprattutto ai corsari che solcavano i mari: aveva un ventesimo della popolazione dell’India e produceva poco meno del tre per cento dei prodotti manifatturieri del mondo. Aggiungiamo che l’esercito del Gran Moghul poteva contare su circa 4 milioni di uomini in armi e su una delle cavallerie più potenti del pianeta. Come è stato possibile che uno staterello su un’isola lontana avesse la meglio e in breve conquistasse l’impero più ricco del mondo? Lo racconta
lo storico, scrittore e viaggiatore scozzese William Dalrymple nel suo Anarchia (Adelphi).
È un volume di facile lettura, ma che si fonda su un vasto apparato bibliografico non solo di fonti inglesi, ma anche (e spesso per la prima volta) persiane e francesi, che riafferma un concetto assodato per gli storici, ma che spesso sfugge ai non specialisti: non fu la Corona inglese a conquistare l’India, bensì una società privata, la Compagnia delle Indie Orientali, una delle prime società per azioni al mondo, probabilmente la prima multinazionale della storia. Il capitalismo aggressivo della Compagnia delle Indie Orientali è coevo alla nascita dell’imperialismo e le due forze interagiscono, si sostengono e si alimentano dando vita a un potere immenso. Leggendo la storia della conquista e del saccheggio dell’India troviamo vantaggi e svantaggi del partenariato pubblico/privato, attività di lobbying che sconfina nella corruzione dei parlamentari, privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite quando la Compagnia diventa “too big to fail”: tutti temi che oggi suonano familiari. Dalrymple, i cui antenati servirono in India con la Compa-
gnia, lo ha ben presente, e scrive: «come ha osservato Ira Jackson, ex direttore del Center for Business and Government di Harvard, le società di capitali e chi le controlla hanno ormai «sostituito la politica e i politici [...] come i nuovi sacerdoti e oligarchi del nostro sistema». Furtivamente, le società governano ancora le vite di una porzione significativa della razza umana. La domanda, vecchia di trecento anni, su come bilanciare il potere e i rischi delle grandi multinazionali non ha ancora ricevuto una risposta definitiva: non è chiaro in quale modo lo Stato nazionale possa proteggere adeguatamente se stesso e i suoi cittadini dagli eccessi delle grandi imprese. Nessuna società di capitali contemporanea riuscirebbe a replicare la violenza e l’incredibile potenza militare della Compagnia delle Indie Orientali e sperare di farla franca, ma molte hanno cercato di eguagliare il suo successo nel piegare ai propri fini l’autorità statale».
Anarchia è appunto la storia di come una società privata, pericolosamente non regolamentata, portò a termine una conquista pa-
ragonabile solamente a quelle di Alessandro Magno o Gengis Khan. Parliamo di una società fondata inizialmente da mercanti non ricchissimi (ebbero perfino qualche problema a farsi pagare tutte le quote di adesione) e dal peso politico nullo: nessuno di loro sedeva in Parlamento e ci vollero circa due anni prima che ottenessero tutte le autorizzazioni necessarie per operare. Il suo quartier generale era in un ufficio di appena cinque finestre in Leadenhall Street, nella City di Londra, dove, ancora un secolo dopo la fondazione, lavoravano 35 persone in tutto. Non sforzatevi di cercarlo: non c’è alcuna targa che lo ricordi e al suo posto oggi sorge il palazzo della Lloyd’s. Nella patente costitutiva della Compagnia c’era, tra le altre, l’autorizzazione
“a muovere guerra”. Era, secondo gli schemi di allora, una specie di autorizzazione allargata alla “guerra di corsa” del tipo praticato da sir Francis Drake. E infatti la prima spedizione, quella approdata ad Aceh nel 1602, andò in utile solo perché assalì e depredò un vascello portoghese carico di spezie. Era però allargata, perché si pensava che i
mercanti inglesi avrebbero potuto scontrarsi con un qualche sovrano di una qualche isoletta del Pacifico: l’idea iniziale era infatti quella di fare affari nelle isole delle spezie (Timor e Molucche), però già presidiate dagli olandesi che respinsero i tentativi di infiltrazione inglese. Fu per questo che la Compagnia delle Indie Orientali si rassegnò a fare affari con i ricchi mercanti indiani. E fu allora che una società per azioni multinazionale iniziò a trasformarsi in un’aggressiva potenza coloniale, con risultati che non hanno uguali nella storia, arrivando a monopolizzare i due terzi degli scambi commerciali inglesi nel mondo. «Nel 1803, quando l’esercito privato della Compagnia contava quasi duecentomila uomini [più del doppio di quello della Corona inglese, ndr.], essa aveva già rapidamente sottomesso o direttamente annesso un intero subcontinente. Incredibilmente vi riuscì in meno di mezzo secolo», riassume Dalrymple. «Le prime conquiste territoriali vere e proprie erano iniziate nel Bengala nel 1756; quarantasette anni dopo, il braccio della Compagnia si estendeva a nord fino a Delhi, la capitale moghul, e quasi tutta l’India a sud di quella città era governata di fatto dalla sala riunioni di un consiglio di amministrazione
nella City di Londra. “Che onore ci rimane” chiese un funzionario moghul “se dobbiamo prendere ordini da un pugno di mercanti che non hanno ancora imparato a lavarsi il sedere?”».
SOTTOVALUTAZIONE FATALE
In effetti per lunghissimo tempo i raffinati funzionari indiani sottovalutarono i rozzi mercanti britannici. Akbar, il primo imperatore moghul a incontrare gli inglesi, aveva accarezzato il progetto di civilizzare gli immigrati europei in India, che descrisse come «un’accozzaglia di selvaggi», ma poi rinunciò al piano, ritenendolo impossibile. Un’incomunicabilità che emerge dai ritratti dei protagonisti di questi due secoli di storia. Man mano che l’India scivola verso il disfacimento, sui raffinati e colti sovrani moghul prendono il sopravvento sanguinari signori della guerra, psicopatici stupratori seriali, guerrieri intontiti dalle droghe come quello che, strafatto di oppio, scese dal suo elefante solo per prendersi una pallottola in fronte. Su tutti giganteggia Shah Alam, principe moghul bello, colto e raffinato, che assistette alla definitiva conquista dell’India da parte della Compagnia. Da bambino aveva visto gli afghani conquistare Dehli e andarsene con quello
William Dalrymple è uno storico e scrittore britannico che trascorre la maggior parte dell’anno a Nuova Delhi, mentre torna d’estate a Londra ed Edimburgo. Scrive regolarmente per The New York Review of Books, The Guardian, New Statesman e The New Yorker Tra i suoi libri tradotti in italiano: L’assedio di Delhi, 1857. Lo scontro finale fra l’ultima dinastia Moghul e l’Impero britannico, Rizzoli (2007); Nove vite. Alla ricerca del sacro nell’India moderna, Adelphi (2011); Il ritorno di un Re, Adelphi (2015); Koh-i-Noor, Adelphi (2020), scritto con Anita Anand.
che è probabilmente il più grande bottino della storia (compreso il Trono del Pavone con incastonato il diamante Koh-i-Nur). Quindi sfuggì per un pelo all’attentato ordito dal suo visir e sopravvisse a numerose battaglie contro gli inglesi. Rientrò a Dehli dopo una lunga marcia, ritenuta da tutti impossibile, e grazie al suo generale, Mirza Najaf Khan, quasi ricostruì l’impero dei suoi antenati per poi perdere tutto di nuovo, alla morte prematura del condottiero. A quel punto dovette assistere allo stupro della sua intera famiglia e finire torturato e accecato (gli furono letteralmente cavati i bulbi oculari) da parte di quello che era stato il suo favorito. E infine tornare sul trono “come un re da scacchiera” (secondo la definizione del poeta Azad), sotto la protezione della Compagnia. Shah Alam attraversò da protagonista quella che già gli storici indiani definiscono la Grande Anarchia, il periodo di guerre intestine, carestie, stravolgimenti sociali che portò alla dissoluzione dell’impero moghul e che dà il titolo al volume, frutto di sei anni di lavoro, di Dalrymple.
Ma, seppur non esplicitato, un altro genere di anarchia guidava anche i conquistatori inglesi: «Le società di capitali non hanno né un corpo da punire né un’anima da dannare, perciò fanno quello che vogliono», come disse Edward, primo barone di Thurlow, Lord cancelliere della Corona durante il processo del 1788 alla Compagnia delle Indie Orientali. E infatti non bisogna cercare alcun piano premeditato, alcuna strategia di lungo temine per spiegare i comportamenti della Compagnia. I funzionari locali godevano della più ampia libertà d’azione: del resto non potevano chiedere autoriz-
zazioni a un consiglio d’amministrazione lontano mesi di viaggio. Dunque, ognuno faceva di testa propria, ma, come spesso succede anche nelle multinazionali di oggi, erano rapidissimi (a differenza delle loro controparti indiane) nel passare dalla decisione all’azione, ad approfittare delle occasioni che si presentavano loro.
Sorprende quanta casualità ci sia stata in quegli accadimenti storici. Il primo forte inglese in India, quello di Madras, venne costruito nelle vicinanze di un deposito della Compagnia, l’officina di Armagon, solo perché il capo dell’officina, tal Francis Day, aveva una tresca con una donna tamil di un villaggio vicino e voleva che i loro incontri fossero «più frequenti e privi di interruzioni», come riporta una fonte dell’epoca. Di lì a poco, Madras divenne la prima città coloniale inglese in India, con la sua amministrazione civile, lo statuto di municipalità e una popolazione di quarantamila abitanti. E, a ben guardare le loro biografie, i funzionari inglesi non erano granché meglio dei signori della guerra indiani che si trovarono ad affrontare. Robert Clive, il primo comandante delle forze armate della Compagnia, per esempio, non era certo meno brutale e spietato. Teppista di paese arrivato in India come contabile, è il prototipo dei funzionari della Compagnia: avventurieri pronti a rischiare la vita e a viaggiare per migliaia di chilometri fino al clima impossibile delle paludi e delle giungle del Bengala per un solo scopo: se si sopravviveva, non c’era posto migliore al mondo per fare fortuna. E Clive tornò in Inghilterra come uno degli uomini più ricchi del Paese, salvo poi togliersi la vita in maniera orribile, forse ossessiona-
to dai fantasmi che si era portato dietro dall’India.
Anche questa è una differenza che avvantaggiava gli inglesi: mentre i signori della guerra indiani lottavano incessantemente tra loro, i funzionari britannici, pur detestandosi, avevano un obiettivo comune: saccheggiare. E con questo obiettivo si mossero con feroce determinazione. «Una delle primissime parole indiane entrate nella lingua inglese fu il termine gergale hindustani per “bottino”: loot. Secondo l’Oxford English Dictionary questo lemma era usato raramente al di fuori delle pianure dell’India del Nord fino alla fine del diciottesimo secolo, allorché si diffuse improvvisamente in tutta la Gran Bretagna»: comincia così il libro di Dalrymple.
Alla rapidità nell’approfittare delle occasioni e alla spietata determinazione nel perseguire l’obiettivo, va infine aggiunta una terza “dote”: la capacità di attirare enormi capitali. E questo la Compagnia seppe farlo sia in madrepatria (quasi tutti i parlamentari e uomini di potere inglesi possedevano le sue azioni), sia in India, dove alla fine i grandi banchieri locali preferirono loro come clienti rispetto agli inaffidabili signori della guerra. Una case-history aziendale perfetta, dunque. Che però, come tutte le storie di successo, finisce, in questo caso quando l’India passa direttamente sotto la Corona britannica, che ne fa il proprio gioiello più prezioso, dopo aver fatto fare il lavoro sporco ad altri. Oggi non ci sono più azioni della Compagnia delle Indie Orientali, non c’è più la sede nella City. Resta solo il nome, il marchio, di proprietà di due fratelli del Kerala che vendono “condimenti e cibi raffinati” nel West End di Londra. ■
DONATO CARUSI
UN SAGGIO BRILLANTE CHE RIPERCORRE L’INTENSO LEGAME TRA CULTURA GIURIDICA E CREATIVITÀ LETTERARIA, SULLO SFONDO DELL’EVOLUZIONE SOCIALE E POLITICA.
di Andrea Barenghi
L’AUTORE
Donato Carusi è ordinario di Istituzioni di diritto privato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova. Tra le sue precedenti pubblicazioni: Che farò quando tutto brucia? Una lettura politico-giuridica di Antonio Lobo Antunes (Pacini Giuridica, 2019) e La legge «sul biotestamento». Una pagina di storia italiana (Giappichelli, 2020).
Affascinante e coltissimo, il libro vuole avvicinare i non specialisti al diritto come prodotto storico e culturale, offrendo a un tempo un’introduzione alla sua “grammatica” e un’originale storia della letteratura, di sorprendente ampiezza, come rappresentazione delle «relazioni umane» in cui il diritto, «pratica ad alto grado di astrazione e formalizzazione», è chiamato a «mettere ordine» e i giuristi a una «disciplinata e funzionalizzata pratica dell’immaginazione» («tutt’altro che estranea» al lavoro che li attende) che di per sé ne giustifica l’educazione letteraria. La facilità di lettura nasconde, con stile sempre lieve, una comprensione profonda del fenomeno nella sua evoluzione storica, e solide fondamenta letterarie, storiche e filosofiche: «capirlo almeno un poco richiede pazienza, padroneggiarlo a fondo esige
dedizione e sacrificio di molte altre opportunità» (e per questo il giurista «è fatalmente indiziato, e a volte davvero vittima, di una certa limitatezza o aridità interiore»).
Il volume muove dalla suggestione dell’aureo libretto dedicato nel 2007 da Alan Bennett all’ipotesi della “sovrana lettrice” (è la felice resa italiana del titolo molto inglese: The Uncommon Reader ), indotta dal rapimento letterario a trascurare o a trasformare i doveri protocollari e infine ad abdicare, conquistando la libertà di divenire ella stessa autrice.
Ma il titolo riflette anche un’altra suggestione, più specifica al percorso lungo il quale si vuol condurre il lettore, secondo cui la letteratura, «termometro della sensibilità giuridica di un popolo», «segue il diritto nelle sue fasi», cioè nella disciplina dei fatti
reali che lo sviluppo della vicenda storica impone, e, allorquando questo «esita e temporeggia», «ne prepara l’evoluzione» (così, nel 1936, un autore poco noto come Antonio D’Amato su La letteratura e la vita del diritto ).
Il volume – esito dei corsi universitari su diritto e letteratura che l’autore tiene a Genova – si rivolge al lettore cólto anche se non votato agli studî giuridici, e, per altro verso, potrebbe costituire materia di insegnamento nelle scuole, se della letteratura si volesse offrire una prospettiva “storica” e “politica”, in senso ampio, prestandosi peraltro anche a un uso frammentario dei ventidue capitoli in cui l’opera di Carusi si snoda (accompagnati da invitanti brani antologici e dalla costante contestualizzazione degli autori, mentre si avverte, invece, la mancanza di un indice dei nomi e dei personaggi).
Nel libro, edito da Leo S. Olschki, due capitoli sono dedicati ex professo al problema del fondamento e al Law & Lit , movimento quest’ultimo che ha formalizzato nelle Università americane un approccio di ben più diffusa e risalente origine («l’esperienza autocosciente di complesse e dinamiche relazioni tra cultura giuridica e creazione letteraria non è per nulla nuova», avverte infatti l’autore), mentre un ulteriore capitolo si incentra su Law of Literature (e quindi sul problema del diritto d’autore, dallo statuto della regina Anna del 1710 fino alla Convenzione di Berna del 1886, e perciò anche sul ruolo sociale degli intellettuali).
Il primo di questi capitoli su Law & Lit introduce la materia
per fondare la necessità di una sovrapposizione tra studî letterari e studî giuridici nell’insegnamento universitario.
Per l’autore, il maggior merito della letteratura «è forse proprio questo, di rivaleggiare con tutti i fattori mentali che si frappongono allo sviluppo delle persone», vale a dire «ciò che la smania di potere dentro di noi e il potere reale intorno a noi avversano sistematicamente, la pratica e la fruizione letteraria valgono a implementare: la libertà del pensiero, il desiderio di conoscenza e di partecipazione, e insieme a questi l’immaginazione associativa – la facoltà di stabilire e argomentare ragioni di distinzione tra i simili, rapporti di eguaglianza tra i diversi», che dovrebbe essere, appunto, il mestiere del giurista, di cui si mette in evidenza a più riprese il carattere intrinsecamente politico.
L’altro capitolo, per così dire, sul metodo è soprattutto dedicato al rapporto tra diritto e letteratura nel movimento del Law & Lit , alla sua importanza, ai suoi stili, alle articolazioni ideologiche, e qui l’autore in filigrana ripropone il problema cruciale dello statuto della scienza giuridica, del rapporto tra diritto e interpretazione, dell’autonomia dell’interprete e del ruolo dell’immaginazione nella decisione giuridica.
Le declinazioni del Law as Literature , del Law in Literature e del Law of Literature servono anche a collazionare le varie tendenze degli studî e i rapporti con gli altri movimenti della scienza giuridica d’Oltreoceano ( Law & Economics , Critical Legal Studies , Black Studies , Women’s Studies ), fino ad approdare a Martha
Nussbaum, al cui pensiero (ove «la frequentazione della letteratura sembra essere la condizione stessa del ragionare in termini politici») Carusi è molto legato, e nel cui approccio riconosce l’attitudine a «immettere nell’esperienza giuridica e nel dibattito politico statunitense elementi del personalismo delle Costituzioni europee».
UN FORSENNATO SVILUPPO
Ma il libro non si limita a proporre innumerevoli collegamenti e riferimenti a tendenze e problemi teorici propri della scienza giuridica: può dirsi, anzi, che il suo centro stia nella rappresentazione di «tre secoli di letteratura» e di storia e dell’«entusiasmo e dello sconcerto di un’intera epoca» di fronte al forsennato sviluppo tecnico, economico e sociale e alle sue conseguenze sulla vita degli uomini (quelle sull’impatto della rivoluzione ferroviaria sono, ad esempio, tra le più divertenti pagine del volume).
Si tratta di un percorso serratissimo, che, diviso com’è in fasi storiche, in aree tematiche o in ambienti geografici, può essere avvicinato in modo anche frazionale. Vi si incontra tra l’altro l’avvento del primo embrione di cultura di massa con l’affermarsi dei giornali e del romanzo, e il suo significato sociale e politico, rispetto al che l’autore registra le reazioni dei ceti dominanti, ma anche della cultura alta (si pensi ad esempio all’attualità della protesta di Søren Kierkegaard sulla comunicazione di massa: «è l’intera forma di questa comunicazione ad essere, nella sua essenza, falsa»).
Sul piano giuridico i grandi passaggi della modernità si
snodano nell’affermazione del principio di uguaglianza formale, nel tramonto del droit coutumier , nell’affermarsi del diritto borghese “eguale”, della piena capacità di agire dei soggetti, dell’unitarietà del diritto di proprietà (prima stratificato in una frammentazione paralizzante), e così, sul piano tecnico, dell’affermazione del principio di tipicità dei diritti reali, funzionale a «una società e un’economia dinamiche», della creazione di società anonime a partire dalle Compagnie delle Indie e dal privilegio degli iura regalia di cui erano dotate per favorire la nascente iniziativa capitalistica.
Ancora, nel volume si ritrovano i rapporti tra Francia e Germania nel Sette-Ottocento, il rinnovamento letterario e giuridico («le società […] si affrancano dall’autorità degli antichi, rivendicano nei loro confronti pari dignità e quindi titolo a scegliere per sé il diritto proprio»), i profondi sommovimenti culturali e il rapporto delle scuole giuridiche con romanticismo e illuminismo, il percorso verso la codificazione e l’unificazione tedesca.
Sul piano letterario, l’Ottocento è innanzitutto “il secolo di Balzac”, che forse più di ogni altro autore ha rappresentato la vita del diritto nella Comédie humaine , denunciandola e parodiandola, ma offrendo una rappresentazione precisa dei problemi dell’epoca (ne ha dato conto in modo certosino un altro nostro autore, Giuseppe Guizzi, nel volume del 2021 su Il ‘caso Balzac’. Storie di diritto e letteratura ). Poi, attraverso la letteratura “realista” ottocentesca, la prospettiva della società di massa e lo sfruttamento dei ceti subalterni, con il pren -
dere forma dell’autonomia del rapporto di lavoro (considerato inizialmente alla stregua di una locazione) e delle relazioni industriali, lentamente e faticosamente conseguita a partire da quel momento.
L’indagine di Carusi spazia nella delimitazione di aree tematiche diverse con una vastità che non può qui nemmeno menzionarsi. Nel «trattamento delle male piante» si indaga la devianza sociale a partire dall’Inquisizione; sui problemi della subalternità femminile («una stanza tutta per sé»), si muove dal XIV secolo per arrivare al problema dell’effettiva realizzazione della parità; e poi gli orrori del Novecento, con le dittature, l’interventismo e le guerre («fin de siècle», «verso la catastrofe», «un popolo di santi, navigatori e mescite», «il fuoco», si tratta di passaggi da rileggere con attenzione oggi); le avanguardie, il crollo degli imperi, la crisi del soggetto, cui «l’unità di senso è ormai negata e non resta che costruire forme» (per riprendere un’espressione di Natalino Irti citata nel testo) e quindi anche «la perdita di unità della legge» («viaggio ai confini della notte»); le migrazioni interne in Europa e l’emigrazione italiana («gli indesiderati d’Europa»); la contrapposizione dei blocchi, i guasti del capitalismo, la tragedia del socialismo reale, e il terrore atomico («uscita di sicurezza»); la resistenza, l’affermazione dei diritti umani, le Costituzioni democratiche, ma anche i movimenti artistici, e così l’arte per l’arte, il teatro dell’assurdo, l’engagement («educazione europea»); poi l’«America», per finire con le «geografie del romanzo»,
«la letteratura contemporanea» e il «suo apporto all’internazionalismo».
Si tratta in definitiva di un vero e proprio “libro-mondo” in cui Carusi delinea il percorso faticoso nella storia moderna della letteratura e del diritto, ritrovandovi, in continuità con la sua precedente produzione scientifica, una comune radice nell’essere strumenti di autocoscienza e di emancipazione e di liberazione dell’uomo, di umanesimo e di democrazia, di uguaglianza.
È, quello compiuto dall’autore, un esercizio raffinatissimo, che consente di attingere una profonda visione d’insieme dei meccanismi della letteratura e del diritto nella storia, e delle loro ramificate implicazioni politiche, tessendo poi una fitta trama di rimandi, resi possibili dalla presenza, da un canto, del diritto e dei giuristi nelle opere letterarie (e spesso nella formazione degli uomini di lettere), e d’altro canto della letteratura come oggetto di studio o come pratica collaterale, o ancora come testimonianza dei fatti che richiedono di essere disciplinati (l’«umanistica vicinanza alla cultura letteraria», che Donato Carusi scorge nell’opera dei giuristi cólti), o denuncia dell’insufficiente o dell’inavvertita o forse anche dell’ingiusta (ma qui si aprirebbe un capitolo ancor più complicato) considerazione che la legge gli riserva: citando Pietro Rescigno, uno dei più illustri giuristi “sensibili alla letteratura”, potrebbe in questo caso parlarsi della «miseria del diritto» e «della pena del giurista che cerca di riscattarla». ■
YAHWEH HA UN CARATTERE, DELLE INTENZIONI, DEI SENTIMENTI E UN’IDEA DEL MONDO. SOPRATTUTTO HA UN CORPO, CHE L’ANTICO TESTAMENTO RIVELA.
di Cristiana FacchiniDio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza». Ma anche il contrario è vero. Pare essere questa la proposta che la biblista inglese, Francesca Stravrakopoulou, presenta nel suo volume Anatomia di Dio (Bollati Boringhieri). Suddiviso in cinque parti e ventuno capitoli, lo studio del corpo di Dio inizia dal basso per proseguire verso l’alto: dai piedi ai genitali, dal torace alle mani e, infine, alla testa. Va premesso che Stravrakopoulou legge molti brani della Bibbia (in particolare i frammenti più antichi) in una prospettiva che mira a de-teologizzarne l’interpretazione per fare riemergere tendenze teo-poietiche andate perdute o che hanno seguito percorsi di trasmissione particolari. Ma soprattutto, il Dio biblico che l’autrice ricostruisce è abbastanza inedito, anche per chi abbia una certa dimestichezza con i contenuti della Scrittura. Non è possibile tracciare una descrizione di tutti i ventuno capitoli, ricchi
di informazioni che vanno dal mondo mesopotamico più antico alle immagini medievali o rinascimentali. Tanto meno fare riferimento al ricchissimo apparato iconografico che accompagna la lettura dei capitoli.
Mi concentrerò sui temi che mi hanno maggiormente colpito. Innanzitutto, è bene presentarlo, Yahweh, il dio biblico al centro di questo possente ritratto (pp. 42-44). Centinaia di anni di esercizio filologico ed esegetico sulla Bibbia ci permettono di dire – senza pericolo di essere scomunicati – che la collezione di testi che compongono le Scritture ritenute sacre per cristiani ed ebrei raccoglie materiali eterogenei, composti in diversi stili antichi, la cui composizione ha subito molte revisioni, alcune delle quali attribuite alle scuole scribali che, rientrate a Gerusalemme per decisione di Ciro nel V secolo a.e.v., misero mano alle raccolte conservate (oracoli profetici, materiali mitici, leggende, materiali normativi) dopo la di -
struzione dei due regni (quello di Israele per mano assira e quello di Giuda per mano babilonese).
Il Dio che interessa l’autrice è quello che possiamo attribuire ai regni di Israele e di Giuda, ossia una divinità divenuta nota con il nome di Yahweh (un Dio vulcanico, scriveva Sigmund Freud), derivata dal pantheon di divinità facenti capo al dio levantino El. La sua fisionomia si fonda a tratti su un paradosso, quello relativo al divieto biblico di farsi immagine della divinità. Come possiamo ricostruire il corpo di un Dio che non si vede, in un mondo costellato dalla presenza possente delle divinità? In realtà la Bibbia contiene molte immagini della divinità e, come molti sanno, molti antropomorfismi che erano ben noti ai commentatori antichi e moderni e hanno sempre prestato il fianco a critiche anche di carattere antisemita. Stavrakopoulou sfrutta sapientemente queste copiose tracce e informazioni con le quali ricostruisce, appunto, una “anatomia di Dio”.
Si può cominciare dai piedi. I piedi della divinità sono ben visibili nel mondo antico, come ad esempio nel complesso templare di Ain Dara in Siria (ora distrutto dai bombardamenti), ma anche in molti passi della Bibbia (Dio cammina nel giardino dell’Eden). I piedi ancorano la presenza di Dio sulla terra, tra gli uomini e le donne, e nello spazio architettonico che diviene la sua dimora, il tempio. Il dio biblico, come quello di altre culture circonvicine, fa sentire la sua presenza fisica attraverso la sua possenza, attraverso il suo “stare in piedi”, in posizione eretta di fronte agli uomini. I piedi veicolano svariati significati, come quello di assoggettare e dominare; i piedi delle divinità sono piedi che calpestano il nemico, come si schiaccia l’uva dopo la vendemmia, intrisi del sangue degli uomini sconfitti. Ma essi lasciano anche traccia dell’incedere divino e coi piedi Dio trasforma lo spazio rendendolo sacro. La rilevanza attribuita ai piedi divini si estende anche al trattamento rituale dei piedi umani, come indicano molti racconti biblici e neotestamentari e pratiche che si sono conservate tra ebrei e musulmani (entrare
scalzi per pregare o in certe circostanze rituali). La testimonianza più nota è forse resa, nella cultura cristiana e cattolica, dal rito della lavanda dei piedi che viene descritto nei Vangeli. Un rito che Gesù compie capovolgendo i dati culturali del suo tempo, in base ai quali erano gli schiavi a lavare i piedi di chi entrava nelle case (Mauro Pesce, Adriana Destro, La lavanda dei piedi, Edizioni Dehoniane Bologna ).
Al lettore contemporaneo può sembrare una associazione peregrina, ma tra le metafore usate nella Bibbia per parlare dei genitali, i piedi appaiono molto spesso. Ne troviamo un esplicito esempio nella storia biblica di Ruth e in molti altri brani. Come El (il Dio supremo del pantheon levantino) e le divinità maschili babilonesi e assire, anche Yahweh trattiene una identità guerriera e priapea, espressione di una società patriarcale dove la potenza del seme divino feconda il mondo, creandolo. È nel contesto di queste concezioni antiche che si può gettar luce sulla pratica rituale della circoncisione. Come tutte le azioni rituali – incisioni,
scarificazioni, tatuaggi – la circoncisione serve a socializzare il corpo, in questo caso maschile. In generale le manipolazioni rituali indirizzate ai genitali (maschili e femminili) segnalano il pericolo insito negli orifizi in quanto luoghi in cui l’integrità del corpo è indebolita (come aveva suggerito Mary Douglas in Purezza e pericolo, Il Mulino). Segnala altresì la potenza di parti anatomiche da cui dipende la generazione della vita. La Bibbia contiene numerose prescrizioni rituali indirizzate a contenere la pericolosità e potenza dei fluidi che sono associati ai genitali (sangue, seme, ma anche fluidi legati alle malattie o al desiderio). La circoncisione maschile è uno dei riti più noti e marca la costruzione dell’identità maschile e religiosa, l’entrata nel patto istituito tra Dio e i maschi israeliti. Il tema è ovviamente affascinante e complesso, per la centralità che la circoncisione assume per coloro che si identificano con il popolo di Israele e per le polemiche attorno alle quali si formano le comunità cristiane che, nel corso dei secoli, abbandoneranno questa pratica, tra l’altro invisa a romani e greci. L’autrice ne sottolinea l’elemento
Francesca Stavrakopoulou è una biblista, professoressa di Bibbia ebraica e religione antica all’Università di Exeter. La sua ricerca si focalizza sulla storia della religione israelita e giudaica. Sono argomenti che ha reso accessibili anche attraverso un’opera di divulgazione su canali televisivi come BBC2 e Channel 4, dove interviene sulla storicità dell’Antico Testamento, sul ruolo delle donne nelle religioni abramitiche e sullo sviluppo dei testi biblici. Prima di Anatomia di Dio (traduzione di Leonardo Ambasciano, Bollati Boringhieri 2022 ) ha publicato Land of our Fathers: The Roles of Ancestor Veneration in Biblical Land Claims (2010) e Reading the Hebrew Bible (2012).
portante nella costruzione della mascolinità e la sua stretta associazione alla ingiunzione della procreazione, modellata sulle tecniche di potazione degli alberi da frutto.
L’attività sessuale di Dio è esplicita nei resoconti biblici: così in Genesi Eva dice di aver generato Adam con Dio, segnalando in Eva un antecedente mitologico proveniente da Ugarit e legato alle dee della vita (Hawwa/Eva indica la vita, p. 179). Inoltre, l’autrice descrive la rilevanza della dea Asherah come moglie di Yahweh, lentamente estromessa nelle fasi di riscrittura dei testi biblici dagli esuli/riformatori del culto rientrati a Gerusalemme. Importante è anche il mitema contenuto in un frammento di Genesi (6,1-4) e sviluppato nei libri apocrifi dei Vigilanti e di Enoch. Il sesso tra esseri divini (angeli) e donne produce giganti che introducono il caos tra gli uomini e che causerà la distruzione dell’umanità con il diluvio.
La parte più inquietante di questa sezione è quella che Stavrakopoulou dedica alla personificazione femminile di Israele, intesa come città (Sion/Gerusalemme), nazione, territorio, e alla sua erotizzazione nella assunzione a ruolo di sposa, spesso infedele, adultera e prostituta. Chi conosce i testi biblici in lingua ebraica, e in particolare il Libro di Ezechiele, non si sorprende della durezza di queste pagine, della brutalità di diversi passi che troviamo nei testi profetici dove la narrazione della distruzione di Gerusalemme per mano dei nemici passa attraverso l’idea che la colpa della sconfitta sia da attribuire alla infedeltà coniugale della sposa. Molta critica femminista si è confrontata con
la violenza sessuale e le immagini di brutale misoginia che sono presenti nella Bibbia ebraica. La grande studiosa americana Tikva Frymer-Kenski (Reading the Women of the Bible) aveva sostenuto che la violenza sul corpo femminile era da leggere come critica che Dio faceva alla società di cui era il protettore, una società che veniva meno alle norme e ai precetti che lui aveva impartito. In questo testo, invece, gli aspetti misogini e patriarcali sono volutamente messi in scena così come il disagio che i commentatori hanno riservato a queste immagini. Il commento o la tecnica ermeneutica sono strumenti preziosi per tradire il significato del testo o per sovvertirlo.
Il Dio biblico – come le divinità maschili mesopotamiche e levantine – è guerriero e creatore, è immenso e potente, è capace di amare e odiare. La sua straordinaria presenza è resa visivamente dal timore e dal pericolo di guardarlo in faccia. Mosè che lo vede sul Monte Sinai sarà trasformato da questo incontro tanto da acquisire corna di luce. Il corpo di Dio si ammanta di una straordinaria fulgidezza, di un fuoco abbacinante e di una luminosità insopportabile per l’occhio umano. Queste immagini della luminosità della divinità sono confluite anche nei testi proto-cristiani fino a diventare un elemento fondamentale del cristianesimo di tradizione latina che ontologizza il dualismo ‘luce-tenebre’ così presente nel contesto del mondo giudaico del secondo tempio. Particolarmente belli sono i capitoli della quinta sezione dedicati al volto di Dio e a tutti gli organi che ad esso
sono associati: voce, orecchie, bocca, naso.
Scritto con stile chiaro e scrittura florida, compiaciuto nella sua potenzialità dissacrante e iconoclasta, il libro di Stavrokopoulou è concepito per il grande pubblico e accoglie tendenze della ricerca contemporanea. La struttura dei capitoli è elegante, parte con un caso di cronaca, politica o arte contemporanea per poi oscillare in un movimento di ampio respiro che passa dalle concezioni sulle divinità delle culture del pantheon mesopotamico e mediorientale verso quelle giudaite e israelite (Yahweh è il dio di entrambi i regni di Israele e Giuda) alle pratiche religiose umane, con digressioni che toccano la nascita del giudaismo e del cristianesimo. Come in uno specchio, le immagini e concezioni di Dio si modellano sulle proiezioni idealizzate dell’uomo ma segnalano anche un movimento religioso che abbandona le concezioni antiche. Il Dio biblico che Stavrakopoulou resuscita è un maschio, con un corpo enorme, il colore della pelle ramata, profumato di pioggia e incenso, coi lunghi capelli intinti nei balsami profumati e una barba curata, giovane e avvenente, con gambe possenti e piedi che calzano sandali curati. È un Dio che muore lentamente, diventando invisibile e occultato dietro le coltri di fumo dei sacrifici e protetto dal Sancta Sanctorum (pp. 43031). Un Dio che sembra scomparire nelle mutazioni religiose del mondo antico e nei dibattiti filosofici di età medievale, anche se alcune delle sue tracce riemergono, a volte trasformate radicalmente nelle immagini ebraiche e cristiane medievali. ■
UN LIBRO «PIENO ZEPPO DI STORIE STUPENDE, FANTASTICHE, VERE». IL NOSTRO OMAGGIO CON IL RITRATTO ORIGINALE DI STEPHEN ALCORN.
di Armando Massarenti
Bob Dylan è da sempre, a suo modo, un filosofo. Un filosofo alla maniera in cui in genere sono “filosofi” gli autodidatti di talento. L’autodidatta non segue schemi prestabiliti fornitigli da altri. Sceglie da sé, a distanza, i propri maestri e si costruisce sul campo, un po’ rocambolescamente, strumenti, pratiche e teorie per orientarsi, apprendere, assorbire l’universo che gli sta a cuore e che vuole far proprio. In questo caso quello delle canzoni ascoltate alla radio, nei dischi o nei folk festival. Capirle a fondo, senza preconcetti, esplorarne i meccanismi più efficaci, l’intreccio magico tra parole e musica, le sfumature e le possibili variazioni, catalogarle e quindi suonarle e agire sulla base di ciò che ha imparato, mettendo alla prova i trucchi del mestiere e le competenze sviluppate fino a quel momento. Dylan dice di non essere, a rigore, un poeta. Le canzoni non sono poesie con l’aggiunta della musica. E di non essere nemmeno, in fondo, un musicista, né un cantante. Di essere invece un artista, cioè qualcuno che sa mettere in pratica, poieticamente, la capacità di produrre opere (un disco, una canzone, uno show) badando bene che esse arrivino al cuore di un pubblico che sia il più ampio possibile. In una parola, che abbiano successo. In questo il premio Nobel, conferitogli nel 2016, era ben giustificato, e il paragone (da lui stesso suggerito con i dovuti distinguo) con Shakespeare appropriato. Misurarsi
con il pubblico per entrambi è essenziale. La loro arte è popolare. Il fare artistico di Bob Dylan è un costante imparare facendo (o, se preferite, un fare imparando): un continuo, riflessivo, monitorare lo spirito dei tempi, gli umori del pubblico e le forme espressive più diverse, che ha origine nella voracità con cui fin da giovanissimo si abbeverava alla genialità e alla fama degli altri, essendo in grado di riconoscerla, apprezzarla, criticarla, imitarla, migliorarla, costruendo il proprio stile e programmando, in maniera pragmatica, le proprie performance e il proprio stesso successo.
Dylan è sempre stato, nella sua pratica artistica, una sorta di enciclopedista della canzone, di cui conosce, per esperienza, tutte le possibilità e limiti, facendone tesoro nella sua attività compositiva. Non a caso negli ultimi anni ne ha tracciato la storia in una intensa attività radiofonica, ha curato una raccolta degli originali delle cover più famose, e, nei suoi ultimi album (prima di Rough and Rowdy Ways, 2020), si è cimentato in tre raccolte di standard riproponendo tra l’altro, con la propria inconfondibile voce, il repertorio di Frank Sinatra.
Nel suo ultimo libro, appena uscito in tutto il mondo, il primo dopo il Nobel, analizzando un classico blues, Big boss man, definisce l’esecutore, Jimmy Reed, «l’essenza della semplicità elettrica» e aggiunge: «Il blues a dodici battute può essere eseguito con centinaia di variazioni e Jimmy Reed
deve averle conosciute tutte. Nessuna delle sue canzoni tocca mai terra. Non smettono di muoversi. Era il più country di tutti gli artisti blues degli anni Cinquanta. È leggero e rilassato. Sotto i suoi piedi non c’è cemento cittadino. È tutto campagna». E solo un profondo conoscitore dei generi musicali può pensare a un confronto spericolato come il seguente: «Il bluegrass è l’altra faccia dell’heavy metal. Sono entrambe forme musicali ben ancorate alla tradizione. Sono due generi musicali che attraverso i decenni non sono cambiati, né visivamente né acusticamente. (…) Entrambi i generi adottano formazioni strumentali legate alla tradizione e un’aderenza alle forme da vera parrocchia».
Dylan è artista-enciclopedistafilosofo, però non ha una filosofia. Il titolo di questo libro, tradotto da Alessandro Carrera per Feltrinelli, Filosofia della canzone moderna, è ingannevole, menzognero – non c’è nessuna teoria filosofica della canzone! – ma dice la verità. Proprio come le sue canzoni. Le meno riuscite non a caso sono quelle più esplicitamente autobiografiche, ma in realtà c’è qualcosa di sé in quasi tutta la sua produzione, dove le “verità” sono filtrate da una abilità affabulatoria dal sapore spesso misticheggiante e pieno di riferimenti biblici. Sarebbe ingenuo aspettarsi da questo libro una teoria filosofica della canzone moderna. E anche una definizione di che cosa si intenda per – e da dove cominci e
eventualmente finisca – la “canzone moderna”. Di certo, a giudicare da queste pagine, la scena madre è l’America degli anni Cinquanta. Guarda caso proprio gli anni di formazione di Dylan, quando nasceva il rock and roll e si fondevano generi musicali come il blues, il country, la canzone di protesta, il soul, il rockabilly.
Tutto, dunque, ancora una volta, coincide con la sua figura di artista, con il suo carisma e la sua abilità di affascinare raccontando storie, porgendole nella forma volta per volta più appropriata. Storie con protagonisti che disegnano un affresco della cultura americana di cui Dylan celebra senza esitazione la centralità mondiale. Tra le canzoni analizzate solo tre sono di autori inglesi (gli Who, i Clash e Costello), una è italiana (la lodatissima Volare di Modugno), mentre la Francia fa capolino con La mer di Trenet ma cantata in inglese da Bobby Darin, uno degli eroi del volume in buona compagnia con protagonisti più famosi (Frank Sinatra, Elvis Presley, Bing Crosby, Cher, Judy Garland, Nina Simone... l’elenco completo si trova facilmente in rete e consigliamo di farne una playlist. Pochissime le donne, e non è l’unico segnale di un certo maschilismo dylaniano).
Filosofia della canzone moderna è pieno zeppo di storie stupende, incredibili, fantastiche, vere, quasi vere o al limite della leggenda, ma anche capaci di smascherare falsità diffuse e di risvegliare nei lettori lo spirito critico su grandi temi della contemporaneità, come la guerra, i diritti dei nativi americani, il conformismo e il settarismo politico e culturale, il nuovo assetto dei social e dei mass media. Al centro ci sono 66 canzoni che diventano straordinarie narrazioni e che spesso coincidono con dei veri esercizi filosofici, non sempre accomodanti o condivisibili. Dylan
è famoso anche per la sua sublime capacità di irritare i propri stessi fan e non è certo un esempio di political correctness. La canzone Cheaper to keep her è per esempio lo spunto per la seguente riflessione: «I dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all’università. La cosiddetta “scuola della strada” è una cosa che esiste davvero e non serve solo a imparare a stare alla larga da arraffoni e ciarlatani. Mentre i laureati della Ivy League parlano d’amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalpabili, la gente – che abiti a Trinidad o ad Atlanta – canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita. O, in questo caso, Johnnie Taylor ti risparmia una salata parcella d’avvocato dicendoti che ti costa meno tenertela. È ovvio che ti costa meno tenertela. Forse non è così? Il divorzio è un’industria con un fatturato di dieci miliardi di dollari all’anno. E senza nemmeno affittare una sala, ingaggiare dei musicisti e gettare mazzi di fiori». Segue una violenta tirata contro gli avvocati divorzisti e, come antidoto, la proposta di un’utopia poligamica per la società attuale.
Talvolta l’enciclopedista Dylan (allenatosi a lungo come conduttore radiofonico) dopo aver raccontato una storia si lascia prendere dal piacere della lista, elencando tutte le canzoni che parlano via via di lacrime, di scarpe, di preghiere, della luna, della vecchiaia, di guerra. Ci sono canzoni pop basate su temi classici, canzoni che vengono meglio dal vivo e canzoni che hanno bisogno di uno studio di registrazione. A proposito di It’s all in the game, cantata da Tommy Edwards, si dice che «certe volte una
canzone ha bisogno di trovare il suo tempo. Altre volte bisogna metterla in circolazione il giorno dopo». E a proposito di I’ve always been crazy, di Waylon Jennings: «Qualche volta le canzoni si presentano sotto mentite spoglie. Una canzone d’amore può celare ogni sorta di emozioni, come rabbia e risentimento. Altre canzoni hanno un’aria felice e contengono un profondo abisso di tristezza, e alcune delle canzoni dal suono più triste possono contenere profondi pozzi di gioia in fondo al cuore». Ci sono canzoni belle perché prive di senso, canzoni belle perché sovraccariche di senso e tante canzoni il cui senso sta tutto nella loro capacità di raccontare storie un po’ incomplete lasciando all’immaginazione di riempire le lacune. Esercizio che svolge lo stesso Dylan a inizio di quasi ogni capitolo con efficaci esercizi di riscrittura, un po’ nello stile di Like a rolling stone – «Once upon a time you dressed so fine…» – dove il “tu” coinvolge direttamente il lettore (e talvolta lo stesso Dylan) proiettandolo come protagonista nelle situazioni e nei dilemmi evocati dalle canzoni. Per esempio, a partire da Detroit city, cantata da Bobby Bare: «La tua vita sta andando a rotoli. Sei arrivato nella metropoli e hai scoperto cose su te stesso che non volevi sapere…». Se non vi va di considerarlo un libro di filosofia, prendetelo come un singolare libro d’artista. Filosofia della canzone moderna è ricchissimo di illustrazioni molto evocative: locandine di concerti, foto di paesaggi e di situazioni comuni, di gruppi musicali, di film e documentari. In fondo ad alcuni capitoli ci sono piccoli ritagli di quotidiani degli anni Cinquanta che pubblicizzano corsi su come imparare a suonare la chitarra, il piano o l’armonica, o a comporre canzoni, in una settimana o poco più: «Soddisfatti o rimborsati» ■
L’AUTORE
François Hartog è direttore di studi emerito nella École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi. Tra i suoi libri sono tradotti in italiano: Lo specchio di Erodoto (il Saggiatore 1992), Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nell’antica Grecia (Einaudi 2002), Regimi di storicità (Sellerio 2007) e Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo (Einaudi 2022).
Che cos’è il tempo? Agostino, nelle Confessioni , tentava di replicare a questa domanda impossibile con una celebre non-risposta: «Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so».
Se già prima di lui tanto Platone quanto Aristotele si erano confrontati con la questione del tempo in ambito filosofico, dopo Agostino la storia del tentativo di definire il tempo sarà un vero e proprio fil rouge che attraverserà tutta la storia della filosofia tanto occidentale quanto orientale e che diverrà un nodo centrale anche per le scienze.
I l tempo verrà, di volta in volta, mitizzato e misurato, reso il più possibile calcolabile tramite strumenti sempre più precisi oppure ricondotto alla irriducibile esperienza vitale del singolo, verrà trascritto in formule matematiche o narrato in forma romanzesca.
Lo storico della cultura
François Hartog – allievo di Jean-Pierre Vernant e Reinhard Koselleck, due degli autori che nel Novecento hanno avuto maggiore influenza nel proporre nuovi modi di pensare e scrivere la storia – dopo aver analizzato nelle sue prime opere specifici aspetti della storia antica dell’Occidente, ha dedicato due dei suoi lavori più recenti, Regimi di storicità del 2003 e Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo (Einaudi 2022, traduzione di Valeria Zini) al tentativo di pensare il tempo concettualmente.
Q ueste due opere dello storico sono caratterizzate da un triplice “scarto” laterale: in esse, infatti, Hartog non vuole fare né una storia filosofica, né una teoria scientifica del tempo, e neppure una storia dei modi con cui il tempo è stato misurato. La proposta di Hartog, piuttosto, è al contempo
di carattere teorico-concettuale e metodologico. Egli, infatti, propone delle categorie utili sia retrospettivamente per comprendere l’esperienza del tempo che è stata fatta in determinati contesti storico-culturali, che prospetticamente, ossia che abbiano anche un possibile valore euristico per future analisi del concetto di tempo. È in quest’ottica che va compreso il concetto hartogiano di “regime di storicità”: esso descrive innanzitutto il modo in cui le diverse culture hanno compreso se stesse (e le altre culture), articolando in maniera propria e peculiare le dimensioni del passato, del presente e del futuro, attribuendo ad esse significati diversi a seconda dei contesti in cui tali interpretazioni si sono sviluppate. In seconda battuta, di conseguenza, il concetto di “regime di storicità” diventa uno strumento utile a definire anche i particolari modi di esperire se stessi e gli altri che gli appartenenti alle singole culture hanno sviluppato a partire da questi modi specifici di pensare il tempo. Se il regime di storicità definibile come “passatismo”, proprio del mondo antico, viveva la storia presente come una ripetizione (e degradazione) del passato, e quello “modernista” viveva il progresso verso il futuro come dimensione temporale prioritaria, in grado di illuminare retrospettivamente le azioni del presente, il regime di storicità “presentista” – quello attuale – schiaccia sia il passato che il futuro sull’adesso, che si estende indefinitamente e monotonamente.
IL TEMPO CRISTIANO
È a partire da questo orizzonte concettuale che prende avvio
Chronos , che si presenta come un enorme e dettagliatissimo affresco in grado di riprodurre la storia di come, dal regime di storicità greco, passando per il mondo cristiano e per la Modernità secolarizzata, si sia giunti al modo presentista di pensare la storicità proprio del mondo contemporaneo (e alla sua crisi). I l punto di partenza scelto da Hartog per comprendere il presentismo attuale è l’analisi del tempo cristiano: anch’esso, infatti, secondo lo storico francese, è un regime di storicità dominato dal presente, per quanto da un presente particolare, di tipo apocalittico. Per comprendere come il regime di storicità cristiano abbia preso forma, Hartog sceglie di intraprendere un percorso innanzitutto concettuale, che si articola a partire da tre dimensioni della temporalità: Chronos , Kairos e Krisis. Il primo è concetto bifronte, che affonda le sue radici nella dimensione mitica che la Grecia antica aveva riservato all’omonimo padre di Zeus, che divorava i suoi figli. Chronos , infatti, è sia il tempo dell’eternità, degli dei e di Dio, che il tempo umano, quello che passa e si misura, il tempo del cambiamento e dell’irrimediabile finitudine a cui siamo consegnati. Kairos , invece, è un tempo qualitativamente differente da Chronos , che si apre sull’istante, l’inatteso, l’occasione favorevole. Si tratta del tempo dell’azione propizia, che gli uomini devono imparare a riconoscere per far sì di avere un impatto sul tempo omogeneo- Chronos Krisis , da ultimo, «pur senza essere direttamente temporale implica un’operazione sul tempo» (pp. 10-11): richiamandosi all’etimologia greca del termine – che
indica sia il giudizio del tribunale su un caso che quello del medico su una malattia – Hartog indica in questo terzo operatore temporale la dimensione tramite cui le prime due entrano in contatto. È infatti solo tramite un “taglio” (il verbo greco krinein , da cui “crisi”, significa anche questo), una decisione netta, che è possibile inserirsi nel corso omogeneo del tempo tramite un’azione efficace. La storia della cultura occidentale, secondo Hartog, non sarà altro che la storia dell’articolazione, riformulazione, concorrenza e concomitanza di questi tre operatori temporali. L’articolazione dei tre momenti è evidente nel regime di temporalità cristiano: arriverà un giorno – vale a dire un tempo specifico, determinato, di rottura ( Kairos ) – in cui il giudizio divino ( Krisis ) metterà fine all’ordine omogeneo del tempo (Chronos), cambiandone per sempre la qualità, la struttura stessa.
KAIROS E KRISIS
I l presentismo cristiano, quindi, diversamente da quello della contemporaneità, è un presentismo che può sussistere solo come campo di tensione che si apre tra le forze di Kairos e di Krisis : « Chronos è, per così dire, fissato e destituito da Krisis e Kairos . Da quel momento si opera una congiunzione dei due concetti, anche se Kairos s’incarica di esprimere l’avvicinarsi del momento decisivo, l’imminenza del giorno del Giudizio e la prossima apertura di un tempo completamente altro per coloro che avranno compiuto la traversata» (p. 64). Questa congiunzione opera lungo tutta la durata del periodo che va dal Tardoantico alla fine del Medioevo e i suoi strumenti saranno
quelli della calendaristica e della riforma delle modalità in cui il tempo è stato scandito, misurato, delimitato, ritualizzato con gli orologi e i calendari, il suono delle campane e il susseguirsi di festività e ricorrenze.
Oltre a questi strumenti concreti, il regime di storicità cristiano ha escogitato, secondo Hartog, anche una serie di strumenti concettuali utili a pensare il rapporto tra il tempo divino e quello umano: l’accomodatio – ossia «il modo in cui Dio ha saputo mettersi al livello dell’uomo e parlare il suo linguaggio» (p. 109) ad esempio tramite la Legge mosaica e l’Incarnazione –, la translatio – il modo in cui è possibile spiegare l’avvicendamento storico tra le potenze temporali e il contemporaneo rinvio del tempo apocalittico – e la renovatio/reformatio – il modo in cui viene pensato il rinnovamento come riproposizione del passato. Malgrado le enormi operazioni di adeguamento al regime di temporalità cristiano che tali operatori concettuali avevano permesso, la modernità segnerà un momento di rottura rispetto ad esso: sia il movimento di rinnovamento a seguito del Rinascimento, che il venire in contatto delle popolazioni europee con i popoli amerindi provocheranno dei mutamenti inarrestabili nel modo di percepire il tempo e, conseguentemente, di percepirsi, da parte degli europei.
I tentativi di ricomprendere nel regime di temporalità cristiano le porzioni di mondo e le culture che erano entrate improvvisamente a far parte della storia occidentale renderanno sempre più evidenti i limiti delle concettualità precedentemente esco -
gitate per rendere conto dei rapporti tra Chronos , Kairos e Krisis : malgrado gli sforzi, in particolare dei missionari, di leggere la storia dei popoli amerindi, ad esempio, alla luce delle categorie bibliche e teologiche e quelli del potere (sia religioso che temporale) di assimilarli al proprio regime di storicità, diverrà rapidamente evidente che il tempo coerente che tanto faticosamente era stato instaurato con la costruzione del regime di storicità cristiano si avviava, lentamente, ma inesorabilmente, al tramonto. Hartog imputa, però, più che ai movimenti e contatti di uomini e merci legati alle cosiddette “scoperte geografiche” della modernità, al processo di avanzamento della mentalità scientifica la crisi definitiva del regime di storicità cristiano. Buffon, Condorcet e da ultimo Darwin, ipotizzando nei loro studi tempi lunghissimi per la formazione della Terra, degli esseri viventi e delle specie, porteranno, infatti, a un punto di collasso i tentativi precedenti di coniugare le verità di fede rivelate dalle Scritture e le conoscenze scientifiche sempre maggiori accumulate sul nostro pianeta e sui suoi abitanti. L’epoca contemporanea diventa così, infine, “presentista” nel senso secolarizzato che conosciamo oggi: schiacciata su un presente che è solo un momento intermedio tra un prima e un dopo infinitamente lunghi e qualitativamente indifferenti. Secondo Hartog, però, la tirannia del regime presentista contemporaneo è solo una fase temporanea, e non l’inizio di quella che molti teorici, nel Dopoguerra, hanno definito una “fine della storia” in cui il presente si sarebbe protratto, in un regime più o meno
pacifico di capitalismo consumista neoliberale trionfante, ad libitum . Secondo lo storico francese, infatti, il presentismo, negli ultimi venti anni, ha dovuto fare i conti sempre più con il prepotente ritorno tanto di Kairos quanto di Krisis sul palcoscenico della storia. Innanzitutto, perché il Chronos presentista contemporaneo è, per così dire, a più velocità: esistono porzioni di mondo, intere aree geografiche e popolazioni, che sono escluse da esso. Questo produce disuguaglianze, e quindi discordanze sia tra le diverse percezioni del tempo che tra le diverse percezioni che le singole popolazioni hanno di se stesse e degli altri. Inoltre, perché il Chronos presentista contemporaneo è minacciato dall’orizzonte apocalittico che risponde al nome di “Antropocene”: questo, secondo Hartog, che argomenta in conclusione del suo libro utilizzando gli argomenti di Bruno Latour, potrebbe essere il nome per un nuovo regime di storicità, che ci porti al di fuori delle sabbie mobili presentiste. Infatti, l’imperativo ecologico a cui ci richiamano gli sconvolgimenti climatici riassumibili sotto il concetto-collettore di “Antropocene”, potrebbe condurre a una nuova presa di coscienza politica e storica, che richiami alla necessità di un’azione che sia globale e che includa sia attori umani che non-umani.
Sarà dunque dal nuovo modo di intendere l’azione adeguata (Kairos) nel momento in cui è assolutamente necessaria, in virtù dei mutamenti climatici globali, una decisione (Krisis) che conduca a mutare le sorti del tempo storico (Chronos) che risulterà il regime di storicità dell’umanità a venire. ■
CHE SFUMA NELLE MOLTEPLICI INTERPRETAZIONI. LA SUA SCOMPARSA È STATA UN LUTTO GRAVE
PER LA LETTERATURA EUROPEA CONTEMPORANEA.
di Armando Savignano
Madrileno, scrittore, traduttore, saggista, è mancato lo scorso settembre, a settant’anni. Narratore prolifico, ha ricevuto numerosi premi internazionali, molti anche anche in Italia. Primo grande successo di pubblico con Domani nella battaglia pensa a me, libro pubblicato da Einaudi (come tutti i suoi romanzi).
L’improvvisa morte di Javier Marías ha colto tutti di sorpresa. Avevo avuto modo di incontrarlo nella casa paterna, essendo figlio del filosofo spagnolo Julián Marias, che ho avuto l’avventura di conoscere e frequentare e al quale ho dedicato vari miei scritti.
Javier Marías ha trascorso parte dell’infanzia negli Stati Uniti, dove insegnava il padre, poiché era stato costretto all’esilio per l’opposizione alla dittatura franchista. La sua è stata una vicenda umana e letteraria sunteggiata da opere importanti, tra i narratori di estrazione ispanista ma soprattutto nella letteratura europea. È impensabile dedicargli un memoir prescindendo dalla sua produzione narrativa.
Nel 1989 aveva presentato a Madrid il suo romanzo Tutte le anime, incentrato sull’esperienza vissuta durante la permanenza all’università di Oxford, un libro che gli sarebbe valso il “Premio per la Città di Barcellona”. Sin da questo primo romanzo, Marías si è avvicinato a una sensibilità anglofila, prendendo le distanze dalla letteratura spagnola contemporanea. In Tutte le anime si narra la vicenda di un
docente spagnolo che si mette sulle tracce di libri rari, tra i quali quelli dell’eccentrico avventuriero John Gawsworth; nel frattempo, intrattiene una relazione con una donna sposata, in un certo senso apice di un soggiorno inglese che assume le caratteristiche di un esilio da se stesso. La trama è quasi inesistente, prevalgono una serie di digressioni letterarie ed esistenziali da parte della voce narrante.
Javier Marías si impone all’attenzione internazionale nel 1992 con il romanzo Un cuore così bianco, che peraltro vince il “Premio della Critica”. Rimangono impressi a molti alcuni passaggi emblematici come «non volevo sapere, ma sapevo...», una frase che contiene un’intera poetica. In quel libro, inoltre, appare un’inconfondibile voce in prima persona che tenta di sintetizzare narrazione e riflessione in prolisse subordinate che – al servizio di una trama indecifrabile o di un dilemma morale – riproducono ossessivamente il complesso percorso del pensiero.
Tra il 2002 e il 2007, la grande opera: la monumentale trilogia dal titolo Il tuo volto domani, che rappresenta il suo approccio alla
guerra civile, prendendo le mosse da un tragico episodio ispirato alla storia di suo padre, Julían Marías, ingiustamente imprigionato tra il maggio-agosto del 1939 a causa della denuncia di un compagno di studi.
Un nervo scoperto, per lui, le vicende familiari, tanto che nel 2012 ha rifiutato il “Premio Nazionale di letteratura” (assegnato per la novella Gli innamoramenti). In quell’occasione ha affermato che non avrebbe accettato alcuna onorificenza statale, poiché era stata negata a suo padre – oltre che ad altri importanti scrittori.
Marías, come è noto, si ispirava a Shakespeare, ma a un Bardo incardinato nella tradizione spagnola, dalla quale scaturiva quel vivere sospesi tra uno stato di presenza e di assenza, non della coscienza bensì della vita reale. È evidente il richiamo alla classica distinzione tra sogno-realtà, presente tanto nel drammaturgo inglese quanto in Calderón de la Barca e in tutta la tradizione ispanica.
I romanzi di Javier Marías rappresentano una lunga riflessione morale condotta con le armi della perfidia e del disincanto. I temi ricorrenti della sua narrativa sono la poliedricità della realtà con allusioni alla teoria prospettivistica del padre, Julián Marías, che l’aveva a sua volta mutuata dal maestro Ortega Y Gasset. Un’altra cifra identificativa della sua opera è l’impossibilità di pervenire a una spiegazione esaustiva della realtà che ci circonda. E anche le narrazioni del passato sono suscettibili di molteplici letture e interpretazioni.
Non diversamente dalle vicende della vita, spesso contraddittorie e prive di una finalità, Marías
confessa che i suoi romanzi non obbediscono a uno schema preordinato: «Sono il contrario del romanziere che sa tutto già prima di cominciare a scrivere, so più o meno dove voglio andare, ma non seguo nessuna carta e perciò talvolta mi trovo davanti a un precipizio senza sapere che c’era. Piuttosto, osservo una disciplina secondo la quale non rettifico mai quel che ho scritto. Alla scrittura applico lo stesso principio di conoscenza che, per causa di forza maggiore, appartiene alla vita: non si può modificare quel che è stato».
Marías ha la singolare capacità di svelare non svelando; in tal modo lascia spazio e tempo al lettore per riflettere e fare congetture su ciò che sta leggendo. La trama, pur essendo importante, è tuttavia quasi secondaria nella narrazione che, nella concatenazione di fatti ed eventi, cerca di lasciar aperta l’agibilità del pensare.
La costruzione del racconto tende a ritardare il procedere dell’intreccio e si sviluppa in incisi e divagazioni, in cui si inseriscono fecondi dialoghi. La digressione, che compare continuamente nel corso della narrazione, come se avesse vita propria, rappresenta forse una dei principali elementi propri dello suo stile.
Le sue opere sono caratterizzate da un suggestivo intreccio di realtà e finzione che sembra quasi insinuare nel lettore l’inattendibilità narrativa, con una scrittura distinta e distante da qualsiasi forma di realismo e, tuttavia, intrisa di sfaccettature di fatti reali e aspetti spesso riferibili alla vita stessa dell’autore. Le opere di Marías sono in genere prive di qualunque legame con la realtà: predomina l’elucubrazione mentale che sovente sfocia nella meta-narrazione... Nei suoi ro-
manzi, dedica infatti particolare attenzione al rapporto tra il mondo testuale costituito dalla narrazione e la realtà che esiste al di fuori di quel mondo; il ruolo del lettore è fondamentale nel discernere criticamente questo rapporto e il legame teorico tra scrittore, testo e lettore. La lettura articola una sorta di sovrastruttura attraverso la quale i significati emergono dalla confluenza del genio creativo dello scrittore e della ricezione del lettore.
I suoi ultimi due romanzi, Berta Isla e Tomás Nevinson, indagano su ciò che non accade o su ciò che sarebbe potuto accadere ma non è accaduto. Sullo sfondo di episodi realmente avvenuti (in particolare alcuni attentati dell’Ira e dell’Eta), la vicenda di Tomás Nevinson rappresenta una riflessione sugli atti e i comportamenti oltre i quali non è lecito spingersi, sul tentativo di fuggire il male peggiore, e soprattutto sul problema, difficilmente risolvibile, di stabilire con certezza quale sarà quel male. Tomás Nevinson è un romanzo sul saper attendere, ma anche sul fatalismo imposto dalle circostanze. Tutto ciò emergeva già nel romanzo Berta Isla, nel quale la protagonista mostra che l’attesa non è necessariamente negarsi la vita, né sfuggirla, poichè può essere anche affrontata, attraversata, nonostante le sue contraddizioni e oscurità. Marías tiene in sospensione gli eventi, indugiando su particolari secondari della narrazione, facendo crescere l’attesa al punto che anche il lettore diventa suo complice. È possibile individuare una metafisica intrinseca alla letteratura di Marías che, come nel pensiero di Ortega Y Gasset, presuppone una comprensione eticamente impegnata del reale. ■
PETER GODFREY-SMITH
LA NATURA, LA COMPRENSIONE DI CIÒ CHE È REALE, GLI SPAZI
ASSEGNATI ALLA SCIENZA IN UN MONDO IN RAPIDA EVOLUZIONE.
SONO QUESTI GLI INTERROGATIVI DELLA FILOSOFIA, CIOÈ
«IL MODO IN CUI LE COSE, NEL SENSO PIÙ AMPIO POSSIBILE
DEL TERMINE, SI TENGONO INSIEME NEL SENSO PIÙ AMPIO
POSSIBILE DEL TERMINE».
di Matteo Moca
Peter Godfrey-Smith è professore di storia e filosofia della scienza all’Università di Sidney, ma è anche un appassionato di immersioni lungo la costa australiana. Quale il legame tra queste attività non esattamente così simpatetiche? L’interesse per il funzionamento della mente, su come questa proietti per noi uno specifico mondo.
La risposta potrebbe risultare sorprendente per chi non conosce la sua opera, ma per chi ha letto, per esempio, Altre menti (Adelphi) non ci sarà alcuna sorpresa, visto che il volume è dedicato all’intelligenza dei cefalopodi, ovvero seppie, polpi e calamari, ed è mosso dallo sguardo multidisciplinare di GodfreySmith che unisce biologia, filosofia della scienza e della mente con i resoconti delle sue osservazioni subacquee. Raffaello Cortina pubblica adesso Teoria e realtà. Introduzione alla filosofia della scienza (con la traduzione di Silvia Tossut), un libro che si basa sulle lezioni universitarie tenute da Godfrey-Smith
nel corso della sua trentennale carriera (e quindi un libro che vive anche dei commenti e dei quesiti che la disciplina e gli studenti hanno posto all’autore nei molti anni di insegnamento, come testimonia questa edizione rivista dall’autore).
Teoria e realtà, infatti, è strutturato come una storia della filosofia della scienza e copre un arco di tempo molto ampio, dal Circolo di Vienna alle considerazioni più attuali, attraversando ovviamente le rivoluzioni di Karl Popper e Thomas Kuhn, ma uno dei luoghi di maggior pregio, oltre alla chiarezza espositiva di Godfrey-Smith e alla sua abilità nel mettere in luce gli spazi più problematici della materia, sta nella capacità di inserire tali questioni nell’orizzonte del pensiero contemporaneo. Domande sulla natura della realtà, sulla possibilità di spiegare il concetto di scienza, su come comprendiamo il mondo o sulla nostra relazione con ciò che ci circonda sono ovviamente interrogativi senza tempo, ma a cui la filosofia della scienza, e questo libro che ne raccoglie i principi
fondamentali, può certamente dare una solida base ermeneutica. Considerando lo spazio sempre più pervasivo dell’universo scientifico nella vita quotidiana, quali sono le sfide che la filosofia della scienza può e deve raccogliere? E quali gli spazi fondamentali del presente (il cambiamento climatico, la conservazione delle specie animali, la coscienza animale) in cui può intervenire? Nel libro di Godfrey-Smith questi temi sono più volte suggeriti, e così è proprio lui in questa intervista ad approfondire gli spazi sul contemporaneo che apre il suo libro e le prospettive che la filosofia della scienza promette per una maggior consapevolezza circa il nostro rapporto con il mondo.
Nel suo libro Teoria e realtà. Un’introduzione alla filosofia della scienza , nel capitolo dedicato alla filosofia naturalista – cioè una filosofia, come suggerisci non mancando di sottolineare le difficoltà di una definizione, che può usare i risultati delle scienze come aiuto per rispondere a domande filosofiche – lei cita la frase che proprio Wilfred Sellars formulò nel 1962, quando disse che questa riguarda «il modo in cui le cose nel senso più ampio possibile del termine si tengono insieme nel senso più ampio possibile del termine». Questa definizione coglie per lei la natura della filosofia?
Sì, penso che la formula di Sellars sia il miglior riassunto della natura della filosofia. Ma vorrei aggiungere due pensieri. Primo, una persona potrebbe pensare che la formula di Sellars non distingua la filosofia da alcune altre attività – dalla fisica, forse, o dalla scienza in generale. Entrambe potrebbero essere viste come il tentativo di capire «come le cose stanno insieme». Quindi, una volta presa per buona questa rapida definizione da Sellars, si dovrebbe completarla. La filosofia cerca un particolare tipo di ampiezza. Non si occupa delle relazioni tra le diverse forze fisiche, per esempio, ma piuttosto delle relazioni tra tutta la fisica e il campo della morale e degli altri valori, delle relazioni tra il reale e il possibile, e così via. In questo modo è ampia. Non c’è però una linea di demarcazione netta. Il problema mente-corpo è sia una questione filosofica che scientifica. In secondo luogo, in Teoria e Realtà giustifico la mia approvazione del “naturalismo” dicendo che la mia visione della filosofia è molto aperta. Non si sa mai da dove verrà la prossima idea o il prossimo movimento interessante. Forse
si potrebbe usare questo pensiero per qualificare la mia approvazione della definizione di Sellars.
Il suo libro segue un secolo di dibattiti sulla scienza, dall’empirismo di inizio Novecento alle questioni contemporanee, ed è un’introduzione alla filosofia della scienza e, in particolare, ad alcuni argomenti di questa grande disciplina come la conoscenza e la razionalità. Lei si muove quindi su un terreno ampio e complesso, non tralasciando ovviamente di commentare le varie teorie, e non manca la presenza di alcuni dibattiti oggi centrali e che, mi pare, in certi casi esulino dall’accademia. Quale crede che sia il posto della filosofia della scienza nella società contemporanea?
Penso che il ruolo della filosofia della scienza possa crescere naturalmente negli anni a venire. Questo perché la scienza stessa ha un’importanza sempre più evidente nelle nostre vite. La pandemia Covid-19 è, da questo punto di vista, un buon esempio. Dal 2020 i giornali si sono riempiti di articoli che usano concetti piuttosto complicati di biologia ed epidemiologia. Le politiche che riguardano tutti noi sono state basate su modelli idealizzati della diffusione del virus, modelli quindi scientifici. Anche lo stesso termine “scienza” ha acquisito nuovi ruoli retorici e giustificativi. Tutto questo fornisce ampio materiale per la riflessione filosofica. La riscrittura di Teoria e Realtà è stata completata poco prima dell’inizio della pandemia e le fasi di redazione si sono svolte durante l’emergenza. Non ho cambiato il testo per aggiungere materiale sul Covid-19 perché non è ancora chiaro come andranno le cose. Il problema del cambiamento climatico causato dall’uomo è un’altra area in cui la scienza ha acquisito nuovi ruoli nella nostra vita: di conseguenza la filosofia della scienza ha un nuovo lavoro da fare anche in questo ambito.
Nell’ultimo capitolo del libro, emblematicamente intitolato Il futuro , lei porta la sua riflessione su alcuni cambiamenti nell’organizzazione della scienza che, con il materiale che presenta, può essere pensata in maniera differente rispetto a come faremmo senza aver letto il libro. Uno di questi cambiamenti afferisce all’indebolimento dell’idea della scienza rispetto alla sua tradizione di ricerca svincolata, «fatta di scienziati che seguono il loro fiuto senza preoccuparsi troppo
delle applicazioni pratiche del loro lavoro e delle priorità stabilite dall’esterno». Quanto è importante l’autodeterminazione della scienza e cosa questa significa per i ricercatori e gli studiosi? Sono arrivato a pensare che questo sia un tema molto importante. La situazione è cambiata parecchio negli ultimi decenni ed è cambiata anche tra le due edizioni del mio libro. Prima dell’inizio del secolo, molti scienziati che conosco sentivano di avere più “libertà di movimento” di adesso. Questo problema è probabilmente più acuto in alcuni paesi che in altri. Certamente è significativo in Australia, dove i finanziamenti sono abbastanza strettamente legati alle priorità stabilite dal governo federale. Penso che questa sia una tendenza spiacevole. Pensatori diversi come John Dewey e Thomas Kuhn hanno giustamente intuito che buona parte del potere della scienza deriva dalla capacità delle persone di esplorare liberamente e “seguire il proprio naso”. Mi piacerebbe vedere cambiamenti nelle politiche di finanziamento che vadano in questa direzione.
Nel libro Altre menti . Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza , lei concentra la sua attenzione sull’intelligenza di cefalopodi, seppie, polpi e calamari. In quel libro scrive che fare filosofia è «questione di mettere insieme le cose, cercando di comporre i pezzi di puzzle molto grandi in
modo sensato», che questa deve essere anche «opportunistica; si serve di qualsiasi informazione» e che varchi continuamente i suoi confini. Per esempio, proprio in quel libro si adombrano anche questioni fondamentali riguardanti nello specifico gli animali e l’etica dell’ambiente. La domanda vera è: dunque, cosa può fare le filosofia rispetto a questi temi ?
Al momento, sto scrivendo un libro che segue Altre menti e Metazoa e risponde esplicitamente a queste domande. Avrà un capitolo sulle nostre relazioni con gli animali destinati agli allevamenti e ai laboratori e un capitolo sull’etica ambientale (il titolo provvisorio è Living on Earth ). Il libro non è solo su questi argomenti, ma ne costituiscono una parte importante. Mentre lavoro a questo progetto, devo elaborare in modo più ponderato le mie posizioni riguardanti la metaetica e, in altre parti, rispetto alla teoria del valore. Devo capire che tipo di status hanno, o possono avere, le affermazioni etiche, e questi problemi sono particolarmente difficili e interessanti nel caso dell’etica ambientale. Per come la vedo io, i miei libri sugli animali hanno sollevato ogni sorta di domande alle quali non sono stato in grado di rispondere, ma ora devo cercare di farlo. Penso che sarò in grado di dare una risposta migliore alla sua domanda tra circa un anno. In ogni caso, lo spero. ■
Peter Godfrey-Smith, australiano, è docente di storia e filosofia della scienza all’Università di Sydney, si occupa principalmente di filosofia della biologia e di filosofia della mente. Coltiva anche interessi nella filosofia generale della scienza, nel pragmatismo (in particolare il lavoro di John Dewey) e in alcune parti della metafisica e dell’epistemologia. Ha insegnato in diverse univerità, tra cui Harvard, Stanford, la Australian National University e anche il CUNY Graduate Center. Godfrey-Smith ha ricevuto il Premio Lakatos per un saggio del 2009, Darwinian Population and Natural Selection, che discute la teoria dell’evoluzione anche in una prospettiva filosofica: è infatti una confutazione del cosiddetto “disegno intelligente” o creazionismo scientifico, diffuso soprattutto in America. Nel 2016, ha pubblicato Other Minds: The Octopus, The Sea and the Deep Origins of Consciousness, tradotto in italiano da Adelphi (Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza). Con lo stesso editore è uscito nel 2021 Metazoa. Teoria e realtà (Cortina, 2022) è un saggio del 2002, ma l’autore ne ha compiuto una revisione e attualizzazione.
Un ragazzo innamorato, un fiore che non si trova, la generosità suprema di chi riesce a recuperarlo... Ma l’amore si infrange sulla spiaggia triste della banalità.Oscar Wilde
Ha detto che avrebbe ballato con me, se le avessi portato le sue rose rosse», gemeva il giovane studente. «Ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa».
Dal suo nido nel leccio l’usignolo lo udì, guardò all’esterno, attraverso le foglie, e si fece pensoso. «Nemmeno una rosa rossa in tutto il mio giardino!». gridava lui, e i suoi begli occhi si riempirono di lacrime. «Ah, da cose tanto piccole dipende la felicità! Ho letto tutto quello che i saggi hanno scritto, e sono padrone di tutti i segreti della filosofia, ma per la mancanza di una rosa rossa la mia vita è diventata una miseria».
«Ecco finalmente un vero innamorato», disse l’usignolo. «Notte dopo notte ho cantato di lui, benché non lo conoscessi: notte dopo notte ho raccontato la sua storia alle stelle, e ora lo vedo. I suoi capelli sono scuri come il fiore di giacinto, e le sue labbra sono rosse come la rosa del suo desiderio; ma la passione ha reso il suo volto pallido come l’avorio, e il dolore ha apposto un sigillo sulla sua fronte».
«Il Principe darà un ballo domani sera», mormorò il giovane studente, «e il mio amore sarà tra gli invitati. Se le porto una rosa rossa lei ballerà con me fino all’alba. Se le porto una rosa rossa, la terrò tra le mie braccia, e lei appoggerà la testa sulla mia spalla, e terrò la sua mano stretta fra le mie. Ma non c’è alcuna rosa rossa nel mio giardino, così siederò da solo, e lei mi passerà accanto. Non avrà alcuna attenzione per me, e il mio cuore si spezzerà».
«Ecco veramente un innamorato sincero», disse l’usignolo. «Ciò di cui io canto, lui lo soffre: ciò che è una gioia per me, per lui è dolore. Certamente
l’amore è una cosa meravigliosa. È più prezioso degli smeraldi, e più caro di fini opali. Perle e melograni non possono comprarlo, né è previsto che sia venduto. Non può essere acquistato dai mercanti, né può essere pesato dal bilancino per l’oro».
«I musicisti siederanno nella loro galleria», disse il giovane studente, «e suoneranno i loro archi, e il mio amore danzerà al suono dell’arpa e del violino. Danzerà con tanta leggerezza che i suoi piedi non toccheranno il pavimento, e i cortigiani nei loro abiti sgargianti si affolleranno intorno a lei. Ma con me non danzerà, perché non ho una rosa rossa da darle»; e si lasciò cadere sull’erba, seppellì il viso tra le mani e pianse.
«Perché sta piangendo?» domandò la lucertola verde, mentre correva davanti a lui con la coda sollevata.
«Già, perché?» chiese una farfalla, che stava svolazzando intorno a un raggio di sole.
«Già, perché?» sussurrò una margherita al suo vicino, con voce bassa e morbida.
«Piange per una rosa rossa», disse l’usignolo.
«Per una rosa rossa!» gridarono. «Che cosa ridicola!» e la piccola lucertola, che era piuttosto cinica, si mise a ridere.
Ma l’usignolo comprendeva il segreto del dolore dello studente: si sedette in silenzio nella quercia e pensò al mistero dell’Amore.
Improvvisamente allargò le ali brune per volare, e si librò nell’aria. Passò attraverso il boschetto come un’ombra, e come un’ombra veleggiò oltre il giardino.
Al centro dell’area a prato si trovava un bel roseto, e quando lo vide, gli volò sopra, e si imbatté in un ramo. «Dammi una rosa rossa», esclamò, «e io ti can -
terò la mia canzone più dolce».
Ma la pianta scosse la testa.
«Le mie rose sono bianche», rispose. «Bianche come la schiuma del mare, e più bianche della neve in montagna. Ma vai da mio fratello, che cresce intorno alla vecchia meridiana, e forse lui ti darà quello che vuoi».
Così l’usignolo volò sopra il roseto che cresceva intorno alla vecchia meridiana.
«Dammi una rosa rossa», esclamò, «e io ti canterò la mia canzone più dolce».
Ma la pianta scosse la testa.
«Le mie rose sono gialle», rispose. «Gialle come i capelli della sirena che siede su un trono di ambra, e più gialla del narciso che sboccia nel prato prima che il tosaerba giunga con la sua falce. Ma vai da mio fratello che cresce sotto la finestra dello studente, e forse lui ti darà quello che vuoi».
Così l’usignolo volò sopra il roseto che cresceva sotto la
finestra dello studente.
«Dammi una rosa rossa», esclamò, «e io ti canterò la mia canzone più dolce».
Ma la pianta scosse la testa.
«Le mie rose sono rosse», rispose. «Rosse come i piedi della colomba e più rosse dei grandi ventagli di corallo che non fanno che ondeggiare nelle caverne oceaniche.
Ma l’inverno ha gelato le mie vene, il gelo ha stroncato i miei boccioli, e la tempesta ha spezzato i miei rami, e non avrò rose per tutto quest’anno».
«Tutto ciò che voglio è una rosa rossa», gridò l’usignolo, «Solo una rosa rossa! Non c’è modo in cui la possa avere?».
«Un modo c’è», rispose la pianta. «Ma è così terribile che non oso dirtelo».
«Dimmelo», disse l’usignolo. «Io non ho paura».
«Se vuoi una rosa rossa», disse la pianta, «è necessario crearla a partire dalla musica del chiaro di luna, e mac-
chiarla con il sangue del tuo cuore. Devi cantare per me premendo il tuo petto contro una spina. Devi cantare per me per tutta la notte, e la spina deve trafiggere il tuo cuore, e il sangue che ti tiene in vita deve scorrere nelle mie vene, e diventare mio».
«La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa», esclamò l’usignolo, «e la vita è molto cara a tutti. È piacevole sedersi nel verde del bosco, e guardare il sole sul suo carro d’oro, e la luna sul suo carro di perle. Dolce è il profumo del biancospino, e dolci sono le campanule che si nascondono nella valle, e l’erica che soffia sulla collina. Eppure l’amore vale più della vita, e cos’è il cuore di un uccello rispetto al cuore di un uomo?».
Così lei aprì le ali brune per il volo, e si librò nell’aria. Volò sul giardino come un’ombra, e come un’ombra veleggiò attraverso il boschetto.
Il giovane studente era ancora steso sull’erba, dove lo aveva lasciato, e le lacrime non si erano asciugate nei suoi begli occhi.
«Gioisci!» gridò l’usignolo. «Sii felice; avrai la tua rosa rossa. La creerò a partire dalla musica al chiaro di luna, e la tingerò con il sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in cambio è che tu sia un vero innamorato, perché l’Amore è più saggio della Filosofia, benché essa sia saggia, e più potente della Forza, benché essa sia potente. Color fiamma sono le sue ali, e colorato come un fuoco è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e il suo respiro è come incenso».
Lo studente alzò lo sguardo dall’erba, e ascoltò, ma non riusciva a capire che cosa l’usignolo gli stesse dicendo, perché conosceva solo le cose che erano scritte nei libri. Ma la quercia capì, e si sentì triste, perché era molto affezionata al piccolo usignolo che aveva costruito il suo nido tra i suoi rami.
«Cantami un’ultima canzone», gli sussurrò. «Mi sentirò molto sola quando non ci sarai più».
Così l’usignolo cantò per la quercia, e la sua voce era come l’acqua gorgogliante che sgorgava da un vaso d’argento. Quando ebbe finito il suo canto lo studente si alzò, e
I RACCONTI DI OSCAR WILDE
tirò fuori dalla tasca un taccuino e una matita. «Ha una sua forma», disse a se stesso, mentre si allontanava attraverso il boschetto, «che non le si può negare; ma prova qualcosa? Temo di no. In realtà, è come la maggior parte degli artisti: tutto stile, senza sincerità. Non si sacrificherebbe per gli altri. Pensa solo alla musica, e tutti sanno che le arti sono egoiste. Tuttavia, bisogna ammettere che ci sono alcune belle note nella sua voce. Che peccato che non significhino nulla, o che non abbiano alcuna utilità». E andò nella sua stanza, si sdraiò sul suo piccolo giaciglio, e cominciò a pensare al suo amore; e, dopo qualche tempo, si addormentò. E quando la luna splendeva nel cielo l’usignolo volò al roseto, e appoggiò il petto contro la spina. Per tutta la notte cantò col petto contro la spina, e la fredda luna di cristallo si chinò e ascoltò. Cantò per tutta la notte, la spina penetrava sempre più profondamente nel suo petto, e la sua vitalità scemava sempre di più. Iniziò cantando della nascita dell’amore nei cuori di un ragazzo e di una ragazza. E sul più alto ramo del roseto sbocciò una rosa meravigliosa, petalo dopo petalo, così come a canto seguiva canto. Tale era, in un primo momento, come la nebbia che sovrasta il fiume - pallida come i piedi del mattino, e argentata come le ali dell’aurora. Come l’ombra di una rosa in uno specchio d’argento, come l’ombra di una rosa in una pozza d’acqua, così era la rosa che fioriva sul ramo più alto della pianta.
Ma la pianta gridò all’usignolo di premere più forte sulla spina. «Premi più forte, piccolo usignolo», gridò, «o verrà giorno prima che la rosa sia ultimata».
Così l’usignolo premette più forte sulla spina, e sempre più sonoro si alzava il suo canto, perché cantava della nascita della passione nell’anima di un uomo e di una donna.
E un delicato rossore salì alle foglie della rosa, come il rossore sul volto dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non aveva ancora raggiunto il suo cuore, e così il cuore della rosa restava bianco, perché solo il sangue del cuore di un usignolo può
Di lui si conosce quasi tutto: i giudizi leggendari, gli aforismi pungenti, la vita “dissoluta”, compresa la tormentata relazione omosessuale con il giovane Alfred Douglas. Tutte circostanze che gli hanno fruttato una grande notorietà e anche i più perfidi commenti dell’età vittoriana, oltre che un processo e una condanna a due anni di lavori forzati per gross public indecency. Di questo scrittore universale, esponente del decadentismo e dell’estetismo britannico (ma Wilde era per nascita irlandese), sono ancora oggi letti i libri di maggior successo, da un romanzo come Il ritratto di Dorian Grey alle opere più intense come il tragico e commovente De Profundis. Molto meno noti i racconti, e in particolare quelli fiabeschi. Questa versione di L’usignolo e la rosa è tratta da Il principe felice e altri racconti, pubblicato nella collana Nuovi Classici Mondadori, con la traduzione di Masolino D’Amico. (G.P.)
imporporare il cuore di una rosa.
Ma la pianta gridò all’usignolo di premere più forte sulla spina. «Premi più forte, piccolo usignolo», gridò, «o verrà giorno prima che la rosa sia ultimata».
Così l’usignolo premette più forte sulla spina, e la spina gli toccò cuore, e una feroce fitta di dolore lo trafisse. Amaro, amaro era il dolore, e sempre più selvaggio si alzava il suo canto, poiché cantava dell’Amore che viene perfezionato dalla Morte, dell’Amore che non muore nella tomba.
E la meravigliosa rosa divenne color porpora, come la rosa del cielo d’Oriente. Porpora era la cintura dei petali, e cremisi come un rubino era il cuore.
Ma la voce dell’usignolo si indebolì, le sue piccole ali incominciarono a battere, e gli scese un velo sugli occhi. Sempre più debole si faceva il suo canto, e si sentì soffocare.
Poi scoppiò in un ultimo trionfo di musica. La bianca luna lo udì, dimenticò l’alba, e si soffermò su nel cielo. La rosa rossa lo udì, tremò tutta di estasi, e aprì i suoi petali nella fredda aria del mattino. L’eco lo portò nel suo antro viola tra le colline, e risvegliò i pastori dai loro sogni. Galleggiò attraverso le canne del fiume, che portarono il suo messaggio al mare.
«Guardate, guardate!» gridò la pianta, «la rosa è ultimata, ora»; ma l’usignolo non rispose, perché giaceva morto nell’erba alta, con la spina nel cuore.
E a mezzogiorno lo studente aprì la finestra e guardò fuori. «Ma che meravigliosa fortuna!» gridò. «Qui c’è una rosa rossa! Non ho mai visto una rosa simile in tutta la mia vita. È così bella che sono sicuro che ha un interminabile nome in latino»; si chinò e la colse.
Poi si mise il cappello, e corse fino alla casa del professore con la rosa in mano.
La figlia del professore era seduta sulla soglia avvolgendo della seta blu su un arcolaio, e il suo cagnolino era accucciato ai suoi piedi.
«Avete detto che avreste ballato con me se vi avessi portato una rosa rossa», esclamò lo studente. «Ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterete questa sera vicino al cuore, e mentre balleremo insieme vi dirà quanto vi amo».
Ma la ragazza aggrottò la fronte. «Temo che non si intonerà con il mio vestito», rispose. «E, inoltre, il nipote del Ciambellano mi ha mandato dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli costano molto di più dei fiori».
«Parola mia, siete molto ingrata», disse lo studente con rabbia; e gettò la rosa sulla strada, da cui cadde nel canale di scolo, e un carro le salì sopra.
«Ingrata!» disse la ragazza. «Sapete una cosa? Siete molto maleducato; e, dopotutto, chi siete? Solo uno studente. Non credo che abbiate fibbie d’argento alle scarpe come il nipote del Ciambellano»; si alzò dalla sedia ed entrò in casa.
«Che cosa stupida è l’amore», disse lo studente mentre si allontanava. «Non ha la metà dell’utilità della logica, perché non prova nulla, e racconta sempre di cose che non accadranno, facendoci credere cose non vere. In realtà, è abbastanza poco pratico, e in epoche come questa l’essere pratico è tutto. Tornerò alla filosofia e studierò metafisica».
Così tornò nella sua stanza, tirò fuori un grande libro polveroso, e cominciò a leggere. ■
Andrea Barenghi insegna
Diritto civile nell’Università del Molise; si è occupato in particolare di contratti, della circolazione e della tutela del mercato delle opere d’arte, di rapporti tra imprese e consumatori, di trasparenza bancaria, di rapporti patrimoniali tra i coniugi. Tra le sue pubblicazioni, un Manuale di Diritto dei consumatori (Wolters Kluver, 2020).
Gianluca Beltrame laureato in storia contemporanea, ha sempre fatto il giornalista: è stato, tra l’altro, caporedattore cultura (e poi caporedattore centrale) di Panorama e direttore di Rolling Stone. Attualmente, è docente del corso di laurea in Cultura giornalistica presso l’Università Statale di Milano.
Cristiana Facchini, è ordinaria di Storia del cristianesimo presso l’Università Alma Mater di Bologna. È membro del Collegio di Dottorato in Storie, culture e politiche del globale. Dirige Annali di storia dell’esegesi e Quest-Issues in Contemporary Jewish History .
Antonio Lucci è Visiting Scientist presso il Dipartimento di Scienze filosofiche dell’Università di Torino. In precedenza ha svolto attività di docenza e ricerca per università europee, tra cui la Freie Universität e
la Humboldt Universität di Berlino. Fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo. Tra le sue pubblicazioni: La stella ascetica. Ascesi e soggettivazione in Friedrich Nietzsche (2020).
Armando Massarenti è filosofo e giornalista, caporedattore del Sole 24 Or e e firma storica del supplemento culturale Domenica . Autore di molti libri, ha ricevuto numerosi premi e dirige la collana Scienza e filosofia per Mondadori Università.
Matteo Moca è dottore di ricerca in Italianistica presso l’Université Paris Nanterre e l’Università di Bologna. È insegnante e cultore della materia per l’insegnamento di Letterature comparate presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato la monografia, Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett (La scuola di Pitagora, 2017). Ha dedicato saggi all’opera di Landolfi e si occupa, tra gli altri, di Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Georges Perec.
Armando Savignano è stato ordinario di Filosofia morale al Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Trieste. Ispanista, è anche il direttore scientifico delle opere di MarÍa Zambrano. Ha pubblicato il saggio Miradas al pensamiento español. La Edadde Plata , Editorial Sinderesis.
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