PADRE GIOVANNI DA MONTECORVINO

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PADRE GIOVANNI DA MONTECORVINO Montecorvino R. 1247 - Kambalik 1328

Arcivescovo di Pekino Patriarca d’Oriente Nunzio papale Fondatore della Chiesa cattolica di Cina Statua in bronzo di gandola «Padre Giovanni da Montecorvino» in Via Pace di Montecorvino Rovella (SA)

A. Della Corte


PADRE GIOVANNI DA MONTECORVINO Montecorvino 1247 – Kambalik 1328

Arcivescovo di Pekino Nunzio Papale Patriarca d’Oriente Fondatore della Chiesa Cattolica di Cina

A. Della Corte - MMXXII 1


Ritratto dell’Arcivescovo

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Francesco d’Assisi (sec. Cimabue)

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Immagine di Papa Wojtyla

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PAGINA ZERO

Il presente libro è soltanto la ripubblicazione dei tre precedenti volumi, stampati tra il 2020 e il 2021, e ora “accorpati” tipograficamente, con qualche taglio, qualche aggiunta (la “città proibita, le Crociate in Africa di Luigi IX…), e la correzione di qualche mio svarione (come l’attribuzione a Bonifacio VIII della “Crociata contro i Vespri Siciliani”, opera invece del Papa Martino IV). Risulterà pertanto ancor più evidente al lettore l’”errore” della ripetizione di alcuni concetti o di alcuni avvenimenti, appena perdonabili se espressi dallo stesso autore in distinte pubblicazioni, ma costituenti una “macchia” (stilistica) se contenuti nello stesso volume. Confesso di aver tentato di eliminare questa pecca, ma non mi ha sorretto la pazienza per portare a termine questo (necessario) intervento. Poiché, comunque, non nutro alcuna aspirazione letteraria, né intendo (in vecchiaia) specializzarmi in storiografia, chiedo scusa ai lettori per queste ridondanti reiterazioni. Riscrivere o cancellare – ancora! – un numero consistente di pagine, avrebbe costituito (per me) un lavoro lungo e “terrificante”, cui non mi sono sentito in grado di dedicare tempo ulteriore. Col presente volume, ho soltanto inteso rendere omaggio al più illustre figlio di Montecorvino, e portare la sua vita a conoscenza di quanti avranno la pazienza e la disposizione benevola a sfogliare e, possibilmente, a leggere quanto di seguito esposto.

Un “libro” è la lettera più lunga scritta da un amico.

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In complesso, l’”opera” non intende essere una ennesima agiografia di un Santo, ma l’analisi storica di un periodo travagliato della Chiesa Cattolica in cui venne a trovarsi (subendolo!) una grande figura del francescanesimo, nell’impero dei mongoli e “sotto” la Chiesa di Avignone, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo (benché quasi nulla sia restato di quanto a suo tempo, necessariamente, avrà dovuto pur scrivere l’Arcivescovo di Pekino e Patriarca dell’Oriente). Infine, tutto ciò che in questa pubblicazione è descritto, di vicende storiche, religiose o personali, resta a disposizione di quanti (anche senza citare la fonte) vorranno commentarlo, approfondirlo o confutarlo. Fortunatamente, non c’è nulla di scritto che sia definitivo e non contestabile (o no?). A. Della Corte

- Un personaggio storico intanto esiste se mai qualcuno ne ha scritto, e se si è conservata documentazione in merito -

NOTA: Gli errori tipografici, presenti in numero francamente esorbitante soprattutto nel primo volume (colpa della mia idiosincrasia a rileggere più volte quanto già scritto o stampato), però ho cercato, stavolta, di correggerli (spero). I “ritratti” dei personaggi riportati nella pubblicazione sono – quasi tutti – dipinti prodotti tra il 1500 e il 1800. Quindi non sono coevi alla storia narrata, e pertanto non necessariamente somiglianti. 6


VOLUME PRIMO

Storia della vita di P. Giovanni da Montecorvino, nel contesto storico e religioso in cui svolse le sue attività di missionario francescano, di Nunzio apostolico, di Arcivescovo di Pekino e Patriarca d’Oriente.

“L’ideale del Papa; nel mandare Giovanni da Montecorvino a questa parte dell’estremo Oriente, era di convertire al Cristianesimo questo immenso popolo e stringere alleanza con la più forte potenza militare del mondo. Se tale idea si fosse realizzata, si sarebbe detto di aver convertito tutta l’umanità allora conosciuta. Similmente se tale ideale fosse stato realizzato, si sarebbe potuto dire di aver posto un argine all’avanzata della potenza militare mussulmana.”

Fra’ Gaspare Han – “Giovanni da Montecorvino Fondatore della Chiesa Cattolica in Cina” – Roma 1966.

Fonti Principali della pubblicazione: • P. Giovanni da Montecorvino – Nunzio di Rienzo; • P. Giovanni da Montecorvino, fondatore della Chiesa Cattolica cinese – P. Gaspare Han; • Medioevo e Islam – Carl Grimberg; • L’Italia dei secoli bui – Montanelli/Gervaso; • L’Italia dei secoli d’oro – Montanelli / Gervaso; • Storia Medioevale – F. Cardini / M. Montesano; • Medioevo – Il Papato – B. Schimmelpfenning; • Movimenti religiosi e sette ereticali – G. Volpe; • Il Medioevo – G. Volpe; • Storia delle conquiste umane – Daniel J. Boorstin; • La vita quotidiana nei secoli – AA.VV.

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Incipit

A Francesco, quello vero

Oltre la personale curiosità per una più compiuta conoscenza della vita e delle vicende umane di Padre Giovanni da Montecorvino, certamente il più grande e il più illustre figlio nato nella terra di Montecorvino di principato Citeriore, mi ha spinto in questa mia “impresa” di ricerca e di analisi del contesto storico, religioso, politico e sociale dei secoli XIII e XIV, l’”ambizione” di comprendere – e illustrare alla altrui conoscenza – i motivi di fondo che promossero tra il 1245 e il 1368, le “missioni” francescane (e domenicane) nella Cina dell’impero dei Mongoli; spiegando la “stranezza” della scomparsa – per secoli – del nome di Padre Giovanni da Montecorvino e delle sue vicende (di “missionario”, di nunzio papale, di arcivescovo di Pekino e di patriarca dell’oriente) dalla narrazione storica del medioevo, e anche da quelle “agiografiche” della Chiesa. Ben più largo spazio è stato, ad esempio, concesso al “narratore” Odorico da Pordenone, sui libri di storia, che fu con Padre Giovanni per poco più (o poco meno) di tre anni. È pur vero che di Padre Giovanni, si conoscono soltanto due lettere (che riassumono la sua attività di missionario e uomo di fede), ma quanti (dal 1924) si sono interessati alla sua figura, si sono sempre limitati a narrarne l’operosità di predicatore, l’intenso proselitismo, l’instancabile opera di conversione verso “eretici” e pagani. I pochi che ne hanno ricordato la vita – nel passato – nei “codici” che compilavano, l’hanno infarcita di errori e di “dimenticanze” (presenti persino nel sommario della sua vita, usato dalla Santa Congregazione dei Riti, che doveva indagare sulla sua santità). Soltanto recentemente c’è stato – in alcuni libri “agiografici” di fino 1900 – qualche fugace accenno, subito lasciato cadere, ad un misconosciuto mandato, comunque mai chiarito pienamente. Padre Giovanni da Montecorvino fu – a cavallo tra il XIII e XIV secolo – il più importante e preparato Nunzio, ovvero ambasciatore della Santa Sede, latore di una missione presso la corte della “superpotenza” militare dell’epoca, l’Impeso Mongolo, che fu il più vasto impero mai esistito. Fu uomo di grande cultura, teologo e giurista, conoscitore – oltre che del greco e del latino – di un gran numero di lingue orientali, indispensabili sia per la predicazione, sia per l’attività diplomatica (oltre il mongolo, già imparato nelle missioni in Medio oriente, il cinese che imparò successivamente in Cina, e da come si evince nelle sue lettere, l’alano e il persiano). Ma fu anche il latore di una grande intuizione politica di Papa Nicolò IV, e di un grande disegno religioso e politico – militare di Papa Clemente V, 9


entrambi diretti ad un’alleanza dei regni cattolici d’Europa con il mondo mongolo, teso ad un contenimento e all’accerchiamento dell’espansionismo islamico di matrice turca. Un progetto che, per molteplici motivi, non si riuscì a portare a termine, ma che sarebbe stato destinato a cambiare la storia del mondo. Fu il detentore di un potere ecclesiastico, uguale a quello del Papa (fatta salva l’ovvietà della obbedienza alla sede di Roma), perché Clemente V intendeva fare di Pekino una seconda Roma. Dopo cinquant’anni di tentativi di avvicinamento (e di malintesi) tra il Papa e i Khan mongoli (purtroppo, Papi e Khan, seppure per motivi diversi, avevano vita breve); la missione di Padre Giovanni doveva risultare il corollario dei precedenti tentativi, perché si dispiegava in un momento storico estremamente favorevole. Un’alleanza – non soltanto militare – tra il mondo cattolico europeo e la cultura cinese, che i mongoli avevano rapidamente assorbito, sorprendentemente soltanto negli aspetti più positivi, avrebbe fatto avanzare la civiltà umana molto più rapidamente, traendola dal medioevo, due secoli prima della scoperta dell’America. Con un approccio storico (appena ponderato) alla figura e alla “missione” di Padre Giovanni da Montecorvino, passano in secondo piano i “problemi” (per alcuni aspetti, anche ridicoli) dell’indirizzo della casa di nascita, del cognome della famiglia, dello stemma nobiliare e, in ultima analisi, anche della “santificazione” che la Santa Sede stenta a definire per imperscrutabili problemi che, sinceramente, allo scrivente non interessano (anche se, in queste pagine, marginalmente se ne parla). Fermo restando in Montecorvino di Principato il luogo di nascita di Padre Giovanni, si rende onore e riconoscenza alla memoria del dottore Filippo Iorio che mise definitivamente fine alla (effimera) disputa sulle origini “pugliesi” del nostro grande conterraneo. Ma un grazie, altrettanto forte e convinto, va all’amico Nunzio Di Rienzo, che ne è stato il divulgatore. E, appunto, base di partenza di questa mia “ricerca” è stato il libro “Padre Giovanni da Montecorvino” scritto da Nunzio Di Rienzo, e giustamente patrocinato nel 1993 dalla pubblica amministrazione di Montecorvino Rovella. Una pubblicazione che ha avuto il merito (non piccolo) di far conoscere ad un pubblico più vasto, e non soltanto in ambienti chiesastici, la vita, la fede, il coraggio missionario e l’alta preparazione culturale del nostro grande conterraneo. Nunzio Di Rienzo, mio amico d’infanzia nonché mio perfetto coetaneo (oltre a nascere entrambi a M. Rovella, siamo nati nello stesso giorno dello stesso anno), sin da quando era poco più di un ragazzino, ha partecipato a ricerche, convegni, studi religiosi e storici; ha pubblicato articoli su giornali e riviste incentrati sulla figura di Padre Giovanni e sulla sua storia, nonché è più volte intervenuto per dirimere dubbi, o fugare notizie tendenziose sulle origini campane del grande francescano, portando a conoscenza di altri studiosi le acclarate testimonianze in merito. A Nunzio Di Rienzo va il mio sentito ringraziamento (e mi 10


permetto di ringraziarlo anche a nome di tutti i concittadini, interessati alla storia degli uomini e delle generazioni che ci hanno preceduto). Nello stesso tempo mi scuso con lui se, su alcuni minori argomenti, mi sono scostato da logiche e narrazioni discrasiche nelle successioni temporali di eventi o troppo fantasiose, e comunque da lui soltanto riportate da altrui “studi” e da altrui congetture. Importante contributo alla presente ricerca è stata anche l’attenta lettura del volume “Padre Giovanni da Montecorvino – Fondatore della Chiesa cattolica in Cina” di Fra’ Gaspare Han O.F.M. 1996, fonte insostituibile di date, di notizie, di nomi, nonché di qualche questione politica dell’epoca (benché la maggior parte, le più spinose, sono ovviamente sottaciute). Fra’ Gaspare Han nel suo libro riporta integralmente (almeno si spera) la più parte degli antichi documenti – ovvero quelli dei confratelli coevi – che riguardano Padre Giovanni; inoltre sono riportati anche documenti inerenti al primo concilio plenario dei vescovi cinesi del 1924, e la richiesta di beatificazione alla Santa Sede del 1928. Poiché la “santificazione”, in quanto fondatore della Chiesa cinese, è stata messa in competizione con la identica richiesta per il gesuita Matteo Ricci (1578), lo scrivente candidamente dichiara di non essere eccessivamente interessato a questa gara, né a chi taglierà per primo il traguardo, ritenendo le santificazioni un problema esclusivamente di competenza della Santa Sede. Ma è chiaro che la storia – almeno quella sostenuta da un minimo di documentazione e da conosciuti avvenimenti e circostanze – non può essere sottaciuta, imbellettata o cancellata. Come pure la santità, non può essere determinata da un timbro. A. Della Corte – 2020

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Considerazioni circa l’attesa per la canonizzazione quale fondatore della Chiesa cattolica di Cina.

Padre Giovanni da Montecorvino nacque nel 1247 nel “territorio di Montecorvino di Principato Citeriore, che all’epoca comprendeva gli attuali territori dei comuni di Montecorvino Rovella, Montecorvino Pugliano, di Bellizzi, di Pontecagnano Faiano, parzialmente del comune di Battipaglia (nonché lembi dei comuni di Olevano S.T. e Giffoni V.P.). Al tempo dei primi viaggi verso l’Asia dominata dai Mongoli, si stabilirono molteplici scambi commerciali e culturali tra l’Europa e l’Estremo Oriente (a partire dal 1215 sino al 1368, cioè il tempo che durò l’Impero mongolo). I mercanti europei, arrivarono in gran numero in quei lontani territori, ma pochi di essi lasciarono racconti scritti dei loro viaggi. Seguendo la via dei mercanti, giunse anche un numero non esiguo di francescani e domenicani, inviati come missionari dalla Santa Sede e (spesso) come latori di più ampie proposte “politiche” di alleanze contro l’espansionismo islamico. Molte relazioni sulle comunità europee, nelle città indiane e cinesi ci sono state lasciate da alcuni francescani dell’epoca. Padre Giovanni da Montecorvino, inviato da Papa Niccolò IV alla corte del gran Khan di Pekino nel 1289, fu intrepido viaggiatore, grandissimo missionario della Chiesa cattolica, nunzio (ambasciatore della Santa Sede) e latore di proposte d’intese “politiche”. Egli resta comunque – nei secoli – il più illustre cittadino di Montecorvino per la santità della sua vita, per gli incarichi ricevuti e le cariche ecclesiastiche cui venne chiamato (arcivescovo di Pekino, patriarca d’Oriente). Fondatore della Chiesa cattolica di Cina, è rimasto praticamente sconosciuto per secoli (da quando caduto l’Impero mongolo, si richiusero per tutti gli stranieri le porte del celeste impero). Soltanto negli anni 20 dello scorso secolo, in occasione del 600° anniversario della sua morte, si ricominciò a parlare dei suoi viaggi e della sua opera missionaria nella Cina dei Mongoli, per impulso del primo concilio plenario cinese del 1924, che chiedeva alla Santa Sede la canonizzazione del primo arcivescovo di Pekino. In quanto fondatore della Chiesa cattolica cinese, secondo i crismi della “Congregazione dei Riti della Santa Sede per la canonizzazione dei Santi”, Padre Giovanni avrebbe tutti i requisiti per essere proclamato “Santo”. In verità su inchiesta ordinata da Papa Pio XI, la sezione storica della “Santa Congregazione dei Riti”, in quegli anni, iniziò i suoi lavori d’indagine “sulla vita, missionaria e apostolica, virtù e fama di santità dello stesso Fra Giovanni da Montecorvino”. Da allora, i lavori della “Santa Congregazione” non risulterebbero ancora (ufficialmente) conclusi. Verso il 2000 è stato proclamato “venerabile” che è una specie di condizione di Serie C, per quanti vissuti e morti in fama di santità. 12


Oltre una quantità imprecisata di preghiere occorrerebbero ancora – da quanto sarebbe stato detto – “ulteriori prove” (naturalmente documentabili), a distanza di sette secoli! – o “miracoli” a lui attribuibili, per ottenere la promozione in Serie A. Tenendo presente la imponderabile posizione del Vaticano verso la Cina “capitalcomunista”, tenendo presente altresì che i “cinesi” storicamente non hanno una considerazione positiva del periodo della dominazione mongola (in quanto tale), e soprattutto tenendo presente che c’è un’altra figura religiosa, in questi ultimi tempi, con maggiori “requisiti” alla santificazione, in qualità di iniziatore della cristianizzazione della Cina, ovvero Padre Matteo Ricci (gesuita!); senza assolutamente togliere i meriti rivendicati dai gesuiti per il loro confratello, la piena “santificazione” di Padre Giovanni sembra al momento alquanto lontana. Ma non è questo il tema che si intende, nelle seguenti pagine, trattare; bensì mettere a fuoco la grandezza, il coraggio, la determinazione e la fede di questo antico figlio di Montecorvino, nel contesto del suo tempo, delle immani difficoltà affrontate, e nella narrazione della sua vita (o almeno di quanto della sua vita è pervenuto alla nostra conoscenza); possibilmente nelle linee della storia, al di là della narrazione agiografica, degli orpelli postumi (o posticci) e delle “opportunità” chiesastiche (spesso espresse coi silenzi). Per chiarire: la canonizzazione di un Santo avviene attraverso una fattispecie di “processo” con prove a carico e discarico, che si svolge con l’intervento di una particolare figura, a metà strada tra l’avvocato e l’allenatore (il “postulatore”), che indaga e si pronuncia sulla vita, sulle opere e sui “miracoli” del “candidato”. Per quel che riguarda Padre Giovanni da Montecorvino, essendo passati già 700 anni (guai a lamentarsi delle lungaggini giudiziarie della Repubblica Italiana!), si è del parere che, nel caso nessuno riuscisse a portare altre e “nuove” prove all’avvocato, per ottenere qualche riscontro positivo, si dovrebbe almeno cercare di cambiare l’allenatore.

Nota: la “riscoperta” di padre Giovanni da Montecorvino, dovuta ai vescovi cinesi nei primi anni 20 del secolo scorso, fu la risposta culturale alta ai pastori protestanti americani in Cina che – gonfi di dollari – trattavano con sufficienza i cattolici (specialmente quelli che vestivano il saio). 13


Chiesa “Longobarda” di S. Ambrogio alla Rienna di Montecorvino Rovella (SA)

Ruderi del castello longobardo sul monte Nebulano di Montecorvino Rovella (SA)

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Premessa

Premettendo che di Padre Giovanni ben poco si conosce – oltre la data (1247) e il luogo di nascita (Montecorvino) – soltanto perché i francescani e altri ordini religiosi, all’epoca, univano al nome di battesimo, quello del luogo, della città o del Borgo di provenienza – e quasi nulla si sa delle sue origini, della sua famiglia, della sua infanzia, dei suoi studi, prima che abbracciasse il francescanesimo. Quel “poco” ci è dato dalle memorie di uno dei suoi “aiutanti” in Cina, fra Odorico da Pordenone, che le dettò – malato e prossimo alla morte – al suo confratello fra Guglielmo da Solagna. E di quanto scrisse di lui fra Giovanni Marignolli, nunzio papale in Cina dal 1342 al 1345. Fra Odorico non si trovava più in condizioni fisiche tali da poter scrivere, e probabilmente neppure di poter rileggere quanto aveva dettato; ciò a giustificazione (oggi) di alcune involontarie inesattezze scritte da fra Guglielmo; mentre il Marignolli scrisse notizie apprese per via indiretta, dopo la morte di Padre Giovanni.

• Luogo di nascita. L’antica (e spenta) diatriba sulla terra di origine di Padre Giovanni, tra Montecorvino di “Principato” in provincia di Salerno e Montecorvino “Dauna” in provincia di Foggia, oggi non ha più ragione di essere, in quanto è acclarato che la Montecorvino di Puglia, fondata intorno all’anno mille, era stata rasa al suolo già nel 1100 da Ruggero il Normanno (per punire il locale arcivescovo Pietro che aveva tradito il suo re, al sinodo di Troia, votando a favore della sua scomunica). Al tempo di Padre Giovanni, il Mons. Corbinus Dauno ospitava soltanto una piccola fortificazione, forse una torre di guardia, con qualche casupola di contadini (servi della gleba) ai piedi di esso, e per secoli restò soltanto il nome di un luogo. In verità la competizione tra la Montecorvino campana (M. Rovella) e quella pugliese (Motta Montecorvino) si accese soltanto nel 1928, allorché si decise di celebrare il seicentesimo anniversario della morte di Padre Giovanni, e venne istituita la “causa di canonizzazione” del fondatore della Chiesa cattolica di Cina. Un paio di “studiosi” pugliesi (il sac. Pepe e il dottor Angelellis) – benché mai precedentemente qualche storico o religioso pugliese si fosse interessato alla questione – appellandosi ad uno scritto del 1654 ove il francescano irlandese Widding ascriveva alla Montecorvino di Puglia la nascita di Padre Giovanni, e senza alcun altro elemento – tentarono di traslarne in Puglia il luogo di nascita. Widding, oggettivamente senza avere posizioni pregiudiziali, citava il Codice Chiggiano (o Vaticano) che conteneva un errore (o forse un falso) di un 15


noto contraffattore del 1500, il Ceccarelli, (giustiziato in seguito, appunto per falsità), il quale ultimo aveva attribuito alla Montecorvino di Puglia, la patria di Padre Giovanni. Successivamente lo stesso Widding aveva ritrattato parzialmente questo errore, riconoscendo che non aveva prove certe per attribuire Montecorvino ai pugliesi o ai picentini, e dicendo altresì che “altri” sostenevano che Padre Giovanni fosse nato in una città tra i Picentini, nel Principato Citeriore. Con ogni probabilità, qualche antico ricopiatore o traduttore di codici o di altri documenti, scrivendo di Padre Giovanni, si era imbattuto inciampandovi, nel vocabolo “pulianus” traducendolo in “pugliese” (o “Dauno” usando un termine aulico). E su quest’ultima eventualità, mi fermo(!), per non accedere ad ulteriori oziose polemiche; tanto più che, nel 1924, il padre Vanden Wyngaert affermò recisamente, parlando di Padre Giovanni, che, senza possibilità di equivoci, la Montecorvino ove era nato il primo arcivescovo di Pekino fosse quella ubicata nella provincia di Salerno, ma che non era in grado (giustamente) di stabilire se fosse il Comune di Montecorvino Rovella o il comune di Montecorvino Pugliano (divisi comunque soltanto nel 1820). Circa poi la citazione della Santa Congregazione dei Riti “erroneamente ritenuto soldato, giudice e dottore dell’imperatore Federico II”, riferita a Padre Giovanni, è una “verità” che, però, contiene un falso. Padre Giovanni non fu mai, infatti, soldato, dottore (nel senso di medico) e giudice di Federico II, perché Federico II il 13 Dicembre 1250 morì, a Fiorentino di Puglia, soltanto tre anni dopo la nascita del futuro arcivescovo di Pekino! Però è vero che Giovanni studiò presso la “Scuola Medica Salernitana” che Federico II aveva provveduto a fare rifiorire; studiò anche presso lo “Studio” di Scienza Giuridiche di Napoli, istituzione dovuta allo stesso Imperatore; e tentò la carriera militare (probabilmente su impulso della famiglia) prima di abbracciare la predicazione di Francesco d’Assisi. Perciò fu medico, ma non risulta che abbia mai esercitato questa professione, se non forse nelle missioni, per carità cristiana verso i confratelli e verso i convertiti sia in Asia minore, sia in Cina ove non poté fare a meno – colto e curioso come era – di avvicinarsi anche alla medicina Popolare Cinese. Fu giurista, in un periodo in cui anche i papi erano grandi giuristi (Alessandro III, Innocenzo III, Innocenzo IV, Bonifacio VIII ecc.). In quanto giurista, egli aveva la possibilità di incamminarsi verso le attività diplomatiche e amministrative, oppure verso la carriera ecclesiastica. Ma Padre Giovanni non fu mai in un tribunale, non giudicò, né condannò mai nessuno. Fu avviato, per breve tempo, per privilegio della famiglia, verso la carriera militare, cosa riservata ai nobili, o a discendenti di (fedeli) condottieri. Ma non partecipò mai a scontri armati; tra l’altro

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i popolani in caso di guerra, militavano (con arruolamenti “volontari” o più o meno forzati) nelle fanterie, o al più tra gli arcieri.

• Padre Niccolò Spinazzola. Tra gli “altri” sostenitori della Montecorvino “apud Salernum” – cui si riferisce il Widding quando si accorse dell’errore in cui era incorso nella prima stesura della sua opera sui francescani – certamente vi fu P. Niccolò Spinazzola, pugliese, che in una cronaca del 1638, tre anni dopo la pubblicazione degli “annali” del Widding, affermò essere Montecorvino di Principato la patria di Padre Giovanni, in diretta opposizione a quanto sostenuto nella prima edizione degli “annali”. P. Niccolò Spinazzola fu più volte ministro provinciale di Principato, segretario generale dell’ordine Francescano, e fiduciario della corte di Napoli a Madrid. In quanto ministro provinciale di Principato non poteva non essere in relazione con i Francescani di Santa Maria della Pace (sorta nel 1518) e di Santa Maria degli Angeli (sorta nel 1591), nonché con gli “osservanti di Santa Maria della Misericordia (sorta agli inizi del 1600) di Pugliano, da cui probabilmente trasse le certezze che oppose al Widding.

• La Provincia Lucana (Francescana). Nel 1924 – sorta la questione delle origini di Padre Giovanni tra la Montecorvino di Salerno e la Montecorvino di Puglia – francescani missionari in Cina fecero sapere che esisteva un frammento sepolcrale della distrutta tomba di Padre Giovanni, con la seguente scritta “frater Johannes a Montecorvino, primus archiepiscopus kampalicensis, regione lucanus”. Il missionario francese De Montaigne dichiarò di aver letto di persona l’iscrizione. Tale frammento venne successivamente disperso tra la Seconda Guerra Mondiale, la guerra civile e il regime comunista. Il probabile estensore del testo inciso sulla pietra, fu Padre Giovanni da Cora, contemporaneo di Padre Giovanni. All’epoca, e tuttora, la “provincia Francescana” che comprende anche il territorio di M. Rovella, è detta salernitano-lucana.

Nota: quanto attiene la vita di Padre Giovanni, dalla nascita all’adesione al francescanesimo – è desunto, in questo scritto, in gran parte dal libro “Padre Giovanni da Montecorvino – di Nunzio Di Rienzo – 1993.

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• La famiglia. Cosa affatto convincente è, invece, avergli voluto attribuire per forza un cognome che – storicamente – non appare in nessun documento riguardante Padre Giovanni, risalente alla sua epoca, o in epoca successiva. Soltanto nell’anno 1932, dagli studi del dott. Filippo Iorio, compare il cognome “Pico”, attraverso forzature di date e di eventi. Cercando di far luce su tale questione, premetto che, “Pico” o non Pico, quale che possa essere stata la nascita di Padre Giovanni, nulla può togliere (e nemmeno aggiungere) alla grandezza della sua vita, del suo impegno di missionario e di “Nunzio” (ambasciatore) della Chiesa di Roma, delle cariche ricoperte in seno al cattolicesimo (arcivescovo di Pekino e patriarca d’Oriente, con poteri uguali a quelli del papa), della sua forza morale e della sua cultura; senza le quali ultime, mai avrebbe potuto accedere ai rilevanti incarichi cui fu chiamato. Odorico da Pordenone acclara che Padre Giovanni era nobile, “anche” per portamento e per condotta, e di tanto non c’è motivo di dubitare. Nel 1494 Alfonso II d’Aragona, in segno di riconoscimento per aver sostenuto “in fatto d’armi” il nonno Alfonso I il Magnanimo, concesse agli esponenti di 23 famiglie di Montecorvino di Principato, il titolo di “nobile”, poi trasmesso ai discendenti separandoli dal ceto popolare (come è scritto sul decreto reale); tra questi, “Achillis et Pichi de Pichis” (della famiglia Pico); quindi, precedentemente al 1494, né Achille, né Pico dei “Pico”, né gli esponenti delle altre 22 famiglie montecorvinesi (facendo parte del “ceto popolare”) potevano vantare alcun titolo nobiliare. Quindi, quando i coevi confratelli parlano di nobiltà di discendenza di Padre Giovanni, la nobiltà della famiglia d’origine non poteva essere quella dei Pico (che nel 1247 erano ancora parte del ceto popolare, pur volendo ammettere che nel 1247 già esistesse tale cognome). Probabilmente Padre Giovanni apparteneva a qualche famiglia della piccola (e decaduta) nobiltà Longobarda del territorio di Montecorvino, all’epoca ancora esistente (e la cui presenza, almeno nella zona di Sant’Ambrogio/Martorano, e San Martino è documentata). Certamente non apparteneva Padre Giovanni a famiglia Normanna, perché nel momento in cui accedeva ad incarichi importanti e delicati di Nunzio papale, il papato era alleato agli angioini, ed in forte contrasto con gli svevonormanni; nessun papa avrebbe concesso un incarico politico di ambasciatore ad un “nemico” normanno. Né egli poteva essere un nobile angioino, perché la sua nascita era avvenuta 21 anni prima della calata di Carlo d’Angiò a Napoli. Una tesi del tutto campata in aria è quindi quella che i Pico “nobili”, scesi con Carlo d’Angiò nel 1268, si trasferissero successivamente, con un ramo collaterale, in Montecorvino e quivi nascesse Padre Giovanni nel 1247! Il Ricca, autore del testo “Nobiltà del Regno delle Due Sicilie” 1859, sostenitore di questa tesi, scrive – direbbe Fantozzi – una “boiata 18


pazzesca”. Come pure, per la costituzione dei Pico al seggio dei nobili di Portanova, a Napoli, è del tutto ininfluente se tali seggi furono istituiti dai d’Angiò, o fossero preesistenti ad essi, come pure del tutto fantasiosa – ed anche un po’ grottesca – è l’asserzione (sempre del Ricca) che i Pico discendessero niente meno che dall’imperatore Costantino il Grande, morto nel 337 d.C.; dal figlio, Costanzo Cloro, sarebbe nata Euride che sposò Manfredo (ciambellano di Costanzo Cloro), re d’Italia e Principe di Germania; e da tale matrimonio sarebbero nati Manfredo, Pico e Pio, ciascuno dei quali capostipite della famiglia omonima. A parte questa “grandiosa” discendenza, nulla toglie che dei Pico fossero realmente al seguito di Carlo d’Angiò (Ruggero Pico, ciambellano di corte, e Riccardo Pico, barone di Campora) – sempre secondo il Ricca – e qualche ramo della famiglia, si trasferisse poi a Montecorvino; comunque non prima della nascita di Padre Giovanni! Le affermazioni del Ricca nel 1859 non possono avere valore superiore a quelle di uno dei tanti studi di “ricerche nobiliari” che – dietro pagamento – non hanno problemi ad affibbiare attestati di nobiltà, anche alle famiglie Zoccola o Mangione. E, pure ammettendo che qualche “Pico” vivesse a Montecorvino – prima della nascita di Padre Giovanni – questi non poteva essere nobile. Perché non è possibile che l’aragonese Alfonso II nominasse “nobile” (separandola dalle “ceto popolare”) una famiglia già nobile fedele alla dinastia angioina (mentre ancora non si erano spenti i contrasti tra aragonesi e angioini, nel meridione d’Italia!). Che l’ottimo Dott. Filippo Iorio abbia, a suo tempo, contribuito ad ascrivere ragionevolmente, e definitivamente, a Montecorvino la nascita di Padre Giovanni, fu cosa giusta, che fa tuttora onore alla sua memoria (nonostante si appoggiasse alle citazioni del Ricca). Resta dunque il fondato dubbio, in mancanza di prove, che Padre Giovanni possa aver avuto i natali in seno ad una nobile famiglia Pico. E’ più facile pensare che sia stata un’altra famiglia (il cui nome ci resta ignoto) di Montecorvino a generare il fondatore della Chiesa cattolica di Cina, e ci resta anche difficile accettare che Padre Giovanni sia nato e vissuto in un palazzo, sito in quella che era ancora la strada principale di Montecorvino Rovella nel 1932 (ad abundantiam), però costruito non prima del 1500. Comunque ciò che è realmente desumibile, è che la famiglia di origine fosse benestante (ciò possidente di terre), perché Padre Giovanni ebbe la possibilità di studiare presso la “Scuola Medica Salernitana” e presso lo “studio” di Napoli di scienze giuridiche (che erano le due scuole campane con prestigio di “università”), nonché di tentare la “carriera militare” (riservata solitamente a discendenti di famiglie nobili o di condottieri).

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Note: • Il Ceccarelli, copista di codici cinquecenteschi, si “arrangiava” nel suo mestiere (naturalmente, a pagamento) con la falsificazione di lasciti testamentari, donazioni, discendenze e titoli nobiliari, e (forse) anche con l’”imbellettamento” della narrazione della vita dei Santi o aspiranti tali. Scoperto con le mani nel sacco, venne condannato a morte. Le falsificazioni di documenti storici furono molto fiorenti nel Medioevo e nel Rinascimento (almeno fino alla “scoperta” della stampa). Oggi, attraverso lo studio filologico dei testi, lo studio chimico degli inchiostri e della carta, e la comparazione di date ed eventi, moltissimi falsi dell’antichità sono venuti alla luce. Il più conosciuto degli antichi falsi è la “famigerata” donazione di Costantino, da cui la Chiesa ha tratto la legittimazione del potere temporale (smascherato già nel 1440 dall’umanista e filologo Lorenzo Valla). • I seggi nobili di cui parla nel testo del Ricca “le famiglie nobili del Regno delle Due Sicilie (1859) erano archivi ove si registravano le famiglie nobili di una determinata regione, e concorrevano al mantenimento del titolo. I seggi di “Portanova” di Napoli, già nella metà del 1600 dichiaravano estinta la “nobile famiglia Pico” (quella angioina). • Il palazzo del Pico (famiglia estinta nel 1763 a Montecorvino Rovella, passando nei Budetta e nei Basso con le ultime discendenti) è di epoca seicentesca, o al più cinquecentesca, mentre la parte alta detta “villa” venne edificata addirittura verso la fine del 700, da un Budetta di Pugliano (Pendazzi). Questi tagliò a Sud la parte più antica della costruzione, tracciandovi la strada che, zigzagando, accede alla “villa”; in precedenza, l’originario palazzo Pico era stato allungato sino all’odierno “Spiazzo Consalvi”. È possibile che, ancora nel 1500, esistessero ruderi di mura (normanne) e che abbiano fatto da base alle successive costruzioni. • Lo stemma nobiliare dei Pico, apposto all’ingresso dell’antico portone principale, sul lato della Fontanella è rappresentato da un affresco di fattura ottocentesca, molto (troppo) simile a quello dei Budetta. Si spera vivamente che possa essere stato dipinto dopo l’estinzione della famiglia: infatti, sia il committente (Budetta), sia l’esecutore materiale dell’affresco, rappresentando una pica (gazza ladra) con le ali aperte (come l’aquila dello stemma dei Budetta) ignoravano che il “pico” non è il maschio della pica, ma è il picchio indicato con un termine aulico e latineggiante (picus) oggi desueto. Tra l’altro il picchio è un picide, mentre la pica è un corvide. Anche il Ricca (1859) “citando” lo stemma dei Pico, parla di una pica (“nobiltà del Regno delle Due Sicilie”) e non vorrei pronunciare una “bestemmia”,

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sommessamente rilevando che, nell’italiano volgare del XIV e XV secolo (e tuttora nel dialetto nostrano), il pico indicava il piccone (e non il marito della pica). • L’affresco nel “convento” di M. Pugliano: se l’illustre dott. Filippo Iorio forzò un po’ la mano alla storia a fin di bene e per amore della città natia, evitando che Montecorvino venisse oltraggiata da un autentico scippo della memoria del suo più grande figlio; a fin di stupidità e inutile vandalismo deve imputarsi all’amministrazione comunale di M. Pugliano di fine anni 50, lo scempio compiuto sull’affresco cinquecentesco di fronte all’ingresso principale del “convento” (dove tuttora è ospitata la sede comunale) proprio nel punto in cui era raffigurato Padre Giovanni da Montecorvino; per aderire ad una richiesta di “aria” per una stanza, venne aperta una “finestrella” che poi, a memoria d’uomo, restò sempre chiusa. Oggi il “buco” è stato eliminato; e un ben visibile strato di malta lo chiude, cancellando un paio di metri quadrati di storia, proprio laddove era raffigurato Padre Giovanni. (Inutilmente ho cercato una fotografia dell’affresco, anteriore al 1960). • Dolente nota: alla possibile obiezione che questa “disconoscenza” della discendenza (da molte fonti data per certa) dai Pico, di Padre Giovanni da Montecorvino, potrebbe “danneggiare” il turismo religioso, “sminuire” il valore delle targhe marmoree apposte sull’ex sede comunale e sulle mura della “villa” e rendere “incerta” la narrazione corrente; alla fine si potrebbe anche accondiscendere pro-bono pacis. Tenendo presente che la ricerca e la narrazione della storia dovrebbero – almeno alla lontana – attenersi ai documenti repertati e alla loro cronologia. Naturalmente, in sede storiografica, si possono avanzare supposizioni o intuizioni, ma esse vanno contenute nei limiti delle “eventualità”, senza volere deliberatamente modificare la realtà storica, per sostenere tesi astruse, anche se più “belle” e avventurose rispetto alla documentazione disponibile. In sede turistica e folkloristica, il discorso è diverso, ed è opportuno anche essere disposti ad infervorarsi alle “rievocazioni storiche” di Davide e Maria Teresa, spergiurando che il vero balcone di Giulietta e Romeo è quello alla frazione Ferrari (tanto lo fanno già i veronesi; e gli inglesi hanno imposto al mondo la favola di un impresario teatrale – analfabeta – come il più grande tragediografo di lingua inglese, anzi come il Dante Alighieri della lingua inglese). Sino a quando i Florio (padre e figlio) dovranno continuare a rivoltarsi nella tomba? • Il cognome di Padre Giovanni: né i confratelli contemporanei di Padre Giovanni, né i Papi Niccolò IV e Clemente V, né il Widding, né lo Spinazzola, né altri che hanno trattato la figura storica e religiosa di Padre Giovanni hanno mai fatto 21


cenno ad un “cognome” di Padre Giovanni (P.Teofilo Testa, P. Bonaventura da Fasano, un terzo frate non citato da T. Cerminare in “studi francescani” del 1929) prima che da M. Rovella, nel 1932, partisse la “scoperta” del cognome e della famiglia. • Nel sommario della virtù e del culto di Giovanni da Montecorvino della Santa Congregazione dei Riti (sezione storica) per l’inchiesta del Papa Pio XI circa la virtù e la santità del frate, dove è scritto “erroneamente ritenuto soldato, giudice e dottore dell’imperatore Federico II”, a pag. 1 è anche scritto “nacque nell’anno 1247 a Montecorvino di Puglia”. Evidentemente la Congregazione dei Riti nel 1927 si affidava unicamente agli scritti del Widding – prima versione della sua opera “annales minorum” -, che a sua volta si rifaceva al Codice Chiggiano (ove aveva messo le mani il Ceccarelli) che è una terza redazione delle cronache di fra Elemosina. Inoltre il Widding cita un altro “codice” scritto da Odorico da Pordenone, evidentemente un altro falso, sia perché Odorico da Pordenone non scrisse mai codici (né altro che ci sia pervenuto), sia perché tale codice è scritto su carta che all’epoca non esisteva ancora in Europa (V.N. Di Rienzo). • La parola “apulia”: soltanto nel “Codice Chiggiano” viene aggiunta la parola “apulia” a Montecorvino (quale città di nascita di Padre Giovanni), lo stesso codice ove aveva messo mano il Ceccarelli. Comunque all’epoca come “apulia” era indicato tutto il Sud Italia, e non soltanto l’attuale regione “Puglia”. In più resta l’ipotesi del vocabolo “pulianus”. L’umbro fra Elemosina tra il 1335 e il 1336 scrisse le sue “cronache” presenti in due codici: l’assisano e il parigino. Da questi “manoscritti” derivano altri due codici, il codice Corsini e quello Chiggiano, quest’ultimo è una copia del codice Corsini, scritto 200 anni dopo, nella “traduzione” del Ciccarelli (V.N. Di Rienzo). • I cognomi: in epoca romana, ogni cittadino maschio della classe patrizia aveva tre nomi: un prenome personale (Caio), un nome gentilizio (Giulio) e un cognome familiare (Cesare); quest’ultimo proveniva da un antenato (forse un bisnonno) che, durante le guerre puniche aveva ucciso un elefante (Cesar, in lingua fenicia): questo per Caio Giulio Cesare, portato come esempio. Spesso si aggiungeva un soprannome, talora laudativo (l’Africano, per Publio Cornelio Scipione), altre volte riferito al luogo d’origine (Marco Tullio Cicerone, l’Arpinate); le donne portavano soltanto il nome gentilizio. I plebei avevano soltanto il nome personale, spesso con un soprannome (normalmente dispregiativo) per distinguere tra omonimi, o seguito dal nome paterno. Con le invasioni barbariche, nel medioevo i nobili sopravvenuti ai latini venivano indicati con un nome, cui si aggiungeva un soprannome che ne esaltava la forza o le virtù (il navigatore, il conquistatore…); oppure al 22


nome si posponeva l’indicazione del luogo di provenienza o di conquista (d’Aquisgrana, d’Anjioux…). Per il popolo minuto, bastava solo un nome di battesimo, e per distinguere gli omonimi si aggiungeva il nome del padre, o del mestiere, o del luogo di provenienza, o di un difetto fisico (raramente di un pregio). Però già nel XIII secolo, alcuni appartenenti alla classe media (proprietari, navigatori, mercanti, banchieri, commercianti, armieri) usi a sottoscrivere contratti di lavoro, o obblighi di usura, cominciarono ad aggiungere al nome, un cognome (cumnomine) o un soprannome, per non incorrere in sgradevoli sorprese con clienti o committenti. Il cognome/soprannome solitamente era espresso con un termine positivo (bello, forte, ricco…). I religiosi accanto il nome adottavano il luogo di provenienza.; soltanto qualche religioso di nobile casato (o politicamente in auge) aggiungeva al nome quello identificativo della famiglia (es. il francescano Coevo di Padre Giovanni, fra Giovanni Marignolli). I cognomi vennero introdotti per obbligo di legge soltanto tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500, per motivi fiscali e di leva militare. Mentre i nobili continuarono ad usare uno o più nomi (di santi), anche più di tre, con un cognome (di provenienza, o del feudo, o di una battaglia), ai popolani si diede come cognome un solo vocabolo che restava fisso per tutta la discendenza (le donne, col matrimonio, aggiungevano al nome la preposizione “di” seguito dal nome del marito). Il primo popolano che assunse il cognome dal nome del padre, Pietro (di Pietro), lo trasmise anche ai figli e alle successive generazioni; i cognomi potevano anche derivare da mestieri (sarti), da oggetti di lavoro (zappa), da difetti fisici (zoppo), o dal borgo o città di provenienza (Salerno, di Napoli…). I rappresentanti delle arti liberali, i medici, gli alchimisti, gli astrologi, gli insegnanti, accanto al nome e al cognome, correntemente assumevano magniloquenti attribuzioni (il Grande, il Supremo, il Magnifico…) quanto meno per autopromozione, o per proprio compiacimento. Ma sostanzialmente, nel XIII secolo, all’epoca di Giovanni da Montecorvino, i cognomi non erano stati ancora inventati come obbligo di legge, i più nascevano in famiglie prive di cognome. Pertanto, sarebbe stato del tutto normale se Giovanni, in altri documenti estranei al sistema francescano che univa al nome, il luogo di provenienza del religioso, ad esempio, in un atto notarile dell’epoca, fosse stato indicato soltanto come Giovanni (figlio) di Siconolfo, o di Landolfo ecc.

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CAPITOLO 1 Il contesto religioso • Il francescanesimo e le eresie del XIII e XIV secolo.

Già verso la fine dell’anno Mille – passato il terrore per la fine del mondo – l’iniquità sociale era diventata così evidente che lo squilibrio tra le ricchezze possedute dalle nobiltà feudali e le condizioni miserrime in cui versava il popolo provocò il dissenso di autorevoli uomini di fede verso le gerarchie di Roma. Ad essi si unirono le proteste del basso clero, di qualche vescovo e di “artieri” e popolani. Maturarono ai vertici della Chiesa le premesse di una riforma, atta a salvare il patrimonio morale. Così si aprirono le prime spaccature politiche tra papato ed impero: da una parte l’aristocrazia laica ed ecclesiastica che, attraverso le “investiture” (le nomine) dell’imperatore nei gangli del potere politico (ed economico), intercettava gran parte delle rendite della Chiesa; e dall’altra, gli ultimi strati dello Stato feudale che premevano per una trasformazione dei rapporti politici ed economici, e in ultima analisi anche religiosi. Nacquero così le “lotte per le investiture” che erano un moto di popolo, che tuttavia raggiunsero anche il papato. Cinghia di trasmissione tra il popolo e il papato fu il nuovo clero regolare che aveva la forza numerica del popolo, l’origine “plebea” e l’entusiasmo e la forza delle nuove idee religiose. Il Papa Gregorio VII ebbe il coraggio e la forza di opporsi a quanti facevano mercimonio di uffici ecclesiastici, di spezzare i vincoli degli interessi familiari che facevano dei preti i dissipatori dei beni comuni. Proclamò l’elezione canonica del clero, e si resero temporanei, e non più ereditari, gli uffici ecclesiastici, ed elettivo lo stesso regno: si riservò al popolo il “diritto di insorgere verso il principe che violava il patto” (il diritto – come legge divina – di reagire contro gli ingiusti ordinamenti). Gregorio VII sciolse il popolo dall’obbedienza a Vescovi sposati, o che non facevano rispettare al clero le prescrizioni in merito. La “riforma” di Gregorio VII – giusta nei principi – provocò una frattura verticale nella Chiesa; le comunità si divisero tra difensori e contestatori della “riforma Gregoriana”. Falsi “maestri” andarono sicuramente oltre le intenzioni di Gregorio VII, sino a predicare le invalidità dei sacramenti amministrati da sacerdoti indegni, di non pagare le “decime”, di mettere al bando i Chierici non rispettosi della ortodossia romana, e di sostituirli con la propria persona. Tra costoro – monaci dei nuovi ordini religiosi legati a Roma, clero secolare vissuto col popolo, laici che esercitavano la libera predicazione della parola di Dio (ministero che all’epoca la Chiesa non aveva ancora vietato) – vi erano mistici sinceri, ma anche profeti di sventure, estremisti fanatici e visionari, e qualche 24


autentico folle. Ma nel complesso costituivano una grande forza rivoluzionaria che sorgeva dal popolo e che il popolo accettava volentieri (non ancora disobbediente verso le voci di Roma). Ma in questo quadro erano già insiti i germi dei dissidi futuri, che in Italia presero forma agli inizi del quattordicesimo secolo. Questa alleanza tra la Chiesa e il popolo minuto venne meno quando – cambiati i papi – alcuni “predicatori” cominciarono a contestare apertamente il pagamento delle decime, il pagamento per ricevere i sacramenti, la ricchezza dei vescovi e dei papi, l’autorità stessa del potere temporale. Cioè si cominciò a contestare al papato le medesime cose che Gregorio VII aveva contestato al clero corrotto, e – in crescendo – si richiese il ritorno (per tutti) alla povertà evangelica. Gli iniziatori dei movimenti ereticali furono molto spesso ex ecclesiastici provenienti dalla Chiesa di Roma (a volte con l’autorizzazione dei vescovi alla predicazione); altre volte erano “laici”, quasi sempre privi di cultura, ma capaci di parlare con la lingua del popolino da cui provenivano, e in grado di affascinarlo. Una delle sette ereticali più strutturate (tali da avere “vescovi” in Francia, in Italia, nei Balcani) fu costituita dai catari (i puri); essi formarono un gruppo che, in verità, poco aveva in comune col cristianesimo e con lo stesso tronco religioso dell’ebraismo; negava la incarnazione e la resurrezione di Cristo, respingeva il battesimo, le immagini religiose e la stessa Croce, canti e cerimonie di culto, gli edifici sacri, il Vecchio Testamento; e naturalmente predicava di non versare le decime, rifiutava le pene capitali, le guerre, qualunque atto di violenza, e la stessa struttura dello Stato (perché basato sulla forza). Il catarismo si diffuse, oltre che tra il popolo minuto, in ambienti clericali, tra la nobiltà, la piccola aristocrazia feudale e la borghesia cittadina. Papa Innocenzo III (1208 – 1213) promosse contro di loro una “crociata”, condotta da Simone di Monfort che li sterminò. Nel 1244 vennero bruciati sul rogo gli ultimi catari di Montsegur. La resa dei conti in Italia ci fu nel 1276: circa 200 eretici – rastrellati attorno al lago di Garda – furono bruciati insieme, in un unico grande rogo, nell’Arena di Verona. Ma, dopo i catari, i primi eretici furono gli eredi (degeneri) dei demagoghi gregoriani (Enrico di Tolone, Pietro De Buys, entrambi ex-ecclesiastici), Arnaldo da Brescia (che manifestò chiare idee ghibelline, in contrasto col papa). Nel XII secolo, Pietro Valdo predicò la povertà evangelica e la vita apostolica, i laici autorizzati a dispensare i sacramenti, la libertà di predicazione. Ma fu proprio in questo secolo che venne rinforzato il potere temporale, e la Chiesa si trasformò in una monarchia assoluta attraverso l’elezione canonica. Il papato, dopo aver concesso, con Gregorio VII, al popolo di poter insorgere contro un re ingiusto, riservò a sé stesso il giudizio sulla giustezza di tale insurrezione. Papa Innocenzo III dichiarò eretico il concetto che faceva discendere la validità del Sacramento della moralità del sacerdote. La Chiesa così si allontanò nuovamente dai suoi fedeli e attribuì alla massa dei suoi beni 25


attività spirituale, dichiarandola sacra. A metà del 1200 sono i Giuristi che reggono la Chiesa, e maestri di diritto furono Alessandro III, Innocenzo III, Innocenzo IV e Bonifacio VIII. I primi a staccarsi dalla Chiesa furono i seguaci di Pietro Valdo, nonostante ripetuti richiami di Innocenzo III e Lucio III. Simili ai Valdesi, i Taboriti; entrambi predicavano la povertà. Il Papa Innocenzo III riuscì a guadagnare all’obbedienza gruppi Valdesi (“poveri riconciliati”) riassorbiti successivamente in altri ordini religiosi. Gli umiliati richiamavano la storia dei Valdesi, e vi furono contatti e influenze reciproche. Anche essi si fecero riassorbire dalla Chiesa (ordine degli umiliati); coloro che restarono fuori dall’ortodossia si chiamarono “poveri Lombardi”. In questo contesto, in una regione come l’Umbria piena di catari e di altre sette ereticali, nacque il moto che prese il nome da Francesco d’Assisi, avendo come ideali direttivi la povertà, la vita apostolica, il risveglio delle anime con la predicazione. Non diversamente dagli umiliati, il francescanesimo impose il lavoro manuale; non diversamente dai Valdesi, la primitiva comunione francescana voleva l’unità di spirito tra uomini e donne. Ai “poveri Lombardi” corrisposero i “poverelli” di San Francesco. La rapida diffusione dei “minori” riproduceva la Chiesa primitiva e la vita degli Apostoli. E tutti i primi Francescani furono uomini privi di cultura, poco conoscitori delle scritture, ma eloquenti predicatori; così saranno i “fraticelli” quando i Francescani entrarono come predicatori nell’alta cultura del tempo. Le somiglianze tra il primo francescanesimo e talune sette ereticali (valdesi, umiliati, poveri Lombardi) dimostrano che le vicende e il destino dei promotori di quei moti popolari che predicavano la povertà evangelica spesso erano determinati, più che delle ideologie, da circostanze esterne che misero alcuni sulla strada della santificazione, altri sulla strada dei roghi. L’ulteriore sviluppo del movimento Francescano mostrò che una parte di esso si disciplinò in un vero ordine, fedele a Roma e strumento di repressione dell’eresia; un’altra parte, invece, conservò in sé stessa ed accrebbe il primitivo afflato pauperistico ed ereticale. E quest’ultima è la storia dei “fraticelli” e di altri settari che – tra il 1200 e il 1300 – si considerarono eredi nel pensiero Francescano, con una vita simile a quella di Gesù e degli Apostoli. Alla fine del 1200, si iniziò la persecuzione della Chiesa anche contro quei Francescani “radicali” che, formulando la dottrina della povertà evangelica, si erano “contaminati” col valdismo e col catarismo nella condanna di ogni possesso di beni terreni o diritti regali partendo dal rispetto rigidissimo della regola. I “Fraticelli” volevano che l’ordine e i singoli rinunciassero ad ogni proprietà. Scavalcarono anche l’interpretazione “opportunistica” di Gregorio IX che aveva attribuito la proprietà alla Chiesa e all’ordine il solo usufrutto. Si ostinarono a chiedere l’”uso povero” (ovvero la povertà pratica oltre che giuridica). Essi consideravano la vita povera come la vera vita evangelica, e volevano imporla non soltanto a loro, ma a tutta la 26


Chiesa. Diventarono così disobbedienti al papa, e quindi eretici. Questa fu la sorte dei “Fraticelli marchigiani” di fra’ Angelo Clareno (i clareni), e degli “spirituali”. Si ruppe così l’unità primitiva dell’ordine Francescano: gli “ortodossi” divennero i rigidi custodi del potere (politico) del papato. I “Fraticelli” divennero ribelli alla Chiesa di Roma. Così contemporaneamente, il papato procedeva all’approvazione dei “conventuali” (Francescani ortodossi), e alla persecuzione e ai roghi dei “Fraticelli” e “spirituali”. Nella seconda metà del 1200, emersero altre sette: il gioacchinismo, gli apostolici, i dolciniani. Il gioacchinismo nacque in Calabria, ad opera dell’Abate Gioacchino da Fiore. Costui sosteneva che a ciascuno delle tre persone della Trinità corrispondesse una delle tre epoche in cui si divideva la storia: l’età del padre, ovvero della servitù; l’età del figlio, ovvero del lavoro; l’età dello Spirito Santo, prossimo a venire, ovvero della libertà. Gioacchino da Fiore diede vita ad un vasto movimento, che influenzò sia ambienti ereticali che “ortodossi” alla Chiesa, comunque vicini al ghibellismo. Altri movimenti (flagellanti, saccati, britti, giambonisti), tutti simili tra loro, tutti simili a Valdo; con la costante di rifiutare ogni ordine religioso, spesso rappresentanti da mendicanti e vagabondi reclutati negli stati più bassi della popolazione; gli apostolici che vagavano senza lavorare, senza capi, senza confessare o assistere gli infermi, spesso accolite di oziosi e violenti. Il capo degli apostolici fu Gherardo Segallelli, che finì sul rogo; lo seguì Dolcino Tornielli, più conosciuto come fra’ Dolcino, nella cui predicazione spuntò la “comunione dei beni e delle donne”, la prossima fine del mondo, e la fine della Chiesa distrutta da Federico III d’Aragona. Contro i dolciniani Clemente V promosse una vera e propria crociata, cui venne opposta una resistenza armata. Dolcino finì sul rogo, come il suo ispiratore Segallelli in precedenza.

• Il nuovo monachesimo: i francescani.

Al principio del 1200, i nuovi ordini religiosi, che pur avevano avuto qualche radice in comune con sette poi definite ereticali, scesero in campo per la difesa della Chiesa di Roma. Il papato trovò nei francescani e nei domenicani lo strumento più idoneo contro le eresie, pur in presenza di differenze profonde di spirito dei due ordini (e la rivalità dei seguaci). Non è una novità affermare che San Francesco salvò la Chiesa di Roma, nel senso che lo spirito Francescano appagò e disciplinò coscienze ansiose, in attesa di uno spirito nuovo della Chiesa Cattolica, che altrimenti avrebbero potuto rafforzare (e non combattere) i movimenti ereticali; quando i canonisti e i teologi di Roma ormai non erano più in grado (se non con la violenza dell’Inquisizione) di 27


arginare un divampare di inquietezze ostili alla “monarchia assoluta” del papato. Il nuovo monachesimo – occupando nella Chiesa un posto centrale – comunicando ad essa uno spirito che le era proprio, comunque comune anche alla gran massa dei fedeli, l’aiuto a ricostruire l’essenza stessa della cristianità (la carità), e ristabilire, tra i credenti e la Chiesa visibile, un patto nuovo di fede e di fiducia. Il monachesimo riformato rifiutò il dominio di uomini e si accontentò del nudo possesso della terra da coltivare con laici e conversi. Le lotte politiche e militari – in Italia e in Europa – che avevano coinvolto la Chiesa Cattolica (trasformata dal potere temporale in una delle tante monarchie assolute dell’epoca), avevano anche separato il popolo credente tra Guelfi e Ghibellini (cosa che, sotto altre forme, dopo 800 anni tuttora perduta), seguendo una scia di sangue che non accennava a fermarsi, e lotte fratricide (autentiche guerre civili) infinite, nonostante l’incombente minaccia islamica. Il nuovo monachesimo fu mediatore e conciliatore tra la realtà della politica contingente e gli ideali evangelici. Mentre la politica e i suoi effetti (di cui il più evidente si concretizzava nelle guerre) restavano permanenti, gli ideali della religione venivano resi più accetti, perché animati da uno spirito nuovo di partecipazione ai fatti spirituali. I nuovi frati, i nuovi papi (anche francescani), i nuovi vescovi, i nuovi predicatori, come portatori di pace, e come ideale milizia combattente, sparsi in mezzo al popolo, nel vivo della realtà cittadina, costruirono un nuovo insormontabile argine a difesa della ortodossia Romana. Il nuovo monachesimo offriva ai credenti forme diverse di attività ed esperienze religiose, come ormai non riuscivano più a fare il vecchio monachesimo e il clero secolare: la vita attiva o la vita eremitica; la predicazione o la beneficenza. Più esso si differenziava dal laicato, meglio riusciva ad attivarlo ad agire tra esso. Con le missioni in terre lontane sconosciute, e i nuovi compiti di pacificazione sociale, la Chiesa riusciva a soddisfare anche le (legittime) tendenze individuali, lo spirito di avventura, il desiderio di conoscere il mondo, la volontà di azione che albergava in ciascuno individuo. Senza San Francesco, non ci sarebbe stato neppure Padre Giovanni da Montecorvino. Anche i nati di piccola origine potevano indossare il saio e cingere la corda, aspirare a più alti disegni, nella vita dell’ordine e della Chiesa nel governo degli affari ecclesiastici e nella guida delle folle. Minori e predicatori intorno al 1233 (anno dell’alleluia) quando erano da poco nati i due ordini andavano o erano chiamati, nelle città del Nord, a fare da “pacieri”; capeggiavano folle, taluni assumevano titolo di “podestà”, formavano statuti, richiamavano esuli, restauravano diritti violati e libertà ecclesiastiche, mandavano al rogo eretici irriducibili, tutto al sostegno nella curia romana contro gli Svevo-Normanni e Ghibellini. Questo nuovo monachesimo dilagò e, ovunque giungeva, lasciava i segni della sua presenza. Vecchie congregazioni eremitiche si riaggregarono o si fusero 28


con i nuovi venuti (come l’ordine eremitano dei frati di Sant’Agostino; gli eremitani di San Giacomo, i frati del Carmine…). Consorzi di Chierici si ricostituirono con nuove basi nella città e con norme precise di vita. Le città venivano colmate dalle fraterie nuove favorite da vescovi Francescani o domenicani che Gregorio IX, verso il 1230, inseriva sulle cattedre episcopali secondo un disegno già concepito quando era Cardinale – vescovo di Ostia, e nonostante una certa ritrosia dei due fondatori. Molte volte erano i consigli comunali che sollecitavano la loro venuta, offrendo persino le abitazioni ove riceverli. Mentre erano in decadenza i vecchi monasteri del tronco benedettino (cluniensi, cistercensi, vallombrosiani), si moltiplicarono i conventi dei frati Minori, fuori e dentro le città. Spesso le fraterie occupavano le parrocchie e ne esercitavano le funzioni (talora in contrasto coi Chierici). Si ebbe una vera e propria “colonizzazione” dei centri urbani, ove i frati svolgevano funzioni multiformi che avvolgevano tutto il laicato, assistendolo nel bisogno; dando la novità di nuovi riti, e nuove cerimonie; tenendolo sempre legato alla Chiesa, ai sacerdoti e alle idee che venivano professate, e soprattutto alla piena Fede nei nuovi dogmi del Concilio Lateranense IV (1215); diffondendo il culto dei nuovi Santi della Vergine, del Bambino Gesù, diffondendo il culto ecclesiastico, e la comunione frequente. I nuovi ordini monastici riportarono, al centro della vita degli agglomerati urbani, la vita religiosa in opposizione alle sette che avevano semplificato, in modo fantasioso, il culto svalutando la gerarchia e la Chiesa di Roma. Ovunque si costituirono, a fianco degli ordini, i terziari laici di ogni condizione sociale che si affiancavano ai Frati, dedicandosi ad opere di carità e religione, sotto la loro guida, ma continuando a vivere nel mondo. Specialmente numeroso l’ordine dei terziari Francescani, e poi conversi ed oblati che offrivano sé e i propri beni ad una Chiesa o a un monastero, o ad un ospedale, alloggiandovi e ricevendo cibo e vesti, obbligandosi ad obbedire al rettore, e a curare il bene dell’istituzione. Venne colmato il grande distacco che vi era in epoca medioevale tra clero e laicato, sotto le direttive della Chiesa. Molte le confraternite che si formarono, fra Chierici e laici, o di soli laici, anche di alto grado sociale. Le opere di misericordia, l’assistenza reciproca agli infermi, ai carcerati, ai poveri entrarono negli scopi di queste istituzioni, specialmente quando guerre, pestilenze, carestie spingevano verso il generale impoverimento. Anche la difesa della fede e la lotta degli eretici e ai sovversori, entrarono negli scopri di questi consorzi (con vicinanza alla Inquisizione). Uno spirito battagliero animava queste nuove associazioni, con una “milizia”, i cui militi di fede spesso concorrevano a piccoli “ordini religiosi-militari”, contro patarini e altre sette; in modo particolare furono i domenicani ad animare questi combattenti per la fede, con l’appoggio dell’aristocrazia Guelfa. All’inizio del XIII secolo si respirava nella città un’aria di “controriforma”, simile a quella ben più 29


potente che sarebbe avvenuta nel 1500, soprattutto laddove più forte era stata la presenza o l’influenza eretica (o Ghibellina). È l’epoca in cui i minori, gli umiliati, gli eremitani, facevano eccezione alla regola, ormai in valsa dappertutto, che escludeva gli ecclesiastici dalle cariche pubbliche. Ripresero le donazioni a Chiese e monasteri, e quindi anche il numero dei Chierici – più o meno genuini – di conversi ed oblati aumentò in modo esponenziale, ma soprattutto si moltiplicarono le “missioni” in terre lontane. In sintesi: il cattolicesimo (nonostante la corruzione dell’alto clero, le lotte politiche e le guerre a difesa del potere temporale del papato, presenti per tutto il Medioevo e anche oltre, eccetto la meritevole presenza di alcuni papi “veramente Santi”) venne salvato contro le eresie, dal caos politico-religioso e le rivolte popolari, grazie al francescanesimo (e - in misure minore – grazie agli “intellettuali” domenicani). Una “impresa” che fu umiltà, pace e predicazione, ma anche “coraggio”: San Francesco, scalzò, solo, vestito del saio, disarmato, si presentò – forte della sua Fede – al sultano d’Egitto Al Malik Al Kamil (quinta crociata 12171221) non per baciare corani, ma per ordinargli di convertirsi.

• I predicatori (eretici e non).

I “predicatori” delle sette ereticali erano solitamente persone di scarsa cultura (sia di teologia che di scienze giuridiche) anzi ritenevano inutile l’indottrinamento e lo studio come “cosa vana, giacché la somma di tutto è temere e amare Dio” (come si legge nella vita di Sant’Egidio). Anche Francesco veniva ritenuto “semplice e ignorante” (Nel 1209 Innocenzo III non concesse ancora una sanzione regolare all’ordine, pur autorizzando la propaganda morale e religiosa). Soltanto nel 1225, il Papa Onofrio III approvò le “regole” dell’ordine, nella stesura che il santo ne aveva fatto, dopo aver rilevato (ed essere intervenuto attraverso Pietro Cattani) su alcune deviazioni dei minori rispetto alla sua predicazione. Ma non era ancora morto il santo, che i Francescani si davano agli studi; gli uomini colti, afferivano ad essi dal laicato (come Giovanni da Montecorvino, solido di studi medici, giuridici e teologici), dando all’ordine quei mezzi di lotta, senza i quali, in un secolo di cultura come il XIII, non sarebbe stato nelle condizioni di continuarsi. Lo stesso frate Elia, vicario di Francesco, si occupava di alchimia (la “chimica” dell’epoca). E, dopo Francesco, i minori si arricchirono di teologi, enciclopedisti, predicatori, autori di opere storiche universali, poeti, cantori, musici, persino lettori all’Università di Parigi. Anche in qualche setta ereticale, era possibile che emergessero figure di intellettuali (come il frate Angelo Clareno, che conosceva il greco e dal greco 30


traduceva scritti di San Basilio e San Macario); ma in genere erano uomini di piccola condizione e di impalpabile cultura che, con grandissima passione, predicavano e facevano propaganda, leggevano e spiegavano Vangeli che venivano tradotti in volgare (cosa all’epoca vietata o quantomeno non ben vista dalla Chiesa; ma che Padre Giovanni comunque faceva in Cina; tanto più che sarebbe stato alquanto difficile far leggere il latino a un cinese o a un mongolo), e che erano in grado, comunque, di tener testa, nell’argomentare e ribattere alle accuse, anche ai più accorti inquisitori. Uomini sdegnosi della Chiesa terrena, che vagheggiavano una “Chiesa primitiva”, che operava in ambienti “popolari”, rappresentavano uno sforzo di elevazione, negando la validità degli atti di culto, delle offerte, delle pratiche espiatrici; ritenevano inutili gli atti di ossequienza al clero, e i miracoli possibile solo per volere di Dio, senza che il beneficato potesse favorirli con preghiere, o col versamento di offerte oppure con pratiche espiatrici; invocavano il diritto di predicare e diffondere la parola Divina, maledicevano la ricchezza e la potestà della Chiesa. Per forza del “contagio” che era insita in tutte le sette ereticali del Medioevo; anche la figliolanza più o meno degenere di Francesco d’Assisi (fraticelli, bizochi, beghini, clareni) nell’Italia centrale, specialmente nell’Umbria, si faceva fautrice di una Chiesa primitiva e povera, che in effetti negava – nella sostanza – il potere temporale della Chiesa; le sette in tale modo, spesso si avvicinavano al ghibellinismo, contemporaneamente davano alla Chiesa di Roma la potestà di scomunicarle in quanto “ghibelline”, e di scomunicare i Ghibellini in quanto “eretici”. Ma dopo Gregorio VII, già nel XIII secolo la Chiesa si andò organizzando attraverso una gerarchia, al di sopra e al di fuori dei fedeli: le elezioni vescovili diventarono sempre più elezioni papali, clero e popolo ne venivano tenuti fuori. Il diritto popolare di partecipare alla amministrazione dei beni ecclesiastici veniva negato in nome del principio che “nessun laico deve toccare ciò che appartiene alla Chiesa” e veniva esplicitamente negato al popolo il diritto di giudicare il comportamento dei sacerdoti (pur riconosciuto da Gregorio VII contro i Chierici concubinari e simoniaci) in tale epoca; la Chiesa venne ad identificarsi col papato, fonte esclusiva del diritto ecclesiastico (discendente dall’alto), come in una monarchia assoluta; senza la mediazione della Chiesa\papato , all’uomo non solo era negato ogni diritto alla proprietà dei beni, ma restavano per lui chiuse anche le porte celesti; di fronte alla Chiesa/papato, i fedeli diventavano “sudditi”, ma con Innocenzo III la sudditanza divenne servitù. Come “servi e coloni”, tutti erano considerati nella piena disponibilità del Vicario di Cristo, per cui al papato veniva aggiunto un diritto universale di espropriazione, completamente negando il pensiero e l’opera di Gregorio VII e la sua disposizione ad esaltare gli uomini sui potenti. La Chiesa si allontanò dai bisogni materiali del popolo, presa a battagliare 31


con le potestà laiche, fra le armi e le scomuniche, per rivendicare potere e beni terreni; troppo lontana da quel Gregorio Magno che si proclamava soltanto “amministratore e procuratore” delle sostanze dei poveri; restava inascoltata anche la voce di Bernardo da Chiaravalle. La Chiesa che, intorno all’anno Mille, aveva promosso e favorito l’affrancamento dei servi, era stata larga di concessioni di terre ai livellari (primo nucleo delle future comunità rurali), contro la feudalità laica, destando la coscienza di un diritto proprio, tra contadini, servi ed artigiani; ora era diventata autoritaria e conservatrici, innanzitutto nei suoi domini patrimoniali. Tutto ciò pose le basi alle violente rivolte contadine del secolo successivo, che squassarono l’intera Europa. In questo crogiuolo di lotte per la proprietà dei beni terreni tra impero e papato, in un mezzo stava il popolo affamato ed umiliato, tra cui spuntarono e si svilupparono le “eresie”, tutte aventi in comune alcuni elementi religiosi e morali: la richiesta alla Chiesa di ritornare alle comunità dei fedeli; la capacità di ogni Cristiano a somministrare i sacramenti e a predicare la parola di Dio; la restaurazione della vita apostolica; l’obbligo di lavoro manuale ai pastori delle comunità; il rifiuto dei libri sacri in latino; il richiamo ai Vangeli, per negare ogni potestà terrena e la persistenza delle pene corporali versi i servi; la negazione di ogni tributo allo Stato, e delle decime alla Chiesa. “Ignoranti ed idioti” erano chiamati gli eretici dai loro avversari; quasi tutti fabbri, sarti, tessitori, contadini, scardassieri, e attorno ad essi una gran massa di amici, simpatizzanti, protettori, usciti da tutte le classi. Naturalmente quando arrivò la persecuzione, tutti costoro scomparvero, e restarono soltanto gli eretici e i contadini a mostrare il loro fanatico eroismo, e le loro richieste di esplicite rivendicazioni sociali: affrancamento dalla servitù della Gleba e conquista della proprietà “in nome del diritto divino”.

• La scomunica.

Gli effetti della scomunica per i nobili – oltre ai supplizi da scontare nell’altra vita – erano degli strumenti di offesa e di rigore “ad personam”: il bando ecclesiastico sui loro beni; l’assoluzione degli ufficiali pubblici dal giuramento allo Statuto, e dei cittadini all’obbligo di obbedienza al podestà o all’imperatore; la revoca dei feudi ricevuti dalla Chiesa oppure dai monasteri; la sospensione della diocesi o il trasferimento del vescovo in altra sede; l’invocazione del braccio secolare (in pratica, lo scatenamento di una guerra di città contro l’altra). Per i popolani, vi erano la privazione degli onori e dei benefici della convivenza in una comunità, ovvero l’interdizione dall’uso dei pascoli oppure dei boschi, delle fontane, dei mulini, a 32


volte anche dei ponti e delle vie pubbliche. Si vietava ai privati di fittare case agli scomunicati, di render loro servizi professionali, di prestar loro personale ossequio. Quando si trattava di scomunica laicale, si annullavano i rapporti giuridici e religiosi tra i prelati e gli uomini delle loro terre, si allontanavano i fedeli dalle funzioni religiose, si vietava di dare loro le decime e le oblazioni volontarie; quando la scomunica riguardava i Chierici, si negava loro la giustizia contro i laici nei tribunali secolari, mentre si assicurava la impunità a chiunque ne manomettesse la persona o i beni ecclesiastici. Recordman dei collezionisti di scomuniche, fu l’imperatore Federico II di Svevia che subì cinque scomuniche!

• La Chiesa “primitiva”.

La richiesta delle sette ereticali – tra il XII e il XIV secolo – di un ritorno alla “Chiesa Primitiva” merita un breve commento, a sua esplicazione. Quanti predicavano il ritorno ad una Chiesa uguale a quella di circa 1000 anni prima – pur volendo concedere loro la buona fede di una visione più umana e “povera” della religione cattolica – erravano in modo sostanziale per due motivi: 1) la Chiesa “primitiva”, pur riuscendo ipoteticamente a ricrearla, non sarebbe stata compatibile con la struttura teologica e morale, che già definitiva il cattolicesimo del XII e XIV secolo; non si potevano rigettare quei valori culturali su cui era cresciuto il cattolicesimo, per abbracciare la “narrazione” di un’epoca ormai lontana più di 1000 anni, se non per voler abbattere non solo il papato, ma il cattolicesimo “in toto”. 2) né nella religione, né nella politica, né nell’arte, e meno che mai nella scienza (ovvero nella “conoscenza”) si può invocare un ritorno al passato, o qualsiasi restaurazione, per la ragione semplicissima (e unica) che “il passato non può essere ricostruito nel presente”. A titolo di chiarimento, è necessario fare un breve excursus sulla “Chiesa primitiva”, che pure aveva avuto i suoi Santi e i suoi Martiri, ma non aveva più ormai alcuna saldatura con la società formatasi dopo l’anno Mille. Le prime “ecclesie” erano le piccole comunità di fedeli, sparse ovunque fosse giunta la predicazione degli Apostoli. A capo della “comunità” (ecclesia) vi era un presbitero, cioè un prete liberamente scelto dall’assemblea dei fedeli. Ad assisterlo vi erano i diaconi, i suddiaconi, gli accoliti, i lettori e gli esorcisti (a questi ultimi erano affidate le “cure” per gli ossessi, cioè per i “posseduti” dal demonio che, in termini moderni, oggi si chiamano epilettici e schizofrenici). Nessuna di queste funzioni costituiva un mestiere o una carriera, e ciascuno prestava la propria opera gratuitamente. A fianco ai diaconi vi erano le “diaconesse” (quasi sempre vedove) 33


che si occupavano dei poveri e dei malati. Il presbitero rispondeva della propria condotta a Dio, e ai fedeli che lo avevano eletto. Moltiplicandosi le “ecclesie”, i presbiteri finirono per eleggere un “Episcopo”, un vescovo che ne coordinava l’azione. Nel IV secolo cominciarono ad apparire i primi arcivescovi, i metropoliti e i primati, che erano i supervisori dei vescovi. Finché in 5 città venne installato un “patriarca”: Roma, Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria. Il patriarca di Roma si chiamò papa (ma il titolo veniva usato anche da molti vescovi), e il papa di Roma era soltanto il vescovo di Roma, eletto dal clero e dal popolo di Roma. Sin dalle origini venne stabilito che i presbiteri non potessero avere meno di 30 anni, e gli episcopi meno di 50. La comunione avveniva con pane e vino, e poteva essere ricevuta solo dai “battezzati per immersione”, le confessioni avvenivano in pubblico. La Chiesa condannava la magia, l’astrologia, l’aborto, l’infanticidio, l’adulterio, la prostituzione e la omosessualità (tutte cose lecite, nella società pagana e in quella odierna!), i preti erano liberi di prendere moglie; ma nel 306 un canone del sinodo di Elvira proibì agli ecclesiastici di sposarsi; il divieto restò lettera morta per lunghi secoli. Il divorzio era ammesso, soltanto su richiesta della moglie se essa era pagana. La schiavitù era tollerata, ma agli schiavi era interdetta la vita ecclesiastica. Nel 325 il Concilio di Nicea vietò ai parroci di tenere in casa donne giovani. Nel IV secolo si diffuse il culto delle immagini, il traffico delle reliquie, che portò a conflitti tra papato, bizantini e longobardi. Soltanto nel V secolo, si cominciò a parlare del “primato” del patriarca di Roma, sui patriarchi di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria. I chierici costituivano un ordine, inferiore ai preti, le cui regole variarono più volte nella storia, anche in relazione al matrimonio. In genere, potevano sostituire i sacerdoti, anche nella dispensazione dei sacramenti.

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• L’inquisizione.

Gli inizi dell’Inquisizione, ovvero dell’applicazione della giurisdizione ecclesiastica alla ricerca (e punizione) degli eretici, avvenne il 1184; ad opera di Innocenzo III nel 1215, e poi di Gregorio IX nel 1231 venne più compiutamente regolamentata. Nel 1231 Gregorio IX la sottrasse al controllo dei vescovi, e la mise alla propria diretta dipendenza, affidandola poi ai domenicani (1236). Dopo la morte di San Domenico, Innocenzo IV ne estese la competenza ai Francescani (1246). L’attività dell’Inquisizione durò intensa nei secoli XII e XIII, diminuì nei due secoli successivi; per riaccendersi vieppiù violenta nel sec. XV in Spagna, contro ebrei e musulmani, e nel XVI e XVII sec. contro i protestanti. A Roma fu istituita da Paolo III (1542), e riorganizzata da Sisto V nel “Santo Uffizio” (1588). I teologi del tempo mentre dichiaravano di non poter definire perfettamente cosa fosse Dio, in suo nome comunque dettavano agli uomini le regole di condotta e le leggi, e non esitavano a bruciare sui roghi quanti le loro leggi non erano in grado di capire o di seguire. L’Inquisizione – nata come “difesa” della Chiesa contro le “deviazioni” ereticali – si trasformò rapidamente in strumento di coercizione (e di terrore) verso il popolo minuto (il più sensibile alle “predicazioni” dei movimenti ereticali, per ignoranza e per patimenti) e verso quei monarchi – non disposti alla totale sottomissione al potere temporale del papato. Pur dovendo riconoscere alla Chiesa il diritto a difendersi dalla eterodossia (religiosa o politica), non si può in alcun modo sottacere i “sistemi” inquisitoriali tesi, ancor prima del contrasto e della neutralizzazione del “nemico”, alla cancellazione della sua memoria e della sua “dignità umana” con accuse abiette (che – sotto tortura – diventavano “confessioni”), giustificative sia della soppressione che dei supplizi. La damnatio memoriae delle vittime (e la giustezza della loro eliminazione) era determinata dai loro “crimini”; nessuno avrebbe potuto capire che il monaco “eretico” veniva condannato perché voleva essere “troppo” povero; ma il popolino capiva (e giustificava) i roghi dei sodomiti, degli assassini di bambini, delle “amanti” di Satana. Le “confessioni” degli eretici oggi rappresentano la mentalità malata e criminale degli inquisitori. Gli inquisitori e i teologi sostenevano che le torture inflitte ai presunti “eretici” non procuravano loro alcuna sofferenza; le urla di terrore, di disperazione e di dolore emesse dai malcapitati (quando erano ancora in grado di emetterle, cioè se non avessero “preventivamente” subito la perforazione della lingua con un chiodo o uno stecco) erano dovute alle sofferenze inflitte al demonio; Ovvero il torturato non avvertiva alcun dolore, perché la tortura era subita dal demonio che lo possedeva. Lo strappamento delle carni con tenaglie roventi, la dislocazione delle articolazioni, la 35


frattura delle ossa, l’accecamento – come sostenevano torturatori, inquisitori e teologi – colpivano unicamente Belzebù. E se, sotto tortura, il presunto “eretico” moriva, la colpa era sempre del demonio che, per fare un dispetto agli inquisitori, lasciava il corpo del malcapitato, uccidendolo. Tutto a posto; una sentenza di una sezione estiva della Cassazione non avrebbe potuto fare di meglio.

• La Chiesa Avignonese.

La Chiesa di Roma che già aveva chiamato, in Italia, i Franchi di Carlo Magno contro i Longobardi che stavano tentando di saldare, territorialmente, i loro domini a Sud con quelli a Nord (creando, dopo la caduta dell’impero romano, un primo tentativo di unificazione dell’Italia); contro il “pericolo” che gli Svevo-Normanni realizzassero uno stato unitario nel meridione, chiamarono nuovamente i “re Franchi”, che sconfiggendo Manfredi prima, e Corradino di Svevia poi, si insediarono nel Sud del territorio italiano. Naturalmente la “protezione” di Carlo d’Angiò si trasformò – verso il papato – in controllo e, col trasferimento della Santa Sede ad Avignone, in detenzione e sottomissione. Con l’elezione di Clemente V – voluta dal re Filippo IV “il bello” – la Santa Sede venne immediatamente trasferita, sotto lo stretto controllo e agli ordini della monarchia francese (1309). La stessa nomina ad arcivescovo di Pekino di Padre Giovanni (con poteri clamorosamente simili a quelli di un papa), non poté non avvenire senza il consenso del monarca e – a parere dello scrivente – con l’intento di saldare l’alleanza coi mongoli soltanto (e soprattutto) con la monarchia francese. Ma poiché l’imperatore Guyuk non aveva né la necessità di convertirsi né, dopo la caduta di San Giovanni d’Acri, di riaprire le vie per l’Asia ad uso di monarchi che non conosceva, e che comunque erano in precedenza restati sordi alle richieste di alleanza fatte dai Khan Argone ed Aitone II, non diede seguito a qualsiasi ulteriore tentativo del papato di “coinvolgere” i mongoli nelle strategie della politica francese nello scacchiere europeo. La soppressione fraudolenta dell’Ordine dei Templari (a sostegno dei crimini di Filippo il bello), la lunga lotta contro Ludovico IV il Bavaro, sostenuta prima con Clemente V e poi con Giovanni XXII) piegò completamente la Chiesa di Roma agli interessi della monarchia francese, rendendola non più istituzione sacra e pacificatrice, ma complice di interessi terreni, neppure tanto legittimi e per niente spirituali. Soltanto nel 1377 Santa Caterina da Siena persuase il Papa Gregorio XI a riportare la corte pontificia a Roma; in tal modo rese un atto di grandissimo soccorso alla Chiesa (destinata altrimenti ad estinguersi, quantomeno nella sua connotazione ecumenica); 36


giustamente la Chiesa la riconobbe santa (lo scrivente dubita che il ritorno della Chiesa e del suo potere temporale a Roma, abbiano portato benefici all’Italia nei secoli successivi).

Federico II di Svevia e statua di marmo dello stesso.

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CAPITOLO 2 • La situazione politica nell’Italia meridionale ai tempi di Padre Giovanni (svevo-normanni, angioini e papato).

Negli anni della giovinezza di Padre Giovanni, nelle regioni meridionali dell’Italia, si andava stabilizzando il potere degli angioini, sostenuti dal papato. Già con Innocenzo III, la Santa Sede aveva sostenuto la propria supremazia “politica” sull’Italia, e sugli altri stati d’Europa, assumendo i caratteri di una “monarchia universale”. “Il successore di Pietro, pur essendo meno grande di Dio, e più grande dell’uomo, noi siamo stati messi da Dio al di sopra dei popoli e dei regni…” affermava Innocenzo III. La lotta per la successione ad Enrico VI, re di Germania, aprì le porte all’interferenza dei papi nella politica dell’impero, fino a favorire la elezione di Federico II (Innocenzo III era stato il “tutore” di Federico, durante la minore età), in cambio del controllo della Sicilia, e di una “crociata” per la liberazione del Santo Sepolcro. Invece, mentre diventava pontefice Gregorio IX (succeduto al breve pontificato di Onorio III, che aveva incoronato Federico II), l’imperatore proprio in Sicilia si impegnò a costruire uno stato, secondo l’ottica del nostro tempo., estremamente moderno. Dopo aver “evitato” una crociata promulgata da Onorio III, dichiarandosi “infermo”, nel 1227 Papa Gregorio IX lo scomunicò, avendo ulteriormente indugiato; partito finalmente per la promessa crociata, aveva fatto rapido ritorno per una “pestilenza”. Per cui nel 1228, fu costretto ad indire una nuova crociata (la sesta), e partire per la Palestina. Ivi, riscattò i cristiani ridotti in schiavitù, fu incoronato “re di Gerusalemme” e – senza combattere – si accordò col sultano d’Egitto Al Malik Al Kamil, ottenendo il libero passaggio dei pellegrini verso i luoghi santi. Gli giunse così una nuova scomunica. E poiché il titolo di “re cristiano di Gerusalemme” Federico II se lo tenne, risultò che il “re cristiano di Gerusalemme” fosse uno scomunicato! Il papa, in rivalsa, fece occupare la Sicilia. Federico intervenne militarmente, e ristabilì la situazione in suo favore. La pace però non poteva durare ulteriormente, in quanto la politica del papato era determinata a dividere la corona reale di Sicilia, da quella imperiale (del sacro romano impero), per impedire che i territori in possesso del papato risultassero completamente circondati dalle forze imperiali. Alla morte di Gregorio IX, salì alla cattedra di Pietro Innocenzo IV che, nuovamente, scomunicò Federico II che, infine, morì nel 1250, riuscendo – nella sua vita – a diventare recordman mondiale (mai superato) delle scomuniche: ne collezionò 5! I normanni che, pervenuti verso l’anno Mille nell’Italia meridionale con Rainulfo Drengot, conte d’Aversa (1030) dapprima come “mercenari”, poi come 38


“alleati” dei longobardi e, infine, come principi dominanti (attraverso matrimoni, e vere e proprie usurpazioni) allargarono e rafforzarono a proprio favore i precedenti domini longobardi. Con gli “Altavilla” avevano posto le basi per l’unificazione dell’Italia meridionale, liberano la Calabria e le coste pugliesi dai bizantini, e cacciando gli arabi dalla Sicilia. Come precedentemente i longobardi, anch’essi assunsero il titolo di “protettori del papato”. Per complicate procedure di successioni dinastiche, gli svevi (famiglia degli Hohenstaufen) erano entrati in possesso della corona della Sicilia con Enrico VI di Svevia (1149). Federico II, figlio di Enrico VI di Svevia (a sua volta figlio di Federico I “il barbarossa” e di Costanza di Altavilla) non fu soltanto un abile politico ed un audace condottiero, ma anche una figura di ampia apertura culturale; a contatto con la civiltà araba, latina, normanna e greco-bizantina, diede vita ad una esperienza di governo unica nel suo genere (tenendo conto del periodo storico), dimostrando tolleranza e disponibilità alla “contaminazione scientifica”, filosofica, letteraria degli “altri”: nel suo regno vi era uguaglianza giuridica tra musulmani e cristiani; il Corano restò base giuridica per gli arabi, mentre il diritto romano lo fu per i latini e i cristiani; le leggi longobarde e franche restarono valide, rispettivamente per i sudditi longobardi e franchi. Creò lo “studio di Napoli” che fu un centro importante per le scienze giuridiche, incoraggiò e potenziò la “Scuola Medica Salernitana”; riconobbe e appoggiò filosofi, letterati e scienziati, come il matematico Leonardo Fibonacci, che introdusse l’algebra e la geometria degli arabi, in occidente. Ebbe il merito di “incoraggiare” a corte la “scuola poetica siciliana” che introdusse la lingua italiana, elevandola dal “volgare” dei vari dialetti (ma i libri scolastici ci insegnano che la lingua italiana è stata “inventata” dai fiorentini… 100 anni dopo!); greco, latino ed arabo – con pari dignità – furono le lingue ufficiali del regno, senza preminenza di una sulle altre. Con la morte di Federico II, si iniziò il tramonto della potenza svevo-normanna. Il figlio naturale (mai riconosciuto) di Federico II, Manfredi, ne seguì la politica contro le ingerenze del papato, elevandosi a capo del ghibellinismo italiano, ed ottenendo l’appoggio della famiglia Aragonese di Spagna. Papa Clemente IV (Guido Gros de Saint Gilles, francese, 1265-1268), già segretario del Re Luigi IX, timoroso che la politica di Manfredi potesse limitare l’influenza de papato in Italia (ovvero il potere temporale dei papi), chiamò Carlo d’Angiò, fratello del Re santo Luigi IX di Francia, ad impadronirsi del napoletano e della Sicilia ed espellere gli Svevi, offrendogli l’investitura e la corona (i Normanni, “giuridicamente”, risultavano essere Vassalli del papa) in cambio di un tributo annuale. Ancora una volta (non sarebbe stata l’ultima), come 5 secoli prima, il re dei “Franchi” veniva chiamato in Italia a difesa del potere temporale del papa. Manfredi morì nel 1266, nella battaglia di Benevento. Il suo corpo venne sepolto in prossimità di un ponte; il vescovo di Cosenza lo fece 39


dissotterrare, e ordinò che i suoi resti venissero dispersi. Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV imperatore di Germania, si spinse in Italia contro Carlo d’Angiò; vittorioso ad Arezzo, venne sconfitto a Tagliacozzo (1268), fu fatto prigioniero e, su ordine del re Angioino, fu decapitato l’anno successivo, a Piazza Mercato, a Napoli. Con lui si estinse la dinastia Sveva. La sua testa mozzata fu spedita “in tournée” presso la corte di Francia. Gli angioini riproposero nell’Italia meridionale gli usi della propria economia feudale, legando fortemente i contadini alle terre (servitù della gleba); accentuando l’arretratezza delle campagne e aggravando, con un fiscalismo esoso, la decadenza economica e politica del Mezzogiorno; proprio mentre nel centro e nel settentrione d’Italia si andavano formando i comuni e le signorie del “Rinascimento”. I servi della gleba erano legati alle terre padronali, e con la loro famiglia erano “venduti” oppure ceduti insieme alla tenuta cui erano addetti, considerati come “accessori” ai terreni coltivabili. L’amicizia tra papato e regno di “Franchia” salvo brevi periodi storici (Bonifacio VIII, Napoleone Bonaparte) durerà – con interventi armati sul suolo d’Italia – a tutto il 1849 (contro la repubblica romana); essa è tuttora esistente, a livello diplomatico-politico, dopo essere iniziata contro i longobardi. La dominazione angioina in Sicilia durò fino al 1282 quando, con la rivolta dei “vespri”, i siciliani si liberarono della “malasignoria”, e la Sicilia divenne indipendente. Ma l’amicizia aragonese, prima si trasformò in protezione e, rapidamente, poi in dominazione. Precedentemente agli svevo-normanni, la Sicilia era appartenuta agli arabi (che l’avevano conquistata ai bizantini tra l’827 e l’878, mantenendola fino al 1060). Gli arabi di Sicilia avevano creato un sistema di tolleranza culturale, politica e religiosa verso le popolazioni residenti (bizantini, cattolici, ebrei), che fu continuato dagli svevo-normanni. I normanni e gli svevonormanni, dal 1060 fino al 1266, letteralmente si dissanguarono (scomparvero intere famiglie della nobiltà) nelle crociate indette dal papato (dalla prima crociate nel 1096 con Boemondo d’Altavilla, fino alla sesta crociata di Federico II nel 1229) e nella difesa degli effimeri “regni crociati” strappati ai musulmani in medio-oriente. Ne ebbero in cambio scomuniche, guerre, persecuzioni e vendette (anche dopo la morte).

Nota: Il Vescovo di Cosenza era presso l’esercito di Carlo d’Angiò quale “nunzio papale”.

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2) La struttura feudale.

Le strutture politiche dei Longobardi, dei Franchi, dei Normanni (con molte, ma non sostanziali differenze) erano basate sul feudo, al cui vertice c’era il “principe” (il re o l’imperatore). La legittimazione del re o dell’imperatore era nelle mani del papa, attraverso l’incoronazione (sia per le monarche elettive che per quelle dinastiche). Soggetti al re erano i principi, i capitani (o Valvassori maggiori) e Valvassori minori, divisi in numerose sottoclassi di feudatari minori. I rapporti tra feudatari erano regolati dal re (o dall’imperatore). Alla corte del re e dei feudatari, c’erano i funzionari (simili agli odierni ministri), con incarichi e denominazioni varie; di solito questi ultimi erano dei nobili, o condottieri militari o figli e parenti di costoro, ma anche esponenti del clero, e non-nobili ma con salda preparazione giuridicoteologica. I feudi nobili (contee, marchesati) venivano assegnati soltanto a coloro che ne avessero avuto diritto per uffici prestati in azione di guerra, o nella vita di corte. Il feudatario, nel suo feudo, esercitava un’autorità simile a quella del re. La popolazione non soggetta alla gerarchia feudale era rappresentata dai proprietari, livellari, coloni e servi su cui gravano tutti gli oneri fiscali. I feudatari – per l’istituto della “immunità” – non aveva oneri fiscali, ma obblighi militari verso il re in caso di guerra (a seconda delle rendite del feudo, un determinato numero di fanti, arcieri, cavalieri – naturalmente con le armi fornite dal feudatario/condottiero – un determinato numero e tipo di macchine da guerra, o di navi in caso che il feudo fosse fornito di un porto).I proprietari possedevano terre, senza legami feudali. I livellari erano uomini liberi cui il feudatario concedeva di coltivare un suo terreno, dietro pagamento di somme modeste, e per tempi determinati. I coloni, a differenza dei livellari, non potevano abbandonare la terra, né potevano disporre pienamente dei propri guadagni, perché il feudatario su di loro vantava alcuni diritti fiscali (tassa sul matrimonio, tassa di successione…). Il gradino più basso della società era occupato dai servi, divisi in “ministeriali” (al servizio personale di un feudatario o in un edificio di proprietà padronale), e in “casati” (semplici coltivatori delle terre del signore). È chiaro che, in tale contesto, tutta l’economia del feudo si basasse sull’agricoltura, e gli stessi scambi commerciali avvenissero prevalentemente all’interno del feudo.

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Castello Arechi di Salerno

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CAPITOLO 3 • La vita del popolo minuto tra il XIII e il XIV secolo.

Al lento inserimento dei normanni nei territori del mezzogiorno, era seguito un miglioramento delle condizioni sociali delle popolazioni. Le campagne si arricchirono di castelli che difendevano le terre coltivate e i contadini da attacchi esterni (saraceni e razziatori in genere), e ne amministravano la giustizia. Soprattutto lungo le zone rivierasche le popolazioni furono poste nelle condizioni di essere difese dalle continue incursioni “saracene”, in cerca di donne (per gli harem) e di bambini da istruire come “giannizzeri” (combattenti fanatizzati, carne da macello per le prime linee) o come enunchi – guardiani negli harem. All’epoca, la merce più preziosa sui mercati islamici era costituita dagli schiavi; d’altronde quando veniva assaltato un villaggio di pescatori o contadini, oltre le poche derrate alimentari, i Barbareschi non trovavano certamente oro, argento o altri preziosi. Perciò lo schiavo costituiva un bottino pregiato. La Chiesa, naturalmente, dettava legge in fatto di “morale” o di politica, attraverso vescovi, parroci, predicatori, favorendo o combattendo (dall’investitura alla scomunica) questa o quella dinastia nobiliare; in sostanza, provvedeva a stabilizzare l’ordine interno del potere politico, tenendo presente che una “scomunica” papale comportava, per il regnante, la perdita dell’obbedienza (e del pagamento dei tributi) che gli dovevano i sudditi. Coi Normanni si ebbe una vita sociale più ordinata ed organizzata, cui seguì un notevole incremento demografico che terminò bruscamente nella prima metà del XIV secolo, con la comparsa della “peste nera” che, in pochi anni, ridusse di un terzo la popolazione. Tuttavia restò sempre molto alta la mortalità infantile (il 50% dei nati vivi non giungeva alla soglia dei 10 anni). Diffuso era l’abbandono dei bambini. Le donne morivano frequentemente di parto, e quelle che avevano la fortuna di arrivare alla menopausa avevano, mediamente, partorito 10 volte. Gli uomini invece morivano (oltre che di malattie) in guerre, in scorrerie di razziatori, o in contese locali (tra familiari, o con cittadini di borghi confinanti) per il possesso o la coltivazione di terreni. La scienza medica non era riuscita ad esprimersi oltre i dettami di Galeno e della medicina greca e romana. Molte novità invece vennero dalla “Scuola Medica Salernitana” che raccoglieva, oltre le cure tradizionali tramandate dall’antichità, rimedi provenienti dal popolo minuto delle campagne e, su impulso federiciano, le conoscenze mediche di ebrei, greco-bizantini, arabi (e attraverso gli arabi, nozioni mediche derivate dalla medicina indù e medioorientale). Negli strati popolari, ove quasi sempre non c’era nelle famiglie la 43


possibilità di pagare il medico, le “cure” erano fornite da fattucchiere e negromanti locali, con riti propiziatori, preghiere ai “santi guaritori” (Gervasio e Protasio, Cosma e Damiano…) penitenze e “impacchi” delle più stravaganti “reliquie”. La vita media era di 50 anni. La parte più povera della popolazione era uccisa dalle malattie rese più gravi dalla malnutrizione, i nobili e i benestanti morivano per l’eccesso nella dieta di carne e di grassi, aggravato dalle “cure” dei medici. La maggior parte della gente che viveva nelle campagne era alle dipendenze dei “padroni delle terre” (nobili e clero). I vecchi modi tradizionali di coltivazione erano cambiati: precedentemente, in ogni appezzamento si praticava un ciclo biennale (ad anni alterni, metà della terra veniva seminata, e l’altra metà lasciata a maggese). Ora si era passato alla rotazione triennale: ogni anno, soltanto un terzo del terreno restava a maggese, mentre sugli altri due terzi si coltivavano grano e legumi, sfruttando ogni anno una quantità maggiore di terre coltivabili, e fertilizzando i campi con le radici dei legumi. I confini delle terre arative si allargarono e, perlopiù, all’aratro i cavalli (più veloci) sostituirono i buoi. I contadini vivevano in basse capanne, prive di finestre, a volte appoggiate alle antiche mura delle “ville” (case agricole) romane per meglio ripararsi dalle intemperie, naturalmente con locali in comune, o comunicanti col bestiame. Le costruzioni erano edificate con zolle di fango, rinforzate da pali di legno, e con tetti in paglia. Talora si trattava di “uomini liberi” e possedevano un pezzo di terra. Più spesso erano “servi della gleba” che coltivavano un lotto di terreno loro assegnato; avevano diritto di pascolo per i loro animali e raccogliere legna nel bosco, in cambio delle loro prestazioni agricole: ovvero un numero stabile di giorni di lavoro sulle terre padronali, il trasporto delle merci del signore, il lavoro domestico ed un tributo fisso in natura (polli, uova, verdura, frutta…). Il forno ed il mulino erano quasi sempre padronali, e venivano dati in uso dalla comunità in cambio di pane o di grano. Il Balivo (o Castaldo), spesso uno dei contadini scelto dal padrone, controllava il lavoro dei servi della gleba, che potevano emanciparsi dal loro stato miserrimo (col permesso del feudatario!) o diventando soldati (con l’altissima probabilità di non tornare più nel luogo di nascita, o di tornarvi con un arto in meno); o trovando un imbarco su vascelli commerciali, sempre con altissimi rischi di naufragi, o di diventare vittime di atti di pirateria; oppure, come migliore opzione, entrare in un monastero. Ciò spiega il gran numero degli immensi monasteri medievali. I monasteri erano autosufficienti, grazie al lavoro dei monaci (naturalmente gratuito). Queste strutture con grande frequenza ricevevano ricchi lasciti dai potenti, in prossimità della morte: chi possedeva disponibilità finanziarie, cercava di scambiare le ricchezze terreno – spesso mal acquisite – con la vita eterna 44


nel cielo. Per lungo tempo, i monasteri rappresentarono il fulcro della cultura europea e della civiltà cristiana, in quanto furono archivi storici, biblioteche, luoghi d’arte e di studi, e centri di eccelse attività artigianali (dipinti, libri miniati, sculture in legno ecc.). Grazie agli archivi dei monasteri, si è potuta raccontare – oggi – la storia di almeno dieci secoli. Monasteri e conventi erano il luogo di formazione di missionari da inviare in terre lontane. Si ignora ove sia stato “formato” Padre Giovanni da Montecorvino, ma con ogni probabilità è pensabile che ciò sia avvenuto presso un convento della “provincia Lucana” francescana. Altri monasteri furono centri di recupero di terreni incolti, attraverso lo sviluppo di nuove tecniche agrarie; altri ancora offrivano ospitalità ai pellegrini, o curavano gli ammalati.

• Le città.

Roma nel XIII secolo era ridotta ad un gruppo di casupole, presso Trastevere. Non c’erano ancora le grandi Chiese; le costruzioni romane erano già diventate ruderi; e non contava più di 30.000 abitanti. Mediamente le “città” non superavano i 20.000 abitanti; eccezionalmente, qualcuna (Parigi) ne contava 100.000, in Europa. Nel XIV secolo (dopo un periodo di sviluppo, iniziato coi Longobardi – alla fine del passaggio dei Vandali e dei Goti – e successivamente incrementato dai Normanni) l’aumento demografico si arrestò con la carestia che interessò la prima metà del 1300, nel nord Italia, e la peste che colpì inizialmente il sud Italia per poi diffondersi anche al nord dal 1347. Il Feudalismo di tipo angioino provocò il “servaggio della gleba” nelle campagne aggravando ancora più una situazione già disastrosa. Le città comunque si erano allargate e in esse si tenevano i mercati (e quindi ivi si svolgeva il commercio); erano provviste di solide mura, entro le quali proliferavano botteghe, nelle condizioni igieniche di un lordume impressionante causa reiterati inquinamenti delle riserve idriche (pozzi e fiumi) e di conseguenti pestilenze. Sorsero pertanto anche ospedali lontani dalle mura, dove venivano raccolti i malati ritenuti portatori di malattie diffusive (lebbra, colera, peste, infezioni e ulcerazioni della pelle, quasi tutte indicate come “fuoco di Sant’Antonio” e quasi tutte dovute a lesioni da grattamento per la scabbia). La tubercolosi era ben presente e portatrice di morte (spesso indicata come “scrofola”), come pure la malaria. Vi erano naturalmente anche i tumori (che non venivano naturalmente conosciuti come tali), e le leucemie, che portavano a rapido deperimento organico e che perciò spesso erano indicate come “mal d’amore”, oppure “febbri maligne”. Vennero – dopo secoli – ripristinati i bagni pubblici, gestiti da privati, che, però, molto spesso si 45


trasformavano in bordelli (da cui la condanna della Chiesa alle “troppo frequenti” abluzioni del corpo). Nelle città risiedevano gli appartenenti alla classe mercantile, staccata dalla coltivazione della terra (quindi dalla produzione) ma in possesso di denaro. Mal sopportata dalla Chiesa, che considerava i mercanti (e i banchieri) alla stregua degli usurai, e tenuti lontani dalla nobiltà feudale; comunque costoro costituirono una forza dinamica; insieme agli artigiani e a quanti esercitavano le “arti liberali” costituivano “in nuce” la futura borghesia. Accanto ai mercanti, sopravvivevano larghi strati di popolazione in assoluta povertà: ladri, prostitute, ruffiani, mendicanti, truffatori, storpi, giocolieri, un coacervo di diseredati costituenti, in termini moderni, il “sottoproletariato”. La struttura familiare era di tipo patriarcale, ed era compito del capofamiglia controllare la moglie, i figli, gli eventuali domestici e i garzoni. La manodopera femminile era ampiamente utilizzata nei campi; in casa, la donna era “anche” deputata alla filatura della lana e del lino, oltre alla cura dei vecchi e dei malati. Ma tutte le decisioni spettavano comunque al capofamiglia, compreso il contratto di matrimonio e la scelta del marito per le figlie. Soltanto in stato vedovile, la donna poteva interessarsi ad una eventuale precedente attività commerciale del marito; ma col tempo, cominciarono ad emanciparsi nel commercio e nella gestione in proprio di taverne, locande e forni. Nei centri urbani le case in pietra erano ad uno o due piani, e nel cortile – sul retro – si tenevano polli, maiali, mucche, pecore, asini e non poteva mancare la “buca” per i bisogni corporali. Ma le abitazioni dei popolani solitamente erano edificate con fango e legno, con finestre sbilenche e con due sole stanze: la camera da letto e la sala da pranzo; un buco, al margine della strada, raccoglieva i “rifiuti”. Soltanto i benestanti potevano godere di solide case in pietra e successivamente, vennero ornati da baldacchini, e alle pareti venivano posti specchi di vetro e arazzi, tutti manufatti preziosi introdotti – come novità – da terre lontane dai crociati; così pure furono novità “estere” il cotone, la mussola, la garza, i damaschi, i tappeti. E poiché i ricchi borghesi cominciarono a “gareggiare” coi nobili per la sontuosità e i colori degli abiti, re e feudatari emanarono leggi che obbligavano i “borghesi” a vestirsi in modi determinati, tali da poter essere identificati, a seconda del mestiere svolto. In sintesi, nelle città prevaleva il lavoro libero degli artigiani, dei commercianti, dei professionisti. Le botteghe artigiane erano ricavate nella stessa abitazione, e il lavoro si intrecciava con quello domestico. Il garzone faceva parte della famiglia del padrone, mangiava nella stessa stanza, e spesso in un angolo aveva anche un giaciglio per la notte. La promiscuità non scandalizzava. In questo periodo si diffuse l’usanza dei pellegrinaggi verso i “luoghi santi” indicati dalla Chiesa (non soltanto la Palestina, ma anche particolari cattedrali, o luoghi di avvenuti miracoli in tutta l’Europa). I monaci, nei loro conventi, registravano gli avvenimenti della zona, i 46


nomi dei re, le battaglie, i passaggi degli eserciti, le epidemie, le carestie, le innovazioni, le comete.

Note: • La peste: la peste colpì l’Europa tra il 1347 e il 1353, esplosa – molto probabilmente in India – via mare giunse quasi contemporaneamente in Cina e in Medio Oriente, e dal Medio Oriente in Europa. La peste era dovuta ad un microrganismo (Yersinia p.) i cui portatori erano i ratti, immuni alla malattia. La diffusione dal ratto all’uomo avveniva attraverso le pulci, infette dal sangue del roditore. Naturalmente ciò era sconosciuto all’epoca, e si credeva che la peste fosse un morbo mandato da Dio contro i peccati degli uomini, e venisse diffuso attraverso gli “untori”. La malattia viaggiava coi ratti, che seguivano le derrate alimentari, attraverso il mare, sulle navi che le trasportavano; e attraverso le vie di terre seguendo lo spostamento degli eserciti, dei commercianti, dei pellegrini. Nel 1347 la peste si sviluppò rapidamente nell’area commerciale mediterranea, attraverso le navi veneziane, genovesi, pisane e franche; poi nell’area baltica quando questa si collegò al mediterraneo. La fase più acuta della malattia durò dal 1347 al 1353, ma fino ai primi anni del 1400 si ebbero varie recrudescenze. • Amalfi: nel 1300, non esisteva più la Repubblica Marinara di Amalfi; essa aveva mantenuto intense relazioni commerciali con Bisanzio e con gli arabi, molto prima della prima crociata (1906-1099). Nel 1130 venne incorporata dai Normanni nel regno di Sicilia. Nel 1135, fu devastata dalla flotta di Pisa, senza più riuscire a sollevarsi. Nel XIV secolo un maremoto (documentato dal Boccaccio che, nonostante la peste, si trovava a Salerno per un’ambasceria, e che si rammaricava di non essere in grado di darne spiegazione) ne distrusse gli arsenali, e un terzo della città si inabissò. Oggi si sa che lo “tsunami” era stato provocato da una frana a mare dall’eruzione dello Stromboli. • Le acque dei fiumi, non più controllate, in più punti dell’Italia impaludarono le pianure. Nelle regioni padane, in Campania, nel Lazio, in Sardegna, recando un ulteriore flagello alle popolazioni che si spense soltanto nella prima metà del 1900: la malaria.

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• Il cambiamento climatico, nel XIV secolo: tra carestia e peste.

All’inizio de XIV secolo – senza avvertire Greta e i gretini – ci fu un improvviso cambiamento climatico, la cosiddetta “piccola era glaciale” che scatenò una serie di rovinose carestie, la prima tra il 1315 e il 1317 (la grande carestia) che colpì Scandinavia, Danimarca, Inghilterra, Fiandre, Germania e Nord Italia, uccidendo un quarto della popolazione (all’orrore della morte per fame, si aggiunse l’orrore di molteplici casi di cannibalismo). Verso il 1332, anche la penisola iberica e Francia del sud vennero colpite, con una recrudescenza verso il 1340. Dal 1347, dal Medio Oriente, la peste raggiunse l’Europa: prima Grecia, Calabria e Sicilia, poi il nord Italia, e parte della Polonia, giungendo in Scandinavia, nel centro dell’Inghilterra, nell’Irlanda e nel resto della penisola iberica. Nel 1350, una nuova fiammata colpiva i Paesi Bassi, Germania, Danimarca, le coste della Polonia, di Svezia e di Scozia. In 3 anni (1351-1353) vennero ancora pesantemente colpite la Germania orientale e il resto della Polonia; poi la peste si diffuse in Russia, soprattutto a Mosca e nelle zone limitrofe. Complessivamente, un “altro” terzo della popolazione vivente scomparve nel giro di 5 anni. I cambiamenti climatici in Europa, grosso modo avvenuti tra il quarantesimo e il sessantesimo parallelo Nord, colpirono naturalmente tra il 1315 e il 1340 anche la zona corrispondente all’Asia e quindi, in pieno, la zona corrispondente all’impero mongolo. I documenti cinesi dell’epoca parlano di una “grande carestia” nel settentrione della Cina, seguita da una disastrosa inondazione del Fiume Giallo (conseguenza del seguente “disgelo”). La peste, giunta in Europa nel 1347, arrivò negli stessi anni anche in Cina, falciando – oltre la popolazione – la stessa corte mongola e vieppiù l’esercito. Si narra che la peste venisse portata a Messina da navi provenienti dal Medio Oriente (e ciò certamente corrispondeva a verità). Ma è alquanto improbabile che fosse “nata” in Medio Oriente. È più credibile che fosse precedentemente esplosa in India (da sempre serbatoio delle maggiori pestilenze che colpirono il mondo antico) e, dai suoi porti (Tana ad ovest; Maliapur ad est) per via mare – attraverso derrate alimentari caricate sulle navi (insieme ai ratti infetti) – fosse poi passata ai porti di Ormuz (Persia) ad ovest e Zaiton (Cina) ad est. Infatti Europa e Cina vennero colpite pressoché contemporaneamente (la peste colpì anche i territori islamici in Africa e Medio Oriente, e in Europa). I cambiamenti climatici improvvisi, avvenuti tra il 1315 e il 1340, ristretti nel settentrione del globo (per quanto storicamente ci è stato tramandato), furono dovuti con ogni probabilità a ceneri vulcaniche, depositate a livelli diversi tra troposfera e stratosfera e ruotanti 48


attorno al globo terrestre, corrispondenti – al suolo – agli spazi tra il quarantesimo e sessantesimo parallelo Nord. Ceneri che impedivano la filtrazione degli ultravioletti (e quindi la fotosintesi clorofilliana), eruttate dalla esplosione di qualche super Vulcano del “cerchio di fuoco” del Pacifico, e che diminuivano le temperature al suolo. Come avvenne nel 1883 con l’esplosione del Cracatoa, le cui ceneri depositate ai limiti della troposfera, fecero sentire i loro effetti per più anni, producendo un abbassamento delle temperature (e altri cambiamenti sul suolo terrestre).

Nota: All’epoca di Padre Giovanni non esisteva né i paralleli, né i meridiani (pur conosciuti dal mondo greco-latino, non erano stati ancora “reinventati”), nemmeno i chilometri (il metro come unità di misura nacque nel 1791 e imposto il 25/01/1800, in Francia); e nemmeno le odierne misure di peso (chili, quintali, ecc.).

Nota: La peste, con “lieve” morbilità, esisteva già endemicamente, con limitati focolai, in India e altre zone dell’Asia. È possibile che sia esplosa a causa della “piccola glaciazione” e col cambiamento climatico, durato alcuni anni, che virulentò la Yersinia p. Conseguenza politica delle carestie, delle inondazioni e della peste (tutte causate da un rapido e persistente cambiamento climatico), in Cina furono le rivolte contadine contro i Mongoli che provocarono la caduta dell’impero e la fuga dell’imperatore; in Medio Oriente, i conventi si svuotarono e non furono più in grado di mantenere i contatti con le missioni in India, in Persia, in Cina; in Italia (e in Europa) le cataste dei morti, per fame prima e per peste poi, rinnovarono nel popolo le paure per la “fine del mondo”, e quindi la subordinazione alle fiammeggianti predicazioni (di tutti, eretici ed ortodossi).

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CAPITOLO 4 • I commerci con l’oriente nell’antichità

Già i greci, con le conquiste di Alessandro Magno, avevano conoscenza dell’India e mantenevano commerci con i paesi asiatici, prossimi alle ex-conquiste del grande condottiero. I romani conoscevano bene le ricchezze provenienti dall’Oriente (seta, spezie, gemme…), ma nessuno aveva mai visto di persona la Cina, o non aveva avuto mai possibilità di raccontarlo (la terra da cui proveniva la seta, i romani la chiamavano “seres”). I contatti tra i mercanti di Roma e le merci dell’oriente avvenivano nei porti del Mar Nero, della Costa siro-palestinese, o di Alessandria d’Egitto. Ivi le merci arrivavano attraverso le “vie della seta”, attraverso lunghe carovane, con molteplici “cambi di mano” dei commercianti, man mano che si attraversavano le terre controllare da stati o da etnie diverse (cinesi, popolazioni turche, persi, arabi, siriaci, oppure attraverso le vie del mare, dal mar della Cina meridionale, attraverso l’oceano indiano e il mare Arabico, risalendo a Bassorà, tramite il Golfo Persico e il Mar Rosso, fino al limite dove oggi si apre il canale di Suez, e poi via terra e merci raggiungevano il porto di Alessandria, o i mercati di 50


Aleppo o Damasco. I romani – attraverso intermediari – mantennero sempre intensi i commerci con l’Asia e più volte tentarono (senza mai riuscirci) di spingersi verso est, sottomettendo “i parti” (persiani) che costituivano “il muro di Berlino” dell’antichità, tra l’Europa e l’Asia. Il “tesoro” di Alarico dopo il sacco di Roma (410 d.C.) comprendeva circa 30 quintali (peso odierno) di seta! Le cronache cinesi, parlano di una “partita di schiavi” dallo strano aspetto, acquistata dai Parti; probabilmente i resti di qualche Legione Romana esitati da una spedizione militare, forse quella tragica di Crasso (del 53 a.C.). Nel Medioevo, i commercianti franchi, veneziani, genovesi, pisani (e amalfitani, fino al 1135 quando un attacco navale pisano produsse gravi danni agli arsenali, tanto che la città non riuscì più a risollevarsi) avevano possibilità di rifornirsi nei porti levantini, ove gli islamici commerciavano volentieri con loro, ma impedivano che gli europei si addentrassero nel loro territorio. Il blocco del transito divenne ancora più duro, quando le popolazioni turche si sostituirono agli arabi, nel controllo politico (e religioso) dei territori. Già 100 anni dopo la morte di Maometto i musulmani controllavano tutta la sponda Meridionale del Mediterraneo, la Spagna e il Medio Oriente. Fino al 1258, quando i mongoli conquistarono Bagdad, fu impossibile un contatto diretto tra gli europei e l’Asia senza l’intermediazione islamica (o dell’Impero romano d’Oriente). Soltanto per poco più di un secolo – tra il 1240 e il 1368 – fu possibile stabilire contatti diretti tra gli europei e la Cina, e i mercanti europei potevano guidare direttamente le loro carovane lungo la via della seta, sino all’India e alla Cina. L’apertura delle vie commerciali verso l’Asia non fu merito di re e imperatori europei, né di avanzate di armate cristiane, ma di un popolo (i mongoli) a lungo bollati come la minaccia mortale verso l’Europa medievale. Il loro nome era diventato sinonimo di barbarie, e lo stesso vocabolo “orda” (che nella loro lingua non significava che accampamento) assunse il significato di qualcosa di caotico e tumultuoso. L’impero mongolo fu il più grande mai esistito, il doppio dell’Impero Romano nella sua massima espansione. Gengis Khan – col suo esercito – calò su Pekino il 1214, e nei successivi 50 anni i mongoli conquistarono quasi tutta l’Asia orientale; poi si rivolsero vero occidente e, attraversando la Russia, giunsero in Polonia e Ungheria. Ogodai – il figlio di Gengis Khan – giunse fino ad Udine, per fortuna (nostra), a quel punto l’esercito mongolo si ritirò, per la morte del Khan. L’impero mongolo del gran Khan Kubilay (quello che incontrò la famiglia Polo) andava dal Fiume Giallo fino al Danubio, e dalla Siberia al Golfo Persico. I Khan mongoli, da Gengis Khan ai suoi figli e nipoti (Batu, Mongka, Kubilay, Hulagu…) costituirono una grande dinastia che univa nei suoi rappresentanti, il coraggio personale, le doti militari, la versatilità amministrativa e la tolleranza culturale, come mai si verificò per nessuna casa regnante europea, durante il Medioevo (e 51


anche dopo). Quello che poteva essere l’inizio di un grande confronto – con arricchimento reciproco – tra la cultura cinese (rapidamente assorbita dai mongoli, per di più negli aspetti migliori) e la cultura europea (latino-cristiana) fu invece soltanto un luminoso intermezzo, chiuso da un insieme di occasioni perdute e mai più ripetute. Con la conquista mongola di Bagdad (1258), questo popolo era diventato involontario alleato dell’Europa, contro la minaccia dell’espansionismo islamico (nella versione integralista dei turchi e dei Mamelucchi). Di questa condizione, i mongoli furono sempre ben coscienti. Lo testimoniano le loro ripetute richieste di alleanza (a papi e re “cattolici”); lo furono molto meno papi e monarchi europei, chiusi nella loro supponenza politica e religiosa, che persero delle occasioni – mai più ricomparse nella storia – non solo di “cristianizzare” l’Asia, ma anche di “placare” le proprie “intolleranze” di assolutismo politico-religioso e di fermare la minaccia islamica che si mantenne possente fino alla battaglia di Lepanto.

• La geografia dogmatica.

Nel 1200, in Europa, la geografia non era neppure una scienza, né un’arte liberale; ma era ferma al dogma religioso (non discutibile). L’Asia era immaginata come un territorio (di cui comunque non si conosceva la vastità), con a nord-est il paradiso terrestre (dove risiedevano – chiuse da alte mura – le anime in attesa della Resurrezione dopo la fine del mondo), ed a sud c’era l’inferno. Al centro, vi erano stati fantastici (il regno del prete Gianni, i popoli di Gog e Magog), con animali mitologici (ippogrifi, liocarni, sirene…) ed esseri con un solo piede, o con dieci occhi, (uno solo davanti, e gli altri sulla nuca). La terra naturalmente era “ridiventata” piatta, col sole che le girava intorno. Con l’aggravante che quanti osavano dissentire, incappavano fatalmente nella “Inquisizione”, nelle scomuniche (quando andava bene) e nei roghi (quando andava peggio). Ancora nel 1600, Galileo Galilei ebbe non pochi problemi con l’inquisizione, a causa delle sue scoperte: evitò il rogo, ma finì in galera. Si erano persi gli insegnamenti di Tolomeo (90-168 d.C.), e quelli più antichi, anteriori al V secolo a.C. dei pitagorici, di Platone, di Aristotele, di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), ma anche quelli di semplici divulgatori, che affermavano la “sfericità della terra”. Eratostene (276-195 a.C.) aveva misurato la circonferenza terrestre ed aveva già ideato meridiani e paralleli. Ipparco di Nicea (165-127 a.C.) modificò le linee orizzontali e verticali di Eratostene, e pose le basi per la cartografia. Ma tutto ciò non contava perché – come si legge nella Bibbia – Giosué, per poter 52


giustamente completare il massacro quotidiano di Cananei, aveva ordinato al sole di fermarsi (di “girare”).

• Le nuove vie verso l’Asia.

Fino agli inizi del 1200, il passaggio dei mercanti europei verso il Mar Nero, attraverso il Bosforo e i Dardanelli, che apriva al commercio con i paesi interni dell’Asia (attraverso intermediari), era gestito – con pesanti dazi – dagli imperatori dell’Impero Romano d’Oriente. A seguito della IV crociata (1202-1204), i “crociati”, invece di andare a liberare Gerusalemme, preferirono aggredire Costantinopoli – approfittando di scontri dinastici all’interno della corte bizantina – e sottoporla ad un violento saccheggio, che raggiunse l’estremo dello scoperchiamento delle tombe dei Santi, dei patriarchi e degli imperatori, per cui ai veneziani venne affibbiato il titolo (meritato) di “spogliasanti”: parte del saccheggio è ancora in bella mostra a Venezia. I veneziani erano creditori verso l’ex imperatore d’Oriente di una somma spaventosa (85.000 marchi d’argento) pretesa per il “trasporto” (che non avvenne) dei “crociati” in Terrasanta, e per “l’aiutino” che avrebbero dovuto offrire al “nuovo” imperatore (che si guardarono bene di reinsediare). L’Impero Romano d’Oriente venne così abbattuto, e spezzettato in “regni imperiali”, di Costantinopoli, di Trebisonda, di Nicea… Quello di Costantinopoli venne affidato a Baldovino di Fiandre. L’impero “latino” di Costantinopoli monopolizzò a favore dei veneziani il passaggio attraverso il Bosforo e Dardanelli, escludendo i genovesi. Questi ultimi riposero, in un primo momento, con una pressante guerra di corsa contro le navi veneziane, e successivamente con una congiura di palazzo che riportò nel 1261 sul trono di Costantinopoli la dinastia “greca” dei Paleologo (con l’imperatore Michele Paleologo che incaricò Padre Giovanni, come suo “nunzio” verso Teobaldo Visconti, informandolo della sua elezione a papa, Gregorio X); più tardi i veneziani riequilibrarono (con la diplomazia) questa situazione in loro favore. Con la caduta di Bagdad (1258) in mano ai mongoli, si aprì la strada verso l’Asia interna, che partiva da Acri – sulla costa siro-palestinese – e passava attraverso la Persia (Tabriz), fino al Golfo Persico. Con la caduta di Acri – nuovamente (e per sempre) in mani musulmane nel 1291, - si richiuse questa via, restando aperta soltanto la via dei Dardanelli, passando poi verso la Persia (Tabriz, e poi Ormuz).

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Nota: I mamelucchi erano schiavi arruolati nel Caucaso e in Circassia, e costituivano una milizia al servizio del califfo d’Egitto. Estinta, nel 1171, senza eredi, la dinastia fatimida, da “mercenari” divennero padroni, impossessandosi del potere, e iniziando una politica espansionistica, e chiudendo la via commerciale verso l’Asia, che passava per l’Egitto. Già nel 1260 raggiunsero e conquistarono Gerusalemme, e fermarono i mongoli guidati da Kubilay.

• La seta.

Per secoli, la seta fu esclusiva della Cina; la segretezza della sua produzione era protetta da leggi feroci, e il suo commercio era monopolio degli imperatori cinesi. L’introduzione del baco da seta in Europa sembra dovuta all’Imperatore Giustiniano (grazie a due monaci, trafugatori di bozzoli) nel VI secolo d.C. In Italia la produzione entrò soltanto nel secolo XII, per iniziativa dei re Normanni di Sicilia.

• Le (ignorate) ambascerie mongole.

Quel poco (di agiografico) che si scrive delle missioni papali verso i mongoli, è riservato alle “richieste” degli ambasciatori ai “cattivi” Khan di convertirsi, e alle risposte di costoro spesso con (giustificabili) insulti verso il re “cattolico” di riferimento (mai verso il papa). Ciò che invece viene sottaciuto sono le missioni dei Khan verso i papi, anche quando i latori sono “nunzi” della importanza di Giovanni da Montecorvino e Tommaso da Tolentino. Ciò che viene taciuto del tutto riguarda le ambascerie di mongoli verso i papi e i re “cattolici”. Kubilay Khan era particolarmente interessato a coinvolgere il papato e i principi europei in una “crociata” contro i Mamelucchi, per motivi che – nel proseguo di queste pagine – verranno esposti. I latori dei suoi messaggi al papa, furono i Polo, almeno per due volte. Tommaso da Tolentino e Padre Giovanni, furono invece inviati materialmente da i Khan di Argone e Aitone, ma su istanza del gran Khan Kubilay. Ma vi furono ancora altri ambasciatori, del tutto ignorati dall’agiografia cattolica, perché la storia la si può narrare anche tacendo (naturalmente ad “usum delphini”). Sono rimaste notizie dell’ambasceria del monaco Nestoriano Sauma, nel 1287, inviato dai Khan Argone (lo stesso che nel 1289 attraverso Padre Giovanni, si appellava nuovamente al papa), che portava la proposta di un’alleanza e di una “crociata” contro i 54


Mamelucchi, che sarebbero stati in procinto di cacciare i “franchi” dalla costa siropalestinese. Naturalmente la proposta restò inascoltata, e puntualmente nel 1291 avvenne la caduta di Acri. Un’altra ambasciata era stata affidata al mercante genovese Ghisolfi nel 1286, sempre dal Khan Argone, con le medesime proposte. Oggi si tace, perché non si è in grado di “giustificare” ciò che avvenne allora; la verità – chiara – è che ormai papi e re “cattolici” di crociate non intendevano più organizzarne, perché non ne avevano più le capacità (finanziaria) né la forza (militare), e per una serie di ragioni politiche fin troppo evidenti: il papato aveva esaurito la sua funzione pacificatrice (e cristiana) di creare pace e non guerre tra le monarchie europee; il papato era parte in causa tra le contese armate che dividevano i popoli europei; veniva perciò a mancare la fede di una vittoria che il papato non poteva invocare in nome di Dio (unico e protettore di tutti i credenti); per mancanza di fiducia del papa verso i re, e dei re verso il papa (chi poteva garantire il papa da uno scisma, o da una accusa di “eresia” per essersi alleato a dei “pagani”?); e infine quale Stato aveva ancora disponibilità finanziarie per mantenere per anni una guerra sull’altra sponda del Mediterraneo? La crociata del 1270, l’ottava, in cui morì di peste o forse di colera Luigi IX, re santo e guaritore, fu l’ultima diretta contro i musulmani. Latori di ambasciate presso il papato furono anche mercanti pisani, quale Zolo Bofeti. Nel 1258 quando i mongoli conquistarono Bagdad, il Papa Alessandro IX stava conducendo una “crociata” Guelfa contro… Ezzellino da Romano, signore di Treviso!

• Tamerlano.

Negli stessi anni in cui in Cina si dissolveva l’impero mongolo, il condottiero TimurBeg, detto Timur-Lang (Timur lo zoppo) costruì un secondo impero mongolo in Samarcanda. Nel 1402 Tamerlano (come lo chiamavano gli europei) nella battaglia di Ankara sconfisse il Sultano Bayazet. Ma nel 1405, improvvisamente Tamerlano morì, e con lui scomparve l’ultimo pezzo dell’impero mongolo, e l’ultima possibilità (tentata dal re di Spagna) di stringere un’alleanza tra l’Europa cattolica e l’Asia mongola, mentre diplomatici spagnoli si trovavano ancora a Samarcanda.

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• La caduta di Costantinopoli.

Nel 1453, il sultano turco Maometto II conquistò Costantinopoli, difesa oltre che dal suo eroico Imperatore Costantino XI Paleologo e dai suoi soldati, soltanto da un piccolo contingente veneziano, e da un piccolissimo contingente genovese (di cui una parte cambiò bandiera, durante l’assedio). Il Papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli) commentò: “erano soltanto eretici…”.

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CAPITOLO 5 • Prima di Giovanni: gli “errori” delle missioni dei francescani (e domenicani) verso i Tartari.

Nel 1241, un esercito di cavalieri mongoli devastò la Polonia e l’Ungheria, configgendo un esercito di polacchi e tedeschi nella battaglia di Liegnitz in Slesia, mentre un’altra colonna sbaragliava gli ungheresi. L’Imperatore Federico II, temendo che l’Europa intera e la cristianità venissero travolte dal nuovo “flagello di Dio”, si rivolse al Re d’Inghilterra Enrico III e ad altri regnanti tedeschi perché “questi Tartari potessero essere infine ricacciati nel tartaro” (ad sua Tartara tartari detrudentur). Il Re d’Ungheria lanciò una invocazione d’aiuto, cui il Papa Gregorio IX risposte con l’invocazione di una nuova crociata. A tutte queste invocazioni, il re d’Inghilterra rispose con una lettera piena di belle parole, i monarchi tedeschi, alla fine, fecero finta di non sentire; e Federico II che era stato scomunicato già due volte dal papa, ben pensò di non andare oltre. Al papa, non restò che promuovere un concilio, a Lione nel 1245, per una crociata contro i mongoli; ma dovette limitarsi a promettere aiuti finanziari a quegli stati che avessero voluto costruire fortificazioni, valli, mura contro il pericolo che veniva dall’est. Alla fine si limitò ad inviare un’ambasciata al nuovo Khan, in Mongolia. Un miracolo però era avvenuto (ma il papa non se n’era accorto): Ogodai, mentre il suo esercito era già giunto ad Udine, era morto all’improvviso; e tutti i mongoli si erano ritirati per esercitare il loro “sport nazionale”: qualche anno di guerriglia interna, giusto per capire a quale Khan il loro Dio avesse concesso la “forza” del comando. Ma ristabilito l’ordine, i mongoli ripresero la marcia verso la Persia e la Siria. Sartach, il condottiero mongolo figlio di Batu Khan, diretto a sottomettere la Persia, inviò un’ambasceria al Re-Santo Luigi IX di Francia, che si trovava a Cipro per una crociata (1248) la VII, offrendo alleanza e chiedendo collaborazione. Se il re-santo e il papa avessero accettato tale alleanza, essi avrebbero potuto condividere gli onori e i vantaggi della sconfitta degli islamici turchi, e raggiungere lo scopo della crociata. I mongoli sarebbero stati alleati preziosi contro i turchi. Invece di posporre, o di contrattare la (richiesta) conversione dei mongoli, alla successiva vittoria, Innocenzo IV e Luigi IX – in una gara impressionante di bigotteria tra di loro – decisero di allearsi soltanto con dei cristiani. E si sprecarono in vani tentativi di “conversione preventiva” dei pagani. Non è neppure pensabile che il papa ed il re non capissero l’assurdità (e il ridicolo) di tale richiesta, ad un sovrano le cui forze militari erano di gran lunga soverchianti alle loro. È pensabile invece che papa e re temessero che – a fronte di una alleanza 57


coi “pagani” – qualche altro re “cattolico” promuovesse qualche antipapa, con successive reciproche scomuniche, e strascichi scismatici. Questo errore di supponenza (religiosa, politica e culturale, nonché militare) influenzò profondamente il futuro dell’Asia, impedendo che i Tartari potessero trasformarsi in compagni di fede, dopo essere stati accettati come compagni d’armi. I papi attesero invano una “conversione” dei Khan e non furono capaci di approfittare della tolleranza e della indeterminatezza del “credo religioso” dei mongoli, molto superficiale, più a livello di credenza tribale che di religione teologicamente strutturata. In effetti papi e re cattolici non ebbero neppure fede nella forza teologica della loro religione, e non ebbero il coraggio di confrontarsi con la debole religione dei mongoli. Comunque, i “Barbari”, i Tartari, che mai avevano promosso persecuzioni religiose, aprirono la strada all’occidente cristiano, oltre che al commercio tra Europa e Asia.

Nota: i cavalieri tedeschi, sconfitti a Liegnitz dai mongoli, appartenevano all’ordine teutonico.

• Le missioni diplomatiche (prima di Padre Giovanni).

Già Innocenzo IV aveva inviato qualche anno prima il monaco Ascellino a Karakurt, alla corte di Batu-Khan, per una missione diplomatica. Dopo la conquista di Bagdad (1258), si riaccesero le speranze di convertire i mongoli (sempre “preventivamente”) al cattolicesimo, tenendo in conto che il cristianesimo dei nestoriani era liberamente praticato in tutto l’impero. In tal modo, i francescani divennero i pionieri della evangelizzazione, delle esplorazioni geografiche e della diplomazia del papato. Poco minore, ma non dissimile compito, ebbero anche i domenicani. Il Papa Innocenzo IV, eletto nel 1243, aveva convocato a Lione nel 1245 un concilio, allo scopo di porre argine alla “minaccia mongola”, attraverso una “crociata” (che non si realizzò). Ma poiché Innocenzo IV conosceva bene i “regnanti cristiani” del tempo, pensò anche ad inviare un emissario nella capitale Tartara, al gran Khan Guyuk, senza neppure immaginare ove fosse la Mongolia. Il 16 Aprile 1245, ancor prima dell’apertura del Concilio, Innocenzo IV fece partire il suo inviato, Giovanni di Pian del Caprine (1180-1252) un francescano, già compagno e discepolo di Francesco d’Assisi, nato a Perugia, al tempo padre provinciale dell’ordine Francescano a Colonia. Lo accompagnava un confratello originario dell’est Europa fra’ Stefano di Boemia 58


probabilmente come interprete, il quale lungo il percorso si ammalò e fu costretto a fermarsi. Lo sostituì “al volo” fra’ Benedetto di Polonia, che accompagnò Padre Giovanni fino in Mongolia, e per tutto il viaggio di ritorno. I due attraversarono l’Europa Orientale e giunti a Kiev (l’ultima città “civile” dell’Europa), furono costretti a lasciare i cavalli, e proseguire a piedi, perché nei terreni sepolti dalla neve sarebbero morti di fame, incapaci di trovare l’erba (come invece erano abituati a fare i cavalli dei Tartari), facendosi aiutare, per quel che era possibile, dalla popolazione. Partiti da Batu (sul Volga) dopo tre mesi giunsero nel cuore nella Mongolia, alla corte di Guyuk Khan, a metà agosto; ivi erano convenuti 2000 capi Tartari per eleggere il nuovo imperatore, tra immensi tesori raccolti in circa 500 carri, in attesa di essere divisi tra tutti (risultato di saccheggi e razzie). Alla prima udienza presso l’imperatore, venne chiesto ai due monaci se avessero portato dei “doni”. Naturalmente i monaci erano a mani vuote, e ciò non dispose bene il Khan (i “doni” erano l’omaggio che si doveva al Khan – tanto più importanti quanto più si intendeva dare importanza all’ambasciata – che venivano comunque subito ricambiati con “doni” di valore molto più alto, sia per dimostrare la potenza e la magnificenza del Khan, sia soprattutto per ribadire che il Khan non aveva bisogno di alcunché dagli stranieri). Comunque il Khan ascoltò il messaggio del papa, l’invito a convertirsi, e le doglianze per tutti i cristiani uccisi dalle precedenti incursioni mongole in Europa. Stizzito per “quell’invito” che probabilmente sembrò un “ordine” (forse a causa di una cattiva traduzione), l’imperatore rispose che, se il papa voleva dialogare con lui, doveva mandare al suo cospetto “persone più degne” (il povero monaco, già in età matura, emaciato per le immense fatiche sostenute e per la recente malattia, era coperto dal solo saio che – dopo un anno di viaggio a piedi – certamente non poteva trovarsi in brillanti condizioni); che il suo Dio – Tengri – gli dava la forza della guerra e che, non solo non recedeva da quanto fino ad allora aveva fatto contro i cristiani, ma che era pronto ad ucciderli tutti (papa compreso). La lettera del papa formulava l’augurio che cristiani e Tartari diventassero amici, e che questi diventassero grandi in cielo, presso il Signore. Ma perché ciò avvenisse, dovevano abbracciare la fede di Cristo. Il Khan naturalmente non si convertì ma – passata la sfuriata – ebbe a comportarsi meglio, forse ripensandoci sulla questione dell’alleanza; infatti consegnò due lettere per il “signor papa”, disponendo – nell’ottica del dialogo – che due suoi ambasciatori viaggiassero insieme ai francescani nel ritorno verso Roma. Ma Padre Giovanni da Pian del Carpine chiese (e purtroppo ottenne) di non essere accompagnato dai notabili mongoli, sospettando (e, a ben pensare, forse non aveva del tutto torto) che costoro, una volta in territorio cristiano, si rendessero conto delle divisioni dei re cattolici, e promuovessero nuove guerre, incoraggiati dalla debolezza politica e militare del 59


papa e dei re alleati. Il 13 novembre 1246, Guyuk Khan diede l’assenso alla partenza dei due francescani, i quali riuscirono – nuovamente – attraverso deserti e terre coperte di ghiacci, battute da venti gelidi, a giungere a Kiev, ove furono accolti con un vero trionfo, per l’incredibile impresa compita. Ripartiti, nell’autunno 1247, consegnarono al papa le lettere del Khan, e la relazione di 30 pagine di viaggio. Quando Re Luigi si preparava a partire per Cipro per guidare la settima crociata (1248-54), il papa inviò a Parigi nuovamente i due francescani per cercare di convincere il re a restare in Francia, per proteggerlo dall’”arcidiavolo” Federico II di Hohenstaufen. Padre Giovanni da Pian del Carpine scriverà in seguito la “historia Mongolorum” che è la più antica descrizione storica e geografica dell’Asia (che aveva conosciuto). Morirà nel 1252 ad Antivari, ove era stato nominato arcivescovo. Non si conosce il contenuto della lettera di Guyuk al papa.

Nota: I doni: era usanza presso la corte mongola (raccolta dagli imperatori cinesi, e da costoro ripresa dopo la fine della dinastia Yuan) che quanti si presentavano in udienza presso l’imperatore dovessero portare dei “doni” (tanto più sostanziosi quanto più si volesse metterne in evidenza l’importanza), che immediatamente l’imperatore ricambiava con doni di valore più alto, per propria magnificenza e munificenza – ma soprattutto per evidenziare di non aver bisogno di alcunché, proveniente da stranieri. La mancanza di doni costituiva una offesa per l’imperatore. Giovanni da Pian del Carpine non conosceva il mongolo; è probabile che lo parlasse fra’ Benedetto da Polonia.

Nel 1248, il Re di Francia Luigi IX, durante il viaggio di trasferimento per la crociata (la settima), ricevette a Cipro un uomo che si presentò come emissario del gran Khan Guyuk. La missiva, oltre a contenere gli auguri per l’impresa che il re si accingeva a compiere, esprimeva il desiderio di concludere un’alleanza militare contro l’Islam; l’emissario riferì inoltre che Guyuk era diventato cristiano, e tutto il popolo mongolo era ansioso di condividere la lotta contro i nemici Saraceni. Re Luigi IX recepì il messaggio e spedì come ambasciatore il domenicano André De Longjumeau che conosceva l’arabo e, in precedenza, aveva visitato il campo di Batu Khan, sul Volga. Dopo un incredibile viaggio, il domenicano giunse alla corte del gran Khan, che però era già morto, e l’impero era, al momento, nelle mani della vedova Oghulquaimish, che non era affatto cristiana. Lo ricevette come semplice latore di messaggi, e lo licenziò con insolenti missive indirizzate al re francese. Il viaggio di ritorno durò un anno e, insieme alle notizie in merito al popolo Tartaro (spesso fantasiose), André 60


De Longjumeau riportò voci incoraggianti a proposito di un capo mongolo Sartach – figlio di Batu Khan – che si diceva fosse cristiano. Quando il re ricevette questo ottimistico rapporto, era in Egitto e, al suo fianco, c’era il francescano Gugliemo di Rubruck, nativo delle Fiandre, che conosceva un po’ di arabo e se la cavava col tartaro; persona intraprendente, si rese subito disponibile ad affrontare una lunga e difficile spedizione. Re Luigi IX gli diede una Bibbia, delle lettere indirizzate a Sartach e al gran Khan, e una piccola somma per le spese (il re sarà stato pure santo, ma certamente era anche tirchio). La Regina Margherita gli consegnò un salterio miniato e alcuni abiti ecclesiastici; in quanto donna, era fornita di più senso pratico, e capiva che non ci si poteva presentare di fronte ad un imperatore o ad un gran capo militare, con un saio sbrindellato usato in un anno di viaggio. Il frate portò con sé anche un libro di preghiere, le opere religiose preferite e un raro manoscritto arabo. Per non affrontare ulteriori insolenze, unite ad un rifiuto, ovvero un altro affronto, il re evitò espressamente di fornirgli le credenziali di ambasciatore (cosa grave, perché i mongoli tenevano in gran pregio le credenziali di monarchi europei e, su tutte, quella del papa). Guglielmo, accompagnato da un altro frate, Bartolomeo da Cremona, da una guida-interprete che era un ubriacone, e da due servitori, lasciò Costantinopoli il 7 maggio 1253, attraversò il Mar Nero fino alla Crimea e poi proseguì via terra oltre il Don. Quando il gruppo arrivò da Sartach, la guida (forse in preda ai fumi dell’alcol) litigò, li insultò, negò di essere cristiano e li abbandonò. Il frate proseguì superando il Volga, soffrì la fame e il freddo, gli si congelarono le dita dei piedi. Ma, nonostante tutto, proseguì il viaggio; attraversò il deserto e infine arrivò il 27 Dicembre 1253 all’accampamento di Mongka Khan, nel cuore della Mongolia. Il nuovo imperatore – per pietà – gli permise di restare nell’accampamento per altri 2 mesi, fino alla fine dell’inverno. Alla corte del Khan c’erano i Nestoriani – fortemente avversi ai cattolici – insieme a rappresentanti di altre religioni (buddisti, ebrei e anche islamici). Nell’ultima udienza, Mongka Khan disse: “noi mongoli crediamo che ci sia un solo Dio, che ci concede la vita e la morte, verso il quale abbiamo un animo onesto… Dio indica agli uomini strade diverse. Dio dà a voi le scritture, e voi cristiani non le seguite. Nessuno vi dice (nemmeno le scritture) che dobbiate criticare ciò che fanno gli altri… Dio vi ha dato le scritture, e voi non le seguite, a noi ha dato gli indovini, e noi facciamo ciò che loro ci dicono e viviamo in pace”. Come Giovanni da Pian del Carpine, anche Guglielmo di Rubruck rifiutò di rientrare in compagnia di ambasciatori Tartari, ma portò al re le lettere che gli aveva affidato l’imperatore. Per il ritorno affrontò una via diversa, ma non poté evitare, ugualmente all’andata, fame, freddo, caldo e sete. A metà del giugno 1255, arrivò a Cipro. Ma Re Luigi aveva già fatto ritorno in Francia, e il padre Provinciale dell’ordine Francescano rifiutò al frate il permesso di seguire il sovrano, ma ordinò 61


di recarsi ad Acri, alla casa Francescana e spedire di lì il suo messaggio. Nella relazione del frate, vi era la descrizione del corso del Don e del Volga, chiariva che il Caspio non era un golfo, ma un lago; rivelava che il Catai (la Cina) era la “terra dei seres” di cui parlavano i romani, e da cui proveniva la seta. Rivelava il “segreto” della scrittura cinese, e descriveva i riti religiosi dei lama (i monaci buddisti del Nord), e le loro forme di preghiera, cosa che – 80 anni dopo – riaffermerà Odorico da Pordenone. Quando finalmente fra’ Guglielmo ottenne il permesso di tornare a Parigi, ebbe la fortuna di incontrare il confratello inglese Ruggero Bacone (12201292), pioniere della scienza e perciò sospettato di negromanzia ed eresia; detto il “doctor mirabilis” era stato relegato a Parigi, sotto stretta sorveglianza dei superiori; scrisse un’enciclopedia per il Papa Clemente IV (1268) ove riassunse i racconti di fra’ Guglielmo di Rubruck, che così poterono penetrar nell’occidente cristiano (“opus maius”). L’ordine Francescano ignorò a lungo i resoconti del viaggio di fra’ Guglielmo; soltanto nel 1600, l’inglese Richard Hakluyt pubblicò (in parte) i racconti del frate. Nell’ultima pagina delle riflessioni del francescano, c’è una critica agli spostamenti via mare degli eserciti (per i costi esorbitanti) a favore degli spostamenti via terra (come facevano i Tartari). Falliva così anche questo tentativo di instaurare – previa conversione – un legame militare (e religioso) con i mongoli. Non è noto se – fra la missione di fra’ Guglielmo di Rubruck (1253) e quella di Giovanni da Montecorvino (1289), vi furono altri “inviati” (oltre i viaggi dei Polo Marco, Maffeo e Niccolò), ma è pensabile di sì, perché nonostante il lungo intervallo di tempo (36 anni), Padre Giovanni aveva ancora – come missione “propedeutica” – la conversione del Khan. Non esistono tracce storiche in merito; ma è anche pensabile che quanti fossero eventualmente partiti, non riuscissero mai ad arrivare alla meta, o comunque non fossero stati in grado di tornare. Gli errori di strategia politica del papato e dei re francesi, cui il papato si appoggiava, influenzarono negativamente il futuro dell’Asia, continuando a favorire la penetrazione islamica e il suo consolidamento nei territori conquistati, marginalizzando il cattolicesimo nell’intero continente fino ad impedire la “cristianizzazione” dell’impero mongolo. Piuttosto che fidarsi della forza della propria religione, si continuò per circa un secolo ad attendere “conversioni” dei Khan (che non avvennero mai), invece che confrontarsi con la debole religione dei mongoli, che sarebbe crollata, dopo la prima vittoria militare ottenuta “anche” sotto il segno della croce (che i mongoli rispettavano). I Khan non potevano aderire a “conversioni preventive”; in quanto portatori della “forza” di Tengri (il cielo) non potevano rinunziare preventivamente a tale forza (che legittimava il loro potere); almeno fino a quando non fosse stato evidente – dopo una vittoria ottenuta in comune con i cattolici – che il Dio onnipotente del papa e dei francescani sopravanzava la forza della loro deità (questa 62


situazione aveva interessato particolarmente Kubilay Khan). Re e papato agirono sconsideratamente commettendo tra l’altro errori diplomatici madornali (missionari inviati senza i “doni” e senza credenziali, cose che costituivano un’offesa verso la figura dell’imperatore; richieste di conversioni senza un “perché” che venivano interpretate come una sfida o come una imposizione). Kubilay Khan – dopo la sconfitta riportata contro i Mamelucchi – cercò più volte (per problemi di potere e di prestigio all’interno dell’impero) alleanze verso l’Europa. Queste richieste divennero di nuovo pressanti (attraverso i genovesi, e attraverso i francescani) quando i turchi ottomani tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV secolo cominciarono a premere sui Khanati di Persia ed Armenia, e sui regni “crociati” della costa siriana-palestinese.

• I Polo.

Padre Giovanni da Pian del Carpine, fra’ Andrea De Longjoumeau, fra’ Guglielmo Rubruck, e forse altri francescani e domenicani erano andati e tornati dalla Mongolia in meno di 3 anni, mantenendo un ruolo di missionari-diplomatici; invece il viaggio in Cina di Marco Polo durò 24 anni. Egli si spinse oltre la Mongolia, sino al cuore della Cina (Catay), attraversandola fino all’oceano, ricoprendo ruoli politici ed amministrativi. Fu confidente dell’Imperatore Kubilay Khan, fino a diventare governatore di una grande città. Imparò la lingua della “Cina mongola”, e ne assunse gli usi e la cultura. Al tempo, Venezia costituiva un grande centro commerciale che operava nel Mediterraneo ed oltre. Nel 1269, quando il padre Niccolò e lo zio Maffeo tornarono a Venezia, dopo un viaggio di cinque anni, Marco Polo era appena quindicenne. Un altro zio, Marco (omonimo) aveva imprese commerciali a Costantinopoli e a Soldaia in Crimea, ove nel 1260 Niccolò e Maffeo si unirono alla sua attività mercantile. I tre furono i più grandi esploratori del Medioevo, di cui sia restata memoria dei viaggi compiuti. Nel cuore dell’Asia, erano giunti sino in Cina, e avevano avuto da Kubilay Khan una missione per il papa: i mongoli avevano conoscenza della figura del papa, e ne avevano rispetto. A Gregorio X consegnarono la lettera del Khan attraverso cui venivano richiesti uomini di scienza che insegnassero ai mongoli le scienze del mondo europeo e 100 missionari per la Cina, che insegnassero al popolo la religione a la conoscenza dei cattolici, e un po’ di olio della lampada che bruciava al Santo Sepolcro di Gerusalemme (sapevano i mongoli della vita di Gesù Cristo – lo avevano appreso dai Nestoriani – e lo rispettavano come “profeta”). Ebbero dal papa una lettera di risposta per Kubilay Khan, e nel 1271 63


iniziarono un nuovo viaggio, stavolta portando con loro il giovane Marco; questo nuovo viaggio durò 3 anni e mezzo. Dal papa avevano avuto, però, non 100 missionari, ma soltanto due domenicani che, tra l’altro nel mezzo del Mediterraneo, terrorizzati, abbandonarono la spedizione. Giunti da Kubilay Khan furono accolti con grandi onori. Marco acquistò la fiducia e la benevolenza dell’imperatore e rimase per ben 17 anni a Pekino, ricoprendo importanti cariche politiche ed amministrative, tra cui quella di “consigliere” di corte. Incaricato dall’imperatore di scortare una principessa mongola dal suo promesso sposo in Persia, Marco polo riuscì fortunatamente ad adempiere all’incarico durante il suo viaggio di ritorno verso l’Europa, giungendo infine a Venezia nel 1924. Intanto tra Genova e Venezia era nata un’aspra rivalità commerciale, per il controllo del Mediterraneo, nella decisiva battaglia navale, lungo le coste della Dalmazia, a Curzola, riuscirono vincitori i genovesi. Tra i 7.000 prigionieri veneziani, c’era Marco Polo “gentiluomo comandante di una galea”. Condotto in carcere in catene, qui conobbe un altro prigioniero, un pisano catturato in un precedente scontro tra pisani e genovesi, di nome Rustichello, romanziere di gesta cavalleresche, che si rese disponibile a raccogliere i ricordi di Marco Polo lungo i suoi viaggi, scrivendo in francese. Se Marco Polo e Rustichello non si fossero mai incontrati, i viaggi del veneziano e il suo stesso nome forse sarebbero stati per sempre del tutto ignoti. Tra i grandi viaggiatori medievali, non soltanto Marco Polo dettò (e non scrisse) i suoi viaggi; ma anche Odorico da Pordenone, Niccolò De Conti, Ibn Battuta e Jean Jonville dettarono ad altri le loro memorie. Comunque, negli anni del dominio mongolo sulla Cina, si consolidò un fiorente commercio tra l’Europa e le più lontane regioni dell’Asia. Molti mercanti europei arrivarono in quelle regioni, ma pochi di loro (tra coloro che tornarono) lasciarono i racconti scritti dei loro viaggi. Addirittura, intorno al 1340, Francesco Balducci Pegolotti, agente della famiglia di banchieri fiorentini Bardi, scrisse una guida per i mercanti viaggiatori, tanto doveva essere intenso il commercio all’epoca (la guida oltre ad indicare le varie strade, i pericoli esistenti, ciò che si conosceva della geografia e del clima dei luoghi, informava anche sul “comportamento” da tenere con i soldati delle dogane!). La potenza militare e l’unità politica dell’impero mongolo avevano aperto, mantenendolo accessibile, il passaggio via terra che consentiva agli europei di recarsi in Cina; ed anche ad alcuni cinesi di accedere in Europa, recando verso l’occidente non solo porcellane e tessuti in seta, ma anche l’uso della carta moneta, la stampa e la polvere da sparo che avrebbero cambiato la storia e la vita dell’Europa e del mondo (anche se molte “altre novità” vennero introdotte, per via indiretta, attraverso i mussulmani oppure ad essi attribuite). Delle alte cariche politiche ed amministrative raggiunte da Marco Polo alla corte del Khan, non bisogna meravigliarsi, perché i mongoli non avevano 64


problemi ad assegnare cariche politiche ed amministrative a stranieri (non soltanto europei, ma anche indiani ed arabi). Questa estrema tolleranza verso gli “stranieri” e le loro religioni, suscitava irritazione e scandalo tra i cinesi “confuciani”.

• La “cartografia”.

Con i grandi navigatori del XV e XVI secolo – benché venissero ancora ignorate le grandi intuizioni (e scoperte) di Tolomeo e di altri grandi “sperimentatori” dell’epoca greco-romana; e, ufficialmente, la geografia (non ancora scienza) era ancora ferma alle interpretazioni teologiche e alle narrazioni fantastiche – si cominciò a farsi guidare dalle prime rudimentali carte nautiche disegnate dall’esperienza concreta dei marinai (anche se analfabeti), soprattutto quando – lasciato il Mediterraneo – i navigatori portoghesi si spinsero a sud, lungo le coste dell’Africa. L’esperienza, infatti, fece riscoprire la necessità di conoscere il concetto di latitudine e longitudine (quest’ultima più difficile da rilevare, fino all’invenzione dell’orologio nautico nel XVIII secolo). Già all’epoca di Marco Polo, era entrato l’uso di grandi atlanti che riproducevano le narrazioni dei naviganti e dei viaggiatori; il più straordinario fu l’atlante Catalano del 1375, realizzato da Abramo Cresque (Cresque Le Juif) per il re d’Aragona. A Maiorca si formò una scuola di cartografia composta interamente da ebrei. Quando, verso la fine del secolo ripresero in Spagna le persecuzioni contro di loro, Jehuda Cresque (figlio) emigrò in Portogallo, ove fornì ai navigatori portoghesi le carte nautiche che furono, a base delle loro grandiosi avventure di oltremare; non solo, ma quei cartografi ebrei liberarono l’Europa dal giogo della “geografia cristiana”; Pietro IV d’Aragona, con sistemi degni di James Bond, andò alla caccia dei manoscritti del “Milione” di marco Polo, dei viaggi di Odorico da Pordenone e di quell’altro viaggiatore conosciuto con il nome fittizio di Jean De Mandeville. Alla fine, l’atlante dei Cresque offrì una visione riconoscibile del continente asiatico, ma la parte più precisa era quella minuziosamente descritta nel “Milione” di Marco Polo. I Polo furono gli unici europei – di cui esistono notizie storiche – che giunsero a Pekino, alla corte del gran Khan Kubilay, prima di Giovanni da Montecorvino. I “messi” inviati precedentemente dai papi (da Giovanni di Pian del Carpine in poi) ai Khan, arrivarono in Mongolia (non a Pekino, che soltanto dal 1280 Kubilay Khan elevò a capitale dell’impero mongolo). Chiunque altro europeo, prima dei Polo, possa essere giunto a Pekino (anche prima del 1280) non ha lasciato nulla di scritto, o non ha mai compiuto il viaggio di ritorno. 65


• Ibn Battuta.

Ibn battuta fu il “Marco Polo” degli islamici (anch’egli dettò le proprie avventure, e le notizie dei viaggi compiuti in Cina e in India). La sua storia è ben conosciuta e studiata in tutto il mondo islamico. I suoi viaggi verso la Cina furono comunque posteriori a quelli dei Polo e alla permanenza di Padre Giovanni, e riguardarono il periodo del regno del secondo imperatore della dinastia Ming; l’ammiraglio eunuco della flotta imperiale cinese Cheng-Ho, a servizio dell’Imperatore Yung-Lo, ospitò Ibn Battuta su una delle sue navi. L’Imperatore Yung-Lo – il costruttore della “città proibita” – fece costruire una flottiglia di 317 grandi navi (lunghe fino a 135 metri) fornite di paratie stagne, di bussola e di carte nautiche. Queste navi furono in grado di spingersi sin sulle coste dell’Africa, non per commercio, non per scopi militari, ma soltanto per mostrare la potenza e la magnificenza dell’impero cinese, “l’unico vero centro delle civiltà”. I mercanti arabi comunque erano ben presenti in Cina, ancor prima di quegli europei, e contavano sull’aiuto di numerosi cinesi autoctoni, che si erano convertiti alla loro fede.

• Un periodo “sgradito” ed ignorato.

Il periodo storico dei rapporti tra la Chiesa e l’impero mongolo della dinastia Yuan dal 1310 al 1368 stranamente presenta fonti scarse e, sostanzialmente, reticenti. Persino i grandi medioevalisti contemporanei trattano con sufficienza o minimizzano (se non addirittura ignorano) le vicende del cercato, ma mancato, incontro tra la civiltà cristiana europea e la millenaria civiltà cinese (che i mongoli – pur sottoponendo i cinesi ad una dura dominazione – avevano largamente assorbito e addirittura modificato in meglio con la tolleranza religiosa, l’apertura ai commerci e la curiosità verso le culture altrui).

• La “principessa” mongola, narrata da M. Polo nel “Milione”.

Marco Polo – già da tempo presso la corte mongola di Kambalik (la città dei Khan, futura Pekino) – ebbe, tra gli altri incarichi già ricevuti (quale il governatorato di una immensa regione della Cina), anche l’incarico di una ambasceria in India. Al suo 66


ritorno a corte nel 1290, trovò tre messi provenienti dalla Persia (Oularai, Pasciai e Coia), giunti a Pekino con un largo seguito, per chiedere una “principessa” da recare in sposa al loro I-Khan Argone; poiché una delle mogli di Argone, Bolgara, di alta stirpe, prima di morire aveva chiesto di venire “sostituita” da una donna di pari lignaggio. Perciò Argone si era rivolto al prozio Kubilay per celebrare un nuovo matrimonio, atto anche a rinsaldare l’alleanza tra la Cina mongola e la Persia anch’essa mongola dal 1258. Marco Polo, per arrivare in Persia, circumnavigò il subcontinente indiano, sfiorò l’isola di Ceylon passando nello stretto di Palk; quando arrivò in prossimità della costa persiana, la flotta mongola, costituita da 14 navi, comandata da Marco Polo, incappò in un tifone. Delle navi, 13 affondarono provocando la morte di tutti gli equipaggi; si salvò soltanto quella di Marco Polo, grazie alla sua perizia di navigatore. Il racconto di questo “naufragio” spaventerà, l’anno successivo, il seguito dei frati di P. Giovanni, che si rifiutarono di proseguire. Giunto alla corte persiana, a Tabriz, Marco Polo ebbe a sapere che il Khan Argone era morto, e la promessa sposa fu consegnata a Gaykhatu, fratello di Argone, che era salito al trono. Questi la consegnò a Ghazan (figlio di Argone), che avrebbe assunto la guida della Persia nel 1295. La notizia della morte di Argone sorprese anche i frati francescani Guglielmo da Chieti e Matteo da Chieti, che nel 1291 erano sati incaricati dal Papa Niccolò IV di una ambasceria presso il sovrano. Nel 1292 morirà anche Niccolò IV. Quindi, dopo la partenza di P. Giovanni, nel 1269, per la Cina, già due anni dopo, Niccolò IV aveva inviato altri ambasciatori in Persia, nella ricerca di una alleanza anti-islamica con i mongoli, che nei loro territori accettavano e incoraggiavano la predicazione dei cattolici.

• La situazione geopolitica in Medio-Oriente ai tempi di P. Giovanni.

In Medio Oriente, a causa dell’espansione dei mongoli verso ovest e degli islamici verso est, era destino che la potenza mongola si scontrasse con quella islamica. La conquista di Bagdad da parte dei mongoli (1258) e la sconfitta di Kubilay ad Altalud segnarono i punti culminanti di questo scontro. La presa del potere dei Mamelucchi in Egitto, alla estinzione del califfato Fatimida, capovolse gli equilibri delle forze militari a favore degli islamici. I mongoli, assestati ai confini dell’Europa, e incapaci (militarmente) di spingersi oltre, in difficoltà per le continue guerriglie interne, avevano abbandonato ogni idea di ostilità nei riguardi del mondo europeo. Anzi, con Kubilay Khan, e con l’i-Khan Argone di Persia, cercarono insistentemente l’amicizia (e l’aiuto dei papi e dei re europei!). L’i-Khan Abagha, padre di Argone, già nel 1274 67


aveva inviato una delegazione al concilio di Lione, al Papa Gregorio X; questo ultimo – attraverso i Polo – aveva inviato alcune missive al Gran-Khan Kubilay, stabilendo contatti con l’i-Khan di Persia. Abagha era buddista, ma era stato educato al rispetto del cristianesimo (largamente professato in Persia dai “Nestoriani”, duofisiti (ovvero professano che le due nature di Cristo, la divina e la umana, fossero scisse, ma comunque presenti in Cristo). Il padre di Abagha, Hulagu era nipote di Gengis Khan e fratello di Mongke, Khan di Karakorum (quello che aveva ricevuto Guglielmo di Rubruck). Proprio Hulagu aveva conquistato Bagdad, abbattendo il califfato arabo Abbaside. Ma i Mamelucchi, in seguito inflissero due gravi sconfitte ad Abagha, e quando questo morì salì al trono il fratello Tekuder che cerò di intavolare rapporti di amicizia col sultano. Insieme a lui, anche l’i-Khan dell’orda d’oro (in territorio russo); entrambi si convertirono all’Islam. Tekuder cambiò il nome in Ahmed, ma il nipote Argone lo detronizzò e lo uccise. Dopo un primo contatto col Papa Onorio IV, nel 1285, nel 1287 gli inviò il monaco-vescovo Nestoriano mongolo, Bar Sauma, anche in rappresentanza di Jaballah III, patriarca dei Nestoriani. Quando la delegazione di Bar Sauma giunse a Roma, il papa era deceduto. Il dialogo fu intavolato con i cardinali, e in particolare col Francescano Girolamo d’Ascoli (conoscitore della lingua greca, e già legato papale a Costantinopoli). Bar Sauma (che lasciò un memoriale, tuttora esistente) assicurò che il suo patriarca seguiva la fede dell’apostolo Tommaso, che alcuni figli dell’i-Khan erano battezzati, e lo stesso Argone era desideroso di intavolare un’alleanza per liberare Gerusalemme agli islamici. Sauma proseguì la sua missione verso Filippo IV, Re di Francia (cui in seguito Argone chiederà in dono – era un segno di amicizia! – falchi da caccia e pietre preziose), incontrando anche il Re d’Inghilterra, Edoardo I. Nel 1288, rientrò a Roma, incontrando Niccolò IV, il nuovo papa, con cui aveva già dialogato quando era ancora cardinale, e da cui riceverà la comunione nel giorno della Domenica delle Palme. Insieme a ricchi doni e reliquie religiose, il papa inviò ad Argone due lettere: nella prima, lo ringraziava per la protezione offerta alle missioni cattoliche e lo esortava al battesimo, nella seconda, sottolineava che la “conversione” preventiva fosse fondamentale per qualsiasi alleanza. L’i-Khan non poteva proporsi come “liberatore” della Terrasanta, se prima non si fosse convertito: “non si potevano avere crociate senza croci”. Al contrario l’i-Khan posponeva la conversione alla vittoria militare. Dopo il 1290, Argone inviava una nuova ambasceria (la quarta!) dove giustificava il proprio temporeggiamento alla conversione: “noi mongoli, discendenti di Gengis Khan, diamo piena libertà ai nostri sudditi mongoli di farsi cristiani, o di restare quello che sono: solo il “cielo eterno” (Dio) ne sia a conoscenza. Ora se ti dico che non ho ricevuto il battesimo ti offendi, ma se soltanto si prega il cielo eterno (Dio) e si pensa come convenga farlo, non è come averlo già fatto?” 68


Ovvero, il “cielo” è la divinità suprema dei mongoli, e sotto la sua protezione, il battesimo può attendere. L’ultima missione in Persia avviene nel 1291, e Niccolò IV torna a scrivere ad Argone (senza sapere che è già morto), e si congratula per l’ultimo figlio, natogli da Uruk Katun moglie cristiana dell’i-Khan, con cui il papa aveva stabilito un’amicizia epistolare; ed in onere del papa era stato battezzato col nome di Niccolò (1289). Argone credeva di poter in questo modo risolvere il problema della “conversione” preventiva. Invece il papa, rivolgendosi al neonato, gli consiglia per il futuro di mantenere le precedenti abitudini, senza ostentare la nuova credenza religiosa, per non sollevare ostilità e scandalo con i suoi conterranei. Nella stessa lettera il papa si scusa con Argone, di non poter assecondare una sua richiesta, in quanto non consona agli uomini di Chiesa. Argone gli aveva proposto di sposare una principessa mongola di alto lignaggio, per saldare l’amicizia personale e l’alleanza politicomilitare (come aveva fatto suo padre, Abagha, che aveva sposato la piccola Maria Paleologina, figlia naturale dell’Imperatore bizantino Michele VIII Paleologo; o come aveva fatto con lui, lo stesso Kubilay Khan). Nella sua ultima missiva (agosto 1271), il papa annuncia ad Argone che ha bandito la “crociata” (che si concluderà con la perdita di Acri nell’anno successivo); nello stesso anno muore anche Niccolò IV, Argone era morto già nel Febbraio 1291. Di “crociate” per la difesa di Acri, non vi è alcuna traccia: i re cattolici si guardarono bene dall’intervenire. Si lasciarono massacrare – a difesa dell’ultimo lembo cristiano sulla costa palestinese – soltanto i templari e i “turcopoli” (milizie di sangue misto, convertite al cattolicesimo e che operavano in appoggio ai templari). In quest’ultima lettera, Niccolò IV invita ancora Argone a convertirsi, ma ormai l’alleanza tra i mongoli e i “franchi”, non si realizzerà mai. I tentativi del papa si risolsero in una disfatta; e “Nicolaus” il figlio cristiano di Argone si convertì all’Islam, e comparirà più tardi, con altro nome, come fervente seguace del profeta.

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CAPITOLO 6 • Storia della vita di Padre Giovanni da Montecorvino dalla nascita, all’incarico di Niccolò IV, al viaggio sino ad Ormuz, e poi in India.

Oltre la data e il luogo di nascita (incontestabili: nel territorio di Montecorvino Principato, nel 1247), poco altro si sa, se non scarni riscontri, della gioventù di Padre Giovanni. Scrive di lui fra’ Guglielmo da Solagna, sotto dettatura di uno stanco, e ammalato, Odorico da Pordenone (morto ad Udine nel 1331, a 66 anni), probabilmente non in grado più di scrivere, ma nemmeno di rivedere quanto aveva dettato: Padre Giovanni viene definitivo nobile non soltanto per aspetto e per carattere, e su tale affermazione non c’è motivo di dubitare. Non è accettabile invece la “nobiltà angioina” dei Pico di Montecorvino Rovella (nel 1247), né la discendenza da tale famiglia, per chiarissime ed insormontabili incongruenze cronologiche (come precedentemente argomentato). Il Marignolli, invece, scrive – prendendo fischi per fiaschi – probabilmente mal riportando quanto appreso da terzi: “fu (Padre Giovanni) dottore (ovvero medico) avvocato e soldato dell’imperatore Federico II”. Federico II morì nel 1250, quando Padre Giovanni aveva soltanto 3 anni. In realtà, Padre Giovanni aveva compiuto studi medici e giuridici importanti (presso la scuola medica salernitana, che all’epoca era all’avanguardia in Europa; e presso lo “studio di Napoli” di scienze giuridiche, altrettanto importante tanto da essere stato voluto dallo stesso Imperatore Federico). Senza questi studi, non avrebbe avuto titolo per ricoprire le cariche di nunzio (e, meno che mai, in seguito poter essere consacrato arcivescovo di Pekino e patriarca – ovvero “vice-papa” – di tutto l’Oriente, che coincideva con lo sterminato Impero mongolo). Per poter avere questi “studi” è evidente che avesse alle spalle una famiglia benestante, ma anche “nobile”, altrimenti non avrebbe avuto accesso alla (tentata) carriera militare. Non si sa quale “accademia” militare abbia frequentato e neppure presso quale convento dei “minori” abbia avuto la “formazione teologica” per poter essere inviato alle missioni d’oltremare; (ma è pensabile nella stessa provincia francescana salernitano-lucana). Si riporta: “Giovanni da Montecorvino era persona dotta, risoluta e coraggiosa, molto al di sopra della media, per il suo carattere e la sua forza morale” (Arturo Cristoforo Mulè – univ.Oxford – 1933). “La più importante e fruttuosa legazione esercitata in Cina nel Medioevo, è quella di fra’ Giovanni da Montecorvino”. “Egli è uomo di grande animo e si eleva sull’orizzonte missionario della Cina come un gigante” Mons. Celso Costantini – conf. Di Massimo Piccinini – Roma 1943. Tanto a testimonianza (benché postuma) del suo livello culturale. Nel 1271, a 24 anni, 70


abbracciò lo spirito del movimento francescano che – ottenuta nel 1223 l’approvazione di Papa Onorio III – si andava sviluppando impetuosamente, non solo in Italia, a difesa della Chiesa di Roma contro i sommovimenti delle sette ereticali; attraendo nel proprio “esercito” non solo gli umili e gli “illetterati” ma anche il fiore della cultura e della religione, in quel secolo. Nello stesso anno Padre Giovanni iniziò le sue missioni in Oriente; su richiesta, dell’Imperatore di Costantinopoli Michele Paleologo, portò a Teobaldo Visconti l’annuncio della sua elezione a Papa (Gregorio X), dopo un conclave durato due anni. Nel 1278, gli fu assegnato come territorio di missione il “regno dei Tartari”, ovvero i Khanati di Persia, Armenia e Kitchak (feudi o, se vogliamo, territori “confederati” dell’impero mongolo). Quivi restò a predicare, convertire e battezzare per 10 anni; imparò la lingua mongola, ed anche il persiano (la lingua dei “Nestoriani”): senza la conoscenza di tali lingue non avrebbe potuto né predicare, né convertire. Nel 1289, fece ritorno a Roma in qualità di “legato” del Re (Khan) Aitone II d’Armenia, e per incarico dell’Imperatore (Khan) Argone di Persia, per ottenere dal Papa “aiuti” militari contro i “Saraceni” e a difesa dei cristiani, nei cui territori già venivano protetti (a prescindere dalle politiche del papato). Padre Giovanni che già conoscenza il latino (la lingua della Chiesa e delle università europee), e il grecobizantino, la lingua dell’imperatore di Costantinopoli (all’epoca era impensabile che un ambasciatore non conoscesse la lingua del “principe”. Ma all’epoca si viveva nei secoli bui del Medioevo; oggi che viviamo nei secoli luminosi dell’evo contemporaneo, si può invece diventare anche Ministro degli Esteri conoscendo soltanto il napoletano, nell’accezione pomiglianese). La conoscenza del persiano (che allora era anche la lingua dei mercanti, una specie di inglese nei territori orientali) e del “mongolo” gli aprì successivamente la strada, perché Niccolò IV lo nominasse suo nunzio verso l’imperatore di Pekino.

Note: • Tuttora i missionari veri, in diretto contatto con le popolazioni dell’Africa e del Sud America, non predicano certamente in latino o in inglese; ma hanno bisogno di imparare, in loco “preventivamente”, almeno una infarinatura dei dialetti locali. • L’impero mongolo era organizzato come una “Confederazione” di stati, relativamente indipendenti, ma tutti legati da obbligo di fedeltà al Gran Khan, i capi federati erano anch’essi chiamati Khan (capo), termine che veniva tradotto nelle lingue europee in re, imperatore, condottiero ecc., in realtà tutti feudatari. 71


• L’incarico, la partenza da Venezia, il passaggio dalla Persia, fino in India (a Meliapur). Papa Niccolò IV (1288-1292), fu propugnatore di una intensificazione dell’opera missionaria della Chiesa in tutto il mondo conosciuto. Francescano, interpretò pienamente lo spirito del santo, dopo i fallimenti di Giovanni di Pian del Carpine, e degli altri inviati papali verso i mongoli, la Santa Sede non era ancora riuscita a stabilire un contatto solido, con stabili relazioni, con questa realtà politico-militare, di cui appena si conosceva qualcosa attraverso la contiguità con i feudatari periferici dell’Asia Minore. Kubilay Khan, l’Imperatore, attraverso i fratelli Polo (Maffeo e Nicola) aveva chiesto al Papa 100 missionari per il suo popolo (1269) e uomini di scienza. Nel 1271, Papa Gregorio X aveva inviato – attraverso una nuova spedizione dei Polo (cui si era aggiunto Marco) – una lettera per il gran Khan e due missionari, domenicani che, giunti per mare a Laiazzo nel Mediterraneo, presi dal terrore, erano tornati precipitosamente in patria. Quando Padre Giovanni si presentò al papa, questi riscontrò in lui la persona adatta, per prestanza fisica (vivrà 81 anni, età straordinaria per l’epoca, nonostante le fatiche e le privazioni), per coraggio ed entusiasmo religioso, per intelligenza e profonda preparazione linguistica e culturale (ferrato in materie giuridiche e teologiche, all’epoca complementari), per assumere la responsabilità e gli oneri di una missione presso l’imperatore dei mongoli, a Pekino (Khambalik) ove Kubilay Khan nel 1280 aveva trasferito la capitale dell’impero mongolo. In effetti, dopo 20 anni, il papato non aveva dato ancora riscontro alla richiesta dell’imperatore mongolo; Niccolò IV (fra’ Girolamo Masci, di Ascoli) era stato già legato della sede Apostolica in Oriente, e ministro generale dell’ordine francescano; ricevette Padre Giovanni a Rieti, al momento sede della corte pontificia, e considerò l’opportunità di affidargli un incarico di primaria importanza per la Chiesa (e per l’Europa); tanto più che le credenziali possedute da Padre Giovanni ne facevano, al momento, il diplomatico più ferrato nelle materie che venivano all’epoca considerate, tali da rappresentare la “prima scelta” da poter utilizzare presso il rappresentante di una “superpotenza” mondiale. Toccava ordunque a Padre Giovanni – ricevendo l’incarico papale – di stabilire un collegamento tra la Chiesa di Roma, i monarchi (cattolici) europei e l’impero mongolo (che tra l’altro lo chiedevano con plurime ambascerie). Niccolò IV – tra il 5 e il 15 luglio 1289 – approntò 26 credenziali, una per l’imperatore, le altre per “re”, vescovi, principi, esponenti religiose di altre Chiese (ritenute comunque “scismatiche” del papato), con chiare finalità successive politiche e militari. Infatti 72


anche a Padre Giovanni si chiede (ancora) di operare per una “preventiva” conversione di Kubilay Khan e dei suoi “principi”. È da evidenziare che le lettere di Niccolò IV non erano indirizzate soltanto a re o imperatori, ma anche a patriarchi cristiani non cattolici (giacobiti, nestoriani, armeni, copti, georgiani, bizantini), oggettivamente considerati dalla Chiesa di Roma “eretici e scismatici”; a dimostrazione che Niccolò IV – con grande sagacia politica – guardava ad una operazione strategica, interessando non soltanto i mongoli, ma anche tutti i cristiani d’Asia (comunque già nella “sfera dell’influenza” dell’Imperatore Kubilay), per la creazione di una “seconda Roma” a Pekino, contraltare alla “guerra Santa” islamica, da un punto di vista ideologico/religioso, e chiaro tentativo per un accerchiamento militare. Le “eresie” di giacobiti, armeni, nestoriani ecc. si limitavano (eccetto casi sporadici di intolleranza, spesso per rivendicazioni nazionaliste) a controversi teologiche (inestricabili) perlopiù sulla natura di Cristo, e sul mistero della Trinità. Nel Medio Oriente, nei primi secoli del cristianesimo, nacquero e si svilupparono un numero (incerto) di sette ed eresie, con diatribe spesso basate sul nulla dei ghirigori teologici; queste divisioni servivano, nella più parte dei casi, a coprire scontri per il potere all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, sempre che non nascessero, più banalmente, per rivalsa a qualche mancata investitura. La stessa divisione tra cattolici e ortodossi, più volte rientrata e più volte riproposta nei secoli, ebbe almeno all’origine, ad unico motivo, la sede del papato, per motivi di prestigio tra l’imperatore di Costantinopoli (con crescente influenza politica) e l’imperatore di Roma (con prestigio politico e forza militare sempre più decrescenti); soltanto successivamente comparvero gli scontri politici (e militari) tra l’impero romano d’oriente e il papato che si appoggiava ai “barbari” di turno che, in Italia, andavano ad occupare i territori controllati ancora da Costantinopoli; a questi avvenimenti sostanziali, furono appiccicate controversie teologiche posticce (la negazione del Purgatorio, il matrimonio dei sacerdoti, la processione dello Spirito Santo soltanto dal padre, o dal padre e dal figlio ecc…) per sostenere una divisione artificiosa (e deleteria, a fronte dell’espansionismo islamico). Dopo un breve periodo riservato all’insegnamento teologico ai confratelli (si ignora presso quale luogo), nello stesso anno Giovanni da Montecorvino lasciò Rieti, sede temporanea del papa, insieme a 60 missionari, diretti a Venezia ove imbarcarsi. Durante il trasferimento, a Camerino Giovanni da Parma (ex ministro generale dei Frati Minori) che doveva essere il principale coadiutore di Padre Giovanni, nella parte organizzativa e religiosa della missione, poco prima della partenza, improvvisamente venne a mancare. La perdita prematura e improvvisa, di Giovanni da Parma, coordinatore e organizzatore 73


dell’attività ecclesiastica della missione, non fermò il proseguo del viaggio, ma danneggiò non poco la missione diplomatica, e lo stesso esito di essa. Giovanni da Parma rappresentava una figura di prestigio all’interno del gruppo, di consumata esperienza nelle mansioni di guida col compito di affrontare e superare i problemi che naturalmente sarebbero sorti tra due comunità monastiche diverse, seppure momentaneamente unite in una missione tra l’altro difficile, di cui non si conoscevano le difficoltà da affrontare e nemmeno i tempi di realizzazione. Venne subito a mancare la sua capacità di intuire e risolvere alla radice i problemi che potevano sorgere durante il viaggio (non solo la paura per le distanze e lo scoramento per i tempi da trascorrere in navigazione, ma anche le difficoltà fisiche, le privazioni e la sofferenza per le malattie), tra una corte di 60 monaci, affatto omogenea; si ignora quanti fossero i francescani, e quanti i domenicani. Venne meno – senza Giovanni da Parma – la coesione e il “coordinamento” di due conventi viaggianti, di due ordini affatto simili che, anzi, spesso si erano trovati in competizione tra loro (nonostante l’”iconico” incontro tra San Francesco e San Domenico). Vincolati in un’impresa, lunga nel tempo e nel percorso, presto si manifestarono tra i religiosi segni di cedimento, non soltanto fisico; prospettandosi oltre la possibilità di non giungere alla meta, anche la quasi assoluta certezza di non fare mai più ritorno. Il viaggio, nonostante questa esiziale perdita, comunque proseguì e tutti, partiti da Venezia (1289), raggiunsero Antiochia e Laiazzo, e quindi Sis, capitale dell’Armenia, accolti con particolari onori del Khan (re) Aitone. Da Sis proseguirono per Tibriz, dove risiedeva la corte del Khan (imperatore) Argone II, che vantava con orgoglio il titolo di “protettore dei cristiani” nei territori dell’impero persiano. Nel 1291, Padre Giovanni lasciò Tibriz, per dirigersi ad Ormuz, sul Golfo Persico, ospite col suo seguito dei conventi ivi esistenti dei francescani e domenicani. Durante il viaggio, appunto nel 1291, cadde in mano ai turchi ottomani del Sultano Osman, San Giovanni d’Acri, che fu espugnata e distrutta. Tutte le richieste di aiuto fatte al papato (e ai re cattolici) dai Khan di Persia e di Armenia, nei due anni precedenti attraverso fra’ Tommaso da Tolentino, vari emissari “mongoli” (accompagnati da mercanti genovesi), e nel 1289 per mezzo dello stesso Padre Giovanni, si erano persi nel vuoto. La pressione islamica, ad ovest coi Mamelucchi d’Egitto, e nord con i turchi ottomani stava nuovamente chiudendo il cerchio, interrompendo le vie verso l’Asia: restava transitabile ormai soltanto la strada marittima attraverso i Dardanelli e il Mar Nero, e Trebisonda (ove dal 1204, con la quarta crociata si era costituito un impero “latino” sotto la famiglia Comneno), e da qui – a piedi – attraversando la Persia, proseguire per il porto di Ormuz. Secondo alcune fonti, ad Ormuz si sarebbe unito a Padre Giovanni il mercante genovese Pietro (Pietruzzo) di Lucalongo. Ma Padre Giovanni scrive di 74


averlo incontrato a Tibriz (seconda lettera); ma ad Ormuz avvenne il peggio. Padre Giovanni era un ecclesiastico di alta cultura, di forte carattere e di fortissima fede (e fedeltà alla Chiesa di Roma); i suoi compiti, all’interno dell’ordine e della Chiesa, oltre la predicazione, però erano sempre stati di alto livello diplomatico; ma non aveva mai avuto – sino ad allora – sufficiente esperienza nei rapporti interpersonali all’interno di una comunità religiosa, anzi di due comunità di fraterie (spesso tra loro in competizione). Non riuscì pertanto ad intuire, per tempo, che tutti i sessanta frati, o almeno quelli che ancora restavano, falcidiati già da defezioni più o meno giustificabili (malattie, età avanzata, “richieste” di unità dai conventi incontrati), avevano deciso di non proseguire oltre nel viaggio. Nei conventi erano stati terrorizzati (o persuasi) dal racconto appreso dai confratelli: soltanto un anno prima, quattordici navi mongole e erano state investite da un tifone in prossimità della costa; di esse, una sola si era salvata, mentre tredici erano colate a picco ed erano affogati 400 marinai (la nave che si era salvata, era quella guidata da Marco Polo che accompagnava una principessa mongola al suo promesso sposo, in Persia). Tutti avevano deciso di ritornare indietro. Non fu possibile farli recedere (pur evidenziando l’importanza della missione di cui li aveva incaricati il papa). Forti del numero, uniti nella compattezza generata dalla paura, quanti restavano degli iniziali 60 frati vollero far ritorno nei loro conventi (forse per non far sfigurare, di fronte alla storia, i due domenicani che – sulla nave dei Polo – avevano deciso nel 1271 di porre fine al viaggio verso la Pekino di Kubilay Khan). Si trattò di una vera e propria sedizione, che inficiò – quasi totalmente – la missione diplomatica di Padre Giovanni, con un atto di codardia in seno all’esercito francescano, armato – non di spada, perché Francesco d’Assisi era contrario ad ogni tipo di violenza – bensì di coraggio. Questa poco onorevole fuga, produsse due gravi conseguenze: 1) ritornati in Italia, i fuggiaschi – per giustificare sé stessi – diedero per morto Padre Giovanni (infatti anche P. Tommaso da Tolentino e a corte di Papa Clemente V lo credevano morto), che venne pertanto “dimenticato”. 2) Padre Giovanni – sperando in un “rincalzo” di altri missionari un po’ più coraggiosi – si fermò per circa 13 mesi in India, evangelizzando, in attesa di aiuti che non giunsero mai. Ciò provocò un ritardo – irrimediabile – del suo arrivo a Pekino: il destino aveva deciso che Kubilay Khan morisse qualche mese prima (a febbraio) dell’arrivo di Padre Giovanni (in primavera). Kubilay era l’imperatore che avevano incontrato i Polo, e quello che aveva sempre cercato un’intesa con L’Europa cristiana, per problemi suoi di “legittimità” di potere (come si cercherà di spiegare, più oltre). Padre Giovanni impiegò 5 anni (troppi) per giungere a Pekino. Dopo le solite guerriglie, che seguivano per conquistare il trono, tra i vari Khan, il nuovo imperatore risultò Timur, che ricevette Padre Giovanni con tutti gli onori e rispetto dovuti ad un nunzio 75


papale; ma Timur non era interessato né ad una conversione (perché?), né ad un’alleanza coi “principi” cristiani, in quanto non aveva i problemi di ordine politico e religioso che avevano più volte scosso la “legittimità” del potere di Kubilay. Nota: A Gengis Khan, nel 1229 successe Ogodai (il suo terzo figlio che, fortunatamente – per noi – morì quando i mongoli erano già giunti a Udine. Ad Ogodai, successe il figlio Guyuk nel 1246; a Guyuk nel 1251 successe Mongka Khan; Kubilay si insediò nel 1264, portando la capitale a Pekino nel 1280, ove ricevette i Polo. A morte di Kubilay, salì sul trono Timur nel 1294, e ricevette Padre Giovanni; quando Padre Giovanni venne consacrato arcivescovo (1309), l’imperatore che presenziò alla consacrazione fu un altro Guyuk Khan. L’ultimo imperatore mongolo fu nel 1368 un altro Timur (Toghon Timur).

• Storia della vita di Padre Giovanni, il viaggio da Ormuz (sul Golfo Persico) fino in India.

Nel 1291, lasciata Ormuz, coadiuvato dal domenicano Niccolò da Pistoia (l’unico che non lo aveva lasciato), forse insieme anche a Pietro di Lucalongo, Padre Giovanni proseguì il viaggio verso la punta dell’India. A Meliapur (una località dell’India prossima alla futura Sao Tomè dei Portoghesi). Purtroppo Niccolò da Pistoia morì, assistito da Padre Giovanni, e fu sepolto nella Chiesa di San Tommaso, che accoglieva i resti dell’apostolo. Ivi c’erano molti cristiani (nestoriani, ma anche cattolici), però i più erano buddisti, in una maggioranza musulmana. Per 13 mesi, quivi Padre Giovanni svolse attività apostolica, convertì 100 idolatri e fondò la prima “comunità latina” (cioè la prima Chiesa di Roma), nella vana attesa che lo raggiungessero altri confratelli, più coraggiosi dei “fuggiaschi”. Attraverso le memorie dettate da Odorico da Pordenone, ci è giunto un “sunto” di una lettera che Padre Giovanni avrebbe inviato dall’India: riguarda la descrizione dell’India, della sua popolazione, delle religioni ivi professate, del cattivo clima e del pessimo cibo, e suggeriva per tali motivi, di inviare missionari soltanto di “forte fibra”. In verità tali identiche notizie sull’India sono riportate anche nella “seconda lettera” di Padre Giovanni; è probabile che si tratti di un non chiaro ricordo di Odorico, o di un “qui pro quo” di fra’ Guglielmo di Solagna. Comunque resta ignoto a quale viaggiatore questa missiva fosse stata affidata, né se mai fosse pervenuta all’ordine francescano o al papa; e sarebbe alquanto strano che, nella lettera dall’India, non fosse citata “la fuga dei 60” (né la richiesta eventuale di nuovi confratelli per poter riportare a buon 76


esito il proseguo della missione). Nel 1292, Padre Giovanni, persa definitivamente la speranza di essere raggiunto da “aiuti”, ripartì per la Cina. Secondo fonti – altrettanto poco plausibili – sarebbe avvenuto a Meliapur l’incontro con Pietro di Lucalongo, e insieme i due avrebbero viaggiato per mare sino a Chouan–Chou (Zaiton). Non si capisce perché il mercante Pietro di Lucalongo – con i suoi affari e i suoi tempi di commerciante – sarebbe restato a Meliapur per oltre un anno (mentre Padre Giovanni comunque evangelizzava), senza nulla fare e senza alcun interesse, piuttosto che giungere al più presto nei luoghi dei suoi commerci. Padre Giovanni per il proseguo scelse la via del mare, la più breve e la più veloce, senza i pericoli rappresentati dai Briganti e da popolazioni ostili; comunque la via di terra in quel momento era chiusa per lo scoppio di conflitti locali. La partenza, dunque, avvenne in piena estate, quando, nel Mar della Cina, i tifoni avvengono molto più raramente rispetto l’autunno e la primavera, laddove i monsoni di mare cedono bruscamente a quelli di terra e viceversa. Evidentemente Padre Giovanni, informato dalla stagionalità delle tempeste, preferì attendere l’estate per veleggiare verso la Cina, proseguendo – nell’attesa – a svolgere la sua attività missionaria in terra d’India. Dal momento in cui Padre Giovanni e Padre Niccolò da Pistoia avevano lasciato Ormuz, dei due per 15 anni si perse ogni notizia.

Note: • Fra’ Odorico da Pordenone e Marco Polo, entrambi grandi viaggiatori e narratori, aperti alle novità e all’avventura, descrivono (dettando) i loro viaggi, l’aspetto dei luoghi (la geografia), le rotte per la navigazione, le religioni, le tradizioni, le superstizioni, il modo di vivere, il cibo dei popoli incontrati, le escursioni della meteorologia, la solubilità o l’insalubrità dei luoghi, degli ambienti, i palazzi dei re e i loro ricevimenti, le case (o le capanne) della povera gente. Padre Giovanni, nelle sue lettere (gli unici suoi due scritti a noi pervenuti), non parla se non del suo ministero di evangelizzazione, delle ottime relazioni col gran Khan, delle persecuzioni subite dai Nestoriani, degli aiuti ricevuti dagli amici – Re Giorgio e Pietro di Lucalongo – delle Chiese costruite, delle conversioni ottenute, dell’indirizzo dato ai fanciulli adottati; si duole per essere stato dimenticato ed essere stato solo per lungo tempo nella impossibilità di potersi confessare e, infine, chiede aiuti per la sua missione. Pur nell’umiltà del suo saio e nella povertà che gli imponeva il suo ordine, in presenza dell’imperatore (che realmente era la persona più potente della terra), non dimentica di essere il nunzio del Papa di Roma, e giustamente accetta – in tale qualità – ed onora il posto che gli accorda 77


Timur, accanto alla sua persona, nei ricevimenti a corte. Sia Odorico da Pordenone che Marco Polo descrivono dettagliatamente la magnificenza dei ricevimenti. Padre Giovanni tralascia la trascrizione delle ricchezze, per raccontare soltanto le sue opere di missionario, e l’onore che gli concede l’imperatore in quanto nunzio papale. • I mongoli non ebbero mai sufficienti nozioni di navigazione, e le loro conquiste avvennero tutte sulla terraferma. Le loro “navi” non erano molto diverse dalle feluche degli arabi: barconi privi di ponte, muniti di una vela quadra, costruiti con assi di legno, legate tra loro con corde unte di grasso e bitume, per impedire le infiltrazioni di acqua. Per tutto il Medioevo, gli arabi non furono in grado, nella costruzione navale, di usare chiodi di ferro né quelli di legno ad incastro; si limitavano alla navigazione lungo le coste, per scopi di pirateria e razzie contro i centri abitati rivieraschi. • Fra’ Bartolomeo di San Concordio, domenicano, scrive di aver avuto notizie di fra’ Mementillo da Spoleto, domenicano, il 20-12-1310 che un frate minore avesse assistito, in prossimità della morte, fra’ Nicola da Pistoia, in una città dell’India.

Papa Niccolò IV

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CAPITOLO 7 • Storia della vita di Padre Giovanni: da solo, da Meliapur in India, a Senkalà, in Cina; inizio della missione.

Nel giugno del 1292, dunque, Padre Giovanni da Meliapur, da solo, s’imbarcò su una “nave”, ovvero un barcone senza ponte e con una sola vela quadra, diretta verso il Bengala, e da lì arrivò a Burma. Quindi, costeggiando tra la Malesia e Sumatra, giunse alla Malacca, fermandosi all’isola di Borneo (mediamente 50 giorni di navigazione; all’epoca non esistevano carte geografiche, né carte nautiche, e le distanze si misuravano in “giorni” di navigazione, a cavallo o a piedi, poiché non c’erano neppure unità di misura – se non la pertica, la spanna, il piede e altre denominazioni per catalogare le brevi distanze in agricoltura). DI tale percorso parlerà anche Marco Polo nel “Milione” (nel 1294, muore l’imperatore Kubilay, Giovanni da Montecorvino giunge a Pekino, e Marco Polo fa ritorno a Venezia). I mongoli, incapaci di navigare a fini militari o commerciali, non giunsero mai nel Borneo, o in altre isole. La tappa successiva fu Senkala (Canton), prima città cinese toccata da Padre Giovanni. La navigazione, alla fine, era trascorsa tranquilla, pur sotto un sole abbacinante dal quale non era possibile proteggersi se non con stuoie e mantelli. Il viaggio proseguì per Zaiton (Chouan-Chou) all’epoca uno dei porti più grandi del mondo, con una popolazione enorme (forse un milione di persone), ove si sarebbe diviso dalla compagnia dell’amico Pietro di Lucalongo. Successivamente, Padre Giovanni farà di Zaiton sede vescovile. Da Zaiton a Pekino – per circa 2000 km – Padre Giovanni proseguì a piedi, passando per Fut-Jo e Kina; infine “in primavera” nel 1294 raggiunse la capitale ove non incontrò Kubilay (morto a febbraio), ma il suo successore Timur. Venne comunque ricevuto con tutti gli onori riservati a un “nunzio” (ambasciatore di un “re”, di una nazione amica o di una grande religione), come prevedeva il cerimoniale. L’impero mongolo comprendeva quasi tutta l’Asia (eccetto le regioni inabitabili della Siberia, l’Indocina, la Malesia, l’Indonesia, la Corea, l’India e il Giappone, il Borneo). Timur continuò la politica di tolleranza verso tutte le religioni, anzi estese l’”alafa” ai predicatori (cioè l’esenzione dalle imposte, più un sostanzioso contributo per il vestiario e il cibo), già riservata ai “nunzi”, ai guerrieri, agli artisti, ai poveri e a quante altre categorie stabilisse il Khan. Si iniziò così l’attività missionaria di Padre Giovanni; Timur rifiutò di convertirsi (non aveva motivo per farlo), ma Padre Giovanni – assolutamente solo – non si perse d’animo. Nonostante non vi fosse nessuna possibilità di comunicazione verso l’Europa, perché le vie di transito attraverso l’Asia minore si erano definitivamente chiuse 79


(con la caduta di San Giovanni d’Acri), e gli ottomani stavano approfittando della recente vittoria per “premere” su Persia e Armenia. Era impossibile inviare messi, e non arrivarono più nemmeno mercanti. Padre Giovanni fu pioniere del cattolicesimo in Cina, dove esisteva una popolazione immensa su un immenso territorio, su cui era impiantata una civiltà millenaria (rapidamente fatta propria dai mongoli). Anzi, di popolazioni ve ne erano due: una dominante e una dominata. Il disegno di Niccolò IV sembrò naufragare subito; ma sorprendentemente Padre Giovanni incontrò e fece amicizia con un “nestoriano” molto potente a corte, che addirittura riuscì a convertire al cattolicesimo. Era “Re Giorgio” il Khan del popolo Alano, non mongolo, cristiano (nestoriano), capo della guardia imperiale (che contava 30.000 guerrieri) e di tutti gli alani in Cina. Seguendo il suo Khan, tutto il popolo Alano si convertì al cattolicesimo, erigendo Chiese e luoghi di culto. Padre Giovanni fu a lungo protetto e aiutato da questo Khan, quotidianamente in contatto con l’imperatore e di grande peso negli ambienti di corte. Insieme, vollero edificare nella città di Tenduc, la capitale degli alani la “Chiesa romana della Trinità” e Padre Giovanni tradusse nella lingua degli alani i salmi e la liturgia della messa, e a “Re Giorgio” amministrò l’ordine minore dell’accolitato, per cui quotidianamente serviva la messa, vestito con l’abito talare. Il suo primo figlio, il Khan degli alani della tribù Ongut, lo battezzò col nome di “Giovanni” in onore del francescano. La “missione, composta da una sola persona, aveva convertito un intero popolo. Complessivamente – nonostante il rifiuto (prevedibile) della conversione “preventiva” del gran Khan – in tempi sorprendentemente brevi, si stava realizzando “procedendo dalla coda” la conversione di grandi masse di popolo (non solo alani, ma anche mongoli e cinesi, e gruppi etnici non mongoli, provenienti dal Medio Oriente, e di confessioni ritenute “eretiche” georgiani, armeni, bizantini…). Ma all’improvviso tutto si fermò; dopo circa 6 anni, Re Giorgio morì in battaglia, in una delle tante guerricciole che si accendevano tra l’imperatore e qualche suo Khan feudatario. I fratelli di Re Giorgio rinnegarono il cattolicesimo, e obbligarono il loro popolo (con l’aiuto dei sacerdoti nestoriani) a tornare al nestorianesimo. Anche la “Chiesa romana della Trinità” passò ai Nestoriani. Non riuscendo più a svolgere proselitismo a Tenduc, Padre Giovanni non abbandonò gli alani che vivevano a Pekino e nelle guarnigioni lungo le strade che portavano alla capitale. Restò sempre una grande amicizia tra questo popolo e Padre Giovanni, tanto che, dopo la sua morte, una delegazione mista di alani e mongoli raggiunse Roma, ove chiese al Papa Benedetto XII un altro arcivescovo “della bontà di Padre Giovanni”, ed altri missionari francescani. Il Papa inviò loro come nunzio fra’ Giovanni Marignolli, accompagnato da 4 (o forse 50) Frati Minori; come arcivescovo era già stato inviato fra’ Nicola delle Puglie che non arrivò mai a Pekino (pare venisse imprigionato e ucciso a Tana, in India, insieme al 80


suo corteo). Sempre con l’aiuto di Re Giorgio, Padre Giovanni aveva già costruito una prima Chiesa a Pekino che, a causa del gran numero di conversioni, in breve era diventata non più sufficiente. Si iniziò così a costruire una seconda Chiesa, più grande. Ma ormai non c’era più Re Giorgio, e si iniziarono le persecuzioni dei nestoriani, che durarono per 5 anni fino a portare Padre Giovanni in prigione, e molto vicino ad una condanna a morte. Già dal VIII secolo, folti gruppi di nestoriani, premuti dall’integralismo religioso dei turchi, provenienti dalla Persia, si erano stabiliti in Cina con le loro famiglie. Malvisti dagli ultimi imperatori cinesi, della dinastia Thang, con i mongoli avevano ripresto vigore sia nell’amministrazione delle province dell’impero, sia nella vita religiosa; contavano nelle loro file anche alti ufficiali dell’esercito, e costituivano completamente la guardia del corpo dell’imperatore. Possedevano numerose Chiese e conventi, ed ostacolavano la predicazione di altre correnti cristiane. Naturalmente si opposero in tutti i modi alla costruzione delle Chiese e dei conventi cattolici, e alla predicazione di Padre Giovanni; gelosi della benevolenza del gran Khan verso il francescano, timorosi di perdere i favori dell’imperatore iniziarono a spargere menzogne e calunnie, fino a denunciarlo al tribunale della corte imperiale: lo accusavano di essere un impostore, di aver ucciso il vero “nunzio” papale, di avergli sottratto le credenziali e di essersi impossessato dell’immenso tesoro che il Papa aveva inviato in dono all’imperatore, sostituendo la persona inviata da Roma. Morto “Re Giorgio” Padre Giovanni non aveva alcuno che lo potesse difendere a corte, tanto più che le accuse erano estremamente, e subdolamente, pericolose, in quanto sembravano credibili e convincenti presso i mongoli. Infatti per l’ambiente di corte, sembrava impossibile che un grande re (come essi immaginavano il Papa) non avesse inviato grandi doni al loro Khan. Oltre che ladro e assassino, Padre Giovanni veniva accusato di oltraggio alla persona dell’imperatore. Un’accusa che, facilmente, si poteva trasformare in una condanna a morte (tuttora si viene condannati, in genere, con una pena più lieve per un delitto contro la persona piuttosto che per “lesamaestà” di un alto parruccone). Per fortuna (o per miracolo) l’amico mercante Pietro di Lucalongo, informato di quanto stava accadendo, si recò a Pekino per scagionarlo con la sua testimonianza. I nestoriani accusatori furono puniti, e mandati in esilio con le loro famiglie. Così, anche con l’aiuto di denaro di Pietro di Lucalongo, si riuscì a terminare la Chiesa “cattedrale”, con un campanile con tre campane, una grande croce rossa, con affreschi all’interno con scende del Nuovo e Vecchio Testamento, e scritte in latino, persiano e mongolo. Le due Chiese a Pekino non erano molto distanti tra loro; Padre Giovanni, alternativamente, officiava in entrambe. La Chiesa cattedrale era vicinissima al palazzo del Khan. Intanto, era riuscito a raccogliere 40 fanciulli, li aveva nutriti, allevati, istruiti, insegnando loro anche il latino e i canti gregoriani (di 81


cui si deliziava l’imperatore). È necessario chiarire, a questo punto, la questione del vocabolo “comprare”, riferito ai bambini, che viene riportato in testi coevi; e tale e quale – senza alcun chiarimento – viene riproposto persino in pubblicazioni recenti, dando adito al “sospetto” di un atto di traffico di esseri umani, o di schiavismo: nulla di tutto questo! In Cina era consuetudine – in tempo di carestie, di epidemie, di inondazioni, di guerre – che le famiglie più povere (e spesso più ricche di figli) cedessero in cambio di un “obolo” – che serviva a sancire il passaggio dalla originaria famiglia ad un’altra (benestante) – di uno dei loro figli (solitamente il più piccolo o il più debole) per assicurargli una vita migliore, quantomeno farlo sfuggire alla morte per fame. Questa istituzione (umana) – fino ad una sessantina di anni fa – era praticata anche in Italia senza che il bambino cambiasse cognome, e senza “strapparlo” alla famiglia di origine, spesso quando era già grandicello in modo che avesse sempre presente anche la famiglia d’origine; in estrema emergenza di povertà, qualche bambino veniva “raccomandato” per carità cristiana anche a conventi, o monasteri (ricordate il film “Marcellino pane e vino”?). I più fortunati ebbero la possibilità di diventare talora persone di grande rilievo professionale, altri onesti operati o artigiani (con due famiglie ugualmente amate), altri ancora uomini di fede o soltanto persone comuni, timorate di Dio. La “ruota” o i befotrofi erano le “minori soluzioni” per i bambini nati fuori dal matrimonio. Comunque presso le società pagane nell’antichità, e in Cina (sino a qualche decennio fa) era “legale” l’infanticidio (specialmente delle bambine), o l’abbandono. Oggi sono intervenuti, con la modernità e il “progresso”, i tribunali minorili, le “adozioni forzate” con allontanamento delle famiglie di origine, gli “assistenti sociali”, le follie ideologiche della “psicologia” (che non è una scienza, e meno che mai una scienza medica), con la sequela degli orrori di Bibbiano (che è quanto emerso in una solta regione!) naturalmente per “errore umano” non per soldi (per carità!). Padre Giovanni, nelle lettere, si duole che qualcuno dei suoi bambini sia morto per malattia. Qualcuno di essi diventò sacerdote, ma nessuno divenne vescovo, perché nonostante uno dei fini primari della “missione” fosse quello di creare la Chiesa Cattolica (autoctona) di Cina, e quindi sarebbe occorso un “continuum” con ecclesiastici cinesi, Padre Giovanni non nominò nuovi vescovi. Cosa strana perché – prima di diventare arcivescovo (cioè ancor prima di avere l’autorità per farlo) – Padre Giovanni aveva creato una specie di seminario per i giovani, andando oltre le convenzioni ecclesiastiche. Riassumendo, dopo la partenza da Rieti, Padre Giovanni aveva impiegato 5 anni per giungere in Cina – assolutamente solo dall’India a Pekino – soffrendo fatiche, fame, l’insidia delle malattie, il pericolo di imbattersi in briganti o pirati, e infine – nella stessa Pekino – nonostante la benevolenza dell’imperatore, le persecuzioni dei nestoriani indirizzate ad ottenere la sua condanna a morte. In 11 82


anni di solitudine e di isolamento, non aveva avuto possibilità di comunicare con la Chiesa di Roma, né col suo ordine monastico, sia per le grandissime distanze che per l’estrema pericolosità dei viaggi, fino all’arrivo di fra’ Arnoldo Alemanno, “giunto inatteso”. Soltanto la forza della fede e la fedeltà all’impegno, che aveva ricevuto dal papa, riusciranno a sostenere Giovanni negli anni dell’isolamento; comunque anni fattivi, verso l’opera missionaria (a Pekino c’erano ormai circa 6000 cattolici in parte cinesi, ma anche mongoli e alani, armeni…) scrive fra’ Gaspare Han che – in qualche modo – erano giunte anche le notizie (pessime) delle lotte che laceravano la Chiesa di Roma, attraverso un medico lombardo (forse un “patarino” fuggiasco), giunto a Pekino presumibilmente nel 1303. E certamente queste pessime novità, da chiunque apprese, non incisero positivamente su Padre Giovanni. La presenza di fra’ Arnoldo comunque diede un maggior respiro all’opera della missione; sebbene Padre Giovanni si lamentasse di avere già 58 anni e di sentirsi vecchio, capisce che la sua opera non potrebbe continuare contando soltanto sugli arrivi (pochi) di nuovi confratelli, a causa di un viaggio sempre difficile e pericoloso dall’Europa; in tale ottica crea un “seminario minore” per i ragazzi adottati (forse andando oltre limiti della sua potestà, non essendo vescovo).

Note: • Nel libro di fra’ Gaspare Han si attribuisce a P. Odorico da Pordenone la narrazione che il palazzo di Timur fosse all’interno della “città proibita”. P. Odorico aveva tutto il diritto di non ricordare bene alcune cose, ma non poteva avere capacità di preveggenza. Perciò l’errore va imputato all’ottimo fra’ Gaspare (o alle sue “fonti”). Il palazzo del Khan non poteva essere nella città proibita (tuttora in piedi, e visitabile), perché questa costruzione all’epoca di Padre Giovanni non esisteva ancora, e meno che mai all’epoca di Marco Polo (come alcuni cinematografari ci hanno rappresentato). La città proibita venne fatta costruire dal secondo imperatore della dinastia Ming, dopo la cacciata dei mongoli dalla Cina (1368). • Oggi che viviamo in società civili, democratiche e progressiste, l’infanticidio non esiste (quasi) più, sostituito dagli abortifici (di Stato) in Cina, e dagli abortifici gestiti da società private negli USA; ove è considerato “aborto” la soppressione del feto anche al nono mese di gravidanza, e poiché – per soldi – “non si butta nulla” i prodotti sanguinolenti degli aborti vengono venduti alle società farmaceutiche (per sperimentazioni e ricerche) con prezzi diversi a seconda del “pregio” del “pezzo” (il materiale cerebrale vale più di quello muscolare). Per rispetto del 83


lettore, non espongo come – negli USA – vengono espletati gli “aborti al nono mese di gravidanza” ovvero gli infanticidi. • Testi recenti scrivono che, giunta in Gazaria la “prima” lettera, molti francescani e domenicani che conoscevano la lingua mongola, intrapresero il viaggio verso la Cina (portando testi sacri, paramenti e calici); ma dopo breve, il viaggio si arrestò per conflitti locali, scoppiati ai confini. Non si capisce perché questo viaggio verso la Cina non venisse ritentato, a conflitto sedato. È vero che, con la caduta di San Giovanni d’Acri era ormai interrotta la via tra la Palestina e l’Asia (restando aperta soltanto quella tra il Mar Nero e la Persia), ma ciò non interessava il (libero) passaggio tra Persia (Gazaria) e Cina. Questo non è un errore (come per il racconto di P. Odorico), ma una bufala moderna, bella e buona.

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CAPITOLO 8 Storia della vita di Padre Giovanni (dalla prima lettera alla morte)

• La prima lettera.

Dopo 11 anni di isolamento, narrano le agiografie, soltanto nel 1305 Padre Giovanni riuscì a profittare di una delegazione mongola mediorientale che si era recata a Pekino a conferire con l’imperatore. Al capo delegazione, Padre Giovanni affidò – prima della ripartenza per la Persia – una lettera da far giungere al suo ordine “di Gazaria”, (sul Mar Nero) in cui riassumeva la propria esperienza missionaria in Cina. Era la prima lettera, cui né l’ordine né la Santa Sede fecero seguire alcuna risposta. In essa, Padre Giovanni riassumeva il suo viaggio, il favore che gli mostrava l’imperatore ma anche il (prevedibile) rifiuto alla conversione; la sua predicazione e l’evangelizzazione che continuava a praticare, l’ostilità dei nestoriani, le sofferenze per l’isolamento durato tanti anni; informava dell’arrivo del confratello, della costruzione della Chiesa “cattedrale”, di 600 conversioni e battesimi, di Re Giorgio cui aveva conferito gli “ordini minori”, e dalla Chiesa “romana” di Tenduc; indicava le vie più brevi e più sicure per raggiungerlo, e invocava libri religiosi, lamentandosi di sentirsi già vecchio coi capelli bianchi, e decantava la magnificenza dell’impero e della corte mongola. Riferiva dei 40 fanciulli adottati, e richiedeva di far conoscere la sua lettera al papa.

Nota: Non è agevole spiegare perché – pur considerando morto Padre Giovanni – l’ordine francescano (non credo senza l’assenzo papale) avesse inviato a Pekino fra’ Arnoldo da Colonia, ove giunse nel 1303. Oggi, naturalmente, a richiesta, vengono date soltanto risposte inerenti una “evangelizzazione più potente”; ma non si comprende come questa potesse avvenire con una unità (o due) di missionari per volta… in Cina! È pensabile che fosse anche essa un’ambasceria, ma non vi è certezza documentabile.

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• La seconda lettera.

Un anno dopo (1306), pervenuta a Pekino una seconda delegazione della Persia, viene assicurato a Padre Giovanni che la sua lettera è giunta a destinazione. Padre Giovanni allora scrive una seconda lettera, diretta al ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori (la riceverà fortunatamente, padre Tommaso da Tolentino) della provincia di Gazaria (Persia). In essa Padre Giovanni si lamenta di non aver mai ricevuto lettere dal suo ordine, ma non se ne meraviglia, rendendosi conto delle difficoltà esistenti per le grandi distanze. Smentisce naturalmente (ma ancora una volta) le voci che lo davano per morto. Ricorda di aver già inviato una lettera l’anno precedente, e non ne ripete i contenuti. Parla nuovamente delle persecuzioni dei nestoriani, riferisce della costruzione della Chiesa cattedrale – con le pitture e le scritte in tre lingue – e di case (conventi) vicine al palazzo del gran Khan, i cui terreni erano stati comperato col denaro offerto da Pietro di Lucalongo, testimonia di aver battezzato alcune migliaia di persone, e si addolora per la morte di alcuni dei suoi 40 fanciulli. Parla ancora della grandezza dell’impero mongolo, e accenna all’imperatore che ha sentito parlare tanto della curia romana e della situazione dell’occidente e desidera incontrare i “nunzi” (papali) che dovessero pervenire in Cina. Parla degli idolatri ed eretici che vivono in Cina, e accenna all’India che avrebbe bisogno di missionari “se non uomini fortissimi”. In sintesi – nelle due lettere (che sono gli unici scritti rimasti di Padre Giovanni) – viene riassunta tutta l’attività sino ad allora svolta, aggiungendo qualche notizia sui popoli, sulle religioni, sulla ricchezza dei Khan. Però, senza il successivo intervento presso il papa di Tommaso da Tolentino, che “impose”, nella sua qualità di ministro generale dell’ordine in Gazaria, l’invio degli “aiuti” richiesti da Padre Giovanni (e la conseguente decisione di Clemente V di consacrarlo arcivescovo di Pekino), di Padre Giovanni forse sarebbe restato soltanto il vago ricordo del nome, come uno dei tanti sconosciuti francescani (e domenicani) inviati nelle missioni, ed ivi scomparsi.

Nota: P. Giovanni, aveva già conosciuto Tommaso da Tolentino nelle missioni in oriente, e confida che la sua lettera possa giungere proprio a lui.

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• Storia della vita di Padre Giovanni: la consacrazione ad arcivescovo di Pekino e patriarca d’oriente.

Padre Tommaso da Tolentino trovavasi nel 1306 nella “provincia di Gazaria”; in quanto ministro generale dell’ordine francescano; nelle sue mani venne recapitata la seconda lettera di Padre Giovanni. Padre Tommaso era già stato nel 1290 missionario in Armenia; nel 1306 era diventato ministro generale dell’ordine in Gazaria. Letta la lettera, recepisce l’invocazione di aiuto del confratello, capisce l’importanza della missiva; forse è a conoscenza della missione francescana inviata in Cina nel 1289. Pertanto, senza delegare ad altri, personalmente decide di recarsi ad Avignone, da Papa Clemente V, come latore della missiva di Giovanni. Giunge in Francia, a Poitiers, presso il papa; per farsi ricevere si fa “raccomandare” da un cardinale francescano, il De Murro; ma al cospetto del Papa Clemente V, Padre Tommaso – di carattere irruento e vigoroso – ha il coraggio di evidenziare l’importanza della missione di Padre Giovanni, i risultati che ha raggiunto, probabilmente “fa uscire” anche la prima lettera, preme per un aiuto da inviare subito (e non “a morte di papa”). Si impone con la sua autorità di ministro generale dell’ordine in Gazaria, si fa ascoltare anche in merito ai “motivi” (non soltanto religiosi) per cui Niccolò IV aveva impegnato Padre Giovanni. Grazie a Tommaso da Tolentino, tutti si rendono conto che Padre Giovanni non era morto, ma che comunque l’avevano “dimenticato”. Viene riconsiderato, ad ogni modo, il “disegno politico” di Niccolò IV; e Papa Clemente V decide di condividerlo, riprenderlo e rafforzarlo perché sostanzialmente ancora valido. Il papa, allora, dispone nel 1307 – attraverso una bolla – di far consacrare Padre Giovanni ad arcivescovo di Pekino e patriarca dell’oriente (tutto quello conosciuto), per concedergli un potere tale da poter trattare “da pari” con l’imperatore, al fine di creare a Pekino una seconda Roma (cattolica), su un territorio immenso, coincidente con i confini dell’impero mongolo. Niccolò IV – partendo dalla necessità di stabilire un rapporto organico e permanente di alleanza militare (o, quantomeno, di stabile pace) e di penetrazione ideologica (religiosa) verso quei popoli bellicosi che già si erano affacciati in armi nell’Europa orientale (e che non si era in grado di fronteggiare militarmente) – aveva elaborato una strategia di avvicinamento attraverso l’esercito francescano che i mongoli non solo rispettavano, ma invocavano in gran numero a predicare tra loro (in verità credevano che tutta la Chiesa di Roma fosse francescana). Per la consacrazione di Padre Giovanni ad arcivescovo di Pekino e patriarca dell’oriente, Papa Clemente V fece scegliere al ministro generale dell’ordine in Francia 7 frati minori da consacrare a vescovi e da inviare in Cina: fra’ Guglielmo Gallico di Villanova, fra’ Nicola da 87


Bantia delle Puglie, fra’ Andrea Guidona da Perugia, fra’ Pellegrino da Castello, fra’ Gerardo Albuini, fra’ Ulrico da Soyfridstorf, fra’ Andreuccio d’Assisi. Per la consacrazione episcopale di costoro, furono designati tre cardinali. Clemente V concesse a Papa Giovanni anche il pallio (anche per i suoi successori) e la facoltà di ordinare e consacrare altri vescovi che, a loro volta, potessero eleggere – a morte di Giovanni – l’arcivescovo (successore) di Kambalik. Dei sette vescovi consacrati in Francia ne partirono soltanto sei; nel 1308 (o forse 1309), a Pekino ne giunsero soltanto due, con un numero non conosciuto di frati al seguito, sopravvissuti al viaggio. Fra’ Guglielmo di Villanova, consacrato vescovo, non partì affatto (se ne ignorano i motivi). Fra’ Nicola da Bantia e fra’ Andrea d’Assisi morirono di malattie in India. Fra’ Ulrico Alemanno morì assassinato a Tana. All’entrata in Cina, il vescovo Gerardo Albuini si fermò a Zaiton, senza proseguire per Pekino. Soltanto fra’ Pellegrino da Castello e fra’ Andrea da Perugia giunsero a Pekino, per la consacrazione, che avvenne nella Chiesa cattedrale, nel 1310, con la presenza del gran Khan Guluk (o Guyuk), succeduto a Timur. Dei francescani che giunsero a Pekino – vivente Padre Giovanni – oltre i suddetti, e fra’ Arnaldo di Colonia, si ricordano i nomi di: fra’ Giovanni Grimaldi, fra’ Emanuele da Montecchio, fra’ Ventura da Sarzana (questo ultimo, genovese, era diventato monaco in Asia) che giunsero dopo la morte di fra’ Arnaldo da Colonia. Nel 1311, Clemente V elesse altri tre frati minori come vescovi ausiliari di Padre Giovanni: fra’ Tommaso, fra’ Girolamo Catalano e fra’ Pietro da Firenze, “a sostituzione” dei tre vescovi morti in India (fra’ Nicola da Bantia, fra’ Andrea d’Assisi e fra’ Ulrico Alemanno) durante il viaggio da Roma a Pekino. Soltanto fra’ Pietro di Firenze, giunse e restò a Pekino. Nel 1325, giunse fra’ Odorico da Pordenone, accompagnato da fra’ Giacomo (di cui non si sa molto).

Nota: Fra’ Girolamo Catalano andò (successivamente?) a fare il vescovo a Caffa (in Crimea). Forse non arrivò mai in Cina.

• La morte, e i problemi che seguirono.

Padre Giovanni spirò nel 1328, in odore di santità (come relaziona il coevo Decora, vescovo della nuova diocesi di Persia, staccata da quella di Pekino), venerato dai convertiti, sia mongoli che cinesi, o di altra etnia, onorato e rispettato dalla corte del 88


gran Khan. Venne sepolto presso la Chiesa cattedrale, da lui costruita, e – fino al 1368 – quando i mongoli fuggirono da Pekino – la sua memoria restò a faro della cristianità della Cina, e venerata come quella di un santo. In anticipo di 7 secoli sulla Chiesa di Roma, Padre Giovanni introdusse l’uso della lingua locale nella liturgia (cosa all’epoca vietata dalla Chiesa, tanto da essere spesso considerata una manifestazione di eresia); in Europa divenne lecita soltanto dopo il Concilio Vaticano II. Come pure fu un atto di grande audacia e di “modernità” (anche se dettata da ovvia necessità) l’aver istituito un “seminario minore” per bambini cinesi (alcuni dei quali furono poi avviati al sacerdozio, per garantire la continuità della Chiesa cinese); ma – prima della consacrazione ad arcivescovo – non ne avrebbe avuto la piena potestà. Grande lungimiranza ebbe anche quando conferì al “Re Giorgio” l’ordine minore “dell’accolitato”, facendogli servire messa in abiti talari. La morte di Padre Giovanni – avvenuta nel 1328 – si pensa sia stata “improvvisa”. In effetti, dopo la morte di Padre Giovanni, a Pekino non giunse più alcun arcivescovo: fra’ Nicola delle Puglie (consacrato a Roma) non raggiunse mai la Cina. Pare venisse incarcerato a Tana (India) con tutto il suo seguito, e successivamente venissero tutti trucidati. L’Arcivescovo Guglielmo – consacrato nel 1369 – non riuscì mai a partire, perché in Cina, ormai, l’Imperatore Ming Chu Yuan Chang aveva chiuso i confini ed espulso (o ucciso) tutti gli stranieri. Resta però oscuro il motivo per cui Padre Giovanni – arcivescovo di Pekino e patriarca dell’oriente – pur avendone l’autorità, non nominò nuovi vescovi, ma si limitò a insediare nella sede suffraganea di Pekino (Zaiton) soltanto i vescovi giunti dall’Europa. Pertanto alla sua morte, erano restati due soli vescovi di “provenienza europea”; almeno ciò si desume, da quanto le fonti “ufficiali” ci lasciano leggere oggi. Tra le facoltà concesse da Papa Clemente V, c’era anche quella di ordinare vescovi (oltre che sacerdoti) tanto da poter garantire la consacrazione del suo successore, e superare le problematiche (che si manifestarono pienamente) del viaggio arcivescovile dall’Europa alla Cina. Resta questo un altro punto poco chiaro della vita di Padre Giovanni: il mancato esercizio della sua potestà, tanto da provocare – alla sua morte – la “vacatio” dell’arcivescovado di Pekino che tale restò fino alla soppressione definitiva. È alquanto strano che Padre Giovanni – audace innovatore e concreto evangelizzatore – a fronte delle necessità, fosse andato in precedenza al di là delle sue facoltà (creazione di un seminario minore, traduzione in lingua alana di passi dell’ufficio sacro…) quando era ancora un semplice frate; e non abbia poi usato le sue piene facoltà di arcivescovo e patriarca, per nominare nuovi vescovi, tanti da poter garantire la piena efficacia della nomina di un nuovo arcivescovo di Pekino, alla sua dipartita. Non si dimentichi che Padre Giovanni aveva, nella sua diocesi, la stessa potestà e le stesse funzioni del Papa di Roma (ovvero di Avignone), fatta salva l’obbedienza in caso di divergenza di 89


vedute in campo teologico, gerarchico e politico. Poiché non risulta, e in verità non è neppure ipotizzabile oggi, in sede storica, che sia mai avvenuto qualcosa del genere, resta un vuoto ulteriore nella narrazione della sua vita, almeno degli ultimi due anni. Odorico da Pordenone riparte da Pekino (forse) nel 1328 e nelle sue memorie nulla ci dice circa le condizioni di salute di Padre Giovanni. Oggi, a giustificazione di questa “mancata cautela” (oggettivamente grave) per garantire la continuità dell’arcivescovado, a meno che da Avignone non fosse giunta (ma attraverso chi?) una diversa disposizione, (all’epoca era Papa Giovanni XXII), è ipotizzabile soltanto una intervenuta infermità, possibile per l’età, che ne avesse attutito le facoltà mentali. Ma sia sulla prima ipotesi, che sulla seconda, le “fonti” sono abbottonatissime. Tengasi comunque presente che Papa Giovanni XXII (13161334), secondo Papa avignonese, tolse al popolo e al clero il diritto di eleggere i vescovi, avocandolo soltanto a sé stesso. Odorico da Pordenone nel 1318 era a Portogruaro, molto ricercato come predicatore. Si racconta che in quell’anno, venne destinato alla Cina, per volere del Papa, e raggiungere Pekino e Padre Giovanni. Pare partisse nello stesso anno, giungendo a Tana, dove si fermò per raccogliere le spoglie dei confratelli martirizzati insieme a Tommaso da Tolentino. Da qui riprese il viaggio e arrivò – dopo 7 anni – a Pekino (1325). Dopo meno di un anno, forse, era di nuovo in viaggio, per il ritorno in Europa (passando per il Tibet). Altri dicono che restò in Cina 3 anni; quindi partì dopo la morte di Padre Giovanni? Esploratore e narratore; senza dubbio! “Aiutante” di Padre Giovanni nella evangelizzazione della Cina, come viene per “consuetudine” definito, mi sembra un po’ troppo! Attraverso chi, Papa Giovanni XXII abbia fatto giungere il “contrordine” all’arcivescovo di Pekino, nel quadro dell’assolutismo papalino che Giovanni XXII intese promuovere, non ci è dato sapere; ma soltanto sospettare… diceva Andreotti che a pensare male, si fa peccato… non intendo aggiungere al mio oneroso carico di peccati, anche questo.

Nota: come aveva loro predetto dal rogo nel 1313 Jacques De Molay, maestro dell’Ordine dei Templari, Filippo il Bello e Clemente V morirono l’anno successivo, nel 1314. Nota: l’Arcivescovo Guglielmo, consacrato arcivescovo di Pekino nel 1369, probabilmente era campano.

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• La fine di una missione.

Una volta consacrato Arcivescovo di Pekino e Patriarca d’Oriente, Padre Giovanni si era ritrovato a guidare la diocesi più vasta del mondo, grande come l’impero mongolo; mai esistita prima, né successivamente superata, sia nella storia della Chiesa, sia nella storia politica dell’umanità. Ma ormai era di età avanzata, non più in grado di intraprendere grandi viaggi (spesso a piedi), ma ebbe la possibilità di aprire nuovi campi di missione, con l’assistenza dei nuovi vescovi giunti in Cina. Confermò Gerardo Albuini come vescovo della diocesi suffraganea di Zaiton. Furono aperte missioni a Yang Chou, ad Hang Chou e ad Hou San You. Alla morte del Vescovo Giovanni Albuini, lo sostituì nella sede di Zaiton Pellegrino di Città di Castello; alla morte del Vescovo Pellegrino, divenne vescovo di (Chouan Chou) Zaiton, fra’ Andrea da Perugia, che fu l’ultimo vescovo cattolico, fino alla caduta dell’impero mongolo. Nel 1318, il Papa Giovanni XXII, vendette al domenicano Decora l’arcivescovado di Sultania, staccandolo dalla diocesi di Pekino. Agli inizi del 1328, l’Arcivescovo di Sultania, Giovanni Decora, si recò a Pekino, ove giunse con ogni probabilità (da come ne scrive) dopo la morte di Padre Giovanni, constatando che tutti lo veneravano come persona santa. Nel 1368 – caduto l’impero mongolo – instaurata in Cina la dinastia Ming, ostile a tutti gli stranieri e alle loro religioni, fuggiti (o soppressi), o espulsi mercanti e missionari, perseguitati i credenti autoctoni; crollò definitivamente (dopo un secolo di errori politici, e di tentennamenti teologici) la possibilità di un’intesa politica, militare e religiosa con la (ex) superpotenza mongola. Il vagheggiato accerchiamento della forza espansiva islamica perse ogni possibilità di essere realizzato. Le numerose occasioni perdute, o lasciate cadere (per ottusità e supponenza politico-religiosa) finirono nel dimenticatoio della storia. In Europa continuarono gli sconti tra gli stati “cattolici”, e si pensò a “regolare i conti” con il popolo cencioso e “illetterato” che cominciava a pensare che, forse, Cristo non era morto sulla croce perché il papa (il successore di Pietro, nonché “vicario”) diventasse “re” di un regno terreno. Si corse nel successivo XV secolo – tra il fuoco dei roghi – verso la caduta di Costantinopoli, e gli assalti turchi ai Balcani, con la prospettiva ulteriore dello spegnimento della cultura e della civiltà europea. Giusto il tempo per permettere a Colombo di spostare, verso il nuovo mondo, il corso della storia. Soltanto allora nacquero le grandi navi per i commerci, e le grandi navi da guerra che le proteggevano, capaci anche di spazzare via dal Mediterraneo la pirateria Saracena. L’Islam perse la forza militare, perché non più in grado di alimentare con la ricchezza dei commerci (europei) i propri eserciti; spezie, sete e damaschi in cambio di oro e argento con cui mantenere milizie 91


mercenarie, e far proprie le nuove armi balistiche provenienti dall’Europa (l’Imperatore di Costantinopoli Costantino XI Paleologo, per mancanza di oro, non fu in grado di acquistare i super-cannoni prodotto in Ungheria; li acquistò Maometto II, con cui abbatté le mura della città imperiale). Dopo 600 anni da allora, le “spezie” e le sete (oggi, costituite dal petrolio) sono tornate ad essere profumatamente pagate, perché l’Islam degli sceicchi muova la finanza internazionale e sostenga le guerre di religione. La storia si ripete perché non è stata mai “maestra di vita”. Essendo scomparsi nel viaggio verso la Cina l’Arcivescovo Nicola di Calabria con 6 vescovi e 26 frati, nel 1336 su richiesta di una delegazione mista di mongoli ed alani, Benedetto XII nominò nunzio papale Giovanni Marignolli che nel 1342 riuscì a raggiungere Pekino con 4 (o forse 50) frati minori; ma nel 1353 era già di ritorno ad Avignone. Nel 1362 un vescovo e due frati diretti in Cina, vennero uccisi nel Turkestan. Il nuovo Arcivescovo di Pekino, Guglielmo, nel 1369, con 60 frati minori avrebbe dovuto raggiungere la Cina; ma non partì mai, perché le porte della Cina erano chiuse a tutti gli stranieri. Nel 1393 riuscirono a tornare in Europa, dalla Cina, due missionari (forse passando attraverso l’impero di Tamerlano): furono gli ultimi. Dalla consacrazione di Padre Giovanni, fino al 1369, furono consacrati per la Cina 3 arcivescovi e 11 vescovi, e 242 furono i missionari francescani inviati in Cina (ma il numero dei frati “registrati” è sicuramente di gran lunga inferiore a quelli che arrivarono o cercano di arrivare in Cina). Il confronto coi mongoli fu una sfida culturale mancata tra Europa e Asia, di cui nel mondo cristiano pochi si resero conto della straordinaria portata.

Papa Benedetto XII 92


CAPITOLO 9 • La fine dell’impero mongolo.

Già Marco Polo avvertiva – come si rileva nel “Milione” – la distanza tra i mongoli, che continuavano a comportarsi verso i cinesi come stranieri e invasori, e le popolazioni assoggettate che, culturalmente, non approvavano l’affidamento di cariche politiche ed amministrative a “stranieri” e non a loro; i cinesi – con alle spalle una più che millenaria tradizione di civiltà – non riuscivano a “comprendere” neppure la tolleranza verso le religioni altrui (che invece era una virtù) dal loro punto di vista confuciano. A metà del XIV secolo, prima una grande carestia scoppiata nel nord del paese, poi una disastrosa inondazione provocata dal fiume Giallo, e infine l’arrivo della peste nera che falcidiò i ranghi dell’esercito e colpì la stessa corte imperiale, misero in difficoltà i governanti mongoli. Focolai di ribellione cominciarono a circolare per tutta la Cina, specialmente nelle campagne. L’Imperatore Toghon Tamur Khan (1320-1370), salito al trono nel 1333, si rivelò un inetto: corrotto e dissoluto, seguendo la pratica del “Tantra” buddista tibetano, aveva trasformato il palazzo imperiale in sede quotidiana di cerimonie orgiastiche di gruppo, con una decina di “amici intimi”, e uno stuolo – ogni giorno rinnovato – di fanciulle “disponibili”. La rivolta esplose nel 1368, quando si impose come capo popolo Hung-Wu, nonostante i mongoli avessero informatori ovunque, e avessero imposto ai cinesi di non portare armi. Hung-Wu diventerà il primo imperatore della dinastia Ming. La rivolta iniziò nell’agosto del 1368 (è tuttora festa nazionale). L’imbelle imperatore non solo non approntò un minimo di difesa, ma con l’imperatrice (e qualche carro pieno di concubine) fuggì prima a Shangtu, poi a Karakorum ove, dopo un anno, morì. I mongoli fuggirono da Pekino, e ripiegarono tutti nella Mongolia – oltre la muraglia – e con loro i rappresentanti delle varie religioni “estere” e convertiti. I cattolici, restati in Cina, vennero perseguiti ed uccisi, fino ad estirpare quasi completamente quanto edificato da Padre Giovanni e dai suoi successori. Soltanto col gesuita Matteo Ricci – due secoli dopo – riapparve in Cina la religione cattolica. Lo smembramento dell’impero mongolo interruppe le vie di collegamento, verso la Cina, da dove non giungevano più nemmeno le notizie. Comunque chiunque vi fosse arrivato, sarebbe stato cacciato (o ucciso). Proprio nell’anno della cacciata dei mongoli da Pekino, a Samarcanda, Tamerlano iniziava il suo programma di conquista del mondo. Tamerlano mantenne aperto il passaggio per gli europei fino a Tabriz, in Persia. Ma alla morte di Tamerlano (1405), il suo impero andò in briciole, e Samarcanda divenne in breve un cumulo di rovine. Ancora 93


nel 1403, il Re Enrico III di Castiglia propose un’alleanza contro i turchi, inviando a Samarcanda il nobile Ruy Gonzales De Clavijo insieme a due accompagnatori. L’ambasciatore arrivò, passando attraverso il Mar Nero, a Trebisonda, e poi via terra, sino a Samarcanda. Qui gli spagnoli ammirarono la prima “catena di montaggio” fatta di prigionieri-schiavi, catturati nei territori conquistati, argentieri, vasai, tessitori di seta, armaioli, vetrai; presero anche informazioni per poter giungere a Pekino. Ma ancor prima di congedarsi, Tamerlano morì, e – come di consueto – i Khan cominciarono ad ammazzarsi, per la successione, e le strade si riempirono rapidamente di banditi. I tre spagnoli dovettero affrontare un percorso tortuoso, per poter evitare battaglie e ladroni, e far ritorno in Spagna.

Note: • I mongoli, sconfitti in Cina dalla rivolta di Hung-Wu, si ritirarono in Mongolia, e l’inetto imperatore si rifugiò nella vecchia capitale, Karakorum. Una volta tra i propri antichi confini, i mongoli più tardi si convertirono al buddismo lamaista perché venuta meno la “forza” al loro Imperatore Toghon Tamur Khan, era evidente che il Dio Tengri (che la condivideva con l’imperatore) non l’avesse neppure lui, e quindi fosse un falso Dio. Toghone Tamur morì un anno dopo di morte naturale, senza essere detronizzato. Si realizzò così la seconda ipotesi, che risultava della “teologia” mongola: in caso di sconfitta militare veniva allontanato l’imperatore (prima ipotesi); e se ciò non avveniva, si rendeva dubbia la forza di Tengri che, pertanto, diventava falso Dio (seconda ipotesi). Kubilay (comunque morto di morte naturale) cercò invano – per tutta la vita – una vittoria contro i Mamelucchi, da cui era stato in precedenza sconfitto, in alleanza col papa (e col Dio del papa): per dimostrare che Tengri non aveva la forza, posseduta invece dal Dio che gli concedeva la vittoria e a cui – pertanto – si convertiva. L’ottusità, o la mancanza di interessi ad una nuova crociata anti-islamica di re “cattolici” e papato, impedirono sia la conversione al cattolicesimo della Cina mongola, che la “contaminazione” (o saldatura) tra la civiltà latino-cattolica e la civiltà asiatica. • La cavalleria mongola che costituiva il nerbo dell’esercito, durante la peste, in Cina, venne totalmente annientata. Considerata (e lo era) invincibile in battaglia, per la veemenza con cui portava gli attacchi, e la infallibilità degli arcieri a cavallo, venne sconfitta dalle pulci (infette!). I soldati mongoli che praticamente vivevano sui cavalli (vi dormivano anche) erano famosi – oltre che per il loro valore – per il nauseabondo fetore che si portavano addosso. I cinesi – che li odiavano – dicevano che si lavassero nell’urina dei loro cavalli. Furono preda facilissima dei loro 94


minuscoli ospiti. I mongoli, restati senza cavalleria, furono sconfitti dai contadini cinesi, che abituati alla coltura del riso, e quindi all’acqua, con la “pulizia” del corpo, meglio si sottraevano alle pulci, e quindi alla peste.

• Il popolo alano. Gli “Alani” che Padre Giovanni incontrò in Cina erano un popolo di etnia caucasica – non mongola – e di religione cristiana-nestoriana (con Padre Giovanni, molti di essi si convertirono al cattolicesimo, e restarono tali, anche dopo la morte di “Re” Giorgio). Convertiti al nestorianesimo nel V secolo, probabilmente da un ecclesiastico che poi sarebbe diventato anche “capo politico”, dando luogo alla leggenda del “regno del prete Gianni”: il “Re” Giorgio – amico di Padre Giovanni e capo della guardia imperiale mongola – vantava una discendenza dal prete Gianni. Questo popolo – insieme a svevi e vandali – invase la Germania e la Gallia nel 407, passando poi in Spagna dove fu sgominato dai Visigoti (418). Gli Alani – premuti dai turchi – divennero “confederati” e alleati dei mongoli; una parte seguì i mongoli nella conquista della Cina, insediandosi tra Tenduc (la loro capitale) e Pekino, stabilendo guarnigioni lungo le strade che costituivano un cerchio armato attorno Pekino, e vivendo, in buon numero, anche in Pekino e a corte; la guardia personale del gran Khan – con Kubilay e i suoi successori – era costituito tutta, da Alani, fedelissimi ai Khan (anche perché non appartenevano a nessun clan mongolo). La conversione di Re Giorgio, aiutò Padre Giovanni nell’opera di evangelizzazione di questo popolo; anche quando, morto il re degli Alani, i suoi fratelli costrinsero il popolo a tornare al nestorianesimo. Purtroppo la scomparsa di Re Giorgio, protettore di Padre Giovanni, indusse il clero nestoriano a sferrare un attacco (che, alla fine, nelle loro intenzioni, doveva essere mortale) contro il francescano, gelosi ed impauriti dalla sua capacità di convertire, proprio in mezzo a loro. Tra il popolo alano e Padre Giovanni vi fu sempre un grande legame, anche dopo la morte dell’arcivescovo, testimoniata dall’ambasceria alana al Papa Benedetto XII con la richiesta di un arcivescovo “buono” come Padre Giovanni. La guardia del corpo alana di Kubilay Khan (e dei suoi successori) contava 30.000 soldati. Con tale “sorveglianza” armata e con qualche centinaio di medici personali Kubilay Khan riuscì a governare a lungo, e morire di vecchiaia. Note: • L’ambasceria mista mongola-alana che si recò a Roma da Papa Benedetto XII era composta da: Futim Iuens, Caticen Tungi, Gebonga Evenzi, Giovanni Iukoi (1334). 95


• Giovanni da Pian del Carpine, partito nel 1246 nel febbraio raggiunse la Mongolia nel giugno dello stesso anno, ove incontrò l’Imperatore Kuyuk, un altro figlio di Gengis Khan, succeduto al fratello Ogodai. Un altro imperatore di nome Kuyuk regnò a Pekino, dopo la morte di Timur, che a sua volta era succeduto a Kubilay Khan. Si chiamò Timur, anche l’ultimo imperatore di Cina morto, dopo la fuga da Pekino, a Karakorum nel 1369. La scrittura dei nomi mongoli, traslati nelle varie lingue europee o nel latino, spesso sono scritti in modo diverso, perché ai segni alfabetici dell’Hyur (adottato da Gengis Khan, per dare una lingua scritta al suo popolo) non corrispondono esattamente (nei suoni) le lettere della lingua latina; tanto più che, tra le varie tribù mongole, vi erano notevoli differenze di pronuncia anche della stessa parola scritta, e con i medesimi segni (Timur, Tamor, Temur sono lo stesso nome). Anche Tamerlano – fondatore dell’effimero secondo impero mongolo dtra il 1380 e il 1405 – si chiamò Timur Beg detto Temur Lang (Timur lo Zoppo). • Kubilay Khan regnò dal 1259 a 1294. Nessun ecclesiastico cattolico aveva messo piede in Pekino, prima di Padre Giovanni nel 1294. Oltre i Polo, invece è possibile che anche altri mercanti europei siano giunti a Pekino prima del 1294.

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CAPITOLO 10 • I “mondi” di Padre Giovanni.

Kubilay Khan

Padre Giovanni – nelle sue attività di missionario francescano e di nunzio papale – visitò il mondo bizantino; la Persia, l’Armenia e il Kitchak – all’epoca “Khanati” mongoli – l’India; sfiorò il mondo islamico mediorientale, e visse molta parte della sua vita nella Cina durante il periodo della dominazione mongola (dal suo arrivo in Cina 1294, alla sua morte 1328). Dal 1271, a soli 24 anni, Padre Giovanni iniziò la sua opera missionaria in oriente. L’attività missionaria nel Medio Oriente venne determinata in prima istanza dalle “crociate” a cui seguirono i “mercanti” e l’ascesa sul trono di Pietro di alcuni papi che, disponendo delle fraterie del nuovo monicanesimo (francescani e domenicani) – fornito di fede, di coraggio e di spirito di avventura e di conoscenza – si preoccuparono di riportare in quelle zone la voce della Chiesa di Roma; la presenza dei Khan mongoli in Persia e Armenia, in 97


continuità territoriale con la Mongolia e la Cina, che avevano aperto le porte ai mercanti franchi, genovesi e veneziani, avevano fatto riscoprire comunità cristiane (soprattutto nestoriane) scampate all’onda musulmana. Già nel 1271, trovandosi a Costantinopoli, l’Imperatore bizantino Michele Paleologo lo incaricò di portare a Teobaldo Visconti l’annunzio della sua elezione a Papa (Gregorio X, 1271-1276). Nel 1278 gli fu assegnato come territorio di missione il “regno dei Tartari” (di cui lo stesso papato ignorava i confini e l’estensione) e i “Khanati” (ovvero stati “confederati” – infeudati – con l’impero mongolo) di Persia, Armenia e Kitchak; qui predicò (quindi imparò la lingua mongola, e quantomeno infarinature delle lingue qui parlate, soprattutto il persiano che era la lingua dei nestoriani, nonché usata dai mercanti), battezzò e convertì’ migliaia di persone. Nel 1289, fece ritorno a Roma come “legato” per il papa, per conto dei Khan dell’Armenia (Aitone II), e della Persia (Argone). Conosciamo la lettera di risposta del papa ad Argone, piena di belle parole, ma ci restano sconosciute le richieste dei Khan, che comunque – anche precedentemente – avevano inviato ambasciate per stipulare un’alleanza militare col papato contro i Mamelucchi d’Egitto (ambasciata del 1285 di Argone, a mezzo del genovese Ghisolfi; e del monaco nestoriano Sauma e del genovese Tommaso Anfossi nel 1287), nonché quella più famosa (citatissima dalle fonti cattoliche) giunta al Re Luigi IX, a Cipro nel 1248. Nel 1289, ricevuto l’incarico della “missione” in Cina, Padre Giovanni – imbarcatosi a Venezia col suo seguito – raggiunse Antiochia (oggi in Turchia; già centro di cultura ellenistica e sede vescovile cristiana – al pari di Roma – già occupata dai musulmani, poi liberata dai crociati nel 1098; ricadde in mani musulmane nel 1268), poi Laiazzo, giungendo a Sis, capitale dell’Armenia. Da qui passò a Tabriz, capitale della Persia. Nel 1291 lasciò Tabriz, scaglionando alcuni francescani al seguito in conventi incontrati lungo il cammino di trasferimento, ed infine raggiunse Ormuz, isola sul Golfo Persico. Da qui si imbarcò verso l’India, dove giunse a Tana (Salsetta), isola indiana a nord di Mumbai, quindi Meliapur (presso Madras, dove domenicani e francescani avevano fondato Chiese cattoliche. A Meliapur, vi era la Chiesa di San Tommaso; qui Padre Giovanni si fermò per 13 mesi per partire infine per la Cina, toccando Senkalà (Canton), proseguì per Zaiton (che allora era il porto più grande del mondo, con circa un milione di abitanti). Raggiunse Futgiu, Kinsay e infine Pekino (1294), dopo 5 anni di viaggio. L’Armenia: gli armeni costituiscono una nazione che – per il credo cristiano sempre professato eroicamente – hanno subito feroci persecuzioni prima dagli arabi (VII secolo), poi dai turchi fino all’inizio del 1900. All’epoca di Padre Giovanni, nella capitale Sis, regnava il Khan Aitone II, che ricevette la lettera di Niccolò IV. 98


La Persia: era la terra degli antichi parti, contro cui né i romani, né i bizantini riuscirono mai a prevalere. Ci riuscì invece Omar Al Kattab – secondo successore di Maometto – che in 10 anni soggiogò Siria, Egitto, Palestina e Persia. I mongoli conquistarono Bagdad e la Persia nel 1258. Padre Giovanni era già stato in Persia nel 1278, presso la corte di Argone che lo aveva rimandato al papa in qualità di nunzio. In questa prima missione, anche il Vescovo Dionigi di Tabriz gil aveva affidato una lettera per il papa. La Persia era stata la “patria” dei nestoriani che – sottoposti a persecuzione dai turchi – si erano spostati verso la Cina e l’India. Sotto il controllo dei mongoli, la Persia era diventata una terra tranquilla ed accogliente per i mercanti e missionari, anzi Argone aveva anche il titolo di “protettore di tutti i cristiani”. L’India: storicamente gli antichi greci, ebbero nozioni dell’India solo a seguito delle spedizioni di Alessandro Magno. Non risulta che i romani abbiano mai avuto rapporti commerciali “diretti” con l’India. Invece gli arabi ebbero sempre rapporti costanti culturali e commerciali con l’India; anzi verso il X secolo l’India venne parzialmente conquistata dalla dinastia (musulmana) afgana dei Gaznevidi; per 7 secoli fu sotto il dominio musulmano (anche attraverso mongoli convertiti all’Islam), che ne assorbì parzialmente la cultura, e soprattutto la scienza matematica (i numeri “arabi”, lo “zero” inventati in India, copiati dagli arabi, furono da questi trasmessi agli europei). Il passaggio dei missionari europei avvenne sempre grazie ai mongoli, in un periodo favorevole ai commerci e alle “contaminazioni” culturali. Ai tempi di Padre Giovanni, erano ancora presenti centri cristiani che ricordavano l’insegnamento dell’apostolo Tommaso. Il mondo islamico: alla morte di Maometto (632), gli arabi scelsero come capo Abu Bekr che morì soltanto 2 anni dopo. Lo seguì Omar Al Kattab, uno dei più grandi conquistatori della storia. Già meno di 100 anni dopo la morte di Maometto, si era formato un immenso impero che si estendeva dai Pirenei fino alle porte di Bisanzio, e comprendendo quasi tutto il Medio Oriente. Nel 732 Carlo Martello sconfisse i musulmani a Poitiers, impedendo l’invasione dell’Europa. Soltanto qualche anno prima (717), l’Imperatore bizantino Leone III Isaurico, aveva fermato l’esercito islamico sulle mura di Costantinopoli. Respinti dalla Francia, comunque i Musulmani si impesero in Spagna (califfato di Cordova). All’iniziale fanatismo religioso dei beduini, che distruggevano tutto ciò che riuscivano a conquistare, venuti in contatto durante la loro espansione con persiani, siriaci, greci, latini e indiani, gli islamici ne assorbirono le conquiste scientifiche, la matematica, la meccanica, la medicina, la chimica, l’astronomia, l’idraulica, l’agronomia (un poco di filosofia che svilupparono poi autonomamente); riprendendo l’architettura bizantina e indù, riuscirono a creare dei gioielli architettonici, la gran parte ancora 99


visibili. Lo stesso Corano rappresentò, all’epoca, un messaggio di miglioramento sociale e civile, ed un codice normativo dettante leggi e regole di tolleranza e di concordia (quantomeno all’interno della comunità religiosa, la “umma”). Con la dinastia “Abbasside” terminarono le conversioni forzate, e si stabilirono regole – alquanto umane in quei tempi – per gli “infedeli” (i “dimmi”). Mentre le ondate barbariche dissolvevano nell’area settentrionale del Mediterraneo il sapere grecolatino, distruggendo e disperdendo i codici (qualcosa riuscirono a salvarlo i monaci dei monasteri); gli arabi “abbassidi” (750-1258) riuscirono a conservare le conoscenze scientifiche del mondo antico, talora integrandolo tra loro, talora riproponendole – dopo qualche centinaio di anni – negli stessi territori dove erano in precedenza nate, ma di cui ormai si era persa memoria. Quanto meno si tornò a studiare Galeno, Ippocrate, Tolomeo, Euclide, i trattati dei medici e gli studi degli architetti bizantini; anche nel monastero di Montecassino – mentre i “copisti” riprendevano i classici latini – accanto a loro venivano tradotti testi di medicina di autori arabi (Avicenna, Averroè), procedendo in senso inverso al lavoro di traduzione (dal latino e dal greco all’arabo) fatto qualche secolo prima dai dotti nestoriani (rifugiati presso i musulmani per sfuggire alle persecuzioni dei cristiani ortodossi bizantini). Nel 750 – con la sconfitta della dinastia Omayyadi, - gli abbassidi “asiatizzarono” la civiltà musulmana. Per circa 500 anni diedero prova di (relativa) tolleranza verso le popolazioni vinte; incrementando i commerci, curando nuove tecniche agricole, sviluppando una superba architettura, adottando un sistema fiscale che cercava di abolire i privilegi e di distribuire egualmente la ricchezza. Nel 1256, i mongoli posero fine al predominio dei turchi e conquistarono il loro centro a Bagdad. Gli arabi – in contrasto militare coi bizantini, con castigliani e aragonesi in Spagna, coi normanni in Sicilia – erano stati costretti ad usare sempre più frequentemente, come mercenari, la popolazione dei turchi (di stirpe mongola) convertiti all’Islam, intorno all’anno Mille; costoro iniziarono subito ad avanzare verso l’impero bizantino e verso l’Iran. I “turchi selgiuchidi” conquistarono Bagdad (1055), e continuarono la loro avanzata verso il Medio Oriente, prendendo la guida della società islamica mediorientale ed egiziana. I turchi ottomani estesero la loro penetrazione nell’impero bizantino e in un secolo e mezzo lo conquistarono tutto (caduta di Costantinopoli 1453). I turchi, per il numero, presero il sopravvento sulla popolazione araba, nel Medio Oriente e nel Mediterraneo Orientale, creando una società fondamentalista ed intollerante. L’Islam (come società) si era divisa – subito dopo la morte di Maometto – in sunniti e sciiti per ragioni politico-dinastiche, più altre successive sette. Le differenze religiose furono, e restano minime tra i due rami, pur in presenza di molteplici sanguinosi scontri armati, nei secoli. Il viaggio di Padre Giovanni e degli altri francescani, come precedentemente per i Polo, poterono 100


avvenire, pur attraversando (pericolosamente, come a Tana) o sfiorando territori islamici, perché vennero a trovarsi in un secolo (1258-1368) estremamente favorevole ai commerci, ai viaggi e agli scambi culturali, con la superpotenza mongole che, oltre a controllare nella pace e nella tolleranza i propri territori, tenevano aperte le vie di terra verso la Cina, nonostante la presenza contigua di califfati musulmani.

Note: • Nell’ambito dell’impero mongolo, configurato come una “confederazione” (usando un termine moderno), i Khan che governavano le varie aree dell’impero, in effetti erano legati al Gran Khan di Pekino dal solo “vincolo di fedeltà” (ma ad ogni successione, l’ordine veniva ricostruito col peso delle scimitarre). Perciò i termini di re, imperatore ecc. che vengono attribuiti ad Argone, Aitone e altri, nelle lingue latine, erano semplici traduzioni dello stesso vocabolo “Khan” (capo). • Nel 1279, quando Padre Giovanni venne inviato come missionario in Medio Oriente (Armenia), nonostante la “storia ufficiale” tenda a nascondere gli avvenimenti e le conseguenze della quarta crociata, già l’impero romano d’oriente non esisteva più dal 1202-1204. Voluta da Papa Innocenzo III e dal predicatore Folco di Neully, nel 1202 partì una crociata per la Terrasanta al comando di Baldovino Conte di Fiandra, Simone di Monteforte, Bonifacio di Monferrato e altri nobili. Giunti a Venezia (che aveva “sponsorizzato” la crociata, nel senso che aveva preteso una somma enorme per il trasporto, sulle sue navi, dei guerrieri crociati), il doge Enrico Dandolo “pregò” i capi militari a fare una deviazione verso Costantinopoli, per rimettere sul trono l’Imperatore Isacco, detronizzato dal fratello Alessio III, attraverso una congiura di palazzo. Giunta nelle acque di Costantinopoli, la flotta gettò le ancore; e i capi richiesero allo spodestato imperatore il pagamento – su due piedi – della somma contrattata (e che comunque costui non poteva avere). Il racconto ufficiale è che l’Imperatore Isacco avrebbe “tradito” i crociati (senza soldi e senza esercito?). Certo è che i “crociati” colsero la palla al balzo, forti dei dissidi interni dei bizantini, assaltarono la città e la depredarono, arrivando persino ad aprire le tombe degli imperatori e dei Santi (da cui il termine “spogliasanti”); e con il ricchissimo bottino (di cui molto è ancora a Venezia in bella mostra) fecero “presto ritorno” dimenticando di liberare Gerusalemme. E tutti furono felici e contenti: il papato, che così vedeva eliminata la fastidiosa concorrenza” della Chiesa bizantina, sostenuta dagli imperatori di Costantinopoli; i “principi-condottieri” dell’impresa che, oltre ad incamerare il 101


bottino, spezzettarono il territorio dell’ex Impero Romano d’Oriente, e nominarono se stessi “re” dei residuali territori che – con ammirevole faccia tosta chiamarono “regni imperiali” e che, nel giro di qualche decennio, caddero tutti in mano ai turchi (eccetto il “regno” di Costantinopoli che capitolò soltanto nel 1453); i turchi che, da tempo, premevano ai confini, e che colsero l’occasione per estirpare (per sempre) il cristianesimo dell’ex Impero Romano d’Oriente, e negli anni successivi dilagare nell’Europa orientale (Grecia, Ungheria, Bulgaria, fino alle porte di Vienna); ed infine i veneziani che si impadronirono di molte isole mediterranee, strategiche per il commercio marittimo verso l’oriente, e riuscirono ad ottenere, dai “re latini” di Costantinopoli, degli sconti daziari da far invidia ad un black friday, e in più una “chiusura” dei porti contro i concorrenti genovesi. Nel 1261, Costantinopoli era stata “riconquistata” dalla dinastia greca dei Paleologo (Michele Paleologo, Imperatore di Nicea), con un “golpe” sostenuto dai genovesi. Questo imperatore darà a Padre Giovanni l’incarico di portare la notizia della sua elezione a Papa (Gregorio X), a Tebaldo Visconti. La dinastia durerà fino al 1453, con Costantino XI Paleologo, quando il turco Maometto II conquisterà Costantinopoli (grazie anche al tradimento dei pochi genovesi che “difendevano” la città).

I Mongoli: nel 1196, il tredicenne Temucin succedette al padre alla guida del sotto clan mongolo dei Kyat. Deciso a sbarazzarsi degli altri clan, ed a unificare tutti i clan in un solo popolo, riuscì a stabilire salde alleanze, raggiungendo vittorie rilevanti ed essenziali. La sua fama crebbe rapidamente, ed intere tribù spontaneamente si unirono a lui, per comune sicurezza e brama di saccheggio. Nel 1206 assunse il nome di Gengis Khan (sovrano universale), rappresentante di Dio in terra, trasformò il suo popolo, dedito al nomadismo, in una società organizzata e produttiva, governata da un consiglio dei capi alle sue dipendenze. Diede una struttura militare unificata ai guerrieri, tanto da creare una potenza militare pressoché imbattibile. Nel 1205, i mongoli si rivolsero prima contro la Cina (la Grande Muraglia, già esistente, non li fermò) conquistandone in dieci anni buona parte del territorio settentrionale; poi si rivolsero ad occidente contro gli ismaeliti (altrimenti detti “hashashin”, popolo che detiene il “pregio” di aver regalato due vocaboli alla nostra lingua: hashish ed assassino), contro gli stati dei turchi e dei persiani, e quindi la Russia meridionale, conquistando la Crimea e le sponde del Mar Nero. Era nato così un grande impero che si estendeva dalla Mongolia alla Siberia meridionale, la Manciuria, la Cina occidentale e settentrionale, la Persia, l’Afghanistan, e le regioni del Volga sino all’Ucraina. Alla sua morte, l’impero che 102


aveva creato, venne ereditato dai suoi quattro figli, che stabilirono inizialmente la capitale nella città di Karakorum. Tra i fratelli emerse, come gran Khan, Ogodai che, con capacità, riuscì ad impadronirsi dell’uso delle armi e dei mezzi moderni, attraverso i mercanti che giungevano in Mongolia con lunghe carovane (1227). Come al solito, erano gli europei che fornivano le armi al nemico di turno. In tal modo invase la Russia centrale, la Bulgaria, l’Ucraina, la Polonia, fino alla Romania. Sbaragliò una lega tedesco-polacca, invase la Slesia e travolse gli ungheresi. Avanzò in Dalmazia fino ad arrivare a Udine. Soltanto la sua improvvisa morte riuscì a fermare la completa invasione dell’Europa (e dell’Italia). L’Italia, prima che Ogodai arrivasse ad Udine, aveva già “conosciuto” i mongoli nel 452 d.C., con Attila che comandava la tribù degli Unni. Fu fermato alle porte di Roma, non solo dall’immenso tesoro che gli recò Papa Leone I, ma anche dal rispetto verso la figura del papa, che i mongoli – pur avendo una diversa credenza religiosa, o convertiti ad altre religioni – rispettavano, e continuarono sempre a rispettare, forse perché in essa riscontravano qualcosa di sacro (o di divino); continuando però tranquillamente a saccheggiare Chiese e monasteri quando trovavano l’occasione nel corso delle guerre. Dopo un periodo di lotte interne, per la successione, prevalse alla fine il condottiero Kubilay Khan, sotto il comando del quale, nel 1258, in soli tre anni, i mongoli completarono la conquista della Cina. Gran Khan del Katay (Cina) fu il titolo che assunse il nuovo condottiero. Fu l’imperatore della Cina che incontrò Marco Polo, e riuscì a conquistare le principali città del Medio Oriente (Aleppo, Damasco, Bagdad) spingendosi verso l’Egitto, dove però il suo esercito venne fermato dai Mamelucchi (milizie turco-egiziane, composte in origine da schiavi arruolati nel Caucaso e nella Circassia). Ciò provocò l’arresto dell’espansionismo mongolo, e la chiusura della via, attraverso l’Egitto, verso il Medio Oriente e l’Asia, per gli europei; e problemi (che si esamineranno più oltre) per Kubilay Khan, in ordine al suo potere.

• La religione dei mongoli.

La religione dei mongoli si configurava all’interno di una organizzazione statale estremamente tollerante verso qualsiasi altra religione. Gli imperatori mongoli mai perseguitarono popolazioni da loro assoggettate, perché di religione diversa dalla loro; persino l’Islam, la religione degli arcinemici dei mongoli, era rappresentato non solo nella Cina, ma nella stessa corte imperiale. Già il primo Imperatore Gengis Khan ordinava la tolleranza religiosa, e i successori si attennero a tale principio. L’Imperatore Kujuk – che successe a Timur, l’imperatore che aveva ricevuto Padre 103


Giovanni – così codificò la legge: “nell’impero mongolo tutte le religioni sono considerate uguali, non c’è differenza tra la religione dei latini, dei greci, degli armeni, degli Alani o dei Nestoriani, e quella di qualunque altro popolo dell’impero, di qualunque fede siano, sono soggetti all’impero e godono degli stessi diritti. I mongoli credono in un unico Dio, creatore di tutte le cose visibili e invisibili: lui è il governatore della felicità e infelicità del mondo”. Fra Guglielmo di Rubruck, tornato dalla Mongolia, definì così i mongoli, a fronte della religione: “i mongoli sono timorosi di Dio e osservano i suoi comandamenti. Mai hanno obbligato qualcuno ad abbandonare la propria fede per seguire quella loro, essi sono tolleranti per qualunque religione…”. Marco Polo così si esprime in merito: “questi mongoli dicono che esiste soltanto un Dio supremo ed egli è il Signore del cielo: ogni giorno essi offrono preghiere e incensi a questo loro Dio”. I mongoli avevano grande rispetto per il papa; e tutti i loro imperatori, in ogni occasione, chiedevano sempre altri predicatori francescani per il popolo (in verità, essi credevano che non solo il papa, ma tutta la Chiesa di Roma fosse francescana). Il rispetto si rifletteva concretamente anche attraverso l’esenzione di ogni imposta per i francescani e la concessione dell’”alafa” (cioè un contributo in alimenti e vestiario). Inoltre c’era libertà di predicare e circolare per tutto l’immenso territorio cinese (cosa che, dopo 700 anni, non s’è ancora ripristinata); persino nella moschea di Zaiton, il vescovo cattolico vi accedeva per predicare liberamente. La religione dei mongoli era monoteista. La forza del Dio supremo – Tengri – era la forza dell’imperatore (cioè non “emanava” né veniva concessa dal Dio). Dopo la morte, c’era la vita ultraterrena. Il matrimonio era inscindibile (anzi continuava anche nell’aldilà). Era opinione degli imperatori che “ciascuno potesse salvarsi nella propria credenza religiosa”; cioè valeva la purezza dell’anima, non la forma delle preghiere (principio comune a molte eresie “italiche”). Marco Polo parla di un altro “Dio” dei mongoli – Nategai – che era però soltanto uno spirito “buono” (paragonabile, nella nostra religione, ad un angelo o a un santo). Caratteristica principale della religione dei mongoli era l’estrema tolleranza. Le popolazioni soggette conservavano la loro fede, mentre i Khan si circondavano di consiglieri e “governatori” di territori periferici, di fede buddista, confuciana, musulmana e cristiana. La madre di Gengis Khan era cristiananestoriana e tra gli stessi mongoli erano penetrati buddismo e islamismo, a seguito delle conquiste di Cina e Persia. La religione mongola ufficiale era sostanzialmente monoteista, ma con una forte impronta di sciamanismo – un misto di magia e stregoneria – e tutti gli aspetti della vita umana erano controllati da spiriti buoni e cattivi; governati da un Dio supremo – Tengri (il cielo) – cui seguiva Itoges (o Ituges) spirito della fertilità – e della salute, del bestiame e delle colture, particolarmente venerata nelle famiglie. Gli ecclesiastici cattolici che ebbero contatti (anche come 104


ambasciatori) coi mongoli, spesso distorsero, nelle loro relazioni, (non comprendendo perfettamente gli idiomi locali) la interpretazione dei principi su cui si basava la religione mongola. La forza del Dio Tengri era la stessa del Khan, dalla quale quest’ultimo derivava la legittimità del comando. Itugen (o Itoges) era il principale spirito femminile preposto alla salute. È possibile che, tra i vari clan, esistessero gerarchie diverse tra i vari “spiriti” anche con nomi che variavano tra popolazioni diverse e distanti tra loro. Comunque oltre un dio supremo e onnipotente – Tengri (il cielo) – c’era un mondo di spiriti buoni e cattivi (come i santi e gli angeli, e i demoni del cristianesimo) che si occupavano dei “miracoli” o delle “punizioni” dei viventi. Itoges, nonostante venga, quasi in tutte le relazioni coeve a Padre Giovanni, indicato come il dio supremo, era in realtà una deità inferiore (buona) che competeva con gli spiriti cattivi. Ogni spirito – deputato a qualcosa – aveva un nome. Marco Polo ce ne ha conservato un altro, Nategay (che comunque scambia con un Dio; mentre trattavasi soltanto dello spirito buono che proteggeva i bambini). Ogni clan aveva devozione particolare per uno spirito, le cui immagini erano nelle case, e a cui si offrivano incensi e ceri: come da noi, per i santi o gli angeli (almeno fino a qualche tempo fa). La religione dei mongoli non prevedeva manifestazioni pubbliche (processioni, assemblee, ritualità ecc.), non possedeva un “capo”, né una classe sacerdotale, e meno che mai una gerarchia ecclesiastica. Si rifacevano (vagamente) alla loro religione, gli “indovini” (presenti anche a corte) che interpretavano le lotte tra spiriti buoni e spiriti cattivi, in relazione alla vita di chi li consultava. Vestivano di bianco, e portavano un tamburo; ma più che altro erano “liberi professionisti” che “esercitavano” a richiesta, e venivano pagati “a prestazione”. Si trattava di un blando sciamanismo (gli “indovini” non erano deputati ad esercitare maledizioni, né erano in grado di determinare il futuro con particolari pratiche) molto più “serio” – se si vogliono fare dei confronti – dell’esercizio degli odierni santoni, astrologi e guaritori (anche televisivi). Verso questa “vaga” religione, i papi della Chiesa Cattolica – impegolati negli interessi contingenti del potere temporale, degli alleati re “franchi” e delle vicende “avignonesi” – non furono in grado di capire le richieste di aiuto politico e militare pervenute dal Khan mongolo Kubilay (soprattutto), dopo la sconfitta subita dai Mamelucchi, fino alla caduta di San Giovanni d’Acri; né furono in grado di elaborare una strategia (neppure militare, ma anche soltanto di proselitismo religioso) per avvicinarsi ad un’alleanza – intesa come guerra santa – contro il comune nemico islamico turco. La supponenza religiosa, la miopia politica, la persistente illusione di costituire il centro del mondo, impedirono all’occidente e alla cultura latino-cristiana di saldarsi alla cultura asiatica (rappresentata in quel tempo, anche dalla superpotenza militare mongola). La pretesa ridicola della 105


“conversione” preventiva costituì la “summa” della supponenza di un coacervo religioso e politico (papato + regnanti “franchi”), che tra l’altro mancava non solo di logica e di giudizio, ma anche di “esempi” concreti (quelli di Clemente V e di Filippo il Bello?), nonostante diplomatici, missionari, martiri e santi.

• La Cina.

La storia della Cina (che conta circa 50 secoli) è leggendaria, prima della dinastia Hia (2200 a.C.). Fu Hie è considerato il primo imperatore cinese (2850 a.C.). Si susseguirono diverse dinastie fino alla dinastia Tscin (225-226 a.C.), che diede il nome alla Cina e fece costruire la prima “Grande Muraglia” contro le popolazioni mongole, ridando ordine all’immenso territorio. La seconda dinastia Tscin (205 a.C. – 420 d.C.), riunificò i vari regni in cui il paese era diviso. Con la dinastia Thang (626 d.C.) il cristianesimo si diffuse attraverso la Chiesa nestoriana (considerata scismatica dalla Chiesa di Roma). Nel 1215 il conquistatore mongolo Gengis Khan si impadronì di Pekino, iniziando la dinastia Yuan. Nel 1279, Kubilay Khan divenne imperatore e fu lui che incontrò i Polo, ma non Padre Giovanni, perché morì qualche mese prima (nel febbraio 1294), mentre il grande francescano giunse a Pekino in primavera. In verità già i romani avevano nozione della Cina (Seres) in quanto ne importavano la seta, probabilmente attraverso intermediari commerciali. Storicamente, non risulta che commercianti romani si fossero mai spinti verso l’Asia (geograficamente e militarmente avevano l’ostacolo dei Parti, popolo che non riuscirono mai a soggiogare). E semmai qualche viaggio fosse avvenuto verso i paesi asiatici, è alquanto improbabile che i viaggiatori furono in grado di ritornare per raccontarlo. Risulta invece, da documenti cinesi, che stranieri “dallo strano aspetto” siano giunti in Cina con una “partita di schiavi” venduta dai Parti. Forse i resti di qualche legione romana esitata da una delle tante vane spedizioni militari contro questo popolo (probabilmente quella tragica di Crasso nel 53 a.C.) In un solo periodo la Cina si aprì alla cultura e al commercio con altri popoli (arabi, indù ed europei), durante la dominazione mongola. I mongoli imposero agli autoctoni cinesi (sempre temendoli per il numero) un duro regime di occupazione, ma ne assorbirono profondamente la cultura (e sorprendentemente nelle parti migliori). Il dominio mongolo però durò soltanto per 100 anni (fino al 1368); per il resto la Cina restò sempre chiusa ad ogni influenza straniera, sia culturale che religiosa, artistica, scientifica o linguistica, fino al 1919 (fine dell’impero cinese). Prima delle cannonate del 1842, con cui gli inglesi imposero l’importazione in Cina dell’oppio che 106


producevano in India, soltanto ai portoghesi di Goa (India), dal 1563, fu permesso un (limitato) scambio commerciale. L’ultimo europeo che, in periodo medievale, riuscì a raggiungere la Cina, fu un “involontario” viaggiatore bavarese Hans Schiltberger, che fatto prigioniero nel 1396 a Nicopoli (crociata contro i turchi di Re Sigismondo d’Ungheria), rimase per 32 anni schiavo del Sultano Bayazid e, più tardi, del tartaro Tamerlano. Riuscito a tornare in Europa, scrisse il libro di viaggi “reisebuch” dove si descriveva la vita degli “ultimi” nel mondo mongolo (Marco Polo aveva descritto la vita dei “nobili” mongoli).

• Le Chiese scismatiche dell’Asia (ai tempi di Padre Giovanni).

I Nestoriani Sia Giovanni da Montecorvino che i confratelli, più volte nelle loro lettere, parlano dei nestoriani, e delle calunnie e delle persecuzioni subite da costoro. I nestoriani residenti in Cina, non erano cinesi, ma erano tutti stranieri venuti con le loro famiglie dall’Asia minore (Persia, Turchia e regioni limitrofe) spinti fuori dai loro paesi, dalla violenza e dall’intolleranza turca. Per la Chiesa di Roma erano “scismatici” in quanto non condividevano il dogma sancito dal concilio di Efeso (431) della maternità divina di Maria, ma la consideravano soltanto “la madre dell’uomo Gesù”. Giovanni da Montecorvino li aveva già conosciuti nelle sue prime missioni in Medio Oriente, e tra loro aveva anche ottenuto delle conversioni (Demetrio, Vescovo di Ormuz). Ma in Cina, i nestoriani – temendo di perdere la protezione dell’imperatore a favore di Padre Giovanni e avendo perduto molti seguaci, a seguito delle conversioni – entrarono in piena ed ostile competizione, tanto da cercare di impedirgli la costruzione di Chiese, conventi ed oratori, e diffusero calunnie infamanti (negavano che Padre Giovanni fosse il nunzio papale, anzi affermavano che il vero nunzio fosse stato ucciso e derubato dei doni che il papa aveva inviato all’imperatore e delle stesse credenziali papali; e accusavano Padre Giovanni di essere il ladro e l’assassino).

I Giacobiti La setta dei giacobiti seguiva l’eresia di Eutiche che negava l’esistenza in Cristo delle due nature, umana e divina. Questa eresia (detta “monofisita”) era stata condannata nel 451 dal Concilio di Calcedonia. 107


Gli Armeni Il cristianesimo entrò in Armenia nel II secolo. La Chiesa armena sosteneva esservi una sola natura in Cristo (perché unite in una sola, sia la natura divina che quella umana), e lo Spirito Santo procedere soltanto dal padre, e non dal padre e dal figlio.

Nota: anche Re “Giorgio” era nestoriano, prima di convertirsi al cattolicesimo; vantava discendenza dal mitico “prete Gianni”, probabilmente un ecclesiastico nestoriano che convertì nel V secolo il popolo degli Alani.

• La Cina e il cristianesimo: un’alleanza non realizzata.

Nel VII secolo, quando sul territorio di quasi tutto l’ex impero romano, prevaleva il cristianesimo, comparvero i seguaci di Maometto che – in 100 anni – costrinsero i cristiani a ritirarsi dal Medio Oriente, dall’Africa settentrionale e dalla penisola iberica. Essi crearono un impero autonomo, entro i cui confini i cristiani erano tollerati, in genere, ma era loro vietato di espandersi e fare proselitismo. Ma in Cina, dove pur giunsero mercanti e predicatori musulmani, le missioni cristianenestoriane già dal V secolo erano penetrate riscuotendo un grande successo; e già per la metà del VII secolo questi missionari avevano terminato di tradurre le Sacre Scritture in cinese per la biblioteca imperiale, ed un editto imperiale aveva dichiarato il cristianesimo religione tollerata (dinastia Thang). I nestoriani – pur se in seguito ebbero qualche problema con gli ultimi imperatori Thang – con Kubilay Khan e i mongoli (1279) ripresero vigore occupando posti di rilievo nelle amministrazioni periferiche e nell’esercito. Con le crociate, cominciarono anche le missioni cattoliche verso il Medio Oriente (Persia, Armenia e Kitchak), governate dai Khan mongoli, dove erano ben accette; dal 1279 – fermato Kubilay dai Mamelucchi – più volte i mongoli cercarono di saldare (in funzione anti islamica) la loro potenza militare con i “re cattolici” (soprattutto i re di Francia e d’Inghilterra) e col papa (in quanto capo di una religione che conoscevano e rispettavano). Gli anni che vanno da Giovanni da Pian del Carpine alla partenza per la Cina di Padre Giovanni da Montecorvino (purtroppo quest’ultimo arrivò a Pekino soltanto tre mesi dopo la morte di Kubilay Khan) rappresentano un periodo di occasioni perdute, che avrebbero potuto significare l’inizio di un continuo arricchimento reciproco, di uno stimolo e di un’apertura culturale, sia per l’occidente che per l’oriente. Soprattutto durante il periodo del lungo regno di Kublay – che aveva “pressante” necessità di 108


un’alleanza e di una vittoria militare contro i Mamelucchi – ci fu occasione per poter cambiare il corso della storia, 200 anni prima della scoperta dell’America. La riconquista delle coste siriaco-palestinesi e della via egiziana verso la Cina, con la (non difficile) conversione dei Khan e del popolo mongolo, il grande disegno di Clemente V di fare di Pekino la seconda Roma, poteva essere realizzato. Un’alleanza militare tra mongoli e cattolici, con una vittoria sui Turchi, 200 anni prima di Lepanto, avrebbe fermato l’espansionismo islamico verso l’Europa, e non sarebbe mai avvenuta la caduta di Costantinopoli. L’alleanza della Cina dei mongoli con l’Europa Cattolica non avvenne, non solo per una successione di eventi sfavorevoli, ma anche perché la politica dei “re cattolici” non considerò neppure una tale eventualità, troppo presi a massacrarsi tra loro e a massacrare i propri popoli. Nel 1291 cadde Acri – ultimo bastione cattolico in Palestina – nonostante le numerose ambascerie mongole (anche attraverso Tommaso di Tolentino) arrivate al papa, e ai re di Francia ed Inghilterra, con richiesta di aiuti militari per i “crociati” di Acri! (non per loro).

• Kubilay Khan: un dilemma politico e “teologico” mongolo.

Per tutta la durata del suo regno (eccezionalmente lungo, per la “durata” dei Khan mongoli), Kubilay ebbe ad affrontare un problema di legittimità del suo potere verso i Khan delle tribù e degli stati “confederati” (che, fortunatamente per lui, lo temevano, in quanto poteva contare su una “forza militare di dissuasione” a lui fedelissima, non mongola, originaria del nord del Caucaso, cristiana nestoriana, e non legata alla religione mongola). Più volte, grazie a questa “guardia popolare alana”, fronteggiò (e sbaragliò) rivolte di Khan concorrenti, intenzionati a detronizzarlo, in base a principi fondati, dal punto di vista delle credenze mongole. Per i mongoli, il loro Dio “Tengri” (onnipotente e onnisciente, come quello dei cattolici) era il possessore della “forza”, che era la medesima forza del Khan (non concessa, né emanante da Dio). Vale a dire il Khan era (legittimamente e teologicamente) tale, solo in quanto possessore della forza, che gli aveva permesso di accedere al trono: attraverso la “forza” il Khan e Tengri (erroneamente indicato come Itoges) si compenetravano, e si identificavano (ma non erano la stessa persona). Perciò il Khan – possessore della stessa forza del Dio – era destinato (costretto) a vincere in qualsiasi conflitto. Non era concepibile la sconfitta; e nella eventualità che questa avvenisse, veniva naturalmente meno la legittimità e la “verità” del suo potere. Ciò spiega le continue guerriglie tra le tribù per la 109


“successione” alla morte del Khan. Il più forte (il vincente) era il legittimo erede, in quanto possessore della forza che condivideva con Dio. Il sistema politico dei mongoli, in effetti, era basato sulla forza della guerra, che selezionava il più forte, destinato a regnare (un po’ come era successo negli ultimi secoli dell’impero romano). Una “sconfitta” metteva in dubbio la legittimità del potere; ma nel caso in cui il Khan comunque fosse riuscito a restare sul trono, poteva venir messa in dubbio l’esistenza di Tengri. Pertanto – dopo la sconfitta di Kubilay contro i Mamelucchi – delle due l’una: o Kubilay non risultava legittimato a regnare (causa delle continue guerriglie che gli opponevano i Khan degli altri clan; oppure il Dio Tengri non esisteva. Pertanto, fino alla morte, Kubilay cercò una “rivincita” sui Mamelucchi. Avrebbe potuto muovere guerra contando unicamente sull’esercito mongolo, ma col doppio pericolo che, in sua assenza, qualche Khan rivale ne usurpasse il potere; e, peggio ancora, che una seconda sconfitta ne annullasse definitivamente l’autorità (e la legittimità) del comando. Le reiterate richieste di “alleanza” rivolte ai papi (che Kubilay immaginava come dei “re”, e suoi consimili sottendevano un disegno strategico più sottile ed utilitaristico dal suo punto di vista; oltre che una maggiore sicurezza per una vittoria grazie al concorso di più eserciti; una “rivincita” sui Mamelucchi avrebbe cancellato ogni “macchia” del passato sul suo “curriculum” di gran Khan, e una vittoria ottenuta, anche sotto le insegne della croce degli alleati cristiani, avrebbe giustificato la conversione sua e del suo popolo (semmai anche precedentemente concordata) al dio del papa, veramente onnipotente in quanto datore di una vittoria contro nemici, verso i quali già Tengri aveva fallito (perché falso Dio). Kubilay sarebbe stato acclamato dal suo popolo a cui avrebbe offerto un vero Dio onnipotente e invincibile (al posto di un Dio debole e falso), quello del papa, che dal momento della vittoria sarebbe diventato anche il suo. La sua morte, avvenuta qualche mese prima dell’arrivo a Pekino di Padre Giovanni, cancellò ogni ulteriore sviluppo della messa in pratica di questa ipotesi di “teologia tartara” alla ricerca di un Dio più forte, per una valida alleanza militare. Il successore Timur (dopo il solito codazzo di guerriglie) – naturalmente – non ebbe necessità di affrontare problemi di legittimità del potere. In tal modo, a Padre Giovanni vennero meno le motivazioni per poter interloquire in tal senso col gran Khan. Comunque le “conversioni preventive” che i papi chiedevano ai Khan erano insensate (nella loro supponenza), perché il potere del Khan si identificava nella “forza” che possedeva (in comune col Dio). Un’abiura – senza una fortissima motivazione (es. una grande vittoria militare in comune coi cattolici) – avrebbe significato il “rifiuto” irragionevole della “forza” divina (che determinava il potere). Probabilmente, la “liberazione” dei luoghi santi non era più prioritaria, nella politica del papato. Nel 1260 i Mamelucchi erano già a Gerusalemme, e nel 1258 i mongoli liberarono Bagdad 110


mentre il Papa Alessandro IV era impegnato in una “crociata privata” contro un signorotto di Treviso. La politica di avvicinamento ai mongoli di Niccolò IV e Clemente V furono le ultime, tardive fiammate di lotta (religiosa e militare) all’Islam dei turchi. Perciò le occasioni per liberare i luoghi santi, e contemporaneamente “convertire” il gran Khan Kubilay e la Cina mongola, ci furono, ma vennero sprecate per ignavia, cattiva fede e pessima politica.

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CAPITOLO 11 • Tommaso da Tolentino.

Tommaso da Tolentino fu infaticabile collaboratore di Padre Giovanni. Egli raccolse in sé, nella esplicazione della sua vita, tutto lo spirito francescano, con l’entusiasmo, con l’impegno fisico ed intellettuale, col coraggio della fede e con la fedeltà alle gerarchie della Chiesa e dell’ordine dei frati minori. Ad una vivace intelligenza univa un grande spirito di altruismo e di amicizia, e un carattere vigoroso. Nato a Tolentino nel 1271, entrò nei frati minori nel 1285. Fu vicino al gruppo degli “spirituali” di fra’ Angelo Clareno. I “clareni” erano osservanti della povertà e della preghiera in modo rigido, anche al di là del “compromesso” di Gregorio X che – onde preservare questi “zelanti” dalle accuse di eresia – lasciava la “proprietà” alla Chiesa e l’usufrutto dei beni ai frati (avrebbero pur dovuto cibarsi di qualcosa, lavorando l’orto del convento, nel caso che la questua fosse risultata magra).Più volte i clareni vennero richiamati per le loro posizioni di estremismo pauperistico che andava oltre la “regola”, fino ad essere infine dichiarati “fuori dalla Chiesa”; più volte dovettero rispondere presso la “communitas ordinis”, affidandosi oltre che alla cultura del loro capo, Angelo Clareno, anche alle capacità giuridiche e teologiche di Tommaso da Tolentino. Padre Tommaso da Tolentino già nel 1290 era missionario in Armenia, presso il Khan Aitone II, che lo inviò, l’anno seguente, come legato al Papa Niccolò IV, al re di Francia e al re d’Inghilterra per sollecitare aiuti militari contro i Saraceni. Nel 1296 tornò in Italia per difendere i confratelli “spirituali” dall’accusa di eresia. Nel 1307, ricevuta la seconda lettera di Padre Giovanni in qualità di “ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori” in provincia di Persia, a cui era indirizzata, è nuovamente in Europa, a Poitiers in Francia, presso Papa Clemente V, cui consegna la missiva; è la lettera in cui Padre Giovanni si lamenta dell’isolamento in cui era restato, parla della precedente lettera (cui nessuno aveva dato risposta), scrive delle persecuzioni subite dai nestoriani, degli edifici religiosi che aveva costruito e di tutta la sua attività missionaria. Scrive della disponibilità del popolo e del gran Khan alla predicazione francescana, della grandezza e della potenza dell’impero mongolo, e infine accenna alla presenza di gruppi di idolatri (i cinesi confuciani, i musulmani, i buddisti) e di molteplici seguaci di sette ereticali (nestoriani, georgiani, armeni…). Scrive dell’India e del suo pessimo clima, per cui vi dovrebbero essere inviati missionari soltanto di forte fibra, e ricorda di avervi battezzato almeno 100 persone. Padre Tommaso da Tolentino – con tutta l’autorità proveniente dalla sua carica – si impone alla corte papale, fa presente l’importanza della missiva e l’esistenza di una 112


missione presso la più grande potenza dell’epoca, che è stata sorprendentemente “dimenticata”. Il papa concede pertanto la disponibilità ad aiutare la missione di Pekino. Padre Giovanni da Montecorvino, anche presso la corte papale, era stato dato per morto o, più comodamente, “dimenticato”, tanto più che il papato (ormai avignonese) era recentemente incappato nella lotta feroce tra il re di Francia, Filippo il Bello, e il defunto Bonifacio VIII. In verità Clemente V, riconsiderando il disegno di Niccolò IV ancora valido, fa di più, e dispone l’invio a Pekino di 7 vescovi, come coadiutori, ma anche come consacranti di Padre Giovanni ad Arcivescovo di Pekino e Patriarca dell’oriente. Di questi vescovi ne partirono soltanto 6 nel 1308, un anno dopo la visita di Tommaso da Tolentino; di essi, soltanto due, arrivarono a Pekino. Ma fra’ Tommaso da Tolentino già nel 1308 è in Cina e ci resterà fino al 1320 quando – (pare) ricevuta una nuova richiesta di aiuto dai clareni, per l’ennesima accusa di “eresia”, avendo praticato con troppo zelo la (loro!) povertà – lascia Padre Giovanni (secondo altre fonti, si sarebbe mosso per sua volontà verso l’India, per attività di evangelizzazione). Ma a Tana (nei pressi di Mombay), non si sa se in viaggio verso Roma, o in ritorno da Roma, o diretto verso qualche altra meta in India, viene assassinato (1321); proveniva da Ormuz, e fermatosi presso la casa di una famiglia nestoriana, che ospitava lui, padre Giacomo da Padova, fra’ Demetri di Teflis (originario dell’Armenia, e conoscitore di lingue asiatiche) e il chierico Pietro da Siena, viene a diverbio – durante una discussione religiosa – con un gruppo di maomettani che lo accusano di aver ingiuriato Maometto e il Corano (in terra islamica!). Denunciati presso il locale Cadì (giudice) sono tutti condannati a morte. Naturalmente le sentenze vengono prontamente eseguite, e i corpi vengono ivi sepolti. Nel 1322, Odorico da Pordenone, sulla via di Pekino, ne trasportò i resti in Cina a Zaiton. Il teschio di Padre Tommaso venne successivamente portato a Tolentino, ove tuttora è venerato. Venne proclamato beato, coi confratelli martirizzati, da Papa Leone XIII nel 1894 (non fra’ Pietro da Siena, perché pare avesse tentato di sottrarsi alla morte fuggendo; ma venne ripreso!). Sono da stigmatizzare l’intenso attivismo di questo francescano, la sua disponibilità a viaggiare verso l’Europa tra Asia minore, India e Cina, la sua coraggiosa fede, la sua determinazione e il carattere vigoroso e deciso. Restò per 12 anni presso Padre Giovanni, ma le notizie che restano di lui si hanno soltanto attraverso Odorico da Pordenone. Da ammirare, altresì, l’affetto e la vicinanza, mai rinnegata, per i confratelli clareni, da lui più volte difesi. Di animo generoso, prese anche le difese di Marco Polo che, a Genova, stava per essere arrestato “per pazzia”: aveva raccontato oralmente – ancora prima della pubblicazione del “Milione” – alcuni episodi che gli erano capitati in Cina. Padre Tommaso da Tolentino confermò ciò che aveva detto Marco Polo, e lo salvò. Di 25 anni più giovane, sarebbe stato il 113


successore più degno di Padre Giovanni. I confratelli “Clareni” – senza più il suo aiuto e le sue difese – alla fine vennero bollati come “eretici” e messi fuori dalla Chiesa. La “fortuna” è rappresentata come la “dea bendata”; ben lontano dal chiedere – per equità – di mettere la benda anche alla “dea” Justitia (considerando come viene esercitata nei tribunali, sia civili che ecclesiastici) sommessamente suggerirei di fornire quest’ultima almeno di un paio di occhiali. Nota: Poiché a Tana (India) risultano uccisi non soltanto fra’ Tommaso da Tolentino e i confratelli, ma anche l’Arcivescovo Nicola di Puglia, con 6 vescovi e 26 frati, fra’ Ulrico di Seyfriesdorf, e fra’ Andreuccio d’Assisi; tenendo conto del modo in cui vennero “giustiziati” padre Tommaso da Tolentino e il suo gruppo: prima provocati in pubblico (in presenza dei nestoriani), poi accusandoli di blasfemia verso il Cadì (cioè il giudice della comunità islamica), è più che plausibile pensare che, a Tana, operasse stabilmente un gruppo di fanatici assassini/grassatori, forse in combutta con lo stesso Cadì, che ammazzavano per odio religioso. Perché la stessa legge islamica non permetteva di uccidere un “infedele” in quanto tale (se non in guerra o in seguito ad una condanna per blasfemia verso il Corano o contro Maometto), era necessaria una provocazione, cui seguisse una reazione, per sostenere un’accusa adeguata a una condanna a morte, ed infine l’esecuzione (che così diventava “legale”). È pensabile che, a Tana, al tempo, non soltanto francescani e domenicani, ma anche mercanti abbiano subito la stessa sorte.

• La storia nascosta.

In merito ai rapporti tra papato e Khan mongoli – iniziando da Papa Innocenzo IV e Giovanni da Pian del Carpine (1245) – ci sono circa 50 anni di storia che la storiografia “ufficiale” (ovvero quella “agiografica” cattolica) cerca (tuttora, dopo 700 anni!) di velare attraverso il racconto delle missioni e della evangelizzazione dei pagani; cercando di celare (basta non parlarne, o ignorando i documenti esistenti) il grande progetto politico concepito da Papa Niccolò IV (e successivamente integrato e potenziato da Papa Clemente V): la creazione di un’alleanza tra la Cina dei mongoli e l’Europa latina e cattolica (non soltanto militare, ma anche culturale), la cui realizzazione venne affidata ad un francescano (anche se di grande carattere e di alta cultura) Giovanni da Montecorvino; benché ritenuto morto per 15 anni, Papa Clemente V, informato di quanto questi aveva realizzato, da solo!, a Pekino, nonostante non avesse avuto la possibilità di incontrare Kubilay Khan (l’imperatore più disponibile ad un’alleanza e ad una “conversione”), lo nominò arcivescovo di Pekino, e patriarca d’Oriente (cioè di tutto l’immenso impero mongolo, la più grande 114


diocesi mai esistita nella storia della Chiesa); con poteri analoghi a quelli del papa (ma con la ovvia obbedienza), affinché potesse trattare “alla pari” con l’imperatore. Il fine ultimo era un’alleanza politica (e un accerchiamento militare) dell’espansionismo islamico turco, e la messa in sicurezza della civiltà europea e cattolica (che sino alla battaglia di Lepanto, 1571, era sul punto di essere spenta). Tutte le missioni “diplomatiche” che il papato ha voluto conservarci come opere di evangelizzazione – almeno quelle documentate – da Giovanni da Pian del Carpine, André di Longjoumeau, Guglielmo di Rubruk, fino allo stesso Padre Giovanni da Montecorvino, e oltre (fra’ Giovanni Marignolli), contenevano proposte di alleanze e aiuti militari, (benché spesso avanzate in modo irricevibile, diplomaticamente e politicamente). Più esplicite – nei documenti che ci sono pervenuti – (non soltanto nei “racconti” lasciati dalla Chiesa) – risultano le ambascerie mongole avvenute, attraverso i “genovesi” nel 1285 e 1287, e rivolte al papato, al re di Francia, al re d’Inghilterra, per invocare aiuti contro i Mamelucchi. Così come estremamente esplicite erano le richieste di aiuto militare che i Khan Aitone d’Armenia e Argone di Persia avevano affidato a Padre Giovanni per Niccolò IV, “contro i Saraceni”, e a Tommaso da Tolentino (1291). Ma la storia “ufficiale” spesso è costretta a nascondere, piuttosto che svelare (anche dopo 700 anni). Nel 1288, si legge nella lettera di Niccolò IV – affidata a Padre Giovanni per Kubilay – che il Khan Argone si era rivolto al nuovo papa a nome di Kubilay. Argone mantenne numerose ambasciate col papato, sempre dietro richiesta del gran Khan di Pekino. Nel libro di fra’ Gaspare Han è pubblicata la lettera di Papa Niccolò IV a Kubilay Khan; ma Padre Giovanni nella lettera (1305) inviata all’ordine (e al papa), scrive di aver consegnato “le lettere” del papa all’imperatore, e che l’invito del papa a convertirsi non era stato accolto; ma nella (unica) lettera “conosciuta” del papa non c’è alcun accenno alla richiesta di conversione; quindi nelle “altre” (quante?) lettere, vi era altro che non ci è dato sapere. La lettera, con cui Clemente V accompagna l’invio dei vescovi per la consacrazione, pure pubblicata da fra’ Gaspare Han, manca stranamente di un pezzo (sostituito da puntini); scrive il Marignolli nel “chronicon bohemicum” che “nel mese di dicembre (1339) arrivammo a Napoli, aspettando la nave dei genovesi, che veniva da Khambalik, grande città, nave recante gli ambasciatori Tartari. Questi ambasciatori, mandati dal gran Khan al papa, chiedevano che anche egli papa inviasse un’ambasceria, in modo da aprire le relazioni e combinare accordi nei riguardi dei cattolici”.

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• Niccolò IV e Clemente V.

I Papi Niccolò IV (1288-1292) e Clemente V (1305-1314) furono i due papi che contrassegnarono e determinarono la vita e il destino di Padre Giovanni da Montecorvino; seppure entrambi francescani, furono profondamente diversi tra loro. Il primo (fra’ Gerolamo Masci di Ascoli), già legato della sede Apostolica in oriente, ministro generale dell’ordine francescano, promosse lo sviluppo delle missioni, soprattutto verso territori sino ad allora praticamente sconosciuti. Egli trovò nel confratello Giovanni da Montecorvino il soggetto più adatto a portare avanti e sviluppare il suo disegno di ordine religioso e, per forza di cose, anche politico. Pur investendo – anch’egli! – Padre Giovanni della missione di convertire “preventivamente” il gran Khan, per poi proporgli un’alleanza politico-militare, rivelò un’apertura mentale e una visione politica grandiosa per la religione e per l’Europa, “nonostante i monarchi cattolici”. Benché fossero sostanzialmente ancora ignote le distanze e le difficoltà di collegamento con i “mongoli”, e continuassero i dubbi sulla veridicità dei racconti dei mercanti che si erano avventurati (facendo ritorno) nei territori mongoli. Anche molto tempo dopo la diffusione del “Milione” – dettato da Marco Polo a Rustichello – le notizie riportate venivano interpretate come pura fantasia (così come tutte le avventure cavalleresche scritte in precedenza dal “novellista” Pisano). I 60 francescani assegnati alla “missione” di Padre Giovanni (tutti sollecitamente rientrati in Europa, senza mai mettere piede in Cina) costituivano una forza veramente in grado di creare subito una “missione” stabile, e successivamente essere in grado di allargarsi, ricevendo altri rincalzi, almeno nelle principali città della Cina, così come già avveniva in Asia minore. La cristianizzazione della Cina, in un periodo molto favorevole perché desiderata dallo stesso imperatore, avrebbe ineluttabilmente creato un’alleanza stabile tra Europa e Asia, con scambio non solo di cognizioni religiose e verità di fede, ma anche un rapporto virtuoso di scambio di scoperte scientifiche, tecniche e geografiche: un passo avanti nella “civilizzazione” dell’umanità e la fine del Medioevo (nei suoi lati negativi) almeno due secoli prima. Una osmosi tra due civiltà avanzate – seppure estranee culturalmente l’una dall’altra, ma non pregiudizialmente ostili – avrebbe accelerato il progresso dell’umanità in senso positivo, e forse anche oscurato le miserabili guerre tra i monarchi cattolici, che fecero del Medioevo – tenendo conto del popolamento di allora – un’epoca di intolleranza e di sterminio, superiore a quella delle guerre napoleoniche di 5 secoli dopo (quando comunque c’erano i cannoni). Una contaminazione culturale con la Cina (di cui i mongoli avevano rapidamente assorbito la “civiltà” ma non il pregiudizio contro tutto ciò che era 116


considerato straniero) probabilmente avrebbe assunto un’importanza superiore all’incontro degli arabi con l’India. In futuro, la tolleranza mongola avrebbe beneficamente influenzato l’intolleranza “cattolica”, sia all’interno del mondo cristiano, sia verso il mondo nuovo delle Americhe e dell’Africa due secondi dopo. Al tempo di Niccol IV il Medio Oriente era ancora cristiano; lo resterà ancora per poco, fino a quando i “re” mongoli – come Argone e Aitone – governeranno orgogliosi di fregiarsi del titolo di “protettore dei cristiani”; mentre, nell’Europa, i “santi re cattolici” si dilettavano a massacrarsi a vicenda. Clemente V (Bertrando de Goth) 1305-1314, era anch’egli francescano, e fu il primo Papa “avignonese”; corresponsabile (a pieno titolo) della fraudolenta soppressione dell’ordine dei Templari, insieme al Re “cattolico” Filippo IV (detto il bello), già in aspra contesa con Bonifacio VIII. Filippo IV, il bello, debitore di una enorme somma verso l’ordine del tempio, con la soppressione ecclesiastica dell’ordine, voluta da Clemente V (e quella fisica dei suoi esponenti), poté non solo non saldare più il debito contratto, ma anche di incamerarne le enormi ricchezze. Dante Alighieri pose Clemente V all’inferno, tra i simoniaci. Il papa ricevette da Tommaso da Tolentino (introdotto dal Cardinale Demurro, un altro francescano) la seconda lettera di Padre Giovanni, presso la sede pontificia di Poitiers e la mostrò ai cardinali. Il collegio cardinalizio volle che fra’ Tommaso riferisse loro, direttamente, di quanto sapeva della missione di Padre Giovanni; in tal modo, papa e cardinali furono informati della potenza e della ricchezza dell’impero mongolo, della sua grande estensione territoriale, nonché della tolleranza verso le “altre” culture, e le altre religioni. Clemente V (erano passati 13 anni dalla morte di Niccolò IV) ricordò la missione sostenuta dall’altro papa, la riprese e la caricò di ulteriore valore politico, concedendo a Padre Giovanni non solo le insegne di Arcivescovo di Pekino, ma anche (in quanto patriarca di tutto l’oriente), una autorità religiosa simile a quella del papa (con la ovvia obbedienza alla Santa Sede), comprendendo le immense prospettive che, in tutti i campi, avrebbero potuto aprirsi, da un’alleanza tra Asia ed Europa, tra il papato e la “superpotenza” mongola. Progetto che purtroppo non si realizzò, per una serie di ostacoli all’epoca insormontabili.

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• Perché non si realizzò il progetto di Clemente V e Niccolò IV.

Tra le varie cause sono da evidenziare: • Il primo grande (insormontabile) ostacolo alla realizzazione di un blocco religioso e politico euro-asiatico a difesa dall’espansionismo islamico, fu rappresentato dalle immense distanze (che gli stessi papi non percepivano, e che non era possibile colmare con i mezzi di comunicazione allora esistenti). Così si produsse l’isolamento di Padre Giovanni e la mancanza di direttive, nonché la impossibilità di assecondare in tempi brevi gli intenti (variabili ad ogni elezione di un nuovo papa) e le contingenze della Chiesa di Roma. Tra una lettera – spedita da Roma a Pekino – e la risposta passavano mediamente 3 anni, ammesso che i messi restassero in vita, e a Roma restasse lo stesso papa. • L’età ormai avanzata di Padre Giovanni, quando gli furono concessi i poteri di “arcivescovo di Pekino e patriarca dell’oriente” (simili a quelli di un papa), ovvero di tutto l’oriente dalla Persia sino al Mar della Cina. • L’isolamento (totale per 11 anni), continuò anche dopo la consacrazione, perché continuò ad essere difficile e pericoloso l’invio di missionari in numero sufficiente per un territorio sterminato, a causa dei continui conflitti che si aprivano ai confini dell’impero, e le chiusure delle vie di transito (Odorico da Pordenone, per il viaggio di ritorno, preferì attraversare il Tibet). • La breve durate del ministero dei papi, per forza di cose, spesso eletti già in età matura (se non avanzata), che impediva una continuità ed una coerenza della politica della Santa Sede verso le missioni (e non solo verso le missioni). • Il primario disegno di Niccolò IV – ripreso da Clemente V (ma tra i due, c’erano già stati altri tre papi) – si perse durante la “cattività avignonese”, allorché la Santa Sede risultò schiacciata dalla politica dei re francesi, interessati alla supremazia in Europa contro gli imperatori tedeschi e i re spagnoli, piuttosto che al contenimento dell’espansione islamica nel bacino del Mediterraneo. • Le continue lotte intestine (spesso sostenute, se non istigate dal papato) tra gli stati europei, o internamente ad essi, annullavano qualsiasi idea di “lontane” alleanza con l’impero mongolo; probabilmente si perse persino memoria dello scopo delle missioni in Asia. • La stessa brevità del dominio mongolo sulla Cina che durò sino al 1368, e l’ascesa della dinastia Ming che chiuse i confini cinesi a “tutti gli stranieri”.

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• L’elezione al soglio Pontificio di Bonifacio VIII nel 1294, che provocò uno scontro e una rottura politica col Re di Francia, Filippo IV detto il bello. Per avere una analoga frattura tra Francia e papato si dovrà attendere la rivoluzione francese e Napoleone Bonaparte, 6 secoli dopo. • La peste nera – pur scoppiata dopo la morte di Padre Giovanni – nel XIV secolo che ridusse di un terzo la popolazione, e mise tutti d’accordo (nella morte): re, papi e imperatori; cattolici e scismatici; islamici e mongoli. In Medio Oriente, interi monasteri si svuotarono, e non riuscirono più, né a inviare missionari in Cina, né a fare da base alle spedizioni. • La morte di Kubilay Khan, l’Imperatore più interessato ad una conversione e ad un’alleanza con re cattolici e papa, ancora prima dell’arrivo a Pekino di Padre Giovanni. • La richiesta “preventiva” di conversione (mai realizzata) ai Khan mongoli, che il papato anteponeva ad ogni possibilità di alleanza, impedì (pur in presenza di una benevola tolleranza verso il cattolicesimo dei francescani) ogni compiuta saldatura politico-militare tra l’Europa cristiana e l’impero mongolo. Fu questo un enorme errore strategico, perché successivamente i mongoli, abbandonata la Cina, si convertirono al Buddismo lamaista. • Il disegno di Niccolò IV e di Clemente V, se realizzato, avrebbe cambiato la storia del mondo; ma ormai ai regnanti cattolici europei, le “crociate” non interessavano più; erano più attenti alla caccia agli eretici che mettevano in dubbio il loro “diritto divino” al regno. I mongoli, tra l’altro, erano monoteisti; ma non possedeva la loro religione un impianto teologico o filosofico; era estremamente fragile, basata su credenze a livello di superstizioni “tribali” e non avrebbe certamente retto il “confronto”, se mai fosse avvenuto, con la solida teologia cattolica; le radici filosofiche, morali e storiche del cattolicesimo avrebbero retto qualsiasi “incontro” col mondo dei mongoli, tra l’altro non ostile, ma aperto alla (richiesta!) predicazione dei francescani. La “tolleranza” religiosa dei Khan, a fronte della “intolleranza” della Chiesa dei roghi, sarebbe servita anche a moderare, nei secoli successivi, la durezza del colonialismo schiavista (come le conversioni forzate dei “selvaggi”, e le lunghe diatribe tra alcuni teologi, sulla presenza o meno dell’anima negli amerindi, in quanto non citati nella Bibbia!).

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• Le ambascerie dei mongoli.

L’intervento di Tommaso da Tolentino presso Clemente V, in Francia, aveva rimesso in moto il disegno originario di Niccolò IV. Con i viaggi dei mercanti e l’intensificazione delle missioni dei francescani e dei domenicani verso il Medio Oriente e i paesi asiatici periferici dell’impero mongolo, la Chiesa aveva ormai contezza dell’esistenza di una “superpotenza” quale in effetti era l’impero mongolo; in terre ritenute, fino alla metà del 1200, abitate soltanto da tribù di barbari, dedite alla razzia e allo scannamento reciproco, senza una vera e propria struttura politica statale (al massimo “tribale”). Delle quali terre comunque non si conosceva la geografia, né esistevano “mappe” (se non fantastiche: il regno di prete Gianni, i regni di Gog e Magog, il paradiso terrestre…) né si aveva cognizione delle distanze, né esistevano misure per calcolarle. I teologi continuavano a narrare in modo dogmatico di regni improbabili, abitati da popolazioni e animali favolosi (uomini con un solo enorme piede, con un solo occhio in fronte o otto sulla nuca, ippogrifi, liocorni, grifi, sirene) e, naturalmente, a Sud della terra (piatta) c’era l’inferno, e a Nord il paradiso terrestre, intorno a cui ruotava il sole. Già Niccolò IV – partendo dalla necessità di stabilire un rapporto organico e permanente di alleanza militare (o, quanto meno, di stabile pace) e di penetrazione ideologica (religiosa) verso quei popoli bellicosi che pur si erano affacciati in armi nell’Europa orientale (e che non si era in grado di arginare militarmente) – elaborò una strategia di avvicinamento attraverso l’esercito francescano che, i mongoli non solo rispettavano, ma ne invocavano, a predicare tra loro (in verità credevano che tutta la Chiesa di Roma fosse francescana). Già la famiglia dei Polo era stata latrice di queste richieste (anche se i due domenicani inviati dal papa a Kubilay Khan, che invece aveva richiesto 100 predicatori per il suo popolo, avevano fatto prestissimo ritorno ai loro conventi, senza mai mettere piede in Cina). Nell’inverno del 1287, un monaco nestoriano di origine turca di nome Sauma, inviato dal Khan Argun (Argone), giunse a Genova col compito di promuovere un’alleanza contro l’Egitto dei Mamelucchi, che stavano per cacciare i “franchi” dalla costa siro-palestinese); insieme a lui viaggiavano un cristiano orientale, Sabadino, un interprete chiamato “uguetus” (abile nel linguaggio) e un genovese, Tommaso Anfossi; Sauma si recò poi presso il re di Francia, e successivamente presso il re d’Inghilterra. I genovesi avevano una “frequentazione” commerciale con la Cina, numericamente superiore a quella dei veneziani (ma non ebbero mai un loro Marco Polo narrante). Nel 1285, il genovese Buscariello Ghisolfi fu incaricato sempre dal Khan Argun di condurre un’ambasceria in occidente, con la finalità di stabilire un’alleanza col papato, contro l’esercito dei 120


Mamelucchi. A queste richieste, il papato e i re “cattolici” non diedero alcun seguito. Nel 1291 (mentre Padre Giovanni era ancora in viaggio verso la Cina), padre Tommaso da Tolentino – in extremis, forse mentre era già in atto l’attacco militare contro Acri (che era l’ultimo avamposto militare cristiano sulle coste siropalestinesi) – fu mandato dal Khan Aitone di Armenia a chiedere l’aiuto di una spedizione militare al papa, al re d’Inghilterra e al re di Francia, con esito simile ai precedenti e ripetuti (ma mai considerati!) appelli dei Khan mongoli. Persistendo sempre, il papato, nell’errore di richiedere la “preventiva conversione” dei Khan, in cambio di una futura alleanza (una cosa del tutto insensata, che tra l’altro suonava come un’imposizione ed un’ingiuria verso l’astante; simile ad una eventuale richiesta di un Califfo, al papa, di convertirsi all’islam, in cambio di un’alleanza e di un allargamento del potere temporale). Una preventiva conversione dell’Imperatore, Niccolò IV l’aveva richiesta, in verità, anche a Padre Giovanni; ma almeno – a monte – vi era il disegno di creare in Asia un vasto potere territoriale cattolico, allargato ai cristiani “scismatici”, saldato da un’alleanza strategica con l’impero mongolo (convertito), con due fulcri, uno a Roma e uno a Pekino. Ad ogni modo, puntualmente, nel 1291 Acri cadde per sempre in mani islamiche. Nell’archivio nazionale di Parigi, è conservato l’originale di una lettera inviata dal Khan Argone a Filippo IV Re di Francia, nella quale veniva proposta un’alleanza strategico-militare contro il mondo musulmano.

• La “mancata conversione” dei mongoli.

La “conversione” dei mongoli al cattolicesimo, ai tempi di Padre Giovanni e, ancora precedentemente sotto il regno di Kubilay Khan, non sarebbe risultata impossibile senza “l’imposizione” di un atto che gli imperatori non potevano avviare senza un motivo forte. Anzi Kubilay Khan, finché visse, ebbe costante nella sua politica il tentativo di allearsi al papa e ai monarchi europei (soprattutto Francia e Inghilterra) contro i Mamelucchi, dai quali era stato sconfitto. Benché questi reciproci tentativi di avvicinamento avvenissero in uno dei periodi più intensi della Chiesa di Roma, tra la settima (1248) e l’ottava (1270) crociata, da Giovanni da Pian del Carpine (1240) a Padre Giovanni da Montecorvino (1289), non si riuscì a chiudere un accordo che avrebbe cambiato la storia del mondo, avvicinando la superpotenza militare mongola al cattolicesimo, e la civiltà latina a quella asiatica cino-mongola. Nell’Europa a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, invece si moltiplicarono le guerre dinastiche (vere e proprie guerre civili), le persecuzioni religiose contro veri o 121


supposti eretici, l’oppressione fiscale verso il popolo minuto, le diatribe giuridicoteologiche. In complesso, una enorme, inutile dispersione di energie – in denaro e sangue – che sarebbe stato più utile impiegare verso il contenimento dell’espansionismo islamico, quantomeno nell’area del Mediterraneo. Ai tentativi di avvicinamento dei mongoli si rispose sempre con l’imposizione della “conversione”, che fu la rappresentazione plastica (fallimentare e disastrosa) della simbiosi che si andava realizzando tra gli Angiò e il papato (pre e post avignonese), con estremismi di bigotteria che impedivano di guardare – con una visione chiara – al destino degli stessi cattolici non solo in Europa, ma anche nel resto del mondo conosciuto. Ma forse questa ostinazione, su una questione ridicola da un punto di vista politico, e assurda da un punto di vista diplomatico, serviva al papato soltanto per nascondere il timore (e il ricatto) per qualche scisma, agitato da qualche regnante (gli stessi d’Angiò?); e dal re di Francia per presentare l’occupazione del papato come una “protezione”. Comunque fu una grande occasione storica, irrimediabilmente perduta. Con l’aggravante che mentre Padre Giovanni si meravigliava della tolleranza dei mongoli, che giungevano ad affidare a stranieri (persino ad arabi!) l’amministrazione di città e comandi militari; in Italia si bruciavano sui roghi quanti venivano dichiarati eretici, perché si rifiutavano di versare le “decime” (che la Chies aveva dichiarato cosa sacra). Gli sbrigativi roghi del XII-XIII e XIV secolo, però non riuscirono a fermare le devastanti rivolte contadine che – a cavallo tra il XIV e il XV secolo – squassarono l’Europa (le Jacqueries); né fu più possibile risolvere con un falò la rottura dell’unità della Chiesa con le “95 tesi” di Lutero nel 1517. La storia ci dà contezza che la conversione dei mongoli sarebbe stata possibile, se qualcuno si fosse reso conto anche delle esigenze e delle ragioni della controparte: i mongoli – dopo il 1368, cacciati dalla Cina – si convertirono al Buddismo lamaista. I turchi – popolazione mongola – tra il IX e il X secolo si erano già convertiti all’islam, senza costrizioni. Gli “Ungari” – discendenti degli Unni di Attila – si erano convertiti, senza imposizione di nessuno, al cattolicesimo nel X secolo.

• La fine delle Crociate (per il Santo Sepolcro).

Al tempo della prima crociata (1096-1099) invocata da Papa Urbano II, un grande fervore religioso aveva accompagnato la volontà di liberare le terre in cui era nato ed era morto Cristo, dove i musulmani taglieggiavano (o sopprimevano) i Pellegni, o distruggevano le costruzioni sacre edificate a devozione dei cristiani. Nel tempo, altri fattori accompagnarono le motivazioni sacre, più squisitamente di ordine 122


politico, militare, commerciale. Le varie spedizioni successive ebbero alterne vicende, non sempre vittoriose, spesso tragiche. L’ottava crociata del 1270, dove morì di peste (o forse di colera) Luigi IX, Re di Francia, in effetti fu l’ultima diretta contro i musulmani. Finirono le spedizioni militari verso le sponde meridionali del Mediterraneo, sia perché nessuno credeva più di poter “liberare” definitivamente il Santo Sepolcro, oggettivamente per la discrepanza di forza militare tra i musulmani e i cristiani, per la forbice che si andava allargando tra la forza finanziaria dei due contendenti; dove i secondi continuavano ad arricchire i primi, con i commerci, più favorevoli agli islamici che, tra l’altro, il surplus finanziario lo reinvestivano acquistando dai nemici (?) armi, naturalmente le più sofisticate e all’ultimo grido, ed armando eserciti di mercenari; inoltre i vari regnanti europei – sempre in lotta tra loro – temevano fortemente che un loro impegno oltremare, li indebolisse in patria, costantemente alle prese con questioni dinastiche e dispute teologiche, dove il papato non aveva più una funzione pacificatrice, ma era in prima persona impegnato a favore dell’una o dell’altra parte, spesso fomentatore di dissidi e di guerre, brandendo l’arma della scomunica. Alla mancanza di forza militare (e finanziaria a sostegno dell’impegno militare), si aggiungeva l’affievolimento della fede (il pessimo esempio dato dalla Chiesa avignonese, certamente non poteva suscitare entusiasmo religioso, né tra il popolo, né tra la classe nobiliare). Mancavano, tra l’altro, in quel momento in Europa, condottieri in grado di tener testa ai capi militari islamici che si erano formati nella scia dei vari Salah Al Din e Al Malik Al Kamil. Gli interessi politici (anche del papato) si erano spostati – militarmente – nella lotta alle nuove eresie che non erano più sostenute da diatribe teologiche, ma da richieste sociali contro l’enorme disparità di condizioni, che si era venuta a creare tra le numerose nobiltà del Feudalesimo e il popolo, e tra il basso e l’alto clero; e dall’attacco contro il potere temporale della Chiesa (trasformata in una monarchia assoluta) con la richiesta di un ritorno alla Chiesa delle origini, quella degli Apostoli e dei primi martiri.

• La Chiesa di Roma, dalla morte di Niccolò IV alle elezioni di Clemente V.

Alla morte di Niccolò IV (1292), si aprì un lunghissimo conclave che durò 2 anni, per mancanza di accordo tra le varie fazioni cardinalizie (ciascuna portatrice della politica del “principe” di riferimento). Alla fine venne trovato un accordo (temporaneo), facendo convergere la maggioranza dei voti sulla figura di un eremita, 123


Pietro da Morrone, in fama di santità, e noto per la sua “Mitezza” (quindi, si pensò, facilmente “manipolabile”); ma scelto soprattutto per l’età avanzata (85 anni!), come “Papa di transizione”. Dopo iniziali tentennamenti, per spirito di obbedienza verso la Chiesa, l’anziano eremita accettò, e il 29/08/1294 venne incoronato Papa col nome di Celestino V, nella basilica di Collemaggiore all’Aquila. Il 13 dicembre dello stesso anno – dopo 4 mesi di mandato – rinunciò alla guida della Santa Sede. Riunì il concistoro e annunciò che “per debolezza del mio corpo e malignità della plebe” (di Roma) abbandonava il pontificato. La sua rinuncia al pontificato, comunque – pur essendo un atto clamoroso – non era la prima nella storia, e non sarebbe stata l’ultima. Ma è probabile che la sua rinunzia, oltre ad essere dettata dal desiderio di ritornare alla vita eremitica, sia stata indotta da un raggiro politico intentato dal cardinale Benedetto Caetani, il quale – dal susseguente conclave – venne eletto con nome di Bonifacio VIII (1294-1303). Questi, nato ad Anagni nel 1217, in seno alla potente famiglia Caetani – temendo uno scisma da parte dei cardinali a lui avversi – ordinò che l’anziano ex pontefice fosse messo sotto “stretta tutela”. Pietro da Morrone tentò di rifugiarsi in Grecia, ma venne raggiunto e catturato. Inutili furono le sue suppliche perché lo lasciassero andare. I gendarmi di Bonifacio VIII lo accompagnarono nella Rocca di Fumone, di proprietà dei Caetani, e venne isolato in un’angusta cella (tuttora visibile) dove si spense nel 1296. Con due bolle papali, Bonifacio VIII (nel 1301 e nel 1302) ribadì – con ancora maggiore vigore – quanto già in precedenza aveva affermato Innocenzo III, in materia di potere temporale: l’autorità suprema spettava unicamente al papa, e tutti i sovrani dovevano sottomettersi a lui. Ciò portò, naturalmente, ad uno scontro col Re di Francia Filippo il bello (ma anche con Alberto I d’Asburgo sovrano del Sacro Romano Impero), che esitò in una scomunica del re. Questi rispose tentando di catturare il papa, e comunque lo fece aggredire fisicamente dal suo emissario Filippo di Nogaret e da Sciarra Colonna (schiaffo di Anagni). Bonifacio VIII morì l’anno seguente (1303); dopo di lui fu eletto Benedetto XI, fatto cardinale da Bonifacio VIII, generale dei domenicani; governò saggiamente la Chiesa (per un solo anno), morì avvelenato. Il Papa successivo Clemente V (1305-1314), anch’egli francescano (Bertrando de Goth), trasportò nell’anno stesso della elezione il papato ad Avignone; fatto eleggere dal Re Filippo il bello, ricambiò la cortesia, sopprimendo (dietro imposizione del sovrano) l’ordine dei Templari, nel concilio di Vienne, ed ebbe una lunga contesa con Ludovico IV il Bavaro. È chiaro in questo contesto, tra la partenza di Padre Giovanni per la Cina (1289), erano passati 17 anni di intensi travagli politici e religiosi che avevano interessato il papato. Della “missione” di Padre Giovanni si era persa memoria (le sue due lettere precedenti, quella inviata forse dall’India, e la prima lettera, inviata dalla Cina, probabilmente non erano neppure pervenute alla 124


visione di uno dei precedenti papi e – senza Tommaso da Tolentino – non sarebbe mai avvenuta la sua consacrazione ad Arcivescovo di Pekino e Patriarca d’Oriente; sarebbe stato perso per sempre anche lo stesso nome (come quello dei tanti francescani e domenicani “scomparsi” nell’opera missionaria verso la Cina dei mongoli). Nome che comunque si avviava ad essere dimenticato se il primo concilio plenario dei vescovi cinesi del 1924 non ne avesse chiesto la beatificazione alla Santa Sede. Tutte le pubblicazioni che riguardano Padre Giovanni, sono successive al 1924. Padre Giovanni è citato – precedentemente – soltanto nei documenti lasciati dai confratelli coevi Odorico da Pordenone, Giovanni Marignolli, lettera di fra’ Pellegrino di Città di Castello, lettera di fra’ Andrea da Perugia, lettera di fra’ Arnoldo Alemanno, bolla papale di nomina ad arcivescovo di Pekino di Clemente V, lettera di Nicolò IV ai Giacobiti, relazione del De Cora, e la lettera dei principi alani. Tutti i documenti a sé stanti, reperibili nella (prima) sintesi antica fatta da fra’ Elemosina (morto nel 1339), poi trascritta nei codici assisano, parigino e chiggiano. Il frate irlandese Widding pubblicò nel 1654 gli “annales minorum” in cui viene citato Padre Giovanni col noto errore della nascita nella “Montecorvino Dauna”. Sia nei codici, sia negli “annales minorum” manca ogni accenno alle relazioni diplomatiche tra papato e mongoli. La grave crisi politica che investì la Chiesa di Roma nei suoi rapporti col sovrano di Francia, dal conclave durato due anni dopo la morte di Niccolò IV, la “rinuncia” di Celestino V e la sua successiva “cattura” da parte di Bonifacio VIII, i maneggi politici durante il pontificato di quest’ultimo, il breve pontificato di Benedetto XI, il trasferimento ad Avignone della sede papale subito dopo la elezione di Clemente V, tutti fatti avvenuti nel giro di soli 15 anni, avevano fatto dimenticare la “missione” verso i mongoli, accettando (tranquillamente) l’amplissima possibilità della morte di Padre Giovanni. Trattando questo convulso periodo, qualsiasi storico – prima del 1924 – pur incontrando da qualche parte il nome di un “Giovanni da Montecorvino”, non gli avrebbe accordato maggiore importanza di un “Giovanni da Pian del Carpine”, e certamente minore importanza del “narratore” Odorico da Pordenone. E tuttora, nella narrazione delle vicende storiche delle “missioni” francescane (e domenicane) in Cina tra il 1245 e il 1368, si parla soltanto della “evangelizzazione” (successivamente quasi totalmente spenta dalla dinastia Ming), e si sorvola sul tentativo (purtroppo mancato) del grande progetto volto ad un’intesa tra il papato e l’impero mongolo che – quanto meno – avrebbe potuto portare ad una sintesi delle conoscenze scientifiche delle due civiltà. I mongoli vincitori tenevano lontani dal potere gli autoctoni cinesi, concedendo fiducia piuttosto a “stranieri”; questa condizione di subalternità in cui venivano tenuti i cinesi – di cui i mongoli temevano il “numero” – non impedì al popolo dominante di assorbirne la cultura e le tradizioni, sorprendentemente 125


scremandole dalle negatività (o almeno di quelle manifestazioni che, dagli europei, erano considerate deleterie: isolazionismo politico e commerciale, chiusura alla contaminazione culturale, avversione ad ogni religione in genere e a quelle “estere” in particolare). Anche nel libro di fra’ Gaspare Han, puntuale nelle date, nei nomi e nel riscontro delle vicende, si bada soprattutto all’agiografia del Santo (in fieri), e si accenna soltanto in sei righe (come se fosse qualcosa di estraneo e di minimale importanza) all’incarico “diplomatico” per un progetto che nessun papa avrebbe mai affidato ad un semplice frate, senza che non ne fossero già note le alte qualità di preparazione culturale e diplomatica (oltre che di fede, e di prestanza fisica); allo stesso modo, nessun papa avrebbe potuto innalzarlo ad una carica ecclesiastica altissima, senza conoscerne la fedeltà alla Chiesa di Roma e la preparazione giuridica e teologica. Nella prima lettera del 1305, Padre Giovanni si lamenta (e all’ordine chiede notizie e spiegazioni) di “false notizie e calunnie” che un medico lombardo (un patarino?) andava propagando a Pekino, forse uno delle centinaia di medici personali dell’imperatore; precisa che costui giunto 2 anni prima (quindi notizie a tutto il 1302 tenendo conto anche dei 12 mesi necessari al viaggio), e pertanto doveva essere a conoscenza di quanto avvenuto con le vicende di Celestino V, Bonifacio VIII e le contese col re di Francia. Padre Giovanni era troppo preso dalla sua fede, per poter soltanto sospettare che quanto il medico andava dicendo “forse” fosse molto meno di quanto in realtà era avvenuto nella Chiesa di Roma (e non c’era ancora stato il falò di Jacques de Molay del 1214!). Dopo il 1270, la Chiesa che aveva bisogno di solide alleanze con le monarchie assolute dell’Europa per la propria sopravvivenza, pose in secondo piano le “crociate”. Soltanto con Niccolò IV (12881292) si tornò a pensare – insieme alle “missioni” in terre lontane – ad alleanze militari, quantomeno in grado di sostenere, e di permettere, la penetrazione della predicazione religiosa, mantenendo aperte le vie di mare e di terra. Con Clemente V, grazie a Tommaso da Tolentino, venne ripreso il progetto di Niccolò IV di un’alleanza con i “mongoli”, non soltanto per un contenimento dell’espansionismo islamico (non più arabo, ma turco), ma probabilmente pensando anche ad un rafforzamento, attraverso il papato avignonese, della monarchia francese nello scacchiere politico europeo. Fino alla caduta dell’impero mongolo (1368), a fasi alterne, ovvero a discrezione di ogni nuovo papa, questo disegno non venne mai abbandonato; il tentativo di reinsediare un arcivescovo cattolico a Pekino, durò fino al 1368. Con la caduta dell’impero mongolo, in Cina si instaurò la dinastia Ming; e il Medio Oriente cadde nuovamente (per sempre) in mano ai musulmani. Il cristianesimo venne definitivamente messo fuori gioco, in tutta l’Asia; in Medio Oriente sopravvissero soltanto alcune comunità caldee in Iran, e qualche piccola comunità cattolica sulle coste della Palestina. In Cina, scomparvero sia i cattolici che 126


i nestoriani. La chiusura delle diocesi di Pekino e di Zaiton e, successivamente, di quella di Sultania, testimoniarono la storica sconfitta della Chiesa in Asia, aggravata da un secolo di tentativi di intesa con i Khan, falliti sostanzialmente per ignavia. Il volume sulla vita di Giovanni da Montecorvino di fra’ Gaspare Han, in gran parte con impronta agiografica, è comunque una testimonianza precisa, puntuale ed organica dell’attività missionaria e evangelizzatrice, in terra di Cina, del più grande figlio di Montecorvino. Luoghi, date, cariche politiche e religiose, nomi sono esposti in modo chiaro ed in sequenza logica. Descrive bene le difficoltà incontrate dal nunzio papale nel percorso verso la Cina. “Ovatta” la fuga dei 60 religiosi che lo accompagnavano, senza tacerla; mette in luce il coraggio del francescano che fa superare lo smarrimento della solitudine; ne esalta lo spirito indomito che gli permette di presentarsi – solo! – a cospetto del Khan Timur, e l’inizio dell’attività missionaria. Fra’ Gaspare Han, a parte qualche “svarione” (riportando gli svarioni di fra’ Guglielmo da Solagna), e qualche (più che opportuno) silenzio sulla Chiesa di Roma, ai tempi di Padre Giovanni, comunque è il primo ed unico storico che riporta e svela – in poche scarne righe – quasi una “toccata (involontaria) e fuga (precipitosa)” – il grande disegno politico e religioso di due papi (molto diversi tra loro, nonostante fossero entrambi francescani) che, pur non realizzato per problemi molteplici e, all’epoca, difficilmente sormontabili, era stato affidato non ad un frate minore scelto a caso, ma ad una persona che, per cultura teologica, giuridica e diplomatica, era una figura di spicco già a giudizio della Corte papale nel 1289; e destinata a diventare nunzio papale, fondatore della Chiesa cattolica cinese, primo arcivescovo cattolico di Pekino e patriarca dell’oriente (cioè di tutto il vastissimo impero mongolo) con poteri uguali a quelli del Papa di Roma (pur nella dovuta ed implicita obbedienza), perché Pekino diventasse la Roma (cattolica) dell’Asia. “L’ideale del papa, nel mandare Giovanni da Montecorvino a questa parte dell’estremo oriente, era di convertire al cristianesimo questo immenso popolo e stringere alleanza con la più forte potenza militare del mondo. Se tale idea si fosse realizzata, si sarebbe detto di aver convertito tutta l’umanità allora conosciuta. Similmente se tale ideale fosse stato realizzato, si sarebbe potuto dire di aver posto un argine all’avanzata della potenza militare musulmana”. Fra’ Gaspare Han “Giovanni da Montecorvino – fondatore della Chiesa cattolica in Cina” – Roma 1996 pag.87, dal IV al X rigo. Non meraviglia l’interruzione delle missioni francescane verso la Cina per impedimenti oggettivi (le distanze, la peste, la fine dell’accogliente impero mongolo e l’ascesa della ostile dinastia Ming). Ciò che invece meraviglia è la scomparsa – dalla storia della Chiesa – fino al 1924 (anno della riscoperta, grazie ai vescovi cinesi) della 127


figura di Padre Giovanni da Montecorvino. Al contrario padre Tommaso da Tolentino e fra’ Odorico da Pordenone – giustamente – avevano già avuto pieno riconoscimento nell’ambiente ecclesiastico, sia a livello locale, che a livello “nazionale”. La “damnatio memoriae”, in Cina, della conquista mongola – sempre vista in modo negativo (o comunque tra le cose sempre da “oscurare”) nella narrazione storica – consigliò “prudenza”, probabilmente, anche alla Chiesa di Roma, soprattutto dopo la ripresa dell’evangelizzazione della Cina, con Matteo Ricci e i gesuiti, dal 1578. La “damnatio memoriae” in Cina – nonostante siano passati 700 anni – dura ancora ed è naturale che duri anche la “prudenza” della Santa Sede. Tanto più che, di recente, è stato ristabilito un ennesimo precario equilibrio tra i cattolici di Taiwan e i cattolici di Pekino, questi ultimi già divisi – per 75 anni – fra la Chiesa cattolica (mal tollerata) fedele a Roma, e la Chiesa cattolica “patriottica” dipendente da Pekino – e ultimamente riuniti dall’accordo Cina-Città del Vaticano. Con lo scotch.

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CAPITOLO 12 • La nuova evangelizzazione della Cina di Matteo Ricci.

Matteo Ricci (1552-1610) a 20 anni entrò nella “Compagnia di Gesù”; a 25 anni fu affascinato dalle missioni delle Indie. Raggiunto il Portogallo, si imbarcò verso Goa (una colonia portoghese in India che serviva, posta di fronte a Canton, a scambi commerciali con la Cina). Ivi studiò teologia e imparò il cinese, dotato di ottima cultura e di grande intelligenza, ad esse univa una scaltrezza volpina. Col confratello Michele Ruggieri, costituì a Chao-Cing nei pressi di Canton, una missione nonostante l’ostilità della popolazione. Dopo alcune manifestazioni violente, alla fine, furono costretti a spostarsi verso Pekino; ma furono arrestati e imprigionati per “magia” (i crocifissi spaventavano i funzionari cinesi, per i segni del sangue che mostravano). La prigionia durò sei mesi; poi l’imperatore li volle a suo cospetto per visionare i loro “doni”. Tra questi doni, vi erano due orologi (il Ricci si era fatto istruire, a Roma, nell’arte dell’orologeria, sapendo che l’imperatore cinese era un “patito” della misurazione del tempo). Dei due orologi, il più piccolo era ancora funzionante, e l’altro era “scarico” per l’abbassamento completo dei pesi. Il suono dell’orologio (“le campane che suonano da sole”) affascinò l’imperatore che fece chiamare al suo cospetto i due prigionieri, e comandò loro di riparare anche l’altro. In Cina, 500 anni prima, era arrivato un orologio astronomico, di cui erano sopravvissuti soltanto il ricordo e il nome (il meccanismo celeste). Ricci (e dopo di lui gli altri missionari gesuiti) sfruttò le sue conoscenze degli orologi, degli astri e del calendario per poter esercitare la sua influenza sull’imperatore. Poiché in Cina “l’emanazione del calendario” era l’atto con cui una dinastia imperiale affermava la propria autorità, mise mano al “calendario lunare” cinese, e lo corresse, dopo averne denunciato gli errori: ciò gli aprì totalmente le porte della Cina. La previsione esatta di alcune eclissi gli fece conquistare definitivamente la fiducia dell’imperatore (che intanto aveva fatto costruire, nei suoi giardini, una specie di torre ove aveva allocato l’”orologio grande”). Con la predicazione missionaria dei gesuiti, entrarono in Cina anche la matematica, l’ottica, l’idraulica, la musica e tutto ciò che rappresentava la scienza europea. Si cominciarono a costruire anche i primi telescopi ad uso dei cinesi, nello stesso momento in cui, a Roma, Galileo Galilei veniva messo sotto processo per “eresia”. Duecento anni dopo la caduta della dinastia mongola (Yuan), Ricci si rese conto che, nonostante il tempo trascorso di persecuzione dura e sanguinosa contro i cattolici, - vi era ancora presenza di alcuni di essi (seppure estremamente diffidenti), nonché oggetti, costruzioni religiose e tradizioni orali 129


della evangelizzazione dei francescani. Matteo Ricci scrisse una notevole opera sul confucianesimo, per cui è tenuto in giusta considerazione anche dal presente governo cinese. (Al contrario è malvisto tutto ciò che è attinente alla “dominazione” mongola).

• Le testimonianze scritte.

Le testimonianze scritte da Coevi di Padre Giovanni e i documenti pervenuti sulla sua vita, sulla sua attività missionaria e sul suo impegno di arcivescovo cattolico di Pekino e patriarca di Oriente, sono dovute a fra’ Arnaldo da Colonia, a Odorico da Pordenone (memorie dettate a fra’ Guglielmo da Solagna), a fra’ Giovanni Marignolli, nunzio papale a Pekino dal 1339 al 1347, a fra’ Giovanni De Cora, domenicano, inviato dal papa (forse giunse a Pekino soltanto dopo la morte di Padre Giovanni, e che ne afferma il concetto diffuso di Santità sia in vita che dopo la morte). Altri documenti che interessano la vita, le attività diplomatiche e missionarie di Padre Giovanni, che costituiscono la fonte di quasi tutte le notizie disponibili su di lui, sono le sue due lettere dalla Cina (più una terza lettera dall’India il cui contenuto è riferito da Odorico da Pordenone), le credenziali ricevute da Papa Niccolò IV, più una delle lettere che gli erano state affidate per principi ed ecclesiastici (quella per il patriarca dei giacobiti), l’epistolario di Papa Clemente V con la bolla papale di nomina ad arcivescovo, una lettera di fra’ Arnaldo da Colonia, una lettera di fra’ Pellegrino da Castello, una lettera da fra’ Andrea da Perugia, la relazione di fra’ Elemosina, la lettera dei principi alani (e mongoli) a Benedetto XII, i codici trecenteschi assisano e parigino (i codici Chiggiano e Corsini, scritti molto più tardi, riportano incongruenze e inesattezze). Colui che per primo studiò in modo organico le lettere e le cronache dei confratelli che avevano riportato notizie su Padre Giovanni, fu nel 1654 il francescano irlandese Luca Wadding che pubblicò gli “annales minorum” (col noto errore della Montecorvino “dauna”, che diede adito a qualche polemica, nel 1926 e nel 1946, poi definitivamente sepolta). Soltanto nel 1926 – dopo settecento anni di silenzio da parte della Chiesa – venne “riscoperta” – in Cina! – da un sinodo di vescovi locali, la figura di Padre Giovanni. I vescovi cinesi ne sollecitarono la “canonizzazione” – con una supplica diretta al Papa Pio XI – in quanto “fondatore della Chiesa cattolica di Cina”. Fra’ Odorico da Pordenone per qualche anno (fino al 1328?) collaborò, a Pekino con Padre Giovanni e, fatto ritorno a Venezia nel 1330, dettò al suo confratello Guglielmo da Solagna il racconto del suo viaggio: nel viaggio di andata aveva sostanzialmente seguito il percorso di Padre 130


Giovanni; il viaggio di ritorno invece lo affrontò passando per il Tibet, e così poté descrivere la vita dei monaci buddisti. Il fiorentino, fra’ Giovanni Marignolli nel 1339 fu mandato da Papa Benedetto XII (terzo Papa “avignonese”) al gran Khan del Katay, con altri due confratelli Niccolò Nolano e Gregorio d’Ungheria (altre fonti parlano invece di 50 frati) ove giunse nel 1342. In quanto nunzio del papa, l’imperatore lo accolse con gli onori che il suo incarico comportava. Ritornò ad Avignone nel 1353. Nominato vescovo, si recò successivamente alla corte di Carlo IV di Boemia. Scrisse, per compiacere il re, una storia universale il “cronicon bohemorum” (che partiva dalla creazione del mondo e da Adamo ed Eva) contenenti le notizie dei suoi viaggi. Padre Giovanni è citato, oltre che in quest’opera, anche nella relazione che il Marignolli aveva fatto al papa, circa la sua missione in Cina. Fra’ Arnaldo alemanno giunse “inatteso” a Pekino (come scrive lo stesso Padre Giovanni, nella sua prima lettera) si ignora a seguito di quale disposizione; non si sa chi ne avesse disposto il viaggio e neppure per quali fini, poiché il papato e lo stesso ordine francescano davano per morto il confratello Giovanni. In una sua lettera, fra’ Arnaldo Alemanno parla delle persecuzioni dei Nestoriani e della predicazione in India, di Re Giorgio, del popolo degli alani che si erano convertiti al cattolicesimo, e poi erano stati costretti ad abiurare. Fra’ Andrea da Perugia, vescovo di Zaiton nel 1326 in una lettera parla ampiamente di Padre Giovanni dell’”alafa” (un aiuto finanziario che il gran Khan concedeva anche ai francescani) della sua successione a fra’ Pellegrino da Castello e della libera predicazione tra i pagani; informa dei 4 confratelli martirizzati in India e della morte di fra’ Nicola di Bandia, di fra’ Andreuccio d’Assisi e di altri morti in India per malattie (lettera, trascritta da fra’ Elemosina, di fra’ Pellegrino da Castello – uno dei vescovi coadiutori inviati da Papa Clemente V: la lettera cita l’opera di Padre Giovanni. Nel 1336, i principi alani recarono a Papa Benedetto XII una lettera (conservata) ove chiedevano un successore di Padre Giovanni, facendo l’elogio del defunto.

• Gli “aiutanti”.

Non si conoscono i nomi di tutti i “collaboratori”, naturalmente, ma tra gli “aiutanti” di Padre Giovanni della sua attività missionaria, va ricordato il mercante Pietro di Lucalongo, genovese, che aveva conosciuto Padre Giovanni nel viaggio verso Pekino, separandosene (forse) a Zaiton; e che, avuta notizia che fosse in pericolo, corse in suo aiuto, salvandolo dalle accuse dei Nestoriani. Lo aiutò presso il Khan, testimoniando in suo favore, ottenendo che venisse liberato. Successivamente 131


intervenne con i beni propri nella costruzione della Chiesa cattedrale. Così pure, fra’ Arnaldo da Colonia, frate minore della Germania meridionale, che giunse “inatteso” (si ignora da chi inviato, e perché; visto che sia il papato sia i frati minori che operavano in Persia ed Armenia credevano che Padre Giovanni fosse morto); ci ha lasciato una lettera con tutti i dettagli della vita di Padre Giovanni. Ma fra tutti, si eleva la figura di Tommaso da Tolentino che, ricevuta la seconda lettera, si impegnò personalmente presso il Papa Clemente V, perché Padre Giovanni non venisse ulteriormente ignorato. Collaborò con Padre Giovanni anche in Cina; la sua morte prematura fu una perdita immensa per il tentativo di evangelizzazione della Cina, e per il disegno di una intesa politico-militare tra mongoli e papato (e re cattolici), contro l’espansionismo turco. Grande importanza è stata sempre data dai papi, e dalla storiografia, ad Odorico da Pordenone, anch’egli frate minore e grande predicatore (oggi beato). Dapprima fu missionario in Armenia e in Persia poi – quando già era in Italia – fu inviato espressamente da Papa Giovanni XXII a Pekino, da Padre Giovanni. Per il viaggio, fra’ Odorico se la prese comoda (fu un grande viaggiatore, esploratore e narratore); giunse a Pekino sette anni dopo la partenza, e dopo meno di 4 anni, “forse” ripartì verso l’Europa – passando per il Tibet! Prima di morire, forse gravemente infermo dettò le sue memorie al confratello fra’ Guglielmo di Solagna. Per convenzione, in tutto ciò che si scrive di lui, viene definito, in pratica, come il principale collaboratore di Padre Giovanni. Dicono le fonti “ecclesiastiche” che ripartì dalla Cina per ritornare dal papa e chiedere aiuti per la missione cinese. Anche per il ritorno se la prese comoda, perché tornò in Italia nel 1330.

• Odorico da Pordenone: uno strano “aiutante”.

Poiché c’è il buio pesto sui motivi della sua missione in Cina (si intendeva “rafforzare” l’evangelizzazione dell’immenso impero mongolo attraverso l’invio di una sola unità, o con una coppia di missionari?), c’è anche una incongruenza palese delle agiografie per le date sulla permanenza di Odorico a Pekino, che fa sospettare un tentativo (maldestro) di allontanare dubbi più che legittimi. Il tutto, in relazione al mancato esercizio di una sua potestà, da parte di Padre Giovanni; cioè la consacrazione di vescovi (autoctoni o di origine europea) in numero sufficiente a consacrare un nuovo arcivescovo alla sua morte, quanto meno per non lasciare vacante la sede di Pekino. Padre Giovanni che – ancor prima di essere consacrato arcivescovo – si era dimostrato un innovatore con atti a limite della trasgressione (pur se dettati dalla necessità), quali la concessione dell’accolitato a Re Giorgio, la 132


creazione di un seminario, la traduzione in altre lingue di brani della Santa Messa (cosa all’epoca vietatissima dalla Chiesa di Roma), oggettivamente – in qualità di arcivescovo/patriarca – sarebbe venuto meno ad un suo preciso dovere: favorire la continuità della Chiesa cinese (che lui aveva fondato), evitando la sede vacante di Pekino che – nonostante le successive iniziative della Chiesa non si riuscì poi ad evitare (e nonostante la consacrazione “ad Avignone” di ben due successivi arcivescovi, nessuno dei due riuscì a raggiungere la sede); Clemente V aveva inquadrato, a suo tempo, il problema che si sarebbe presentato alla morte di P. Giovanni, concedendogli la potestà di nominare vescovi. Il Papa Giovanni XXII – successore di Clemente V rovesciò il problema, cercando di risolverlo avocando unicamente a sé la nomina dei vescovi, per timore di scismi. Ma la “vacatio” della Sede di Pekino, negli anni successivi contribuì (insieme alle persecuzioni della dinastia Ming contro le religioni “straniere”) a vanificare ciò che era stato costruito dalla evangelizzazione di Padre Giovanni e dei francescani. È pur vero che nessun esponente della Chiesa – nei secoli successivi – abbia mai rimproverato questa “mancanza” nei suoi doveri di arcivescovo e patriarca dell’Oriente, a Padre Giovanni. Cosa che accresce i sospetti e i dubbi sia sulla “missione” affidata ad Odorico da Pordenone, che sull’atteggiamento del papato verso il lontano (troppo lontano, e perciò “scomodo”) arcivescovado di Pekino. Comunque Odorico da Pordenone – chiamato espressamente dal Papa Giovanni XXII ed inviato a Pekino presso Padre Giovanni da Montecorvino – partì da Venezia nel 1318. Attraversò il Mediterraneo fino ai Dardanelli e a Costantinopoli. Passò per il Mar Nero e discese – a piedi – verso la Persia, quindi dal Golfo Persico, per via mare, raggiunse Tana in India nel 1322 (non prima!), ove raccolse le spoglie di Tommaso da Tolentino e dei suoi tre sfortunati confratelli assassinati nel 1321. Ripresa la via del mare, si fermò nelle isole dell’Indonesia, per poi raggiungere Pekino (a piedi, dopo essere sbarcato a Zaiton), presumibilmente, nel 1325. Restò ivi 3 anni (secondo alcuni, secondo altri 4 anni); quindi sarebbe ripartito nel 1328 (l’anno della morte di Padre Giovanni?), passando per il Tibet (ove si fermò per un tempo non breve). Poiché nelle sue memorie non parla della morte di Padre Giovanni, si dovrebbe presumere che alla sua partenza, Padre Giovanni fosse ancora vivo, ma anche in buona salute, perché non parla di alcuna infermità del patriarca. Giunse a Venezia nel 1330; nel convento di Padova dettò le sue memorie. Morì nel 1331 ad Udine, a 66 anni (forse). Questa la storia “ufficiale”. Quindi mentre impiegò (forse) circa sette anni per raggiungere Pechino, usando per la maggior parte del percorso la più veloce via del mare; impiegò invece soltanto due anni, facendo a piedi la maggior parte del percorso, con una sosta in Tibet, attraversando i Khanati mediorientali, sino alle sponde del mar Nero, poi via mare sino a Venezia. Altri “agiografi” invece computano in 4 anni la durata del 133


viaggio di ritorno. In questo caso, sarebbe partito da Pekino nel 1326, dopo una permanenza per un solo anno. A meno che – una volta esaurita la visita ai bonzi del Tibet – Odorico non fosse riuscito a prendere un volo dell’Alitalia, sulla rotta LhasaVenezia. Resta da chiarire in qual modo Odorico da Pordenone, a Tana non prima del 1322, giungesse e poi a Pekino nel 1325 dopo aver circumnavigato l’India ed esser passato per Sumatra! E come riuscisse a restare a Pekino tre o (forse) quattro anni (1325+4=1329), senza accorgersi della morte di Padre Giovanni. Volendo ricostruire (in modo razionale) – tenendo conto delle “velocità” allora consentite nei lunghi viaggi – i tempi di percorrenza delle varie tappe di Odorico, così dovrebbero essere riassunti: partenza da Venezia nel 1318, arrivo a Tana nel 1322, arrivo a Pekino nel 1325, ripartenza per il Tibet nel 1326, arrivo a Venezia nel 1330 (accettando che a Pekino Odorico restasse per un solo anno). Al contrario, una permanenza, - come lo stesso Odorico sostiene – per tre o quattro anni presso Padre Giovanni, comporterebbe una partenza per il Tibet nel 1328 (prima o dopo la morte di Padre Giovanni?), o addirittura nel 1329, impiegando un solo anno, o forse due per attraversare la Cina settentrionale, la Mongolia e il Tibet (con sosta), i Khanati meridionali, fino alle coste del Mar Nero (sempre e soltanto a piedi!) per giungere infine a Venezia “verso la fine 1329” (come alcuni sostengono). Senza l’ausilio dell’Alitalia? Permanendo i dubbi sui motivi della “missione” di Odorico in Cina – su incarico di Papa Giovanni XXII – è necessario riportarsi alla mancata nomina (da parte di Padre Giovanni da Montecorvino) di vescovi, né tra ecclesiastici autoctoni (sorti tra i 40 ragazzi adottati) né tra ecclesiastici “europei” allora presenti nella sua immensa arcidiocesi (il Medio oriente ancora cristiano, tutta la Cina e tutta la Mongolia), giusto per evitare la “vacatio” che si verificò alla sua morte; è quasi spontaneo pensare che, in precedenza (non necessariamente attraverso Odorico da Pordenone) fosse giunta una “revoca” o un “contrordine” a questa sua “potestà” di arcivescovo e di patriarca, da parte dello stesso Clemente V, o del suo successore Giovanni XXII. Quest’ultimo aveva avocato a sé solo (definitivamente) la nomina dei vescovi, sottraendola al “clero e al popolo”, temendo – giustamente?! – in epoca avignonese uno scisma o la comparsa di un antipapa (cosa che puntualmente avvenne nel 1328, dopo che ne era restato immune tutto il XIII secolo), in seno alla Chiesa di Roma ovvero di Avignone (l’Antipapa Nicolò V, sostenuto da Ludovico il Bavaro). Particolare pericolo certamente avrebbe potuto rappresentare la immensa diocesi asiatica (anche se già si era provveduto nel 1318 a staccare da Pekino la diocesi di Sultania), quando alla (ormai prossima) scomparsa di Padre Giovanni, un suo successore (non ben “conosciuto” dalle gerarchie avignonesi), provvisto di minor sentimento di “obbedienza” al papato, e di maggior sentimento di potere, avrebbe potuto cercare di “giocare le sue carte”, forte delle immense distanze, e della 134


potenza dell’impero mongolo, nel cui seno era possibile si verificasse tale evento. Ciò avrebbe costituito un pericolo contro cui sarebbe stato impossibile un serio contrasto, da parte del papato. Lo slogan “prevenire è meglio che curare” all’epoca non era stato ancora inventato, ma le volpi delle alte ed altissime gerarchie ecclesiastiche, erano ben in grado di comprendere l’esistenza di tale pericolo e di adottare il succo dello slogan non ancora inventato. Scrive fra’ Gaspare Han: “Clemente V gli aveva dato ampi poteri di scegliere e consacrare vescovi, senza l’urgenza di ricorrere ogni volta a Roma”. E’ pur vero che, dall’Europa, erano giunti a Pekino, vivente Padre Giovanni, oltre i due vescovi arrivati per la consacrazione e il vescovo fermatosi a Zaiton, anche altri due vescovi consacrati tra il 1310 e il 1311; ma poco prima della morte di Padre Giovanni erano ancora vivi soltanto il Vescovo Andrea da Perugia e il Vescovo Pietro da Firenze. Sempre fra’ Gaspare Han scrive: “nessun papa criticò l’operato di Giovanni da M. come arcivescovo di Pekino, per non aver consacrato qualche vescovo cinese”. In verità, Padre Giovanni non consacrò neppure vescovi di provenienza europea, tra gli ecclesiastici presenti nella sua diocesi. Questa “grave mancanza” mai da nessun papa censurata (e neppure rilevata), da parte di un pur attento e fedele altissimo prelato (quale sempre fu Padre Giovanni verso la Chiesa di Roma) sottende l’esistenza di “disposizioni” tali da annullare le precedenti “potestà” concesse da Clemente V. Padre Giovanni si limitò a sostituire i vescovi europei giunti a Pekino, man mano che venivano a mancare, nella sede suffraganea vescovile di Zaiton. Nemmeno il valentissimo (e più giovane di 25 anni!) e colto Tommaso da Tolentino, ebbe la nomina a vescovo né durante la sua permanenza in Cina né al momento della sua trasferta in India, ove c’era realmente bisogno di una persona della sua tempra per l’evangelizzazione del subcontinente, caricata da un ufficio che ne avrebbe accresciuto il prestigio verso il bailamme delle sette e delle religioni che si sovrapponevano e si azzuffavano nel centro cristiano della Chiesa di San Tommaso. Una condotta, alla fine incomprensibile per un arcivescovo patriarca, al limite della irresponsabilità, in assenza di un motivo ostativo serio (tuttora ben nascosto), ovvero senza una imposizione del papato avignonese. Le giustificazioni che apporta fra’ Gaspare Han sono – con ogni rispetto – risibili: non ci sarebbe stato bisogno di consacrare altri vescovi, perché oltre Kambalik c’era soltanto l’altra sede vescovile di Zaiton; ma a P. Giovanni era stato impedito di elevare a sede vescovile qualcuna delle numerose missioni che erano state create. E, alla fine, dopo la morte di P. Giovanni, era restato soltanto il Vescovo fra’ Pietro di Firenze. (Tra l’altro, il Marignolli, sostituì il vescovo di Zaiton che era deceduto, ma restò vacante la sede arcivescovile di Pekino!). Un vescovo cinese, non avrebbe avuto la stessa ascendenza di Padre Giovanni verso la corte mongola… perché mancante delle credenziali papali!... bah! Senza voler 135


evocare ancora Andreotti (…a pensare male si fa peccato ecc.), producono più di un sospetto (e di un peccato) guazzabugli di date che sottendono il viaggio in Cina e il ritorno in Europa di Odorico da Pordenone, quasi a voler sviare ogni indagine in merito ad un “viaggio” ordinato da Papa Giovanni XXII ad un unico “missionario, – Odorico – diretto appositamente verso la persona dell’arcivescovo di Pekino.

• Il viaggio di Odorico.

Su incarico del papa, Odorico partì per la Cina nel 1318 (mentre predicava a Pordenone). Nato a Villanova di Pordenone nel 1285, era ordinato sacerdote a 25 anni ad Udine (1310). Dopo un soggiorno in Asia Minore, iniziato nel 1314, già nel 1316 era tornato nel Friuli. Imbarcatosi a Venezia, in ottemperanza a quanto gli era stato richiesto, si diresse verso Costantinopoli, attraversò i Dardanelli e il Mar Nero (la via attraverso Acri era ormai – per sempre – chiusa, già nel 1291), passò attraverso la Persia a piedi – sino ad imbarcarsi ad Ormuz nel Golfo Persico diretto verso Tana sulla costa occidentale dell’India, dopo soste plurime (per ritemprarsi) presso conventi e monasteri. Quivi giunto nel 1322 – raccolse le spoglie di Tommaso da Tolentino e degli altri confratelli assassinati l’anno precedente. Ripresa la nave, circumnavigò l’India, raggiunse l’Indonesia, quindi raggiunse Canton, e proseguì infine per Zaiton e, a piedi, fino a Pekino. I resti di Tommaso da Tolentino e degli altri martiri lo seguirono nel (lungo) viaggio, sino a ricevere cristiana sepoltura a Zaiton (resta sconosciuto il motivo per cui il chierico Pietro da Siena non sia stato riconosciuto come beato dalla Chiesa romana). Qui, viene in soccorso una ennesima manipolazione di date: Odorico, a Tana, nel 1322, circumnaviga l’India, quindi via mare raggiunge l’Indonesia, vi sosta, si imbarca successivamente per Canton, quindi sbarca a Zaiton, da dove raggiunge Pekino…nello stesso anno, il 1322! Una velocità incredibile raggiunta da Odorico. Resta a Pekino per quattro anni (dal 1322 al 1326), quindi riparte attraversando (a piedi) la Cina settentrionale, la Mongolia, il Tibet (ove si ferma per alcun tempo), i Khanati medio orientali sino al Mar Nero, dove infine si imbarca, per giungere a Venezia nello stesso anno (il 1326): Turbo-Odorico, fu riconosciuto Beato nel 1755. Fra’ Gaspare Han chiude i suoi commenti su Odorico da Pordenone, definendolo “semplice e infantile” di carattere, “persona molto impressionabile”, non in grado di giudicare oggettivamente la realtà delle cose, di avere raccontato cose inverosimili sulla Cina, con esagerazioni madornali (fra’ Gaspare Han – Padre Giovanni da Montecorvino, fondatore della Chiesa cattolica di Cina – Roma 1966 – pag.82). Nella narrazione della vita di Odorico, fatta da più 136


autori, c’è una danza di date, aggiustate a seconda della narrazione che si intende produrre, se in senso di viaggi di avventure; o in senso di “missione e nunziatura”. Secondo fra’ Gaspare Han, Odorico giunto a Pekino insieme ad un “certo” fra’ Giacomo, stette a Pekino per 4 anni (1322-1326) per poi tornare in Europa nel 1330 a raccogliere aiuti ed altri missionari; il papa gli avrebbe accordato 50 francescani, che però non partirono mai. Forse l’unica data certa riguardante Odorico da Pordenone, è quella della sua morte (1331), poiché anche quella della sua nascita balla tra il 1265 e il 1285! Però anche il suo ritorno a Venezia è ricco di tre date: 1326, 1329 e 1330. Basta leggere una carta geografica – tenendo conto delle bassissime velocità di percorrenza dell’epoca (via mare o via terra) – per comprendere che tutte le date dei viaggi di Odorico, sono state più volte aggiustate, per rendere più o meno plausibile la narrazione di una “missione” di aiuto a Padre Giovanni, trasformatasi in un “viaggio di piacere”, e nascondere qualcosa che all’analisi degli avvenimenti si rende abbastanza chiara. L’ipotesi che Odorico da Pordenone fosse latore di un “contrordine” papale, o di un ribadimento di una precedente disposizione ostativa alla nomina di vescovi da parte di Padre Giovanni, fa strada all’ulteriore sospetto che fosse anche un “controllore” della reale esecuzione delle disposizioni papali, sino alla morte di Padre Giovanni. L’invio di vescovi europei, “confezionati” ad Avignone durante il papato di Clemente V, con le consacrazioni del 1310 e del 1311, rende ancora più evidente che – venuta meno ogni possibilità di conversione preventiva del Khan e di una successiva alleanza con l’impero mongolo – il papato si preoccupasse di “limitare” le potestà concesse a Padre Giovanni, in precedenza (con la bolla di consacrazione ad arcivescovo), garantendosi con l’invio di vescovi di “sicura fede avignonese”.

Nota: La “velocità” dei viaggi via terra, all’epoca di Padre Giovanni, tenendo conto dello stato dei “sentieri (laddove esistenti)”, per un soggetto giovane e in buona salute, e con alimentazione non deficitaria, non superava la distanza corrispondente ai nostri 40 km al giorno; da computarsi inoltre c’era la necessità di un giorno di riposo, almeno ogni 10-15 giorni, laddove si potesse usufruire di temperature né eccessivamente calde, né rigide (nelle giornate piovose). Ben più breve invece risultava il percorso giornaliero laddove si dovessero attraversare zone desertiche, o innevate, o in alta quota (Tibet) in deficit di ossigeno. Bisognava comunque computare anche il tempo di riposo necessario (cioè restare completamente fermi) in caso di malattia. I problemi della “velocità” di percorso si complicavano ulteriormente nel caso che il viaggiatore superasse i 40 anni di età. I viaggi-turbo, quindi, non erano possibili. Soltanto le “frecce” – i portaordini 137


dell’esercito mongolo – a cavallo, e con servizio di cambio della cavalcatura ai predisposti presidi militari – erano in grado di compiere tratti di 130-160 km al giorno. Nota: Pur non avendo alcun elemento in sede di storiografia, lo scrivente resta convinto che Odorico lasciò Pekino non prima della morte di Padre Giovanni. Nota: Il trasporto di resti umani, non completamente scarnificati, avveniva attraverso precedente “bollitura”, e pulizia delle ossa con coltellacci. Nota: Il chierico Pietro da Siena, martirizzato insieme a Tommaso da Tolentino, non è stato riconosciuto “beato” insieme agli altri due “collaboratori”. Forse tentò di allontanarsi, per sfuggire alla decapitazione (ma venne ripreso! Però, non vale…).

• Gli aiutanti “veri” di Padre Giovanni.

Ricordando comunque il coraggio del domenicano Niccolò da Pistoia, l’unico che non abbandonò Padre Giovanni ad Ormuz, morendo poi in India, e l’aiuto di F. Arnaldo da Colonia (giunto “inatteso”), non si può sottacere l’amicizia sincera mostrata dal mercante Pietro di Lucalongo che salvò P. Giovanni da sicura morte a causa delle false accuse dei nestoriani, e successivamente lo aiutò, con proprio denaro, all’edificazione della “Chiesa cattedrale” di Pekino. Ma fondamentalmente, per l’opera di evangelizzazione di P. Giovanni, fu l’aiuto di “Re Giorgio”, capo del popolo alano e della guardia imperiale che, a P. Giovanni, giunto da solo a Pekino, donò subito la propria amicizia. Nestoriano (come il suo popolo), si convertì al cattolicesimo e indusse a convertirsi tutta la sua gente. Aiutò materialmente a costruire la “Chiesa della Trinità” a Tenduc (capitale del popolo alano in Cina), e la prima Chiesa a Pekino. Chiamò Giovanni il suo primogenito, prese l’ordine dell’”accolitato” dei francescani e, in abito talare, serviva Messa a P. Giovanni. La sua morte in battaglia (1296) creò grossi problemi a P. Giovanni. I suoi successori imposero agli Alani convertiti al cattolicesimo di abiurare, e ritornare al nestorianesimo. Il clero nestoriano – restato P. Giovanni senza protezione, a corte – iniziò a perseguitarlo con accuse calunniose allo scopo di ottenere contro di lui una condanna a morte. Comunque, una volta cadute le false accuse, gli Alani restarono sempre legati a P. Giovanni, soprattutto quelli di Pekino restati cattolici, tanto che – dopo la sua morte – una loro delegazione si recò dal Papa Benedetto XII, per chiedere un nuovo arcivescovo “buono” come P. Giovanni. Va ricordata anche l’opera di F. Arnaldo da Colonia, con l’aiuto del quale vennero potenziate le prime missioni fuori da Pekino, e altre ne furono create. Ma su tutti si erge la figura di 138


Tommaso da Tolentino, che conosceva P. Giovanni sin dai tempi delle loro missioni in Asia Minore, e che si premurò di segnalarlo alla curia di Clemente V; e dal 1308 visse con lui in Cina per 12 anni.

• Dopo Giovanni.

Fra’ Giovanni De Cora, domenicano, nominato vescovo della nuova diocesi di Gazaria (staccata dalla diocesi di Pekino), si recò nella capitale dell’impero mongolo, quando ormai Padre Giovanni era deceduto (1328). Questi, nei suoi scritti, conferma l’attività missionaria svolta da Padre Giovanni a Pekino, la sua amicizia con l’imperatore e i suoi patimenti a causa del clero nestoriano, e – in morte – il concetto diffuso di santità che godeva tra il popolo. Nel 1311, Papa Clemente V elesse vescovi tre frati minori come ausiliari di Padre Giovanni (fra’ Tommaso, fra’ Girolamo, e poi Pietro da Firenze). Fra’ Pietro da Firenze si aggiunse come vescovo, ai vescovi inviati precedentemente, e fu il successore di frate Andrea come Vescovo di Zaiton. Dopo la morte di Padre Giovanni, soltanto 40 anni dopo crollò la dinastia mongola degli Yuan (1368). La seguì la dinastia cinese Ming, che chiuse l’ingresso in Cina a tutti gli stranieri. Nel 1339 – dopo la richiesta di un’ambasceria mista mongolo-alana (non era pervenuto a Pekino il corteo dell’Arcivescovo Nicola di Calabria), fu inviato come “Nunzio” fra’ Giovanni Marignolli che giunse a Pekino nel 1342 (forse con 50 frati, forse con 4, forse soltanto con due: Gregorio d’Ungheria e Nicolò Nolano). Nel 1352, era già di ritorno ad Avignone. Fra’ Guglielmo, fu nominato nel 1369, Arcivescovo di Pekino; non partì mai (sarebbe stato inutile). La presenza dell’Arcivescovo di Gazaria a Pekino, nel 1328, in occasione della morte di Padre Giovanni, induce a pensare anch’essa ad una attività di “controllo” sui documenti dell’arcivescovado.

• Attività missionaria di Padre Giovanni.

Non si può sottacere, nella vita di Padre Giovanni, l’intensa attività missionaria di predicazione, di conversione e di cure battesimali per i neofiti e per i bambini. Alla sua morte, i confratelli a Pekino contavano circa 30.000 convertiti anche tra mongoli, cinesi, alani, armeni, georgiani…, e qualche centinaio di migliaia in tutto il territorio cinese. Non è facile stimare quanti “francescani” giunsero in Cina durante la dinastia Yuan, e quanti ne perirono nel viaggio di avvicinamento; sia 139


perché partivano da parti diverse dell’Europa, sia perché non vi era una vera e propria registrazione delle partenze; comunque non meno di 350 religiosi tra frati e vescovi. Oggi questi numeri possono sembrare “piccoli”, ma all’epoca – quando si viaggiava a piedi alle mercé di bande armate, o in barconi, alla mercé di tifoni – costituirono uno sforzo imponente, possibile soltanto per la fede e il coraggio dei discepoli di Francesco d’Assisi. I nomi restati ignoti di coloro che non furono registrati, o di cui si è persa memoria, o di cui fu persa ogni traccia onorano ancora di più l’opera missionaria di questi eroi della religione cattolica. Gli ultimi francescani tornarono – forse attraverso l’impero di Tamerlano – nell’ultimo decennio del XIV secolo. Un gran numero di Chiese e conventi furono edificati fino al 1368, e di cui esistono ancora tracce, messe in luce da locali ricerche archeologiche.

Nota: Il vescovato di Zaiton: All’epoca dell’impero mongolo, il porto di Zaiton era il più importante, e il più grande della Cina. La stessa città contava oltre un milione di abitanti. Ivi si trovava una forte (e ricca) comunità cattolica formata da mercanti genovesi, e loro collaboratori, ed un altrettanto ricco insediamento armeno. Allora ai bisogni religiosi, con grande probabilità, accudivano già preti, o chierici, a seguito dei genovesi, provenienti direttamente dall’Europa, o dal Medio Oriente. Naturalmente erano presenti anche i Nestoriani, e loro ecclesiastici. Il Vescovo Alboini, si fermò a Zaiton (senza raggiungere Pekino, per consacrare Padre Giovanni) perché trovò ottime occasioni di soggiorno, offerte dai genovesi. Sia l’Alboini che i vescovi che lo seguirono, si lamentavano di essere stati dimenticati dalla “Chiesa”, ma non delle loro condizioni di soggiorno, potendo usufruire di conventi (regalati) con ampi giardini, nonché dall’alafa fornita dal Khan (più le congrue offerte dei credenti).

• I luoghi delle missioni.

I luoghi delle missioni dove venne svolta l’attività missionaria di Padre Giovanni, e dei francescani: a Tenduc, capitale del popolo Alano in Cina, ove venne costruita la prima Chiesa (detta romana) da Padre Giovanni, con l’aiuto sostanziale di “Re Giorgio”. A Tana, in India, (ove successivamente verranno uccisi padre Tommaso da Tolentino e altri tre confratelli). 140


A Zaiton – sede vescovile suffraganea di Pekino – ove i francescani costruirono due conventi e tre Chiese. A S.Tomè in India (Maliapur) ove Padre Giovanni e il domenicano fra’ Nicola fondarono la prima Chiesa cattolica. Ad Armalek, i francescani avevano due conventi e tre Chiese. A Pekino, dove Padre Giovanni fondò tre contenti e tre Chiese. A Colombo (India), ove francescani e domenicani fondarono la prima Chiesa cattolica. La città di Chouan-Chou, (Zaiton) all’epoca di Padre Giovanni, era un immenso e famoso porto, ove convergevano i commerci provenienti dalla Persia e dall’India (e dall’Europa, dopo il passaggio a piedi dal Mar Nero ad Ormuz). Di qui passavano tutti i missionari diretti nelle altre zone della Cina. Di qui passarono anche tre vescovi destinati a consacrare Padre Giovanni, di cui uno – Gerardo Albuini – vi rimase per svolgere l’opera di evangelizzazione, e da Padre Giovanni venne successivamente confermato vescovo di quella città. Qui una ricca signora armena donò il denaro necessario per la costruzione di una Chiesa ed un convento. A Gerardo Albuini seguirono come vescovi diocesani Pellegrino da Città di Castello, e poi Andrea da Perugia. Di lì passò anche il Nunzio pontificio G. Marignolli nel 1346. Almeno 150 frati passarono per quel porto, durante la dinastia mongola, o vi si fermarono e vissero. Ruderi di Chiese e di conventi, nonché di un cimitero cattolico, sono stati di recente scoperti, come pure due lapidi con scritte latine in stile gotico, prodotte dalle attività dei francescani (altre lapidi risultano incassate nelle mura di alcune case, usate come laterizi). Odorico da Pordenone, nei suoi racconti, testimonia che a Chouan-Chou esistevano vicino alla Chiesa, un convento e un cimitero cattolico riservato ai missionari, ai commercianti stranieri, nonché delle Terme. Le lapidi ritrovate appartenevano ad un Antonio e una Caterina Viglione (o Ylione) ricchi commercianti genovesi (una lapide coeva di un Jllione è tuttora nel Duomo di Genova). L’antica Chiesa “romana” la prima costruita da Padre Giovanni insieme a Re Giorgio a Tenduc, è stata ritrovata nel 1990, nella odierna A-luun-Sz’mu; Tenduc, durante il periodo mongolo, fu punto di incontro tra la cultura asiatica, europea e mediorientale. Tale Chiesa è citata da fra’ Elemosina, da fra’ Giovanni De Cora e fra’ Giovanni Marignolli. Tale Chiesa – dopo l’abiura dei successori di “Re Giorgio” – era entrata in possesso dei Nestoriani.

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• La memoria storica di Padre Giovanni e della sua missione in Cina.

P. Gaspare Han intervista un tale signor Chang del villaggio di Puo-li, ove – tutti i cattolici – rimandano la loro conversione all’opera del “grande Bonzo europeo”, dell’epoca dei mongoli. In altri villaggi cinesi, ai confini con la Mongolia, sarebbero stati individuati altri nuclei cattolici che rimandano la loro conversione alle missioni cattoliche a cavallo tra il XIII e il XIV secolo.

Note: • La lingua mongola (che usava i caratteri della lingua Hyur introdotti da Gengis Khan), Padre Giovanni la imparò in Persia e Armenia, i cui Khan erano “feudatari” (confederati) del gran Khan di Pekino, ed essi stessi mongoli. Padre Giovanni conosceva anche le lingue “locali”, particolarmente il persiano che all’epoca era “l’inglese” dell’Asia, usato in prevalenza nei commerci. Senza la conoscenza delle lingue locali non sarebbe stato possibile né predicare, né convertire; così succede ancora oggi per i missionari “veri”. Scriveva e parlava la lingua degli alani. Senza la conoscenza delle lingue, non sarebbe stato nominato “nunzio” (ambasciatore) né presso Aitone, né presso Argone. Proprio la conoscenza delle lingue asiatiche, fu uno dei motivi per cui Niccolò IV lo scelse per la “missione” in India e Cina. Il cinese, invece lo imparò a Pekino, per poter predicare agli autoctoni. • Incidentalmente, nel testo, si accenna all’Imperatore Costantino il Grande che – secondo quanto afferma la stessa storiografia cattolica – avrebbe combattuto lo scontro di Ponte Milvio contro Massenzio, sotto il segno della croce. Caio Flavio Costantino I, figlio di Costanzo Cloro e di Sant’Elena, per tutta la sua vita restò sempre pagano; forse – gli venne somministrata l’estrema unzione. La madre Elena, cattolicissima sino ad essere in morte proclamata “Santa” sicuramente era interessata, a sostegno della propria fede religiosa, ad affermare che, vicino alla morte, il figlio si fosse convertito; cosa di dubbia credibilità perché portata, successivamente, a prova di autenticità della falsissima “donazione di Costantino”, e della strabiliante tesi che l’imperatore avesse lasciato l’impero romano di occidente, in “eredità” al vescovo di Roma. Comunque, con questo precedente, anche da un punto di vista “teologico”, non sarebbe stato un sacrilegio se – cattolici e Tartari (Pagani) – avessero combattuto una comune battaglia (possibilmente vittoriosa) sotto il segno della croce (che i mongoli comunque rispettavano). In realtà la Chiesa di Roma – a parte Niccolò IV – pur cercando 142


un’alleanza con i Tartari, non ebbe mai il coraggio e la determinazione di farlo, temendo di subire “il biasimo” di qualche antipapa (all’epoca molto di “moda”), nello scacchiere della politica europea. Infine, a Ponte Milvio (croci nel cielo a parte) se una croce segnava gli scudi dei soldati di Costantino, essa può darsi servisse – con una pennellata di calce – a distinguerli dai nemici che vestivano le medesime divise, in una guerra civile. • Nonostante “normalmente” la vita dei Khan durasse poco, Kubilay-Khan riuscì a morire di morte naturale dopo un lungo regno, grazie ai “personali” 200 medici (una specie di mutua al contrario), e soprattutto grazie alla sua guardia del corpo e al nerbo del suo esercito costituito da soldati Alani (cristiani, e, quel che conta, estranei al clan mongolo di provenienza di Kubilay). Il successore Timur riconfermò gli Alani nella protezione della sua persona. • Il “morbo” di cui morì il Re Luigi IX di Francia: Luigi IX fu l’ultimo “re cattolico” a portare ben due crociate contro i musulmani “Mamelucchi”; e, bisogna pur riconoscerlo, con grande e sincera fede, con immenso dispendio di risorse finanziarie (di cui genovesi e veneziani furono i principali percettori), e con veemente coraggio. Le sue crociate, la settima (1248-1254) e l’ottava (1270) furono in effetti le ultime. Le altre seppure invocate dai papi e denominate anche esse crociate, furono soltanto regolamenti di conti contro “eretici” (i Catari), contro signori Ghibellini (Ezzelino da Romano), contro principi tedeschi, contro popolazioni baltiche, contro…famiglie! (La crociata proclamata da Bonifacio VIII contro “la famiglia Colonna”). Già nella settima crociata, Luigi IX venne colpito da una “grave dissenteria” (ovvero colera), come buona parte del suo esercito, dopo la battaglia di Mansura; pur malato, comunque il re non volle fuggire e abbandonare i suoi uomini, e venne fatto prigioniero insieme ad altri 12.000 soldati. Per la prima volta, un sovrano europeo conobbe le carceri degli islamici mamelucchi, anche se venne trattato con l’onore che spettava al suo rango. Venne portato via dai genovesi, dopo che i Templari concorsero al pagamento del riscatto (un milione di bisanti d’oro), insieme ai prestiti dei banchieri di Genova. Nell’VIII crociata, sotto le mura di Tripoli (o di Tunisi), il re fu nuovamente colpito dal “morbo”, come viene scritto nelle agiografie che lo riguardano. Gli storici sostengono che il morbo fosse nuovamente il colera, altri che si trattasse di peste. In entrambi i casi – in epoche antiche – era “disdicevole” parlare di peste o di colera (o di lebbra) quali causa di morte per un re; in quanto, tali malattie erano considerate punizioni divine, tanto più se si trattava di un re, considerato santo e capace di guarire la “scrofola” (la tubercolosi) con l’imposizione delle mani. • La Tripoli citata si trovava sulla costa siro-palestinese. Oggi fa parte del Libano. Altre “fonti” parlano di Tunisi. 143


• Clemente V: Clemente V (Bertrando De Goth), anch’esso un Papa francescano (1305-1314), fu il primo papa “avignonese”, in Francia, nel 1305, mettendosi sotto la “protezione” del re di Francia; in sostanza mettendo il cattolicesimo (e l’elezione dei papi) alla mercé della politica francese. Naturalmente osteggiò la politica dei reali tedeschi (Ludovico IV il Bavaro). A parte la saggia decisione – a seguito dell’intervento di Tommaso da Tolentino di far consacrare Padre Giovanni ad arcivescovo di Pekino, nella prospettiva di una più ampia politica di alleanza con l’impero mongolo, su di lui, storicamente pesa il “crimine” della soppressione dell’Ordine dei Templari, un ordine di monaci guerrieri, protettori e fautori della difesa (armata) dei luoghi sacri. Il Re di Francia, Filippo IV detto il Bello, aveva contratto un debito per una somma enorme che, non era più in grado di restituire all’Ordine dei Templari. Il re e il papa trovarono la “soluzione” legale al problemino, attraverso la condanna per eresia e lo “scioglimento” dell’ordine del tempio. Tutto con procedure giuridiche legali, naturalmente: inizio del processo, scioglimento dell’ordine nel concilio di Vienne, e infine morte sul rogo per Jacques de Molay, maestro dell’ordine. Non esisteva ancora la corte costituzionale, ma se ci fosse stata avrebbe certamente approvato, tanto più che la sequela delle accuse era quella già sperimentata in tutti gli altri processi per eresia, presso l’inquisizione: blasfemia, sodomia, disobbedienza, commercio carnale con “Bafometto” (un “falso Dio” inventato dai “Santi” inquisitori), forse anche un saluto romano. La sorte di De Molay toccò a tutti gli altri Templari, cui il re di Francia riuscì a mettere le mani addosso; Filippo IV, non solo non pagò i debiti (per la “non rintracciabilità” del creditore?), ma incamerò anche il restante (immenso) tesoro dei Templari (fu nominato “custode cautelare”?). Dante Alighieri piazzò Clemente V all’inferno, nel girone dei Simoniaci (“…un pastor senza legge”, Inf. XIX, 82). • Le leggi dell’epoca prevedevano che non venissero pagati i debiti contratti, a soggetti dichiarati “eretici”.

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CONCLUSIONI

Le precedenti note non intendono costituire una ulteriore agiografia di Padre Giovanni; perché comunque non si può – attraverso più forbite aggettivazioni – incrementare il livello della cultura, della santità della vita, della fedeltà alla Chiesa di questo grande missionario, viaggiatore ed esploratore del continente asiatico nel periodo medievale. Tantomeno si intente “promuovere” una accelerazione (molto improbabile, ma attesa dai credenti) del pieno riconoscimento della “santità” di Padre Giovanni da parte della Santa congregazione dei riti (che è l’unico organo deputato a tanto), oggi impegnatissima – si immagina – a scovare santi e martiri esotici; e pedissequamente assecondare, come è d’obbligo, le necessità del presente papato. Ognuno è padrone di agire in casa propria, come meglio crede, ci mancherebbe altro! Meno che mai lo scrivente si permetterebbe di criticare (neppure a pensarci!) l’ultimissima politica della Santa Sede verso le “due” Chiese cattoliche delle due Cine. L’unico scopo che si prefigge questa breve indagine storica (con relative considerazioni) è far conoscere agli odierni concittadini di Padre Giovanni, la immensa grandezza di questo figlio della nostra terra, latore di un grande disegno politico-religioso (che purtroppo non ebbe a realizzarsi), pensato ed elaborato da due papi. Giovanni da Montecorvino, nell’umiltà del saio che aveva scelto di indossare lungo il percorso di santità già tracciato da San Francesco d’Assisi, fu persona di ampia cultura – ferrato in materia teologica e giuridica – di grandi capacità nel campo diplomatico, forse il più grande “nunzio” su cui poteva contare il papato in quegli anni. Prima che il Papa Niccolò IV lo incaricasse della “missione” a Pekino, presso l’impero mongolo, che era la “superpotenza militare” più forte del mondo a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, egli aveva già rappresentato “verso la Santa Sede” l’Imperatore bizantino Michele Paleologo, e come nunzio (ambasciatore) papale aveva operato presso le corti dei Khan di Armenia e di Persia. Sia chiaro che – all’epoca – non era neppure lontanamente pensabile di poter rappresentare il papa in corti tanto lontane e tanto potenti, senza conoscere la lingua del “principe” presso cui si veniva inviati; è pur vero che già c’erano gli “interpreti”; ma costoro venivano impiegati più nell’attraversamento di territori poco conosciuti, piuttosto che nelle delicate relazioni con i “principi” di altri Stati. Ovvero, l’ambasciatore che doveva incontrarsi con la persona più potente del mondo, l’Imperatore Kubilay-Khan (incontro che purtroppo non avvenne) non poteva che essere il miglior diplomatico di cui il papa poteva disporre al momento, e il miglior conoscitore della lingua del gran Khan. Infatti, Padre Giovanni fu un grande conoscitore di lingue: oltre il latino (che era la lingua della Chiesa), 145


conosceva il greco per la frequentazione di Costantinopoli; imparò il mongolo già in Medio Oriente, presso le corti (mongole) dei Khan di Armenia e di Persia; imparò il cinese – durante la sua lunga permanenza a Pekino – per poter predicare al popolo; imparò il “persiano” che era la lingue dei Nestoriani, ma anche dei mercanti (in Asia, una specie di “inglese” dell’epoca); e poiché predicò a lungo presso il popolo Alano, fino a tradurre in “alano” testi sacri cattolici, e fare iscrizioni “anche” in lingua alana nella “Chiesa Cattedrale” di Pekino, doveva essere necessariamente a conoscenza anche di questo idioma. Tra l’altro, aveva studiato presso la “scuola medica salernitana” e quindi non gli era estranea la scienza medica (quella insegnata a Salerno era quella più avanzata in Europa); ed è molto probabile che, in Cina, abbia conosciuto e praticato anche la medicina cinese nella umiltà della fatica (lavorò anche “manualmente” nella costruzione degli edifici sacri a Pekino); nella santità della vita spesa nel soccorso degli ultimi, nella predicazione e nella evangelizzazione dei popoli incontrati in Medio Oriente, in India, in Cina; nella sfida e nel superamento dei pericoli all’epoca esistenti (malattie, tempeste, pirati, ladroni, assassini) – tutto nel nome della Chiesa di Cristo – Padre Giovanni rappresentò una figura luminosa, non solo nell’ambiente ecclesiastico-religioso, ma nelle stesse vicende storiche (e politiche) del Medioevo, e un punto di riferimento per il progresso della conoscenza umana. Anche grazie a lui, e ai suoi “assistenti” l’Asia, in tutta la sua vastità, non fu più il punto ove erano situati l’inferno e il paradiso terrestre, il regno di prete Gianni, e i popoli di Gog e Magog, ma fu il continente ove era insediato un grande impero, costruito da un popolo guerriero su una (conservata) civiltà millenaria. L’evangelizzazione della Cina fallì, comunque, non per inadeguatezza dei francescani (o dei domenicani) ma per la (improvvisa e inattesa) caduta dell’impero mongolo, determinata, sì da un imperatore inetto, ma soprattutto dalla “strana” religione dei mongoli, che interpretava una sconfitta come effetto della mancanza della forza (divina) dei loro capi; quindi una cosa ineludibile ed incontrastabile. Ancora nel 1369 – già caduto l’impero mongolo – il papa nominò un arcivescovo di Pekino (Guglielmo) che non partì mai, in quanto tutte le vie di accesso alla Cina erano (di nuovo) sbarrate; e lo rimarranno fino a quando i portoghesi non cominceranno a circumnavigare l’Africa, e gli inglesi – a cannonate – a fine 800, a imporre alla Cina l’acquisto dell’oppio che coltivavano in India. Padre Giovanni da Montecorvino non fu comunque, nella sua santità e nel suo contesto storico, soltanto figura di grande cultura, eccelso diplomatico della Santa Sede, coraggioso viaggiatore, e instancabile predicatore (che convertì migliaia di persone; alla sua morte si contavano alcune centinaia di migliaia di cattolici in Cina; e altre comunità cristiane, periferiche all’impero mongolo, armeni, alani, etiopi ne chiedevano insistentemente la presenza). Egli fu anche – è bene ricordarlo sempre 146


– arcivescovo di Pekino e patriarca dell’Oriente (cioè di tutto l’impero mongolo che si estendeva dal Medio Oriente sino al Mar Cinese), con poteri ecclesiastici (e politici) uguali a quelli del Papa di Roma (pur se a Roma restava subordinato) nella diocesi più grande del mondo (mai esistita prima, e mai più replicata). Cioè ebbe a detenere un potere immenso, che gli era stato concesso da Clemente V, per farne un “pari” dell’imperatore, e con l’intento di fare di Pekino (cattolica) la Roma dell’Asia. Il tempo di 7 secoli, che separa la sua vita dalla nostra, non può giustificare i tentativi di obliarne la storia, né ignorarne (anche nella città di origine!) la grandezza (come persona umana, come francescano, come patriarca ed arcivescovo, come uomo di cultura, come viaggiatore/esploratore lasciato da San Francesco d’Assisi ai confratelli (e al mondo), e a quanto gli aveva indicato la Chiesa (nella sua missione di evangelizzazione e nelle sue urgenze politiche contingenti). Padre Giovanni non fu soltanto uno dei “tanti” francescani (anche quelli massacrati sulle strade del mondo, durante l’espletamento della loro opera missionaria), né uno dei tanti vescovi (anche santi, che hanno onorato la Chiesa di Roma), nemmeno uno dei tanti santi operatori di miracoli e conversioni, ma fu anche una figura di spicco nella storia della Chiesa di Roma durante il medioevo quando papi e re “cattolici”, abbandonate le “crociate” si dedicavano a falò e guerre civili. La conservazione della sua memoria deve essere intesa anche come un impegno d’amore e di rispetto verso la storia e la vita della nostra città. Deve essere motivo di grande e di giusto orgoglio ricordare di avere avuto nel cammino della storia, la nascita, nel nostro territorio, di Padre Giovanni, fondatore della Chiesa cattolica di Cina, Santo nella vita, arcivescovo e patriarca della più grande diocesi mai esistita (coincidente col più grande impero mai esistito). Non commento, veramente per carità cristiana, l’idea balzana di dividere la piazza che gli è dedicata, per dedicarne metà ad una astrofisica…triestina!

Nota: gli “Etiopi” di cui in questa sede si parla, non avevano nulla a che fare con l’Etiopia dell’Africa, ma erano una popolazione sulle rive del Gange.

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Post Scriptum

Tenendo conto che dal tempo di Padre Giovanni sono trascorsi più di settecento anni, si rende evidente la inutilità e l’assurdità di volerne per forza ubicare la nascita in un luogo esatto dell’antico territorio di Montecorvino, in una strada o in un palazzo, e volergli ad ogni costo affibbiare un cognome. Parimenti mi auguro che ciò non possa dare adito (per pietà!) a qualche “studioso” di comuni viciniori, a creare prove (naturalmente “provate”) della sua nascita alla “antica” casermetta n°23. Ancor più (poiché venne chiesto in epoche recentissime di “pregarlo, affinché producesse un miracolo – naturalmente visibile, ed a lui chiaramente attribuibile – per essere così promosso nel grado di Santità), si prega vivamente di astenersi da immagini lacrimanti, e statue sanguinanti. L’unico miracolo che lo scrivente si permette di invocare – alla autorità che amministra M. Rovella – sarebbe la decisione di dare maggiore dignità alla scultura in bronzo che lo raffigura, disponendola nella piazza principale della città che già porta il suo nome e che accoglie la casa comunale, lasciando lo spazio che attualmente la ospita, in via Pace, accanto all’entrata in un campo sportivo, al botteghino per i biglietti d’ingresso alle partite di pallone. Frati minori permettendo.

Post-Post Scriptum

Paradossalmente, quando Padre Giovanni – a seguito delle calunnie dei Nestoriani che lo accusavano di aver ucciso il “vero” nunzio papale – venne imprigionato, col pericolo di esser messo a morte (per aver oltraggiato il gran Khan, ingannandolo con una sostituzione di persona e averne rubato il “tesoro inviatogli dal papa”) – fu salvato dalla testimonianza di Pietro da Lucalongo che, per soccorrerlo, attraversò mezza Cina. Se Pietro da Lucalongo all’epoca “si fosse fatto i fatti suoi” Padre Giovanni sarebbe stato “martirizzato” e forse, oggi la Santa Sede non avrebbe problemi per dichiararlo santo. Comunque, da notizie recenti (non sufficientemente controllate), pare che il sinodo dei vescovi di Taiwan lo abbia proclamato “beato” (promuovendolo in serie b), mentre la Chiesa di Pekino (la “cattolica” e la “patriottica” recentemente unite in un solo corpo) non abbia approvato questa “promozione”. La Santa Sede – naturalmente – si astiene dalla disputa: tutta colpa di Pietro da Lucalongo! Ancora un appunto (senza importanza): “l’immagine ufficiale” di Padre Giovanni (che compare sulle copertine dei libri scritti da P. 148


Gaspare Han e Nunzio Di Rienzo, nonché nella Chiesa di Santa Maria della Pace, e sugli stessi “santini” e su un francobollo) è la copia conforme dell’immagine “ufficiale” di San Nicola di bari. Un po’ di “immaginazione” non avrebbe guastato.

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Atto (finale) di contrizione

Raccontare della vita e dell’attività di Padre Giovanni da Montecorvino, è cosa apparentemente facile, poiché poco si conosce della sua esistenza tutta sostanzialmente riassunta nelle sue due lettere da Pekino, dirette al papa e al suo ordine. Le lettere sinteticamente trattano dell’opera di evangelizzazione in Cina, degli ostacoli incontrati, del viaggio, della buona disposizione del Gran-Khan, e della persecuzione dei Nestoriani. Invece, man mano che si cercano riscontri, date, motivazioni a quanto narrato da autori coevi (suoi confratelli), o dai suoi agiografi nello scorso secolo, ci si imbatte in errori maldestri, in silenzi incomprensibili (in mancanza di una analisi generale dell’Europa a cavallo tra il XIII e il XIV secolo), e in (comprensibili) omissioni, figlie di “opportunità” pur sottaciute, riguardanti relazioni tra Stati (del passato e del presente). Districarsi in un ginepraio – di notizie (poche) e di silenzi (molti) – risulta alla fine alquanto difficile, fino a giungere a chiedersi se oggi valga ancora la pena perdersi in “indagini” storiche per raggiungere “oggettività” dalla dubbia valenza e (sicuramente) di scarso interesse, per laici ed ecclesiastici. Diciamoci pure la verità: a chi potrebbe interessare, oggi, conoscere che è esistito un grande progetto politico (non giunto a compimento) pensato da un paio di papi morti 700 anni fa, e affidato ad un frate minore? Cosa che, per giunta, potrebbe tuttora “raffreddare” e affettuosità tra Santa Marta e il bel paese dei Lagodaj, e disturbare talune relazioni inter-religiose. Perciò scusate, se ho osato. A. Della Corte MMXX

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INDICE

PAG. 24

CAPITOLO 1 – Il contesto religioso

PAG. 38

CAPITOLO 2 – La situazione politica nell’Italia meridionale

PAG. 43

CAPITOLO 3 – La vita del popolo minuto tra il XIII e il XIV secolo

PAG. 50

CAPITOLO 4 – I commerci con l’Oriente nell’antichità

PAG. 57

CAPITOLO 5 – Prima di Giovanni: gli errori delle missioni dei francescani (e domenicani) verso i Tartari

PAG. 70

CAPITOLO 6 – Storia della vita di Padre Giovanni da Montecorvino

PAG. 79

CAPITOLO 7 – Storia della vita di Padre Giovanni: da solo, inizio della missione

PAG. 85

CAPITOLO 8 – Storia della vita di Padre Giovanni (dalla prima lettera alla morte)

PAG. 93

CAPITOLO 9 – La fine dell’impero mongolo

PAG. 97

CAPITOLO 10 – I “mondi” di Padre Giovanni

PAG. 112

CAPITOLO 11 – Tommaso da Tolentino

PAG. 129

CAPITOLO 12 – La nuova evangelizzazione della Cina di Matteo Ricci

PAG. 145

CONCLUSIONI

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vOLUME iI

PADRE GIOVANNI DA MONTECORVINO

Montecorvino R. 1247 - Kambalik 1328

A. Della Corte


Affresco nel chiostro del “Convento di S. Maria della Misericordia” degli osservanti in M. Pugliano. Nella parte “vandalizzata” c’era l’immagine di P. Giovanni da Montecorvino. 1


VOLUME SECONDO Gli anni dell’abbandono e dell’isolamento, nella Cina dei Mongoli, dal 1294 al 1310, e poi il silenzio dopo la consacrazione fino alla morte nel 1328. Un arcivescovado “scomodo”: i motivi del suo decadimento, e del successivo silenziamento.

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CAPITOLO PRIMO 1. Gli eventi e i personaggi storici che segnarono la vita di P. Giovanni Il movimento francescano e la predicazione del Santo contrassegnarono tutta la vita di P. Giovanni, sin dal 1271 quando il ventiquattrenne Giovanni – abbandonata la carriera militare per breve tempo intrapresa – abbracciò la vita e le missioni dei frati minori, di cui restò fedele sino alla morte. Indirettamente, influì su di lui la cultura di cui l’Imperatore Federico II aveva permeato tutti i territori del suo regno. Gli studi precedentemente sostenuti presso lo “Studium” di scienze giuridiche di Napoli – voluto e creato dall’imperatore – avevano fatto di lui un uomo di cultura ferrato nel diritto (che comprendeva anche la teologia) e pertanto preparato ad assumere le cariche di nunzio che gli giunsero dall’imperatore Michele Paleologo di Costantinopoli verso il nuovo Papa Tebaldo Visconti (Gregorio X), che si trovata in quel momento in Terrasanta; dal Khan (imperatore) di Persia Argone verso il Papa Niccolò IV; e da questo Papa verso l’imperatore Kubilay, a Pekino. La sua capacità di imparare e padroneggiare più di una lingua orientale, fece di lui il migliore nunzio (ambasciatore) di cui potesse servirsi a quel tempo il papato verso i popoli asiatici. Segnarono il destino e la vita di P. Giovanni le richieste del Gran Khan Kubilay (le ambascerie della famiglia Polo, le ambascerie di Argone etc…) di stabilire relazioni tra l’imperatore mongolo e il papato. P. Giovanni non riuscì ad incontrare Kubilay, morto qualche mese prima che egli giungesse a Pechino. Papa Niccolò IV (1288-1292), Francescano, incaricò P. Giovanni nel 1289 di capeggiare una missione di frati (di circa 60 unità fra domenicani e francescani) diretta a Pechino ad incontrare Kubilay per evangelizzare la Cina, e lavorare per un’intesa militare della Cina dei mongoli con i regni cattolici d’Europa; non trascurando una riconciliazione con le varie confessioni cristiane che esistevano tra Cina, India e Medio Oriente (Armeni, Nestoriani, Bizantini, Giacobiti etc…) Tommaso da Tolentino cui in Medio oriente fu recapitata la 2° lettera di P. Giovanni da Pekino (1306), e che si adoperò presso la corte papale in Francia, perché fosse accolta la richiesta di aiuti invocati dal confratello. Il Papa Clemente V, cui Tommaso da Tolentino consegnò la lettera di P. Giovanni, e che – certamente dopo consiglio col Re di Francia Filippo V – consacrò P. Giovanni Arcivescovo di Pekino e Patriarca dell’Oriente. Fu il primo Papa che scelse di risiedere ad Avignone (105-1314). Pietro da Lucalongo, mercante genovese in Cina, che salvò P. Giovanni dalle false accuse dei Nestoriani, che ne auspicavano la morte.

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Re Giorgio, Khan del popolo Alano in Cina, capo della guardia imperiale dell’imperatore Timur, aiutò P. Giovanni nell’azione di evangelizzazione e conversione del popolo (cinesi, mongoli e Alani). Il Papa Giovanni XXII (1316-1334), fu il secondo Papa residente in Avignone. La sua azione fu del tutto negativa verso l’arcivescovato di Pechino, e ne pose le premesse per la successiva soppressione (1410). Il Papa Bonifacio VIII (1284-1303), ruppe durante il suo papato l’alleanza privilegiata tra la corona di Francia e la chiesa di Roma. Le sue lotte contro Filippo il bello contribuirono a far dimenticare la missione del francescano in Cina, e ad avallarne la notizia della morte (presunta). Fu il Papa successore di Niccolò IV, dopo il brevissimo papato di Celestino V. 2. Il Papa Clemente V Al Papa Bonifacio VIII successe Benedetto XI (Niccolò Boccasini), un domenicano con buona preparazione teologica e grandi qualità “diplomatiche”: per la sua nomina aiutò con 50.000 fiorini “l’ispirazione” concistoriale dei cardinali. Cercò di pacificare neri e bianchi a Firenze; non riuscendoci, scomunicò la città. Morì il 1304 (forse avvelenato). Il conclave successivo (ove venne elusa la regola dell’isolamento dei cardinali: pare che le contrattazioni avvenissero nottetempo, in un gabinetto di decenza) elesse Papa, Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, che assunse il nome di Clemente V. La storia ha attribuito a questo Papa la catastrofica decisione di trasferire il papato ad Avignone, in terra di Francia, sottoposto agli interessi politici della corona Francese, per oltre 60 anni (con la sequela dello scisma d’occidente). In verità quando Clemente V cinse la tiara, egli era già prigioniero di Filippo IV e dei cardinali francesi (che formavano la maggioranza del conclave). Da loro gli fu vietato di recarsi a Roma; ed Avignone, probabilmente, fu solo un compromesso con Parigi per la sede sociale. Costui era un uomo debole e malato, roso dalla insonnia e dalla depressione, tormentato da una fistola anale che alla fine si trasformò in un cancro che lo portò alla tomba. Unico suo atto “contro” il Re Filippo il bello, fu quello di riuscire ad “insabbiare” il processo post-mortem contro Bonifacio VIII, che il re ardentemente propugnava. Pertanto la “decisione” della consacrazione ad arcivescovo di Pechino di P. Giovanni, non poté avvenire se non con l’assenso del Re Filippo IV. Clemente V già nel 1310, inviò a Pechino da P. Giovanni, tre vescovi (di cui, ne arrivò soltanto uno) probabilmente con “paterni” consigli, a non usare la prerogativa (già concessa con una bolla) di nominare vescovi. Morì nel 1314, lo stesso anno in cui morì anche Filippo IV.

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3. Papa Giovanni XXII A Filippo IV, successe il figlio Luigi X (detto l’attaccabrighe); continuò la politica paterna di espansionismo in Europa, e continuò, nelle Fiandre, la guerra contro l’Inghilterra iniziata dal padre. Pertanto aumentò a dismisura le tasse al suo popolo, e sottrasse le “decime” alla chiesa. Non avendo avuto figli dalla moglie, la fece imprigionare, insieme a due cognate, con l’accusa di adulterio. Poiché, in prigione, la moglie non si decideva a morire, la fece strangolare (ma si disse, a corte, che era morta di polmonite). Morì nel 1316, prima che la seconda moglie partorisse un maschio, che però morì dopo qualche mese. Con lui e i suoi fratelli si estinse la dinastia e iniziò la “guerra dei cento anni” per la successione al regno di Francia. Nel 1316, dopo Clemente V, salì al soglio pontificio Giovanni XXII, che interpretò la chiesa come una grande impresa di affari, e come tale la governò benissimo. Un po’ meno valse come teologo e pastore d’anime; come teologo si avventurò a proclamare autentiche bestialità circa gli attributi divini della Vergine Maria. Per cui un sinodo lo costrinse a ritrattare; ma non fece in tempo, passando a miglior vita. Nel 1318 “tagliò” alla diocesi di Pechino di P. Giovanni la diocesi di Sultania (Persia), affidandola ai domenicani. Inviò “controllori” a Pechino, per evitare nomine di vescovi “in loco”, avendo arrogato a sé solo ogni nomina vescovile, togliendola “al clero e al popolo” come era stato da sempre. Brigò a lungo coi domenicani (cui aveva “appaltato” la “santa inquisizione”), per far dichiarare eretico tutto il movimento francescano “per eccessivo zelo pauperistico” (ma riuscì comunque a spedirne parecchi al rogo); e si fermò soltanto quando si rese conto che i francescani erano veramente poveri e quindi, non avendo beni propri, c’era ben poco da “confiscare”. La pressione fiscale fu portata ai limiti massimi: ogni nuovo vescovo o abate doveva anticipare al Papa, per un anno, un terzo delle sue rendite. Chi diventava arcivescovo doveva pagare alla curia una cifra iperbolica. Alla morte di ogni cardinale, vescovo o abate, tutti i loro beni venivano confiscati dal papa, cui andavano anche tutte le rendite del beneficio (finché non veniva nominato il successore; pertanto le nomine si facevano aspettare a lungo). Ogni nuovo designato era responsabile di tutte le somme dovute dal predecessore. Chi ricorreva ai tribunali ecclesiastici per rivendicare i propri diritti, doveva sottoporsi ad onerose parcelle, e la vittoria costava sempre più della posta in gioco. Nella più assoluta opulenza il Papa desinava con stoviglie d’oro e calici ingemmati, e spendeva somme assurde per i suoi abiti e quelli dei suoi parenti. La diocesi di Pechino restò senza arcivescovo e senza vescovi, sino alla sua morte (1334) ed oltre. I sacrifici della vita santa di P. Giovanni da Montecorvino, vennero cancellati (o lasciati spegnersi) dalla “dolce vita” di Giovanni XXII, ovvero “l’Anticristo Jacopo di Cahors” come lo 5


definì Ludovico il Bavaro. Un Papa ignorante, blasfemo e simoniaco (ma non una eccezione nel contesto storico di allora). 4. Argone L’iKhan di Persia, Argone, fu il personaggio mongolo che – oltre Kubilay-Khan attraverso i Polo - in più occasioni cercò di creare una alleanza col papato in funzione anti-islamica, e nella prospettiva di abbracciare il cattolicesimo con tutto il suo popolo. Argone, sebbene avesse ricevuto una educazione buddista, era amico dell’arcivescovo nestoriano Mar Yabahllah che lo spingeva ad avere contatti amichevoli coi cattolici, e col papato. Fu Argone che inviò P. Giovanni al Papa Niccolò IV come “ambasciatore”, per conto anche di Aitone (i-Khan di Armenia), e su richiesta di Kubilay-Khan, per stabilire contatti solidi (non soltanto da un punto di vista religioso). Le offerte di Argone caddero purtroppo in un periodo poco felice per il papato; Niccolò IV morì mentre P. Giovanni era ancora in viaggio verso Pechino; e nel 1291 cadde San Giovanni d’Acri (ultimo lembo della Terra Santa in mano ai cattolici); nello stesso anno morì anche Argone; e P. Giovanni non riuscì ad incontrare Kubilay-Khan, che morì qualche mese prima dell’arrivo a Pechino del “nunzio” papale. Notevole fu anche l’ambasciata inviata da Argone, attraverso il monaco nestoriano Sauma, accompagnato dal monaco ortodosso Sabadino, dall’interprete Uguetus e dal mercante genovese Tommaso Anfossi. Nel 1287 Sauma non solo incontrò il Papa Onorio IV, ma si recò anche a Genova, e presso le corti inglese e francese, che erano le maggiori potenze militare europee dell’epoca (a parte l’impero dei tedeschi, comunque in dissenso con la politica filo francese del papato). Questa ambasceria seguiva quella del 1285, del genovese Buscariello Ghisolfi (sempre inviata dall’iKhan Argone) per una alleanza contro i Mamelucchi (allo stesso Onorio IV). Anche Tommaso da Tolentino venne inviato come “nunzio” di Argone al Papa Niccolò IV nel 1291, poco prima che cadesse San Giovanni d’Acri, per chiedere aiuti militari contro i Mamelucchi… per conto dei cattolici di Acri! Dopo la morte di Niccolò IV, seguì l’interludio di Celestino V, l’agitato papato di Bonifacio VIII, il breve papato di Benedetto XI, e quindi, con Clemente V, il lungo tunnel dei papati avignonesi. Comunque già Niccolò IV che a lungo, finché visse, propugnò una nuova crociata in Terra Santa, era restato inascoltato da tutti i regnanti europei. Ormai – dopo la morte del Re di Francia Luigi IX sotto le mura di Tunisi nella VIII e ultima crociata – era venuta meno ogni razionale speranza ad una nuova “liberazione” di Gerusalemme; era venuta meno anche la “fede” dopo la morte di Luigi IX che – non a torto – la Chiesa successivamente proclamò Santo; non vi erano più disponibilità finanziarie sufficienti (le banche genovesi, pisane e veneziane, per le imprese militari praticavano interessi da usura); e non vi erano nemmeno 6


condizioni militari favorevoli, per la disparità di forze e di capacità strategiche degli eserciti (e dei comandanti) tra cattolici e mussulmani. Alla fine de XIII secolo, i mongoli dell’i-Khanato di Persia e quelli dell’Orda d’oro si convertirono all’Islam… la fede dei loro nemici storici! Il papato restò a guardare, invischiato nelle guerre dei re francesi in Europa, prima nel conflitto di Fiandre, poi nella guerra dei 100 anni (Re cattolici di Francia contro Re cattolici di Inghilterra), nelle lotte contro i Re germanici del sacro romano impero e nelle sanguinarie dispute con veri (o presunti) movimenti ereticali. La conversione dell’impero mongolo, non avvenne mai. Più tardi Martin Lutero (1517), e poco più in là Enrico VIII (1534) ruppero l’unità della chiesa cattolica con due scismi che, nella storia, si sono rivelati ancora più funesti dello scisma (voluto e propugnato) con la chiesa ortodossa. 5. Il fallimento della politica militare dei Crociati e degli stati crociati. Con la prima Crociata, e dopo la conquista di Gerusalemme (1099), si era venuta a costituire sulla fascia costiera, dalla Siria al Mar Rosso, una serie di principati cristiani, federati secondi i principi del sistema feudale, tutti formalmente obbedienti alla corte di Gerusalemme. Naturalmente, il circostante mondo mussulmano cominciò a riorganizzarsi, rendendo necessarie – quanto meno per contenerne la pressione – le successive spedizioni, tutte con esito negativo (eccetto la “liberazione” di Gerusalemme da parte di Federico II, ottenuta con la mediazione e senza guerra; e pertanto il “reo” fu scomunicato!) Alla base di questo “arretramento” del mondo cristiano verso l’Islam, vi furono molteplici errori politici, diplomatici e militari, sostenuti sostanzialmente dalla “supponenza” dello status “nobiliare” dei cattolici verso la controparte “barbara”. Oltre i dissidi interni tra i principi cattolici, e i loro rapporti col papato, mai venne considerata la possibilità – quanto meno per motivi logistici – di alleanze tattiche (o strategiche) con le popolazioni locali o limitrofe. Già dalla prima Crociata, l’alleanza con Bisanzio (i crociati erano intervenuti in Terra Santa su richiesta dell’imperatore di Costantinopoli, e in suo aiuto come alleati) venne tradita; e non si volle proseguire con una “politica di non aggressione” con gli arabi sciiti, all’epoca in forte contrasto con turchi e mamelucchi sunniti. Anzi il massacro degli abitanti di Gerusalemme (arabi ed ebrei; i cristiani si salvarono, perché, il comandante arabo della piazzaforte fortunatamente li aveva fatti uscire dalla città) ruppe per sempre ogni possibilità in tal senso (i mussulmani – a fronte dei cristiani – non si divisero più) come pure le richieste di alleanze, in direzione antislamica, più volte avanzate dagli i-Khanati mongoli di Persia e di Armenia vennero fatte cadere, con la pretesa della conversione “preventiva” alla 7


religione del Papa. Con l’aggravante che i mongoli erano ben disposti a convertirsi, ma dopo una compagna militare in comune. Nei primi decenni del XIV secolo, i mongoli della Persia e dell’Orda d’oro si convertirono alla religione islamica(!), ovvero alla religione dei loro nemici storici. Il resto dei mongoli, nel XV secolo si convertirono al buddismo lamaista. Inutile ritornare sull’odio dei re francesi e del papato avignonese contro i re tedeschi (nonostante gli Svevo Normanni sacrificassero interi ceppi familiari nelle varie Crociate, e in difesa dei regni crociati). Nota: Il Marignolli che venne inviato a Pechino in qualità di “nunzio” (ambasciatore) da Papa Benedetto XII, terzo papa avignonese (1334-1342), non aveva potestà di nomine ecclesiastiche. Portò la sua “ambasceria” (sconosciuta) al Khan, ma poco si curò dell’organizzazione delle missioni francescane in Cina, e per niente della (inesistente) gerarchia ecclesiastica locale. Arrivato a Pechino nel 1342, ne ripartì tre anni dopo. La nomina ad arcivescovo di Pechino di Fra’ Nicola di Calabria avvenne forse durante il papato di Benedetto XII, prima della partenza dei Marignolli (1339) e ben prima dell’ambasceria mista alano-mongola allo stesso Papa, attraverso cui si chiedeva un nuovo arcivescovo francescano per Pechino “buono come P. Giovanni” (gli ambasciatori sapevano della morte di Nicola di Calabria, durante il viaggio, insieme a tutto il suo corteo, imprigionati e soppressi a Tana, in India). Gli ambasciatori chiedevano al Papa, a nome del Gran Khan, di ristabilire le relazioni diplomatiche. Ancora il Gran-Khan, alla ripartenza del Marignolli, chiedeva al Papa un cardinale o un vescovo con “pieni poteri” (al Marignolli non erano stati dati!) a Khambalic, e che fosse un frate minore. Quando il Marignolli tornò ad Avignone, c’era il nuovo Papa Clemente VI, altro francese (1342-1352), che delle richieste del Gran-Khan e delle missioni in Cina “se ne lavò le mani”, impegnato a spendere, per il lusso della sua corte, i proventi che provenivano dalla “vendita delle cariche ecclesiastiche” (Giovanni XXII aveva fatto scuola). Nota: L’abbandono (poi rientrato) di Avignone da parte di Urbano V, e poi di Gregorio X (che se ne pentì, e non ripartì anch’egli per far ritorno ad Avignone, soltanto perché ormai troppo anziano per affrontare il viaggio) fu dovuto – oltre alle preghiere delle sante donne – alla disattenzione temporanea dei re francesi verso la sede papale, in un momento di difficoltà per l’andamento della guerra dei cento anni. Avignone, con la presenza del papato, era diventata il centro europeo dei commerci e delle attività dei banchieri; mentre Roma sprofondava nella miseria e nel disordine politico (Cola Di 8


Rienzo e le sue contraddittorie spinte politiche, aggravarono le già gravi condizioni generali). Nota: La chiesa di Avignone, favorì l’inizio del successivo “scisma d’Occidente”; e quest’ultimo diede lo spunto, in Inghilterra, alle dottrine del Wycliff, che furono riprese in Boemia da Huss, veri e propri prodromi alla riforma luterana. Nota: Caterina da Siena – recatasi ad Avignone – di fronte al Papa Gregorio X e ai suoi cardinali, fu così veemente nella sua “supplica” al Papa perché ritornasse a Roma, che i cardinali si sentirono “offesi” e cercarono di imprigionarla (e trasformarla in una “eretica” buona per il rogo). La salvò il Papa, che la protesse contro le “sante” intenzioni dei cardinali. Nota: Oltre Tommaso da Tolentino, sono stati proclamati “beati” dalla Chiesa Cattolica anche Odorico da Pordenone e Giovanni Buralli da Parma. Nota: L’attestazione (da “fonti” religiose) che siano state fondate numerose missioni sul territorio cinese (ancor prima della consacrazione ad arcivescovo), e la presenza di Tommaso da Tolentino a Pechino già dal 1308, dimostrano che dovevano pur esistere contatti tra P. Giovanni e le comunità francescane in Medio Oriente (nei Khanati Mongoli). Nota: P. Giovanni nel 1271 era a Costantinopoli, in qualità di nunzio papale, per mediare (l’ennesimo) tentativo di riunione della Chiesa cattolica con quella ortodossa.

6. Francesco d’Assisi e l’”ecologia”. Recentemente, la stampa “cattolica” e quella radical-chic (la seconda in coda alla prima), dietro impulso della linea mondialista–ecologista del papato di Bergoglio, hanno dato corso ad un revival dell’opera e della predicazione di Francesco d’Assisi, 9


sotto forma di una riscoperta del francescanesimo in una (molto riduttiva) visione ecologista-catastrofista “moderna”, costruita prendendo a modello la divulgazione pseudo-scientifica di “Greta”, piuttosto che l’interpretazione del pensiero profondo che emerge dal “cantico delle creature”, nel contesto dell’epoca in cui venne scritto; quasi che il santo fosse stato, in epoca medioevale, un “verde” ante litteram (un tristris-trisavolo di Rutelli?) o un antesignano della “santa” bambina svedese che riesce a restare “quasi sedicenne” da oltre cinque anni. (E questo è un vero miracolo!). In verità l’ascetismo, e la scelta della povertà, in cui il santo ritrovava la perfetta letizia, vennero più volte messi in dubbio dalle autorità ecclesiastiche locali (in Umbria), tanto da sottoporre Francesco a più prove, per cercare di coglierlo in fallo, in quanto sospettato di eresia. Il modo di vivere che Francesco aveva scelto e che richiedeva anche ai suoi seguaci, veniva accostato al “catarismo” e al valdismo. Il Santo stesso era sospettato di essere un “perfetto” cataro che, nella vita ascetica, dissimulava l’eresia. Si giunse ad offrirgli piatti di carne (che i catari rifiutavano insieme alle uova e al latte, “cibi peccaminosi” perché ottenuti con atti volti alla procreazione; ma che Francesco, sicuramente affamato, mangiò invece con vero piacere); e a portarlo di fronte ad un prete concubinario, cui comunque baciò le mani perché “con l’eucarestia esse erano ad ogni modo destinate a toccare il corpo e il sangue di Cristo”; e senza che mai proferisse giudizi sulla Chiesa del suo tempo e i suoi ministri di culto (“anche quando non risultano essere in grado di dare prove di cristianesimo superiori a quelle che riescono a dare”). Le accuse erano gravi e capziose: tanto per intenderci, sia Pietro Valdo che i catari finirono sul rogo. Il “cantico delle creature”, oltre ad essere una stupenda composizione poetica, è un autentico “trattato di teologia anticatara” (come indica F. Cardini). L’amore di Francesco per la natura, per gli animali, per le cose è superato soltanto dall’amore per gli uomini; e di qui la costante predicazione francescana in favore della pace, non solo intesa come assenza di guerre, ma soprattutto come serenità interiore, capace di amore e di perdono. Al contrario di Francesco, i maestri del catarismo predicavano che il mondo fosse un inganno del Dio delle tenebre e della materia. Già pochi anni dopo la morte di Francesco, i suoi discepoli venivano chiamati dalle città come “pacieri” tra le varie fazioni politiche.

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Imperatore Federico II

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Tommaso da Tolentino

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CAPITOLO SECONDO Gli anni dell’isolamento e dell’abbandono. P. Giovanni giunse a Pechino nel 1294 (agli inizi dell’estate; Kubilay-Khan era morto nel febbraio). Egli conferma, nella prima lettera, che era giunto a Pechino Fra’ Arnoldo da Colonia, presso il quale poté infine confessarsi, dopo 11 anni. Poiché l’ultima volta che aveva avuto la possibilità di confessarsi, era avvenuta con Fra’ Nicola da Pistoia, morto a Meliapur (India) non dopo il 1291; quindi l’anno di arrivo di Fra’ Arnoldo deve essere stato il 1303 (o i primi giorni del 1304). Infatti nella sua lettera al ministro generale dell’ordine dei frati minori, Fra’ Arnoldo parla di P. Giovanni, non come arcivescovo di Pechino, ma come semplice frate. Quindi scrive al suo ordine ben prima della “consacrazione” (1311), e prima della “prima (1305) e della seconda” lettera (1306) di P. Giovanni. Tanto, per dire che le vie di comunicazione tra la Cina e il Medio Oriente erano aperte (nonostante la caduta di San Giovanni d’Acri nel 1291), attraverso il Mar Nero verso Costantinopoli e il Mediterraneo. Si ignora comunque, perché e da chi, sia stato inviato Fra’ Arnoldo da Colonia a Pechino; nella prima lettera, P. Giovanni da’ riscontro, al suo ordine in Medio Oriente, dell’arrivo del confratello. Non è pensabile che, negli undici anni precedenti di isolamento, mai P. Giovanni abbia tentato di inviare sue notizie quantomeno in Medio Oriente. Ma come non ebbe riscontro alcuno alla sua “prima lettera” del 1305 (benché l’anno successivo la spessa delegazione mongola gli assicurò di averla consegnata al suo ordine in Gazaria, come egli aveva disposto), è possibile (anzi più che probabile) che a sue precedenti comunicazioni, nessuno abbia mai ritenuto utile inviare un cenno di risposta (naturalmente attraverso un messaggero la cui vita, oggettivamente, sarebbe stata messa in pericolo da un viaggio, per di più non disposto da un ordine dall’alto, quantomeno da un vescovo). Pechino – benché fosse Zaiton il porto d’arrivo e di partenza dei mercanti europei insieme ai quali viaggiavano i francescani e i domenicani – era comunque visitata dai viaggiatori europei, sia prima che dopo i “viaggi” dei Polo e la diffusione del “Milione”. Non è neppure ipotizzabile che P. Giovanni che frequentava – invitato – la corte imperiale, mai abbia pensato di servirsi di qualche “convitato” europeo, come messaggero. Il Gran-Khan ospitava spesso i mercanti europei di passaggio in quanto – con le loro fattezze – costituivano un “esotismo” raro per i mongoli (gli europei erano considerati “brutti” perché avevano il naso allungato, mentre il naso piccolo era per gli asiatici un indice di bellezza). Che poi una missiva non giungesse al destinatario, era facile che avvenisse; ma che non giungessero tutte (nel corso di oltre 10 anni), è alquanto improbabile. È invece probabile che l’arrivo di Fra’ Arnoldo da Colonia, a Pechino, sia stato l’”effetto” di 13


uno di quei contatti. La lettera di Fra’ Arnoldo al suo ordine (precedente al 1305), pervenuta al destinatario e conservata sino a noi, dimostra che si “perde” e si “dimentica” soltanto ciò che si vuole perdere e dimenticare. Anche la “prima lettera” di P. Giovanni non aveva avuto risposta (benché i mongoli nel 1306 avessero assicurato di averla consegnata all’ordine dei frati minori in Gazaria), né le era stata concessa importanza. Il medesimo destino avrebbe subito anche la seconda lettera, se non fosse stata consegnata a Tommaso da Tolentino. Nota: Tommaso da Tolentino portò a Clemente V (da poco eletto Papa) la lettera di P. Giovanni, e le richieste d’aiuto per il confratello, nel 1307. Il corteo dei 6 vescovi e frati partì soltanto nel 1308. Quindi l’”impresa” venne discussa a lungo dal re e dal Papa (che del re era soltanto un “suddito”, e che mai avrebbe preso una tale iniziativa diplomatica – l’alleanza tra la Francia/papato e i mongoli – senza il suo assenso). Nota: Per il porto di Zaiton, riferisce P. Gaspare Han, transitarono negli anni dell’arcivescovo di Pechino almeno 150 francescani. Oltre Odorico, di costoro ci sono giunti soltanto i nomi di Fra’ Giovanni Grimaldo, di Fra’ Emanuele di Montecchio e di Fra’ Ventura di Sarzana, che furono “aiutanti” giunti dopo la morte di Fra’ Arnoldo da Colonia. Vale a dire: almeno l’ordine francescano operante in Medio Oriente (Persia, Armenia, “regni” crociati sul Mar Nero) sapeva dell’esistenza e dell’opera di P. Giovanni in Cina, ancor prima della consacrazione arcivescovile, ma lo considerava – per le distanze – un’appendice senza grande importanza.

Foto di alcune rovine del Castello Nebulano 14


Chiesa “longobarda” di Sant’Ambrogio alla Rienna

Presunte “stalle” sul Monte Nebulano

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CAPITOLO TERZO La diversità tra le “missioni” affidate a Padre Giovanni, da Papa Niccolò IV e da Papa Clemente V. La vita di P. Giovanni fu determinata primariamente dall’adesione al francescanesimo, e successivamente da due Papi, entrambi francescani, ma profondamente diversi tra loro, Papa Niccolò IV e Papa Clemente V. Entrambi lo impegnarono in due missioni politico-diplomatiche, simili apparentemente tra loro, perché dirette sostanzialmente verso lo stesso fine, ovvero un incontro politicomilitare (e culturale) coi mongoli, nella prospettiva di un contrasto verso l’espansionismo islamico e la evangelizzazione della Cina, in prosieguo di ciò che era già in atto in Medio Oriente. Invece le due missioni contenevano aspetti ed aspettative sostanzialmente diverse, che è necessario sottolineare in sede storiografica. 1) La “missione” affidata da Niccolò IV: Questo Papa aveva in mente una “nuova” grande Crociata contro l’Islam intollerante ed espansionista dei turchi (popolo di etnia mongola, convertito all’Islam) e dei Mamelucchi (popolazioni caucasiche, anch’esse convertite da poco tempo all’Islam; mercenari e schiavi che, in Egitto, avevano sostituito la dinastia fatimide). Costoro avevano ormai soppiantato gli arabi nelle guerre di conquista dei territori cristiani, cioè facenti parte dell’Impero Romano d’Oriente, in Asia minore. Niccolò IV incaricò nel 1289, come nunzio papale, P. Giovanni (che si era recato a Rieti, ove si trovata il Papa, quale latore di una richiesta di alleanza degli i-Khan di Persia e di Armenia per conto del Gran-Khan di Pechino), per una missione politicodiplomatica diretta a Kubilay-Khan e a tutte le confessioni cristiane (non cattoliche) dell’Asia, per una intesa militare contro l’Islam (ovvero una “grande Crociata” che per tutta la vita, Niccolò IV, tentò invano di organizzare). Al contempo si “aggiungeva” una missione di evangelizzazione verso l’Asia, ovvero la Cina dei mongoli, affidata a Giovanni Buralli da Parma, che morì a Camerino ancor prima di imbarcarsi da Venezia. Comunque P. Giovanni – nonostante la repentina morte del Buralli – decise di non interrompere il viaggio, accollandosi anche l’impegno più particolare della “evangelizzazione” di popoli e di territori praticamente sconosciuti. Quindi P. Giovanni veniva investito da Niccolò IV precipuamente di una ambasceria politica verso Kubilay-Khan che, già attraverso la famiglia Polo, aveva mostrato grande disponibilità verso il Papa e i “principi” europei, per un’azione congiunta di contrasto contro i Turchi e i Mamelucchi. Kubilay-Khan aveva (come è stato già considerato nel 1° Volume) problemi di legittimità del suo potere, a causa di una (grave) sconfitta subita dai Mamelucchi. 16


Purtroppo, anche a causa della defezione, ad Ormuz, dei sessanta frati domenicani e francescani (incaricati di raggiungere la Cina per iniziarne la evangelizzazione), il viaggio sino a Pechino durò ben 6 anni, sino alla estate del 1294, qualche mese dopo la morte di Kubilay. La missione diplomatica pertanto non poté realizzarsi, perché il successore di Kubilay, Timur, non aveva alcuna “urgenza” di convertirsi “preventivamente” al cattolicesimo (come ancora una volta si chiedeva, e molto probabilmente lo stesso Kubilay non avrebbe accettato questa vera e propria imposizione, del tutto incomprensibile per il capo di quella autentica “superpotenza” che era all’epoca la Cina dei mongoli). Riuscì invece la missione di evangelizzazione in Cina, benché P. Giovanni fosse completamente solo, dovendo anche fronteggiare l’ostilità dei nestoriani. Comunque Niccolò IV era morto nel 1292, ancor prima che P. Giovanni giungesse a Pechino. Il successore fu, nel 1294, dopo due anni di conclave, Celestino V che si “dimise” nello stesso anno; e poi si iniziò il periodo (agitatissimo) di Bonifacio VIII, sempre dal 1294; per cui – per i contrasti in seguito sorti tra Bonifacio VIII e il Re di Francia Filippo il bello – non solo non si approdò ad alcuna Crociata, ma si perse anche memoria della “missione” in Cina di P. Giovanni. La grande Crociata auspicata da Niccolò IV avrebbe dovuto raccogliere, oltre naturalmente il papato, tutte le altre confessioni cristiane esistenti in Medio Oriente (e sino ad allora bollate come “eretiche”), i re di Francia e di Inghilterra, i principi Tedeschi non assoggettati al Sacro romano impero, Genova e Venezia, principi italiani, i regni del centro Europa e dei Balcani con Ungheria e Polonia, i regni crociati della costa Siro-Palestinese (San Giovanni d’Acri cadde in mano ai Mamelucchi nel 1292, mentre P. Giovanni era in viaggio verso la Cina). Un sogno mai realizzato (grande come la grandezza del primo Papa francescano, Niccolò IV), e perduto per i “banali” ritardi di un viaggio male iniziato (per la morte di Fra’ Giovanni Buralli), peggio proseguito (per la rivolta dei frati al seguito, ad Ormuz, e la “voce” da essi diffusa della probabile morte di P. Giovanni), e peggio ancora terminato col mancato incontro con Kubilay-Khan. 2) La “missione” affidata da Clemente V: Tenendo presente che il travagliatissimo periodo storico attraversato dalla Chiesa (dalla morte di Niccolò IV nel 1392 alla elezione di Clemente V, 1305) pose sicuramente in “secondo piano” o fece scomparire del tutto anche il ricordo della duplice missione affidata a P. Giovanni; ogni eventuale tentativo di P. Giovanni di porsi in contatti, da Pekino, col suo ordine in Medio Oriente, non fu seguito da nessun intervento d’aiuto. L’agiografia cattolica nega che questi contatti e queste richieste di aiuto siano mai avvenuti, ma non spiega perché giungesse a Pechino Fra’ Arnoldo da Colonia, ben prima della “prima lettera” del 1305 (cui nessuno comunque diede riscontro), e alla morte di questi giungessero Fra’ Giovanni Grimaldi, Fra’ Emanuele da Montecchio e Fra’ Ventura da Sarzana, sempre prima del 1306. 17


Quindi qualche tipo di relazione o di comunicazione tra P. Giovanni a Pechino e il suo ordine in Medio Oriente doveva pur esistere, ma il “monaco Giovanni” fu per anni “snobbato”, e la sua attività di evangelizzazione restò sconosciuta e sottovalutata dalla provincia francescana di Gazaria. Fortunatamente, la “seconda lettera” del 1306 giunse – attraverso gli stessi latori della “prima lettera” del 1305 – a Tommaso da Tolentino, vicario provinciale dei frati minori in Gazaria, che (a differenza di “altri) ne seppe valutare l’importanza e si impegnò personalmente, e subito, per dare un aiuto concreto al confratello sia da un punto di vista umano, che da un punto di vista materiale, nonché per rafforzarne e proteggere l’opera di diffusione della parola di Cristo. Fra’ Gaspare Han parla di un’altra lettera inviata dall’India nel 1292, contenente una descrizione degli usi e costumi del subcontinente, di cui sarebbe stato perduto il testo originario; in effetti in essa sarebbero stati descritte le stesse cose trattate nella “prima lettera” del 1305; probabilmente si tratta di un “qui pro quo” dovuto ad errata comprensione del racconto dettato da Odorico da Pordenone, o da un erroneo ricordo dello stesso Odorico, perché non è possibile che, nel 1305, P. Giovanni riprendesse in una lettera avvenimenti secondari già esposti 13 anni prima! Fra’ Gaspare Han afferma che la “prima lettera” di P. Giovanni, giunta nel 1305 ai suoi confratelli in Gazaria, portata dalla delegazione mongola da Pechino, venisse poi portata in Occidente da mercanti veneziani. E a seguito di tale lettera, “molti domenicani e francescani” tentarono di giungere in Cina, partendo dalla Gazaria, ma furono fermati da “alcune guerre”. Cosa poco credibile, perché le comunicazioni tra la Cina e l’impero bizantino restarono sempre aperte, appunto attraverso la Gazaria (Persia) anche dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291) e fino al 1368 (quando i Ming chiusero i confini cinesi). La “seconda lettera” – spedita da Pechino nel 1306 sempre attraverso una delegazione mongola proveniente dalla Persia (la medesima dell’anno precedente) – giunse nelle mani di Tommaso da Tolentino che (diversamente da chi l’aveva preceduto) si rese conto dell’importanza dell’attività missionaria svolta da P. Giovanni. Ma anche qui – come nel caso della “missione” di Odorico da Pordenone nel 1314 – le date degli avvenimenti cominciano a ballare al servizio di tesi precostituite. Comunque, Tommaso da Tolentino nel 1307 (non prima) raggiunse Poitiers in Francia, ove comunicò a Papa Clemente V quanto si conosceva dell’attività di P. Giovanni, e consegnò la lettera che aveva ricevuto. Nel 1308 – cioè un anno dopo – partirono per la Cina sei vescovi per la consacrazione di P. Giovanni ad arcivescovo di Pechino; ivi ne giunsero tre nel 1311, e due soli presso P. Giovanni a Pechino. Cioè occorse 1 anno per organizzare il viaggio e stabilirne i fini.

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Invece Tommaso da Tolentino fu congedato dal Papa nello stesso anno (1307) con una serie di aiuti materiali per P. Giovanni, tanto da trovarlo già a Pechino nel 1308 (e ci resterà sino al 1320), dopo almeno 18 mesi di viaggio. E’ evidente che la decisione di consacrare P. Giovanni ad arcivescovo di Pechino e patriarca dell’Oriente, rendendogli una autorità pari a quella del papa, per poter trattare alla pari con la maestà dell’imperatore mongolo, sottintendeva una ben precisa disposizione politica e diplomatica, lungamente discussa ed elaborata tra Clemente V e il Re Filippo il bello (il primo completamente succube del secondo, al quale doveva tra l’altro l’elezione a Papa). La elevazione a così alta carica di P. Giovanni che, all’epoca, era soltanto un frate (anche se era stato già nunzio papale, carica comunque non ecclesiastica, bensì politica), fu conseguenza di un piano politico teso a conseguire una alleanza del regno di Francia (e papato) con l’impero mongolo; alleanza da poter far pesare sullo scacchiere Europeo. Nel 1310 era già in corso la “guerra di Fiandra” contro gli Inglesi, e la necessità di finanziamenti per continuare questa guerra aveva già fatto scontrare Filippo il bello con Bonifacio VIII; quindi è da scartare qualsiasi idea che Filippo il bello cercasse l’alleanza dei mongoli per una Crociata contro l’Islam. L’idea di ulteriori crociate in Terra Santa era già definitivamente caduta, per tutti i motivi esaminati nel 1° Volume. E infatti, quando Clemente V e Filippo il bello ebbero notizia che il nuovo Gran Khan di Pechino non era disponibile ad alleanza con la Francia, l’arcivescovado di Pechino, con le annesse potestà già concesse, divenne una minaccia per il papato “francese”; perché un successore di P. Giovanni (già in età avanzata) non controllato e non nominato da un Papa “francese”, avrebbe potuto non accettare “la cattività avignonese”, creando una “secessione”, ovvero uno scisma, o diventare un Antipapa, cose non facilmente domabili per la disparità di forze (militari) e per le distanze. Ciò provocò un repentino dietro front di Clemente V che pur aveva concesso, in precedenza, all’arcivescovo di Pechino e patriarca dell’Oriente, poteri simili a quelli di un Papa. Non intervenne chiaramente con una “controbolla papale”, ma con “avvertimenti” a non muoversi in quel campo (la nomina di altri vescovi), bensì far conto soltanto su vescovi “fedelissimi” provenienti dalla Francia. Ciò provocò – subito dopo la morte di P. Giovanni – il lento ma inarrestabile decadimento dell’evangelizzazione della Cina, ove sia la sede arcivescovile di Pechino che quella vescovile di Zaiton – restarono senza guida, nè fu possibile elevare altre città cinesi (sedi di missioni già con alto numero di credenti) a sede vescovile. La nomina di Fra’ Nicola di Calabria ad arcivescovo di Pechino nel 1334, avvenne ad opera di Papa Benedetto XII, terzo Papa avignonese, aperto alle missioni, un barlume di fede cattolica tra Giovanni XXII e Clemente VI; ricevette nello stesso anno una missione diplomatica Mongolo-Alana che chiedeva la copertura della sede 19


arcivescovile di Pechino con un Francescano “buono come P. Giovanni”; inviò il Marignolli in Cina, e riprese in qualche modo l’attenzione del papato verso la Cina. Non è possibile che la nomina di Fra’ Nicola di Calabria ad arcivescovo di Pechino avvenisse nel 1333 ad opera di Giovanni XXII; nessuno sarebbe stato tanto pazzo da pagare un prezzo altissimo (Giovanni XXII vendeva allegramente e profumatamente le cariche ecclesiali) per essere mandato in un Paese lontano e sconosciuto, con grandissime probabilità di non giungervi mai da vivo (e infatti non ci arrivò); o nel migliore dei casi essere destinato ad un esilio senza fine. L’Arcivescovo Nicola fu soppresso, con tutto il suo seguito, forse a Tana. E inutile fu la nomina da parte di Papa Urbano V di Fra’ Guglielmo, alla carica arcivescovile di Pechino nel 1369, quando era già caduto l’impero mongolo; e infatti Fra’ Guglielmo non partì mai. La chiesa di Avignone preferì far morire l’evangelizzazione della Cina, iniziata da P. Giovanni, per evitare una eventuale fondata “contestazione” alla cattività avignonese. Odorico da Pordenone, il Decora arcivescovo di Sultania, e poi il Marignolli pensarono a “ripulire”, presso l’arcivescovado di Pechino, tutto ciò che avesse potuto “compromettere” papato e re francesi, in relazione alla ricerca di una intesa tra papato e mongoli, ovvero tra cattolici e “pagani” (cosa che, all’epoca, poteva costruire una accusa di eresia, affatto campata in aria: Federico II, tra le cinque scomuniche collezionate, ne subì una anche perché aveva avuto una intesa, col condottiero islamico Al-Malik Al Kamili, che permetteva – senza guerre – il libero accesso dei cristiani ai luoghi sacri di Gerusalemme). Ciò spiega anche le titubanze – in tempi passati e recenti – a riconoscere la figura di P. Giovanni (non oso dire in qualità di santo) nemmeno come figura storica, nei tentativi di contatti politici tra mongoli ed Europa cristiana, nella visione più grande di una saldatura (nel Medioevo!) tra la cultura europea e quella cinese. La “mancanza” di documenti inerenti P. Giovanni, ha oscurato questa figura di grande diplomatico e grande evangelizzatore a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, che è tuttora assente negli stessi libri di storia dei grandi medioevalisti contemporanei. Lo “riscoprirono” agli inizi del 1900 i vescovi cinesi; ma fu repentinamente oscurato – perso tra i “papielli” della santa congregazione per la proclamazione dei santi – almeno fino a quando Papa Wojtyla lo proclamò “venerabile” (ma questo Papa non aveva “amici cinesi” con la stella rossa al bavero). Ancora una nota su Tommaso da Tolentino, che non solo si premurò di portare al Papa (Clemente V) la seconda lettera di P. Giovanni, ma ottenne anche aiuti materiali che subito si impegnò a portare a Pechino: infatti subito dopo il 1308, o verso la fine di quell’anno, era di nuovo a Pechino ad aiutare P. Giovanni sino al 1220. Verso la fine del 1320 era ad Ormuz, nel Golfo Persico; non si sa se si trovasse in India per evangelizzare, oppure fosse in viaggio, o di ritorno dall’Italia. Da Ormuz, 20


coi suoi tre compagni, si spostò nel 1321 verso Tana, ove vennero soppressi tutti, attraverso decapitazione. È probabile che fosse di ritorno da un viaggio in Italia, sempre per difendere i confratelli “clareni” dalle accuse di eresia che – in quell’anno – Papa Giovanni XXII stava rovesciando sui francescani (riuscendo a trascinarne parecchi sul rogo): i “clareni – colpevoli di voler essere “troppo poveri” – alla fine vennero posti fuori dalla chiesta (di Avignone). Nota: Mentre mi accingevo a chiudere queste pagine, è esploso il secondo grave scandalo finanziario (con annesso sexy-gate) del papato di Bergoglio. Il principale responsabile dello “scandalo” sarebbe il cardinale a capo della “santa congregazione per la proclamazione dei santi”… in quali mani. Nota: Al 2° concilio di Lione (1274) – ove venne stabilita l’ennesima effimera unione tra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli in vista di una successiva Crociata (che non si verificò) – partecipò una legazione dell’i-Khan di Persia, verso il Papa Gregorio X (ma già Innocenzo IV aveva inviato messi a Karakorum, in Mongolia, tra il 1243 e il 1254). Nota: L’ultima “Crociata” vera – cioè contro gli islamici che ormai controllavano la “Terra Santa” – fu quella in cui perì il Re Luigi IX (1270). Nel 1310 l’entusiasmo per tali imprese era ormai scemato, e nulla era cambiato anche dopo il 1291 quando cadde l’ultima città cristiana, San Giovanni d’Acri. Per tutto il 1200 le tassazioni per le crociate furono occasione di incassi per il papato, e per spedizioni militari intentate contro avversari politici dei re francesi (svevi, inglesi, aragonesi), contro nemici personali, e contro “eretici” o presunti tali. Soprattutto nel periodo avignonese la “decima” destinata alle crociate servì a finanziare le guerre dei d’Angiò, ad aiutare i sovrani alleati, e la vita lussuosa (e dispendiosa) della corte papale.

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Papa Clemente V

Papa Giovanni XXII

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“Gli ultimi anni della vita di P. Giovanni (dalla consacrazione ad arcivescovo, 1311, sino alla sua morte, 1328, coincisero con gli anni della chiesa di Avignone e con i Papi Clemente V e Giovanni XXII.”

CAPITOLO QUARTO 1. Il silenzio dopo la consacrazione. Mentre la vita di P. Giovanni, dalla nascita a Montecorvino (1247) sino alla consacrazione ad arcivescovo di Pechino (1311), è abbastanza ricca di date, di riferimenti e di notizie, ed è comunque possibile ricostruire il filo degli eventi laddove non ci siano pervenuti documenti del tempo; al contrario, dalla consacrazione alla morte, c’è pressocché il buio totale, se non qualche notizia postuma riferita dal Decora arcivescovo di Sultania (la diocesi di Sultania venne sottratta all’arcidiocesi di Pechino nel 1318 da Papa Giovanni XXII); dal Marignolli, nominato “nunzio” (ambasciatore) a Pechino, da Papa Benedetto XII (1334-1342), ove arrivò nel 1342, e vi restò 3 anni: egli riporta notizie apprese da locali, per lo più inesatte, 4 anni almeno dopo la morte di P. Giovanni; da Odorico da Pordenone, che riferisce soltanto fatti folkloristici, “stranezze” cinesi, ad altre cose marginali, almeno come ci sono arrivate (dettate e da altri corrette) le sue memorie. Anzi quando si cerca di riempire questo spazio temporale, gli agiografi del nostro tempo si “aggiustano” con passi (“narrativi”) dei succitati tre ecclesiastici. L’unico atto in qualità di arcivescovo di cui ci è restata la narrazione fu l’elevazione a sede vescovile (suffraganea di Pechino) di Zaiton, ove si era già insediato – di sua iniziativa – il vescovo Gerardo Albuini che, invece, avrebbe dovuto raggiungere P. Giovanni a Pechino, per consacrarlo ad arcivescovo secondo le disposizioni di Clemente V. E’ pensabile che P. Giovanni si decise a tanto, trovandosi di fronte ad un fatto compiuto, e a seguito delle richieste delle forti e ricche comunità dei commercianti e degli altri cattolici di Zaiton (genovesi ed armeni), che già avevano “convinto” il vescovo Albuini a restare tra loro. A seguito della morte dell’Albuini, P. Giovanni si limitò a sostituirlo col vescovo (sempre di nomina avignonese) Fra’ Andrea Guidone da Perugia. Non elevò altre città cinesi a sede vescovile, né nominò mai altri vescovi. Per il resto, ci sono soltanto la data della cerimonia della consacrazione e la data della sua morte. Poiché Giovanni non era un ignorante (tutt’altro!) non è possibile che non abbia mai chiesto, in 18 anni di esercizio vescovile, un parere, un indirizzo teologico, un consiglio alla sede papale, quanto meno per obbedienza! Mentre ci sono restate la lettera di Fra’ Arnoldo Alemanno diretta al ministro generale dei frati minori e la lettera di Fra’ Pellegrino di Città di Castello da Zaiton ai confratelli, nessun 23


documento attribuibile a P. Giovanni, in questo periodo, si è conservato (se non le due lettere).

2. Perché P. Giovanni fu cancellato dalla memoria storica.

Sino al 1924 – quando il Sinodo dei vescovi cinesi chiese al Papa la santificazione di P. Giovanni da Montecorvino – della storia dell’opera e della vita di P. Giovanni si era persa ogni traccia (compresi il nome e il luogo della città natale). La sua memoria restava sepolta negli archivi dell’ordine francescano, in codici ove erano citate le lettere dei fratelli coevi (che a loro volta citavano P. Giovanni), in una bolla papale, in soli due documenti da lui personalmente prodotti (la prima e la seconda lettera di richiesta di aiuti, spedite dalla Cina), in qualche lettera inviata al papato dagli i-Khan di Persia ed Armenia, oppure (incidentalmente) nella narrazione delle vite di confratelli coevi. Qualcosa (ma molto poco) emergeva dalle narrazioni del Marignolli, nunzio a Pechino tra il 1342 e il 1345, dalle memorie di Odorico da Pordenone (“strano” missionario in Cina, ma formidabile narratore dell’Asia medioevale al pari di Marco Polo), dalle narrazioni del Decora (arcivescovo di Sultania), dalle lettere dei vescovi di Zaiton o di qualche altro suo collaboratore. Persino quando la “congregazione per la proclamazione dei santi” si interessò alla richiesta dei vescovi cinesi, citando quanto (poco) era rimasto della sua memoria storica, questa ne faceva ascendere la nascita in una Montecorvino… di Puglia! Dando così luogo ad una accesa diatriba tra un paio di “studiosi” pugliesi e quanti – non soltanto montecorvinesi – ne attribuivano i natali a Montecorvino di Principato (Apud Salernum). Al gioco poco limpido dei pugliesi, pose termine il dottor Filippo Iorio che – usando gli stessi sistemi – ne fissò definitivamente la nascita in Montecorvino di Principato e calcando un po’ la mano, gli volle dare anche un cognome e una casa natale. Nei primi anni del corrente secolo, la santa sede lo ha proclamato “venerabile”, dedicandogli anche un francobollo ed una immagine “ufficiale” (piuttosto goffa e simile ad immagini ufficiali di altri santi… ma meglio che niente!). Una recente iniziativa dei vescovi di Taiwan (a P. Giovanni sono interessati più i cinesi che gli italiani!) lo avrebbe dichiarato beato, cosa che non è stata accettata dai vescovi dell’altra Cina. La santa sede naturalmente tace. Ma aldilà delle zuffe chiesastiche, dell’appartenenza a nobili casati, degli indirizzi della casa natale con tanto di numero civico, resta comunque celata – nella storia – la sua figura e l’importanza che ebbe nei rapporti tra il papato avignonese e l’impero dei mongoli, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Tuttora, consultando libri ed enciclopedie, ci si accorge che il suo nome è del tutto assente, quanto meno nelle pubblicazioni antecedenti al 1924, mentre viene 24


brevemente trattato (come agiografia) in qualche pubblicazione francescana negli ultimi decenni. Mentre ben più importanza viene data a figure marginali, nella storia dei rapporti tra papato e il mondo dei mongoli, come Odorico da Pordenone, o Giovanni da Pian del Carpine o il Marignolli. P. Giovanni da Montecorvino, in quanto arcivescovo e patriarca di un territorio immenso (più del doppio dell’estensione dell’impero romano al momento della massima espansione) non poteva non conservare un archivio ove registrare quanto meno il numero (grosso modo) dei battezzati, delle conversioni, la morte dei suoi confratelli o dei suoi vescovi, gli incarichi conferiti a quanti dirigevano le numerose missioni cattoliche in Cina e in Medio Oriente, le disposizioni del Khan verso l’arcivescovado. Non risulta razionale pensare che mai abbia avuto necessità di informarsi di quanto avveniva in Europa. Già nella “seconda lettera” (prima della consacrazione) chiedeva delucidazioni circa le notizie allarmanti, giunte in Cina dall’Europa, in merito alle vicende della chiesa cattolica (gli sembravano delle “calunnie”, ma erano molto meno di quanto in effetti stava avvenendo, cioè la sottomissione del cattolicesimo alla politica – criminogena – della corona francese. Non è possibile che non sia esistita una corrispondenza col papato e con l’arcivescovo di Sultania (attraverso cui comunque la sua corrispondenza doveva necessariamente passare per giungere in Europa). Ammettendo pure che l’archivio arcivescovile di Pechino (senza subire precedenti manomissioni) fosse stato interamente perduto al momento della rivolta cinese contro il potere mongolo (1368), dovrebbe essere pur restato qualcosa, negli archivi del papato, proveniente da Pechino negli anni tra il 1311 e il 1328. Domande spontanee e logiche, alle quali probabilmente non ci saranno mai risposte. Si sono conservate lettere dei vescovi di Zaiton e di altri “aiutanti” di P. Giovanni; si è conservata la bolla papale di Clemente V; mentre la – dovuta! – corrispondenza dell’arcivescovo col papato è stata totalmente perduta (?). La totale scomparsa di rapporti epistolari tra l’arcivescovo di Pechino con l’arcivescovo di Sultania e col papato, fa sorgere più di un sospetto di una avvenuta “selezione” dei documenti dell’arcivescovado, esercitata anche in più riprese e attraverso soggetti diversi. La mancata nomina di vescovi autoctoni, o di provenienza europea, tra i vari frati che avevano seguito i (4) quattro vescovi giunti in Cina a tutto il 1328 (a tale data tutti deceduti, eccetto due); la stessa nomina dei tre vescovi (già tra il 1310 e il 1311) “a sostituzione” di quelli deceduti nel viaggio della consacrazione da parte di Clemente V (che con la “bolla” aveva concesso a P. Giovanni la potestà di nomina dei vescovi, per supplire alle oggettive difficoltà di un viaggio tra Avignone e Pechino di un corteo vescovile), fanno supporre che la “concessione” supportata dalla bolla papale sia stata – dopo soli due anni! – revocata; non necessariamente con una 25


“contro-bolla”, ma attraverso “paterni consigli”. I latori, con ogni probabilità furono già i Vescovi Tommaso e Girolamo di Catalogna (il primo morto durante il viaggio), e Fra’ Pietro da Firenze (ultimo vescovo di Zaiton, dopo il 1328). Non si capisce la necessità di tali “rinforzi”, quando p. Giovanni aveva la potestà di nominare vescovi tra i frati dei conventi esistenti in Medio Oriente e tra i numerosi francescani e domenicani già presenti in Cina. Più oltre, ai “paterni consigli” di Clemente V – morto nel 1314 – seguirono i “controllori” di Giovanni XXII, secondo Papa avignonese (1316-1334), sotto il cui pontificato fu tolto (definitivamente) “al popolo e al clero” il diritto di eleggere i vescovi (diritto esistente dai primi secoli della chiesa), avocandolo a sé solo. Appunto col Papa Giovanni XXII – dopo oltre un secolo di assenza di antipapi – nel 1328 Ludovico il Bavaro promosse l’Antipapa Nicola V contro il papato di Avignone. Il problema che ebbe ad affrontare subito la chiesa di Avignone, fu appunto la sua sottomissione alla corona di Francia (ovvero a Filippo il bello), platealmente esposta senza pudore con lo spostamento della sede papale da Roma ad Avignone. Ciò che terrorizzò sia Clemente V che il suo successore Giovanni XXII furono la distanza tra Avignone e Pechino e la potenza militare mongola, paragonata alle forze militari che erano in grado di porre in campo il re di Francia e i suoi alleati. Un eventuale successore di P. Giovanni, non di nomina avignonese e quindi non completamente controllabile, se avesse attuato una frattura con la non limpida “reggenza” avignonese (e di buoni motivi ce n’erano parecchi, anche con ineccepibili motivazioni da un punto di vista teologico e religioso), sarebbe risultato un osso troppo duro per indurlo a migliori consigli. Un “oppositore” o uno scisma (o un antipapa) in territorio mongolo (e forse col sostegno dello stesso Gran-Khan) avrebbe potuto creare una situazione non dominabile, specialmente se il “disobbediente” fosse riuscito a convogliare verso di sé i principi cattolici europei non filofrancesi. Non sarebbe stato possibile nemmeno organizzare contro i lui roghi o spedizioni militari. Quando divenne definitiva la decisione di Guyuk-Khan di non convertirsi (come pretendeva Clemente V), e quando Filippo IV “il bello” definitivamente scartò (se mai l’avesse avuta) la possibilità di intentare crociate in Terra Santa, e piuttosto cercare di rafforzare la sua politica espansionista in Europa (rigettando le richieste di alleanze degli iKhan di Persia ed Armenia contro i mussulmani), fu obbligatorio limitare il potere ecclesiastico dell’arcivescovo di Pechino; ed anzi, dopo la morte di P. Giovanni da Montecorvino, trascurare la stessa attività della diocesi di Pechino, lasciando che si spegnesse per consunzione. Poco dopo la morte di Giovanni da Montecorvino, morì anche il vescovo di Zaiton Fra’ Andrea da Perugia, nello stesso anno. In tal modo sia la sede arcivescovile di Pechino che quella vescovile di Zaiton, si trovarono senza titolare. Chi assegnò la 26


sede vescovile di Zaiton al Vescovo Pietro da Firenze in sostituzione del deceduto Fra’ Andrea da Perugia? L’arcivescovo di Sultania, il Decora che nel 1328 (in Autunno circa) si trovava a Pechino? Ne aveva la potestà? Giuridicamente, nel 1328, no. E perché non fu consacrato, in un tempo ragionevole, un nuovo arcivescovo di Pechino, con le stesse procedure che aveva usato Clemente V? Comunque circa 5 anni dopo, fu consacrato arcivescovo di Pechino Nicola di Puglia, da Papa Benedetto XII, nel 1334. Nicola di Puglia e tutto il suo seguito (6 vescovi e 26 frati) furono imprigionati a Tana, e ivi lasciati morire da nemici saraceni, nello stesso anno. Ciò tolse ogni voglia ai regnanti di Francia e ai Papi avignonesi successivi di continuare ad impegnarsi per una causa che ormai ritenevano persa, o deleteria. Un gruppo di quattro o cinque frati, i saraceni operanti a Tana, forse erano anche disposti a farlo passare (in cambio di un sostanzioso versamento “volontario”), ma un corteo arcivescovile risultava un boccone troppo goloso per lasciarselo sfuggire, e guadagnarsi un posto in prima fila nel paradiso delle Urì. Sempre nel 1334, un’ambasceria mista Alano-Mongola raggiunse il neo-eletto Papa Benedetto XII, e – riferendo che Nicola di Puglia non era mai giunto a Pechino – richiese un vescovo francescano “come Padre Giovanni”. Fu inviato come “nunzio” (ambasciatore) Giovanni Marignolli a Pechino, ove giunse nel 1342; naturalmente non aveva alcun mandato per nomine ecclesiastiche, se non il chiaro intento di “sistemare” l’archivio arcivescovile, già “selezionato” da Fra’ Odorico e più compiutamente “aggiustato” dall’arcivescovo di Sultania, il domenicano Decora. Pertanto nel 1345 il Marignolli era di nuovo ad Avignone, e l’anno successivo fu nominato vescovo (per meriti “spirituali”). In sintesi, la chiesa di Avignone che aveva, come si dice dalle nostre parti “la saraca in tasca”, piuttosto che trovarsi di fronte ad un ipotetico pericolo di un “contestatore” a Pechino, preferì la morte lenta dell’arcivescovado; la nomina nel 1369 – mentre i mongoli, sconfitti dai cinesi, si erano già ritirati oltre la grande muraglia – dell’arcivescovo Guglielmo (che non partì mai) fu un inutile e tardivo gesto di Urbano V che non riuscì a riparare il totale fallimento (per supponenza e ignavia dei papati avignonesi) del grande progetto di Niccolò IV, mal-ripreso poi da Clemente V. Da sempre, e tuttora, il papato ha cercato, non del tutto a torto, di “sbiadire” (cancellare non è possibile!) il miserando periodo della “cattività (volontaria!) avignonese”; e sui libri scolastici si scrive che il Papa si “rifugiò” (inseguito da chi?) ad Avignone, e che Caterina da Siena riuscì a far tornare il Papa Gregorio XI a Roma nel 1378 (dopo 73 anni e 7 Papi); si scrive che Bonifacio VIII subì lo schiaffo di Anagni (perché?), che i “cavalieri templari” vennero “sciolti” (con la legge Mancino applicata “ab anteriori”?) perché forse erano eretici e comunque erano troppo ricchi: 27


e chiunque voglia accennare allo “scisma di Occidente, riceve in risposta un paio di occhioni pieni di meraviglia e un sorrisetto complice… “cose antiche”. Comunque, dopo la morte di Kublay-Khan qualche mese prima dell’arrivo di P. Giovanni a Pechino, la situazione in seno alla corte mongola, in relazione ai problemi del Khan, era cambiata; in quanto il potere di Timur prima e di Guyuk poi, non aveva l’ombra di una sconfitta. Invece, Kublay aveva subito una dura sconfitta dai Mamelucchi nel 1260 ad Ain Gialut, dimostrando di non possedere “la forza” necessaria per esercitare il potere; e perciò era alla ricerca di una “rivincita” attraverso l’alleanza con “un esercito del Papa”; ripristinare la sua piena legittimità, e scaricare la colpa della sua precedente sconfitta su “Tengri” che non era un vero Dio (perché non era stato in grado di concedergli la “forza”), e avrebbe avuto perciò motivo di convertirsi al Dio del Papa, Dio vero perché apportatore di vittoria. Pertanto anche Kublay non avrebbe avuto nessun motivo (come tutti gli altri Khan cui il papato aveva in precedenza chiesto di convertirsi) per accedere ad una conversione “preventiva” senza una alleanza militare vittoriosa precedente(!). Giustamente, come ancor oggi si chiede: “prima vedere i soldi, e poi il cammello”, così Kublay pretendeva prima la vittoria da una alleanza, per poi concedere la conversione al Dio del Papa. Ma i Papi e i re cattolici – chiusi nella supponenza della loro superiorità verso il “barbaro pagano” – mai si sforzarono da “capire” le altrui convinzioni e le altrui motivazioni. Anzi i successori di Kublay – pur accettando e gradendo la predicazione cattolica e i francescani – non facevano più pressioni per un’alleanza, contro i turchi mussulmani in Asia Minore, più volte richiesta e più volte rifiutata); ancor più, con la caduta di San Giovanni d’Acri (1291), era scomparsa la presenza armata dei cattolici sulla costa Siro-Palestinese, su quella striscia di terra (già cristiana) che faceva da cuscinetto tra turchi e mongoli. Pertanto erano prive di fondamento tutte le iniziative diplomatiche dei Papi che chiedevano – per un’alleanza militare – la conversione “preventiva”, da Giovanni di Pian del Carpine sino a Giovanni da Montecorvino; anche perché la potenza militare dell’impero mongolo sopravanzava almeno di dieci volte quella di una (improbabile) coalizione dei re cattolici. Inoltre i confini dell’impero mongolo non erano minacciati da alcun esercito straniero. All’epoca, al più esistevano conflitti interni, tra i mongoli, ma gli stessi turchi – in Asia Minore – erano in offensiva verso i cattolici e Bizantini; ma erano in difensiva verso i mongoli. L’invito alla conversione, posto a qualsiasi Khan seduto sul trono di Pechino, sembrava piuttosto una imposizione. A giustificazione dell’ostinazione del papato (in particolare quello avignonese) poteva esserci soltanto il timore, in Europa, per una accusa di “eresia” da parte di un Antipapa, a causa di una alleanza con dei “pagani” (cosa, all’epoca, teologicamente fondata). Pertanto, alla fine, l’arcivescovado di Pechino, in seno al territorio immenso di una superpotenza militare, diventò non più l’occasione di un’alleanza, ma una minaccia 28


per l’unità della chiesa, nel caso che un successore di P. Giovanni (non nominato ad Avignone, e quindi non “sicuro” e non ricattabile neppure con “punizioni” verso la famiglia o i compatrioti), specialmente se non europeo, avesse avuto l’”idea balzana” di non riconoscere più nella chiesa di Avignone la continuazione della chiesa di Roma (e in merito avrebbe potuto vantare più di una ragione). Per inciso, il titolo di “patriarca di Oriente” concesso a P. Giovanni sottintendeva il confronto e la “superiorità” verso l’analogo titolo di patriarca della chiesa bizantina che operava su un ridottissimo territorio (una briciola, in confronto all’estensione dell’impero mongolo); tanto, a testimonianza della persistente gara di reciproche “egemonie” tra due chiese che professavano la stessa fede religiosa (al di là di pinzillacchere pseudo-teologiche, appositamente costituite), ma entrambe naviganti in pessime acque, pur per motivi diversi. Cinque secoli dopo, il Manzoni tratteggerà egregiamente la zuffa tra i capponi di Renzo. La chiesa di Roma ha avuto (ed ha) tutte le ragioni e le giustificazioni (riconosciute anche dallo scrivente) a voler cercare di celare i “fatterelli” riguardanti la chiesa Avignonese (e le sue conseguenze gravissime, che si protrassero sino al 1417, con lo scisma d’Occidente). Cosa alquanto facile, almeno sino alla metà dello scorso secolo. Un po’ più difficile oggi. Che si voglia (far) dimenticare un certo periodo storico, chiaramente comporta anche nascondere fatti riguardanti persone non responsabili di quegli avvenimenti, ma che anzi emergevano – per fedeltà alla Chiesa di Cristo, per amore verso il loro ordine, per cultura e per (accettato) sacrificio in nome della fede religiosa – al di sopra delle perversioni e dei giochi di potere tra Papi, re, imperatori, pagani e “infedeli”, in mezzo a roghi, torture, falsi processi, scomuniche e condanne feroci. Ma voler coprire il tutto, alla fine, si rivela un’azione fallimentare, perché basta un buco nel mantello della “prudenza” per far emergere la luce della verità storica; e di buchi, nella vicenda di P. Giovanni, se ne sono aperti molteplici (nonostante la scomparsa di documenti storici, e la condanna all’oblio). Il primo buco fu aperto dai vescovi cinesi (!!!) nel 1924, per reagire con una risposta colta alla pacchiana supponenza di “concorrenti” protestanti e di “competitori” di altro ordine religioso. Gli altri (successivi) buchi sono stati aperti, non volendo, dalla stessa agiografia cattolica che ha “saltato” vistosamente le incongruenze presenti nella narrazione volutamente parziale dei fatti, di quanto accade e di quanto, pur dovendo accadere, non accadde. Ad esempio, il mancato esercizio di potestà prima concesse e poi (tacitamente) revocate; come anche la giusta valutazione dei meriti di Matteo Ricci, e la contemporanea perdita di memoria per quanto era avvenuto in Cina due secoli prima, in materia di evangelizzazione. La chiesa che, nei secoli, ha più volte mostrato coraggio leonino, non può rintanarsi nella negazione o nella omissione di vicende vecchie di 700 anni. E allo scopo di non 29


richiamare alla memoria la scomoda figura di Clemente V e del suo “alleato”, non si può obliare anche Giovanni da Montecorvino. Per non ricordare le miserie di un re Francese, non si può tacere del grande progetto di Niccolò IV. Si comprende che un processo di canonizzazione possa durare più secoli (ed è una cosa giustamente pertinente soltanto alla chiesa): ma è anche un dovere civico, per laici in possesso di un minimo di cultura, onorare la memoria del più grande figlio di Montecorvino. Per amore, rispetto e riconoscenza verso i grandi che ci hanno preceduto nella storia, nati sullo stesso suolo sul quale noi oggi viviamo. Nota: I successori di Kublay, non possedevano le qualità militari dei precedenti Khan, né di Gengis Khan, né di Ogoday, né dello stesso Kublay. Quindi – in assenza di alcun tentativo dei cristiani di riconquista della terra santa – non tentarono neppure di arrivare sino al mar mediterraneo. Ne soffrirono i commerci, e le stesse porte d’accesso all’Asia, dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291). Rimaneva aperta la sola strada marittima dei Dardanelli, fino al Mar Nero, da dove si poteva tentare la pericolosa via terrestre attraverso il Turkestan mussulmano, ove avevano mano libera (verso i cristiani) briganti e fanatici religiosi (quasi sempre le due categorie non erano distinguibili); oppure entrare in Persia, e via terra raggiungere il golfo persico, da dove proseguire via mare sino a Zaiton. Nota Importante: La mancata nomina di vescovi in Cina fu dovuta non a deficitaria “attività gestionale” di P. Giovanni, in base a quanto gli aveva concesso la “bolla” di Clemente V, ma alla subitanea revoca di quella potestà, già nel 1311 (quando Clemente V nominò tre vescovi, di cui uno solo giunse vivo in Cina, ambasciatore di “paterni avvertimenti” cui non si poteva rispondere che con “filiale obbedienza”. Con Giovanni XXII, giunsero non più consigli ma controllori). Lo stesso distacco dell’arcivescovado di Sultania da quello di Pechino, nel 1318, affidato ai domenicani, servì a limitare i poteri di P. Giovanni che avrebbe potuto far conto su ecclesiastici preparati del Medio Oriente, per elevarli a vescovi. Tra costoro si poteva annoverare Tommaso da Tolentino che si trovava presso P. Giovanni sin dal 1308, e che possedeva carattere, preparazione culturale, entusiasmo missionario, formazione giuridica e teologica, e ferrea fedeltà alla chiesa (fino al martirio, come dimostrerà): tutti requisiti atti a sostenere i compiti (e l’autorità) di un vescovo. Tutti requisiti invece “negativi” per il potere avignonese; Tommaso da Tolentino era veramente agli antipodi di Giovanni XXII e di Clemente V. Tra l’altro, era più giovane di 25 anni, rispetto P. Giovanni. Come vescovo sarebbe stato una fortissima spalla per l’evangelizzazione, ed anche il migliore successore come arcivescovo. 30


I Papi di Roma (e di Avignone) da Niccolò IV alla morte di P. Giovanni: - Niccolò IV (1288-1292); - Celestino V (1294-1294) – Morto nel 1296. Il concistoro che elesse Celestino V durò 2 anni. - Bonifacio VIII (1294-1303) - Benedetto XI (1303-1304) – Domenicano. Morì avvelenato dopo 8 mesi di papato. - Clemente V (1305-1314) – Primo Papa avignonese (nel 1309 spostò la sede papale ad Avignone). - Giovanni XXII (1316-1334) – Secondo Papa avignonese – dopo un lungo concistoro. Dopo la morte di P. Giovanni, a Giovanni XXII seguì Benedetto XII (1334-1342), che cercò di riprendere la politica di evangelizzazione in Cina (nomina dell’arcivescovo Nicola di Calabria (?) e invio del Marignolli a Pekino come “nunzio”, presso il Gran Khan). 3. L’eroismo e l’integrità religiosa di P. Giovanni. Quando P. Giovanni, nunzio papale (ovvero ambasciatore), giunse al cospetto dell’imperatore Timur, succeduto a Kublay-Khan morto qualche mese prima dell’arrivo a Pechino del nunzio, e ricevette il diniego a “convertirsi” (e quindi a proseguire qualsiasi altra intesa); poiché la fuga da Ormuz dei sessanta frati, che avrebbero dovuto aiutare P. Giovanni Buralli – secondo i disegni di Niccolò IV – alla evangelizzazione della Cina, aveva già cancellato anche questo impegno che comunque, volontariamente, si era accollato l’”ambasciatore” Giovanni da Montecorvino. Certamente P. Giovanni, da solo, mai avrebbe potuto evangelizzare tutta l’Asia (Giappone escluso, di cui appena qualcuno conosceva l’esistenza). Falliti quindi entrambi i motivi del lungo viaggio durato 5 anni, in tutta tranquillità – senza venir meno ad alcun obbligo – P. Giovanni avrebbe potuto cercare di tornare in Europa, o quanto meno in Medio Oriente. Invece, volle tener fede all’impegno assunto, anche se chiaramente andava oltre ogni umana possibilità. Eroicamente – e veramente da solo – iniziò l’opera di evangelizzazione. Prima convertendo Re Giorgio (il capo della guardia imperiale), poi tutto il popolo alano; per quanto, dopo la morte di Re Giorgio, i suoi successori fecero abiurare i loro sudditi, però una buona parte degli Alani restarono cattolici e fedeli a P. Giovanni, senza riabbracciare il nestorianesimo. 31


Poiché, in questo periodo, oltre l’edificazione della chiesa di Tenduc (capitale del popolo Alano in Cina) e della “prima” chiesa di Pechino, già aveva costituito “missioni cattoliche” fuori da Pechino; chiaramente non avrebbe potuto operare da solo (non possedendo il dono dell’ubiquità) ancor prima dell’arrivo di Fra’ Arnoldo di Colonia (1303 circa). Avrà dovuto, per necessità di cose, essere aiutato da “altri” religiosi; chi altri, se non ecclesiastici nestoriani “convertiti”, o avvicinati con l’accolitato (come per re Giorgio), oppure avrà dovuto “ordinare” dei chierici tra i convertiti, forzando – per necessità – le norme chiesastiche allora vigenti, così come avvenne anche con l’istituzione di un seminario minore: tutte cose avvenute prima della elevazione ad arcivescovo. Poiché a queste “forzature” si potrebbe aggiungere il “carico” della traduzione dal Latino di passi della Messa (cosa allora vietatissima), si vuole sperare che, invece della santificazione, la “santa congregazione per la proclamazione dei santi” non pervenga ad una scomunica “a posteriori”. Non si sa mai… con tanti “teologi della liberazione” e del “modernismo”, ritornati in auge. Nota: Prima della nomina ad arcivescovo, quali altri potessero essere i “responsabili” affidatari delle “missioni”, se si escludono chierici autoctoni o sacerdoti Nestoriani convertiti, si potrebbe pensare ad ecclesiastici provenienti dal Medio Oriente; ma ciò farebbe “saltare” la tesi che di Padre Giovanni fosse avvenuta la “scomparsa”; ancor meno si può pensare che in Cina venissero consacrati nuovi sacerdoti, poiché mancava qualsiasi autorità religiosa “abilitata”.

Bonifacio VIII (1294-1303) 32


CAPITOLO QUINTO Dalla contesa tra Filippo il bello e Bonifacio VIII, fino allo scisma d’Occidente. Per comprendere cosa rappresentò, all’epoca, la chiesa di Avignone, e quanto rappresenta (con disdoro) tuttora nella narrazione storica, è opportuno dedicare il presente capitolo a quelle vicende. Anche per capire i (comprensibili) motivi per cui si tende a silenziare (o imbellettare) quell’epoca e i suoi protagonisti (insieme anche alla memoria, di coloro che la subirono). 1. Bonifacio VIII Papa Bonifacio VIII seguì sul soglio pontificio il celebre Celestino V che, dopo pochi giorni di governo della chiesa, fece “il gran rifiuto”. Non fu il primo nella storia della chiesa (e non restò l’unico). Stanco delle congiure che avvenivano nella stessa corte papale e del “malanimo della plebe di Roma”, riunì il concistoro e si dimise. Voleva recarsi in Grecia, come eremita sul monte Athos insieme ai monaci Bizantini, ma il nuovo Papa – Bonifacio VIII – lo fece arrestare e, benché vecchissimo, lo rinchiuse in una grotta di proprietà della famiglia Caetani cui Bonifacio VIII apparteneva, fino alla morte. Varie fonti convergono sul fatto che le dimissioni di Celestino V fossero opera di un intrigo del cardinale Caetani, che di lì a poco diventò Papa col nome di Bonifacio VIII. Regnò dal 1294 al 1303. Scomunicò Federico d’Aragona e due cardinali della famiglia Colonna, contro la quale tentò di promuovere una Crociata. Inviò a Firenze, quale paciere nella contesa tra i Guelfi bianchi e i Guelfi neri, Carlo di Valois che affidò il governo della città ai neri, espellendo i bianchi tra cui vi era Dante Alighieri che, per rivalsa, nella “Divina Commedia” lo piazzò all’”inferno”. Fu osteggiato dalla corrente pauperista francescana degli “spirituali” (cui apparteneva Fra’ Angelo Clareno). Sostenne un’acerba lotta con Filippo IV, detto “il bello”, Re di Francia, che lo fece aggredire in Anagni dal suo inviato Filippo di Nogaret e da Sciarra Colonna (1302) a capo di una banda di armigeri, che avevano l’ordine di rapirlo e portarlo in Francia. Però un gruppo di cavalieri inviati dal cardinale Fieschi e i cittadini di Anagni, usciti armati in piazza, misero in fuga i Francesi e salvarono il papa, loro compaesano, che morì l’anno successivo, nel 1303. Il papato che già dal tempo di Innocenzo III era stato in ottimi rapporti con i re di Francia (e ancor prima con i Carolingi, e i loro re Pipino e Carlo Magno che avevano “liberato” il papato dagli ingombranti longobardi), con Bonifacio VIII entrò in forte contrasto col re di Francia, Filippo IV. Bonifacio VIII che, storicamente, non gode di buona fama, in verità contro Filippo il bello non aveva tutti i torti, anzi più di una buona ragione. Filippo IV, nipote (molto degenere) del re santo Luigi IX, salì al trono nel 1285. 33


Già nel 1296 entrò in urto col Papa Bonifacio VIII che “politicamente” ricordava i principi di Innocenzo III e di Gregorio VII, con la teorizzazione della superiorità del papato su tutti i regni e le nazioni. Questo monarca, astuto e perciò uso al non tener fede alla parola data e privo di ogni scrupolo morale, cercò in ogni modo di allargare i confini della Francia nel continente, naturalmente con la guerra e con la diplomazia (alleandosi coi nemici dei suoi nemici, e cercando di “circondare” quanti ne ostacolavano questa politica). Un primo scontro, avvenne nel 1296, quando con una “bolla” Bonifacio VIII vietò alle autorità ecclesiastiche di aiutare finanziariamente i sovrani, sia volontariamente che per altrui costrizione. Secondo il Papa queste “contribuzioni”, più o meno volontarie, contrastavano con le esenzioni fiscali di cui la chiesa ovunque godeva. La bolla intervenne (non proprio casualmente) proprio quando Filippo il bello stava per entrare in guerra contro il conte di Fiandra (alleato al re d’Inghilterra). Il re rinfacciò al Papa questo intervento che interferiva (negativamente) con la difesa del regno, e vietava il “volontario” aiuto delle autorità ecclesiastiche al loro re. L’atmosfera diventò in breve minacciosa e, temendo un saccheggio dei loro beni, i prelati esposero al Papa queste preoccupazioni, in un concilio tenuto a Parigi. Bonifacio, in quel momento occupato a brigare contro i suoi nemici in Italia, al momento cedette, permettendo ai prelati francesi di sostenere “volontariamente” il loro re. Ciò fece ristabilire le buone relazioni tra re di Francia e papato. Ma anni dopo, Filippo il bello “ebbe l’ardire” di sottoporre a giudizio il vescovo Bernardo Saisset (sempre per “prelievi” fiscali alla chiesa). Bonifacio lo fulminò con una seconda bolla “ausculta, fili” che rispondeva all’oltraggio della messa in accusa di un vescovo, e citava il re a comparire – in persona o attraverso un inviato – per giustificarsi di fronte ad un’assemblea ecclesiastica romana. Filippo il bello reagì, facendo falsificare la bolla dai suoi compiacenti giuristi, e convocando, per la prima volta nella storia della Francia, gli “Stati generali” nei quali erano rappresentati nobiltà, clero e borghesia cittadina (1302). Nobiltà e terzo stato, e persino la maggioranza del clero francese si affiancarono al loro re. Nello stesso anno, il Papa convocò a Roma l’assemblea alla quale avrebbe dovuto presentarsi il re di Francia, in stato d’accusa. Naturalmente il re non si presentò e il Papa emanò una nuova bolla, la “unam sanctam”, che dichiarava la chiesa con un’unica testa che, sulla terra, era rappresentata unicamente dal vicario di Cristo e successore di Pietro, il Papa di Roma; questi disponeva di due spade, la spirituale e la temporale, e i principi della terra potevano servirsi della spada temporale, soltanto col consenso papale. E nel caso che i principi abusassero del potere temporale della chiesa (concesso dal Papa), o trasgredissero alla legge sacra, il potere spirituale avrebbe avuto il diritto di giudicarli e punirli. 34


Non solo, ma l’anno successivo Bonifacio VIII minacciò il re di scomunicarlo e, per dimostrare di non scherzare, sciolse alcuni vassalli dal giuramento di fedeltà a Filippo il bello, che reagì imprigionando gli inviati papali e riunì il suo gran consiglio. Ivi, presa la parola, il primo consigliere (successivamente guardasigilli, Guglielmo di Nogaret) usò le peggiori parole contro l’”usurpatore del seggio di San Pietro, il maestro dei mentitori, l’odioso individuo chiamato Bonifacio”. Il re diede ragione al Nogaret, naturalmente l’assemblea approvò, e si decise di convocare un concilio. Il popolo plaudì a tale decisione (così dicono le “fonti”). Ma non finì qui. Filippo il bello, sfruttando l’inimicizia dei Colonna contro la famiglia Caetani, inviò in Italia il Nogaret con l’incarico di “impacchettargli” il Papa e trascinarlo presso la sua corte. Il Nogaret, si mise in relazione naturalmente con un “suo pari”, il nobile Sciarra Colonna, famoso capo di briganti; e con una masnada di mercenari, nella notte del 3 Settembre 1303 – attaccò la residenza del Papa che si era rifugiato ad Anagni. L’anziano Papa, settantenne, guardò la morte in viso, attendendo il colpo mortale, mentre la soldataglia si abbandonava ad ogni forma d’oltraggio. Si comportò coraggiosamente, e quando il Nogaret gli impose le dimissioni, rispose: “ecco il mio collo, ecco la mia testa”. Il Colonna sfoderò la spada, ma il Nogaret si interpose, perché il suo compito era di portare il Papa vivo in Francia. Ma mentre i due discutevano – senza riuscire a mettersi d’accordo – sulla sorte da riservare al Papa, la popolazione di Anagni corse alle armi e scese in piazza al grido “viva il Papa”. Il Colonna tentò di resistere, ma i suoi mercenari ebbero la peggio, e insieme al Nogaret, non gli restò che cercare scampo nella fuga. Il Papa rientrò a Roma, con una scora di 400 cavalieri, ma un mese dopo morì. Nota: Le Crociate “anomale” Le “crociate”, nate per liberare il “Santo Sepolcro”, con alterne fortune, si produssero tra il 1096 e il 1270. Nei testi che le trattano, non esiste neppure una elencazione “unitaria” tra i vari storici, sia perché alcune non andarono oltre le buone intenzioni, altre si esaurirono in scaramucce o in “passeggiate” di qualche nobile in cerca di titoli, altre ancora furono dirette verso fini politici e militari che nulla avevano a che fare con la “liberazione” della Terra Santa (la “quarta” Crociata si esaurì nel saccheggio di Costantinopoli, e nello spegnimento dell’impero romano d’Oriente; nel 1453, Maometto II pose definitivamente fine alla Costantinopoli cristiana). Certamente nulla avevano a che fare con la Terra Santa, le “crociate” contro i Catari, contro le popolazioni baltiche, e meno ancora le plurime “crociate” (quasi tutte sul suolo italiano) contro i nemici (del Papa!) “Ghibellini” che, tra l’altro, nei loro gonfaloni molto spesso inalberavano gli stessi simboli cristiani) la croce, il volto di Cristo o della Vergine) dei Guelfi. 35


La spiegazione di talune bizzarre “crociate” (una anche contro i “vespri siciliani”) sta nella realtà “giuridica” della sacralità che la stessa chiesa cattolica aveva concesso alle ricchezze che accumulava con una “decima” (tassa) che veniva pagata al papato per la “liberazione della Terra Santa”, da quasi tutte le popolazioni cattoliche. Pertanto avrebbe costituito un sacrilegio, se un Papa avesse ordinato di utilizzare tali somme per fini diversi. Eppure ciò avvenne costantemente, per tutto il Medioevo, attraverso più Papi, usando il “diversivo” di denominare “crociate” interventi armati contro nemici politici (non necessariamente eretici o scomunicati). Papa Marino IV bandì una “Crociata” contro i “vespri siciliani”, ovvero contro i siciliani che si erano ribellati all’esosa dominazione angioina. Bonifacio VIII invece si oppose veementemente quando Filippo IV pretese che venissero usate le “decime”, pagate dai francesi, contro gli inglesi, nel conflitto delle Fiandre; sia perché non intendeva inimicarsi il re inglese, sia perché la guerra nelle Fiandre si prospettava lunga e dispendiosa., né vi erano pericoli “palpabili” per il papato (in Sicilia, invece, gli Aragonesi imparentati con gli Svevi costituivano un pericolo immediato verso il papato). Giuridicamente, usare le decime destinate alle crociate, non costituiva sacrilegio, se un intervento armato contro una città “ghibellina”, fosse stato chiamato “Crociata”! Molto meglio delle sentenze degli alti papaveri e degli azzeccagarbugli dell’amministrazione giudiziaria italica! 2. Filippo “il bello” e Clemente V Filippo il bello, era riuscito dunque, materialmente, a sopraffare il Papa, ma non aveva vinto ancora, poiché il Nogaret non era riuscito a portare Bonifacio a Parigi. Dopo il brevissimo pontificato di Benedetto XI, nel 1305 però Filippo IV fece un passo decisivo verso l’attuazione del suo progetto di porre il Papa e la chiesa cattolica sotto l’egida della corona francese. Un po’ con le minacce, ma soprattutto con l’oro, profittando di un attimo in cui lo Spirito Santo si era distratto, riuscì a far eleggere Papa l’arcivescovo francese Bertrande De Goth, che prese il nome di Clemente V. Costui era un ometto malaticcio, continuamente alle prese con cure per il suo corpo sofferente, tanto da circondarsi con un numeroso collegio di medici, profumatamente pagati e premiati con ricchi doni, tanto da nominarne uno, vescovo (“se sa curare il corpo, sarà anche capace di curare le anime”). Il suo spirito e le sue facoltà mentali non erano meno labili del suo corpo; e lo scaltro Re Filippo profittò ampiamente della sua debolezza e delle sue indecisioni; alla minima “resistenza”, gli rammentava la misera sorte del suo predecessore Bonifacio. Seppe agganciarlo ai suoi interessi, quando si trattò di sterminare l’ordine dei Templari, per appropriarsi dei loro beni…

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3. La fine dei Templari La fine dei Templari fu soltanto uno dei crimini (anche se il più conosciuto) di cui si macchiò Filippo IV. L’ordine dei Templari era un ordine religioso e militare, istituito all’epoca delle crociate (1118), in Gerusalemme, da nove nobili tra cui Ugo dei Pagani e Goffredo di Saint Omer, a difesa del Santo Sepolcro e a soccorso dei pellegrini in visita alla Terra Santa. I cavalieri dell’ordine vennero chiamati “Templari”, perché si credeva che la prima casa da loro occupata sorgesse nello stesso luogo ove era esistito il tempio di Salomone, onde anche tutte le loro “case” (conventi) vennero chiamate “tempio”. Ugo dei Pagani, era di Nocera di Pagani. Come i cavalieri dell’ordine ospitaliero, dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291) l’ordine dei Templari aveva trovato rifugio nell’isola di Cipro; e di qui aveva costituito “cellule” in quasi tutti i Paesi d’Europa. Le immense ricchezze che avevano ammassato con i “lasciti”, le “doti” che portavano i nobili cavalieri (solitamente cadetti di grandi famiglie), con il commercio e con l’attività bancaria, servivano alla difesa dei luoghi santi, all’aiuto ai pellegrini, alla costituzione di eserciti impiegati contro l’Islam. Le loro ricchezze avevano suscitato enormi gelosie (ed ingordigie), che avevano prodotto accuse ed infamie (come l’aumento del prezzo del pane, e quindi di essere “affamatori del popolo”). Si discuteva anche della necessità della loro esistenza, dopo la caduta della Terra Santa nuovamente nelle mani dei Mussulmani. Alle accuse per le loro ricchezze non potevano non conseguire le accuse di dissolutezza dei costumi (dall’alcoolismo all’adorazione del diavolo, alla pratica di vizi abietti); al popolino bastava sapere che le loro riunioni fossero segrete, per accettare come verità tutto il resto. I Templari non dipendevano dal principe nel cui territorio risiedevano, ma dovevano obbedienza soltanto al Papa. In Francia si erano stabiliti circa 2.000 cavalieri del Tempio, quindi circa la metà degli effetti dell’ordine. Inoltre disponevano di un potenziale militare quasi pari a quello del re (e già ciò costituiva una minaccia). Per mantenere un forte esercito e un potente apparato giudiziario e repressivo, a Filippo il bello occorreva una quantità di denaro sempre crescente. La guerra nelle Fiandre assorbiva somme immense, perciò il re impose tasse gravosissime ai sudditi (cioè al “terzo stato”, perché nobili e clero erano “immuni”), ed operò una svalutazione della moneta, che gli provocò il soprannome di “falsario”. Al contrario di Prodi che fece di peggio (diminuendo del 50% il valore d’acquisto della Lira col passaggio all’Euro), e il furto notturno nei conti bancari dei cittadini da parte di un altro primo ministro (Amato); costoro tuttora sono ricercati negli ambienti che contano; invece il popolo parigino, nel 1306, si rivoltò contro Filippo IV. 37


Ancora una volta, il re fu costretto a rivolgersi ai servigi di Nogaret, suo degnissimo socio, per risolvere una situazione che per lui era diventata pericolosa. Il Nogaret – “prima di tutto” (come dice Di Maio) – si procurò le testimonianze di ex-Templari espulsi dall’ordine, e li indusse a muovere accuse di eresie e di azioni vergognose ai loro ex-confratelli. “Seconda di tutto” (come fa eco Crozza) fece imprigionare i delatori, per dimostrare la propria “imparzialità”. Filippo il bello pertanto si impossessò delle enormi risorse dei Templari, non restituì le altrettanto enormi risorse avute in prestito, e si presentò verso il popolo come un “vendicatore” contro coloro che avrebbero fatto aumentare il prezzo del pane. Il popolo si calmò. Nel 1307, il gran maestro dell’ordine J. De Molay, insieme a tutti i Templari di Francia, venne arrestato, con l’accusa di aver rinnegato Gesù, di sputare sulla croce durante le loro riunioni, e di praticare vizi contro natura. Poiché l’ordine templare dipendeva esclusivamente dal Papa e dalla chiesa, al pari degli ordini conventuali, soltanto il Pontefice avrebbe avuto il diritto di giudicarli. Invece il Papa – dietro “disinteressato” consiglio di Filippo IV – assunse una netta ostilità verso i Templari, e con una “bolla” pontificia ordinò anch’egli di arrestarli ovunque si trovassero. Naturalmente, sotto tortura, fu strappato ai prigionieri un buon numero di “confessioni”; e, a quanti confessavano, veniva resa la libertà, con l’obbligo di fare penitenza e di emendarsi. Ma chi ritrattava, veniva portato al rogo, senza altre procedure. Il gran maestro, Jacques de Molay, confessò senza bisogno di torture, “convinto” dal Nogaret con minacce di pene feroci. Nel 1310, fu “permesso” ai superstiti che avevano confessato di esprimere, senza alcun pericolo personale, la propria opinione sui Templari. I cavalieri, sopravvissuti alla prigione e alle torture, si riunirono a Parigi in numero di 600, e giurarono che le loro precedenti confessioni erano state estorte con la tortura. A questo punto, il permesso che era stato loro concesso di parlare liberamente, venne revocato e sostituito con la minaccia del rogo. In tutti gli altri Paesi, fuori dalla Francia, le inchieste contro i Templari si conclusero con l’assoluzione dei monaci-guerrieri. Invece, in Francia, i risultati degli “interrogatori” furono più che sufficienti al re e al Nogaret per ottenere dagli Stati generali “carta bianca” contro i Templari (1308). Il giorno successivo, il re e il Nogaret con i principali notabili si recarono a Poitiers per indurre il Papa a convalidare le sentenze di morte. Le “trattative” continuarono a lungo, ma alla fine prevalse la condanna a morte dei “rei”. Nel 1310 un centinaio di Templari finì sul rogo. Al concilio di Vienne (in Francia) 1311-1312, la sorte dell’ordine fu definitivamente segnata, con lo scioglimento. In tal modo, re Filippo IV poté – legittimamente! – 38


impadronirsi del patrimonio dei Templari, e di non restituire quanto deteneva come prestito (per le spese processuali?). Verso gli “eretici”, il debitore non aveva alcun obbligo di restituzione. Jacques de Molay dal 1307 era vissuto in prigione; dopo 7 anni il suo fascicolo e quello di altri due capi, furono portati al Papa che li fece condannare al carcere a vita; al che, il de Molay insorse, proclamando la sua innocenza e ritrattò le “confessioni” estorte con la minaccia, dicendo di preferire la morte, piuttosto che continuare a mentire. Tanto gli valse l’accusa ulteriore di “recidiva” e la condanna al rogo, da dove predisse a Filippo IV e Clemente V la morte entro l’anno successivo: cosa che avvenne. A Clemente V, dopo tante malattie immaginarie, gliene venne una vera e definitiva: il cancro. 1) Nota: Venti anni dopo la liberazione di Gerusalemme (15 Luglio 1099), un gruppo di cavalieri in gran parte francesi (ma c’era anche un Ugo dei Pagani, di Nocera), si presentò al patriarca di Gerusalemme per rendere nelle sue mani il triplice voto monastico di povertà, castità ed obbedienza, a cui vollero aggiungere quello della difesa armata della Terrasanta e dei pellegrini, nacque così un santo ordine cavalleresco, che prese il nome di “Ordine dei Templari”, per aver preso sede ove una volta sorgeva il tempio di Salomone. Questa comunità raggiunse rapidamente il numero di 20.000 cavalieri. L’ordine acquisì – quasi sempre per donazioni – proprietà immense non soltanto in Palestina, ma anche in Europa. Altre ricchezze vennero dal commercio e dalla connessa attività armatoriale con i Paesi asiatici. Dopo lo “scioglimento”, fuori dalla Francia, l’ordine dei Templari continuò ad esistere assumendo nuove denominazioni. I processi ai Templari furono intentati anche fuori dalla Francia, ma le accuse che vennero portate (fotocopia di quelle ottenute gentilmente dal Nogaret) risultarono false. 2) Nota: il “confessore del re” Al “processo” contro i Templari, l’inquisitore (cioè il giudice, e – contemporaneamente – l’accusatore e il torturatore) era il domenicano – manco a dirlo! – Guglielmo Humbert, che era anche il “grande inquisitore della fede” in Francia e il “confessore del re”. Lascio al lettore immaginare un atto di “confessione – assoluzione” tra i due ceffi: roba da far perdere le piume, anche alla colomba dello Spirito Santo.

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3) I Papi “rinunciatari” Prima di Celestino V (che Dante pose all’inferno) avevano già abdicato (anche per motivi meno nobili): Clemente I (Primo secolo); Ponziano (Terzo secolo) e Silverio (VI Secolo). Silverio (480-537) perché accusato (falsamente) di aver promesso ai Goti l’apertura delle porte di Roma che stavano assediando. Benedetto VIII (1012-1024) che, aspirando al matrimonio, vendette la tiara papale ad un prete che salì al soglio di Pietro col nome di Gregorio VI. Dopo Celestino V, ci fu Gregorio XII, nel 1415. Le successioni e le rinunzie al soglio pontificio, si complicano durante il periodo dello scisma di Occidente: alla morte di Gregorio XI, che aveva riportato il papato a Roma, il conclave elesse il napoletano Bartolomeo Prignano che prese il nome di Urbano VI, mentre i cardinali francesi scelsero un altro Papa, Clemente VII. Morti questi due Papi, lo scisma continuò coi successori. La “fazione romana” elesse il veneziano Angelo Correr, che prese il nome di Gregorio XII, mentre la “fazione francese” eleggeva Benedetto XIII. Il concilio di Pisa depose sia Gregorio XII, che Benedetto XIII, ed elesse un Papa “terzo” (ovvero un terzo Papa) il napoletano Alessandro V; ma i due Papi “deposti” impugnarono la decisione, così si ebbero contemporaneamente tre Papi. Col concilio di Costanza (1417) venne ricomposto lo scisma eleggendo Papa Martino V (Ottone Colonna), mentre Benedetto XIII – benché deposto – non abdicò mai, fino alla morte. Gregorio XII rinunciò alla tiara papale, e così Giovanni XXIII (il Napoletano Baldassarre Cossa), che era succeduto ad Alessandro V. Costoro restarono però cardinali, insieme ai cardinali da loro eletti. Benedetto XVI (Ratzinger) si è dimesso nel 2013, assumendo il titolo di “Papa emerito”. La guerra delle Fiandre, iniziò col Re Filippo IV (il bello) di Francia per il possesso di questa Regione, contro inglesi e Fiamminghi. Il re Francese, sconfitto a Courtray (1302), vinse poi a Mons-en-Puelle (1304) conquistando la Fiandra Fr. Il 1302 fu l’anno più duro della contesa con Bonifacio VIII: Filippo IV pretendeva che il clero francese contribuisse al finanziamento della guerra; cosa a cui si opponeva Bonifacio VIII. Alla morte di Filippo il bello (1314), gli successe il figlio Luigi X (l’attaccabrighe), che regnò sino al 1316, e il primogenito (neonato) sopravvisse soltanto per qualche mese. Con gli altri due figli di Filippo il bello, succeduti al trono, Filippo V e Carlo IV, si estinse la linea diretta dei Capetingi. Sul trono di Francia salì la dinastia dei Valois, con Filippo VI (1328) contrastato da Edoardo III, Re d’Inghilterra, che pretendeva al trono francese. Da questo contrasto nacque la guerra tra i due popoli che durò dal 1337 al 1453 (guerra dei cento anni), cui partecipò 40


Giovanna d’Arco. In effetti la guerra delle Fiandre, iniziata da Filippo il bello, costituì l’annuncio per il successivo più grave (e lungo) conflitto. Filippo VI era figlio di Carlo di Valois, fratello di Luigi IX. Edoardo III, Re d’Inghilterra, era figlio di Isabella, sorella di Luigi X (l’attaccabrighe), di Filippo V e di Carlo IV (tutti morti senza eredi) e figlia di Filippo IV: parenti serpenti. 4) I Papi di Avignone Con l’elezione di Clemente V avvenne, nella storia del papato, l’inizio di un periodo di umiliazione e di sottomissione agli interessi politici del re di Francia. Clemente V – per volere di Filippo IV – scelse Lione come sede dell’incoronazione. In quanto francese, tra l’altro si trovava a disagio a Roma, lacerata dalle lotte tra famiglie rivali, e per il clima che (a suo parere) non si confaceva con la sua salute. Nel 1309, scelse definitivamente di stabilirsi ad Avignone. Questa città apparteneva agli Angioini di Napoli, poi verso la metà del XIV secolo, il Papa riscattò la città. Clemente V e Filippo IV si sostenevano a vicenda, superando tutto e tutti, per l’odio comune che nutrivano contro l’imperatore di Germania. I Papi risiedettero per 70 anni ad Avignone, costantemente sotto il controllo dei re francesi. Le “fonti” cattoliche scrivono che il Papa Clemente V si rifugiò ad Avignone; in realtà si consegnò a chi lo aveva fatto eleggere; se si trattò di “cattività”, fu una cattività gradita e richiesta. Tutti i Papi francesi di Avignone si comportarono (e non poteva essere diversamente) servilmente verso il “loro” re. Durante le guerre tra Francia e Inghilterra, essi concessero cospicui prestiti al re, permettendogli perfino di prelevare parte della decima ecclesiastica e di altre rendite della chiesa. Nel 1330, a tale titolo, la corona di Francia incassò somme enormi (alla faccia di Bonifacio VIII!!!). I Papi di Avignone non si limitarono ad aiutare finanziariamente il loro Paese, ma sostennero con tutti i mezzi la diplomazia francese, con lo scopo di ottenere in cambio l’appoggio del re nella loro politica italiana, specialmente contro l’imperatore di Germania. I Papi d’Avignone abusarono abbondantemente del loro “potere spirituale” a favore del re, scomunicando i suoi nemici, fino ad ostacolare i matrimoni dinastici che potevano rappresentare un pericolo per la corona francese. La vita che i Papi conducevano ad Avignone avveniva nel lusso, con grandi feste ed abbondanti convivi, con abitazioni adornate sontuosamente, e pasti serviti in posate d’oro e d’argento, più spese pazze per i propri abiti e quelli dei parenti. Questi furono i Papi avignonesi, dopo Clemente V: 2) Giovanni XXII (1316-1334), fu il secondo Pontefice residente ad Avignone, sostenne una lunga lotta contro l’imperatore tedesco Ludovico il Bavaro, il quale gli 41


suscitò contro parte del Clero italiano, e un Antipapa, Nicolò V. Per sottomettere le città italiane del territorio pontificio che si erano ribellate alla sua autorità, inviò il cardinale du Pojet (del Poggetto) che non ebbe grande successo. Sotto il suo pontificato fu tolto “al popolo e al clero” il diritto ad eleggere i vescovi. In tal modo tolse anche a Padre Giovanni, giuridicamente, il diritto ad eleggere vescovi, già ottenuto con la “bolla pontificia” di Clemente V. E se fino ad allora erano valsi i “paterni consigli” e le “sante esortazioni” (cui non si poteva rispondere che con la “filiale obbedienza”) di Clemente V, ora arrivarono, in Cina, i “controllori” della santa obbedienza, perché non ci fosse un successore all’arcivescovo di Pechino, che non fosse stato nominato dal Papa di Avignone, di sua stretta fiducia e di sicura obbedienza. Nel 1318, parte, su sua indicazione, Odorico da Pordenone per la Cina, e venne staccata l’arcidiocesi di Sultania da quella di Pechino. La regola francescana che mai s’allentò col tempo, e continuò a ribadire l’”imbarazzante” impegno alla povertà, indusse il Papa Giovanni XXII (che ad Avignone, nei suoi banchetti mangiava in piatti d’oro) a tacciare di eresia coloro che la praticavano. Così – a cento anni dalla morte di Francesco d’Assisi – molti dei suoi seguaci furono condannati al rogo dall’inquisizione dei domenicani (cui la chiesa aveva dato l’appalto della lotta alle eresie). Il fatto che Giovanni XXII – a sostegno del suo tenore di vita – avesse emesso anche pareri “teologici” sul concetto di povertà, fu giudicato quanto meno con perplessità da quanti deprecavano la crescente mondanità, e la sete di ricchezza e di potere del papato avignonese, auspicando invece il ritorno ad una chiesa “povera” come quella delle origini. Anche alcuni grandi pensatori del tempo, Marsilio da Padova, Guglielmo di Ockham e il ministro dell’ordine Francescano, Michele da Cesena alzarono la loro voce, cui fece eco il pugnace gruppo religioso d’ispirazione francescana dei “fraticelli” in opposizione alle strampalate tesi di un Papa che pretendeva condannare come eretici quanti sceglievano di vivere nella povertà. Ludovico IV di Baviera che già si era fatto incoronare re di Germania (1322) senza chiedere la ratifica pontificia, quando scese in Italia in appoggio ai vicari imperiali (i Visconti di Milano) venne scomunicato da Giovanni XXII (1324). L’imperatore rispose accusando il Papa di eresia, e si fece incoronare dal senatore di Roma Sciarra Colonna, lo stesso che aveva schiaffeggiato Bonifacio VIII. Quindi riunì un concilio che depose Giovanni XXII ed elesse Papa il “capo” dei fraticelli, Pietro da Corvara col nome di Niccolò V (che però venne lasciato nelle peste, quando Ludovico il Bavaro nel 1330 lasciò l’Italia). 3) Benedetto XII, fu il terzo Papa avignonese (1334-1342). Nominò Nicola di Calabria arcivescovo di Pechino (che fu ucciso durante il viaggio, con tutto il suo corteo). Inviò il Marignolli in Cina come nunzio papale (1342), a seguito della 42


richiesta fatta da una ambasceria mista Mongolo-Alana giunta ad Avignone per chiedere un nuovo arcivescovo a Pechino (1334). 4) Clemente VI (1342-1352), Pietro Roger de Beaufort, altro francese, seguì a Benedetto XII. Invano Cola di Rienzo insistette presso di lui perché il papato tornasse a Roma che – priva della “motivazione” ecclesiastica – era sprofondata in una grave crisi economica. 5) Innocenzo VI (Stefano d’Albert) - (1352-1362), naturalmente francese, quinto della serie, inviò in Italia il Cardinale Albornoz, per riorganizzare lo Stato della Chiesa. Durante il suo pontificato si spense a Roma il tentativo di Cola di Rienzo di farne una Repubblica. 6) Urbano V (1362-1370). Condusse vita austera. Sollecitato dagli italiani e dal Petrarca, restituì a Roma (dal 1367 al 1370) la sede pontificia, per poco tempo. 7) Gregorio XI (1370-1378), fu l’ultimo Papa francese, e riportò la sede papale a Roma (1378). Nel 1367, dietro le esortazioni di Santa Brigida, Urbano V ritornò nella città di Roma, ma tre anni dopo non sopportando torbidi e dissidi che si andavano creando, ritornò ad Avignone. Il suo successore Gregorio XI (1370-1378) venne esortato da un’altra Santa, Caterina da Siena, a riprendere il suo posto a Roma, e nel 1377 ne accolse la preghiera. Nel 1377, accompagnato dai lamenti di una folla enorme, lasciò la Francia, ma amaramente si lamentò di questa scelta sino alla morte; la nobiltà romana era diventata ormai un’accolita di mestatori avidi di dominio, fautori di intrighi, fomentatori di calunnie. Soltanto l’età avanzata (e la morte) gli evitò di seguire il predecessore. Subito dopo la sua morte, i romani imposero (con la forza) ai cardinali l’elezione di un Papa italiano. E qui avvenne il peggio. 5) Papi, Antipapi e lo scisma di Occidente. E infatti, i cardinali italiani scelsero un Papa Italiano, che sarebbe rimasto a Roma, e i cardinali francesi scelsero un Papa francese che nel 1379 riprese la residenza papale ad Avignone. Nella chiesa cattolica era nato lo scisma d’Occidente. Questo scisma, anche dopo la morte dei primi Antipapi, continuò e ciascuno ebbe il suo successore. Ma non c’erano soltanto due Papi e due collegi cardinalizi, ma persino due vescovi che si disputavano lo stesso vescovado, e due parroci la stessa parrocchia. Col passare del tempo, la contesa si acuì rendendo sempre più difficile la conciliazione, con scomuniche reciproche tra i Pontefici in competizione. Si pensò – con l’auspicio di tre re, di Francia, di Castiglia e d’Inghilterra – di far deporre la tiara, contemporaneamente, ai due Papi. 43


Il Papa di Avignone, Benedetto XIII d’Aragona, si trincerò ostinatamente dietro l’assunto che, in quanto papa, doveva rispondere dei suoi atti soltanto davanti a Dio e alla sua coscienza. Quando i 3 re si rivolsero al Papa di Roma Bonifacio IX, non ricavarono nulla di meglio. Nel 1408 Benedetto XIII dichiarò addirittura guerra al suo rivale di Roma Gregorio XII; per fortuna, il suo esercito, raggiunta Genova, si fermò, avendo esaurito le riserve finanziarie. Ormai la grottesca situazione aveva raggiunto (quasi) il colmo. Nel 1409 alcuni coraggiosi cardinali tanto di Roma, quando di Avignone chiesero la convocazione di un concilio a Pisa. I re di Germania e d’Inghilterra appoggiarono l’iniziativa, come pure le università di Bologna e di Parigi. I due Papi, invece, protestarono. Il concilio di Pisa riunì più di mille partecipanti, provenienti da tutta l’Europa. La risoluzione che venne presa fu derimente: i Papi che avevano spezzato l’unità della chiesa vennero dichiarati eretici. Benedetto XIII e il suo antagonista Gregorio XII vennero deposti. Dopo un conclave che durò 11 giorni, fu eletto nuovo Papa un settantenne cardinale che prese il nome di Alessandro V. Egli inaugurò la sua carriera di Papa con una predica sulla parola della scrittura: “non vi sarà più che un solo gregge, che un solo pastore”. La cristianità intera approvò, e i partecipanti al concilio si lasciarono nella convinzione di aver contribuito ad un evento che sarebbe restato nella storia, avendo ripristinato l’unità della Chiesa. Si sbagliavano: avevano invece aggravato lo stato dello scisma, poiché né Benedetto XIII, né Gregorio XII vollero recedere dalle loro posizioni. Ora la chiesa aveva veramente raggiunto il colmo, non con due bensì con tre Papi. Il re Sigismondo d’Ungheria (successivamente anche re di Boemia e imperatore di Germania) s’impegnò per un altro concilio. Tutto ora sarebbe dipeso da Giovanni XXIII, successo ad Alessandro V. Papa Giovanni XXIII era il napoletano Baldassarre Cossa, un vero boss antelitteram, più somigliante ad un capo di briganti che a un capo della chiesa cattolica. Era riuscito a farsi eleggere con regalie, e con minacce; comunque accettò la proposta di Re Sigismondo, e si decise per un nuovo concilio a Costanza nel 1414, che naturalmente richiamò un gran numero di partecipanti. Venne subito fatta la proposta che i tre Papi venissero deposti. Giovanni XXIII dichiarò subito che si sarebbe dimesso, nel momento in cui anche Benedetto XIII e Gregorio XII si fossero dimessi. Minacciato di essere arrestato per le molteplici (e conosciute) malefatte, travestito da palafreniere, fuggì lasciando la città. Protestò poi verso i vari sovrani cristiani, affermando che l’abdicazione gli era stata estorta con le minacce. Ma Sigismondo, lo detronizzò definitivamente, con una proclamazione dei partecipanti al concilio che affermava: “il concilio deriva l’autorità direttamente da Cristo, e deve ricevere obbedienza assoluta da tutti, Papa compreso”. Il Papa spodestato fu ricondotto “manu militari” sotto stretta sorveglianza, e si piegò alle decisioni del concilio. Appena rimesso in libertà si precipitò a Firenze e si 44


gettò ai piedi del suo successore, Martino V, riconoscendolo come unico legittimo vicario di Cristo. Il Papa spodestato poté riprendere la sua dignità di cardinale, avendo ottenuto il perdono. Ma di lì a poco morì. Dopo la deposizione di Giovanni XXIII, anche Gregorio XII si dimise spontaneamente, riottenendo la dignità cardinalizia; morì dopo 2 anni. Restava da persuadere Benedetto di Aragona a deporre la tiara, per porre fine allo scisma: tre re, due arcivescovi, cardinali, vescovi e abati che gli erano restati fedeli lo supplicavano di rimuovere l’ultimo ostacolo ad una riconciliazione generale in seno alla chiesa. Ma l’ostinato vegliardo non cedette di un millimetro; sosteneva che esisteva un solo modo per porre fine allo scisma: rieleggerlo nuovamente a Papa! Alla fine, si rifugiò coi suoi fedeli in un maniero inespugnabile in Aragona, e sino al 1417 il concilio condusse trattative con lui. Infine fu deciso di deporlo, e venne eletto un cardinale romano, come nuovo Papa, col nome di Martino V. Fino alla morte, avvenuta nel 1423, l’ostinato mancato Papa tenne testa al mondo. Nota: Dopo la morte di Filippo “il bello” (1314) e del degno erede Luigi X (1314-1316), “detto l’attaccabrighe”, di cui si ricorda il suo atto più eroico: l’ordine di strangolare la moglie, Margherita di Borgogna; e finito il papato di Giovanni XXII (1316-1334), si allentò il controllo sull’attività dei Papi, sino a poter avere Papi degni di tale nome come Urbano V, Gregorio XI e Benedetto XII. Nota: Durante lo scisma d’Occidente, Francia, Spagna, Scozia, la Contea di Savoia e il Vicereame di Napoli non riconobbero il papato romano. Col concilio di Basilea (1431) si aprì un nuovo scisma che si concluse con la rinunzia dell’ultimo Antipapa Felice V (Amedeo di Savoia), a favore di Nicolò V (Parentucelli). Nota: Due grandi pensatori del 1300 – che si incrociarono col pontificato di Giovanni XXII e con l’imperatore Ludovico il Bavaro – furono Marsilio da Padova, e il francescano Guglielmo d’Ockham il cui pensiero è tuttora fondamento del potere statale modernamente inteso: l’autorità imperiale derivava da Dio, tramite il suo popolo (non tramite il Papa!), e la delega del popolo all’imperatore (ovvero allo Stato) era subordinata al buon governo. Marsilio fu costretto a fuggire presso l’imperatore, alla cui corte restò per tutta la vita. Guglielmo d’Ockham venne scomunicato. 45


Nota: Già con Clemente V, la politica del Papa avignonese (e dei suoi successori) incise profondamente sulla composizione del collegio cardinalizio: furono accolti soltanto “francesi” (diciassette!) tra cui sette (!) suoi nipoti. Non diversamente si comportarono i suoi successori, tanto che qualche nipote di un precedente Papa divenne Papa a sua volta (Gregorio XI era nipote di Clemente VI). I cardinali francesi costituirono sempre la maggioranza assoluta; tra essi vi furono qualche italiano, qualche spagnolo, qualche inglese (ma non vi fu alcun tedesco, né di altra nazionalità). Clemente VI nominò cardinale (futuro Papa Gregorio XI) il nipote appena diciottenne. Nota: Naturalmente dopo il 1328, i protagonisti della storia della Chiesa sono successivi a Padre Giovanni.

Filippo il Bello 46


Jacques de Molay – IV

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CAPITOLO SESTO Analisi storica della politica europea, negli anni di P. Giovanni (dalla consacrazione alla morte) La situazione politica europea, ai tempi della nomina di P. Giovanni ad arcivescovo di Pechino, era determinata dalla Francia di Filippo IV “il bello”, e dalla sua politica espansionistica in Europa con l’appoggio incondizionato del papato (anche con finanziamenti provenienti da prelievi sulle decime), e naturalmente contrastata dai principi tedeschi e dall’imperatore germanico, e dai re inglesi direttamente interessati nella difesa dei residuali territori che ancora controllavano nel continente; di “crociate” – nei territori Siro-Palestinesi, dopo la morte di Luigi IX e l’immenso debito che la monarchia francese aveva accumulato verso le banche genovesi, pisane e veneziane – nessuno aveva più voglia di intraprendere (nonostante che i mongoli degli i-Khanati mediorientale continuassero a proporle con ricorrenti ambascerie); lo stesso papato, più che alla liberazione della “Terra Santa”, ormai era orientato a combattere le “eresie” nate sul suolo europeo e che mettevano in discussione il potere temporale. Gli effimeri principati balcanici – pressati dagli islamici turchi e dagli stessi mongoli – erano considerati territori indifendibili, buoni soltanto a poter fare da temporaneo argine ad una (ineludibile) invasione. Gli Ungari, che si sentivano direttamente minacciati, si appellavano al Papa e alle grandi monarchie d’Europa, per una difesa comune. Ai loro appelli si rispondeva soltanto con belle parole e con qualche “spicciolo”, con la speranza che potessero reggere il più a lungo possibile alla ondata turca. Lo stesso impero romano d’Oriente era stato ridotto – nelle lotte tra Genova e Venezia – ad un piccolo territorio che appena controllava i Dardanelli e l’ingresso al Mar Nero (per i commerci con l’Oriente, Cina e Khanati mongoli mediorientali). Gli unici che ancora speravano (e sollecitavano) “crociate” erano i veneziani e i genovesi che confidavano di poter intervenire con l’affitto delle loro navi e coi finanziamenti delle loro banche (e sempre che i conflitti non interessassero i territori islamici ove si svolgevano i loro commerci). In effetti, mancavano più cose per un “rilancio” delle crociate. Innanzitutto mancava la fede, perché nessuno più credeva di poter liberare la Terrasanta; mancava il denaro per finanziare spedizioni militari al di là del mediterraneo; mancavano i “condottieri” in grado di poter guidare eserciti europei, abituati ad altre tattiche di guerra, su suoli privi di acqua, con temperature altissime, prive di vegetazione e persino di alberi adatti a poter fabbricare macchina da guerra (che all’epoca erano lignee) per gli assedi; mancava la fiducia tra i vari principi (Riccardo Cuor di Leone era stato fatto prigioniero durante il suo viaggio di ritorno verso l’Inghilterra, da un principe tedesco con cui era venuto in lite in Terrasanta, e che – per liberarlo – aveva 48


preteso un forte riscatto); altri temevano, in loro assenza, l’invasione del loro regno da parte di un principe confinante, o l’usurpazione del trono da parte di un “congiunto”. La morte del Re Santo Luigi IX durante la settima Crociata, sotto le mura di “Tunisi” (o forse di Tripoli), aveva tolto fiducia anche nell’aiuto divino. La strage dei Templari – a scopo di rapina – tolse definitivamente la fiducia nel papato e nei Papi di Avignone, non più vicari di Cristo ma del re di Francia. Pertanto la politica europea si spegneva negli scontri tra principi “cattolici”, cioè tra principi fedeli al Papa e principi che facevano eleggere Antipapi dai loro vescovi, a supporto dei loro diritti contro i re francesi e i Papi filofrancesi; tra cattolici ed eretici, tra feudatari e vassalli, tra vassalli e popolo minuto affamato e pronto a seguire chiunque gli prospettasse uno sgravio delle decime. E tutto spegnevano principi ed ecclesiastici, vassalli e plebei, le carestie di inizio XIV secolo e la peste nera della seconda metà dello stesso secolo. Questo caos che coinvolgeva tutto il territorio europeo, naturalmente fece perdere di vista non solo la “parte nobile” di un confronto e di una alleanza tra l’Europa latina e cattolica con la Cina dei mongoli, foriera di un possibile salto in avanti della civiltà umana (scavalcando e anticipando di ben due secoli la fine del Medioevo) e di un progresso culturale e tecnologico generale. Ma venne persa di vista anche la “parte pratica” di una politica di accerchiamento e di contenimento dell’espansionismo turco-islamico. Costantinopoli cadde, per sempre, in mani turche nel 1453, e soltanto la battaglia di Lepanto (1571) salvò l’Europa da una invasione turca e dallo spegnimento della sua civiltà; dando appena il tempo di spostare nell’Oceano Atlantico i commerci, e sottraendo agli islamici i profitti, derivanti dalla vendita agli europei delle spezie e delle sete dell’Asia, che venivano trasformati in eserciti di mercenari da impiegare contro i loro “clienti” europei. La mancata conversione del Gran-Khan di Pechino (in cui speravano Clemente V e Filippo il bello, fidando nelle capacità diplomatiche dell’arcivescovo di Pechino, appena “promosso”) venne interpretata come un fallimento, e svanirono immediatamente la speranza di un coinvolgimento dei mongoli al “servizio” degli intenti del sovrano francese, nello scacchiere europeo. La supponenza di Filippo il Bello (che ignorava la potenza militare dei mongoli e l’estensione del loro impero) gli impediva di considerare che i “barbari pagani” avevano conquistato militarmente la Cina e, in breve tempo, ne avevano assunto la cultura; e certamente i loro Khan non mancavano di intelligenza. Pertanto le speranze politiche del re francese, subirono un arresto, e cadde il progetto di poter coinvolgere l’impero mongolo e la sua potenza militare nell’ambito del territorio europeo. Oggi, possiamo aggiungere “fortunatamente” perché Filippo il bello non immaginava neppure lontanamente la forza militare dei mongoli che, se 49


“invitati” sul suolo europeo, avrebbero fatto un solo boccone non solo dei “nemici” del re di Francia, ma anche di Filippo il bello e dei suoi alleati. Ciò provocò una più attenta scelta di “amici” sia tra i principi europei, sia tra gli alti ecclesiastici cattolici. È pur vero che P. Giovanni aveva ricevuto dal “fido” Clemente V la consacrazione ad arcivescovo, ma non era controllato né controllabile (a causa delle distanze), e ancora meno controllabili (e fidati) potevano risultare vescovi nominati da lui. Pertanto, fu ritenuto necessario smorzare il pericolo, prima che potesse profilarsi anche soltanto come “problema”. I vescovi inviati come “rincalzi” nel 1311, già erano latori di “paterne raccomandazioni” o di un esplicito divieto. Certamente non vi fu una “contro-bolla papale”, ma un richiamo severo a non andare oltre quanto il Papa decideva in Francia, e ciò restò in vigore sino alla morte dell’arcivescovo, ed anche successivamente – giuridicamente – poiché il secondo Papa avignonese, Giovanni XXII, aveva avocato, a sé solo, la nomina dei vescovi in tutto il mondo cristiano; e non mandò più “avvisatori”, ma “controllori”. Dopo la morte di P. Giovanni, il papato cercò (tardivamente) con Benedetto XII, di rimediare alla “vacatio” nella diocesi di Pechino, con la nomina di Nicola di Calabria ad arcivescovo. Ma né lui, né alcuno del suo corteo giunse mai a Pechino, soppressi dagli islamici lungo il viaggio. Né mai partì per la Cina l’arcivescovo Guglielmo, nominato nel 1369. Entrambi ecclesiasti “fidati” del papato avignonese. Né il Marignolli – nunzio papale – oltre alla “sistemazione” dell’archivio arcivescovile, riuscì a produrre qualcosa di necessario alla sopravvivenza dell’arcivescovado. La grande missione di evangelizzazione in Cina e la tentata alleanza coi mongoli, sognate da Niccolò IV, vennero lasciate spegnersi, col disinteresse e il disimpegno, fino alla definitiva chiusura nel 1410. La potestà di nominare vescovi concessa a P. Giovanni da Clemente V, e quindi anche ad un suo successore attraverso un concilio di vescovi della “Cina mongola”, non venne mai esercitata, perché fu tolta subito (a poco più di un anno dalla “concessione”); poiché il connubio Papa-Re (timorosi di tutto e di tutti, a causa della cattiva coscienza) si cautelò da possibili contrasti con vescovi non “selezionati”, in un mondo lontano che non conoscevano. La missione (di evangelizzazione, e diplomatica) in Cina, venne lasciata morire, non per incapacità di P. Giovanni o degli altri francescani inviati in Cina, ma per volontà dei Papi di Avignone e per timori evocati da una non limpida coscienza. P. Giovanni da Montecorvino fu persona di forte fede cattolica e di obbedienza al papato e alla predicazione di Francesco d’Assisi (la sua fedeltà non fu ricambiata dalla chiesa di Avignone dentro cui, purtroppo, passò gli ultimi 18 anni della sua vita). Fu uomo di grande cultura, e con uno spirito aperto all’avventura e alla vita missionaria, in terre sconosciute. Fu conoscitore di lingue (oltre il latino e il greco 50


bizantino, imparò il mongolo già in Asia Minore, il persiano ovvero la lingua dei nestoriani e dei mercanti, il cinese per predicare agli autoctoni, l’alano per predicare al popolo che più lo amò). Dei suoi scritti, ci sono restati (ufficialmente) soltanto le due lettere inviate da Pechino al suo ordine in Medio-Oriente. Non è possibile che, nei 18 anni che vanno dalla sua consacrazione alla morte, non abbia mai avuto contatti epistolari quanto meno col vescovado di Zaiton, con le missioni e i conventi fondati in tutto il territorio cinese. Né con l’arcivescovado di Sultania e con il papato di Avignone (almeno per esporre un quesito, presentare una supplica, richiedere una esplicazione teologica). Pur volendo ammettere che i suoi archivi, conservati a Pechino, fossero tutti andati distrutti, o comunque perduti; qualcosa dovrebbe pure essersi salvata negli archivi di Roma o di Avignone, e che “forse” (ma è una mia malignità) viene ancora tenuta segreta, dopo 700 anni. La chiesa sbandiera ancora la falsissima “donazione di Costantino”, ma è tuttora alla ricerca dei mezzi più opportuni per oscurare ciò che appare oggi scomodo, anche se avvenuto secoli addietro. Inoltre P. Giovanni, proveniva da un territorio già sotto il dominio Svevo-Normanno, contro cui comunque agli inizi del 1300 continuavano ad accanirsi i re francesi e il papato avignonese; pertanto – nonostante la conclamata fedeltà alla chiesa cattolica e alla predicazione francescana di P. Giovanni (ma forse quest’ultimo “pregio” era visto come un “difetto” da un Papa quale Giovanni XXII) al connubio Francia/papato, qualche dubbio poteva venire in mente, circa il pericolo di una “seconda Roma” a Pechino. La cattiva coscienza spesso è foriera delle peggiori azioni. Nel corso dei secoli, intere città sono state rase al suolo, dispersi i loro documenti scritti, abbattute le vestigie architettoniche, perché la conservazione di una “civiltà” conquistata sembrava non rappresentasse una priorità. Ma non si capisce perché la chiesa cattolica abbia sempre cercato di occultare (o dimenticare) quanto, nel tempo, abbia assunto un significato non congruente con mode e filosofie del presente. È nella logica del tempo, e della evoluzione (o della involuzione) del pensiero che il passato prende forma di storia. E la storia non può essere letta a pezzettini, né divisa in coriandoli da poi unire a piacere, scartandone alcune e appiccicandone altri a casaccio. La storia ha una sua logica, e non può presentare buchi. Ogni avvenimento è causato da un altro (non sempre per intervento umano) e a sua volta è causa dell’evento seguente. La storia non può essere imbellettata; forse anche sì nei tempi brevi, ma in tempi lunghi viene comunque prepotentemente fuori, anche con le sue inevitabili brutture. 51


Nota: L’idea di poter “utilizzare” i mongoli in conflitti europei, precedentemente era già stata “praticata” (naturalmente in modo disastroso) nel 448 d.C. da Giusta Grata Onoria, sorella dell’imperatore romano Valentiniano III che – per sfuggire ad un matrimonio imposto – aveva chiamato in Italia Attila, re degli Unni, proponendogli la sua mano e la corona di re d’Italia. Attila naturalmente accettò e col suo esercito si presentò alle porte di Roma. Venne dissuaso dalla diplomazia di Papa Leone I (detto “Magno”), dietro incarico dell’imperatore. Attila non diventò “Re d’Italia”, ma senza colpo ferire guadagnò l’enorme bottino, che Papa ed imperatore furono costretti ad offrirgli, perché non facesse strage della popolazione e rinunciasse a bruciare la città. Nota: i Patarini. Durante la lotta per le “investiture”, a Milano, guidati dal Diacono Arialdo, si creò un movimento popolare – contro il clero rimasto fedele all’imperatore Enrico IV (1066) – e fortemente legato invece al Papa Gregorio VII (1073-1080). Patarini e riformatori ecclesiastici a lungo si sostennero a vicenda, ma mentre i primi sostenevano il ritorno ad una chiesa di poveri ed uguali, i secondi miravano unicamente a limitare l’influenza laica (imperiale) sulla chiesa. Alla morte di Clemente VII, rifugiatosi a Salerno sotto protezione dei Normanni, con i Papi Urbano II e Callisto II, i patarini si resero conto che la chiesa da loro auspicata non si sarebbe mai formata. Alcuni rientrarono nell’ordine della chiesa, accettando i dovuti compromessi; altri si dispersero tra il ritiro alla vita eremitica, oppure si dedicarono ai pellegrinaggi, o partirono per le crociate. Gli “irriducibili” vennero dichiarati eretici (XII Sec.), e accomunati ai Catari nella persecuzione. Il “medico lombardo” cui accenna P. Giovanni in una delle sue lettere, era probabilmente un patarino, giunto alla corte dell’imperatore mongolo. Nota: Salerno: la prima università d’Europa L’inizio dei processi che portarono, in Europa, alla nascita delle università (Universitas Studiorum) avvenne tra l’XI e il XII secolo. “Universitas” significa corporazione; e le università avevano primariamente lo scopo di rappresentare e difendere gli interessi di quanti volevano insegnare e studiare a livello di eccellenza, con il riconoscimento da parte delle autorità politiche e religiose, di benefici economici e giuridici, verso costoro. Tra le prime università a formarsi furono Salerno, Bologna e Parigi; e ciascuna era dedicata a un settore di studi, rispettivamente medicina, diritto e teologia. 52


Un prototipo di università, a Salerno era sorto precocemente tra il X e l’XI secolo, come scuola ad alto livello culturale, ove si studiavano medicina e filosofia, traducendo in volgare dal latino, dal greco e dall’arabo testi di Ippocrate, Galeno, Avicenna; raccogliendosi gli “studenti” attorno ad uno o più maestri. A farne una università fu Federico II che, nel 1231, nelle “costituzioni” istituì esami di laurea pubblici; e l’insegnamento non veniva più compensato dalle famiglie degli studenti ma direttamente dallo “Stato” (l’imperatore). Nel 1224, Federico II istituì anche l’università di Napoli (lo “Studium”) con l’insegnamento del diritto romano (a sostegno delle proprie rivendicazioni contro la “teologia” del potere temporale del Papa). Poco più tardi, anche gli “ordini mendicanti” fondavano degli “studia” al loro interno, con tecniche di insegnamento simili a quelle delle università (con nessi tra diritto canonico, arti e teologia).

Carlo I d’Angiò 53


Antipapa Niccolò V

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Ludovico il Bavaro

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CAPITOLO SETTIMO Breve sintesi della storia del popolo mongolo. Le grandi migrazioni – Le popolazioni mongole. Già nel III Sec. a.C., la dinastia Qin – al potere in Cina – era stata costretta ad elevare la “grande muraglia” contro i barbari Xiongnu; probabilmente lo stesso popolo “mongolo” che sotto il nome di “Unni” – guidati da Attila – spingeva in avanti (e distruggeva), in Europa, regni e società agricole germaniche, fino a giungere in Italia, sul Mincio, in secoli successivi. In tal modo – due grandi imperi, quello romano in Europa, e quello cinese in Asia, venivano coinvolti a distanza di migliaia di chilometri, nella stessa vicenda storica: la migrazione armata del popolo mongolo. All’epoca, i mongoli non avevano ancora una propria lingua scritta, e quindi sono fonti cinesi, indiane, persiane, arabe, greche che – usando cronologie e nomenclature diverse – ce ne danno notizie indirette. Da fonti cinesi, si apprende che i mongoli vennero sconfitti dai cinesi, poi furono distruttori dei regni Ellenistici della Valle dell’Indo, invasori della Battriana tra il I e il II Sec. a.C.; poi alleati dei Sassanidi in Persia contro imperatori romani nel III e IV Sec. d.C., infine l’irrefrenabile spinta verso i popoli germanici da Est verso Ovest dell’Europa. I mongoli furono, di volta in volta, sciamanisti, buddisti, zoroastriani, perfino cristiani ariani, comunque sempre disponibili ad assumere la religione e la cultura dei vinti (soltanto i Papi non si rivelarono mai in grado di convertire un popolo che cercava di essere convertito). Fino alla comparsa, nella storia, di Gengis Khan, i mongoli, popoli di cui gli Unni erano solo una forte componente tribale, non erano ancora una comunità internamente coesa ed organizzata con leggi e capi; erano sostanzialmente dei nomadi che si spostavano per razzia, spesso in conflitti armati tra loro stessi, per la spartizione del bottino. Allevatori di cavalli, lasciavano il compito di badare alla (poca) pastorizia alle donne, e sempre tenendo in forte disprezzo l’agricoltura che imponevano agli uomini, scampati ai massacri, delle popolazioni vinte. Legati soltanto da vincoli familiari, facilmente rompevano i clan man mano che si allentavano i vincoli di sangue e venivano allettati dall’avidità di preda. La “tribù” Unna non fu l’unica popolazione mongola che tra il V e il IX Sec. d.C. riuscì ad incidere nella storia dell’Europa e dell’Asia. Alle loro spalle, turchi nell’Asia centrale (Turkestan), Àvari e poi Bulgari sul Volga, e Ungari nella pianura danubiana, riuscirono a formare Khanati (regni) mongoli. Attraverso guerre, conquiste, saccheggi, riduzioni in schiavitù dettero luogo ad uno dei più grandi fenomeni di migrazione dei popoli, e si trasformarono in uno dei più grandi popoli conquistatori che la storia ricordi. 56


Le “invasioni barbariche” di cui parlano le cronache storiche in merito alla crisi e alla caduta dell’impero romano, rappresentarono soltanto l’ondata periferica di una mareggiata mongola che spingeva popoli sino ad allora stanziali (e pacifici) della pianura danubiana e delle campagne germaniche, a cercare nuovi stanziamenti verso Occidente. Tali migrazioni, le “invasioni barbariche”, provocarono, insieme ad altre numerose concause, la frammentazione dell’impero romano nei numerosi regni romanobarbarici, e sostanzialmente l’epoca che oggi noi chiamiamo Medio-Evo. 1) Nascita dell’Impero mongolo e dell’Impero ottomano. Nel 1196 un giovane capo mongolo di nome Temucin riuscì – col terrore, con grandi capacità organizzative e di comando, impiegando le nuovissime opportunità a scopo militare che gli forniva la polvere da sparo (di invenzione cinese) – a sbarazzarsi di tutti i capi “concorrenti” e unificò i clan in cui era diviso il suo popolo in una sola grande potenza politica e militare. Già nel 1215 conquistò Pechino e fondò – nel cuore dell’Impero cinese – l’Impero dei mongoli (dinastia Yuan). Ma ancor prima di Temucin (che prese il nome di Gengis-Khan), dal Turkestan e dalla Mongolia non erano mai cessate le incursioni mongole nei territori dell’Impero cinese, della Persia, dei califfati mussulmani. Dopo i Bulgari del Volga e gli Ungari, il primo clan che era riuscito a creare una dominazione stabile era stato quello dei Turchi Selgiuchidi che, islamizzati, verso la fine del 1° millennio strapparono agli arabo-persiani la regione del Khorosan, formando il regno del Khorosan con le città di Buchara e Samarcanda. Ma i mercanti mussulmani, che già univano col loro incessante traffico carovaniero la Cina e l’India al mediterraneo, e al commercio marittimo di pisani, genovesi, veneziani e franchi, dovendo sottostare alle angherie dei dominatori turchi – senza per altro godere di alcuna protezione verso predatori e razziatori – furono proprio coloro che, grazie alle loro informazioni geografiche e militari (nonché al denaro dei mongoli), aiutarono Gengis-Khan a conquistare la Corasmia e spingere i Selgiuchidi ad Occidente, nell’Asia Minore, sino ad allora dominio Bizantino (1243) e fondare un impero con la dinastia ottomana. 2) Gengis-Khan Ciò che non avevano saputo realizzare i “crociati”, cioè spezzare la potenza dell’Islam in Asia, fu invece opera di una grande invasione, mossa nel XIII Sec. dalle steppe dell’Asia centrale, una delle più devastanti della storia. 57


Il popolo mongolo che già intorno al 1200 si era incamminato verso Ovest, si unì attorno ad un capo – Gengis Khan – che già aveva sottomesso al proprio potere tutti i capi che vivevano da predoni nomadi nelle steppe tra il deserto del Gobi e il lago Bajkal. Fino ad allora – come gli arabi prima di Maometto – i mongoli non avevano mai smesso di farsi guerra tra loro. Gengis-Khan, gigantesco per statura, con una grande forza fisica, e dallo sguardo penetrante si era fatto conoscere dai suoi per la straordinaria e spietata energia con cui aveva represso una rivolta ordita contro di lui. Non esitava a punire con la morte un comandante militare che avesse fallito il compito affidatogli, e neppure i principi di sangue potevano ritenersi esenti da una fustigazione o da una condanna a morte. Il terrore che il suo esercito induceva nelle popolazioni era l’arma segreta delle sue vittorie: ai pochi uomini che sfuggivano ai massacri, restava l’obbligo di fornire cibo e altri generi di necessità, oltre a pesanti tributi. I mongoli non si piegarono mai ai lavori agricoli, e restarono sempre dei nomadi. Sconfissero prima l’impero cinese del Nord con 8 anni di guerra, e circa 18 milioni di morti (cinesi). Poi si diressero verso Occidente; Bukhara e Samarcanda furono completamente distrutte. Alla morte di Gengis-Khan nel 1227, il suo impero si estendeva dalla Cina sino al Mar Nero. I quattro figli che aveva avuto dalle mogli principali (tra mogli e concubine ne contava circa 500) presero ciascuno una parte dell’impero. Un nipote di GengisKhan, Batu, divenne il Khan dell’orda d’oro del volga, invase la Russia, distrusse Kiev e sottomise i regni che i Normanni avevano fondato in quella Regione. Poi si diresse verso l’Ungheria che conquistò devastandola completamente; una parte del suo esercito penetrò in Polonia e in Slesia. Il duca di Slesia affrontò i mongoli con un esercito di cavalieri polacchi e tedeschi (dell’ordine teutonico) ma venne sconfitto e trovò la morte sul campo di battaglia (Liegnitz, 1241). Il resto dell’Europa si salvò perché Batu ritornò al suo Paese, per questioni di successione al trono. Nel 1258, uno dei figli di Gengis-Khan, Hulagu, Khan della Persia, prese Bagdad, la saccheggiò e la incendiò. Scomparvero così i 100.000 volumi della biblioteca, e la dinastia Abbasside. Le devastazioni si estesero a tutta la Mesopotamia; fu sottomessa anche la Siria orientale, ma senza mai arrivare al mediterraneo. L’impero mongolo era organizzato come una confederazione di Stati, ciascuno del quale aveva a capo un i-Khan. In teoria tutti gli i-Khan erano fedeli al Gran-Khan di Pechino.

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----Dopo la caduta dell’Impero mongolo nel 1368, un nuovo Impero mongolo venne costituito da Timur-Lang (Tamerlano), che però morì mentre si accingeva a riconquistare la Cina (1405). ----Gengis-Khan, conosciuto soltanto per le sue vittorie militari e per la sua ferocia, fu anche un buon legislatore. Diede una lingua scritta al suo popolo (derivandola dai caratteri Hiur) perché i mongoli potessero scrivere la propria storia; e un vero e proprio codice (una “costituzione”) di leggi, la “legge Jassa” che, tra l’altro, vietava le persecuzioni religiose, e normava l’ereditarietà del trono (questo “articolo” non sempre venne rispettato, preferendo i mongoli, ad ogni morte di Khan, un breve periodo di guerre civili, come uno “sport” nazionale), e stabiliva la morte per il tartaro che non avesse diviso il suo cibo con un altro tartaro affamato. Piuttosto complicato è riassumere, dopo la morte di Gengis-Khan, la reggenza del potere tra i suoi figli e nipoti, perché vi sono narrazioni varie e discordanti. GengisKhan aveva circa 500 mogli e concubine, e quindi anche un numero non facilmente quantificabile di figli; perciò esita anche un numero non facilmente rammentabile di nomi e parentele (figli di mogli, di concubine, fratelli, fratellastri, nipoti, figliastri). La frammentazione dei Khanati, e il titolo di Khan che non significava soltanto re o imperatore, ma anche semplicemente capo, e le difficoltà di traduzione della lingua mongola nelle lingue medioevali europee derivate dal latino, non riescono tuttora a dare un quadro chiaro, tanto più che, ad ogni morte di un Khan, c’erano almeno tre o quattro aspiranti Khan che si proclamavano tali e cercavano di ammazzarsi vicendevolmente. In più, i nuovi nati portavano i nomi degli zii e dei nonni. La più parte delle notizie presenta Ogotay come successore di Gengis-Khan. Alla morte di Ogotay gli successe, per breve tempo, il figlio Guyuk (1246-1248); poi l’Impero passò a Mongka (1251) figlio di Toluy (4° figlio di Gengis-Khan). Sotto il regno di Mongka, il fratello Hulagu comandò la spedizione contro Bagdad, mentre l’altro fratello Kubilay compiva la conquista della Cina. Alla morte di Mongka (1259) Kubilay si fece proclamare Gran-Khan. Ad Occidente, l’Impero mongolo iniziava con Hulagu la dinastia mongola di Persia, con teorico vincolo di dipendenza da Pekino, e con successiva islamizzazione dell’iKhanato (sovrani provinciali). Nel 1260, alla battaglia di Ain Gialut, i Mamelucchi di Egitto fermarono Kubilay. Con il dominio dell’orda d’oro, la sfera d’influenza mongola si allargava verso il Mar Caspio e la Russia meridionale. I sovrani di questa dinastia, facenti capo a Gioci, figlio di Gengis-Khan, e al figlio di Gioci, Batu, regnarono suddividendosi poi in varie linee collaterali sui territori del Qipgiak (zone del Volga e del Caspio), si 59


turchizzarono e si islamizzarono per poi essere assorbiti dal gran ducato di Mosca e infine dall’Impero russo. Un altro ramo dei discendenti di Gengis-Khan, quello di Ciaghatai, regnò sul Turkestan tra il XIII e il XIV secolo. Tamerlano si dichiarava discendente di Gengis-Khan, ma pare fosse un turco puro. Il nipote di Tamerlano, Babur, fondò la dinastia di “Moghul” in India.

Nota: I mongoli davano ai figli il nome dei nonni e degli zii; poiché non è conosciuto un loro “calendario”, al lettore può sembrare un “errore” leggere che Batu sia – nella narrazione – prima il figlio di Gengis-Khan, e poi il figlio di Gioci (figlio di Gengis-Khan). Nota: l’economia e il commercio nella Cina dei mongoli Nella seconda metà del 1200, i mercanti stranieri erano già stabilizzati, oltremodo accetti, presso le corti mongole. Si erano formate delle vere e proprie associazioni di mercanti (turchi, persiani, siriani di religione mussulmana o cristiana nestoriana), cui presto si unirono gruppi di mercanti europei (“franchi”, genovesi e veneziani) ed armeni. A costoro i mongoli affidavano lingotti di oro e d’argento per vendere o acquistare beni e mercanzie. I profitti venivano divisi tra le due parti, ma in caso di perdita i mercanti non rimettevano di tasca loro. Fu soprattutto nella Cina di Kubilay che questo “vantaggioso” sistema mise piede, con grandi e facili arricchimenti per gli operatori del commercio, cui veniva assicurato almeno il 30% dei profitti. Inoltre, in prosieguo della politica monetaria della precedente dinastia cinese dei Song, Kubilay creò un sistema bancario basato sulla moneta cartacea garantita da una riserva argentea, affinando altri strumenti commerciali quali gli assegni e le lettere di cambio. La stessa struttura sociale, favoriva il mondo mercantile: in cima alla società sinomongola, vi erano i mongoli a prescindere dal censo, cui erano affidate le cariche politiche e militari. Sotto di loro vi erano gli “stranieri” purché non cinesi, né sinizzati. A loro potevano essere affidate cariche amministrative (come a Marco Polo) e la riscossione delle tasse (spesso a mussulmani, perché venivano considerati generalmente “onesti”). In fondo alla scala sociale vi erano i cinesi del Sud, che avevano sostenuto la dinastia Song; migliori condizioni erano considerate per i cinesi del Nord e i Manciuriani, che per primi si erano assoggettati ai mongoli. Le particolari situazioni di favore di cui godevano i mercanti, successivamente vennero modificate, poiché gli “europei” avevano trasformato, naturalmente, “l’uso in abuso” instaurando pratiche vessatorie verso la popolazione civile, in qualità di 60


“amministratori”. I Polo ebbero ad operare nel periodo più favorevole ai mercanti stranieri. I francescani che predicarono in Cina con P. Giovanni da Montecorvino, dopo l’elevazione ad arcivescovo di Pechino, oltre che per l’azione ecclesiale, vanno ricordati per un’opera linguistica monumentale. Il “Codex Cumanicus”, un vocabolario che traduceva i termini latini, in persiano e in mongolo (valido non solo per l’attività missionaria, ma anche per quella commerciale).

Monumento equestre a Gengis-Khan

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CAPITOLO OTTAVO La “missione” di Odorico da Pordenone. Fra’ Odorico da Pordenone – da tutti considerato il grande coadiutore di P. Giovanni – dichiarato da tempo “beato” dalla chiesa – fu un grande narratore (insieme a Marco Polo e a Jean de Mandeville) della Cina dei mongoli, in epoca medioevale. Singolarmente, tutte le “fonti” cattoliche concordano soltanto sulla data della sua morte, nel 1331; per il resto, esiste un bailamme di date che cercano di ritardare o accelerare la velocità dei suoi viaggi, a seconda che si voglia parlare di lui come “narratore” o come “missionario”. Era nato a Villanova di Pordenone (forse) nel 1285 dalla famiglia Mattiuzzi; in tal caso sarebbe morto all’età di 46 anni! E’ molto più probabile che la data di nascita sia stata il 1265, e la morte sia avvenuta a 66 anni! Due fonti diverse danno però queste due diverse date. Entrato giovanissimo tra i frati minori, fu ordinato sacerdote ad Udine, all’età di 25 anni. Fu inviato in missione nell’area del mediterraneo orientale (ma non esistono, in merito, notizie più dettagliate). Nel 1317 però già risiedeva a Castello di Porpetto, dopo essere stato a Cividale. Nel 1318 era predicatore a Portogruaro, e su richiesta del Papa Giovanni XXII, fu inviato espressamente presso Giovanni da Montecorvino a Pechino. S’imbarcò (forse nello stesso anno) a Venezia, diretto verso Costantinopoli, attraversò il Mar Nero, poi via terra giunse in Persia ove, ad Ormuz, nel Golfo Persico si imbarcò verso Tana (che era una tappa obbligata, per il commercio e il rifornimento della “nave”, ovvero il barcone di circa 20 metri di lunghezza con una sola vela quadra). Qui vi giunse non prima del 1322, perché nell’anno precedente erano stati martirizzati Tommaso da Tolentino e i suoi tre compagni, i cui resti Fra’ Odorico recuperò e trasportò a Zaiton. È evidente che, lungo il viaggio sino a Tana, durato 4 anni, ci siano state più soste (abbastanza lunghe) nei conventi allora esistenti in Persia.

Fonti chiesastiche riportano che nello stesso anno (1322) era già a Pechino: una panzana assoluta! Per circumnavigare l’India, costeggiandola come solo poteva navigare un barcone, poi costeggiando l’Indonesia, passando tra Malacca e Borneo, riavvicinandosi alla costa cinese, dopo aver fatto fermate obbligatorie per i rifornimenti alimentari e il carico e scarico merci (come avveniva per Tana, Meliapur, Canton ecc.), infine si giungeva a Zaiton, tenendo però conto che in autunno e in primavera ben pochi erano i barconi che sfidavano la sorte affrontando i frequenti tifoni; 62


Tenendo altresì conto che da Zaiton a Pekino occorrevano almeno sei mesi di viaggio (a piedi o a cavallo), Fra’ Odorico non poteva giungere a Pechino prima di tre anni (cioè agli inizi del 1325 o alla fine del 1324, come riportano altre fonti), anche tenendo conto della velocità con cui raggiunse Tana (4 anni!). Poiché restò – come riferisce il suo memoriale dettato nel 1330 – 3 o 4 anni a Pechino, da qui ripartì nel 1328, nei primi mesi, dopo la morte di P. Giovanni, e arrivò a Venezia all’inizio del 1330. Nel 1328, probabilmente tra l’autunno e l’inverno, arrivò a Pechino anche l’arcivescovo di Sultania, il domenicano Decora, a “sistemare” ulteriormente l’archivio dell’arcivescovado. Odorico morì nel 1331, dopo aver dettato le sue memorie che ci sono pervenute (probabilmente corrette posteriormente, anche con errori storici grossolani, come quello della citazione della “città proibita” di Pechino che, all’epoca di P. Giovanni, non esisteva ancora). Che Fra’ Odorico sia stato inviato da Papa Giovanni XXII ad avvertire l’arcivescovo che non poteva – anche se lo avesse voluto – in alcun modo nominare vescovi nella sua diocesi, è sin troppo chiaro.

Odorico da Pordenone

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N.B. Odorico da Pordenone era un francescano, ma non un “cattivo” francescano. Fu un brillante predicatore, fornito di coraggio, di vivace intelligenza e di notevole spirito di avventura, nonché di una straordinaria capacità di osservazione (checché ne scriva Fra’ Gaspare Han). Ebbe, invero, la “sfortuna” di essere indicato da Giovanni XXII – che aveva paura di tutto e di tutti (effetto della cattiva coscienza) – a compiere una “missione” di controllo verso l’ormai anziano P. Giovanni, affinché questi si astenesse da una nomina “in extremis” di un successore (neppure formalmente). Tanto più che i poteri, già concessi e poi “defacto” ritirati da Clemente V, erano ancora “giuridicamente” vigenti, in quanto la bolla papale del 1307 (quella della nomina e delle potestà concesse all’arcivescovo) non aveva subito alcuna cancellazione con un formale atto di revoca del Papa; Benché Giovanni XXII avesse avocato a sé ogni nomina ecclesiastica. Giovanni XXII temeva fortemente la nomina eventuale, in una terra tanto lontana, di un arcivescovo – patriarca non controllabile e non a lui “fedelissimo”; fra l’altro col mancato guadagno della vendita della carica ecclesiastica; e ancor più perché sospettava che P. Giovanni fosse “vicino” agli odiati spirituali. Le “memorie” di Odorico, subirono una subitanea censura, appena dopo la dettatura; successivamente ebbero aggiunte, e “correzioni” di date e di notizie, in epoche diverse. P. Odorico non aveva bisogno di aggiungere notizie di fantasia a quanto già aveva visto o conosciuto, perché tutto ciò che apparteneva agli usi, ai costumi e alla cultura sino-mongola dell’epoca costituiva già novità strabiliante. I “correttori” che agirono sulle sue memorie, aggiunsero notizie di pura fantasia (“false”) perché in Cina non c’erano mai stati, o perché scrivevano per “sentito dire”.

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CAPITOLO NONO La Santità Non mi permetto di chiosare in merito all’attesa dei credenti e di tutti i montecorvinesi verso la santificazione di P. Giovanni (nel 2001 venne dichiarato “venerabile”, che è il gradino più basso di “santità”, e non mi spiego la “ratio” di questa classifica), ma non è stabilito da nessuna parte che ciò debba in futuro avvenire; né quando, se mai dovesse avvenire; potrebbe succedere a distanza ancora di altri secoli (d’altronde nella storia della chiesa sono avvenute anche successive “cancellazioni” di alcuni Santi, oltre che di Papi). E’ compito esclusivo della “santa congregazione dei riti e del culto dei Santi”, alla stretta dipendenza del Papa, dichiarare o meno la santità della vita di una persona morta in tale fama. Perché ciò avvenga, sono state invocate preghiere ad libitum da parte dei fedeli, anche perché il “venerabile” possa manifestare, attraverso un “miracolo” (chiaramente a lui attribuibile), la sua indiscutibile santità. Non sono competente in materia di miracoli e di altri avvenimenti soprannaturali e, in tutta sincerità, confesso di non essere in grado di favorirli. Da laico, faccio sommessamente presente che, secondo le “regole” della santa congregazione in questione, essendo stato Padre Giovanni il fondatore della chiesa cattolica di Cina, ciò costituirebbe già sufficiente motivo alla sua proclamazione a Santo. Da laico, mi rendo anche conto che esistono, oggi, motivi politici ostativi vari, dalla “concorrenza” della candidatura di Matteo Ricci (Gesuita!) quale fondatore della chiesa cinese (benché due secoli dopo l’evangelizzazione di P. Giovanni), fino all’avversità del governo comunista di Pechino, per motivi storici antichi (l’”occupazione” della Cina da parte dei mongoli), e ideologici presenti (meglio evitare ogni riferimento ad una entità che “non dovrebbe” esistere, in quanto oppio dei popoli). La storia delle “sofferenze” in vita (comunque liberamente scelte quando P. Giovanni abbracciò la fede in Cristo e la predicazione di Francesco d’Assisi), dovrebbero già da sole costituire motivo di riconoscimento della Santità, come pure, in adiuvantibus, le testimonianze dei coevi che esponevano – alla morte del “venerabile” – la diffusa opinione del popolo credente (europei in Cina, armeni, cinesi, mongoli, alani…) che P. Giovanni venisse considerato “Santo” già in vita (similmente a P. Pio). A tali sofferenze andrebbero aggiunte quelle inferte, in vita, non soltanto dai “nemici” nestoriani, ma anche dalla stessa chiesa “avignonese” che (quando non serviva più politicamente) ne limitò i poteri precedentemente concessi, gli affiancò controllori e “censori”, e precedentemente addirittura l’aveva “dimenticato” per oltre un decennio, da solo, in Cina, alla mercé dei nemici religiosi, e della stessa autorità mongola (che in verità lo trattò – sempre – meglio di quanto abbia fatto la 65


chiesa di allora, quando lo aveva addirittura “dimenticato”, supponendolo morto; e successivamente, quando ha voluto dimenticarlo storicamente). Vanno aggiunte, infine, le sofferenze in morte, per aver condannato la sua vita, la sua opera e la sua memoria al peso dell’oblio squarciato – dopo sei secoli – dai vescovi… cinesi! Nel 1924. Nota: Furono cancellati, dal concilio di Costanza, i Papi Benedetto XIII (Pietro De Luna); Giovanni XXIII (1410-1414); Gregorio XII (1409-1415). Il nome “Benedetto XIII” venne ripreso nel 1724 dal Papa appartenente alla famiglia Orsini. Il nome Giovanni XXIII fu ripreso, in epoca recente, da Papa Roncalli. Il nome di Gregorio XII non fu ripreso da alcun altro Papa; pertanto si è passato da Gregorio XI (che riportò la sede papale a Roma) direttamente a Gregorio XIII (1572) Ugo Boncompagni, saltando la casella lasciata vuota. Anche lo scrivente salta l’elencazione di Santi successivamente desantizzati, in quanto argomento ove, giustamente, l’unico organo competente è la chiesa. Note finali complessive: 1) P. Giovanni prese i voti nel 1270 presso il convento di San Lorenzo di Napoli, quindi all’età di 23 anni. 2) Nel 1279 (all’età di 32 anni) fu inviato in Medio Oriente (Persia, Armenia, costa Siro-Palestinese) a predicare e convertire. 3) Nel 1288, su richiesta degli i-Khan di Persia e Armenia, e su indicazioni di Kublay Khan, tornò in Italia a portare al Papa, un’ambasceria che riproponeva quanto già veniva richiesto attraverso le precedenti ambascerie della famiglia Polo. Nel 1286, l’i-Khan Argone di Persia, attraverso l’ambasceria del monaco nestoriano Suma, accompagnato da mercanti genovesi, aveva richiesto al Papa, al re di Francia e al re d’Inghilterra, più esplicitamente, un’alleanza militare contro i mussulmani. L’ambasceria di P. Giovanni non poteva ignorare le richieste di alleanza militare (ma le fonti chiesastiche si limitano all’”opera” missionaria quale unico incarico affidato da Niccolò IV). 4) Il viaggio, iniziato nel 1289, si bloccò in Persia sino al 1291; da Ormuz, P. Giovanni continuò poi (da solo) verso l’India, ove restò per 13 mesi. Il viaggio venne intrapreso dalla Persia via mare, perché, pare, fosse in corso una guerra tra Kubilay e l’i-Khan del Turkestan, Kaidu. 5) Quando P. Giovanni giunse a Pechino, Kubilay Khan era morto da pochi mesi; incontrò il successore Timur Olgoit. 66


6) Arnoldo da Colonia giunse a Pechino nel 1303 (o forse nel 1304), smentendo la vulgata che “tutti” credevano morto P. Giovanni. 7) Il 18-9-1333, secondo fonti chiesastiche, il Papa Giovanni XXII, avrebbe nominato il nuovo arcivescovo di Pechino Nicola di Puglia (secondo altri “di Calabria”, secondo altri ancora “Nicola francese”), cinque anni dopo la morte di P. Giovanni, “informato tardivamente” sempre secondo le stesse fonti. Cosa poco veritiera, perché Odorico da Pordenone, ritornato in Italia, all’inizio del 1330, prontamente aveva provveduto ad informare il Papa, che lo aveva inviato espressamente da P. Giovanni nel 1318. Nel 1333 era re di Francia, Filippo VI di Valois; con Carlo IV nel 1328 si era estinta la dinastia dei Capetingi. Nel 1334, morì Giovanni XXII e venne eletto Papa Benedetto XII, che riprese ad interessarsi delle “missioni” ricreando un intervallo di cristianità tra Giovanni XXII e Clemente VI, dal 1334 al 1342. Lo scrivente è convinto che fu Benedetto XII ad inviare l’arcivescovo Nicola di Puglia in Cina, nel 1334. Resterebbe senza spiegazioni una nomina di tale portata da parte di Giovanni XXII, che era restato del tutto assente nello sviluppo delle missioni durante il suo pontificato; a meno di voler ricorrere a “peggiori” congetture. Tenendo presente che le nomine ecclesiastiche – durante il papato di Giovanni XXII – avvenivano unicamente previo “pagamento”, con costi astronomici per le nomine di vescovi e (ancor più) di arcivescovi; o P. Nicola di Puglia riuscì a mettere sul piatto una somma così alta che sarebbe stato stupido rifiutare (compiendo così il peggiore investimento della sua vita), oppure il Papa aveva in quel momento una così stringente necessità di denaro, da “sbolognare” all’incauto offerente una sede arcivescovile cui era praticamente impossibile accedere (e infatti l’arcivescovo Nicola non giunse mai a Pechino: fu imprigionato e ucciso con tutto il suo “seguito di vescovi e frati, forse a Tana, tradito da un incauto bagaglio di calici, patelle e altri oggetti d’oro e vesti preziose, per odio religioso e abitualità criminale di un locale gruppo di assassini). 8) Il Clan “mongolo” dei turchi – prima che fosse spinto ad Est a ridosso dei residuali possedimenti Bizantini – abitava la zona del “Turkestan”, e si era convertito all’Islam già verso l’anno mille. Si trovò sempre in rapporti conflittuali con i confinanti territori mongoli, professando un islamismo estremista e violento. Pur nel periodo della dominazione mongola della Cina, risultò sempre pericoloso attraversarne il territorio, per le carovane dei commercianti e per gli europei in genere (in particolare per i missionari cattolici), sia per motivi di odio religioso, sia per “banale” istinto di predazione. 67


P. Giovanni pertanto preferì – come molti altri – raggiungere la Cina per via mare (pericolosa per i tifoni che si scatenavano in primavera ed autunno). I Papi vissuti all’epoca di P. Giovanni, dalla sua presa dei voti (1270) alla morte (1328). Nel 1270, P. Giovanni prese i voti all’età di 23 anni presso il convento di San Lorenzo di Napoli, durante la “sede vacante” per la morte di Clemente IV (1268). Nel 1271, P. Giovanni era già in Oriente; nello stesso anno, Michele Paleologo, imperatore di Costantinopoli, lo inviò da Teobaldo Visconti, presso la sede del Santo Sepolcro in Gerusalemme ove costui era legato papale, ad annunciargli la sua elezione a Papa (Gregorio X) dopo circa 3 anni di conclave. Quindi P. Giovanni, dopo aver preso i voti, avendo già ricevuto la formazione teologica presso qualche “casa” francescana (salernitana?), era stato inviato subito in Medio-Oriente. Il pontificato di Gregorio X durò dal 1271 al 1276. Gli successero: Innocenzo V (Gennaio 1276-Giugno 1276); Adriano V (Luglio 1276-Agosto 1276); Giovanni XXI (1276-1277) e Niccolò VII (1277-1280). Non è chiaro dove operò esattamente P. Giovanni tra il 1271 e il 1279; nel 1279 si sa, invece, che gli venne assegnata la predicazione nel “regno dei Tartari” (ovvero Persia, Armenia, Kip Ciak e tutti gli altri territori ad Est sotto il dominio mongolo), della cui estensione ben pochi in Europa avevano percezione, e ivi restò per dieci anni. Nel 1289 fece ritorno a Roma, su incarico degli i-Khan di Persia ed Armenia, per recare un’ambasceria del Gran Khan Kubilay. Dopo i pontificati di Martino IV (1281-1285) ed Onorio IV (1285-1287), era Pontefice Niccolò IV dal 1288. Quest’ultimo incaricò P. Giovanni, in risposta al Gran Khan, di recarsi a Pechino con un’adeguata schiera di confratelli, per un’opera di evangelizzazione della Cina (sino ad allora mai tentata) e in risposta alle richieste e alle proposte di Kubilay Khan. Niccolò IV, primo Papa francescano, fu un grande Papa, sotto il cui pontificato, grazie ai francescani e ai domenicani, ebbero grande impulso le missioni nei territori più lontani e meno conosciuti. Niccolò IV morì nel 1292, mentre P. Giovanni era ancora in viaggio verso la Cina. Dopo 2 anni di conclave fu eletto Papa Celestino V, che restò Papa da luglio a Dicembre del 1294, cui seguì Papa Bonifacio VIII sino al 1303. A Bonifacio VIII seguì Benedetto XI (1303-1304), e a questi Clemente V (1305-1314) che elevò P. Giovanni ad arcivescovo di Pechino. A lui successe Giovanni XXII (13161334) sotto il cui papato nel 1328, P. Giovanni morì.

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CAPITOLO DECIMO La corona franca ai tempi di Padre Giovanni. È necessario trattare, brevemente, la storia dei re della dinastia francese dei Capetingi, durante il periodo della vita di Padre Giovanni. La Chiesa cattolica, sin dalla chiamata in Italia di Pipino il Breve e di Carlo Magno, contro i longobardi, restò per tutto il Medioevo (ed oltre) funzionale (e dipendente) alla politica francese; in modo particolare durante il periodo della Chiesa avignonese, quando la corona francese entrava pesantemente nei conclave – con le promesse, con l’oro, con le minacce – per determinare l’elezione di papi quanto meno “non avversi”, e sempre mantenendo la maggioranza dei cardinali in mano di francesi di “alleati”. E mi fermo al Medio-Evo. A) I re di Francia, da Filippo il Bello (IV) fino al 1328 (morte di P. Giovanni). 1) Filippo IV (il Bello) regnò dal 1285 al 1314. Era figlio di Filippo III che aveva regnato dal 1270 al 1285, e nipote di Luigi IX (il Santo) che aveva regnato dal 1226 al 1270. Luigi IX, a sua volta, era il quarto figlio di Luigi VIII, e fu incoronato all’età di dodici anni, per la prematura morte dei tre fratelli. Carlo I d’Angiò era fratello di Luigi IX. Luigi VIII aveva partecipato alla “crociata” contro gli Albigesi (i “catari”) nel 1226 (conclusa con una orrenda strage). I “catari” erano stati dichiarati eretici dalla Chiesa; essi, tra l’altro, erano contrari a qualsiasi tipo di violenza, comprese la guerra, le armi e la stessa concezione dello “Stato” (in quanto era basato sulla “forza”). In effetti i “catari” volendo usare dei termini moderni, costituivano una setta di “pacifisti/vegetariani” nel loro tempo. Naturalmente Luigi VIII, oltre la “gratitudine” della Chiesa, ricevette anche il dominio diretto su tutti i ricchi territori (la “Linguadoca”) posseduti dagli eretici catari. A Filippo il Bello, successero – a seguire – i tre figli maschi. 2) Luigi X, “l’attaccabrighe”, che regnò dal 1314 al 1316. 3) Filippo V, “il Lungo”, che regnò dal 1316 al 1332. 4) Carlo IV, “il Bello”, che regnò dal 1332 al 1338. Luigi X, Filippo V e Carlo IV, morirono tutti senza un erede maschio. Con Carlo IV cessò la dinastia Capetingia, e si iniziò la dinastia dei Valois, con Filippo VI. Durante il regno di quest’ultimo divampò la Guerra dei Cento Anni tra Francia e Inghilterra. Filippo VI era figlio di Carlo I d’Angiò. La corona francese gli veniva contesa da Edoardo III d’Inghilterra, figlio di Isabella (a sua volta figlia di Filippo il Bello), e perciò anch’essa pretendente al trono di Francia. 69


“A fatti propri”, Carlo IV aveva “riaffermato” la legge salica (per prevenire gli “intenti” di Edoardo III) secondo cui le femmine non potevano pretendere il trono del padre, né per sé, né per i propri figli. B) Le crociate “in Africa” di Re Luigi IX. Il Re Luigi IX, motivato da un forte sentimento religioso, viveva osservando rigidamente tutti i precetti della Chiesa, con lunghi periodi di astinenza sessuale, mortificazione della carne con flagelli e cilici, digiuni e penitenze. Un religioso coevo, fra’ Salimbene da Parma, lo descrive con l’aspetto di un asceta, “gracile e macilento”, tanto da sembrare più un monaco che un uomo d’arme. Spinto dal fratello Carlo d’Angiò, dominato quest’ultimo da frenesia di conquiste (e grassazioni sui popoli assoggettati), intraprese ben due “crociate” … in Africa! Contro i Mamelucchi. Lo proclamò Santo, Papa Bonifacio VIII nel 1297, per ingraziarsi il Re Filippo IV il Bello che “si era speso” non poco per indirizzare lo Spirito Santo in suo favore nel conclave del 1294 (lo scontro tra Bonifacio VIII e Filippo IV avvenne soltanto successivamente, quando il re, impegnato nella guerra delle Fiandre, bussò a soldi, e il Papa rispose picche). La crociata del 1248 (settima crociata) “sponsorizzata” dal Papa Innocenzo IV, fu diretta subito verso Damietta, città posta sul Nilo, su uno dei suoi estuari, fortificata tanto da costituire la porta di entrata verso il resto dell’Egitto e la sua capitale, Il Cairo, nonché verso il porto di Alessandria. Oggi, il vocabolo “mammalucco” ha il significato di “stupido”, ma i Mamelucchi non erano affatto stupidi, ed erano comandati dal futuro Sultano Baibars, guerriero valoroso ed astuto; questi comandò alla guarnigione di Damietta di abbandonare la città, lasciandovi soltanto i civili. Occupata la città dai francesi, poco tempo dopo i Mamelucchi ritornarono, assediando a loro volta le fortificazioni ove i francesi furono costretti ad asserragliarsi. Restando un contingente a difesa di Damietta, il re con l’esercito (quasi dimezzato) proseguì verso Il Cairo, affrontando e vincendo sui Mamelucchi a Fariskur, e arrivando nelle vicinanze della città di Mansura, ove era accampato un contingente nemico, nel febbraio del 1250. I franchi piombarono sui Mamelucchi che furono posti in fuga. Sotto le mura di Mansura, si svolsero più scontri tra le due parti, finché la fame e il colera non colpirono lo schieramento franco. La fame sopravvenne perché i Mamelucchi impedivano che, attraverso il Niro, giungessero rifornimenti; il colera, perché gli egiziani – quanto meno per “esperienza” – probabilmente sapevano che l’acqua, “sporcata” con le deiezioni degli ammalati, era in grado di diffondere la malattia tra coloro che la bevevano. 70


Pertanto, i franchi furono costretti a cominciare la contrattazione con Baibars in merito ad una loro (controllata) ritirata, in cambio di Damietta. La trattativa era quasi conclusa (in modo onorevole) quando un sergente cristiano – forse pagato degli egiziani – diffuse la notizia che il re aveva deciso di arrendersi senza condizioni e che bisognava consegnare le armi al nemico. In tal modo, l’intero esercito “disarmatosi” venne fatto prigioniero, re compreso, che intanto si era anch’esso ammalato. La “liberazione” del re, costò la restituzione di Damietta (Baibars – con estremo “tatto” e diplomazia – non volle dare un costo in denaro ad un re). Ma per la liberazione del resto dell’esercito (che Luigi IX, onorevolmente, non volle abbandonare al destino di schiavi), venne richiesto il riscatto di un milione di bisanti, una somma enorme che la corona francese non possedeva (e forse nessun altro stato europeo). Furono pertanto chiesti “prestiti” alle banche pisane e genovesi, e ai Templari. Pisani e Genovesi, con qualche difficoltà, riebbero quanto prestato con gli interessi. I Templari, invece, ebbero in cambio un bel falò purificatore, e il sequestro di tutti i loro beni. In quanto dichiarati “eretici”, i debitori – ovvero la corona di Francia – non avevano più alcun obbligo di restituire alcunché: un vero affare per Filippo il Bello! La “crociata” del 1270 (l’ottava crociata) si ignora in qual modo possa essere stata proclamata, in quanto vi fu “sede vacante” dal 1268 al 1271. Si presume che sia stato forse, in luogo del papa, qualche alto esponente ecclesiastico francese a proclamarla, indebitamente. Ma se la settima crociata del 1248 nulla aveva a che fare con la “liberazione” del Santo Sepolcro (se non il contrasto al potere militare dei Mamelucchi, che erano all’epoca già in Gerusalemme; ma non sarebbe stato affatto conseguenziale che una loro eventuale sconfitta in Egitto, avesse potuto determinare anche un “abbandono” di Gerusalemme); ancor meno ebbe a che fare con la Terrasanta, l’ottava crociata del 1270, portata in Tunisia contro la medesima popolazione mamelucca. Invece risulta chiaro che la “settima crociata” fosse diretta alla conquista del porto di Alessandria, onde poter riaprire (naturalmente a pagamento) i traffici con l’oriente e il ripristino della via della seta che attraversava il nord dell’Egitto, sino al Mar Rosso (era la via più comoda e più breve, già usata dai romani per i loro traffici con l’India e con la Cina, avendo gli arabi come intermediari; tale via con la conquista islamica era stata interdetta agli europei cioè ai mercanti non si consentiva di attraversare i territori islamici, ma soltanto il commercio nel porto; e dopo la prima crociata, gli scambi commerciali con gli europei erano stati ancor più limitati). Inoltre Alessandria era diventata la capitale del traffico degli schiavi che dal centro dell’Africa – attraverso il Nilo – giungeva sino al Delta, controllato dai negrieri arabi, e che saturava il “mercato interno” di tutto il mondo musulmano). 71


L’ottava crociata s’iniziò con lo sbarco dell’esercito francese presso l’antica Cartagine, e l’assedio di Tunisi. Le agiografie narrano, alcune, che lo sbarco avvenne a Tunisi per permettere un più sicuro vettovagliamento dell’esercito, direttamente dalla vicina Sicilia, ed evitare le fortificazioni nemiche in Egitto, seguendo il consiglio strategico di Carlo d’Angiò (ma le fortificazioni c’erano anche in Tunisia!). Altre agiografie, parlano di uno sbarco a Tripoli; altre ancora parlano di sbarco a Tripoli di Soria (città tuttora esistente in territorio libanese). Cercando di mettere un po’ di ordine in questo baillame di notizie, occorre chiarire alcune cose: 1) Non si può sbarcare a Tunisi, se si vuole conquistare Gerusalemme, e nemmeno se si vuole giungere “soltanto” al Cairo, guerregiando. Un re – per quanto santo – mai avrebbe potuto dare credito ad una simile “strategia” (pur se il consigliere strategico fosse stato il fratello). 2) Mai un esercito all’epoca, con fanti, cavalieri (e cavalli!), vettovagliamento e macchine da guerra sarebbe stato in grado, di giungere – sotto continuo attacco nemico – sino al Cairo, o peggio in Terrasanta, senza approvvigionamento di acqua. A meno che Carlo d’Angiò non fosse riuscito ad avere una sponsorizzazione della multinazionale francese delle acque minerali “Evian-Nestlé”. 3) Lo scrivente è del parere che una cattiva traduzione abbia scambiato Tunisi per Tripoli, e l’”errata” traduzione sia stata successivamente “rafforzata” dall’”aggiunta di Soria”, per far intendere che Luigi IX si fosse recato in Terrasanta per liberare il Santo Sepolcro. 4) Carlo I d’Angiò, il Re Luigi IX e i loro consiglieri militari non erano affatto dei “fanatici” super cattolici, pronti sempre ad indire “crociate” sbagliate in tutti i sensi, soprattutto da un punto di vista strategico, così come vengono benevolmente presentati dalle agiografie; bensì erano dei lucidi calcolatori, affatto stupidi (forse soltanto sfigati) capaci di elaborare progetti politicomilitari tali da poter rendere – se realizzati – il regno francese e la sua appendice “siculo-napoletana” in una superpotenza nell’area del Mediterraneo, e diretta a produrre ricchezza e potere politico per tempo amplissimi, attraverso il controllo degli stretti (la scoperta dell’America avverrà soltanto due secoli dopo). Controllando già la Sicilia, il solo possesso di Tunisi, avrebbe realizzato il controllo mercantile e militare del Canale di Sicilia, e gli spostamenti delle navi in entrambi i sensi in tutto il bacino del Mediterraneo: l’imposizione dei dazi al traffico marittimo – per proteggerlo dai pirati Mamelucchi! – avrebbe arricchito all’infinito la corona francese. 72


Un disegno politico, affaristico e militare, camuffato da “crociata”, in cui comunque il re francese ci perse la faccia, con la prigionia, nella settima crociata; e ci perse le penne, nell’ottava. Un disegno formidabile ed ambizioso, “grandioso” se lo si guarda da un’ottica politica nazionalista e francese, capace di rendere la Francia la maggiore potenza europea, e non soltanto nel Mediterraneo! Altro che crociate e Santo Sepolcro! Come già Luigi VIII, con l’opportunità della “Crociata contro i catari”, s’era impossessato dei territori (ben ricchi) della Linguadoca, così Luigi IX (con Carlo d’Angiò) aveva pensato di impossessarsi del controllo dei traffici mercantili nel Mediterraneo. Come pure la intentata “crociata” di Carlo I d’Angiò contro Costantinopoli nel 1282 era volta (oltre che diventare imperatore di Costantinopoli e re di Gerusalemme) ad impossessarsi dei Dardanelli e del controllo daziario dei traffici verso l’oriente. Nota: I finanziamenti per la guerra delle Fiandre contro l’Inghilterra, che Filippo il Bello pretendeva da Bonifacio VIII, dovevano essere tratti dalla “decima saladina”, raccolta dal papato presso tutti i popoli cattolici dell’Europa; tali fondi erano considerati “cosa sacra”, intoccabili se non per favorire la proclamazione di una crociata da parte del papa. Nemmeno il papa poteva gestire le decime saladine, se non per questo unico fine. I vari papati, però, sempre superarono l’ostacolo, proclamando “crociata” qualsiasi guerra finalizzata contro propri nemici (anche se cattolici), e quando comunque conveniva a loro. Contro gli inglesi, non conveniva. Nota 1: Nel 1270, Re Luigi IX – sotto le mura di Tunisi – si ammalò nuovamente di “morbo” (colera), insieme a parte del suo esercito. Con la differenza che, stavolta, rispetto alla crociata precedente, morì. Lo scrivente resta convinto che i Mamelucchi, all’epoca, conoscessero già che il colera era trasmissibile attraverso l’acqua “sporcata” dalle deiezioni dei colerosi: un’arma batteriologica, nel XIII secolo! Nota 2: I Mamelucchi, popolazione caucasica e circassa, convertita all’islam, servivano agli inizi del XIII secolo come schiavi/mercenari presso il califfato fatimida d’Egitto. Alla morte dell’ultimo califfo, senza eredi, si impossessarono del potere e lo esercitarono, almeno in Egitto, sino agli inizi del XIX secolo. Alla “battaglia delle piramidi”, dovettero 73


fronteggiare Napoleone Bonaparte; furono sterminati nel 1811 dal comandante turco Mehmet Alì. Poiché all’epoca non era stato ancora “inventato” il termine genocidio, i turchi di oggi “si offendono” se si ricorda la scomparsa dei Mamelucchi dalla faccia della terra, e il tentativo (non perfettamente riuscito) di fare altrettanto con gli armeni, un secolo dopo. Nota 3: Dopo la “liberazione” dalla prigionia (durante la settima crociata), Re Luigi IX si stabilì, per qualche tempo, nel 1250 sulla costa siro-palestinese. I Mamelucchi lo avevano “rilasciato sulla parola”, in quanto la corona francese non possedeva tutta la somma richiesta per il riscatto. Pertanto, versato un “anticipo”, si era diretto in Asia Minore per contrattare con le banche dei Templari il “prestito” necessario a raggiungere il milione di bisanti (prestito mai restituito, perché Filippo il Bello li fece dichiarare “eretici”). Le agiografie affermano che il pio Luigi IX, in veste di “pellegrino” andò in visita a Gerusalemme nel 1250. Buon per lui se lo fece; forse, portò a Parigi la “palla di vetro con la neve”, da Gerusalemme. Nota 4: Tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300, i Mamelucchi avevano già inventato quella che oggi è definita “guerra batteriologica”, non soltanto per il colera, ma anche per la peste. Infatti cominciarono a lanciare, con le catapulte, oltre le mura delle città assediate, i cadaveri di soggetti morti per il “morbo”, convinti che i morti potessero trasmettere ai vivi, la malattia: avevano (quasi) ragione, in quanto la peste per trasmettersi da uomo (morto) ad uomo (vivo), aveva comunque sempre bisogno di un vettore, portatore di sangue infetto: le pulci (che però abbondavano). Nota 5: Il Re Luigi IX – per quanto santo – ad uno stratega, o a un consigliere politico (pur se fosse stato il fratello), che gli avesse suggerito di conquistare Tunisi (in Tunisia!) per liberare Gerusalemme (in Palestina!), lo avrebbe ringraziato assestandogli un solenne calcio in culo…con buona pace delle agiografie. Nota 6: La “sede vacante” (cioè la mancanza del papa) durò dalla morte di Clemente IV (29 novembre 1268) fino alla elezione di Gregorio X (1 settembre 1271): l’ottava crociata si svolse nel 1270! Proclamata da chi? 74


Nota 7: La politica “estera” dei re francesi, iniziando da Luigi IX (coadiuvato dal fratello Carlo I d’Angiò) e sino alla scoperta dell’America, fu costantemente diretta al controllo degli “stretti” nel Mediterraneo. Controllando già il Canale di Otranto (con i “d’Angiò” in Puglia, e i “Durazzo” in Albania), e lo Stretto di Messina, il regno franco si diresse prima verso la conquista del porto di Alessandria (1248) per riaprire l’antica Via della Seta che da lì partiva; successivamente, le ambizioni franche si rivolsero verso il Canale di Sicilia (con l’attacco a Tunisi) nel 1270. Infine le “attenzioni” francesi si rivolsero ai Dardanelli, con la mancata crociata contro Costantinopoli nel 1282. Infatti, nonostante le batoste prese dai Mamelucchi, i francesi non si erano persi d’animo, e organizzarono una “crociata” contro l’impero bizantino, proclamata dal Papa Martino IV. L’esercito si era già imbarcato a Palermo, pronto a salpare, quando il Martedì di Pasqua il 31 marzo 1282, esplose l’insurrezione dei siciliani (poi chiamata “Vespri Siciliani”). Prontamente la “crociata”, già “sponsorizzata” (cioè finanziata), si trasformò in “crociata contro i siciliani”. Nota 8: Lo Stretto di Gibilterra, sino alla scoperta dell’America e alle imprese di Magellano, non aveva grande rilevanza commerciale o strategica, in quanto gli scambi con India e Cina partivano ed arrivavano tutti nel Mediterraneo e, naturalmente, anche gli scambi tra i popoli rivieraschi avvenivano in questo bacino. Gli stessi scambi franco-inglesi avvenivano esclusivamente tra la Manica (quando i due Paesi non erano in guerra). Soltanto qualche nave inglese si avventurava nel Mediterraneo; e Spagna e Portogallo divennero potenze mercantili e marinare soltanto verso il XV secolo. Poiché la bandiera inglese dell’epoca non era ben conosciuta, le navi inglesi facilmente venivano attaccate dai pirati (che invece temevano le ritorsioni delle grandi nazioni marinare dell’epoca, Pisa, Genova e Venezia, e per quanto possibile, nella loro “onesta” attività di pirati, cercavano di evitare rogne con costoro). Pertanto gli inglesi furono costretti a chiedere ai genovesi l’”uso” della loro bandiera (la croce rossa in campo bianco). I genovesi acconsentirono in cambio di un lauto “indennizzo”, e profittando dell’occasione vendettero agli inglesi anche il “Santo Protettore” San Giorgio, e la reliquia autentica del drago che il santo aveva ammazzato (un coccodrillo impagliato). Nota 9: Almeno sino all’epoca di Cleopatra, il Mediterraneo si collegava al Mar Rosso attraverso un canale artificiale, scavato tra il ramo più orientale del delta del Nilo e il Mar Rosso. 75


Questo canale, ancora visibile nel suo tracciato benché interrato, probabilmente venne abbandonato dopo la conquista araba. Nota 10: Dopo la sesta crociata, conclusa con l’accordo tra Federico II e il Califfo Fatimida Al Malik Al Kalim, per cui senza guerra Gerusalemme tornò ai cristiani (seppure “smilitarizzata”), alla morte del califfo d’Egitto senza eredi, i suoi mercenari Mamelucchi s’impadronirono del potere e rioccuparono Gerusalemme. I Mamelucchi erano islamici sunniti, mentre i fatimidi erano sciiti. Pertanto non ci fu alcun “tradimento” dei fatimidi dell’ormai defunto califfo verso i cristiani, perché al Cairo erano semplicemente cambiati i padroni: i sunniti erano subentrati agli sciiti. Federico II non c’entrava nulla, in quanto il suo accordo era avvenuto con gli sciiti. Nonostante ciò, il papato scomunicò Federico II (al di là di ogni ragionevole dubbio).

La crociata (mancata) contro Costantinopoli di Carlo I d’Angiò e Papa Martino IV e la crociata contro i siciliani (dei Vespri). Con la sconfitta di Manfredi (1266), la soppressione di Corradino (1268), e l’appoggio del papato, Carlo I d’Angiò e i suoi “baroni” francesi – attraverso un regime di tassazione predatoria – rapidamente aggravarono nel meridione d’Italia le difficoltà dei ceti medi produttori nelle città, e l’impoverimento dei contadini, ricondotti – dopo la parentesi normanna e svevo-normanna – ad un duro servaggio della gleba. Gran parte della nobiltà, sospettata di lealismo verso gli svevo-normanni, venne eliminata e sostituita dai feudatari francesi, scesi in Italia per uscire da un pronunciato stato di indigenza generale, nella loro terra d’origine. È col regno di Carlo I d’Angiò che i “baroni” acquistarono i loro tratti storici di violenza, di arbitrio e d’infedeltà, il cui unico fine restava il personale arricchimento. La politica di Carlo I d’Angiò si rivolse subito al controllo dell’Italia e dei traffici commerciali nel Mediterraneo, spingendo il fratello Luigi IX, Re di Francia, in due crociate dagli esiti disastrosi; durante la crociata iniziata nel 1248, il re fu fatto prigioniero a Mansura con quasi tutto il suo esercito, dai Mamelucchi (che chiesero, ed ottennero un riscatto favoloso per circa un milione di bisanti). Durante la crociata del 1270, Luigi IX vi trovò la morte (per “morbo”). Carlo d’Angiò tentò di candidarsi al trono di imperatore dei tedeschi, e poi a quello di Costantinopoli, nonché al regno di Gerusalemme. Con l’appoggio di Papa Martino IV, mise in piedi una “crociata” contro l’impero bizantino, dichiarato “eretico”. L’esercito era già imbarcato in Sicilia, pronto a veleggiare verso Costantinopoli, quando improvvisa scoppiò la rivolta dei “Vespri” contro i francesi (1282, 23 marzo). 76


I siciliani che maltolleravano le prepotenze, le spoliazioni e le rapine dei francesi, in intesa con Michele VIII, Imperatore di Costantinopoli, col Re Pietro III di Aragona, e con gli esuli Ghibellini di Sicilia, iniziarono una guerra di “liberazione” che sarebbe durata 20 anni fino al trattato di Caltabellotta (1302) che assegnava la Sicilia agli Aragonesi e il napoletano ai d’Angiò. Non potendo conquistare Costantinopoli, comunque il Papa Martino IV – nel 1282 – promosse la stessa “crociata” contro i siciliani, a cui furono chiamati ad intervenire anche i Templari e gli Ospitalieri. Benché, già nel 1285 fossero morti sia Carlo I d’Angiò, che il Papa Martino IV, il Re di Francia Filippo III “l’ardito” (figlio di Luigi IX) e, il Re d’Aragona Pietro III, la guerra continuò coi loro successori sino al 1302. Nota: Con il “trattato di Caltabellotta” (1302), dopo venti anni di guerra sul suolo dell’Italia meridionale, si poneva fine alla “Guerra dei Vespri”. Sulla pelle dei siciliani e dei napoletani, che erano insorti contro il malgoverno francese, il Sud-Italia veniva “liberato” ed equamente spartito tra francesi e spagnoli: il Regno di Napoli ai francesi e il Regno di Trinacria agli spagnoli.

La complicata successione alla corona di Francia tra il 13° e il 14° secolo. Dopo la morte di Luigi VIII nel 1226, che aveva condotto la guerra contro gli Albigesi, impossessandosi della “Linguadoca” orientale, gli successi il figlio Luigi IX, il “Santo”, che condusse due crociate contro i Mamelucchi: la settima crociata, in cui il re francese venne fatto prigioniero; e l’ottava crociata, durante la quale morì (1270). A Luigi IX, successe il figlio Filippo III, “l’Ardito” (nato il 1245 e morto il 1285). A Filippo l’Ardito, successe Filippo IV, il “Bello” sul trono di Francia, che continuò a servirsi dell’opera di Carlo d’Angiò, soprattutto sul suolo italiano, e del papato per attività di ruberie e di aggressioni (non soltanto contro i Templari). Alla morte di Filippo il Bello (1314) gli successero, nell’ordine: Luigi X “l’attaccabrighe”, morto nel 1316 (come regnante, di lui si ricorda soltanto la soppressione della prima moglie); Filippo V il “Lungo”, che ammise i borghesi alle assemblee politiche; morì nel 1322; a lui successe Carlo IV il “Bello”, l’ultimo della dinastia capetingia; fu il primo re che riaccordò – con “magnanimità” – a Giovanni XXII le decime della Chiesa, che il papa aveva “promesso” di dividere con la corona francese (per atto di pura viltà); morì nel 1328.

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Nota: Dopo la morte di Filippo IV (il Bello) e dei suoi figli maschi (Luigi X, Filippo V e Carlo IV), si accese la “Guerra dei Centanni” tra Francia e Inghilterra, per il possesso del trono di Francia: i “francesi” imposero come Re Filippo VI di Valois (1328-1350), nipote di Filippo III ed espressione del ramo cadetto discendente da Carlo di Valois: gli inglesi premevano per il loro Re Enrico III, figlio di Isabella e nipote di Filippo IV per parte di madre. La guerra durerà dal 1329 al 1453, con altre vicende.

Nota esplicativa (spero) sui “Carli, Luigi e Filippi” della corona francese “capetingia” ai tempi di P. Giovanni. 1) Carlo I d’Angiò: ultimo figlio di Luigi VIII, e fratello di Luigi IX il “Santo”. Spinto prima dal papa Urbano IV, e successivamente investito dal Papa Clemente IV nel 1265, prese possesso del Regno di Sicilia (giuridicamente, gli svevo-normanni risultavano ancora feudatari del papato) e conquistò Napoli contro il Re Manfredi (figlio riconosciuto di Federico II) che sconfisse ed uccise a Benevento (1266). Nel 1268 sconfisse Corradino di Svevia (nipote di Federico II) a Tagliacozzo, e lo “giustiziò” l’anno successivo a Piazza del Mercato, a Napoli. Partecipò nel 1270 alla VIII crociata, insieme al fratello Luigi IX, ove quest’ultimo morì “di “morbo”) a Tunisi. Inviso per il suo governo, basato unicamente sull’oppressione, la violenza e lo sfruttamento, perse la Sicilia, in seguito alla insurrezione dei “Vespri Siciliani” (1328). Nato nel 1220, morì nel 1285. La guerra dei Vespri fu continuata dal figlio “Carlo II” (lo Zoppo), sino alla pace di Caltabellotta (1302), quando francesi e spagnoli si divisero “equamente” i territori, già appartenenti a Federico II (con la “benedizione” del papato). 2) Carlo IV (il “Bello”), terzo figlio di Filippo il Bello, divenne Re di Francia, alla morte del fratello Filippo V (il “Lungo”) il quale ultimo aveva regnato dal 1316 al 1322. Carlo IV fu l’ultimo discendente diretto dei Capetingi e regnò dal 1322 al 1328. 3) Carlo di Valois (nato nel 1270 e morto nel 1324), terzo figlio di Filippo III l’”Ardito”, e fratello di Filippo IV il “Bello” (Re di Francia). Fu il braccio armato di Filippo il Bello e di Bonifacio VIII che lo inviarono – in qualità di “vicario della Santa Sede” (carica che il papa gli aveva concesso) – per combattere i Ghibellini e i Guelfi “bianchi” in Firenze. In tale ufficio, 78


condannò all’esilio Dante Alighieri. Il figlio Filippo VI diventerà Re di Francia, alla estinzione dei Capetingi. Poiché Carlo d’Angiò morì nel 1285, dopo tale data quando si parla genericamente di un “Re Carlo” si tratta chiaramente di Carlo di Valois. L’ultimo dei Capetingi, fu Carlo IV “il Bello”. Nelle agiografie, e spesso anche nelle storiografie, vengono facilmente confusi Carlo d’Angiò e Carlo di Valois, entrambi fratelli di un re, ed entrambi uomini d’arme al loro servizio.

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Conclusioni e considerazioni La storia di una nazione, di un popolo, di una civiltà o di un singolo individuo esiste soltanto se c’è stato qualcuno che è riuscito a raccontarla. Singolarmente la storia della vita di P. Giovanni da Montecorvino, benché “soltanto” primo arcivescovo cattolico di Pechino, fondatore della Chiesa Cattolica di Cina, patriarca dell’Oriente (di tutto l’Oriente, dalle coste Siro-Palestinesi sul mediterraneo sino al mar cinese) grande figura del francescanesimo e delle missioni francescane nel Medio-Evo, ha sofferto di una scomparsa dalla storia, insieme al tentativo grandioso (seppur mancato per accidenti vari, politici, temporali, di distanziamento ecc.) di un raccordo tra la civiltà europea e cristiana e la millenaria civiltà cinese. Il suo nome, la sua vita, le sue molteplici missioni (diplomatiche ed evangelizzatrici) sono riemerse soltanto nel 1924, su iniziative di un Sinodo dei vescovi cinesi. Lo stesso papato, nel 1924, ne ignorava la storia, la vita, le missioni, tanto da rifarsi ancora a vecchi errori di copisti, o ad antiche affermazioni di “testimoni” di terza mano. Il suo nome era restato sepolto nei codici, e negli archivi dell’ordine francescano e della Santa sede, citato – soltanto occasionalmente – in lettere o racconti di confratelli coevi. Tuttora, consultando documenti di storia anteriori al XXI secolo, risultano assenti i rapporti intercorsi tra la Cina dei mongoli e la chiesa di Avignone, mentre sono ben presenti i fatti anteriori al 1310 (con i nomi di Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruk, dei Polo) o posteriori alla caduta dell’Impero mongolo e alla morte di P. Giovanni (dal Marignolli, a Matteo Ricci, a Fra’ Odorico da Pordenone). La crasi tra il 1289 e il 1368, è riempita (talora) soltanto dai raccontini di Odorico da Pordenone, del Decora, del Marignolli. La storia solitamente viene scritta con gli antichi documenti repertati; mentre si può tentare di cancellarla distruggendo o occultando ogni testimonianza scritta, soprattutto quando – per motivi di contingenza e di opportunità – gli eventi del passato possono risultare scomodi oggi. Il silenzio della storia spesso è soltanto il silenzio delle cattive coscienze. A. Della Corte

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SINTESI È pur vero che dopo il 1368 – sconfitti i “dominatori” mongoli – la Cina della dinastia Ming perseguitò duramente i cristiani, sia i cattolici che i nestoriani, costringendo i pochi superstiti alla clandestinità (comunque, due secoli dopo, quando con Matteo Ricci si poté riprendere, in qualche modo, l’azione di evangelizzazione, esistevano ancora sparuti gruppi di cattolici, senza collegamenti tra loro e senza clero, come testimonia lo stesso M. Ricci). Ma è anche vero che quando morì l’arcivescovo Giovanni (1328), dei vescovi inviati da Avignone, erano ancora in vita, soltanto il vescovo di Zaiton, Fra’ Andrea da Perugia, morto però nello stesso 1328, e Fra’ Pietro da Firenze che subentrò nel vescovado (forse nominato dal Decora, arcivescovo di Sultania, presente a Pechino dopo la morte di P. Giovanni). Alcune fonti riportano che Fra’ Pietro fece ritorno in Europa (abbandonando il vescovado); altre fonti riportano che sarebbe stata rinvenuta, a Zaiton, una lapide mortuaria col suo nome. Comunque, poco dopo la scomparsa di P. Giovanni, rimasero vacanti sia la sede dell’arcivescovado di Pechino, sia la sede vescovile di Zaiton. Il viaggio di Fra’ Nicola di Puglia, nominato nel 1333 (o forse nel 1334) arcivescovo di Pechino, non giunse mai a termine, a seguito della uccisione sua e di tutto il suo corteo di vescovi e frati, circa 30 persone, probabilmente a Tana (in India). La nomina di nunzio apostolico del Marignolli a Pechino da parte del Papa Benedetto XII, latore certamente di proposte politiche, durò dal 1342 per circa 5 anni; nel 1353 era nuovamente ad Avignone. La nomina di Fra’ Guglielmo, ad arcivescovo di Pechino nel 1369, fu del tutto inutile. Ormai i cinesi avevano chiuso i confini; ed infatti Fra’ Guglielmo non partì mai. L’occasione – offerta dai mongoli – di evangelizzare la Cina (e di avviare con essi uno scambio culturale ed una alleanza politico-militare contro l’espansionismo islamico), venne persa per sempre. L’arcivescovado di Pechino fu lasciato estinguersi, perché il papato di Avignone, succube dei reali francesi, non aveva alcun interesse a “sprecare” energie verso “barbari pagani”, molto più attento invece a partecipare alle lotte dinastiche e alle guerre tra re cattolici in Europa. La voluta “estinzione” della presenza cattolica in Cina, e la responsabilità storica del papato avignonese, vennero coperte col silenzio (durato sino agli inizi del 1900), e con la “reclamizzazione” della “seconda” evangelizzazione della Cina con Matteo Ricci (a distanza di 200 anni da P. Giovanni). Tale “politica” sostanzialmente è tuttora vigente. Lo squarcio sulla storia, aperto durante il papato di Wojtyla, è stato prontamente rappezzato; e la “venerazione” di P. Giovanni è stata rinchiusa, nel recinto del territorio di Montecorvino Rovella, nella chiesa di Santa Maria della Pace. In tutti i comuni limitrofi che, anticamente, 81


costituivano Montecorvino di principato citeriore, P. Giovanni è del tutto sconosciuto, Mont. Pugliano compresa (P. Giovanni sicuramente non nacque in Puglia; ma forse è stato traslato in Puglia il comune di M. Pugliano!). Se il benemerito Dott. Filippo Iorio non lo avesse, a suo tempo, strappato alla falsa origine pugliese, da tempo P. Giovanni sarebbe stato riconosciuto Santo, in quanto fondatore della chiesa cattolica cinese. E se anche avesse fallito Starace, ci sarebbe riuscito Moro, poco più tardi. Nonostante il “silenziamento” di sette secoli, la storia della vita di P. Giovanni da Montecorvino è stata così grande – quale evangelizzatore in Cina nel nome di Cristo e nel solco dell’insegnamento di Francesco – in un’epoca veramente buia attraversata dalla Chiesa Cattolica – che oggi, per poter essere narrata, non ha bisogno di “imbellettamenti” postumi, e tantomeno di ulteriori silenzi.

Ruderi del Castello sul Monte Nebulano

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INDICE PAG. 3

CAPITOLO I – Gli eventi e i personaggi storici che segnarono la vita di P. Giovanni.

PAG. 13

CAPITOLO II – Gli anni dell’isolamento e dell’abbandono.

PAG. 16

CAPITOLO III – La diversità tra le “missioni” affidate a Padre Giovanni, da Papa Niccolò IV e da Papa Clemente V.

PAG. 23

CAPITOLO IV – Il silenzio dopo la consacrazione.

PAG. 33

CAPITOLO V – Dalla contesa tra Filippo il bello e Bonifacio VIII, fino allo scisma d’Occidente.

PAG. 48

CAPITOLO VI – Analisi storica della politica europea, negli anni di P. Giovanni (dalla consacrazione alla morte)

PAG. 56

CAPITOLO VII – Breve sintesi della storia del popolo mongolo.

PAG. 62

CAPITOLO VIII – La “missione” di Odorico da Pordenone.

PAG. 65

CAPITOLO IX – La santità.

PAG. 69

CAPITOLO X – La corona franca ai tempi di Padre Giovanni.

PAG. 80

CONCLUSIONI

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vOLUME iII

PADRE GIOVANNI DA MONTECORVINO «Dagli spirituali di Angelo Clareno agli osservanti francescani»

Montecorvino R. 1247 - Kambalik 1328

A. Della Corte


“La verità può essere negata in due modi: sia mentendo che tacendo” - M.T. Cicerone

Di P. Giovanni ci restano soltanto due lettere scritte di suo pugno (si parla anche di una “terza” lettera, che ci sarebbe giunta in “riassunto” certamente molto, “troppo sommario”: una specie di cartolina scritta dalle vacanze, ove vengono descritti luoghi, usanze e popolazioni dell’India, ma non si parla della “fuga” di tutto il corteo di monaci che doveva accompagnarlo sino in Cina, né si parla della sua nuova situazione di “isolato” che richiede aiuto. Ci sono inoltre notizie fornite, all’epoca, da suoi confratelli missionari in Asia, in cui parla – incidentalmente – della sua figura, delle sue opere missionarie e dei suoi viaggi (al suo tempo, un viaggio in Cina equivaleva ad un viaggio su Marte ai giorni nostri). Restano ancora qualche bolla papale (come documento di testimonianza storica) e una serie di (brevi) agiografie su pubblicazioni francescane, all’epoca in cui Papa Wojtyla lo dichiarò “venerabile”; un’agiografia piuttosto completa, e “storicamente” esatta, redatta dal francescano Fra’ Gaspare Han; un volume di Nunzio di Rienzo, prezioso per aver fatto conoscere ad un pubblico più vasto, oltre l’ambito chiesastico, la figura di P. Giovanni; un’opera del Dott. Filippo Jorio, in merito alla identificazione del suo vero luogo di nascita (ma con divagazioni fantasiose sul ceppo familiare di origine). Che possa ancora uscire qualcosa da antichi documenti in possesso del Vaticano, o dormienti in polverosissimi archivi, ci credo poco. Odorico, il Decora (domenicano) e il Marignolli “sistemarono” bene gli archivi che pur dovevano esistere, presso un arcivescovado comprendente tutta l’Asia. Non è neppure pensabile che l’arcivescovo dell’Asia (con funzioni simili a quelle di un Papa), dopo la consacrazione, abbia interrotto ogni rapporto epistolare col papato. Si può anche pensare che con la fuga dei mongoli da Pechino, nel 1368, sia stato materialmente perduto l’archivio della sede di Pechino; ma quanto di quell’archivio dovesse essere, o non essere salvato, dal 1328 al 1368 si ebbe tutto il tempo necessario. Per andare oltre le agiografie e i silenzi in esse contenuti, è occorso un lavoro, talvolta stancante, di comparazione tra avvenimenti di 700 anni fa, prodotti da papi, 1


da missionari, da ordini religiosi, da tribunali ecclesiastici, da concili, da monarchie europee ed asiatiche; ciascun avvenimento come esito del precedente, e causa del successivo. È tuttora arduo cercare di capire i perché del silenziamento – per secoli – del disegno politico-religioso di un grande Papa, uno dei papi più grandi di tutto il Medio-Evo, il primo Papa francescano Niccolò IV, e della persona cui questo disegno era stato affidato, P. Giovanni da Montecorvino. Al contrario, non è difficile capire, perché lo stesso disegno (con qualche modifica riguardo le “finalità”) ripreso da Clemente V, venne subitaneamente abbandonato, e perché l’arcivescovado di Pechino venne lasciato spegnersi per consunzione (i pochi vescovi, nominati ad Avignone, alla morte di P. Giovanni erano già tutti scomparsi, eccetto due che comunque morirono nel giro di qualche anno); e bisogna arrivare comunque a delle conclusioni, attraverso un’analisi storica degli eventi, delle date e dei personaggi coinvolti. E spesso le agiografie (quando risultano essere gli unici documenti consultabili) non danno risposte, o sviano dalle realtà fattuali. I libri di storia – almeno quelli che si studiano sino alle scuole superiori – dicono che “il Papa si rifugiò ad Avignone (perché? Inseguito da chi?), e poi per intercessione di Caterina da Siena, Gregorio XI ritornò a Roma: fine. Ma erano passati 70 anni e 8 papi (più un antipapa)! Le “missioni” di P. Giovanni da Montecorvino, sia quella diplomatica (oscurata), sia quella di evangelizzazione dell’Asia, incapparono in tre papati che, per la loro intrinseca qualità, furono (unicamente a parere dello scrivente) i peggiori di tutta la storia della Chiesa; dopo Niccolò IV, morto nel 1292 mentre P. Giovanni era ancora in viaggio verso la Cina (e mentre cadeva, per sempre, in mani mussulmane San Giovanni d’Acri, detta anche Acca o Acri), salirono al sogli di Pietro (Celestino V, per soli sei mesi), Bonifacio VIII (1294-1303), (Benedetto XI per un anno), Clemente V (1305-1314), e Giovanni XXII (1316-1334). Durante questo periodo (1292-1334), maturarono i prodromi del successivo “scisma d’occidente”, e con Bonifacio VIII e, poi più compiutamente, con Giovanni XXII si accese la persecuzione contro il movimento francescano in genere, e contro il filone degli “spirituali” in particolare. Poiché la Chiesa cattolica, nei secoli successivi, mai ha preso chiara posizione verso questi papi (non politica, ma quanto meno “teologica”), è intuitivo pensare che il silenziamento verso la tentata cristianizzazione della Cina (avvenuta quasi 2


interamente attraverso i francescani), sia stato causato dal (necessario, ma non completamente efficace) silenziamento verso l’operato di almeno un paio di papi che spingevano al rogo (o al carcere a vita) quei monaci che, vivendo la povertà, involontariamente e indirettamente, mettevano sotto accusa il nepotismo di un Bonifacio VIII, e il lusso e gli sperperi della Curia avignonese di Giovanni XXII; e, vivendo la pace (soprattutto interiore), mettevano in scacco la “giustizia feroce” degli inquisitori domenicani, e la violenza criminale di un re, diretta ad un “esproprio pastorale” di un ordine religioso-militare. E’ pur vero che qualcuno (sbagliando?) alla violenza della sopraffazione risposte con la violenza della disperazione. Ma di un Dolcino Tornielli ce ne fu uno solo (e pagò caramente e di persona); di un Bonifacio VIII, nei secoli, ce ne sono stati più di uno (naturalmente con altri nomi). Alla fine, questo terzo volume intende mettere in luce un aspetto della vicenda umana e religiosa di P. Giovanni, quasi totalmente oscurato dalle agiografie, dove appare (quando appare) come un inciso che riguarda, marginalmente, soltanto Tommaso da Tolentino.

Dipinto raffigurante Beato Tommaso da Tolentino.

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P. Giovanni era uno “spirituale”?

Atteso che la conoscenza tra Giovanni da Montecorvino e Tommaso da Tolentino risalisse già al periodo della loro presenza missionaria in Asia Minore (P. Giovanni dal 1271 al 1289; Tommaso da Tolentino dal 1289 al 1307); entrambi frequentarono le corti degli i-Khan Argone ed Aitone II, dalle quali ricevettero incarichi diplomatici (P. Giovanni anche dall’imperatore di Costantinopoli verso il Papa Gregorio X). Separati dall’invio in Cina di P. Giovanni nel 1289, su incarico di Niccolò IV, già nel 1306 P. Giovanni “raccomanda” ai responsabili dell’ambasceria mongola presso Kubilay, di consegnare la sua seconda lettera a T. da Tolentino, ministro generale dell’ordine francescano in Gazaria, che ben conosceva. Si rinsalda così l’amicizia e la reciproca considerazione tra i due, con l’intervento di T. da Tolentino presso Clemente V ad Avignone nel 1307. Già nel 1308, Tommaso è a Pekino presso P. Giovanni e ci resterà sino al 1320, quando si recherà in India incontro al suo tragico destino. Oltre l’amicizia e la reciproca stima, è chiaro che tra i due dovesse esserci anche una intesa “ideologica”. Il Marignolli che “insinua” che P. Giovanni (che mai conobbe, ma che certamente ne lesse le “carte” scampate alla pulizia di Odorico e del Decora) facesse parte degli “spirituali”, portando a testimonianza una affermazione in tal senso di fra’ Pellegrino di Castello (che però non ci è pervenuta). Anche se, oggettivamente, non esiste alcuna “prova” che P. Giovanni, facesse parte degli spirituali, certamente il leale e indefesso lavoro fatto da Tommaso da Tolentino presso l’arcidiocesi di Pekino per 12 anni, lascia pensare che tra i due ci fosse una identità di vedute; d’altronde di fronte all’operato di Papi quali furono Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXIII, risultava alquanto difficile che due francescani (che avevano scelto la predicazione in terre lontane e “pericolose”) non potessero trovarsi d’accordo nei loro giudizi; al di là delle scelte ideologiche, sul concetto di “possesso”, e sulle “interpretazioni” della regola francescana. La “considerazione” per P. Giovanni che, due secoli dopo, gli “osservanti” ancora nutrivano verso di lui (tanto da costruire ben due conventi di “osservanti” nella sua terra natale, uno a Rovella e uno a Pugliano) fa pensare – e la cosa va a loro onore – che, quanto meno, P. Giovanni fosse considerato “uno di loro”. I “timori” di Giovanni XXII, e l’invio del “controllore”, forse erano giustificati, dal suo punto di vista di “Viveur” a fronte di un arcivescovo che seguiva eroicamente la regola francescana. Essendo state “perse” (?!) tutte le carte di P. Giovanni (quelle a Pekino, e quelle a Roma-Avignone), non si può – oggi – esprimere un giudizio in merito, che comunque non potrebbe aggiungere né togliere qualcosa alla sua grandezza di ecclesiastico e di figura storica. Nella storia 4


(e attraverso il tempo che, quasi sempre, è galantuomo) spesso i “buoni” diventano “cattivi” e viceversa: il “quasi eretico” Tommaso da Tolentino nel 1300, oggi è beato. Al contrario sul Papa Giovanni XXII, capo della Chiesa nei primi decenni del 1300, oggi è calato il silenzio totale (soprattutto da parte del Vaticano), a ben ragione.

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NOTA: UNA CONSIDERAZIONE

I Coevi che lo conobbero ed ebbero a scrivere di lui, definiscono P. Giovanni “dottissimo”; per essere definito dotto o “dottissimo” bisogna per forza aver scritto qualcosa, che sia giunto alla lettura del commentatore. Ora, di P. Giovanni, di scritto non si conosce nulla, se non le due lettere dalla Cina. Si pone pertanto un quesito: che fine hanno fatto i suoi scritti? In quanto nunzio (ambasciatore) del Papa, deve pur aver inviato qualche resoconto sui suoi incontri con l’imperatore di Costantinopoli, o con gli i-Khan di Persia e di Armenia. In quanto ecclesiastico – tanto preparato da essere consacrato arcivescovo di Pechino e patriarca dell’Asia – deve pur aver scritto “due” righe in merito a quanto all’epoca divideva teologicamente la Chiesa di Roma dalla Chiesa (Ortodossa) di Costantinopoli, (il famoso “Filioque”, cioè se lo Spirito Santo discendesse soltanto dal Padre, oppure dal Padre e dal Figlio), al tempo della nunziatura presso gli imperatori Paleologo. A parte la “pulizia” di Odorico, del Decora e del Marignolli a Pechino, qualche traccia dovrebbe pur essere restata negli archivi vaticani, o avignonesi. A meno che, all’epoca di Giovanni XXII, non sia stato fatto un bel falò, perché i suoi scritti venivano guardati con sospetto, a causa della “vicinanza” dell’autore con Tommaso da Tolentino.

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CAPITOLO PRIMO Agiografia e storiografia: due narrazioni spesso divergenti. I problemi della duplice esposizione letteraria, circa la vita di P. Giovanni da Montecorvino.

L’agiografia (lo scritto in merito ad un santo) è la letteratura religiosa che ne riguarda la vita, come accettazione incondizionata e come ammirazione senza incertezze, limitate spesso alla predicazione, alla santità, alle conversioni, ai viaggi in terre lontane e pericolose, alle attività missionarie, ai miracoli prodotti, al martirio. E sarebbe chiaramente fuori luogo ogni giudizio, che non sia men che laudativo (avendo tra l’altro a che fare con un santo). In conseguenza, nella narrazione, non può venir meno il giudizio parimenti positivo verso i confratelli, i seguaci, gli alleati, la “società” cattolica, il clero, la Chiesa di Roma. E i “cattivi” restano confinati nel recinto degli “altri”: i pagani, i persecutori, i barbari, gli eretici, i “Ghibellini”. E, sin qui, “tutto regolare”, seguendo il filo della logica narrativa religiosa, cioè la propagazione della fede cattolica. Resta il problema della narrazione, in sede storiografica, della vita e delle vicende di un “santo” vissuto settecento anni orsono, quando non ne esistono che pochi riscontri, repertabili quasi unicamente nella narrazione agiografica. Il problema è costituito dall’agiografo in quanto tale che (facendo il suo “mestiere” comunque a fini edificanti) estende la sua “benevola” attenzione, e spesso disattenzione, anche ai “compagni”, ai superiori e ai vertici della Chiesa cattolica (non sempre integri), oltre che al santo. Attingere unicamente all’agiografia, volendo scrivere di storia, porta al rischio di incorrere in topiche e cantonate monumentali che facilmente sconfinano nel falso storico, quando vengono ignorate le date e le sequenze temporali tra i vari eventi, e il rapporto tra causa ed effetti.

L’impegno a scrivere su P. Giovanni da Montecorvino, della cui esistenza si era addirittura persa la memoria (tanto che la stessa “congregazione per la proclamazione del culto dei santi” incorse – su sollecitazione di un sinodo di vescovi cinesi nel 1924! – ad errori madornali nella pur sintetica rappresentazione delle sue 7


virtù) ha perciò incontrato problemi di inquadramento nel tempo e nella sequenza degli avvenimenti; delle cause e degli effetti, dei “perché” che taluni eventi pongono a chi scrive e a chi legge. Talora si è stati costretti a vagare tra voluti “silenzi”, tra i vuoti della mancanza di documentazione scritta, e l’”imbellettamento” di atteggiamenti (poco sacrali) delle gerarchie politico-religiose dei papati. Si è cercato, pertanto, di chiarire le situazioni politiche di taluni periodi, raccordandole agli eventi, quando sono scarsi i riscontri scritti, coevi alle azioni; tanto più se è entrata già – pesantemente – a supplenza, l’agiografia religiosa.

Preciso che l’agiografia agisce, normalmente, a fini nobili e legittimi di edificazione morale e religiosa, pertanto senza fini secondari di malevolenza; ma “purtroppo” spesso – anche in perfetta buona fede – arriva a distorcere i fatti della storia.

Tenendo conto del contesto storico dei secoli XIII e XIV, è stato arduo cercare di riempire, in modo razionale, i “vuoti” della documentazione scritta (avvenuti o procurati), e cercare spiegazioni a talune strane “manchevolezze”, avvenute parecchie centinaia di anni orsono. Soltanto attraverso la comparazione di fatti storici avvenuti contemporaneamente in luoghi distanti migliaia di chilometri, si è potuto giungere a conclusioni ragionevoli, sia in merito alla creazione di un arcivescovado cattolico a Pechino e di un patriarcato nell’impero mongolo nel XIV secolo, sia alla loro scomparsa alla morte del primo (ed unico) arcivescovo, esitata infine con la definitiva soppressione nel 1410 (in pieno scisma d’occidente).

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CAPITOLO SECONDO I clareni, Tommaso da Tolentino e P. Giovanni, e il contesto storico.

1. I Papi durante la vita di P. Giovanni (dai voti – 1270, alla morte – 1328).

P. Giovanni prese i voti nel 1270, durante il periodo di sede vacante per la morte di Clemente IV (1268).

1 - Gregorio X (1271-1278): eletto dopo oltre due anni di conclave; fu proprio P. Giovanni che portò la notizia della sua elezione a Papa, a Tebaldo Visconti che si trovava a Gerusalemme; P. Giovanni era a Costantinopoli, ove stava trattando con le autorità politiche e religiose locali la riunificazione tra le due chiese. 2 - Innocenzo V (1276-1276) – 21 gennaio – 22 giugno. 3 - Adriano V (1276-1276) – 11 luglio – 18 agosto. 4 - Giovanni XXI (1276-1277). 5 - Niccolò III (1277-1280) – Nel 1279 P. Giovanni viene inviato in Medio Oriente. 6 - Martino IV (1281-1285). 7 - Onorio IV (1285-1287). 8 - Niccolò IV (1288-1292) – Accolse P. Giovanni inviatogli dagli i-Khan di Persia ed Armenia, e lo incaricò di recarsi in Cina. 9 - Celestino V (1294-1294) – Eletto dopo 2 anni di conclave, restò Papa dal luglio al dicembre 1294.

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10 - Bonifacio VIII (1294-1303) - Iniziò la persecuzione contro gli spirituali. Appoggiò e poi contrastò Filippo il Bello, in merito all'uso delle decime della Chiesa per campagne di guerra. 11 – Benedetto XI (1303-1304). 12 - Clemente V (1305-1314) – Elevò P. Giovanni ad Arcivescovo di Pechino. 13 - Giovanni XXII (1316-1334) – Perseguitò i francescani spirituali. Durante il suo pontificato morì P. Giovanni (1328). NOTA: Matteo Ajassa (missioni francescane – n. 11 – Nov. 1990) scrive che nel 1277 “il Papa invia quattro francescani che scomparvero durante il viaggio verso l’Oriente. Nel 1277 furono Papi Giovanni XXI (Pietro Ispano) sino al 20 Maggio, e Niccolò III (Giovanni C. Orsini) dal 25 Novembre in poi. Quest’ultimo inviò nel 1279 P. Giovanni in Medio Oriente, per la prima volta missionario (presso i Khanati di Persia ed Armenia).

2. Gli spirituali di Angelo Clareno.

Tommaso da Tolentino e P. Giovanni da Montecorvino, benché divisi da 25 anni di età (Tommaso era più giovane), già si conoscevano ancor prima del 1308. Pur non potendo prendere per oro colato quanto esprime il Marignolli, citando Fra’ Pellegrino di Città di Castello, asserendo che P. Giovanni facesse parte anch’egli degli “spirituali” (il Marignolli afferma “amenità” anche quando definisce P. Giovanni “già soldato, dottore e avvocato dell’imperatore”, cioè di Federico II), tuttavia è bene approfondire questo argomento. Gli spirituali costituivano un gruppo all’interno dei francescani, che si attenevano rigidamente alla “regola” data da Francesco d’Assisi, sia in merito alla preghiera che alla povertà, costituendo tra l’altro il fulcro della predicazione francescana in Asia Minore dopo il 1289. Tommaso da Tolentino infatti fu in Persia ed Armenia, anche a corte del Khan Aitone II, senza mai perdere i contatti col suo gruppo di preghiera

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che faceva capo ad Angelo Clareno, marchigiano, uno dei più colti e brillanti intellettuali francescani dell’epoca. I “clareni”, sempre, ebbero qualche problema sia per la predicazione che per la loro scelta di vita in rigida povertà. Ma i “problemi” divennero persecuzione, quando divennero papi, prima Bonifacio VIII (Benedetto Caetani 1294-1303) e successivamente Giovanni XXII (Giacomo Arnaud Duèze (1316-1334), due dei peggiori papi della storia della Chiesa; di pessima fama, “secondi” (forse) soltanto ad Alessandro VI (Rodrigo Lanzol Borgia). Giovanni XXII, secondo Papa avignonese, fece della Chiesa cattolica una “impresa commerciale”, completamente prona politicamente alle necessità militari dei discendenti di Filippo il Bello. La vita lussuosa e dispendiosa che svolgeva ad Avignone (finanziata dalla vendita delle cariche ecclesiastiche) contrastava con le richieste del popolo, del basso clero e di grandi figure di pensatori, come Guglielmo di Ockham, per una Chiesa più povera e più aperta verso le istanze dei sofferenti. Papa ignorante, nepotista, simoniaco e blasfemo (ebbe a che dire circa la purezza della Madre di Dio), tentò, col supporto dei domenicani, di dichiarare “eretico” tutto il movimento francescano, a difesa del “suo” diritto alle ricchezze con la seguente motivazione “teologica”: “poiché Gesù e i suoi discepoli avevano il possesso dei loro abiti” e, in più, Matteo “gestiva” le offerte ricevute; il rifiuto del “possesso” da parte degli spirituali, avrebbe costituito prova di eresia di fronte alla Chiesa che invece “anch’essa” “possedeva”. Pertanto, più volte si scagliò contro gli spirituali, con scomuniche, roghi e processi di fronte all’inquisizione. Tommaso da Tolentino, con la sua vigoria e la sua preparazione teologica, più di una volta ebbe a difendere nei tribunali ecclesiastici i suoi confratelli (anche attraversando il Mediterraneo, almeno un paio di volte). Il martirio che subì nel 1321 fece mancare, non solo ai clareni l’aiuto della sua cultura teologica, ma anche a P. Giovanni il suo più valido collaboratore nella Cina dei mongoli. Senza il “ritiro”, da parte di Clemente V, delle potestà precedentemente concesse all’arcivescovo di Pechino, una sua consacrazione a vescovo avrebbe individuato il più degno successore all’arcivescovado e forse avrebbe dato un diverso destino alla cristianizzazione della Cina.

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3. Le pentole senza il coperchio.

Non convince la narrazione di alcune agiografie della scelta – lasciata a Tommaso da Tolentino – dei sette ecclesiastici destinati ad essere consacrati vescovi, ed essere inviati in Cina a consacrare “arcivescovo” P. Giovanni su determinazione di Clemente V. Tommaso da Tolentino, dopo aver comunicato quanto doveva al Papa ed avergli consegnato la lettera di P. Giovanni (la seconda), ritornò subito in Asia, ripartendo nello stesso anno 1307, e giungendo a Pechino nel 1308. Il viaggio Europa-Pechino durava mediamente – via mare – un anno e mezzo; se avveniva, con la fortuna di potersi avvalere di coincidenze rapide, tra arrivi e partenze nei vari porti di sosta obbligata (Tana, Meliapur, Canton ecc.), il tempo impiegato poteva ridursi di qualche mese. La partenza dei sette “prescelti” (poi ridotti a sei) avvenne invece nel 1308 (dopo la “bolla di consacrazione” del Luglio 1307, come riferiscono le agiografie), sicuramente dopo concertazione tra Clemente V e Filippo IV, nella concezione di un disegno di accordo politico-militare tra Francia e impero mongolo (con “impegno” militare in Europa). La consacrazione ad arcivescovo di Pechino e a patriarca d’Oriente di P. Giovanni, concedeva a quest’ultimo pari dignità politica col Gran-Khan, con le stesse potestà del Papa (ma con l’ovvietà della “obbedienza” a Clemente V). La “concertazione tra Re e Papa avvenne quindi nel lasso di tempo di un anno, e la “scelta” dei neo-vescovi non poté avvenire che tra soggetti di sicura obbedienza alla nuova diarchia che si era venuta a stabilire ad Avignone. Infatti, riporta Fra’ Gaspare Han, che Clemente V ordinò al “ministro generale dei frati minori” la scelta dei religiosi. (Il M.G. dei frati minori in Francia non era comunque Tommaso da Tolentino, come talune narrazioni tendono a far credere). Fra i sette prescelti, il neo-vescovo Guglielmo di Villanova, l’unico francese, non partì per la Cina; più tardi si “giocò” la carica ecclesiastica, che aveva ricevuto (senza onorarla), con Giovanni XXII, diventando prima vescovo in Corsica, e successivamente a Trieste. Il Vescovo Gerardo Albuini, giunto a Zaiton vi si fermò, irretito dagli agi e dalle provvigioni che gli assicurarono i cattolici locali (ricchi mercanti armeni e genovesi). È comunque strano (ma spiegabile col sospetto, non del tutto tacitato, che lo 12


spirituale Tommaso da Tolentino potesse essere considerato un “eretico”) che non venisse incaricato proprio lui (quanto meno per consumata esperienza) a guidare il corteo di vescovi e di monaci, e non venisse anche lui consacrato vescovo. Tommaso da Tolentino, ricevuta dal Papa qualche piccola somma, qualche paramento e qualche libro sacro (come richiedeva P. Giovanni) lasciò subito la Curia papale, nello stesso anno (1307) tanto da trovarsi a Pechino già nel 1308. I vescovi nominati nel 1307, partirono nel 1308, o forse nel 1309, giungendo a Pechino nel 1310. Già nel 1311, Clemente V – ripensandoci – nominò altri vescovi (Girolamo di Catalogna, Pietro da Firenze e Tommaso di incerta provenienza), certamente latori della “revoca” delle potestà precedentemente concesse a P. Giovanni. Tanto spiega la mancata nomina a vescovo né di Tommaso da Tolentino (sia da parte di Clemente V, che da parte di P. Giovanni), né di altri ecclesiastici giunti già in Cina dall’Europa, o dal Medio Oriente, né di autoctoni cinesi. Il Vescovo Girolamo di Catalogna, giunto a Pechino, non vi restò: lo ritroviamo in seguito vescovo a Caffa, in Crimea, la “Sicilia della Russia”: il premio per la precedente impresa. Comunque T. da Tolentino – martirizzato in India nel 1321 – è stato “ripagato” dalla Chiesa, dopo 650 anni, con la elevazione a beato.

Nota: Clemente V “aprì” ai francescani e ai “clareni” anche perché era lui stesso francescano, benché soggetto pavido e vile, totalmente assoggettato al Re Filippo IV che lo aveva fatto eleggere Papa. L’”apertura” ai clareni volle significare anche – per ingraziarsi Filippo il Bello – la “discontinuità” col papato di Bonifacio VIII.

4. L’eresia del rifiuto del possesso dei beni.

L’eresia costituiva (e costituisce), per un cristiano, professare idee religiose, in dissidio con quelle stabilite, come dogmi di fede, dalla Chiesa cattolica. Il dogma è il principio accettato senza prova, in ossequio ad una rivelazione, o ad una scrittura della Bibbia o del Vangelo, o per il pronunciamento di un Papa excathedra, o di un concilio. 13


Poiché il Papa è nominato da un conclave, ove gli elettori sono ispirati dallo Spirito Santo; e l’infallibilità del Papa (stabilita col Concilio di Roma, nel 1867) si intende sempre ispirata dallo Spirito Santo; è chiaro che un “eretico”, dichiarato tale da un Papa o da un concilio, non possa “discutere” la sua eresia, ma gli è lasciata soltanto la “libertà” di abiurare. Non gli è lasciata nemmeno la libertà di interpretazione di un passo biblico che (nei secoli) ha superato la traduzione da almeno tre o quattro lingue diverse (alcune tra l’altro “morte”). Credo che il dogma della infallibilità del Papa sia anche “retroattivo”, cioè valga anche per le affermazioni dogmatiche pronunciate prima del Concilio di Roma del 1867 (fior di costituzionalisti della Repubblica Italiana hanno più volte dichiarato la legittimità di una legge applicata in modo retroattivo; e se hanno ragione loro, figurarsi papi e cardinali, direttamente ispirati dallo Spirito Santo). Quindi non si discute neppure un’accusa di eresia proclamata da un papa, seppure nel Medioevo. Non si intende discutere cioè, in questa sede, se fossero veramente “eretici” dei monaci che rifiutavano la “proprietà” di alcunché, in osservanza a quanto aveva stabilito Francesco d’Assisi; e se fossero nel giusto i papi che difendevano le “loro” proprietà” e i loro “possessi” in base ad affermazioni teologiche (alquanto balzane): “Gesù e gli apostoli possedevano le loro vesti, e Matteo amministrava le elemosine ricevute; quindi il possesso di beni terreni era lecito e normale (e fin qui tutto fila liscio) per la Chiesa e per i suoi esponenti, in conformità del comportamento di Cristo e dei suoi apostoli verso il “possesso”. Ma costituiva “eresia” (e qui casca l’asino) il rifiuto del possesso dei beni, di quanti (i francescani) non desideravano avere il possesso di alcunché. I papi avevano comunque ragione (se ci si riferisce a sette o otto secoli fa), anche in base alla retroattività della infallibilità di oggi. Ed ogni discussione termina qui. Soltanto, nei nostri giorni, da laici ci si può azzardare ad esprimere un giudizio diverso, “inficiato” però da più di due secoli di educazione e cultura illuministica; ma la morale nel Medioevo era determinata unicamente dalla parola della Chiesa. Oggi, liberamente, si può credere, non credere, credere in altra religione cristiana o non cristiana, e senza il pericolo di scomuniche, di roghi o di processi dell’inquisizione e interrogatori gentilmente sostenuti con tenaglie roventi. Ciascuno può liberamente formarsi un giudizio, conoscendo i fatti storici, e secondo la propria coscienza.

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Il mio giudizio, in queste pagine, è già stato liberamente espresso, e in modo (spero) inequivocabile.

5. L’eresia di Angelo Clareno.

Fra’ Angelo Clareno (noto anche come Angelo da Fossombrone) era nato a Chiarino nel 1255; frate dell’ordine francescano, aderì presto alla corrente degli “spirituali”, che propugnavano una rigorosa fedeltà all’ideale della povertà assoluta, predicata da Francesco d’Assisi; questa corrente, fondata da Ubertino da Casale (1259-1338) si distingueva per una mistica intransigenza verso l’arricchimento degli ordini religiosi e della stessa Chiesa cattolica. Già Papa Niccolò III ebbe a censurare queste teorie con la bolla del 1274 (exit qui seminat), considerandole un’eresia. Angelo Clareno si avvicinò anche alle idee del mistico Gioacchino da Fiore, calabrese, che non dissimulava le sue teorie vicine al ghibellinismo (“orrore!”, avrebbe esclamato il povero Gigi Sabani); naturalmente anche i seguaci di Gioacchino da Fiore erano considerati eretici. Per questi motivi, già nel 1280 Angelo Clareno fu condannato al carcere a vita (e gli andò bene…). Nel 1289, per intervento del ministro generale dell’ordine dei francescani, Raimondo Gaufridi venne liberato, e “allontanato” (dal rogo) avviandolo in Armenia con altre “teste calde”, convinte, anch’esse pervicacemente, che il francescanesimo dovesse essere vissuto in povertà, Tommaso da Tolentino, Angelo da Tolentino, Marco da Montelupone e Pietro da Macerata. Poté ritornare in Italia nel 1294 con l’elezione al (breve) pontificato di Celestino V. Ma con Bonifacio VIII, riprese la persecuzione contro gli “spirituali”, e nel 1299, Angelo Clareno fu costretto a rifugiarsi in Grecia, ove imparò il greco e tradusse in latino varie opere di “patristica” (il complesso delle dottrine elaborate dai padri della Chiesa). Protetto dal Cardinale Giacomo Colonna (nemico naturale della stessa memoria di Bonifacio VIII della famiglia Caetani, nemica storica dei Colonna), rientrò in Italia nel 1305, dopo la morte di Bonifacio VIII, diventando il capo degli spirituali delle Marche e dell’Umbria (i “clareni”). Nel 1311 fu convocato ad Avignone, da Papa Clemente V che lo “processò” e lo riabilitò, con un atto che annullava quello del precedente Papa Bonifacio VIII, un chiaro segno di distanziamento, per ingraziarsi il Re Filippo il Bello che lo aveva fatto 15


eleggere papa, e che con Bonifacio VIII, dopo un lungo amore, aveva avuto uno scontro senza precedenti nella storia della Chiesa. Ma alla morte di Clemente V, avendo ottenuto un grande successo di popolo, fu considerato un “pericolo” dal nuovo Papa Giovanni XXII, e dovette rifugiarsi a Subiaco, dove fondò l’ordine dei “fraticelli” nel 1318 (o “fratelli della vita povera”), indipendente dal resto del movimento francescano. I fraticelli contestavano anche la legittimità dell’autorità papale (“orrore!” avrebbe nuovamente esclamato Gigi Sabani). Per sfuggire all’inquisizione, si ritirò a Marsico Vetere, in Basilicata, presso il convento di Santa Maria di Loreto, sempre predicando la povertà degli ecclesiastici, e il rinnovamento della vita in attesa dell’apocalisse. Qui vi morì nel 1337. I suoi seguaci formarono la “congregazione dei clareni” riconosciuta dalla Chiesa e riunita ai francescani definitivamente nel 1568 con Papa Pio V, con la denominazione di “osservanti”. N.B. “Tre volte orrore”!!! I fraticelli espressero, a seguito di un concilio voluto da Ludovico il Bavaro, l’Antipapa Niccolò V (Pietro da Corvara) loro capo; il concilio dichiarò anche la deposizione di Giovanni XXII (quattro volte “orrore”!).

Nota: I francescani comunque, nel Medioevo, costituirono sempre, talvolta involontariamente, lo spirito critico all’esercizio del potere temporale della Chiesa (esercitato attraverso intrighi, scomuniche e guerre). Costituirono molto spesso una vera e propria spina nel fianco verso alcuni papati, che reagirono con persecuzioni e con i processi dell’inquisizione (in mano ai domenicani). Già Francesco d’Assisi aveva dovuto più volte “giustificarsi”; non subì la prigione, soltanto perché, “isolato” e considerato “pazzo e ignorante”, rispettò sempre la Chiesa cattolica, evitando attacchi frontali alla gestione politica del potere religioso. Dopo di lui, il movimento francescano fu violentemente percosso da altri papi, in particolare Bonifacio VIII e Giovanni XXII, che non tollerarono “critiche” alle loro allegre gestioni della Chiesa.

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Fra’ Angelo Clareno

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6. Un beato, “quasi eretico”.

Tommaso da Tolentino, nato nel 1260, entrò nell’ordine francescano nel 1275. Già nel 1287, insorse con altri confratelli contro l’abuso dei “minoriti” di raccogliere denaro in chiesa, di abbandonare i piccoli conventi, per costruirne altri grandi e sontuosi. Imprigionato come seguace di Angelo Clareno, fu liberato insieme a lui e altri confratelli nel 1289, dal ministro generale dell’ordine Raimondo Gaufridi. Ma, nello stesso anno, continuando la loro predicazione e fomentando dissidi, furono inviati dallo stesso Raimondo Gaufridi, come missionari, nel Regno armeno di Cilicia (piccola Armenia), assecondando la richiesta dell’i-Khan mongolo Aitone II, e soprattutto per preservare la loro vita. La minaccia dei saraceni sul regno di Aitone II, spinse l’i-Khan a rinviare Tommaso, Angelo da Tolentino e Marco da Montelupone come ambasciatori presso Niccolò IV. Nel Gennaio 1292, il Papa li ricevette e li rinviò al Re di Francia, Filippo il Bello, e al Re d’Inghilterra, Edoardo I. Alla richiesta di aiuti militari da parte di Aitone II, naturalmente i re risposero con belle parole. Nello stesso anno (1292) cadde, per sempre, in mani islamiche San Giovanni d’Acri, sulla costa Siro-Palestinese. Di lì a pochi anni, la Francia iniziò la guerra contro l’Inghilterra per il possesso delle Fiandre e per il controllo del commercio della lana. Aiuti militari, ai mongoli e ai cristiani di Asia Minore, non ne giungeranno mai dai re “cattolici” d’Europa, fino al crollo dell’impero mongolo e alla definitiva conquista islamica del Medio Oriente. Nel 1295, Tommaso da Tolentino ritornò in Italia per difendere i “clareni” davanti al ministro generale dell’ordine, Giovanni da Morrone. Nel 1307 tornerà in Francia, presso Clemente V, primo Papa avignonese, per chiedere aiuti per Giovanni da Montecorvino, missionario in Cina, isolato e dimenticato. Nello stesso anno, ripartì verso la Cina, giungendo verso la fine del 1308 a Pechino, e vi resterà, al fianco di P. Giovanni, sino al 1320, collaborando alle funzioni e allo sviluppo dell’arcivescovado. 18


Nel 1320 è nel porto di Ormuz (piccola isola del Golfo Persico, controllata dall’iKhan di Persia). Nel 1321, è a Tana (isola di Salsetta) di fronte alla costa occidentale dell’India, ove viene soppresso insieme a tre confratelli da un gruppo di islamici, su sentenza del Cadì locale (scampato alla violenza religiosa “cattolica” in Italia, incappò nella violenza religiosa islamica in India). Non si sa se stesse evangelizzando in India, o fosse diretto nuovamente verso l’Europa, o se dall’Europa stesse tornando in Cina. Certo è che, in Cina, era restato con P. Giovanni, Arcivescovo di Pechino, per circa 12 anni, collaborando con lui nella predicazione e nella organizzazione della Chiesa cattolica. Collaborazione che fu piena e leale, fattiva ed accettata, senza dissensi o dispute. Poiché la beatificazione, per equipollenza, avvenne soltanto nel 1894 grazie a Papa Leone XIII; e soltanto nel 1568 i clareni, ribattezzati francescani “osservanti” erano stati pienamente riconosciuti dalla Chiesa, sorge il dubbio che i vari papi – succeduti a Giovanni XXII (1316) sino al 1568 – abbiano sempre considerato Tommaso da Tolentino, e i clareni, “eretici” coperti, o quanto meno “deviazionisti” (se vogliamo usare un termine moderno); e pertanto i portatori del “contagio” ereticale verso quanti li “accettavano”, compreso l’arcivescovo di Pechino. Ragione (anche comprensibile) per un “oscuramento” non soltanto per Tommaso da Tolentino, ma anche per chi ne accettò l’amicizia, la vicinanza e la collaborazione fraterna. Invece, dalla beatificazione di Tommaso da Tolentino, passarono soltanto 30 anni perché finalmente i vescovi (cinesi!) potessero accorgersi e palesare che la loro Chiesa fosse stata fondata, 600 anni prima, da P. Giovanni da Montecorvino. I cattolici cinesi conoscevano – nel 1924 e precedentemente – la figura e la storia del fondatore della Chiesa cattolica in Cina. E’ in Italia, invece, ove si discute ancora se la “prima” fondazione sino alla “rifondazione” di Matteo Ricci (tre secoli dopo), sia stata “interrotta” da un periodo di tempo troppo lungo tanto da perdere la “presenza” del cattolicesimo in loco. Benché i francescani abbiano abbondantemente dimostrato che, nonostante le persecuzioni, l’insegnamento di P. Giovanni e dei suoi “collaboratori” non si spense mai; lo stesso Matteo Ricci, il cui “ordine” è in concorrenza coi francescani, circa la “prima” evangelizzazione della Cina, afferma che, al suo tempo, esistevano ancora cattolici (sebbene impauriti e diffidenti) che parlavano della conversione dei loro avi operata dal “grande Bonzo bianco”. 19


Le stesse ricerche archeologiche – condotte dal governo comunista cinese “attuale” – confermano l’opera ampia di cristianizzazione operata in Cina dall’arcivescovo di Pechino. Chi aveva dimenticato (o “aveva voluto”?) invece, era stata la Chiesa cattolica che – ancora nel 1926 – per presentare la figura di P. Giovanni alla santa congregazione per la venerazione dei santi, si rifaceva a vecchie, inesatte notizie fornite, all’epoca distrattamente dal Marignolli (mandato in Cina, per altri fini che non la cristianizzazione del popolo mongolo e cinese), tanto da dover interrompere il lavoro per la canonizzazione. All’epoca del Marignolli, qualcosa (di non “compromettente”) riguardante P. Giovanni da Montecorvino, doveva pur esistere ancora presso l’archivio dell’arcivescovado, nonostante i precedenti passaggi di Odorico e del Decora. Evidentemente il “nunzio apostolico” Marignolli, era troppo occupato a portare a termine le pulizie di primavera. Lo scrivente dispera che, riguardo P. Giovanni, si possa ancora trovare qualcosa di “non conosciuto” negli archivi (ex-segreti) vaticani. Ma anche la sua terra natale non aveva più memoria del suo più grande figlio, tanto da incidere persino nelle lapidi, che intendevano ricordarlo, grossolani errori storici. E non si può tacere, e stigmatizzare, l’ignoranza di una amministrazione comunale che, verso la fine degli anni cinquanta, ha distrutto – per sempre – la sua unica antica immagine (del XVI sec.) in un affresco del chiostro nel convento degli “osservanti” in M. Pugliano. M. Rovella, per non essere da meno, ha recentemente discusso (seriamente!) la possibilità di ridurre le dimensioni della piazza dedicata a P. Giovanni.

7. Aitone II e le missioni affidate a T. da Tolentino e P. Giovanni.

Almeno nell’anno 1289, P. Giovanni e Tommaso da Tolentino furono insieme in Medio Oriente (ancor prima del periodo 1308-1320 presso l’arcivescovado di Pechino), insieme forse anche alla corte di Aitone II, nell’Armenia di Cilicia. Nel 1291 Tommaso da Tolentino, venne inviato da Aitone II presso il Papa Niccolò IV in Avignone, a richiedere aiuti militari. Nel 1289, sempre su richiesta di Aitone II,

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toccò a P. Giovanni di recarsi da Niccolò IV, sempre per lo stesso motivo (P. Giovanni era in Medio Oriente già dal 1279). Riporta P. Salvatore Zavarella (su missioni francescane n.11 – Nov. 1990) citando il Marignolli e riferendosi a P. Giovanni “egli fu devoto imitatore di San Francesco, rigoroso e severo con se stesso (cfr. cronache di Fra’ Elemosina). Probabilmente faceva parte dei frati chiamati “spirituali”. Ne fa fede anche Fra’ Pellegrino di Castello, Vescovo di Quan-Zhou (Zaiton)”. In verità nell’unica lettera conservata di F. Pellegrino di Castello, non è citata la vicinanza di P. Giovanni agli “spirituali” almeno come è riportata (integralmente?) da Fra’ Gaspare Han nella sua opera su P. Giovanni del 1966. Ma è anche vero che, in almeno tre punti, la lettera di Fra’ Pellegrino da Castello, è “interrotta” da una serie di “puntini sospensivi”. I puntini sospensivi li metto anch’io: <<…….>>.

Nota: I paragrafi 8, 9, 10, 11 riguardano fatti storici avvenuti quasi tutti dopo la morte di P. Giovanni. Entrano a far parte di questa pubblicazione, per far rendere conto al lettore della situazione politico/religiosa intercorrente tra movimento francescano, papato avignonese, Regno di Francia ed impero tedesco; e degli effetti del papato di Avignone (durato circa 70 anni) che portarono al grave “scisma d’occidente” all’interno della Chiesa cattolica.

Nota: Il Marignolli fu mandato come “nunzio” presso l’imperatore dei mongoli nel 1338, ove rimase tre anni. Non incontrò Fra’ Pellegrino da Castello da cui avrebbe tratto notizie circa la “frequentazione” di P. Giovanni con gli spirituali, perché Fra’ Pellegrino era già morto nel 1323.

8. Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro.

Giovanni XXII, alla morte di Enrico VII, si propose come “mediatore” (per conto del re francese) nelle lotte di successione al trono tedesco; ma dal conflitto civile emerse Ludovico IV di Baviera, detto appunto Ludovico il Bavaro, il candidato meno gradito per il re francese e il papa d’Avignone. 21


Ludovico IV si fece incoronare Re di Germania (1322) senza chiedere la ratifica pontificia, e intervenne in Italia in appoggio ai vicari imperiali, i Visconti di Milano. Giovanni XXII, prontamente scomunicò l’imperatore (1324); e questi rispose accusando il Papa di abuso del potere temporale e di eresia: accuse entrambe fondate, tanto più che le accuse dell’imperatore ricalcavano le stesse accuse, precedentemente osate da Filippo IV contro Bonifacio VIII. Inoltre Giovanni XXII aveva emesso pareri su questioni teologiche (e non solo sul concetto cristiano di povertà) che erano delle autentiche bestialità. La sete di ricchezze e di potere di Giovanni XXII, aveva fatto costituire un movimento di spiriti sinceramente religiosi, convinti della necessità del ritorno della Chiesa ad uno stato di povertà e di umiltà come quello delle origini. Tra costoro, il gruppo d’ispirazione francescana dei “fraticelli. Nel 1327, Ludovico il Bavaro si fece incoronare a Roma dal Senatore Sciarra Colonna (quello dello schiaffo a Bonifacio VIII), poi riunì un concilio che depose Giovanni XXII ed elesse papa il capo dei “fraticelli”, Pietro da Corvara, che assunse il nome di Niccolò V. Nel 1338 l’imperatore fece dichiarare ai principi tedeschi che l’elezione del re di Gerusalemme e futuro imperatore non necessitava di alcuna ratifica papale, derivando direttamente da Dio, e avendo a base l’elezione dei principi.

Sciarra Colonna 22


9. Guglielmo d’Ockham e Marsilio da Padova.

Marsilio da Padova, pensatore e studioso padovano, fu docente alla Sorbona, tanto da ricevere da Giovanni XXII anche una carica canonicale. Nel 1324 pubblicò un trattato di teoria politica, il “Defensor Pacis”, ove si sosteneva la piena autonomia dell’autorità politica da quella religiosa, a fondamento della quale vi era il “popolo”, si proponeva l’elezione dei vescovi da parte di assemblee popolari, e che la massima autorità ecclesiastica fosse non il papato ma il concilio. Naturalmente fu costretto a fuggire, e rifugiarsi presso l’imperatore, che poi accompagnò nella discesa in Italia (1327-1328). Guglielmo d’Ockham, inglese, entrò molto giovane nell’ordine francescano e studiò presso l’università di Oxford, dove in seguito svolse attività di docente. Nel 1324, si recò ad Avignone presso Giovanni XXII (dove una commissione di teologi esaminò alcune sue opere, ritenute “non conformi”). Qui conobbe Michele da Cesena, ministro generale dell’ordine francescano, col quale condivideva l’idea (avversata dal papa) che alle comunità monastiche potesse spettare l’uso, ma non la proprietà dei beni. Nel 1328, Guglielmo d’Ockham e i confratelli francescani fuggirono da Avignone (temendo le reazioni del papa) e ripararono a Pisa, presso Ludovico il Bavaro. Là li raggiunse la scomunica di Giovanni XXII. Pubblicò il “Dialogus” ove sosteneva che l’autorità imperiale derivasse da Dio, non tramite il papa, ma tramite il suo popolo. Inoltre l’imperatore era superiore alle leggi, purché esse non fossero nocive al popolo (in caso contrario, al popolo sarebbe stato lecito disubbidirgli). Quindi la delega del popolo all’imperatore era subordinata al suo buon governo. Marsilio di Padova e Guglielmo d’Ockham furono (nel 1300!) a fondamento del potere statale modernamente inteso.

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10. La Crociata “antighibellina” di Giovanni XXII.

In occasione della discesa in Italia dell’imperatore Ludovico IV (il “Bavaro”), il Papa Giovanni XXII gli promosse contro una “crociata” dopo l’ultima “vera” crociata in cui morì il Re Luigi IX (1270); più volte, diversi papi bandirono “crociate” che con la liberazione di Gerusalemme nulla avevano a che vedere. Già la IV Crociata contro Costantinopoli, la Crociata contro gli albigesi e la Crociata contro le popolazioni baltiche non avevano alcun intento “liberatorio” dei territori “sacri” ove era nato, vissuto e morto Cristo; ma denominare “crociata” una spedizione militare o una guerra vera e propria, contro un occasionale nemico dei re francesi o del papa regnante, permetteva (giuridicamente) al papato di poter utilizzare il tesoro delle “decime” che i popoli cattolici versavano al Papa, per la liberazione della Terra Santa. Finché non venne definitivamente meno il “vincolo” dell’obbligo della liberazione di Gerusalemme (cioè, finché non si abbandonò definitivamente l’idea della riconquista, per l’impossibilità materiale di sopravanzare militarmente il mondo mussulmano), più volte si abusò dell’obbligo (per i cattolici) di organizzare e partecipare ad estemporanee “crociate” che alcuni papi bandirono per ben altri fini: già Bonifacio VIII aveva bandito una crociata, contro la “famiglia Colonna”); un’altra contro i “Vespri siciliani” il Papa Martino IV (1281-1285); e il Papa Alessandro IV aveva indetto la “Crociata Guelfa” contro i Ghibellini del Nord-Italia (1258-1259).

11. Il “grande” e il “piccolo” scisma d’occidente. La sottomissione del papato alla monarchia francese – durata circa 70 anni – a seguito della “cattività avignonese”, alla fine indusse (per la pacificazione della cristianità e la rifondazione di una Chiesa più vicina al messaggio evangelico delle origini) al ritorno della Curia a Roma. Non soltanto per le invocazioni di mistici (Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Venturino da Bergamo…), ma anche perché la monarchia francese era in quel momento troppo “presa” (ovvero in difficoltà) nella guerra dei cento anni; nel 1367, Papa Urbano V, si reinsediò nuovamente in San Pietro. Per fuggirne soltanto tre anni dopo, e far ritorno in Avignone (1370), a causa dei torbidi e delle congiure organizzate dai “nobili” romani. Dopo questa breve esperienza, fu il Papa successivo Gregorio XI a rientrare in Roma, morendo appena in tempo a non prendere la stessa via del predecessore. 24


Al conclave che seguì, i cardinali francesi (che erano in stragrande maggioranza) erano già pronti ad eleggere il “proprio” papa, impacchettarlo e portarlo ad Avignone; ma il “popolo” romano che aveva sperimentato che, col ritorno del papa a Roma, erano ritornati anche gli affari e il denaro, fece una “piazzata”, minacciò i cardinali e impose l’elezione del Papa Urbano VI (Bartolomeo Prignano). Costui, una volta eletto, non tentò neppure di mediare col collegio cardinalizio, ma si comportò in modo dispotico, benché la sua elezione fosse avvenuta sotto la minaccia del “popolo” romano, e pertanto sospetta di (evidente) invalidità. I cardinali francesi, riuniti a Fondi, dichiararono nulla l’elezione di Urbano VI e scelsero un nuovo Papa, Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VI. Il suo primo atto, fu il tentativo di invadere Roma e cacciare (possibilmente, in galera) il suo avversario. Il tentativo venne annullato dal condottiero Alberico da Barbiano. I cardinali francesi e il loro papa fecero ritorno ad Avignone, e la Chiesa restò divisa per 50 anni (1378-1417). I due papi si scomunicarono a vicenda, con le rispettive Curie. Col papa di Roma, restarono tedeschi, inglesi, italiani del centro-nord e fiamminghi. Col papa di Avignone, naturalmente i francesi, l’Austria, il Brabante, il Regno di Napoli, l’Aragona, la Castiglia (in seguito avvennero mutamenti dall’uno all’altro campo). Tuttavia, da entrambe le parti non mancarono personaggi d’indubbia spiritualità: Caterina da Siena, col papa di Roma; Vincenzo Ferrer col papa avignonese. Nel 1409, un conclave – riunito a Pisa – elesse un nuovo papa, per cercare di ricomporre lo scisma: risultò eletto Pietro Filargo che prese il nome di Alessandro V (1409-1410). Ma gli altri due papi, si guardarono bene dal dimettersi, e così sino al 1417 si ebbero contemporaneamente tre papi. La maggior parte dei vescovi e dei regni europei si schierarono col papa eletto dal concilio pisano (godendo dell’appoggio dei banchieri fiorentini, soprattutto della casa bancaria dei Medici). Restarono dalla parte del papa romano, la Baviera, la Repubblica di Venezia, e il Re Ladislao I d’Angiò-Durazzo di Napoli; restarono col papa d’Avignone, la Francia, l’Aragona e la Castiglia.

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Nel 1414, il “re dei romani” Sigismondo di Lussemburgo-Boemia, indisse un concilio nella città di Costanza su tre temi: 1) Composizione dello scisma. 2) Riforma delle istituzioni della Chiesa. 3) L’organizzazione di una nuova crociata contro i turchi. All’autorità di questo concilio, si sottomisero i tre papi in carica. Al loro posto venne eletto Ottone Colonna, col nome di Martino V; il concilio stabiliva la superiorità del concilio sul papa e sull’intera Chiesa, e la convocazione del concilio ogni 5 anni. Naturalmente, non se ne fece niente. Il Concilio di Pavia (1423) e il Concilio di Basilea (1431) non conclusero alcunché. Papa Eugenio IV, anzi, trasferì il concilio da Basilea prima a Ferrara (1337), poi a Firenze (1439). Al Concilio di Firenze, uno dei più fastosi della storia, intervennero anche prelati delle chiese cristiane di oriente, con la richiesta di una Crociata contro i turchi, in cambio di una ricomposizione dello “scisma d’oriente” del 1054. Puntualmente non avvenne né la crociata, né la ricomposizione con la Chiesa di Costantinopoli. Intanto alcuni prelati, presenti al Concilio di Basilea, che si erano rifiutati di seguire il papa a Ferrara e a Firenze, diedero origine ad un nuovo scisma (piccolo scisma d’occidente), elevando al papato Amedeo VIII di Savoia, che “resistette” sino al 1449, quando si ritirò in un confortevole monastero. Con queste operazioni, crollava il costrutto del “conciliarismo” come strumento del governo della Chiesa, e si passò ai “concordati” tra i vari paesi e la Chiesa; nasceva il concetto di “Chiesa nazionale”, ove i sovrani mediavano col papa una certa libertà nella gestione della Chiesa nel loro territorio (ratifica della nomina dei vescovi, diritti nel controllo dei beni della Chiesa, giuramento di fedeltà dei vescovi), ovvero la “Chiesa gallicana” in Francia, e la “Chiesa anglicana” in Inghilterra. (“Concetto” che favorì non poco i successivi scismi luterano ed anglicano).

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Il Re-Santo Luigi IX

Papa Martino IV

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CAPITOLO TERZO Il XIV secolo, il secolo delle “crisi”.

1.

All’inizio del XIV secolo, alla carestia e alla peste si aggiungeva la sempre più forte “mondanizzazione” della Chiesa, in special modo durante la “cattività” avignonese; laddove la Curia era letteralmente invasa da giuristi, banchieri, letterati, cioè da quei ceti che pienamente rappresentavano il potere del denaro. Quindi, negli strati popolari, diventò sempre più forte la richiesta di una Chiesa rivolta verso i poveri e gli umili e, dal versante culturale, l’adozione del “volgare” nella liturgia al posto del latino (cosa che restò vietatissima sino allo scorso secolo), e la lettura diretta delle scritture (che all’epoca era riservata agli ecclesiastici, che poi la dovevano “spiegare” al popolo). Si moltiplicarono così i “predicatori” popolari, spesso incolti e incoerenti, che affermavano fossero ormai alle porte l’anticristo, la fine del mondo, la seconda venuta di Gesù e il giudizio universale. Nascevano istanze differenti, pur in presenza dello stesso tema della fine dei tempi, come, da una parte, i “fratelli del libero spirito” che affermavano la assoluta libertà del cristiano; dall’altra masse di penitenti (come la “Devozione dei Bianchi”) che percorrevano i territori predicando la penitenza e la fine delle discordie. I poco edificanti esempi forniti dai papi, prima durante il periodo avignonese, e successivamente durante lo “scisma d’occidente”, dettero vita a movimenti di critica nei confronti del papato, del sacerdozio e dei sacramenti. Tra questi, il sacerdote John Wyclif professore dell’università di Oxford che sosteneva la tesi che la “scrittura” fosse sufficiente a ciascun fedele per comprendere la volontà di Dio, e che sacramenti, indulgenze, culto dei santi fossero cose inutili, e che quindi la Chiesa non avesse alcun diritto a svolgere funzioni di mediazione tra Dio e i fedeli. Le idee del Wyclif si estesero anche fuori dall’Inghilterra, particolarmente in Boemia, grazie a Jan Hus; qui, si aggiunse una vigorosa passione nazionalista contro l’egemonia tedesca. 28


Jan Hus, attirato con un tranello a Costanza (con la promessa di un salvacondotto), fu arrestato e bruciato sul rogo. Ma il suo movimento non si arrestò, anzi diede vita ad una vera e propria guerra civile con a capo Jan Zizka; da queste basi, partì nel 1500 la Riforma luterana. E mentre, all’esterno della Chiesa, si sviluppavano questi nuovi movimenti “ereticali”, all’interno di essa, in tutta Europa, si diffuse il movimento delle “osservanze” domenicane e francescane, che spingevano gli ordini al rigore delle origini, e si impegnavano alla predicazione in “volgare”. Fino al 1300 la cristianità – pur tra crisi profonde – non aveva mai messo in discussione la sua identità unitaria, guidata da due autorità, una spirituale (il papa) e un’altra politica (l’imperatore). Ma dopo Federico II e Bonifacio VIII, con la costituzione delle monarchie nazionali, questa identità unitaria del cattolicesimo venne meno, con monarchie e papato che interferivano tra loro, per la preminenza di ciascuna parte sull’altra.

2. Le crociate vere, e quelle “fasulle”.

All’epoca di P. Giovanni, le “crociate” erano ormai finite, sebbene credesse ancora possibile organizzarne il primo Papa francescano, Niccolò IV e che per tale motivo inviò P. Giovanni in Cina, alla corte di Kubilay-Khan, alla ricerca di una (non impossibile) alleanza contro gli islamici, nel territorio Siro-Palestinese, per la “liberazione” di Gerusalemme. Già è stato spiegato perché Kubilay-Khan, auspicasse tale alleanza, ma purtroppo quando P. Giovanni arrivò a Pechino (1294), l’imperatore era morto già da qualche mese. Ancora per un paio di secoli, ci furono papi che “tentarono” di convincere i re cattolici d’Europa ad intraprendere, quanto meno – sotto il nome di crociata – il tentativo di ridimensionare l’espansionismo islamico in Asia Minore, portato avanti non più da arabi, ma dai turchi. Di promesse dei re (fino alle loro incoronazioni) ce ne furono tante, e di belle parole dei papi altrettanto; ma ormai lo squilibrio militare (e finanziario) tra la potenza turca e mamelucca e quella dei regnanti europei, era fortemente a favore dei primi. E lo resterà, fino alla scoperta dell’America, e l’incanalamento dei traffici commerciali dell’Europa verso il nuovo mondo, abbandonando la via della seta, e la “tassazione” obbligata alle zone islamiche 29


attraversate anche perché la Cina resterà chiusa ai contatti (e ai commerci) con l’Europa sino a fine 1800. Soltanto gli inglesi – a cannonate – erano riusciti ad imporre alla Cina l’oppio che producevano in India, e qualche commercio lo mantenevano con grandi difficoltà i portoghesi. L’ultimo tentativo di crociata fu promosso nel 1464 da Papa Pio II. Ma al porto di partenza della spedizione, arrivò soltanto una nave veneziana. Sui libri di storia, c’è un ampio numero di crociate, ma di quelle veramente dirette in Terrasanta a liberare il “Santo Sepolcro”, ce ne furono poche; a parte quelle tragiche dei “bambini” e dei “pezzenti” (quella dei bambini finì con la consegna, in mare, dei giovani imbarcati, ai mussulmani in qualità di schiavi, traditi da due “furbi” armatori; quella dei “pezzenti”, dopo essere iniziata male, con stragi di ebrei e ruberie in Europa, finì peggio, con il massacro di tutti i “crociati” che, disarmati, a Nicea, si attendevano il miracolo dell’apertura delle porte di Gerusalemme e la conversione spontanea degli “infedeli”): la crociata (la “prima”) del 1096, guidata da Goffredo di Buglione, nel 1099 veramente liberò Gerusalemme. La “seconda” del 1147, franco-tedesca, finì con due gravi sconfitte, dei tedeschi nelle gole del Tauro, e dei francesi davanti Damasco. La “terza” avvenne nel 1189, ove morì Federico Barbarossa; con l’assedio di Tolemaide, espugnata soltanto dopo 3 anni da Riccardo Cuor di Leone, le perdite furono tante che i crociati furono costretti alla pace con Saladino e a ritornare in Europa. Nel 1219, vi fu una vana scorreria in Terrasanta di Giovanni di Brienne e di Andrea II, re di Ungheria. Nel 1228, vi fu la Crociata di Federico II che, trattando col Sultano d’Egitto Malik Al Kamil, riuscì ad ottenere la Città di Gerusalemme, però priva di mura e di difese militari. Tornato Federico in Europa, i Mamelucchi si ripresero la città santa, alla fine del califfato Fatimida. Nel 1248, e nel 1270, vi furono le due (e ultime) crociate in Africa del Re di Francia Luigi IX; nella crociata del 1248, fu fatto prigioniero; in quella del 1270 vi morì. Altre “crociate” non furono dirette in Terrasanta, ma dirette ad altri fini. La cosiddetta “quarta” crociata si consumò col saccheggio di Costantinopoli, e la dissoluzione (in staterelli “crociati”) dell’Impero romano d’Oriente. La “crociata” contro gli “albigesi” fu un regolamento di conti contro una setta “eretica”, peraltro “pacifista”, che dava fastidio per le sue critiche all’opulenza della Chiesa, e il suo proselitismo. Aveva inoltre la malasorte di essere insediata in territori ricchi che facevano gola ai regnanti francesi. La “crociata” contro i popoli baltici fu soltanto una guerra di conquista dei tedeschi. 30


La “Crociata” Guelfa fu una “guerra civile” in Italia, fomentata dal papato, tra guelfi e ghibellini. Bonifacio VIII proclamò addirittura una crociata contro la “famiglia Colonna” nemica della propria (i Caetani); un’altra la proclamò contro gli Aragonesi il Papa Martino IV per i Vespri siciliani. Anche Giovanni XXII proclamò “crociate” contro Ludovico il Bavaro; come anche Clemente V contro l’eretico “apostolico” Fra’ Dolcino Tornielli. Col tempo, la proclamazione di “crociate”, affatto dirette a liberare il “Santo Sepolcro”, divenne soltanto il sotterfugio per mettere le mani (per finanziare guerre “personali”) sul tesoro delle “decime”, che da tutti i cattolici d’Europa venivano versate ai vescovi (e al papato) per la “liberazione dei luoghi santi”. Poiché queste “decime” erano sacre, cioè chi non le versava veniva scomunicato, ed usarle diversamente che per una crociata costituiva un sacrilegio (anche se commesso da un papa), i papi, by-passarono il sacrilegio, proclamando “crociate” anche guerre contro nemici politici o personali, o a favore di re “amici”.

Nota: La rivolta dei “Vespri”, scoppiò improvvisa e violentissima a Palermo il 31 Marzo 1282, Martedì di Pasqua, contro i francesi di Carlo d’Angiò; il quale fu costretto a far sbarcare sul suolo della Sicilia il suo esercito, già in procinto di veleggiare verso Costantinopoli per una singolare (e vile) crociata “contro” Costantinopoli (e la dinastia dei Paleologo), appoggiata dal Papa Martino IV, onde ottenere il titolo di “imperatore d’Oriente” e il controllo dei traffici (e dei dazi) verso l’Asia. I re francesi, all’epoca, erano fortemente indebitati verso le banche italiane (particolarmente quelle genovesi e pisane) e, probabilmente in combutta coi genovesi, tentarono di rinnovare i “fasti” della IV Crociata, saccheggiando nuovamente Costantinopoli, con la benedizione di Martino IV. Il “Regno imperiale” di Costantinopoli, dopo l’intermezzo crociato e il prepotere dei veneziani, con l’aiuto dei genovesi, venne ripreso dalla dinastia greca dei Comneno; e dopo un “contro golpe” ad opera dei veneziani, i genovesi erano stati nuovamente emarginati nei commerci con l’Oriente, dalla nuova dinastia greca dei Paleologo, più favorevole ai veneziani. Per cui Genova cercò occasione per rendere la pariglia. Purtroppo la “spedizione” contro Costantinopoli non poté neppure partire e, impegnato in un nuovo conflitto in Sicilia che durerà 20 anni, il regnante francese Filippo il Bello, già gravato dal conflitto nelle Fiandre contro gli inglesi, fu costretto a “bussare a soldi” 31


presso l’amico Papa Bonifacio VIII, col prelievo delle “decime” della Chiesa destinate unicamente alle crociate. L’amicizia è bella, ma i soldi sono ancora più belli: Bonifacio VIII rifiutò di finanziare (come invece precedentemente il papato aveva fatto in Sicilia contro i comuni nemici Aragonesi) la guerra nelle Fiandre, per non inimicarsi il re inglese. Ne conseguì il violento scontro tra Filippo il Bello e il Papa. Ma, a morte di Bonifacio VIII, col più docile Papa Clemente V, Filippo IV poté “rifarsi” col tesoro dei Templari, nonché attingere ampiamente alle “decime” della Chiesa, custodite per le crociate.

3. Perché fallì l’alleanza coi mongoli.

Con la caduta di Bagdad in mani mongole, i territori mussulmani in Medio Oriente, si trovarono schiacciati tra i mongoli ad Oriente e gli europei (stati crociati) sulle coste Siro-Palestinesi e impero bizantino, ad Occidente. Involontariamente, europei e mongoli vennero a trovarsi come potenziali alleati contro il violento espansionismo mussulmano, non più arabo, ma turco e mamelucco. Una situazione favorevolissima ai cristiani d’Europa, mai più ripetuta, ma perduta dalla incapacità dei “cattolici” a coalizzarsi “tra loro”, con i bizantini, con gli iKhanati mongoli, con le stesse frange arabe scite (ostili ai turchi sunniti). Anzi con la “presa di Gerusalemme” (1° Crociata), la conquista estremamente violenta, ed inutilmente conclusa con una strage verso gli sciti egiziani (con i quali esisteva quanto meno una precedente tacita intesa, con l’attacco contemporaneo dei crociati contro Antiochia, e degli sciti contro Gerusalemme), tolse per sempre la possibilità ai “cristiani” di poter strategicamente (o localmente) dividere le diverse fazioni religiose dell’Islam, spesso in conflitti armati tra loro. La “quarta crociata”, col saccheggio di Costantinopoli e la polverizzazione dell’impero bizantino, rese impossibile qualsiasi successiva intesa militare con una potenza militare “naturalmente” amica. Le ripetute ambascerie, per circa un secolo, degli i-Khan di Persia ed Armenia ai papi, ai re di Francia ed Inghilterra, che chiedevano aiuti per i popoli cristiani che vivevano dentro o ai margini dei loro regni, restarono sempre lettera morta. Soltanto un grande papa, il primo Papa francescano, Niccolò IV – che per tutta la vita vagheggiò una grande crociata per la liberazione della Terrasanta – tentò 32


realmente, attraverso P. Giovanni da Montecorvino, di giungere ad un accordo politico/militare con il Gran Khan di Khambaliq. Purtroppo Niccolò IV morì, mentre P. Giovanni era ancora in viaggio verso la Cina; e Kubilay-Khan era morto già da qualche mese, quando P. Giovanni giunse a Khambaliq. A parte il disegno di Niccolò IV, l’alleanza tra impero mongolo ed Europa cattolica, e la conversione dell’impero cino-mongolo al cattolicesimo, non poterono mai essere portate a termine per una complessa serie di “accidenti” storici. Vale a dire: 1) Dopo Luigi IX, tutti i re francesi (cui sostanzialmente si appoggiava militarmente il papato) non avevano più alcun interesse a condurre crociate in Terrasanta. Le loro mire espansionistiche si erano completamente spostate in Europa. E tantomeno i mongoli erano disposti a portar guerre in Europa, per conto dei re francesi. 2) Il papato, già con Clemente V, era completamente succube della corte francese, e volto contro gli imperatori tedeschi. 3) Mancavano condottieri ed eserciti capaci di sostenere guerre in territori dove, oltre a mancare l’acqua (e pertanto abbondavano le pestilenze), mancavano persino alberi utilizzabili per costruire macchine da guerra. 4) Mancava la forza finanziaria per sostenere guerre sull’altra sponda del Mediterraneo. Le grandi monarchie europee erano fortemente debitrici verso le banche (Filippo IV si “rifece” sui Templari). 5) Dopo Niccolò IV, la Chiesa subì il succedersi di tre pessimi papi: (eccetto il povero Celestino V) Bonifacio VIII, (il breve pontificato di Benedetto XI), Clemente V e Giovanni XXII. Il primo di carattere determinato (e “tignoso”) ma unicamente interessato alla propria preminenza politica contro famiglie e “principati” sul suolo italiano, e al “controllo” delle ricchezze della Chiesa minacciate dalle rapaci mani di Filippo IV. Il secondo, debolissimo e inerme contro un autentico criminale quale fu Filippo il Bello. Il terzo, interessato soltanto alla “bella vita” ad Avignone e alla vendita delle cariche ecclesiastiche, e pronto a sostenere guerre (che appellava “crociate”) contro chi, all’interno e all’esterno della Chiesa, lo contrastasse, anche soltanto ideologicamente. Nelle sue mani, la scelta della povertà degli ordini mendicanti divenne “eresia”.

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Venne meno, naturalmente, in tale contesto, il tentativo di cristianizzazione dell’impero cino-mongolo, nonostante la situazione favorevole, ma con l’impedimento (quasi insormontabile) delle immense distanze. Per un territorio sterminato (e lontano), risultò sempre insufficiente il numero dei missionari che ivi venivano mandati (che non sempre riuscirono a giungervi, e che non sempre riuscirono a restarci). I circa 250 missionari che, fortunatamente, riuscirono a raggiungere la Cina, tra l’inizio del 1300 e il 1368, furono la classica goccia d’acqua nel deserto, nonostante la determinazione, la fede e il coraggio dei più, e nonostante le elevate perdite umane per malattie, per fame, per debilitazione, per morte violenta a causa di predoni o di assassini “religiosi”. Ma mancò complessivamente al papato, in quei 70 anni, un disegno razionale e coerente di evangelizzazione, mentre non mancò mai la supponenza di avere a che fare con “barbari pagani” che avevano bisogno di convertirsi “preventivamente” prima di poter accedere a contatti diplomatici, politici e militari paritari. Influirono, non poco, le paure (dettate dalla cattiva coscienza) che, a Khambaliq, un arcivescovo o un vescovo di qualche altra sede, o un vescovo “cinese”, potesse non accettare la “protezione” dei re francesi sul papato; o peggio ancora che un’alleanza con dei “pagani” potesse suscitare un’accusa di “eresia” (Federico II, fra le tante scomuniche, ne ebbe una per aver aperto le porte di Gerusalemme ai cristiani, senza combattere ma attraverso un accordo col Califfo Fatimida Al Malik Al Kamil).

4. Gli arabi, la Cina e l’India.

Già parecchi secoli prima di Cristo, gli arabi – via mare – commerciavano con la Cina (le vie di terra restarono chiuse sino alla conquista della Persia, a causa dei Persiani prima e dei Parti poi) e contemporaneamente coi romani. Si vennero così a creare in India – a mezza strada – e poi in Cina, porti con insediamenti stabili di arabi. Con la comparsa di Maometto, e la conversione all’Islam, la maggior parte dei porti dell’India si trovarono ad essere controllati da islamici; in genere, i commerci non si chiusero (l’oro faceva “spegnere” l’intolleranza religiosa mussulmana), però non mancarono sporadicamente focolai di estremismo religioso (le “esecuzioni” per blasfemia di “miscredenti”, spesso nascondevano soltanto intenzioni predatorie). 34


Non deve meravigliare pertanto che missionari cattolici diretti verso la Cina, in genere riuscissero a passare (versando qualche “tassa”); né deve meravigliare che, altre volte, gruppi isolati – e non sufficientemente protetti da armigeri – venissero soppressi, per rapina. Restarono più sicure le vie di terre, controllate dai mongoli, finché paradossalmente la popolazione mongola dei “turchi” non si convertì ad un Islam, intollerante ed estremista (dei neofiti).

5. Guelfi e ghibellini.

I termini “guelfi e ghibellini”, intesi come due forze politiche contrapposte, nati in Germania verso il XII sec., hanno attraversato i secoli, sino a riaffiorare, di tanto in tanto, anche nei dibattiti politici in epoca contemporanea. Sembra che i due termini siano nati dalla contrapposizione tra due nobili, uno di nome Welf il cui castello si contrapponeva al castello di Waiblingen degli Hohenstaufen (situato ad una decina di chilometri dalla odierna Stoccarda), nel periodo delle lotte per l’elezione dell’imperatore alla morte di Enrico V di Franconia. Già tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300, cronisti e novellieri cercarono di dare altre spiegazioni, più o meno fantasiose, per esaltare o diffamare l’una parte o l’altra. Comunque la contrapposizione tra i “ghibellini” Hohenstaufen contro i “guelfi” di Altdorf proseguì sino alla battaglia di Weinsberg (1140), col successo militare dello svevo Corrado III su Guelfo VI; da allora la corona imperiale venne associata alla casata ducale di Svevia, tanto che i neo eletti re romani (condizione necessaria per aspirare al titolo imperiale, come pure per i re di Sicilia nel corso del XIV sec.) erano indotti a vantare un’ascendenza, spesso remota, con la stirpe degli Hohenstaufen. E quanti si opponevano agli imperatori e re svevi, venivano indicati (o si autoproclamavano) come “guelfi”. Le ripetute discese di Federico Barbarossa (1122-1190) in Italia, produssero – nei comuni del centro-nord – atteggiamenti di difesa e di contrapposizione all’impero, sino ad assumere la denominazione “guelfi”. Ma ancora verso la metà del XII sec., gli schieramenti, all’interno di ogni città, erano connotati dalle “famiglie” che, soltanto successivamente, si profilarono con l’adesione ad uno dei due poteri universali (le une “parte della Chiesa”, le altre “parte dell’imperio”: Montecchi e Capuleti; Uberti e Buondelmonti; Lambertazzi e Geremei…). 35


Firenze fu la prima città ove due gruppi familiari contrapposti assunsero il nome di guelfi e ghibellini, traendoli direttamente dalle vicende tedesche. E le vicende di Firenze divennero ben presto sinonimo di lotta tra papato ed impero, come riporta nella sua “cronaca” il francescano Salimbene de Adam (1221-1228?). Con la morte di Federico II, la campagna diffamatoria della Curia condotta contro di lui (dipinto come l’anticristo), si trasferì sui suoi eredi e seguaci: Manfredi, Corradino, Ezzelino da Romano, Oberto Pelavicino, vengono tratteggiati come sanguinari, pervertiti, eretici ed emissari di Satana, o come demoni essi stessi. Comunque dopo il 1268, con l’esecuzione capitale a Napoli dell’ultimo Hohenstaufen, l’opposizione tra guelfi e ghibellini non venne più sostenuta tra filopontefici e filoimperiali, ma tra filoangioini e filosvevi, tra filofrancesi e filospagnoli. Tuttavia negli anni successivi, vennero intentati alcuni processi religiosi per eresia, contro i ghibellini, “per opposizione ai precetti della Chiesa e per non aver obbedito” a colui che avrebbero dovuto riconoscere come legittimo sovrano, Carlo I d’Angiò. Con l’entrata in scena dello strumento religioso, l’accanimento sui vinti si rafforzò, soprattutto a Firenze tra il 1270 e il 1290, in un crescendo molto rapido: dalla predica si passò all’interdetto e alla scomunica, alla “crociata” e ai processi per eresia. Il caso della famiglia di Farinata degli Uberti, diventò il simbolo dell’accanimento contro il ghibellinismo fiorentino. Oltre al bando perpetuo, gli Uberti subirono processi per eresia. Accusati e processati, vennero condannati a morte come traditori della patria. Tra il 1283 e il 1285, le ossa di alcuni membri della famiglia, in primis quelle di Farinata, furono riesumate dalla inquisizione e bruciate; in quanto gli inquisitori condannarono le ossa, in maniera postuma, per aver aderito all’eresia. In tal modo, col successo politico e militare guelfo-angioino, essere guelfo assunse definitivamente il significato di essere “parte della Chiesa”, mentre essere ghibellino denunciava lo stato di nemico di Carlo d’Angiò e quindi, con maggiore forza, nemico della vera fede, e pertanto eretico. Però dopo il 1270, si presentò sulla scena, come re dei romani, Rodolfo di Asburgo, sotto l’egida papale e con l’amicizia angioina. L’impero risorgeva in forma… guelfa! Questa inedita intesa tra Rodolfo d’Asburgo, il papato e i d’Angiò fece deviare gli interessi imperiali tedeschi dalla Sicilia, verso il nord Italia. La rivolta siciliana dei “Vespri” (1282) e l’arrivo in Sicilia degli Aragonesi contro i d’Angiò, riallacciarono il legame ghibellino con gli Svevi. Pietro III di Aragona era 36


marito di Costanza, figlia di Re Manfredi. Nella Guerra dei Vespri, il papato di Martino IV, intervenne con una vera e propria crociata che coinvolse guelfi, angioini, e persino i Templari e gli Ospedalieri; nel 1321, il Papa Giovanni XXII, dichiarò una sua personale crociata contro i ghibellini d’Italia: i Visconti, gli Estensi, i Montefeltro, i comuni di Osimo, Urbino, Recanati e Spoleto. La crociata fu rinnovata nel 1324 contro Fermo e Fabriano e contro il vescovo “eretico” di Arezzo, Guido Tarlati, contro Castruccio Castracani e il nuovo imperatore Ludovico il Bavaro. Ma ormai i liberi comuni del nord Italia, a difesa delle loro libertà minacciate sia dal potere imperiale che da quello papalino, passavano facilmente dalla parte guelfa a quella ghibellina, e viceversa, anche più volte, a seconda da dove provenisse la minaccia più grave, o più vicina. I termini, guelfo e ghibellino, persero il loro significato politico, già nel 1400; e soltanto nel 1800, durante il “Risorgimento”, vennero in qualche modo, in termini polemici, resuscitati, spesso forzando la storia, poiché il potere papale (che sino ad allora aveva impedito l’Unità d’Italia) era alleato sia alla Francia post-napoleonica che all’impero (Asburgico). Oggi la contrapposizione tra guelfi (clericali) e ghibellini (laici e laicisti) fa ridere, tanto più che, già nel 1300, guelfi e ghibellini, papato ed impero, si scambiavano vicendevolmente l’accusa di “eresia”: città guelfe diventavano ghibelline perché una città rivale confinante era diventata dello stesso colore (e viceversa). In più all’interno di una città guelfa, le medesime famiglie potevano dividersi (bianchi e neri a Pistoia e a Firenze); o all’interno di una città ghibellina, poteva avvenire altrettanto (Verdi e Secchi, ad Arezzo). Alla battaglia di Montaperti, uno degli scontri più cruenti tra la ghibellina Siena e la guelfa Firenze (4 Settembre 1260), da una parte e dall’altra c’erano fuorusciti dalla città rivale, e in entrambi gli schieramenti vi erano “infiltrati” della parte avversa. Farinata degli Uberti, capo dei fuorusciti ghibellini di Firenze, a battaglia vinta, rientrato in città, riuscì a impedire ai partecipanti alla “Dieta di Empoli” delle città ghibelline, con grande talento diplomatico, che la città di Firenze venisse rasa al suolo. Dopo pochi anni, nel 1269, a seguito della battaglia di Colle Val d’Elsa, sia Firenze che Siena ridivennero guelfe. Il vecchio comandante senese Provenzano Salviani, decapitato dopo un processo sommario, ebbe la testa infilzata su una lancia fiorentina, portata in giro nelle strade di Colle Val d’Elsa. 37


Farinata, era già morto. Non potendo far di peggio verso di lui, i compaesani fiorentini sottoposero, ad un processo dell’inquisizione, le sue ossa, e le bruciarono sul rogo. Le case, le torri, le difese dei ghibellini all’interno della città vennero abbattute; ma dopo Montaperti, i ghibellini avevano fatto altrettanto verso i guelfi.

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Nota ulteriore sulla “città proibita”.

Sempre su M.F.N.11 – Nov. 1990, P. Salvatore Zavarella, lo stesso agiografo che ammette che le memorie di Odorico da Pordenone siano state “anche tradite”, sostiene che la “città proibita” sarebbe stata comunque iniziata dalla dinastia Yuan, e poi ampliata dalla dinastia Ming. Kubilay-Khan, iniziatore della dinastia Yuan, trasportò la capitale dell’impero a Pechino nel 1258. Volendo ammettere che i mongoli abbiano iniziato la costruzione della città proibita già dal 1258, non è possibile che essa fosse ancora in costruzione dopo il 1368 (inizio dinastia Ming), cioè dopo 110 anni! Agli Yuan non mancavano né i mezzi finanziari, né la manodopera offerta da un numero sterminato di cinesi in condizioni di semischiavitù. A meno che non ci siano state interferenze sindacali, che trasformarono la “città proibita” nella “Salerno-Reggio Calabria” del Medioevo cino-mongolo. Oltre Odorico da Pordenone, nessun viaggiatore coevo e nessun missionario (compreso P. Giovanni) parla di “città proibita”: le memorie di Odorico sono state manipolate (“tradite”) in epoche successive. La città proibita venne iniziata e terminata dal “secondo” (terzo) imperatore Ming, a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Storicamente, la grave crisi climatica (e quindi agricola) e la peste che falcidiò la cavalleria mongola, nel 1368, promossero la vittoria dei contadini cinesi guidati da Chu Yuan Chang, un ex monaco buddista. Dopo 13 anni di guerriglie dalle alterne vicende, i cinesi occuparono Pekino, e i mongoli (con in testa il loro imperatore Tonchon Timur) fuggirono oltre la muraglia, riparando nei loro antichi territori di provenienza. Chu Yuan Chang si proclamò imperatore, iniziando la dinastia Ming, ma mantenendo la capitale a Nanchino. Il suo regno durò 30 anni, quindi sino al 1398. Dopo il brevissimo regno di suo figlio, salì sul trono lo zio Yung-Lo che, nel 1409 trasferì nuovamente la capitale a Pekino. Egli trasformò Pekino in una vera capitale imperiale, le diede una forma strutturale rettangolare al cui centro dominava la “città purpurea proibita”, dimora dell’imperatore e della sua corte. Yung-Lo, secondo (terzo) Imperatore Ming, riprese così la tradizione risalente già alla dinastia Han (Han-Shun Ti, 126-144 d.C.), la cui etichetta prevedeva che l’imperatore 39


rimanesse all’interno del palazzo e dei giardini imperiali. Nelle rare volte che usciva, la scorta faceva sgomberare le strade, perché ai sudditi (pena la morte) era persino vietato guardarlo. Neppure i ministri di Stato potevano parlare direttamente col sovrano, pur nelle udienze ufficiali, ma potevano a lui rivolgersi soltanto tramite alti funzionari di palazzo, autorizzati a stare ai piedi del trono. Soltanto gli “Eunuchi” di alto grado che vivevano nel palazzo, potevano mantenere rapporti quotidiani con l’imperatore; costoro, provenienti dagli strati sociali più bassi, facilmente si facevano corrompere, distribuivano onorificenze o punizioni. Invano militari e mandarini, nei secoli, tentarono di allontanarli dalla contiguità con gli imperatori, ma non riuscirono ad entrare neppure in quelle stanze ove gli Eunuchi rifiutavano di ammetterli. La corte degli imperatori cinesi ora quindi profondamente diversa da quella dei mongoli. I “Khan” non si isolavano nel “palazzo”, anzi erano felici di uscire spesso e godere dell’ossequio dei sudditi; né alle frequenti feste che davano a palazzo (come conferma Odorico) vi erano “distanziamenti” di etichetta. Soltanto i “servitori” del vino erano obbligati a portare una specie di “mascherina”, quando si avvicinavano all’imperatore. La “città proibita” (tuttora visitabile) era invece una specie di prigione al rovescio, stabilita dai regnanti cinesi in avversione al popolo. Invece il palazzo dei Khan mongoli era il vertice del potere mongolo che si mostrava, nella sua grandezza, agli ospiti e agli ambasciatori. I Khan, quindi, non avevano alcun motivo per iniziare a costruirsi “la prigione regale”, indispensabile invece agli imperatori cinesi, per auto-escludersi dal popolo. Concludendo: la “città proibita” iniziò a costruirla il secondo (terzo) imperatore cinese della dinastia Ming, a Pekino, agli inizi del 1440. Non la videro mai pertanto né i Polo, né P. Giovanni, né Odorico, né altri a tutta la prima parte del XV secolo. Chi ha “corretto” e manipolato la narrazione di Odorico è stato qualche “furbastro” – però totalmente ignorante della storia della Cina – che ha voluto “strafare”, facendo scoprire la concomitante opera di censura.

Nota: Il brevissimo regno del figlio di Chu Yuan Chang, durato forse qualche mese, fu determinato dall’incidente per cui, un bel mattino, servitori e funzionari che erano andati a salutare il risveglio del sovrano, non lo trovarono più nel suo letto, e nemmeno nel palazzo, né in tutta Nanchino, né in tutto il territorio dell’impero: i cinesi del XV secolo avevano già inventato anche la “lupara bianca”, con grande anticipo persino sugli “uomini d’onore” siculi. Lo sostituì sul trono lo zio Yung-Lo, che nel 1409 trasferì nuovamente la capitale a Pekino, ove iniziò la costruzione della “città proibita”. Ma, 40


restando chiusa la Cina agli europei, il papato, riuscì ad avere notizie della “città proibita” soltanto con Matteo Ricci, tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600. Non prima!

Città proibita – Pekino

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CONCLUSIONI

Alla fine di questo volume, si intendono affermare, in breve, alcuni punti fondamentali riguardanti P. Giovanni da Montecorvino e il periodo storico in cui fu immerso: 1) P. Giovanni da Montecorvino fu sempre fedele alla Chiesa cattolica (nonostante i suoi papi) e all’insegnamento di Francesco d’Assisi. 2) Egli è stato – sino ad oggi – il più grande figlio della nostra terra, per santità, per cultura, per fedeltà alla religione e alla predicazione francescana, e per l’alta carica ecclesiastica raggiunta. 3) Il grande disegno di Niccolò IV di una grande crociata per la liberazione della Terrasanta, fallì per una serie di accidenti storici e umani, non per manchevolezze del nunzio che aveva inviato presso Kubilay-Khan (a seguito di richiesta di quest’ultimo). 4) La missione di cristianizzazione della Cina, che P. Giovanni aveva autonomamente assunto, dopo la morte di Giovanni Buralli da Parma, venne lasciata spegnersi per consunzione dopo la sua morte; in quanto il papato avignonese aveva sposato totalmente la politica dei re di Francia; i cui interessi si erano spostati nei conflitti europei (contro inglesi, e poi Aragonesi, imperatori tedeschi, e principi vari “ghibellini”). 5) L’”oscuramento” e la perdita del ricordo di P. Giovanni fu voluta – anche con la perdita dei “documenti” – perché il tentativo di alleanza coi mongoli era viziato dal (fondato) sospetto di “eresia”, secondo i canoni teologici dell’epoca (Federico II era stato scomunicato, perché attraverso una “intesa” e non attraverso un conflitto armato, aveva liberato Gerusalemme aprendola pacificamente ai cristiani). In effetti il papato – se l’alleanza si fosse concretizzata – avrebbe dovuto alla fine scomunicare sé stesso (oppure ci avrebbe pensato un antipapa); a meno di una avvenuta “conversione preventiva” dei Khan). 6) Almeno sino a metà del XVI sec. gli “spirituali” francescani erano considerati portatori di idee ereticali, e P. Giovanni era considerato a loro “vicino”. 7) Riaprire “cause” di santificazione di P. Giovanni, significa riaprire alle considerazioni storiche verso vicende di alcuni “controversi” papati (almeno tre). 8) Il silenzio, quasi sempre è foriero di quiete (politica e religiosa).

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9) In questo momento, la “Compagnia di Gesù” è molto più forte dell’ordine minorita.

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CON LE DOVUTE SCUSE

Mi preme sottolineare al lettore che quanto esposto in questo ultimo volume intende trattare la figura (misconosciuta) dell’uomo P. Giovanni da Montecorvino, nella storia della sua vita e del suo tempo. Soltanto marginalmente si accenna alla questione della santità, e al percorso da intraprendere per la beatificazione (dopo la già accepita “venerabilità”). Questioni dalle quali mi dichiaro non solo estraneo, ma anche abissalmente lontano, in quanto ignorante in materia. La dichiarazione della santità della vita di una persona defunta 700 anni fa, “credo” competa unicamente alla potestà della Chiesa cattolica, e ad i suoi organi a tanto deputati. E sarebbe estremamente ridicolo voler tentare di forzare o di convincere, con argomenti terreni, o con “stimoli” di scritti, verbosità o atti di compiacenza (statue, fiaccolate, convegni, santini…), la preposta autorità ecclesiastica. Chiedo comunque venia se, qua e là, mi son fatto prendere la mano, esprimendo qualche facezia, soltanto per non cadere nel peso della seriosità di una ricerca storica. La facezia, il lettore l’accetti unicamente come tale, non come dileggio verso chicchessia. Se, da parte mia, certamente senza malevolenza, è stato travalicato il “detto” (quasi un dogma) “scherza coi fanti e lascia stare i santi”, chiedo venia ai fanti, in quanto i santi, proprio perché santi, mi avranno già perdonato.

L’autore

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INDICE

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INCIPIT

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UNA CONSIDERAZIONE

CAPITOLO PRIMO - Agiografia e storiografia: due narrazioni spesso divergenti. I problemi della duplice esposizione letteraria, circa la vita di P. Giovanni da Montecorvino CAPITOLO SECONDO - I clareni, Tommaso da Tolentino e P. Giovanni, e il contesto storico • • • • • • • • • • •

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1. I Papi durante la vita di P. Giovanni (dai voti – 1270, alla morte – 1328). 2. Gli spirituali di Angelo Clareno. 3. Le pentole senza il coperchio. 4. L’eresia del rifiuto del possesso dei beni. 5. L’eresia di Angelo Clareno. 6. Un beato, “quasi eretico”. 7. Aitone II e le missioni affidate a T. da Tolentino e P. Giovanni. 8. Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro. 9. Guglielmo d’Ockham e Marsilio da Padova. 10. La Crociata “antighibellina” di Giovanni XXII. 11. Il “grande” e il “piccolo” scisma d’occidente.

CAPITOLO TERZO – Il XIV secolo, il secolo delle “crisi” • • • • •

1. 2. Le crociate vere, e quelle “fasulle”. 3. Perché fallì l’alleanza coi mongoli. 4. Gli arabi, la Cina e l’India. 5. Guelfi e ghibellini.

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Nota ulteriore sulla “città proibita”

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CONCLUSIONI

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PADRE Giovanni da Montecorvino Volume I Volume II Volume III A. Della Corte - MMXX


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