Polizia Penitenziaria - Marzo 2015 - n. 226

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anno XXII • n. 226 • marzo 2015 ISSN 2421-2121 www.poliziapenitenziaria.it

La quiete dopo la tempesta



sommario

anno XXII • numero 226 marzo 2015

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In copertina: L’arcobaleno sul DAP

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l’editoriale Aspettando il DPCM di riorganizzazione... al DAP è tutto fermo

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

di Donato Capece

il pulpito

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di Giovanni Battista de Blasis

Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

il commento

Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme

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Comitato Scientifico: Cons. Prof. Roberto Thomas, Donato Capece, Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro

di Roberto Martinelli

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Girolamo Minervini assassinato dalle BR dopo la nomina a Direttore Generale degli II.PP

“l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2015 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

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criminologia

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L’ascolto del minorenne detenuto

e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it

di Roberto Thomas

Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994

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La lezione di Via Fani, 37 anni dopo. Per non dimenticare

mondo penitenziario

Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director) www.mariocaputi.it

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669

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La quiete dopo la tempesta

Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Redazione politica: Giovanni Battista Durante

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lo sport 18

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Arriva la fiction Rai su Pietro Mennea di Lady Oscar

Cod. ISSN: 2421-1273 web ISSN: 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 00030 S. Cesareo (Roma)

crimini e criminali Andrej Romanovic Cikatilo II Parte

Finito di stampare: marzo 2015 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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di Pasquale Salemme

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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

l’editoriale

Aspettando il DPCM di riorganizzazione... al DAP è tutto fermo econdo quanto si sostiene a via Arenula e contrariamente a quanto si vocifera a Largo Luigi Daga, sarebbe imminente l’approvazione definitiva del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sulla riorganizzazione del Ministero della Giustizia. Il Decreto avrebbe dovuto essere firmato già da tempo, avendo superato di gran lunga i termini stabiliti dalla legge delega ma, per motivi che sfuggono alla nostra

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decadenza dalle cariche anche dei dirigenti di nomina più recente, con un vero e proprio azzeramento di tutti gli incarichi dirigenziali al Dap. Insomma, ci dovremmo trovare di fronte davvero a uno spoil system nell’Amministrazione penitenziaria. Peraltro, anche l’Amministrazione della Giustizia, come tutte le Amministrazioni Pubbliche, dovrà adeguarsi alle disposizioni del Piano Nazionale Anticorruzione – legge 190 del 2012 – che, nell’individuare le

comprensione, non ha ancora trovato spazio all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri. Il testo definitivo del Decreto dovrebbe essere quello ormai arcinoto, secondo il quale al Dap rimarrà un solo Vice Capo Dipartimento e saranno soppresse le Direzioni Generali Bilancio, Beni e Servizi ed Esecuzione Penale Esterna (che emigra al Dipartimento per la Giustizia Minorile). Confermata anche la nuova geografia dei Provveditorati Regionali e la previsione di istituire presidi territoriali in luogo dei Prap che saranno soppressi (Genova, Perugia, Ancona, Potenza e Pescara). Altra importante novità, che porterà con sé la riorganizzazione, è la risoluzione sui iuris di tutti i contratti di conferimento delle funzioni dirigenziali che comporterà la

strategie prioritarie per la prevenzione e il contrasto della corruzione nella Pubblica amministrazione, impone di assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti. Nel frattempo, però (e direi purtroppo), al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria tutto langue perché, ad eccezione del Capo Santi Consolo, tutti quanti sono in attesa delle novità riorganizzative, nell’incertezza di essere confermati o meno nell’incarico. Tuttavia, il Sappe, che non ha bisogno di aspettare alcun decreto, continua a fare pressing sui vertici amministrativi e politici affinché non vengano disattese le aspettative del personale del Corpo che non possono e non debbono esser più ignorate. Parliamo, ad esempio, della proposta di promozione per merito

Nella foto: il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Largo Luigi Daga a Roma

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straordinario al grado di vice Sovrintendente di circa mille Assistenti Capo che sono stati stabilmente impiegati in compiti superiori alla qualifica rivestita e di un nuovo concorso interno sempre per vice Sovrintendente, riservato ad Agenti ed Assistenti, considerato che negli ultimi concorsi interni hanno frequentato il corso di formazione Assistenti Capo ormai prossimi ad andare in pensione. Parliamo della necessità di accelerare il prosieguo delle procedure concorsuali relative al concorso interno per vice Ispettore, del quale sono state espletate nel primo semestre del 2010 solamente le prove preliminari, per cui la procedura concorsuale risulta irragionevolmente ferma da oltre tre anni. Parliamo della necessità delle nuove assunzioni da Agente che prevedano anche la partecipazione di aspiranti attraverso un concorso pubblico, oltre che lo scorrimento delle graduatorie dal 2012 al 2014 di tutti gli idonei non vincitori dei concorsi espletati. Parliamo, infine, della non più rinviabile necessità di portare finalmente a compimento una vera omogeneizzazione dei ruoli e delle carriere del personale di Polizia Penitenziaria, da riallineare con gli altri Corpi di Polizia dello Stato affinché vengano sanate le palesi sperequazioni tutt’ora in atto per il ruolo dei Commissari, per quello degli Ispettori e per quello dei Sovrintendenti. Il nostro timore è quello che, a forza di sprecare forze ed energie per difendere gli incarichi e le poltrone, i dirigenti del Dap abbiano perso di vista il proprio mandato istituzionale che è soltanto quello di gestire e amministrare un Corpo di Polizia dello Stato. H


il pulpito … Ecco il sol che ritorna, ecco sorride per li poggi e le ville. … Si rallegra ogni core. Sí dolce, sí gradita quand’è, com’or, la vita? Quando con tanto amore l’uomo a’ suoi studi intende? o torna all’opre? o cosa nova imprende? quando de’ mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d’affanno; gioia vana, ch’è frutto del passato timore, onde si scosse e paventò la morte chi la vita abborria; … Uscir di pena è diletto fra noi. ersi meravigliosi, versi immortali. Versi coi quali Giacomo Leopardi ci ha descritto il ritorno alla normalità del suo villaggio dopo una tempesta, coi piccoli animali della campagna che tornano alle loro solite occupazioni, gli abitanti di Recanati che riprendono il loro lavoro quotidiano, il cielo che si schiarisce e il sole che torna a risplendere permettendo a tutti di affrontare il nuovo giorno con rinnovata felicità. Il terrore della morte, nel pericolo appena scampato, ha scosso anche coloro che non apprezzavano a sufficienza la vita. “Piacer figlio d’affanno”, così il Poeta ci rivela che la gioia non è altro che “frutto del passato timore”. Non senza un pizzico di ironia, la natura viene definita “cortese” ed in grado di concedere “a larga mano” i doni agli uomini. Ma, in realtà, questi doni non sono altro che affanni e sofferenze e quel tanto di piacere che ne scaturisce è così poco da sembrare un regalo. Dopo di lui, anche Jane Baillie Welsh Carlyle, letterata britannica, moglie dello scrittore, giornalista e matematico Thomas Carlyle, ha espresso un concetto simile: “Quando uno è stato minacciato di una grande ingiustizia, ne accetta una più piccola come se fosse un favore”.

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La quiete dopo la tempesta Invero, nel nostro caso, la Polizia Penitenziaria, abbastanza spesso viene “minacciata di una grande ingiustizia...” Sul Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in questi ultimi anni, si è abbattuta una tempesta senza precedenti. Si potrebbe, forse, parlare della “tempesta perfetta”, quella che in meteorologia viene indicata per descrivere un fenomeno atmosferico che colpisce l’area più vulnerabile di una regione, provocando il massimo danno possibile per un uragano. La nostra tempesta perfetta è iniziata tanti anni fa, con l’avvento dei dirigenti penitenziari alla guida del Dap ed ha conosciuto il suo acme con la gestione Tamburino. La nostra tempesta perfetta, ha provocato il massimo dei danni possibili all’organizzazione di un Corpo di Polizia dello Stato. Ma, proprio perché il “piacer figlio d’affanno” e la gioia è “frutto del passato timore”, che oggi, con l’arrivo di Santi Consolo, la Polizia Penitenziaria può recitare: “Si rallegra ogni core. / Sí dolce, sí gradita / quand’è, com’or, la vita?” Abbiamo subìto così tante ingiustizie, da considerare quelle piccole che continuano a propinarci oggi come fossero regali degli Dei. Dopo aver conosciuto Tamburino e la sua vigilanza dinamica, che si è abbattuta sul nostro lavoro come un uragano a scoperchiare tutti i tetti dell’ordine e della sicurezza penitenziaria, non possiamo che

apprezzare il cielo che si schiarisce e il sole che torna a risplendere permettendo a tutti di affrontare il nuovo giorno con rinnovata felicità. Accantonando un attimo il pessimismo cosmico leopardiano, riusciamo addirittura a scorgere scampoli d’opportunità nella prossima riorganizzazione del Dap che, superato il funesto passaggio della tempesta perfetta, sembra incombere sulla Polizia Penitenziaria come un fulgido arcobaleno che preannuncia un lungo periodo di sole e cielo sereno. La riorganizzazione del Dap potrebbe regalarci una amministrazione del Corpo più agevole e snella ma, soprattutto, dovrebbe prevedere un vero e proprio spoil system delle poltrone dirigenziali del palazzo di Largo Daga. Insomma, sotto l’arcobaleno ci aspettiamo di trovare una pentola d’oro piena di nuovi dirigenti che vogliano bene alla Polizia Penitenziaria e non pensino soltanto ai propri interessi e alla propria carriera. H

Giovanni Battista de Blasis DirettoreEditoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

Una pentola piena d’oro

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il commento

La lezione di Via Fani, 37 anni dopo. Per non dimenticare Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nelle foto: la scena che si presentò agli inquirenti il 16 marzo del 1978 in Via Fani

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l 16 marzo 1978 gli uomini della scorta di Moro furono uccisi da un comando delle Brigate Rosse all’incrocio tra via Fani e via Stresa, a Roma. Non è troppo distante dagli uffici della Segreteria Generale, in via Trionfale. Piove, fa freddo, ma il Loro martirio non si può e non si deve dimenticare. E allora la mia coscienza mi ha imposto di andare in via Fani a rendere onore a cinque persone, poliziotti e carabinieri che hanno dato la loro vita per proteggere il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro: eroi del quotidiano, dimenticati troppo in fretta.

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ha fatto in tempo a essere padre, marito, nonno o non ha potuto veder cresce i propri figli, fratelli, nipoti. Erano carabinieri e poliziotti con un forte senso di responsabilità nei confronti del servizio e dello Stato, uccisi mentre compivano il loro dovere. Domenico Ricci era un appuntato dei carabinieri e aveva 42 anni; Giulio Rivera era un agente di polizia di 25 anni, Francesco Zizzi, era un vice brigadiere di polizia e aveva 30 anni; Raffaele Iozzino era un agente di polizia di 25 anni; Oreste Leopardi era un maresciallo dei carabinieri di 52 anni.

Fani: tutti liberi. Perfino chi, come Barbara Balzerani, aveva sulle spalle tre ergastoli. Non contano gli omicidi, lo strazio dei familiari delle vittime, lo sconcerto dell’opinione pubblica. Non ha importanza nemmeno se le persone scarcerate prima della fine della pena non si sono mai pentite, non hanno collaborato con la giustizia, non hanno rinnegato la loro partecipazione alle stragi, agli assassini di magistrati, poliziotti, giornalisti. Pm che indagavano sul terrorismo, agenti e carabinieri che seguivano le tracce dei lottatori armati, cronisti che

L’emozione è forte. Ai più, i loro nomi non dicono nulla. Quelli che ne sanno qualcosa in più, li conosco come “quelli della scorta di Aldo Moro”. Anche nel giorno che si celebra (o si dovrebbe celebrare) il Loro martirio, si sprecano sui giornali e sui blog tristi giaculatorie sull’assassinio del leader democristiano (che però fu ucciso dai carnefici delle Brigate Rosse 55 giorni dopo il rapimento, il 9 maggio 1978). “Quelli della scorta di Aldo Moro” erano ragazzi semplici, padri affettuosi, mariti presenti, figli e fratelli adorati. Ma tra loro vi è stato chi non

Per le loro famiglie, dopo 37 anni di silenzio, di dolore e di ricordi, la ferita è ancora aperta non solo perchè hanno perso i loro cari, non solo perchè il tempo non può cancellare il dolore, ma perchè sono stati lasciati soli. L’assurdo è che chi ha ideato, compiuto ed esaltato quest’assurdo massacro (e non solo questo) non è neppure in galera. Un articolo datato 20 aprile 2011 di Maurizio Gallo, giornalista del quotidiano romano Il Tempo, raccontò che fine hanno fatto i brigatisti rossi che colpirono in via

stigmatizzavano le loro azioni sanguinarie e pseudorivoluzionarie. Nel commando brigatista che agì a Roma in via Fani, angolo via Stresa, e uccise Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, c’era anche Barbara Balzerani. Nessuno dei terroristi che parteciparono al blitz è oggi dietro le sbarre. L’ex primula rossa delle Bierre condannata a tre ergastoli (e prese parte anche al rapimento del generale Usa Dozier) ottiene la libertà condizionata il 18 dicembre 2006.


il commento In realtà la donna ha la possibilità di lavorare all’esterno del carcere dal 1994 e dal 2002 usufruisce della semilibertà. Il 24 aprile 2007 il ricorso della procura generale contro il provvedimento del tribunale di sorveglianza romano viene respinto dalla Cassazione. Prospero Gallinari fu condannato al carcere a vita per l’uccisione di Moro, di cui era anche il carceriere, e del sindacalista Cgil Guido Rossa. Gallinari fece parte degli irriducibili del terrorismo fino al 23 ottobre 1988, quando, senza pentimenti o dissociazioni, firmò con altri detenuti un documento che riconosce che “la lotta armata contro lo Stato è finita”. L’1 dicembre 1990 il tribunale di sorveglianza di Torino respinse la richiesta di differimento della pena e il 21 marzo 1991 la Corte di Cassazione respinse il suo ricorso. Nel marzo 1993, dopo un’ altra crisi

Mario Moretti, capo della direzione strategica delle Brigate Rosse e una delle persone che ha gestito il sequestro e l’omicidio del presidente democristiano, dopo 17 anni dietro le sbarre, riceve il permesso di lavoro esterno nel 1994. L’ex compagna di Gallinari, Anna Laura Braghetti, anche lei presente in via Montalcini come «signora Altobelli» durante il sequestro di Moro e coinvolta nel delitto Bachelet, dal 1994, malgrado l’ergastolo, lavora in un’organizzazione di volontariato. Dal 2007 ha un impiego collegato al ministero del Lavoro. Dallo stesso anno è definitiva la libertà condizionale accordata a Raffaele Fiore, che caricò lo statista in auto dopo la strage di via Fani, non si è mai dissociato e già da 13 anni lavorava in una coop sociale a Piacenza. E mentre i familiari delle vittime del terrorismo e i feriti superstiti vivono dimenticati e abbandonati dalle

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Sostenuti in questo da quell’ala fiancheggiatrice del terrorismo, tuttora esistente in Italia, che si è bene inserita nelle istituzioni e nel mondo della cultura. Sono i predicatori della pacificazione nazionale e della chiusura degli anni di piombo. Sono i sostenitori convinti che, avendo i terroristi estinto la pena e saldato i conti con lo Stato, meritano di essere protetti e di essere considerati attori protagonisti ed eroi della storia del nostro Paese. Sono gli intellettuali e gli organi d’informazione indulgenti che non lesinano interviste, come se i terroristi fossero “maestri di vita per educare le nuove generazioni” per osannarne le gesta di ieri e i comportamenti di oggi. Che si azzardano persino a ‘ricostruire’ la storia drammatica di quegli anni terribili secondo il loro armamentario sociologico e ideologico, che vorrebbe spiegare

Nelle foto: le corone deposte 37 anni dopo in Via Fani, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

cardiaca, venne ricoverato al Policlinico di Roma, dove fu sottoposto a terapia intensiva nell’unità coronarica. Poi, un nuovo ricovero all’ospedale Umberto I per ischemia cerebrale e un altro nel ‘97 all’ospedale reggiano S.Maria Nuova per l’ applicazione di un defibrillatore. In seguito ottenne la sospensione della pena per le precarie condizioni di salute; da anni era tornato a vivere a Reggio Emilia. Dove è morto, libero, senza un’ombra di pentimento, per un malore improvviso nel garage di casa sua.

istituzioni, molti ex terroristi e fiancheggiatori hanno fatto carriera politica e lavorativa, negli staff più prestigiosi e collaboratori istituzionali persino nei Ministeri, hanno goduto di stipendi d’oro pagati dalla comunità, hanno seduto in Parlamento (!) come deputati e senatori, sono diventati scrittori e giornalisti. E sono decine i continui casi emblematici e discutibili di riciclare e privilegiare i terroristi, considerati “moralmente ottime persone”, da inserire nelle istituzioni e nei settori più diversi della cultura e del volontariato.

come il mondo non va come pensi tu, l’idea leninista “dell’avanguardia cosciente e del popolo corrotto e recalcitrante da salvare”, suo malgrado. E questo ci conferma come, seppur a distanza di tanti anni, la guardia non si debba mai abbassare. Mai. Ad imperitura memoria di Domenico, Giulio, Francesco, Raffaele, Oreste, uccisi in via Fani a Roma il 16 marzo 1978, e di tutti coloro che sono stati uccisi dal piombo dei terroristi di ogni colore che hanno agito nel nostro Paese. H

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mondo penitenziario

Girolamo Minervini, assassinato dalle BR dopo la nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena L’omicidio del Giudice Girolamo Minervini a mattina del 18 marzo 1980 un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse uccise a Roma il Magistrato Girolamo Minervini a bordo di un autobus, il numero 991, in via Ruggero di Lauria, mentre si recava al lavoro come Procuratore Generale della Cassazione. Massimo esperto del sistema carcerario, neppure la sua tenace opposizione all’istituzione delle supercarceri, lo ha salvato.

L Nella foto sotto: una immagine di Minervini

Erano passati soltanto due anni da via Fani (16 marzo 1978) e in molti era ancora vivo era lo struggente ricordo dello sterminio degli uomini di scorta nel corso del sequestro Moro. E Minervini aggiunse: “In guerra un Generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore”. Era il 16 marzo 1980. Due giorni dopo, due brigatisti, Francesco Piccioni e Sandro Padula, salirono con lui sull’autobus che lo stava portando al lavoro – 24 ore prima l’allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga gli aveva comunicato la sua nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, la carica che corrisponde all’attuale Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP).

Minervini viene raggiunto e finito con un colpo alla nuca. I brigatisti che uccisero il giudice furono identificati dalle risultanze processuali in Francesco Piccioni e Sandro Padula. C’erano molti testimoni quella mattina su quell’autobus. Ma uno solo accettò di parlare. E di raccontare come andarono le cose. Fu grazie a lui che, alla fine, gli investigatori riuscirono a ricostruire nomi e volti degli assassini e di chi partecipò all’organizzazione di quell’omicidio firmato Br.

L’agguato delle BR sull’autobus

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Era su quell’autobus perché, nonostante il questore di Roma Augusto Isgrò gli avesse imposto la scorta, lui rifiutò. Non intendeva “far ammazzare tre o quattro poveri ragazzi”, spiegò al figlio, Mauro due giorni prima di morire.

Tutte le mattine, alle 8.30, il Magistrato si reca al suo ufficio, presso la Cassazione, con l’autobus 991. Il bus è, come al solito, affollato. Minervini sale e si ferma sulla piattaforma posteriore. Lo seguono in sei, due in auto gli altri quattro salgono sul bus alle fermate successive. Il primo si piazza all’uscita anteriore, il secondo a quella centrale, gli ultimi due affiancano il Magistrato sulla piattaforma. La tragedia si consuma in pochi secondi. Come in un film, i killer, sparano all’impazzata. Sei colpi raggiungono Minervini, altri tre colpi feriscono altrettanti passeggeri terrorizzati. Il bus si ferma, la calca alle uscite è impressionante, alcuni passeggeri si ritrovano sull’asfalto calpestati dalla folla che tenta di abbandonare l’autobus e, nonostante l’indescrivibile caos, nessuno dei quattro killer perde la calma:

E si arrivò anche al nome di Barbara Balzerani.

La carriera del Giudice Minervini Nato a Teramo il 4 maggio 1919, Girolamo Minervini entra in Magistratura nel 1943. Già in giovane età, negli anni dal 1947 al 1956, è assegnato al Ministero di Grazia e Giustizia - Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena dove dirige, nell’ultimo periodo, l’Ufficio II (personale degli Agenti di Custodia). Trascorre, quindi, un lungo periodo presso la Procura generale della Cassazione in qualità di applicato prima di tribunale e poi di appello; nel 1968 viene nominato segretario presso il Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo un breve periodo, durante l’anno 1973, nel quale presta


mondo penitenziario

9 Nelle foto: sopra e sotto i funerali del Giudice a sinistra il corpo di Minervini accanto alll’autobus 991

Girolamo Minervini: i ricordi del figlio Mauro Pubblicato da Il Secolo d’Italia «Fare la mia parte senza aspettare che gli altri facciano prima altrettanto è forse il più grande insegnamento che mi abbia impartito Girolamo Minervini»; sono queste parole che hanno indotto il Giudice Cicala ad insistere perchè scrivessi una breve nota su mio Padre. Ed io, che a volte amo farmi pregare come Lui, ho ritenuto giusto accontentare chi, in fin dei conti, tanto gentilmente insiste per farmi cosa gradita. Girolamo Minervini, nato nel 1919, entrato in Magistratura nel 1943, ucciso dalle BR il 18 Marzo 1980. Uomo del tutto particolare, schivo, modesto e nello stesso tempo consapevole delle proprie capacità. Uomo di sinistra e progressista vero, incapace di arrogarsi privilegi e predicare, nel contempo, libertà ed uguaglianza. Stretto collaboratore del Togliatti Guardasigilli si era pian piano allontanato dal PCI, rimanendo nei fatti svincolato da qualsiasi partito; era molto schivo e restio a far politica a parole , anzi a fare in genere parole inutili. Sia chiaro, non che fosse un musone taciturno, tutt’altro; era un pragmatico che amava teorizzare – e Dio sa quanto ne fosse capace – solo

servizio presso la Corte di Appello di Roma in qualità di consigliere, fa ritorno al Ministero di Grazia e Giustizia con funzioni di capo della segreteria della Direzione Generale

degli Istituti di Prevenzione e Pena. Quindi, nel novembre 1979 era ricollocato in ruolo e destinato alla Procura Generale della Cassazione con funzioni di sostituto. H

in vista ed in funzione di risultati pratici. Era capace di parlare bene e a lungo, ma se riteneva servisse a qualcosa. Il Suo senso dello Stato e del dovere nei confronti della Comunità erano profondissimi; l’impegno politico, quale ricerca del bene della polis , bene culturale irrinunciabile: Dopo il turbolento periodo della controccupazione della facoltà di Giurisprudenza della “Sapienza” di Roma, rallentai per un breve periodo il mio vivace e, ora me ne rendo meglio conto, fisicamente pericoloso impegno politico di destra. Solo qualche anno fà mia madre mi ha narrato quanto Lui ne fosse rammaricato, temendo che intendessi disimpegnarmi da un interesse che mi aveva insegnato, con l’esempio, essere primario e qualificante. Del resto, non nascondeva una profonda ammirazione intellettuale per Giorgio Almirante; con grande scandalo dei manichei, alla cui schiera l’onestà intellettuale gli ha sempre impedito di appartenere. Con la religione aveva un rapporto stranissimo; raramente ho conosciuto un uomo capace di una così profonda, continua e spontanea coerenza con lo spirito essenziale del Cristo e nello stesso tempo così concettualmente laico; credo di non averlo mai visto imbarazzato e fuori posto come quando lo “costrinsi” a fare il padrino di mia figlia. Dotato di un

humour vivacissimo amava scherzare, “sfottere” ed “essere sfottuto”. I suoi vecchi amici, e lui stesso, mi raccontavano di scherzi da antologia. Delle tante ragazzate che, fortunatamente, ho avuto modo di fare non mi ha mai rimproverato che per dovere parentale . Era una di quelle persone abbastanza serie da non aver bisogno di prendersi sul serio più del minimo indispensabile. Era drasticamente interdetto a chiunque, salvo che alla piccolissima nipote a puro titolo di sfottò, chiamarlo Eccellenza; “giudice”, diceva, è un termine che identifica una funzione di così grande rilevanza da non essere sostituibile. Del proprio ruolo era fierissimo; credo che tra i pochi veri dispiaceri che gli ho inflitto il più grande sia stato quello di essermi

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mondo penitenziario ritirato dal concorso in Magistratura . Però fu contento quando si accorse che in Banca, appena entrato, guadagnavo quasi quanto Lui, che portava (in teoria) l’ermellino. In famiglia, lo vedevamo poco. Aveva smesso da anni, per mancanza di tempo, di venire a caccia con me; usciva poco con mia madre, non aveva tempo per gli amici e -tanto meno- per i “salotti”, che aborriva. Riusciva a trovare qualche minuto per la nipote e per l’anzianissimo padre, entrambi adorati. Il suo impegno quotidiano, o meglio i suoi numerosi contemporanei impegni, lo tenevano fuori casa 15 o 16 ore al giorno. In compenso, non gli rendevano una lira. Quando morì aveva una bella casa – di cooperativa, col mutuo ancora da pagare per un paio di lustri- un milione in banca ed una Wolksvagen degna di uno studente fuori corso. Ed un patrimonio, dentro,

Nella foto: la lapide in memoria del Giudice Minervini

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Il dovere della Memoria e le amnesie romane (pubblicato sul numero 204 - marzo 2013 di Polizia Penitenziaria) a mattina del 18 marzo 1980, mentre su mezzo pubblico si recava dalla propria abitazione al suo lavoro presso la Corte di Cassazione, veniva assassinato barbaramente da appartenenti alle Brigate Rosse Girolamo Minervini, una

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che spero di aver ereditato seppure in minima parte. Il 16 marzo 1980, di ritorno da Brescia, ove era stato per il trigesimo della morte di mio Nonno, mi venne a trovare. Meglio, venne a trovare, nell’ordine, la nipote Sara e me. Mi confermò che ormai la nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena era certa e che,in tal caso, lo era quasi altrettanto l’esecuzione della sentenza di morte da parte delle BR. Mi illustrò ove fosse la polizza assicurativa e quali fossero le provvidenze per mia Madre, alla quale mi chiese di stare vicino. Per l’ultima volta discutemmo della questione. Con toni molto pacati e tranquilli mi chiarì che “in guerra un Generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore” e che in fin dei conti non era lui tipo da morire d’influenza. Mi precisò che il carissimo Augusto Isgrò - Questore

di Roma- aveva fortemente insistito per la scorta, ma che non intendeva far ammazzare tre o quattro poveri ragazzi. Poi, con un’incoerenza che ancora mi commuove, mi disse di essere preoccupato, dato il momento, per i rischi connessi al mio impegno sindacale in Cisal. A mia moglie diede affettuosamente sulla voce quando saltò fuori un cenno alla pena capitale. Credo di averlo mandato a quel paese. Lo rividi il giorno successivo, a pranzo. La sera mi comunicò che il Presidente del Consiglio, Cossiga, gli aveva definitivamente confermato la nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. La mattina del 18 marzo, in autobus e senza scorta, andò a fare la sua parte, senza chiedersi se l’avessero fatta anche gli altri. Sul volto, da morto, aveva l’espressione serena di sempre. H

delle espressioni migliori della Magistratura italiana e del suo impegno umanitario e sociale. Tra i vari e prestigiosi incarichi che aveva ricoperto ve ne furono anche nell’Amministrazione Penitenziaria dal settembre 1947 fino alla fine del 1962, praticamente per quindici anni quasi senza interruzione e dal 1954 come direttore dell’allora Ufficio II. Dopo essere stato nominato segretario presso il Consiglio superiore della Magistratura tornò nel 1973 al Ministero di Grazia e Giustizia, per assumervi le funzioni di capo della segreteria per gli istituti di prevenzione e di pena. Minervini fu ucciso a bordo dell’autobus di linea 991, in via Ruggero di Lauria (una traversa di via Andrea Doria), da terroristi della colonna romana delle BR nell’ambito della campagna contro le carceri dure. Oggi una targa ricorda in via Ruggero di Lauria, proprio dove c’è la fermata dell’autobus, l’uccisione di Minervini. E proprio le condizioni di quella targa quasi illeggibile (usura che ovviamente non è avvenuta dall’oggi al domani e quindi da tempo è in quelle condizioni...) mi inducono ad alcune amare riflessioni: nel nostro Paese continua a mancare una cultura della Memoria.

Dopo le commemorazioni ufficiali, con il bacio sulle guance ai sopravvissuti agli attentati o ai familiari dei Caduti, con relativa retorica, che sono spesso serviti alla visibilità e a vantaggi politici per gli oratori, la solidarietà, spesso verbale, si è affievolita. Sembra quasi che si voglia cancellare il passato, ma i familiari dei Caduti, i feriti e gli invalidi, testimoni oggettivi restano lì come un monito. Vengono quindi considerati una memoria fastidiosa e ingombrante perché provocano il ricordo di tragicità e orrori. Le Vittime del Dovere sono state troppo spesso dimenticate da questa società distratta, che brucia in fretta il ricordo del dolore di chi è stato colpito negli affetti più cari. Ben pochi coltivano la memoria di quanti sono Caduti e tramandano alle generazioni future il loro patrimonio di valori morali, le loro certezze istituzionali, la loro fedeltà alle strutture democratiche. Sono rimasti i familiari ed i colleghi dei carabinieri, dei magistrati e dei poliziotti trucidati a ricordarLi. E ciò che è accaduto a Roma per la targa del povero Girolamo Minervini sembra proprio esserne la triste e amara conferma.H erremme


mondo penitenziario

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Il Capo Dipartimento Santi Consolo intitola l’Aula Magna del DAP a Girolamo Minervini l Dipartimento della amministrazione penitenziaria il 18 marzo ha dedicato l’aula magna della sua sede al Giudice Girolamo Minervini, a 35 anni dalla sua morte in un attentato a opera della Brigate Rosse. A scoprire il busto in memoria del Magistrato il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando e il Capo del Dap Santi Consolo insieme alla figlia del Giudice Minervini, Ambra. «Grazie all’Amministrazione penitenziaria che ricorda mio padre a distanza di 35 anni ma le altre istituzioni non ricordano ed invece ci trattano alla stregua di scocciatori. Danno più spazio commenta Ambra Minervini ai carnefici che alle vittime». Per il Capo del Dap, Santi Consolo sono «tante vittime del dovere, cadute da eroi ed oggi l’Amministrazione Giudiziaria ne da’ il giusto tributo».

I

«Era un uomo normale - ha detto il Ministro nella breve cerimonia - ed era perfettamente consapevole dei pericoli che correva ma, nonostante l’insistenza del questore di Roma, rifiutò la scorta per non coinvolgere anche altri. Il ricordo del sacrificio dei migliori

servitori dello Stato è un essenziale compito delle istituzioni e deve ispirare il legislatore e i giovani magistrati - ha aggiunto Orlando, sottolineando poi che L’azione del giudice Girolamo Minervini deve essere utile a tenere viva la

memoria del Paese. La nostra Repubblica ha saputo vincere la battaglia contro il piombo del terrorismo e dobbiamo celebrare Minervini e le altre vittime con l’orgoglio di aver vinto».H

Nelle foto: le fasi della cerimonia di intitolazione al Giudice Minervini dell’Aula Magna del DAP

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12 Roberto Thomas già Magistrato minorile, docente di criminologia presso l’Università La Sapienza di Roma rivista@sappe.it

criminologia

L’ascolto del minorenne detenuto

S

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i deve rilevare l’enorme importanza civile ed umana del sistema carcerario che era già stata sottolineata dal grande scrittore russo Fedor Dostoevskij nella sua opera Delitto e Castigo, quando scrisse che : “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. I principi generali che lo regolano (che si riconnettono strettamente al contenuto del terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, secondo cui: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ) sono previsti nell’art. 1 della legge 26 luglio1975 n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario”). In tale articolo si legge : “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose... Nei confronti dei condannati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio individualizzato in rapporto alle specifiche condizioni del soggetto.” Nel successivo art. 15 Ord. Penit., si legge : “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro , della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia” La normativa sull’ordinamento penitenziario si applica, in generale,

anche ai detenuti minorenni “fino a quando non sarà provveduto con apposita legge” ( art.79 Ord. Penit. ) che - nonostante vari progetti di legge parlamentari “andati a vuoto” e i ripetuti richiami della Corte Costituzionale al riguardo – non ha ancora visto la luce. L’ascolto del minore sottoposto a misura privativa della libertà viene effettuato, in prima battuta, attraverso la forma dell’interrogatorio, dai magistrati minorili (P.M. e G.I.P. ) che devono applicare, in tale adempimento, il contenuto dell’art. 1 del D.P.R. 448 del 1988, che, introducendo notevoli riforme nel campo della procedura penale minorile, prevede programmaticamente che “Nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto... .applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne. Il giudice illustra all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni.” . In tal maniera vi è stato il rivoluzionario mutamento della funzione giurisdizionale esclusivamente per i soggetti minorenni – con l’affermazione di una sanzione con prevalente finalità educativa come reazione a un comportamento criminale, che trasforma il giudice, anche e soprattutto, in un educatore (coadiuvato dalla “assistenza affettiva e psicologica”, realizzata verso i minori imputati di reato da parte dei Servizi Sociali Minorili ex art. 12 D.P.R. 448/1988 ), anticipando temporalmente una prima fase di trattamento rieducativo da attuarsi poi, compiutamente, nell’ambito carcerario a seguito della condanna.

La premessa comune di ogni interrogatorio tendente all’accertamento della verità processuale consiste, per il magistrato, nell’entrare in “sintonia” con l’adolescente in stato di arresto, con la giusta la lunghezza d’onda, al fine di evitare l’impossibilità di un dialogo “costruttivo” con l’utilizzo da parte del minore di avvalersi della facoltà di non rispondere ( ex art. 64, 3 cod. proc. pen.) . Valutato il grave trauma subito dal minorenne privato della libertà, l’interrogatorio-ascolto giudiziario sarà largamente condizionato dalla sua angosciante richiesta di riottenerla al più presto, con promesse di comportarsi onestamente per il futuro, senza ricadere nella commissione di altri reati . Se grazie alla sua professionalità e umanità il magistrato attuerà con l’adolescente un dialogo “rasserenante”, un po’ alla volta il minore “svuoterà il sacco” con una confessione non solo del fatto- reato, ma anche della sua fragilità psicologica che implica un’ implicita richiesta di aiuto . A questo punto dovrà scattare l’operatività di una forte iniezione di fiducia somministrata dal magistrato con l’affermazione che ci potrà essere in ogni caso la possibilità concreta del suo riscatto, se non commetterà più in futuro altri comportamenti criminosi. Questo messaggio sintetizzato nella semplice frase , di forte valore simbolico, “io ho fiducia in te” contribuirà a far scolorire sempre di più la volontà di trasgressione insita nel minore, mutandola in un sano proponimento di cambiamento esistenziale. Il carcere minorile attualmente viene denominato ( nell’art. 8 del D.L.vo 28 luglio 1989 n. 272 ) istituto penale minorile (I.P.M. ), sostituendo il termine “prigione scuola” contenuto nel Regio Decreto Legislativo 20 luglio 1934 n. 1404 , istitutivo dei Tribunali per i minorenni. Le sue finalità rieducative, già ricordate, sono controllate, nella loro applicazione pratica, da un organo giudiziario minorile, che è il magistrato di sorveglianza del


criminologia tribunale per i minorenni nella cui competenza territoriale si trova la struttura carceraria. Questi , oltre ad avere la competenza di decidere sui permessi ordinari (ex art. 30 Ord. Penit.) e permessi premio (ex art. 30 ter Ord. Penit.), “vigila sull’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena” (art.69, 1 Ord. Penit.) con ispezioni costanti e non preavvisate all’interno dello I.P.M., mediante le quali egli, non solo controlla il funzionamento dei servizi generali interni (mensa, scuola, attività ludiche e culturali), ma soprattutto può ascoltare i ragazzi detenuti per sentire le loro esigenze pratiche e le lamentele, su cui “decide con ordinanza” (ex art. 69, 6 Ord. Penit.), approvando, inoltre, con decreto, il programma di trattamento del singolo detenuto (ex art.69, 5 Ord. Penit.). All’interno dell’istituto penale minorile opera – oltre al Corpo della Polizia Penitenziaria i cui Agenti , scelti in base a specifici “criteri attitudinali” ex art. 15 legge n. 395 del 1990, per motivi accoglienza non devono indossare la divisa d’ordinanza e al gruppo dei volontari esterni autorizzati dal magistrato di sorveglianza (ex art. 17 Ord. Penit.)l’équipe psico- sociale specializzata nell’osservazione della personalità e nel trattamento individualizzato del minore detenuto, presieduta dal direttore del carcere (ex artt. 28 e 29 Ord. Penit.). La composizione di tale èquipe è stata ampliata dal D.P.R. n.330 del 2000 e in particolare, per i minori, dalla Circolare dell’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile n. 5391 del 17 febbraio 2006 , ove si prevede che il direttore coordini, per l’osservazione e il trattamento, un educatore, un assistente sociale, uno psicologo, un medico, un rappresentante della polizia penitenziaria, un insegnante , un animatore e un mediatore culturale. Inoltre si può ricorrere, ad integrazione del predetto personale “fisso”, anche a quello esterno con incarico giornaliero formato da “professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica”

(ex art. 80 Ord. Penit.). L’attività di tale équipe è finalizzata, secondo la precitata circolare, a realizzare : “una strategia d’intervento atta a promuovere esperienze relazionali finalizzate a fornire un nuovo contesto di esperienze profondamente diverso da quello sperimentato nella storia del ragazzo” . Siffatta strategia dovrebbe operare secondo i principi della mia teoria criminologica rieducativa della “porta aperta” (basata sui quattro pilastri dell’ascolto, della comprensione, della fiducia e della responsabilità) - già anticipata parzialmente nella precedente descrizione del contenuto dell’interrogatorio-ascolto giurisdizionale - modulando concretamente le predette quattro sue linee guida, tenendo sempre presente che il soggetto da recuperare ha avuto l’esperienza negativa del fatto di aver commesso un reato, al quale ne è conseguita una sanzione detentiva spesso con effetti traumatici. E’ su questo stigma penale, al fine di cancellarlo, che deve agire l’ascolto, cercando di far sfogare il minore sulle cause profonde che hanno generato il suo comportamento criminale. Bisognerà tentare, pertanto di convincerlo che il fatto penale è stato un mero incidente di percorso che, se non ripetuto, non inciderà sul suo percorso di vita lavorativa onesta, né sul suo buon nome nella società. Al fine di evitare tensioni preliminari nel dialogo occorrerà evitare delle diversificazioni di ruoli troppo marcate, soprattutto quelle intrise di autoritarismo o di un vuoto paternalismo, e pertanto inaccettabili dal minore (quali , ad esempio, “ti domando questo perché sono uno psicologo e tu devi rispondermi perché sei un detenuto”, oppure : “ti parlo come fossi mio figlio” ), che , per reazione, si chiuderebbe subito in un ostinato mutismo. Opportuno, poi, è iniziare il dialogo prendendolo “alla larga”, sottolineando delle circostanze estranee al fatto reato (quali, ad esempio, gli interessi che piacciono in genere agli adolescenti, come quelli sportivi, amorosi e così via) al fine di

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“rompere il ghiaccio”, cercando di accattivarsi l’attenzione del minorenne. E’ importante percepire anche la comunicazione non verbale dei minori che talora precede quella contenuta nelle parole.

Invero, da questo punto di vista, è assai importante notare la loro mimica facciale, connotata da un arrossire o da un impallidire, che denotano forti emozioni alla ricezione della domanda, così come la gestualità nel muoversi e nel sedersi, la sudorazione del viso e delle mani: una intersezione psicologica variegata di vergogna, sbigottimento, ansia, paura , nervosismo, irritazione, perplessità che devono essere tempestivamente interpretate dal loro interlocutore, per calibrare in maniera migliore le successive domande che devono essere modulate sulle base dei segnali lanciati, spesso involontariamente e senza parole, dagli adolescenti. Quindi l’operatore dovrà iniziare, gradualmente e con pazienza, a far percepire al detenuto la sua volontà di poter condividere , almeno parzialmente, i suoi problemi esistenziali, mettendosi in ascolto delle angosce, dei sensi di colpa e delle aspettative del minorenne, il quale, a sua volta, piano piano, a tenderà ad aprirsi sempre di più, riferendo le problematiche, anche più intime, relative alla quotidianità della sua vita. Detto ascolto “paritario” (quasi come fosse quello tra coetanei confidenti ) non dovrà essere giudicato nei suoi contenuti “controversi” all’operatore,

Nella foto: incontro di mani

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criminologia sullo stile di una reprimenda morale (“hai fatto molto male a comportarti così, dovresti vergognarti”), bensì dovrà essere recepito in maniera “accogliente”, nel senso di ritenere il comportamento oggettivamente censurabile come un passato su cui mettere una pietra sopra e non ripeterlo mai più (“va bene, è successo perché evidentemente doveva succedere, adesso non ci pensiamo più, l’importante è che non si ripeta per il futuro”). Quindi una modalità di ricezione da parte dell’operatore improntata alla massima comprensione dei fatti e delle azioni del minore, soprattutto quando si viene a rendere conto che il detenuto, già di per sé , ha acquisito un forte senso di colpa per l’accaduto e si sente in uno stato

Nella foto: detenuti minorenni al lavoro

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“confusionale” di perdita della propria autostima e di paura di essere privato per sempre della stima del suo ambiente familiare. Allora dovrà subentrare una fase del dialogo improntato , da parte dell’operatore, al tentativo di ricostituire, con le sue parole comprensive, quella stima interiore “traballante” nell’animo del minore. Invero si deve sottolineare la massima importanza della molla della fiducia intesa, da una parte, come messaggio rasserenante che l’operatore dovrà inviare al detenuto, al fine di rinforzarlo nella sua autostima, di comprendere le motivazioni dei suoi errori comportamentali (“io ti comprendo”), dall’altra, esprimere soprattutto fiducia nelle sue azioni future, correttive dei precedenti sbagli (“io ho fiducia in te”). Infondere una nuova autostima al

minorenne è l’imperativo categorico per chi deve realizzare la teoria della porta aperta, denominata aperta, appunto, in quanto spazio finalizzato alla speranza di un suo riscatto. Al tempo stesso occorre impostare un discorso serio sul concetto di responsabilità morale e sociale dell’individuo che deve imputare il suo comportamento ad un vissuto complessivo da cambiare radicalmente : cosa certamente assai ardua da realizzare ma, col tempo e la pazienza, possibile. Pertanto dovrà scattare l’invito al minore detenuto di voler prendere in considerazione la possibilità di un percorso virtuoso, sollecitando pertanto la sua responsabilità in maniera graduale. L’operatore concluderà così di essere certo che ciò si verificherà per lui, ritenendo che non rifarà siffatte azioni, frutto di uno sbaglio giustificabile che può capitare a tutti e che non deve incidere in nessuna maniera sul suo futuro di giovane responsabile (“stai tranquillo ho compreso il tuo disagio, so che non ripeterai più queste azioni perché ti considero un ragazzo responsabile. Ora non ti abbattere per il passato , pensa al futuro: se vorrai ti sarò vicino per consigliarti... ricordati non sei solo!”). Siffatti interventi operativi di recupero sono attivati, all’interno dell’istituto penale minorile al fine di evitare la recidiva del minore, cioè la “ricaduta” nella violazione penale ( cosiddetta prevenzione speciale ), ed interrompere così il possibile inizio di una cosiddetta “carriera criminale”, in una escalation sempre più grave di commissione di reati, di modo che, alla fine della detenzione, la porta della prigione che si apre per lasciare uscire il giovane, si rinchiuda dietro alle spalle di un soggetto ormai diventato maturo e consapevole del suo futuro. Indubbiamente il trattamento rieducativo deve essere personalizzato (come previsto dall’art. 13 Ord. Penit.) e richiede continuità sovente per tempi lunghi. In tale ottica giustamente la legge 11 agosto 2014 n. 117 ha prorogato la permanenza

negli istituti penali minorili dai 21 ai 25 anni d’età, esclusivamente per quei soggetti che abbiano commesso il reato durante la minore età. Siffatto provvedimento normativo, che inserisce negli I.P.M. giovani adulti dai 21 ai 25 anni, è sicuramente da approvare al fine di garantire il completamento del trattamento rieducativo, abbassando così la loro possibilità di recidiva. Però potrebbe creare, se mal gestito, degli inconvenienti di “compatibilità ambientale” con i detenuti più piccoli d’età per il problema, già sottolineato da Cesare Lombroso, delle “educazioni criminali” ( nel suo libro L’uomo delinquente, V ed., 1897, pag. 1227 dell’edizione Bompiani del 2013, in cui il “padre” dell’antropologia criminale, antesignana della moderna criminologia, scriveva : “ Presso a poco altrettanto fa l’abbandono, come negli orfani, nei trovatelli, nei ragazzi vagabondi, a cui la società - quando pur lo fa – provvede con mezzi che possono dirsi vere educazioni criminali, raccogliendoli in masse, in istituti, dove i viziosi predominano; e perciò troveremo una quantità relativamente grande di trovatelli e di orfani nei criminali.”) e ribadito come “l’esigenza di evitare influenze nocive reciproche” dall’art.14 Ord. Penit. che regola l’assegnazione e il raggruppamento delle varie categorie di detenuti all’interno della struttura carceraria. Invero, per prevenire siffatto rischio, bisognerebbe attentamente controllare la comunicazione interna fra i giovani adulti e gli altri minorenni, con la completa autonomia dell’ubicazione dei locali “notte” e la differenziazione degli spazi comuni relativi alle attività ricreative , come giustamente richiesto nel comunicato stampa del Consiglio Nazionale dell’Ordine Assistenti Sociali del 28 luglio 2014 in cui si sottolinea la perplessità che : “ tuttavia omogeneizzare e rendere ‘compatibili‘ esigenze e caratteristiche di infradiciottenni e giovani fino ai 25 anni sia all’interno degli Istituti Penali Minorili.....sia nell’attività degli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM) richiede tempo e risorse...”. H


l’osservatorio rmai dovrebbe essere ufficiale, il condizionale è d’obbligo, visto l’iter che ha avuto finora la vicenda: il 31 marzo gli ospedali psichiatrici giudiziari chiudono, per lasciare il posto alle REMS, Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Bisogna intanto precisare che il ricovero in Ospedali Psichiatrici Giudiziari, previsto dall’articolo 222 del Codice Penale, è la misura di sicurezza detentiva riservata agli autori di delitti dolosi puniti in astratto con la reclusione superiore nel massimo a due anni, che siano stati prosciolti per vizio totale di mente determinato da infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti o per sordomutismo, e che siano stati ritenuti socialmente pericolosi, essendo probabile che tornino a commettere nuovi reati. Quindi, negli ospedali psichiatrici vengono ricoverati coloro che sono stati dichiarati incapaci di intendere e di volere, a seguito della commissioni di un delitto doloso. Si tratta di una misura di sicurezza, inflitta a questi soggetti che, pur non potendo essere condannati, a causa della loro condizione, risultano comunque socialmente pericolosi; la pericolosità sociale è ritenuta dal giudice in sentenza, dopo le perizie medico legali effettuate nel corso del processo. Il ricovero avviene per un tempo determinato sempre dal giudice, tempo che, però, a differenza di quanto avviene per la pena, può diventare indefinito e durare anche per tutta la vita dell’internato, se lo stato di pericolosità sociale permane nel tempo. E’ proprio questa la critica maggiore che nel corso degli anni è stata mossa alla norma da molti giuristi ed addetti ai lavori, tant’è che, di recente, il legislatore ha stabilito che la durata della misura di sicurezza non può essere superiore a quella della pena a cui la persona potrebbe essere condannata se fosse ritenuta imputabile. Il legislatore ha posto un limite che, però, a nostro avviso, mal si concilia

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Chiudono gli OPG per lasciare posto alle nuove REMS con la ratio della misura stessa, atteso che essendo la misura di sicurezza basata sul presupposto della pericolosità sociale, oltre che su quello della commissione di un delitto, non dovrebbe avere un limite temporale imposto per legge. La pericolosità sociale, valutata dal giudice di volta in volta, e basata, in questo caso, sullo stato di salute del soggetto, non può avere un limite temporale posto ab origine. Ciò determina lo snaturamento della misura stessa che assume la forma mascherata di una pena vera e propria, ma pena non è, e perde il suo effetto di tutela sociale dei consociati. Attualmente, in Italia, gli ospedali psichiatrici giudiziari sono: Barcellona Pozzo di Gotto, a Messina, (competente per la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Basilicata), Napoli e Aversa, (competenti per la Campania, il Lazio, l’Abruzzo e il Molise), Castiglione delle Stiviere, a Mantova (competente per la Lombardia, la Valle d’Aosta e il Piemonte), Reggio Emilia, (competente per l’Emilia Romagna, per le province di Trento e Bolzano, per il Friuli Venezia Giulia, il Veneto e le Marche) e Montelupo Fiorentino, (competente per Toscana, Sardegna e Liguria e Umbria). Gli internati sono circa 1000, attualmente, contro i 1600 di cinque anni fa. Dal 2010 ad oggi si è assistito ad un progressivo calo dei ricoveri negli OPG; calo da mettere in relazione con un incremento delle dimissioni. Il passaggio dagli attuali ospedali psichiatrici giudiziari alle REMS prevede che ogni regione si doti di strutture proprie, in modo che anche in questo caso ci sia una regionalizzazione dell’esecuzione della misura di sicurezza; tali strutture verranno gestite da personale medico e paramedico, mentre la vigilanza

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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

esterna verrà affidata alla polizia privata. Dovrebbero restare sotto la gestione della polizia penitenziaria solo le persone ritenute particolarmente pericolose. A seguito dell’istruttoria effettuata dagli uffici competenti del Ministero della Salute, le Direzioni interessate hanno espresso parere favorevole sui programmi presentati, ad esclusione del Veneto.

Per la regione Piemonte il programma prevede la realizzazione di 2 strutture residenziali, situate in provincia di Biella e Alessandria, per un costo totale di 12,6 milioni di euro. E’ prevista la realizzazione di 70 posti letto. Per la Lombardia è prevista la realizzazione di 4 strutture residenziali, per un totale di 240 posti letto e un costo complessivo di 34 milioni di euro. Le strutture sorgeranno nelle province di Como, Brescia e Milano e verrà riqualificata quella di Castiglione delle Stiviere. •Per il Friuli Venezia Giulia è prevista la realizzazione di una struttura con 10 posti letto in provincia di Pordenone; in Liguria una struttura in provincia di La Spezia, con 20 posti letto, per un costo di 4,1 milioni di euro;

Nella foto: la cancellazione degli OPG

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diritto e diritti

16 • in Emilia Romagna una struttura con 40 posti in provincia di Reggio Emilia, per un costo di 2,99 milioni di euro; • per Toscana e Umbria l’accordo prevede un programma unitario, con la realizzazione 5 strutture in provincia di Firenze, Arezzo e Massa Carrara, per un totale di 72 posti letto e un costo di 11,6 milioni di euro; • nel Lazio 2 strutture nella città di Roma e la ristrutturazione di un ospedale dimesso in provincia di Roma, per un totale di 95 posti e un costo di 17,7 milioni di euro; • per l’Abruzzo e il Molise una struttura a Chieti di 20 posti letto, per un costo di 4,8 milioni di euro; • in Campania è prevista la realizzazione di 8 REMS situate in provincia di Avellino, Benevento, Caserta, Napoli e Salerno, per un totale di 160 posti e un costo di 19,3 milioni di euro; • in Puglia è prevista la riqualificazione di 3 presidi ospedalieri dimessi, per un totale di 58 posti e un costo di 10,1 milioni di euro; • in Basilicata 1 struttura in provincia

Nella foto: l’ingresso dell’OPG di Montelupo Fiorentino

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di Potenza, con 5 posti letto; • in Calabria 2 strutture in provincia di Catanzaro, con 60 posti letto, per un costo di 6,9 milioni di euro; • in Sicilia 4 strutture in provincia di Catania, Caltanissetta e Messina, per un totale di 80 posti letto e un costo di 18,11 milioni di euro; • in Sardegna 1 residenza in provincia di Sassari, di 40 posti letto, per un costo di 6 milioni di euro.H

La natura giuridica delle circolari amministrative e circolari sono provvedimenti amministrativi, atti interni con i quali la Pubblica Amministrazione detta regole relative al funzionamento dei propri uffici alle modalità di svolgimento della propria attività: non può pregiudicare l’applicazione della legge e degli atti normativi aventi forza di legge (decreto legge, decreto legislativo, D.P.R.) e, soprattutto, non può limitare i diritti soggettivi dei cittadini utenti della pubblica amministrazione. Si tratta, più precisamente, di un insieme di atti che si dirigono nei confronti di coloro che fanno parte di una determinata amministrazione ed hanno, perciò, valenza interna; esse, infatti, fanno parte insieme ai regolamenti, ordini e istruzioni, delle cosiddette norme interne della Pubblica Amministrazione dando luogo ad un ordinamento amministrativo “interno”, distinto dall’ordinamento giuridico generale, che non ha rilievo esterno. A tal proposito occorre ricordare che la circolare amministrativa è atto espressivo del potere di autorganizzazione dell’ente pubblico e si colloca nel rapporto tra uffici di grado diverso, appartenenti alla medesima Amministrazione ovvero a diverse Amministrazioni. Una delle funzioni che ad essa può essere assegnata è quella interpretativa, con cui l’Autorità di vertice dell’Amministrazione, chiarendo il significato di leggi o regolamenti destinati ad essere applicate dagli uffici sottordinati, vuole garantirne l’uniforme applicazione da parte dell’apparato amministrativo. Poiché si tratta di un atto endogeno alla Pubblica Amministrazione, l’incidenza nei confronti di rapporti esterni ad essa è, dunque, solo indiretta e successiva, con la conseguente possibilità

L

d’impugnare dinanzi al giudice amministrativo non la circolare, ma solo gli atti che ne costituiscono diretta applicazione, in quanto solo questi ultimi sono dotati di efficacia lesiva. L’impugnazione della sola circolare interpretativa non è perciò possibile, per carenza di interesse concreto da parte del ricorrente, ma anche per difetto assoluto di giurisdizione, non potendo il giudice intervenire su un atto interno all’Amministrazione senza che ciò comporti anche una violazione della riserva di Amministrazione. Le circolari non rientrano nel novero delle fonti del diritto in quanto si tratta di atti interni che valgono esclusivamente nell’ambito dell’ordinamento particolare che le ha emanate, fornendo istruzioni, indicazioni, ordini e direttive circa i comportamenti da seguire ed esaurendo la loro efficacia giuridica solo nei confronti dei soggetti cui esse sono rivolte . La sentenza della V Sezione del Consiglio di Stato n. 7521 del 2010 ha ribadito un indirizzo già consolidato in giurisprudenza: le circolari amministrative non possono essere contrarie a norme regolamentari e/o di legge e non sono vincolanti nei confronti dell’organo destinatario delle stesse. Le circolari amministartive, ha precisato il collegio, sono atti diretti agli uffici sottordinati che non hanno, di per sè, valore normativo o provvedimentale, nè efficacia vincolante per i soggetti estranei all’amministrazione. In tale prospettiva non è necessario procedere alla disapplicazione di circolari amministrative che risultino in contrasto con norme regolamentari o di legge in quanto si potrà procedere all’applicazione diretta di queste. Le circolari amministrative


diritto e diritti interpretative possono, peraltro, rilevare nella valutazione del comportamento del funzionario che ne abbia fatto applicazione. Pertanto, è pacifico che le circolari che risultino contra legem non possono essere considerate rilevanti (cfr., sul punto, Cons. St., sez. VI, 18.12.2012, n. 6487). Non è superfluo ricordare che “il termine circolare non indica una particolare figura di atto normativo, ma puramente e semplicemente il testo scritto che contiene e che è volto a portare a conoscenza un atto giuridico o una notizia indirizzata a una pluralità di destinatari”. (Giannini, Catelani). Tanto premesso, quanto all’ambito di rilevanza delle stesse, a dispetto di una totale negazione di efficacia esterna, si riconosce che le circolari, pur difettando di una rilevanza esterna diretta, siano comunque dotate di una efficacia esterna mediata, nel senso che gli effetti della circolare si ripercuotono sui cittadini attraverso l’intermediazione di un atto amministrativo che, in applicazione o in violazione della circolare stessa, invade concretamente la sfera giuridica dei destinatari (1). La giurisprudenza della Corte di Cassazione è intervenuta sull’argomento evidenziando come le circolari amministrative non possano essere considerate atti amministrativi in senso proprio, ma vadano considerate piuttosto un mezzo per portare alla conoscenza dei suoi destinatari disposizioni normative, organizzative, interpretative o informative. In altre parole, le circolari non sono fonti di diritto ma si limitano a veicolare disposizioni a carattere interno - di varia tipologia: ordini di servizio, istruzioni, chiarimenti sulla effettiva portata di norme vere e proprie - impartite a direttori e funzionari della Pubblica Amministrazione al fine di armonizzarne l’azione. La Cassazione a sezioni unite ha avuto modo di chiarire in diverse decisioni che le circolari sviluppano un’efficacia interna non assoluta, nel senso che se un dirigente o un funzionario la disattendono non è detto che l’ atto in

concreto adottato sia viziato da eccesso di potere e quindi nullo. La circolare, infatti, può essere legittimamente disattesa nel caso in cui risulti palesemente illegittima: non va dimenticato che, in quanto atto interno della Pubblica Amministrazione, la circolare non può disporre contra legem, essendo sempre inidonea ad incidere sulle posizioni soggettive di terzi a meno che non venga recepita da un atto amministrativo vero e proprio. Nei casi in cui non risulti manifestamente illegittima, invece, si ritiene generalmente che la circolare emanata dall’autorità centrale o comunque dagli organi gerarchicamente superiori vincoli enti e organi periferici subordinati, tracciando il confine dell’eccesso di potere. Ne consegue che le circolari non rivestono una rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione, per cui i soggetti destinatari di questi ultimi non hanno alcun onere di impugnare la circolare, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che gli atti applicativi sono illegittimi perché hanno applicato una circolare illegittima che si sarebbe invece dovuta disapplicare (C.d. S., IV, 20 settembre 1994, n. 720)” (così testualmente C.d.S.: IV, 16 ottobre 2000, n. 5506). Parte della dottrina e della giurisprudenza attribuisce alle circolari natura di fonti interne, ovvero di atti contenenti disposizioni vincolanti per gli organi della Pubblica Amministrazione emanante, che trovano il loro fondamento nel principio di pluralità degli ordinamenti giuridici dello Stato e, che, quindi, sono espressione del potere di auto - organizzazione ed auto - regolamentazione dei medesimi. Tuttavia secondo altro orientamento, le circolari sono uno strumento di comunicazione di altri atti, paragonabile alla notificazione. In sostanza, esse avrebbero conservato la stessa funzione che in origine era loro propria, ovvero di mezzo di trasmissione degli ordini nell’ambito degli apparati militari. Ne deriva che la natura delle circolari

dipende, essenzialmente dalla natura dell’atto contenuto. In particolare, si distinguono circolari: a) regolamento o normative, contenenti disposizioni che disciplinano l’attività amministrativa dettando regole da osservarsi nell’esercizio concreto della funzione, da parte degli uffici interessati; b) di organizzazione, volte a diramare disposizioni organizzative nell’apparato amministrativo; c) interpretative, volte a comunicare l’interpretazione di norme giuridiche rilevanti per l’attività amministrativa agli organi interessati all’applicazione delle medesime, non solo nell’ambito di un rapporto gerarchico, ma anche per il coordinamento di uffici equiordinati o facenti parte di diverso apparato burocratico (c.d. dottrina dell’amministrazione); d) informative, contenenti notizie rilevanti per gli Uffici o i dipendenti degli Uffici; e) di cortesia, contenenti messaggi augurali o saluti.

Con sentenza n 7521 del 15 ottobre 2010, la Sezione V del Consiglio di Stato ha avuto modo di tornare ad esaminare la questione relativa alla natura giuridica delle circolari amministrative ribadendo principi già cristallizzati nella sua giurisprudenza.H (1) Corso di diritto amministrativo. Profili sostanziali e processuali, Francesco Caringella, Giuffrè, 2011.

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Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it

Nella foto: pila di circolari

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Lady Oscar rivista@sappe.it

lo sport

Arriva la fiction Rai su Pietro Mennea omenica 29 e lunedì 30 marzo, in prima serata su rai uno con il titolo “La Freccia del Sud”, è in programma la fiction dedicata a Pietro Mennea, interpretata da Michele Riondino e diretta da Ricky Tognazzi. L’opera, prodotta da Luca Barbareschi che recita il ruolo di Carlo Vittori (l’allenatore più vicino a Mennea nel corso della sua scintillante carriera), si è proposta di ricostruire e mostrare il ritratto dell’uomo e del campione che ha scritto la storia dell’atletica italiana e del mondo della velocità a partire dalla sua Puglia, più precisamente da Barletta, che gli diede i natali.

decreto ministeriale del 25 luglio 1983). L’ultimo nato tra i gruppi sportivi in divisa tenuto a battesimo da uno dei più grandi atleti di tutti i tempi, per risultati sportivi conseguiti ma anche e soprattutto per aver incarnato con il suo stile di vita la metafora dello sportivo e dell’uomo perfetto. Oltre all’oro di Mosca e al record di Città del Messico ha anche conseguito quattro lauree, ha scritto diversi libri, ha dato vita ad una fondazione, che ancora oggi porta il suo nome, con lo scopo precipuo di effettuare donazioni per l’assistenza sociale ad enti caritatevoli, per lo sviluppo della

Mennea vinse un oro olimpico a Mosca e, a Città del Messico, quel 12 settembre 1979, con il suo 19” 72 sui 200 divenne per ben diciassette anni l’uomo più veloce della terra. Quando nel marzo 2013 ha lasciato questa vita non è scomparsa solo una ancora giovane stella delle piste e dell’intero movimento sportivo nazionale, ma è venuto a mancare di colpo anche un pezzo fondamentale della storia dello sport della Polizia Penitenziaria, delle Fiamme Azzurre di cui fu ideatore e padre nobile insieme all’allora Direttore Generale dell’Ufficio del Personale Raffaele Condemi. Fu sua l’iniziativa che portò all’atto costitutivo del gruppo sportivo della Polizia Penitenziaria (con

ricerca medico-scientifica, per il sostegno ad associazioni culturali e sportive attraverso progetti specifici (tra questi Mennea aveva particolarmente a cuore la diffusione dei valori dello sport e la lotta ad ogni forma di doping). Insomma “la freccia del sud” è andata ben al di là le sue cinque olimpiadi e la sua personale preoccupazione di lasciare un’impronta nella storia dello sport nazionale ed internazionale. E per un uomo che ha fatto della serietà personale, dei valori e dei principi etici legati allo sport la sua bandiera, come segno di gratitudine e di riconoscimento da parte delle “sue” Fiamme Azzurre, c’è stata la

D Nelle foto: accanto al titolo la locandina sotto l’attore Michele Riondino che interpreta Pietro Mennea

Nelle foto: a destra il Presidente del Coni Malagò insieme al cast e al regista della fiction Rai sotto la nostra copertina del numero di marzo 2013 dedicata a Pietro Mennea

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creazione della Scuola di Atletica Leggera “Pietro Mennea” fortemente voluta dal comandante del gruppo sportivo Comm. Marcello Tolu proprio all’insegna di quei principi e di quei valori etici. Il 20 marzo il gotha dello sport italiano si è radunato nel Salone d’Onore del CONI per la proiezione in


lo sport

anteprima della fiction. Con Malagò in testa, molti campioni del passato come Marisa Masullo, Giuseppe Gibilisco, Manuela Di Centa, Novella Calligaris, Stefano Pantano, Alessandra Sensini, Stefano Tilli, Annamaria Marasi e Roberto Tozzi, bronzo con Mennea nella 4x400 alle Olimpiadi di Mosca 1980 si sono stretti in un grande ideale abbraccio

alla moglie del campione, Emanuela Olivieri, presente in sala per la proiezione. Due anni fa le porte di quel Salone d’Onore si aprirono per la prima volta per ospitare la camera ardente di Mennea. Nell’anniversario della scomparsa c’è stato il commosso ricordo con la presentazione un’opera televisiva sicuramente di non facile

realizzazione vista la complessità del personaggio e la poliedricità della sua vita. All’evento hanno partecipato anche il Segretario Generale del CONI, Roberto Fabbricini, il Vice Segretario Generale Carlo Mornati, l’Amministratore Delegato della Coni Servizi, Alberto Miglietta, i Presidenti Federali Alfio Giomi (Atletica) con il Vice Presidente Vincenzo Parrinello, Carlo Tavecchio (Calcio) insieme al Dg Michele Uva, Renato di Rocco (Ciclismo), Felice Buglione (FIDASC), Luca Pancalli (CIP). Presenti anche il General Coordinator di Roma 2024, Claudia Bugno, il Presidente del Collegio dei Revisori dei Conti del CONI, Alberto De Nigro, il Vice direttore di Rai Fiction, Francesco Nardella, e il sindaco di Barletta, Pasquale Cascella. H

19 Nella foto: Pietro Mennea

Primo titolo per la Scuola di Atletica “Pietro Mennea” ntanto la Scuola di Atletica Leggera “Pietro Mennea” organizzata dalle Fiamme Azzurre in collaborazione con la sua affiliata S.S. Lazio - il 15 febbraio 2015 ha esordito nel campionato di società provinciale di cross, svoltosi alla Tenuta del Cavaliere - Lunghezza, riuscendo a conquistare il suo storico primo titolo provinciale. La scuola cura le attività di avviamento sportivo per ragazzi presso il Centro Sportivo Casal del Marmo utilizzando la pista di atletica dello stadio ed il pistino indoor, autentici gioielli dell’impiantistica sportiva laziale e nazionale in uso ai praticanti dello sport “regina” e all’Astrea Calcio. Struttura a parte, a disposizione dei ragazzi che gareggiano con i colori ed il tesseramento delle Fiamme Azzurre c’è anche il “know how” tecnici come Daniela Reina e Bernardino Chiarelli, atleti di punta del sodalizio della Polizia Penitenziaria e ad oggi anche nelle vesti di guide insostituibili per quanti intendono avvicinarsi all’all’atletica leggera. Dalla pista di Lunghezza sono arrivate ottime risposte ed il primo storico titolo provinciale nella categoria Esordienti B donne ad opera di Giulia Tagliatesta. Buona la prova di tutti gli altri partecipanti: Lorenzo De Carlini, Leonardo Roselli, Giulio Zanatta, Sabrina Andreoli, Martina Natale, Irene Pietracci, Esmeralda Rosario e Camilla Roselli per la Categoria Esordienti A, Sara e Giulia Ballarini, Flaminia Castellani, Joshua Kozova e Tommaso Maniscalco per la categoria Ragazzi, tutti, per la gioia di tecnici ed accompagnatori, hanno affrontato con impegno le loro prove affacciandosi all’attività pre-agonistica nel migliore dei modi. H

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Nelle foto: sopra i ragazzi della Scuola di Atletica a fianco Giulia Tagliatesta

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Laura Pierini Vice Segretario Sappe Firenze rivista@sappe.it

donne in uniforme

Negli occhi di un bambino

Chi ha molto a che fare con i bambini scoprirà che nessuna azione esteriore resta senza influsso su di loro - Goethe ent’anni fa, vidi portare via dalle braccia di sua madre un bambino che, compiuti i tre anni, non poteva rimanere in carcere, per essere appoggiato in qualche istituto dal momento che anche il padre era ristretto e probabilmente non vi erano altri componenti della famiglia che potessero farsene carico. Una scena straziante, che non lascia indifferenti: il cuore si fa piccolo e ti appelli a tutta la razionalità possibile per non cedere alle lacrime, a quel dolore che non puoi umanamente non condividere. Fai leva sulla professionalità perché di ciò c’è bisogno, devi essere forte per sostenere chi sta vivendo un momento così difficile. A distanza di poco la madre fu scarcerata usufruendo di una misura alternativa e mi sono chiesta se quanto accaduto avrebbe potuto essere evitato. Mi sono domandata se nella decisione di allontanare il bambino si fosse presa in considerazione anche la fattibilità di una prossima scarcerazione della madre in modo da evitare al bambino una separazione improvvisa e incomprensibile ai suoi occhi. E’ passato molto tempo da allora, ma le immagini ed i ricordi sono ancora vivi. In quegli anni, a Firenze, non esisteva una sezione destinata alle madri ed ai loro bambini.

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Entrambi vivevano negli stessi spazi destinati alle donne senza prole, sottoposti alle stesse regole, fatti di orari per le attività e di chiusure, anche se spesso il personale lasciava ai bambini maggior libertà di movimento e per loro c’era sempre un sorriso, una caramella, una parola dolce. Erano i primi anni ’90, sentirsi chiamare guardiana da un bambino era sempre un pugno allo stomaco. Vivendo nella sezione, aveva acquisito comportamenti e modalità di relazione propria degli adulti. Una situazione insostenibile alla quale si è tentato di dare una soluzione trasformando una sezione ordinaria in uno spazio che fosse quanto più vivibile e fruibile per i bambini: spazi giochi all’aperto ed al chiuso, i cancelli delle stanze detentive sostituite con porte in legno e chiusi solo nelle ore notturne, pareti colorate e decorate, lettini, materiale ludico e ricreativo adatto ed una cucina aggiuntiva e indipendente per ricreare una situazione familiare. Si è cercato così di tenere quanto più possibile lontani madri e bambini da quel contesto di vita quotidiano fortemente pregno di dolore e disagi. I bambini che si trovano nell’età di poterlo fare, vengono spesso iscritti ed accompagnati presso gli asili nido o la scuola materna, cosicché possano avere contatti con il mondo esterno e con gli altri bambini rientrando in istituto nel pomeriggio. Il fine settimana invece rimangono all’interno, con la madre e talvolta, soprattutto fra quelli più grandi, si riscontra la tristezza dovuta al fatto di non poter essere fuori a correre in qualche giardino. Anche la normativa si è modificata nel tempo ponendo maggiore attenzione alla questione dei bambini che accompagnano le madri in carcere e a cercare soluzioni che garantissero da un lato l’espiazione

della pena da parte della madre che ha commesso dei reati e dall’altro migliori condizioni di vita al bambino come il differimento dell’esecuzione della pena (artt. 146 e 147 c.p.), detenzione domiciliare specifica per le madri con prole fino ai dieci anni (art. 47-quinquies O.P.) che può essere prorogata o trasformata concedendo la possibilità dell’assistenza all’esterno dei figli minori tramite l’applicazione di quanto disposto dall’art. 21 bis O.P. A tal riguardo la recente legge 62/2011 è intervenuta su vari fronti: modificando l’art.47-ter sulla detenzione domiciliare e permettendo la possibilità di scontare la pena per le donne incinte o madri di prole di età inferiore ad 10 anni con lei convivente anche in case famiglia protette. Ha previsto inoltre la nascita di un tipo di istituto a custodia attenuata per madri (I.C.A.M) da realizzarsi in una sede esterna agli istituti penitenziari dotata di sistemi di sicurezza non riconoscibili dai bambini. Grandi passi in avanti anche se la lentezza burocratica e le problematiche relative alle convenzioni con gli enti locali per l’individuazione e adeguamento delle strutture hanno fatto sì che a tutt’oggi non si sia data piena attuazione a quanto previsto dalla legge. Inoltre c’è la questione di quei casi in cui la madre sia condannata per uno dei reati indicato nell’art. 4-bis dell’ O.P., e che pertanto non potrebbe avere accesso ai benefici di cui sopra. In tal caso a cosa dare rilievo? Alla gravità del reato commesso o al diritto del bambino? Se una madre che ha commesso dei reati non viene dichiarata decaduta dall’esercizio della potestà e quindi permane l’idoneità ad assolvere il proprio ruolo, allora bisogna che la legge privilegi e tuteli in tutte le maniere il diritto del bambino a crescere con lei e trovare un superamento dell’ostatività dell’art. 4bis. Diritto del bambino di crescere in un ambiente quanto più sereno possibile. I bambini non dovrebbero mai fare ingresso negli istituti penitenziari: per quanto lo sforzo di tutti gli operatori sia quello di non far pesare al bambino la situazione che sta vivendo,


dalle segreterie è inevitabile che la senta, l’avverta, la legga negli occhi di sua madre. ‘Negli occhi di un bambino’ Mi guardi, mi guardi con diffidenza. Sconosciuti in blu intorno alla mamma e quel doloroso sentire di colei che ti stringe più forte al cuore. Mi guardi, mi guardi stralunato. Sconosciuti in blu che ti sorridono mentre la tua mano è stretta a quella della mamma in cerca di protezione. Mi guardi, mi guardi curioso. Sconosciuti in blu che diventano parte della tua quotidiana vita senza portarti via da ciò che per te è vita. Mi guardi, mi guardi sorridendo. Sconosciuti in blu che nelle parole dolci cercano un sereno contatto e la tua mano si allunga con fiducia. Mi guardi, mi guardi felice. Sconosciuti in blu che ti salutano e buttano baci mentre tu e la tua mamma riprendete il vostro cammino. Buona Fortuna. A voi, invece, dico: a presto! H

Barletta Premio “Amico Forze dell’Ordine 2014” a Ruggiero Graziano a segreteria del Sappe di Venezia, per l'anno 2014 ha deciso di assegnare il Premio “Amico Forze dell'Ordine 2014”, al Presidente dell'Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra di Barletta, Ruggiero Graziano, con la seguente motivazione: visto il pregevole lavoro, svolto per sensibilizzare i giovani affinché comprendano che occorre una coscienza civile che onori chi si è sacrificato per la tutela della Patria e dell'Ordine Pubblico, e che avvicina le giovani generazioni alla cultura della legalità. «Dobbiamo avere una visione strategica del futuro – affermano Michele Di Noia e Filomeno Porcelluzzi, della Segreteria

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Aosta Anche la Polizia Penitenziaria alla 1015ª edizione della Fiera di Sant’Orso l Vice Ispettore Giovanni Passaro, l’Agente scelto Mauro Bavosa e l’Agente Daniele Rivaroli hanno inaugurato il servizio di ordine pubblico alla millenaria Fiera di Sant’Orso, che si svolta ad Aosta il 30 e il 31 Gennaio, nel centro storico della città. Un’esperienza unica insieme alla Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo Forestale e Polizia Locale. L’arte e il “savoir faire” valdostani. Come negli anni scorsi, mille espositori, tra artisti ed artigiani valdostani, hanno presentato con orgoglio e legittima soddisfazione i

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Provinciale SAPPE Venezia - ma per far ciò ci deve essere il coinvolgimento dei cittadini e di tutte le categorie che li rappresentano. Dobbiamo far ripartire il circolo delle idee, in un paese che ha bisogno di rinascere, di dare un senso alla quotidianità. Il nostro obiettivo è richiamare la società sana, che crede nei valori e vuole proporre un futuro migliore ai propri concittadini e, come fece Papa Giovanni Paolo II invitiamo tutti ad alzare la testa e ad avere coraggio. Queste idee devono venire da tutti, devono coinvolgere tutti, con il contributo di tutti i cittadini è necessario creare un nuovo Rinascimento, che consegnerà al paese, con il contributo delle giovani generazioni, un mondo dove legalità e patria saranno sinonimo di garanzia di un vivere civile». La targa è stata consegnata dal delegato regionale SAPPE-Puglia, Bruno Nunzio. Questo premio, istituito dalla Segreteria Sappe-Venezia nel 1999,

frutti del loro lavoro, svolto come hobby o come vera e propria attività professionale. La Fiera esprime l’identità della popolazione valdostana attraverso la celebrazione di un forte senso di appartenenza storicoculturale verso il proprio territorio. Un’esposizione di vere opere d’arte, derivanti anche dalla ricerca e dall’utilizzo di stili innovativi, sono i simboli tangibili di una cultura antica. La Fiera di Sant’Orso è un evento di grandissimo interesse e prestigio e attira un nutrito numero di turisti, pertanto, rappresenta un importante occasione per avvalorare l’immagine del Corpo verso al società civile. H

rivista@sappe.it

raggiunge per la terza volta la città della Disfida, già nel 2007 (Bartolomeo Dicorato), e nel 2009, premio assegnato al Comune di Barletta, consegnato al Sindaco dell’epoca Ing. Maffei. H Filomeno Porcelluzzi

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cinema dietro le sbarre

Blackhat a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

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Regia: Michael Mann Altri titoli: Cyber Soggetto: Michael Mann, Morgan Davis Foehl Sceneggiatura: Morgan Davis Foehl Fotografia: Stuart Dryburgh Montaggio: Joe Walker, Stephen E. Rivkin, Mako Kamitsuna, Jeremiah O'Driscoll Arredamento: Victor J. Zolfo Scenografia: Guy Hendrix Dyas Musica: Harry Gregson, Williams Atticus Ross Costumi: Colleen Atwood Effetti: John Nelson, Philip Brennan

ue attacchi informatici in Cina, esplosione di una centrale nucleare, e negli Stati Uniti, sabotaggio alla borsa di Chicago, convincono le Autorità dei due Paesi a collaborare per fermare colui o coloro che sono dietro i due crimini. Il capitano Dawai della polizia cinese, arrivato negli Stati Uniti, riesce a convincere l’FBI di avvalersi della collaborazione di un hacker che sta scontando una lunga condanna in un penitenziario di massima sicurezza. L’hacker suggerito dal capitano cinese è Nick Hathaway, un criminale

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recluso in un carcere federale, che nel gergo informatico viene definito blackhat. Un blackhat, altrimenti detto hacker immorale, è un hacker malintenzionato o con intenti criminali. Questo termine è spesso utilizzato nel campo della sicurezza informatica per indicare una persona dalle grandi capacità informatiche, ma con fini illeciti. Il termine deriva dal sostantivo di significato opposto white hat e, qualche volta, indica anche una persona che mantiene segretamente

la scheda del film

una conoscenza sulle vulnerabilità di un sistema per utilizzarla a proprio vantaggio, senza rivelarla al pubblico o al proprietario del sistema. Accettato l’incarico per uscire di prigione, Hathaway si unisce all’ingegnere informatico cinese Chen Lien per identificare e fermare l’invisibile e pericolosa organizzazione criminale autrice dei crimini. Le indagini digitali svolte dai due, li porteranno da Chicago a Los Angeles e poi fino ad Hong Kong e Giacarta, in una caccia al nemico che finisce per invertire i ruoli, trasformandoli da cacciatori in prede. Le scene claustrofobiche del carcere e le panoramiche all’interno dell’architettura dell’hardware dei computer dell’inizio si trasformano più avanti nelle grandi scene di massa del finale con la similitudine tra le moltitudini di persone come puntini e i blocchi dei circuiti. Il regista Michael Mann, in questo film, conferma quanto di buono aveva realizzato nel precedente Collateral.H

Produzione: Thomas Tull, Michael Mann, Jon Jashni per Legendary Pictures, Forward Pass Distribuzione: Universal Pictures International Italy Personaggi ed Interpreti: Nicholas Hathaway: Chris Hemsworth Chen Lien: Tang Wei Carol Barrett: Viola Davis Elias Kassar: Ritchie Coster Mark Jessup: Holt McCallany Henry Pollack: John Ortiz Sadak: Yorick van Wageningen Capitano Chen Dawai: Wang Leehom Alex Trang: Andy On Jeff Robichaud: Christian Borle Abhi Sinha Sophia Santi Fabiola Sicily Kirt Kishita Spencer Garrett Genere: Thriller Durata: 135 minuti Origine: USA, 2015


giustizia minorile

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l fermento culturale del dopoguerra generò sperimentazioni che potremmo definire di concertazione istituzionale, sebbene all’epoca avessero il carattere della spontaneità: in particolare è da segnalare l’accordo della Magistratura milanese con l’Associazione Cesare Beccaria, che nel 1928 permise quasi l’istituzione ante legem di un Tribunale per i Minorenni. Tuttavia bisogna arrivare al 1934 per veder istituito per la prima volta il Tribunale per i Minorenni. (Con il Regio Decreto nr. 1404). In epoca antecedente alcune disposizioni risalivano al Codice penale del 1859, che stabiliva la piena responsabilità penale solo per i maggiori di 21 anni, mentre i ragazzi tra 14 e 21 usufruivano di una riduzione della pena che, comunque, doveva essere scontata nelle carceri comuni. I minori di 14 anni, colpevoli di un reato, dovevano essere accolti in apposite Case di Custodia o in stabilimenti pubblici di lavoro, ai quali erano destinati anche giovani mendicanti, vagabondi, oziosi, minori di 16 anni. Il codice Rocco del 1930, poi, segnò un compromesso tra le due Scuole (Classica e Positiva). Con esso si distingue tra soggetti in condizione di “normalità biologica e psichica e non”, per i primi si presuppone il libero arbitrio e quindi l’imputabilità, per i secondi invece l’imputabilità doveva essere dimostrata, la pena sotto forma di misura di sicurezza acquisiva funzione “terapeutica” e di “difesa sociale”. L’articolo 97 del Codice innalzò il limite per la presunzione di non imputabilità assoluta da nove a quattordici anni (Tale spostamento si fondò su una scelta arbitraria, che diede luogo a vivaci dibattiti in tema di imputabilità). Dai quattordici ai diciotto anni invece il minore venne ritenuto imputabile solo se capace di intendere e volere, peraltro da accertare caso per caso, così il termine discernimento fu sostituito da quello di “intendere e volere”, termine ancora oggi in vigore. Inoltre grande rilievo per l’effetto depenalizzante, assunse l’istituto del “perdono giudiziale” anche questo

Anni ’30: il Codice Rocco e l’istituzione del Tribunale per Minorenni (R.D.1404) ancor oggi in vigore. Negli anni Trenta si utilizzò soprattutto lo strumento penale, anche se attenuato e contemperato da elementi educativi, in accordo con la allora dominante concezione emendativa della pena e con le sommarie conoscenze in tema di psicologia dell’età evolutiva. Per quanto concerne l’intervento penale nei confronti del minore, non si può certo affermare che in epoca precostituzionale mancasse del tutto una particolare attenzione nei confronti del soggetto in formazione e dei suoi problemi; infatti, rispetto a quanto stabilito per l’adulto, era prevista una più ampia possibilità di interventi di clemenza, funzionali al recupero del minore; era dettato l’obbligo di diminuire la pena e, nonostante la tipologia degli interventi non si discostasse da quella sancita per gli adulti, la disciplina dell’esecuzione della pena si caratterizzava per una maggiore attenzione alla realizzazione del processo evolutivo positivo. Tuttavia seguitava a riscontrare consensi, anche nel settore minorile, la concezione secondo la quale alla base dell’agire in contrasto con i fondamentali valori sociali vi fosse un “traviamento” addebitabile moralmente alla persona (e, per ciò stesso, riprovevole) e permaneva la convinzione che la segregazione carceraria fosse lo strumento più idoneo alla realizzazione della funzione di prevenzione generale e speciale e che potesse svolgere anche un’importante opera “risocializzante” del minore. Tale concezione veniva tradotta in dettato normativo dalla legge minorile del 1934 e dal regolamento delle case di rieducazione del 1939 ; più dettagliatamente, l’art. 25 della menzionata legge prevedeva l’internamento in un riformatorio per corrigendi del minore che per

abitudini contratte desse manifeste prove di traviamento e apparisse bisognoso di correzione, mentre l’art.68 del suindicato regolamento individuava le finalità dell’insegnamento scolastico nel far conoscere al minorenne quale fosse stato l’errore da lui commesso disertando la via del dovere e come egli potesse ancora tornare degnamente fra i “buoni cittadini”. Appare volutamente significativa la

terminologia adoperata dal legislatore: non parlava, esso, di “devianza”, ma di “traviamento” e prevedeva l’intervento del giudice minorile nell’eventualità che il minore apparisse bisognevole di “correzione morale”. Una simile interpretazione del fenomeno del disadattamento giovanile prescindeva dalle teorie psico – sociologiche. Appare, infine, coerente con la descritta lettura del fenomeno il ricorso, sancito dalla legislazione pregressa, a sole istituzioni “custodialistiche” ed a strumenti comunque afflittivi ai fini del perseguimento delle finalità di controllo, di difesa della società e di correzione della coscienza e della volontà del “traviato”. Aggiungerei che oggi tante cose sono cambiate grazie al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che tutti i giorni è presente nelle carceri minorili con professionalità e spirito di sacrificio, pur se spesso esposto al comportamento lunatico di semplici direttori di sede che siedono su comode poltrone in ambienti dotati di ogni confort. H

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Ciro Borrelli Referente Sappe per la Formazione e Scuole G. Minorile borrelli@sappe.it

Nella foto: targhe di Tribunale e Procura per minorenni

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mondo penitenziarioi

Il risarcimento ai detenuti vittime del sovraffollamento Luca Pasqualoni Commissario Segretario Nazionale ANFU pasqualoni@sappe.it

Nelle foto: sezione detentiva e cella affollata

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Riflessioni sul nuovo rimedio introdotto dal D.L. 92/2014 introduzione nell’ordinamento penitenziario, mediante decretazione d’urgenza (D.L. 92/2014, convertito con modificazioni in Legge 117/2014), dei nuovi “rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della CEDU (....)” costituisce la risposta del Governo

L’

quale adottare le misure necessarie per porre rimedio alla situazione. Oltre alla necessità di predisporre misure strutturali tali da incidere sulle cause del sovraffollamento carcerario, la Corte europea ha sottolineato l’esigenza di introdurre “un ricorso o una combinazione di ricorsi” che consentano di “riparare le violazioni in atto”: degli strumenti cioè

all’Amministrazione penitenziaria di “porre rimedio” alla situazione. Difatti, fino all’introduzione dell’art. 35 ter O.P. il nostro ordinamento era provvisto di specifici rimedi compensativi per risarcire i pregiudizi subiti dai detenuti con riferimento alle condizioni detentive inumane e degradanti in cui si sono trovati a scontare la pena, dal momento che la

italiano alle sollecitazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che ha invitato il nostro Stato a concludere in tempi contenuti il percorso deflattivo avviato, così da adempiere in modo esaustivo agli obblighi derivanti dalla condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la ormai nota sentenza Torreggiani. Infatti, la Corte Europea, avendo rilevato il carattere strutturale della violazione dell’art. 3 Cedu da parte dell’Italia, a causa del “grave sovraffollamento” dei nostri Istituti penitenziari, ha pronunciato nel gennaio del 2013 una ‘sentenza pilota’, per effetto della quale: da un lato, sono stati sospesi tutti i ricorsi dei detenuti italiani aventi ad oggetto il riconoscimento della violazione patita; dall’altro, è stato concesso allo Stato italiano il termine di un anno a partire dal maggio 2013 (termine ora posticipato al giugno 2015, giusta nota del Comitato dei Ministri), entro il

attraverso i quali i giudici siano in grado, in primo luogo, di sottrarre con rapidità il detenuto da una situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti inumani (rimedi preventivi) e, in secondo luogo, di attribuire un ristoro a chi abbia subito tale violazione (rimedi compensativi). Sotto il profilo dei rimedi preventivi, è stata introdotta un’ipotesi di reclamo giurisdizionale al magistrato di sorveglianza per i casi di “attuale e grave pregiudizio” ai diritti dei detenuti, derivante da condotte dell’Amministrazione penitenziaria non conformi alla legge dell’ordinamento penitenziario o al suo regolamento attuativo (artt. 69 co. 6 lett. b) e 35 bis o.p.). Per mezzo di tale reclamo, il magistrato di sorveglianza, accertato che le condizioni detentive in cui si trova il detenuto sono tali da determinare un pregiudizio attuale e grave ai suoi diritti, può ordinare

Corte di Cassazione, con la sentenza 4772/2013 ha negato la sussistenza, in capo al magistrato di sorveglianza, di un potere di condanna al risarcimento dei danni subiti dai detenuti in conseguenza del sovraffollamento, affermando che, in assenza di specifiche disposizioni legislative, la materia risarcitoria deve considerarsi riservata alla competenza del giudice civile, senza che possa essere sottovalutato, al riguardo, come la Corte costituzionale abbia dichiarato non manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da diversi Tribunali di sorveglianza con riferimento all’art. 147 c.p., che disciplina le ipotesi di differimento facoltativo della pena, nella parte in cui non prevede l’ipotesi in cui “la pena debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità”, per contrasto con gli articoli 27 comma 3, 117 comma 1 (in relazione all’art. 3 CEDU nell’interpretazione fornitane dalla


il libro dell’anno! Corte di Strasburgo), nonché agli articoli 2 e 3 Cost. Del resto, non può considerarsi un rimedio di carattere compensativo la liberazione anticipata speciale, misura emergenziale ed interinale, introdotta nell’ordinamento dall’art. 4 D.L. 146/2013, convertito nella Legge 10/2014, che consente al condannato che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione di usufruire di 75 giorni di detrazione ogni semestre di pena scontata (rispetto ai 45 giorni di detrazione per semestre previsti dalla liberazione anticipata ordinaria, di cui all’art. 54 O.P.), atteso che a beneficiarne sono solamente i condannati ‘meritevoli’, a prescindere o meno del grave pregiudizio subito in conseguenza o a causa del sovraffollamento. Certo è che con l’introduzione del nuovo articolo 35 ter O.P. l’Italia non solo ha “scongiurato un’onta politica”, ma ha evitato anche e soprattutto di dover pagare una ingente multa pari a circa 41.157.765 euro, con l’ulteriore l’effetto che la Corte europea si è affrancata da 3.685 ricorsi, (dichiarati ‘irricevibili’), la cui competenza è passata al giudice nazionale. Nondimeno, in sede di applicazione, la nuova norma sta mostrando disfunzioni significative. Infatti, i dati sulle istanze presentate dai detenuti, riportati dall’Osservatorio Carceri del’Unione Camere Penali Italiane, indicano non soltanto il notevole ritardo nelle decisioni ma anche un cospicuo numero di declaratorie di inammissibilità dei ricorsi. Si ponga mente in tal senso che, a fine novembre 2014, delle 18.104 istanze iscritte, quelle definite erano 7.351 e pendenti 10.753: di quelle definite ne sono state dichiarate inammissibili 6.395 (87%) ed accolte solo 87 (1,2%). I suddetti numeri appalesano, dunque, l’inadeguatezza del rimedio in parola ed impongono una seria riflessione sui meccanismi correttivi da apportarvi, considerati i tempi ridotti che ci separano dalla verifica di giugno da parte del Comitato dei Ministri. H

spioncino della cella... Erano i giorni nei quali la riforma sembrava stentasse a decollare, anche per il “fuoco amico” dei soliti noti, DA CHE PARTE nonostante l’entusiasmo e le E’ L’USCITA? sollecitazioni del SAPPE per dare corso ad una nuova valorizzazione LA FELTRINELLI.IT sociale della Polizia Penitenziaria pagg. 240 - euro 20,00 attraverso nuovi compiti operativi. Ma le vignette di Gianni e Mario, le ià una volta ho avuto modo di storie dell’Appuntato Caputo, sono scrivere che non è facile state caratterizzate sempre da un recensire il libro di un amico umorismo dissacrante epperò perché si rischia di essere troppo costruttivo: basta sfogliare il libro, severi o troppo indulgenti. Figuratevi spassosissimo, vedere la vignetta e che in questo caso il libro di cui a collocarla nel momento storico in cui breve mi appresto a fare qualche essa vede la luce. Alla Polizia considerazione è scritto da due amici, Penitenziaria vengono riconosciuti Gianni e Mario, con i quali compiti e funzioni di Polizia stradale condividono da un ventennio l’impego ma non si parla di una formazione ad sindacale e giornalistico su “Polizia hoc? Bene, l’Appuntato Caputo ha a Penitenziaria”. che fare con la sua L’ironia è uno strumento formidabile prima multa per divieto per affrontare gli ostacoli, di sosta.. ad una sdrammatizzare le situazioni difficili e macchina con targa e combattere lo stress. geroglifici arabi. Si parla Ancora meglio è l’autoironia, ossia la di specializzazioni? E capacità di ridere di se stessi e del Caputo si specializza in... proprio comportamento. Essa ci albero di Natale, con consente di accettare i nostri difetti, tanto di palline e festoni. trasformarli e perché no... imparare Non sfuggono alla matita anche ad amarli. di Mario e all’ironica E sono stati bravi Gianni e Mario, in fantasia di Gianni anche i questo libro interamente a colori, a vari personaggi che raccontare e raccontarci “il carcere hanno affollato i piani dell’Appuntato Caputo” attraverso le nobili del DAP: Di Maggio, oltre 220 vignette che hanno trovato Caselli, Falcone, Ferrara, Castelli, De spazio sulla nostra Rivista “Polizia Pascalis, Di Somma, Ionta, Tamburino Penitenziaria SG&S” (l’unica voce (per citarne alcuni), tutti protagonisti editoriale della Polizia Penitenziaria!) (loro malgrado) delle gustosissime e che vedono protagonista, appunto, il vignette che, a conclusione di tutto “mitico” Appuntato Caputo, che con i ciò, ci raccontano davvero la strada suoi umori, i suoi paradossi, le sue che il Corpo ha fatto, dov’eramo e malinconie ed i suoi entusiasmi ha dove siamo, e magari dove qualcuno accompagnato la nascita e l’evoluzione avrebbe preferito relegarci... del Corpo dal giorno della sua Nota di merito, il libro è dedicato a istituzione. Proprio una delle prime Franz Sperandio, giornalista, vignette, quella pubblicata del numero collaboratore della Segreteria di maggio 1993 della Rivista, ci fa Generale del SAPPE e per molti anni capire efficacemente chi è l’Appuntato capo redattore di “Polizia Caputo, un San Tommaso in divisa che Penitenziaria, SG&S”, soprattutto un ai voli pindarici delle chiacchiere amico di tutti noi, prematuramente preferisce la concretezza delle azioni. scomparso. Già me le immagino le sue In quel disegno, il ruolo del poliziotto risate in Paradiso, lui che, in vita penitenziario prima e dopo la riforma quelle vignette le adorava e se le della legge 395 del 1990 sembra gustava con l’immancabile Marlboro differenziarsi per il solo fatto che grazie in bocca... Un libro spassosissimo, alla riforma (o meglio al volume del insomma, che merita davvero di libro contenente il testo di legge) il essere nelle nostre e nelle vostre poliziotto riesce a vedere meglio nello librerie. H erremme

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Giovanni B. de Blasis Mario Caputi

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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Nella foto: Andrej Cikatilo

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crimini e criminali

Andrej Romanovicˇ Cˇikatilo - Parte II i siamo lasciati, lo scorso mese, con l’arresto di due diseredati che, sotto pressione della polizia, avevano confessato di essere gli autori di alcuni omicidi attribuiti al mostro. Dopo alcuni mesi, il 27 ottobre 1983, i due malcapitati vengono scarcerati a seguito del ritrovamento del cadavere di una donna. Il macabro ritrovamento della donna porta l’intera Repubblica Sovietica nella paura e nel terrore più assoluto: questa volta la vittima è una ragazza di 19 anni, Vera Sevkun.

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Dopo tre mesi, il 27 dicembre 1983, viene ucciso addirittura un ragazzino portatore di handicap di soli 14 anni, Sergej Markov. Il 1984 sarà l’anno della svolta nelle indagini, ma anche il più “prolifico” per il serial killer: 15 vittime. Il 9 gennaio uccide Natalja Sjalapinina, 17 anni, il cui cadavere deturpato dalle pugnalate - l’assassino ha anche asportato il naso ed il labbro della vittima - viene ritrovato, il giorno successivo, in un parco. Nello stesso parco, il 21 febbraio successivo, uccide Marta Riabjenko, 44 anni, la sua vittima più anziana. Il 24 marzo, a morire sotto le pugnalate è Dmitrij Ptašnikov di soli 10 anni, uccisa nel quartiere di Novošachtinsk. Nel maggio del 1984 è la volta di Tat’jana Petrosjan e della figliola undicenne Svetlana durante un picnic.

La bambina si allontana con la sua bambola lasciando la madre in compagnia del demonio. La donna rimasta sola con Čikatilo gli propone di consumare un rapporto sessuale ma, quando si accorge che è impotente, inizia a schernirlo. E, come un copione che si ripete, l’ira dell’assassino si abbatte sulla donna, colpita dapprima con una coltellata nell’orecchio e poi con una serie di martellate. Il duplice delitto avviene nei boschi intorno a Sachti dove i corpi verranno ritrovati soltanto nel successivo mese di luglio: la testa della piccola era distante 5 metri dal corpo. A giugno uccide Elena Bakulina, 22 anni, della quale il cadavere viene ritrovato due mesi dopo nella regione di Bagasenskij di Rostov. Nel solo mese di luglio Čikatilo annienta altre tre vite. Il 10 luglio la funesta sorte tocca a Dmitrij Illarionov, di soli 13 anni, che spari una mattina d’estate nel mentre si recava a consegnare un certificato sanitario per una colonia estiva; il 19 luglio viene uccisa una giovane studentessa, Anna Lemeševa di 19 anni e tra il 20 ed il 30 dello stesso mese viene uccisa Svetlana (Sarmite) Cana di 20 anni, il cadavere viene ritrovato ancora nel parco degli aviatori. Il mese di agosto conta invece quattro vittime. Stavolta durante l’autopsia viene identificato lo sperma di un maschio con gruppo sanguigno AB al quale appartiene “solo” il 6% della popolazione russa. Il 2 agosto convince la piccola Natal’ja Golosovskaja di 16 anni, venuta in città per andare a trovare la sorella, a seguirlo per una scorciatoia. Una volta nel parco la assale e la pugnala. Il 7 agosto Čikatilo uccide con macabra crudeltà Ljudmila Alekseeva di 17 anni, una studentessa attirata a una fermata del bus. Čikatilo le offrì di portarla alla stazione del bus di Rostov. La colpì con un coltello 39 volte in zone del corpo non mortali,

morirà dissanguata sulle rive del Don. Qualche giorno prima di questo omicidio Čikatilo però aveva trovato un nuovo lavoro come capo dipartimento presso una fabbrica di Rostov. Poteva finalmente ricominciare a viaggiare sui treni e colpire lontano dai soliti posti per attirare meno l’attenzione su di se. Nella settimana dall’8 al 15 di agosto, infatti, viene mandato per lavoro a Taskent, in Uzbekistan dove in quella sola settimana uccide prima una donna mai identificata, incontrata ed aggredita sul fiume che porta lo stesso nome della città, e decapitata, e qualche giorno dopo uccide Akmaral’ Sejdalieva, di 12 anni. Purtroppo a quei tempi non c’era ancora un archivio che poteva consentire di scoprire che quei due omicidi erano così maledettamente simili ad una lunga serie che da 5 anni stava terrorizzando l’area di Rostov. Ritornato in patria la scia di sangue non si ferma e Čikatilo, il 28 di agosto, uccide anche Sasha Chepel, 11 anni, adescato presso il cinema Burevestnik a Vorošilovskij Prospekt di Rostov-sul-Don lo invitò nel bosco promettendo di mostrargli un videofilm. Lo uccise tagliandogli il ventre sulla costa del fiume Don, presso il luogo dove era stata uccisa anche Ljudmila Alekseeva. Il 7 settembre 1984, uccide ancora; la vittima è Irina Lu inskaja, di 24 anni, una ragazza che non disdegnava di andare con uomini più grandi di lei e che accetta di seguirlo nel bosco per fare sesso. Il copione, sempre lo stesso, si ripete: dopo essersi stesi sul prato, Čikatilo non riesce ad avere un normale rapporto e nel momento in cui Irina lo deride, la colpisce e la uccide. Poteva essere il suo ultimo omicidio. Infatti qualche giorno dopo l’ispettore Aleksandr Zanasovskij è sulle sue tracce. Lo segue discretamente per tutta la notte e nota che continua a girare per la città senza tornare a casa. Cerca di abbordare chiunque e questo insospettisce il poliziotto che, dopo aver notato anche la corrispondenza con l’identikit che aveva tracciato la polizia dopo aver ascoltato una testimone in seguito all’assassinio di Dima Ptasnikov,


crimini e criminali decide di fermarlo e controllare i suoi documenti. Nella sua borsa viene ritrovato tutto l’armamentario del killer, coltello, corde, martello e così Čikatilo viene arrestato e portato al posto di polizia.Čikatilo viene accusato dei 23 omicidi avvenuti nella zona intorno a Rostov (la polizia non era ancora a conoscenza di altre 9 vittime che poi avrebbe confessato) e sottoposto ad esami di confronto tra le tracce di sangue e le tracce di liquido seminale rinvenuto sulle vittime. Il sangue è di gruppo A, il liquido seminale di gruppo AB. Quindi il sospetto non può essere l’assassino e viene scarcerato. Soltanto quattro anni dopo dei ricercatori giapponesi sveleranno che esiste un caso rarissimo in cui il gruppo sanguigno di una persona può essere diverso tra il sangue (prelevato nelle analisi) e lo sperma (le tracce di cui disponevano

intorno a Rostov furono vagliati nei minimi dettagli ed i criminali sessuali interrogati diverse volte. Nel dicembre del1985 furono predisposte delle ronde intorno alle stazioni di Rostov. Čikatilo seguì le indagini attentamente e, per oltre due anni, mantenne i propri desideri sotto controllo. La polizia ingaggiò anche uno psichiatra, la prima volta nel paese in un’indagine su un omicida seriale. “Possono trascorrere anche dieci o vent’anni tra un fatto traumatico e gli omicidi, un periodo durante il quale il killer ha rimosso il trauma e lo ha spostato al di fuori della propria consapevolezza. Una dissociazione che glia ha permesso di mantenere un sufficiente controllo della realtà e un accettabile adattamento al mono in cui vive. Ma quando capita un fattore scatenate un fatto che anche simbolicamente lo riporta al

un capello grigio. Sul corpo vi era sudore del gruppo AB, mentre Guljaeva aveva il gruppo sanguigno A. Nel ventre fu trovato cibo non digerito, che può significare solo che Čikatilo la attirò nel bosco offrendole del cibo. I successivi crimini furono commessi solo il 16 maggio del 1987 quando, durante un viaggio di lavoro a Revda, in Ucraina, uccise Oleg Makarenkov, un giovane ragazzo, i cui resti furono fatti ritrovare alla polizia proprio da Čikatilo dopo il suo arresto. Uccise ancora a Zaporižžja, un ragazzino di 12 anni, Ivan Biloveckij, attirato nel bosco ed a San Pietroburgo il 15 settembre del 1987, Jurij Terešonok, di anni 16. Nel 1988 Čikatilo tornò ad uccidere, lontano dall’area di Rostov, perché presidiata dalla polizia. Uccise una vittima a Krasny-Sulin in aprile insieme ad altre otto persone durante l’anno, di cui due a Shakhty.

dalla scena dei crimini). Scarcerato trova un impiego presso una fabbrica di locomotive e riprende ad uccidere. Come riportato recentemente, le autorità sovietiche coinvolte nelle indagini furono ignorate e le loro teorie circa l’analisi dei campioni, ridicolizzate. Non fu inoltre possibile ricercare altre prove basate su campioni biologici in quanto, tali esami, furono considerati troppo dispendiosi. Del caso specifico non fu conservato alcun campione biologico. Čikatilo trovò un nuovo lavoro a Novo erkassk e mantenne un basso profilo. Le indagini della polizia furono rivitalizzate nella metà del 1985, quando Issa Kostoyev, un ufficiale di polizia già particolarmente famoso per aver risolto altri casi difficili, fu assegnato al fascicolo del “mostro”. Tutti i delitti commessi

passato, come un’umiliazione o un abbandono, tutti gli equilibri saltano minacciando uno stato mentale precario, di annientare; bisogna allora fronteggiare l’angoscia, il panico, la sensazione di essere vulnerabili, occorre agire per riprendere il controllo. Uccidere diventa un modo per dominare la paura”. (da il Mostro di Rostov, part. 3 – La Linea d’ombra, programma di Massimo Picozzi). Non uccise fino all’agosto del 1985, quando commise l’omicidio di due donne in occasioni separate: Natal’ja Pochlistova, attirata a una stazione ferroviaria vicino all’aeroporto di Domodedovo, l’Oblast di Mosca e Irina Guljaeva Vagabonda e alcolizzata, uccisa in una fascia boschiva presso la stazione del bus di Šachty. Sotto le sue unghie furono ritrovate fili rossi e azzurri, fra le dita

Successivamente ci fu una lunga pausa prima di nuovi omicidi, sette ragazzi e due donne fra gennaio e novembre del 1990. L’ultima vittima di Čikatilo, Svetlana Korostik, di anni 22, era una prostituta, uccisa in una zona boschiva presso la stazione ferroviaria di Donleschoz: le recise la lingua e si portò i seni con sé. Il 20 novembre del 1990, alle ore 15,40, finalmente, a seguito comportamento sospettoso fu arrestato, e dopo un momento iniziale in cui si chiuse in se stesso, grazie anche all’opera dello psichiatra Aleksandr Bukhanovski, dopo soli nove giorni, decise di confessare. Molti mesi dopo addirittura fornendo ampi dettagli di tutti i suoi omicidi, e portando anche la polizia al sito di corpi precedentemente sconosciuti. La polizia le chiamava le “uscite” e consisteva nel portare il Čikatilo sul

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Nelle foto: sopra una delle vittime a sinistra Citatiko viene scortato al processo

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sicurezza e salute sul lavoro

28 luogo dove aveva lasciato il cadavere, ove peraltro simulava nei minimi dettagli l’omicidio. La geografia dei delitti – disse un poliziotto durante il processo – era talmente vasta che abbiamo girato per il paese oltre un anno. Egli alla fine confessò di aver ucciso 56 persone. Questa cifra era di gran lunga superiore ai soli 36 fascicoli che la polizia aveva inizialmente attribuito all’indagine sul serial killer “X”. Andrej Romanovi Čikatilo è stato dichiarato sano di mente e colpevole. “E’ molto difficile spiegare le impressioni su questo uomo – affermò un altro poliziotto durante la sua deposizione al processo - mentre lo cercavamo, lo odiavamo tutti. Ci

Nella foto: Andrej Cikatilo nella sua cella

Polizia Penitenziaria n.226 marzo 2015

sembrava un mostro, una figura demoniaca. E invece si è rivelato una persona grigia, insignificante. Non suscitava orrore, ma ripugnanza e perplessità”. La condanna a morte fu eseguita, con un colpo alla nuca, nella prigione di Rostov il 14 febbraio 1994, dopo che il presidente russo Boris Yeltsin rifiutò un ultimo appello alla clemenza di Čikatilo. Tra le pellicole cinematografiche ispirate a Andrej Romanovi Čikatilo, una menzione particolare va al film : Evilenko, del 2004 scritto e diretto da David Grieco ed interpretato da Malcolm McDowell e Marton Csokas. Il film è tratto dal romanzo “Il comunista che mangiava i bambini” dello stesso Grieco, ispirato a sua volta dalla vita del mostro. Mentre, giovedi 30 aprile 2015, dovrebbe uscire nelle sale cinematografiche italiane “Child 44”, del registra Daniel Espinosa, l’ennesima pellicola del mostro cannibale. Alla prossima... H

Dotazione di Reparto DPI antincendio e antisommossa ggi vi parleremo dei DPI (dispositivi di protezione individuale) in dotazione nei reparti che dovrebbero con l’avvento del DM.98 e del D.lgs 81/08 già essere a disposizione dei lavoratori. Sebbene nutro molti dubbi in proposito, che le amministrazioni abbiano del tutto i DPI citati, andremo a elencare dettagliatamente quali sono i DPI che si dovrebbero trovare nell’armadietto antincendio dei reparti. Per quanto concerne l’antincendio, in ogni piano o rotonda, dovrebbe essere depositato un armadietto contenente 3 coperte ignifughe che servono a soffocare un incendio su una persona con abiti in fiamme, 3 elmetti anticalore e 3 maschere antifumo con tre filtri polivalenti per gas sprigionati in una cella incendiata. I gas sprigionati da materassi e cuscini sviluppano vapori e acidi pericolosi alla salute. Sarebbe consigliato dotare gli armadietti almeno di un autorespiratore a 300 bar che può permettere una più efficace respirazione in lunghi percorsi, perché rende l’aria respirabile in sovrappressione e che permette ad agenti chimici di entrare nella maschera agente tossica e infine 3 paia di guanti anticalore. Si consiglia anche la dotazione di maschere e autorespiratori italiani, non perchè sul mercato non ci sia altro - diversi MSA DREKER, per esempio ma perche gli stessi hanno bisogno di manutenzione annuale (ordinaria) e biennale (straordinaria) e, pertanto, per esempio mandare i DPI in Germania o in America, comporterebbe tempi lunghissimi lasciando i reparti sprovvisti dei DPI salva vita. Noi di Rebibbia N.C. siamo dotati di

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DPI acquistati dalla ditta Spasciani che si trova in Italia, con sede a Milano, ma che ha aziende sparse in tutto il territorio accorciando i tempi della riconsegna. In poche parole non stiamo discutendo sul quale è più bello o efficiente, stiamo discutendo sui tempi di abbattimento delle riconsegne degli apparati. Dotazione almeno di una lampada antideflagrante, nel caso in cui l’operatore deve intervenire in un locale invaso di gas, per non creare un innesco scatenando un’esplosione. Per quanto riguarda un tentativo di aggressione da parte di un detenuto, anche se non previsto dal D.lgs 81/08 poiché rischio residuo, dal documento sulla valutazione dei rischi e quindi non quantificato statisticamente, come rischio specifico, comunque sarebbe opportuno dotare negli armadietti, in un piano secondario rispetto all’antincendio il seguente materiale: 3 paia di guanti anti taglio categoria 3, 3 guanti in lattice, 3 mascherine fp2 per eventuale rischio batteriologico, 3 visiere plastificate, per eventuali schizzi ematici dei detenuti che potrebbero colpire gli occhi della custodia, 3 tute monouso. E’ importante che i DPI (sia l’antincendio sia l’antisommossa) siano dotati di procedure corrette su come indossarle, per salvaguardare il lavoratore ed evitare spreco economico da parte della amministrazione. Per quanto riguarda l’antincendio, addestrare le squadre ASA come previsto dal DM 98 ed art 46 del D.lgs 81/08. Per quanto riguarda l’antisommossa dall’art 15 e 20 del D.lgs 81/08 e successive modifiche è altresì importante che il datore di lavoro (direttore capo) ed il comandante (preposto al coordinamento della


sicurezza e salute sul lavoro Polizia Penitenziaria d’istituto) cooperino al fine di formulare quelle procedure di sicurezza a favore dei lavoratori che operano nelle sezioni. Un’altra cosa importante è quella di condividere e attuare il piano d’emergenza estrapolato dalla valutazione dei rischi, sia in caso d’incendio, che in caso di sommossa

Un Corso antincendio di aggiornamento per le Forze di Polizia

29 Valter Pierozzi Dirigente Sappe Esperto salute e sicurezza sul lavoro rivista@sappe.it

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isto il completo disinteresse del Provveditore Regionale del Lazio che, nonostante sia stato interpellato dalla Direzione della Scuola Interforze del Ministero dell’Interno, non ha nemmeno risposto alle richieste di collaborazione al corso antincendio, il Sappe ha inviato propri rappresentanti alla Scuola di Piazza Priscilla a Roma per partecipare ad un corso tenuto nei giorni 16, 17, 23, 24 marzo 2015. Il Direttore della Scuola Gen. Pozzo, il

generata, avviando il piano d’esodo previsto dalla normativa vigente. E’ prevedibile che le strutture vecchie siano sprovviste di scale antincendio esterne e che comunque nelle strutture penitenziarie per motivi di sicurezza è impossibile istallarle. Ma nel contesto bisogna valutare se è possibile una seconda uscita, quale scala di servizio o un’altra scala che non sia quella principale. La zona di sicurezza probabilmente sarà l’area dei passeggi, permettendo al personale di vigilare con sicurezza la popolazione detenuta. I concetti di comunicazione efficace e del lavorare bene insieme devono essere ben chiari a tutte quelle figure delegate alla salvaguardia della sicurezza dei lavoratori. Spero che il tutto vi sia stato utile, per chiarire alcune tematiche sulla sicurezza sul lavoro, rimandando altre notizie al prossimo numero della Rivista. Grazie per l’attenzione. H

Vice Direttore Generale Romani, il Vice Questore e l’ingegnere della Polizia Forestale Mazzaro hanno

espresso vivo apprezzamento per l’alta professionalità dimostrata dai poliziotti penitenziari Pierozzi e Maltini. Ancora una volta, insomma, il Sappe si è sostituito all’amministrazione penitenziaria per non far mancare la Polizia Penitenziaria agli appuntamenti interforze. H

Nella foto: alcune immagini del corso antincendio

Polizia Penitenziaria n.226 marzo 2015


30 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Sopra la copertina del numero di dicembre 2000

Polizia Penitenziaria n.226 marzo 2015

come scrivevamo

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iù di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Presenti in Piazza San Pietro le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria e la Banda del Corpo

Il Santo Padre ha celebrato il Giubileo delle Forze dell’Ordine di Roberto Martinelli

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omenica 19 novembre sembrava proprio che in piazza San Pietro, in una Roma bagnata da una pioggia insistente, si stesse celebrando una messa da campo, con gli squilli di tromba a segnare i momenti liturgic fondamentali. C'erano 65.000 italiani, 1.700 spagnoli, 1.500 polacchi e poi francesi, cileni, croati, argentini, svizzeri, statunitensi. Sono arrivati da 49 Paesi di tutti i continenti, Australia compresa, i militari e gli Agenti di polizia che hanno partecipato al loro - al nostro Giubileo, che aveva come tema: "Con Cristo a difesa della giustizia e della pace". Folta la partecipazione di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, schierati in uniforme o presenti a titolo personale e in forma privata. C'erano anche alcuni agenti dell'FBI e qualcuno della Legione Straniera. Con una breve, ma immancabile corsa, è arrivato anche un gruppo di bersaglieri con la propria fanfara. Erano - eravamo - in tanti, tantissimi, molti arrivati con le famiglie: una folla enorme, che arrivava quasi alla fine di via della Conciliazione, poi stimata in più di 100.000 persone. Ma non solo militari in divisa: a gruppi si incontravano vecchi alpini col cappello con la penna ed anche militari in congedo provenienti da tante parti del mondo coi loro vecchi berretti. Le multicolori bandiere dei loro Paesi sono arrivate in piazza San Pietro, portate da picchetti d'onore con divise anch'esse di molti colori: non solo il

grigio, il blu, il verdi e il marrone, ma anche rosso e azzurro, portate da ragazzi, ed anche da numerose ragazze. Divise a volte coperte da impermeabili che le stemperavano e poi confuse tra decine di migliaia di ombrelli multicolori, portati dai familiari degli uomini in divisa. Le bande sono arrivate, sfilando, in piazza San Pietro: fra loro ben 8 sono quelle italiane di Esercito, Marina, Aeronautica, Polizia Penìtenziaria, Guardia di Finanza, Corpo Forestale dello Stato e Polizia di Stato, oltre ai Carabinieri. Alla fine della messa hanno poi eseguito un breve concerto che si è concluso, al momento dell'Angelus, dal Va' pensiero e dall'Ode alla gioia di Beethoven . Giovanni Paolo II ha centrato il suo intervento su pace e giustizia, oltre che sulla interiore conversione. «Chi meglio di voi - ha detto ai presenti può rendere testimonianza circa la violenza e le forze disgregatrici del male presenti nel mondo? Voi lottate ogni giorno contro di esse. Siete infatti chiamati a difendere i deboli, a tutelare gli onesti, a favorire la libera convivenza dei popoli: a ciascuno di voi si addice il ruolo di sentinella che guarda lontano per scongiurare il pericolo e promuovere dappertutto la giustizia e la pace». «La difesa della pace - ha detto ancora - comporta iniziative concrete per disarmare l'aggressore. Intendo - ha spiegato - riferirmi alla cosiddetta ingerenza umanitaria,


come scrivevamo

31 Nelle foto: a fianco Piazza San Pietro gremita di fedeli sotto Papa Giovanni Paolo II

che rappresenta, dopo il fallimento degli sforzi della politica e degli strumenti di difesa non violenti, l'estremo tentativo per arrestare la mano dell'ingiusto aggressore». La pace come diritto fondamentale di ogni uomo, dunque, che va continuamente promosso perché gli uomini «in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra». L'ultimo pensiero di Giovanni Paolo II all'Angelus è per le famiglie dei militari e per i caduti. «Non e' facile - ha detto - essere famiglia di un militare, perché si devono condividere anche i disagi che la sua missione comporta. Eppure la famiglia è il sostegno principale di ognuno di voi, impegnati nella difesa della pace e della vita. Si difende ciò che si ama, e dove si impara ad amare la pace e la vita se non in famiglia? Per questo, care famiglie, sentitevi associate in pieno a questa missione e collaborate alla tutela della giustizia e della pace». Il Santo Padre ha ricordato coloro che «nella totale adesione agli ideali professati, hanno pagato con la vita la fedeltà alla loro missione. Dimenticando se stessi, sprezzanti del pericolo, hanno reso alla comunità un impagabile servizio». «Elevo - ha detto infine - la mia preghiera al Signore per i vostri caduti» e, in piedi, ha ascoltato il Silenzio suonato da un carabiniere. Un ricordo personale di Giovanni Paolo

II ha segnato la conclusione del Giubileo dei Militari e delle Forze dell'Ordine. Il Papa stava salutando le famiglie dei soldati e degli Agenti di Polizia quando ha detto: «Anche io sono figlio di un militare e mi sento vicino a voi». Suo padre Karol, del quale l’attuale Papa porta il nome, era stato sottufficiale del 56° Reggimento di fanteria dell'esercito austro-ungarico, perché la zona di Lipnik, dove la famiglia viveva prima di Wadowice, luogo di nascita del futuro Papa, apparteneva all'Impero di Francesco Giuseppe. Entrato poi, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, nel nuovo esercito polacco, fu fatto tenente. Ma il vecchio Karol rimase sempre affezionato alla sua vecchia divisa tanto che a suo figlio dette

nome Karol Jozef, in onore di Francesco Giuseppe, come spiegò una volta il segretario di Giovanni Paolo II, Mons. Stanislaw Dziwisz. Particolarmente toccante, infine, è stata la cerimonia dei genitori dei tanti ragazzi morti in servizio che hanno deposto una corona sull'Altare della Patria. Davanti a moltissimi familiari di appartenenti alle Forze dell'Ordine e ad alpini, militari e poliziotti, i genitori di Samuele Donatoni, l'ispettore dei NOCS ucciso nel '97 mentre tentava di liberare Giuseppe Soffiantini, e Mirko Schio, il poliziotto ferito durante una sparatoria a Venezia e finito su una sedia a rotelle, hanno deposto la corona di fiori, benedetta da monsignor Fisichella. Al termine della cerimonia,

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come scrivevamo

funzionari funzionali ell’ambito dell’attività di formazione, a livello periferico, del personale di Polizia Penitenziaria, la Direzione della Casa Circondariale di Livorno (e la relativa Sezione Distaccata di Gorgona) ha avviato una serie di seminari aventi ad oggetto aspetti teorici e pratici dell’operatività quotidiana. Il primo ciclo di incontri ha ad oggetto l’uso delle armi, le norme di sicurezza, le tecniche di ammanettamento e la traduzione dei detenuti. Di seguito, si riportano brevi cenni sull’uso legittimo delle

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Nei box: la vignetta ed il sommario del numero di dicembre 2000

organizzata dal SAP - Sindacato Autonomo di Polizia, gli amici sindacalisti hanno lanciato l'ottima proposta di una petizione parlamentare per istituire un Memorial day «perché troppo spesso - ha detto il Segretario Generale Filippo Saltamartini - chi ha perso la vita per garantire la pace e la sicurezza del Paese viene dimenticato. E la data potrebbe essere proprio quella di oggi, 19 novembre, giorno del giubileo dei militari e delle forze dell'ordine, per ricordare ogni anno tutte le persone che con altissimo senso civico fanno il loro dovere per la pace.»

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armi, con particolare riferimento al Corpo di Polizia Penitenziaria ed alla principale casistica ad esso collegata. L’art. 53 del codice penale prevede la scriminante dell’uso legittimo delle armi che, al ricorrere di particolari circostanze può essere invocata dal Pubblico Ufficiale che, legittimamente, dell’arma può fare uso. Si tratta, come noto, di una causa di giustificazione rivolta ad una categoria di soggetti determinata, i Pubblici Ufficiali appunto, che la rende una scriminante propria. La norma ha carattere residuale, poiché è invocata fuori dai casi della legittima difesa e dell’adempimento del dovere ed è considerata sussidiaria ed integrativa, attestata anche dalla limitata indicazione dei soggetti che possono invocarla: i pubblici ufficiali per i quali istituzionalmente è prevista la possibilità dell’uso della forza per la realizzazione dei propri doveri istituzionali; i militari in servizio di pubblica sicurezza, le guardie giurate nei limiti delle proprie competenze. Ma la causa di giustificazione può anche essere applicata ai privati, solo se ed in quanto “richiesti” dal pubblico ufficiale di prestargli assistenza. Non è, invece, applicabile al privato che spontaneamente esegue l’arresto (art. 383 c.p.) poiché, in questo caso, si potrebbe configurare l’applicabilità della scriminante della legittima difesa o dello stato di necessità (artt. 52 e 54 c.p.). Il R.D. 30 dicembre 1937, n. 2584 (Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena) contemplava, all’art. 196, l’uso legittimo delle armi oltre alle ipotesi comuni di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, di legittima difesa e di stato di necessità prevedute negli articoli 51, 52 e 54 del codice penale, nei seguenti casi:


funzionari funzionali

L’uso legittimo delle armi per la Polizia Penitenziaria 1) nell’interno dello stabilimento quando vi siano costretti dalla necessità di sedare una rivolta di detenuti o respingere un’aggressione dall’esterno; 2) nei posti ove i detenuti lavorino all’aperto, oltre che nelle ipotesi di cui al n. 1, per impedire la fuga, previe tre intimazioni e lo sparo di un colpo in aria; 3) nel servizio di vigilanza esterna degli stabilimenti, previe tre intimazioni e lo sparo di un colpo in aria: a) quando dall’esterno si tenti di penetrare nell’interno dello stabilimento o di turbare in qualsiasi modo l’ordine; b) in caso di tentativo di fuga da parte dei detenuti, quando il fuggitivo si oppone al fermo con vie di fatto o con minaccia di violenza o, malgrado l’intimazione, non desista dal tentare l’evasione, e non vi siano altri mezzi efficaci ad impedirla. Se il fuggitivo non ricorre a vie di fatto o a minaccia di violenza, l’uso delle armi è vietato quando si tratti di un’evasione dai manicomi giudiziari o dai riformatori giudiziari. Con l’entrata in vigore del Regolamento di Servizio del Corpo, tale articolo non è stato riproposto dal legislatore e, pertanto, deve ritenersi definitivamente abrogato (art. 29 c. 2, lett. a) L. 395/90). Da ciò consegue che l’unica scriminante prevista per l’uso legittimo delle armi sia quella di cui all’art. 53 c.p., anche per il Corpo di Polizia Penitenziaria. L’eliminazione dell’articolo 169 e la sua sostituzione con l’art. 53 del codice penale impone, quindi, perché l’uso delle armi possa ritenersi legittimo, che anche per gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, si osservino i precisi limiti previsti da questa scriminante. Si sa, per definizione, che la condizione di soggetto detenuto è quella di minorata difesa. Ciò significa che, in quanto soggetto ristretto, custodito ed osservato, quindi sottoposto a precise regole di comportamento, il detenuto ha limitate possibilità di movimento ed una limitata disponibilità di beni ed oggetti ed è altresì limitato nei contatti con terze persone. In pratica, il suo comportamento, oltre che prevedibile (fuga) è anche prevenibile attraverso l’applicazione delle normali regole operative, della normativa e degli ordini di servizio. Pertanto, tutte le volte che si realizza una fuga, con modalità non violente ma solo di agilità (si pensi al detenuto che salta dal furgone e scappa), si attua una resistenza passiva che, per consolidata giurisprudenza, non può essere contrastata con le armi. D’altro canto, trattandosi di norma che concede al Pubblico Ufficiale la facoltà di utilizzare un’arma, il rispetto

delle previsioni dell’articolo 53 deve essere assoluto e rigoroso, sia per tutelare al massimo il bene in gioco (la vita umana) che per evitare, anche in sede processuale, che il pubblico ufficiale possa essere ritenuto responsabile di aver posto in essere comportamenti inadeguati rispetto al dettato normativo. Il ricorso all’uso delle armi è, quindi, legittimo quando vi è una necessità e non soltanto una mera opportunità di respingere una violenza o vincere una resistenza. Ma come dev’essere la resistenza perché possa invocarsi la scriminante? La giurisprudenza è concorde nel definire la fuga come una resistenza passiva che, per nessun motivo, giustifica l’utilizzo di un’arma. Non ci sarebbe proporzione, in questo caso, tra i beni in gioco. Diverso è il caso di uso delle armi in cui si ponga in essere una resistenza attiva, con uso delle armi (si pensi all’episodio di Gallarate in cui la Polizia Penitenziaria di Busto Arsizio rispose ad un commando ed in cui perse la vita uno degli assalitori). In definitiva, perché possa riconoscersi la scriminante dell’uso legittimo delle armi, occorre: 1) che non vi sia altro mezzo possibile; 2) che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo; 3) che l’uso di tale mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del principio di proporzionalità Fuori da questi casi, l’uso delle armi è illegittimo e l’operatore sarebbe responsabile della condotta dolosa o, al minimo, di eccesso colposo nell’uso delle armi. H

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Mario Salzano Commissario di Polizia Penitenziaria rivista@sappe.it

Nella foto: un tiratore scelto della Polizia Penitenziaria e, nell’altra pagina, una pistola

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l’ultima pagina

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DAI ESPO’ FAI PRESTO! SOTTO L’ARCOBALENO TROVEREMO LA PENTOLA PIENA DI MONETE D’ORO

MA SONO TUTTE CAMBIALI SCADUTE !?!

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ME LE HANNO DATE QUELLI DEL DAP IN CAMBIO DELLE MONETE D’ORO... DICONO CHE VALGONO DI PIU’.


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