Polizia Penitenziaria - Aprile 2015 - n. 227

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anno XXII • n. 227 • aprile 2015

ISSN 2421-2121

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27° Consiglio Nazionale Sappe Governare il cambiamento



sommario

anno XXII • numero 227 aprile 2015

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In copertina: A Rimini il 27° Consiglio Nazionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

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l’editoriale Vigilanza e sicurezza, quale futuro per il Corpo?

Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

di Donato Capece

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

il pulpito

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La sopravvalutazione di se stessi e le illusioni di superiorità

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di Giovanni Battista de Blasis

Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it

il commento

Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme

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Reati, non punibilità o certezza della pena?

Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, Donato Capece, Giovanni B. de Blasis, Giovanni B. Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme

di Roberto Martinelli

l’osservatorio

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Dare esecuzione alla Convenzione ONU sulla tortura

Progetto grafico e impaginazione: © Mario Caputi (art director) www.mariocaputi.it “l’appuntato Caputo” e “il mondo dell’appuntato Caputo” © 1992-2015 by Caputi & de Blasis (diritti di autore riservati)

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di Giovanni Battista Durante

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lo sport

Direzione e Redazione centrale Via Trionfale, 79/A - 00136 Roma tel. 06.3975901 r.a. • fax 06.39733669

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Il minore mafioso di Roberto Thomas

e-mail: rivista@sappe.it web: www.poliziapenitenziaria.it

crimini e criminali

Le Segreterie Regionali del Sappe, sono sede delle Redazioni Regionali di: Polizia Penitenziaria-Società Giustizia & Sicurezza Registrazione: Tribunale di Roma n. 330 del 18 luglio 1994 Cod. ISSN: 2421-1273 web ISSN: 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma)

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Se vinco a scacchi uccido ancora! di Pasquale Salemme

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donne in uniforme

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Un mondo sospeso di Laura Pierini

Finito di stampare: aprile 2015 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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POLIZIA PENITENZIARIA - Società Giustizia & Sicurezza

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Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015


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Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Nelle foto: sopra code davanti al Tribunale di Napoli a destra gli uffici giudiziari del Tribunale di Milano

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l’editoriale

Vigilanza e sicurezza, quale futuro per il Corpo? uel che è accaduto nel Palazzo di Giustizia di Milano è grave e inquietante, la sparatoria di un folle che ha ucciso tre persone seminando il terrore tra i moltissimi abituali e quotidiani frequentatori degli uffici giudiziari meneghini, ma va detto con fermezza che la sicurezza dei cittadini non può essere oggetto di tagli indiscriminati e ingiustificati, che determinano come conseguenza anche l’affidamento a privati di compiti e funzioni che invece dovrebbero essere di competenza delle Forze dell’Ordine (come, ad esempio, proprio il controllo ai varchi dei Palazzi di Giustizia).

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varchi di accesso del palazzo. A loro e agli altri feriti va la nostra solidarietà, ma fatti del genere vanno stigmatizzati con fermezza. Certo, è singolare che dopo gli allarmismi per quel che di tragico è accaduto a Milano, nel Palazzo di Giustizia, ci si lamenti poi per i controlli di prevenzione adottati a Napoli... Io non so se il numero dei metal detector nel Palazzo di Giustizia di Napoli sia o meno sufficiente. Credo però che le Forze di Polizia debbano essere messe in condizione di svolgere il loro importante e delicato lavoro anche avvalendosi di apparati tecnologici all’avanguardia.

Come è possibile che a Milano sia potuto succedere quel che è successo, è davvero così semplice entrare tranquillamente in un palazzo dello Stato armati e senza controllo? Là dove opera il Personale di Polizia Penitenziaria, come l’accesso ai varchi degli Uffici Giudiziari di Roma, mi sento di poter dire che i controlli sono attenti e scrupolosi. Anche per questo trovo inqualificabile quel che è accaduto nel Palazzo di Giustizia di Napoli lo scorso 14 aprile. Nulla può giustificare quel che si è visto, con Agenti di Polizia Penitenziaria strattonati e aggrediti mentre assicuravano la sicurezza ai

Eppure, con sei miliardi di euro di tagli che i vari Governi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi hanno operato dal 2008 ad oggi, i cittadini sono MENO sicuri perché ci sono MENO poliziotti a controllare le loro case e i quartieri, MENO poliziotti penitenziari nelle carceri a fronte di un numero di detenuti che sta tornado ad aumentare, esauriti gli effetti “taumaturgici” della sentenza CEDU – Torreggiani, MENO forestali contro le agromafie e le ecomafie per la tutela dell’ambiente, MENO vigili del fuoco a difenderci da disastri e calamità, a garantire sicurezza e soccorso pubblico. E la consistenza dei tagli al Comparto

Sicurezza vuole anche dire MENO investimenti per garantire la sicurezza sociale dei cittadini. Oggi sentiamo parlare (già, sentiamo... visto che nessuno ha pensato di dare comunicazione a noi e ai Sindacati del Corpo) di una ipotesi di trasformare il Corpo di Polizia Penitenziaria in una polizia di giustizia cui affidare, anche, il controllo degli accessi ai varchi degli uffici giudiziari del Paese. Credo debba essere chiaro che ogni ipotesi sul futuro operativo del Corpo di Polizia Penitenziaria nell’ambito di una più generale riorganizzazione del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione penitenziaria non può prescindere da un confronto con chi rappresenta proprio coloro che, ogni giorno, svolgono questa dura e difficile professione. Il Corpo di Polizia Penitenziaria è un presidio di legalità, al servizio della giustizia penale nel suo complesso e non solo del carcere: e da questo importante assunto non si può assolutamente prescindere. Non pensino sia così facile “spazzare via”, snaturare o marginalizzare la Polizia Penitenziaria nel contesto delle realtà istituzionali che garantiscono sicurezza al Paese! Siamo disponibili al confronto su una nuova eventuale organizzazione operativa: ma vorremmo ragionare su una proposta concreta, che ci venga trasmessa per essere studiata e discussa. Noi del Sindacato Autonomo polizia Penitenziaria ne difendiamo e rivendichiamo le origini storiche, l’identità, le professionalità, le competenze e le prerogative di Polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza. E, per tutto questo, non ne accettiamo una marginalizzazione tra gli apparati istituzionali che garantiscono la sicurezza del Paese! H


il pulpito

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lla fine degli anni novanta del secolo scorso, tali David Dunning e Justin Kruger, due ricercatori della Cornell University, condussero una serie di studi sulle capacità individuali di autovalutazione. A tale scopo eseguirono alcuni test sugli studenti dei primi anni dei corsi di psicologia, somministrando loro alcuni questionari sulle capacità di ragionamento logico, grammaticale ed umoristico. I risultati dei test dimostrarono che gli studentii classificati agli ultimi posti della valutazione sovrastimavano di molto il proprio livello di performance e di abilità. Per contro, gli studenti più preparati tendevano a sottovalutare la propria competenza. Questi ultimi, infatti, ritenevano di trovarsi di fronte a domande relativamente semplici per la propria preparazione ed erano portati, nella maggior parte dei casi, a ritenere che tali problemi si rivelassero semplici anche per gli altri. David Dunning e Justin Kruger trassero, così, la conclusione che: “l’errore di valutazione dell’incompetente deriva da un giudizio errato sul proprio conto, mentre quello di chi è altamente competente deriva da un equivoco sul conto degli altri”. Il fenomeno ipotizzato venne, poi, verificato con una serie di esperimenti nell’ambito di attività tra loro diverse quali la comprensione nella lettura, la pratica degli scacchi e del tennis. Alla fine, gli scienziati conclusero che, per una data competenza, le persone inesperte: • tenderebbero a sovrastimare il proprio livello di abilità; • non si renderebbero conto dell’effettiva capacità degli altri; • non si renderebbero conto della propria inadeguatezza; • si renderebbero conto e riconoscerebbero la propria precedente mancanza di abilità qualora ricevessero un addestramento per l’attività in questione. Gli studi e gli esperimenti dei due psicologi portarono, infine, alla identificazione di una distorsione cognitiva, che fu denominata “effetto dunning-kruger”, a causa della quale individui inesperti tendono a sopravvalutarsi, giudicando a torto le proprie abilità come superiori alla media.

La sopravvalutazione di se stessi e le illusioni di superiorità Secondo gli stessi scienziati questa distorsione è generata da una incapacità metacognitiva di riconoscere i propri limiti ed errori, da parte di chi non è esperto in una certa materia. Inoltre, dallo stesso studio, è emerso che il possesso di una reale competenza, al contrario, può produrre la distorsione inversa, con un’affievolita percezione della propria abilità e una diminuzione della fiducia in sé stessi, poiché individui competenti sarebbero portati a vedere negli altri un grado di comprensione equivalente al proprio. Sebbene la descrizione dell’effetto dunning–kruger risalga solo al 1999, i due ricercatori hanno riscontrato considerazioni simili in Charles Darwin (“L’ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza”), Bertrand Russell (“Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e di indecisioni”) e William Shakespeare (“Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio”). Non posso nascondere che, più di qualche volta, mi è capitato di intravedere evidenti indizi di “effetto dunning-kruger” nella gestione dirigenziale del nostro dipartimento. E spesso, purtroppo, gli incompetenti sono anche quelli più sicuri di sé. Più non sanno o non sanno fare, più sono decisi nelle opinioni, più sono certi delle conoscenze, più sono ostinati nel mantenere e sostenere la posizione. Inutile, poi, tentare di confutare le loro affermazioni perché si otterrebbe soltanto un più convinto sostegno delle tesi, fino alla difesa aggressiva delle posizioni. Non a caso l’articolo divulgativo di Dunning e Kruger sulla ricerca è intitolato: “Inesperto e ignaro di esserlo: come la difficoltà a riconoscere la propria incompetenza

porta a un giudizio esagerato su di sé”. Tra l’altro, spesso capita che persone colpite dall’effetto dunning-kruger siano anche propense ad altri atteggiamenti mentali erronei come le illusioni di superiorità che, ancorché gratificanti, distorcono la realtà e contaminano il processo decisionale. Le illusioni di superiorità identificate dagli studiosi sono tre: quella di favorevolezza, quella d’ottimismo e quella di controllo. L’illusione di ottimismo si riferisce all’eccessivo ottimismo che spesso si ripone nel proprio futuro rispetto a quello degli altri. L’illusione di controllo è la tendenza ad esagerare le proprie capacità di controllare eventi casuali. L’illusione di favorevolezza, si basa su una visione di sé stessi esageratamente positiva, sia in termini assoluti che relativi. In termini assoluti si tende ad enfatizzare le proprie caratteristiche positive e a sorvolare su quelle negative. In termini relativi si crede di essere più onesti, morali, capaci, intelligenti, gentili, riflessivi e corretti degli altri. In genere, ci si attribuiscono più meriti per i successi e meno colpe per gli insuccessi di quanto si è soliti riconoscerne agli altri. Si alterano e si selezionano le informazioni che riguardano se stessi per conservare un’immagine positiva di sé, proprio come fanno gli stati autoritari quando controllano le informazioni su ciò che succede al loro interno. Purtroppo per noi, questa distorsione metacognitiva delle proprie competenze, congiunta con le illusioni di superiorità, non può che avere conseguenze negative sui nostri dirigenti, con ricadute sfavorevoli per la gestione dell’amministrazione penitenziaria a tutto discapito del benessere e della soddisfazione del personale. H

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Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it

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attività sindacale

A Rimini i lavori del XXVII Consiglio Nazionali del Sappe a città di Rimini ha ospitato dal 7 al 9 aprile scorsi i lavori del XXVII Consiglio Nazionale del SAPPE, l’organismo al quale partecipano i componenti la Segreteria Generale, i Segretari Nazionali, quelli Regionali ed i Coordinatori nazionali. L’appuntamento, come da tradizione, è stato estremamente utile per fare il punto della situazione e dell’attività sindacale nel contesto nazionale ed in quello delle singole regioni italiane. Ampio ed approfondito il contributo pervenuto dai vari Consiglieri Nazionali, che hanno fornito spunti utili alla complessiva discussione generale. Ai sindacalisti del SAPPE riuniti nella città romagnola sono giunti gli auguri del Capo dello Stato Sergio Mattarella che ha inteso esprimere al Segretario

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Nelle foto: accanto al titolo il Segretario Generale del Sappe Donato Capece sotto alcumi momenti del Consiglio Nazionale

Nelle foto: la platea formata dai Consiglieri Nazionali del Sindacato a destra: il Vice Sindaco di Rimini Gloria Lisi saluta i partecipanti

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Generale Capece il suo “apprezzamento per la costante dedizione e l’assiduo impegno con cui il personale che Ella rappresenta assolve quotidianamente i propri compiti d’istituto”. Indirizzi e messaggi di saluto sono arrivati anche dal Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, dal Vice Capo vicario, Luigi Pagano e dal Responsabile dell’Ufficio del Cerimoniale, Alessio Giacopello. Sono intervenuti ai lavori del Consiglio Nazionale del SAPPE anche i Segretari Generali dei Sindacati interforze che, con il SAPPE, compongono la Consulta Sicurezza. C’erano Gianni Tonelli (SAP, Polizia di Stato), Marco Moroni (SAPAF, Corpo Forestale dello Stato) e Antonio Brizzi (CONAPO, Vigili del Fuoco).

Ha portato il saluto del Sindaco e della Giunta comunale di Rimini il vice sindaco Gloria Lisi, che ha espresso alcune interessanti considerazioni anche sui temi della sicurezza sociale e dell’impiego dei detenuti meno pericolosi in attività di recupero del territorio ambientale. Interrotta più volte dagli applausi la relazione politico- programmatica del Presidente del Consiglio Nazionale, il Segretario Generale Donato Capece. Molto applaudito il richiamo all’orgoglio di appartenenza alle Forze di Polizia e di sicurezza del Paese. “Vogliamo governare il cambiamento ventilato sulla riorganizzazione delle Forze di Polizia, ma non accettiamo una marginalizzazione della Polizia


attività sindacale Penitenziaria. Per questo abbiamo chiesto al Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi di incontrarci e ascoltarci, per orientare l’Esecutivo a una eventuale razionalizzazione che rispetti la storia e l’identità di ogni Corpo di Polizia, esaltandone le peculiarità e l’efficienza: ma non siamo affatto d’accordo ad una marginalizzazione della Polizia Penitenziaria. La sicurezza dei cittadini non può essere oggetto di tagli indiscriminati e ingiustificati. E la realtà è che con sei miliardi di tagli che i vari Governi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi hanno operato dal 2008 ad oggi, i cittadini sono MENO sicuri perché ci sono MENO poliziotti a controllare le loro case e i quartieri, MENO poliziotti penitenziari nelle carceri a fronte di un numero di detenuti che sta tornado ad aumentare esauriti gli effetti “taumaturgici” della sentenza CEDU – Torreggiani, MENO forestali contro le agromafie e le ecomafie per la tutela dell’ambiente, MENO vigili del fuoco a difenderci da disastri e calamità, a garantire sicurezza e soccorso pubblico”. E sul decreto concernente la riorganizzazione del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione, Capece sottolinea: “Non è pensabile chiudere strutture importanti di raccordo tra carcere, istituzioni e territorio come i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria di Liguria, Umbria, Marche e Basilicata a meno che non si voglia paralizzare il sistema ed avere del carcere l’esclusiva

concezione custodiale che lo ha caratterizzato fino ad oggi. Vuole il Governo Renzi essere ricordato per questo attacco ai presidi di sicurezza del Paese?”. Dopo il dibattito a seguito della relazione del Presidente del Consiglio Nazionale, approvata all’unanimità come il bilancio consuntivo e quello preventivo, e gli interessanti contributi pervenuti dai Segretari Nazionali e Regionali, il Consiglio Nazionale del Sindacato Autonomo Polizia

Penitenziaria ha concluso i lavori con l’approvazione della mozione finale che ha posto diversi impegni per la prossima attività della Segreteria Generale come, per citarne alcuni, le sollecitazioni alle Autorità interessate per dare corso alla tanto ventilata e promessa omogeneizzazione di tutte le carriere delle Forze di Polizia (riordino), il riconoscimento e la corresponsione di indennità varie ai poliziotti penitenziari. H erremme

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Nella foto: il tavolo della presidenza del Consiglio Nazionale

Nelle foto: le foto di gruppo e la torta finale...

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il commento

Reati, non punibilità o certezza della pena? Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Nella foto: uno scasso

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a microcriminalità cresce, le famiglie ne hanno sempre più timore: è allarme furti nelle case private. Fanno riflettere i numeri del Censis, diffusi a febbraio. Sono ad esempio 689 al giorno, cioè 29 ogni ora, uno ogni due minuti, il numero di furti in abitazione commessi nell’ultimo anno. Questa tipologia di reato ha registrato un aumento record. Negli ultimi dieci anni i furti in casa sono più che raddoppiati, passando dai 110.887 denunciati nel 2004 ai 251.422 del 2013, con una crescita del 126,7%. Solo nell’ultimo anno l’incremento è stato del 5,9%.

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È un aumento molto più accentuato rispetto all’andamento del numero totale dei reati (+19,6% nel periodo 2004-2013) e dei furti nel complesso (+6%), e in controtendenza rispetto all’andamento dei furti di autoveicoli (-32,2%) e degli omicidi (-29,7%). La zona d’Italia più colpita è il NordOvest, dove nell’ultimo anno i furti in abitazione sono stati 92.100, aumentati del 151% nel decennio. Oltre il 20% dei furti denunciati è avvenuto in tre province: Milano (19.214 reati), Torino (16.207) e Roma (15.779). Considerando il numero di reati rispetto alla popolazione residente, in cima alla graduatoria delle province

italiane più bersagliate si trovano Asti (9,2 furti in abitazione ogni mille abitanti), Pavia (7,1 ogni mille), Torino (7,1 ogni mille) e Ravenna (7,0 ogni mille). E le province in cui i furti in casa sono aumentati di più nell’ultimo decennio sono ForlìCesena (al primo posto, +312,9%), Mantova (+251,3%), Udine (+250,0%), Terni (+243,7%) e Bergamo (+234,3%). Tra le grandi città, gli aumenti maggiori si registrano a Milano (+229,2% nel periodo 2004-2013), Firenze (+177,3%), Torino (+172,6%), Padova (+143,3%), Palermo (+128,4%), Venezia (+120,9%), Roma (+120,6%), Bologna (+104,5%) e Verona (+103,4%). Cresce anche l’attenzione delle forze dell’ordine nei confronti di questo reato. Nel 2013 sono state denunciate a piede libero per furti in abitazione 15.263 persone (+139,6% rispetto al 2004), di cui 1.366 minori (il 9% del totale). E sono state arrestate 6.628 persone, di cui 486 minori (il 7,3% del totale). I detenuti per furto in abitazione e furto con strappo sono 3.530 nel 2014, con una crescita del 131,9% rispetto al 2007. I ladri scelgono sempre di più le abitazioni private perché oggi negozi, banche, uffici postali e strade commerciali sono maggiormente dotati di sistemi di sicurezza, come le telecamere, in grado di scoraggiare chi vuole commettere il reato o di individuarne il responsabile. E anche perché si è certi di trovare nelle case un bottino da portare via, soprattutto in una stagione di crisi e di forte incertezza riguardo al futuro, in cui gli italiani hanno ridotto i consumi e hanno preferito tenere i propri risparmi «sotto il materasso». I dati testimoniano una presenza consistente di stranieri sulla scena del crimine. Nell’ultimo anno tra i denunciati a piede libero gli stranieri

sono il 54,2% (8.627 persone), tra gli arrestati il 62% (4.112: +31,4% solo nell’ultimo anno), tra i detenuti il 42,3% (1.493). Si svaligia sempre e comunque: di notte e di giorno, da soli o organizzati in bande, spesso sfidando gli ignari inquilini mentre si trovano in casa. Parallelamente all’aumento dei furti, infatti, a disturbare i sonni tranquilli degli italiani è la crescita di un altro reato ancora più allarmante: le rapine in abitazione, con violenza o minaccia ai proprietari. Nel 2013 sono state 3.619, con una crescita vertiginosa nel decennio (+195,4%) e un incremento del 3,7% solo nell’ultimo anno. A differenza dei furti in abitazione, le rapine sono commesse principalmente al Sud (1.380 nel 2013, pari al 38,1% del totale). Nella graduatoria provinciale in base all’incidenza di questo reato rispetto alla popolazione residente, al primo posto si trova Trapani (14,4 rapine in abitazione ogni 100.000 abitanti), seguito da Asti (14,1 ogni 100.000) e Palermo (13,8 ogni 100.000). E l’aumento dei reati che turbano la quiete domestica porta a un aumento delle preoccupazioni della gente comune. Le famiglie che percepiscono il rischio di criminalità nella zona in cui vivono sono passate dal 27,1% del totale nel 2010 al 30% nel 2014. In effetti, siamo al 6° posto in Europa per numero di furti e rapine in abitazione: 4 ogni mille abitanti rispetto alla media europea di 2,9 (i dati di comparazione internazionale sono riferiti all’anno 2012). Più insicuri dell’Italia sono solo Grecia (7,9 reati ogni mille abitanti), Danimarca (7,8), Belgio (7,2), Paesi Bassi (6,7) e Irlanda (6,1). Ultimi in classifica (cioè i Paesi più sicuri) sono Romania (0,8) e Slovacchia (0,3). Dati allarmanti, che meriterebbero ben altre risposte dallo Stato e da chi lo governa che non quella, ben evidenziata da Donato Capece nell’editoriale di questo numero, di tagli sostanziali ed indiscriminati per il Comparto Sicurezza: parliamo di sei miliardi di tagli che i vari Governi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi


il commento hanno operato dal 2008 ad oggi! Certo non credo possano essere ritenute confortanti le previsioni contenute nel decreto legislativo 28/2015, entrato ufficialmente in vigore il 2 aprile scorso, provvedimento che porta nelle aule di tribunale la possibilità per i giudici di archiviare all’istante un caso che venga giudicato a regime di “tenuità del fatto”. Per intenderci, ai magistrati viene così fornito uno strumento per “aggirare” l’obbligo a procedere penalmente per i reati cosiddetti minori (puniti fino a 5 anni di reclusione!), mossa che dovrebbe portare ad uno snellimento della mole e conseguentemente della proverbiale lentezza della macchina giuridica italiana. Stando al decreto legislativo, la “non punibilità (penale, mentre in sede civile la parte offesa può comunque chiedere un risarcimento, ndr.) per

penale contro chi ruba o viene pizzicato a rubare, per una volta, biscotti o altri generi alimentari?), ma anche l’abuso d’ufficio, il commercio o la somministrazione di medicinali guasti, l’oltraggio a pubblico ufficiale, gli atti osceni, l’ingiuria, le percosse, la diffamazione, la violazione di domicilio, le lesioni colpose, la rissa. E ancora il gioco d’azzardo, la guida in stato di ebbrezza o sotto l’alterazione di sostanze stupefacenti e il falso in bilancio, ripristinato dal ddl Anticorruzione approvato anch’esso poche settimane fa al Senato ma punibile fino ad un massimo di 5 anni per le società non quotate (il 99% del totale). Altro che la favoletta di una legge studiata per non fare entrare in carcere il poveraccio che al supermercato ruba alimenti e bevande per necessità! Un esempio delle storture che produce questa legge lo si è visto nei

che il Pm aveva chiesto una condanna a 4 mesi. La filosofia è quella introdotta dalla nuova normativa sul perdono, pensata per decongestionare i tribunali dalle pratiche bagatellari, che costituiscono una buona fetta dell’arretrato che ingolfa la macchina della giustizia. Un provvedimento che, seppur accolto con favore da avvocati e magistrati, non manca di creare polemiche: in cosa si misura infatti la lievità di un reato (concetto lasciato alla discrezione del giudice)? La legge, così com’è, lascia al giudice la discrezionalità. Con buona pace dei proprietari delle auto. Come scrissi anche in occasione di alcune leggi approvate nel recente passato per deflazionare le carceri italiani dal sovraffollamento detentivo, io continuo a pensare che risolvere i problemi dell’affollamento nei penitenziari o la mole di arretrato degli Uffici giudiziari con leggi che

particolare tenuità del fatto” può essere applicata solo ed esclusivamente ai non recidivi (che non abbiano quindi già commesso lo stesso reato) e il cui comportamento abbia comportato danni e torti di piccola entità. Ma non è certo questo aspetto a sollevare numerose criticità sul D.lgs 28/2015. Ma, almeno in chi scrive, a lasciare l’amaro in bocca sono alcune delle categorie di reati che sono concepiti nel raggio d’azione del decreto stesso. In tal senso, non va dimenticato che tra quei comportamenti che possono essere puniti con un massimo di 5 anni si trovano il “furto semplice” (ad esempio, perché procedere in sede

giorni scorsi a Genova. Un uomo di nazionalità cilena e senza fissa dimora, completamente ubriaco per sua stessa ammissione, insieme a due amici, dopo una notte di bagordi, ha preso «a colpi di kung-fu» una fila di macchine in sosta, danneggiandole. Un’impresa conclusa con l’incendio di un cassonetto e l’arresto da parte dei Carabinieri. Dalla sua, però, ha una nuova legge che introduce la tenuità del fatto. Il caso, fra i primissimi nel suo genere a Genova, è andato in scena qualche giorno fa davanti al giudice Adriana Petri, che ha dichiarato la non punibilità dell’uomo dall’accusa di danneggiamento, per «particolare tenuità del fatto», dopo

daranno la possibilità a chi si è reso responsabile di un reato di non entrare in carcere è sbagliato, profondamente sbagliato ed ingiusto. Le soluzioni possono essere diverse: nuovi interventi strutturali sull’edilizia penitenziaria, l’aumento di Personale di Polizia e del Comparto ministeri e di risorse, espulsione dei detenuti stranieri, introduzione del lavoro obbligatorio durante la detenzione. Verrebbe da dire che le pene dovrebbero essere tali da terrorizzare coloro che commettono i reati! Perchè intaccare la certezza della pena per coprire le inefficienze e le inadempienze dello Stato è sbagliato e ingiusto. H

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Nelle foto: a sinistra uno scippo sopra: telecamere di sorveglianza

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Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

l’osservatorio

Dare esecuzione alla Convenzione ONU contro la tortura

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opo il richiamo fatto all’Italia dalla Corte europea dei diritti umani l’introduzione, nel nostro Paese, del reato di tortura, sembra ormai ineludibile, anche perché bisogna dare esecuzione alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ratificata dall’Italia nel 1989. Le richieste nel nostro Paese sono divenute sempre più pressanti, da parte di varie organizzazioni ed autorità, soprattutto dopo i fatti del G8 di Genova.

Nella foto: la bandiera delle Nazioni Unite

Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015

Proprio in relazione a tali fatti la Corte europea ha dato ragione ad un ricorrente ed ha quindi stigmatizzato l’Italia per non aver ancora introdotto nel proprio ordinamento il reato di tortura. In questi giorni, proprio a seguito della sentenza e del richiamo fatto dalla Corte dei diritti umani, il governo ha dato nuovamente impulso al progetto di legge e la Camera dei deputati l’ha approvato. Tocca ora al Senato approvarlo definitivamente. Noi abbiamo espresso da sempre forti perplessità sull’introduzione di tale reato, ma siamo consapevoli del fatto che sarà ormai difficile contrastarne l’approvazione definitiva. Siamo contrari all’introduzione del reato, ma soprattutto alla formulazione generica fatta dal legislatore.

In un paese normale non ci sarebbe nulla da temere per l’introduzione di tale reato, ma, purtroppo, l’Italia non è proprio un paese normale da questo punto di vista; non lo è perché sono ancora tante, seppur fortemente minoritarie, le organizzazioni e le persone che nutrono un odio viscerale verso le Forze di polizia e le Forze armate, e le richieste maggiori per introdurre il reato di tortura arrivano proprio da queste persone, dal folto partito dell’anti polizia, da coloro che sostengono che è sempre colpa della polizia quando ci sono gli scontri di piazza, senza mai dar conto e ragioni di quanti aggrediscono la polizia senza motivo. In fondo, al di là di come siano poi andate le cose, al G8 di Genova, già molti giorni prima, c’erano anche politici che sostenevano che avrebbero violato la zona rossa. La richiesta, in Italia, di introdurre il reato di tortura nasce proprio dall’esigenza, di pochi, di introdurre una forma di repressione nei confronti della polizia, più che una forma di tutela verso persone oppresse. E’ questa l’anomalia che ci fa pensare che il nostro non è proprio un paese normale. Nei giorni scorsi Michele Ainis, trattando attraverso le pagine del Corriere della Sera delle “norme per punire i nuovi schiavisti” ha concluso il suo articolo sollecitando il Parlamento a “spicciarsi ad approvare il reato di tortura”. Come si può non condividere la richiesta di Michele Ainis, anche se, pur senza il reato di tortura, lo scafista Mouhamud Elmi Muhidin è stato condannato a 30 anni di reclusione in primo grado. Il problema di fondo, però, è che in Italia coloro che si mobilitano per l’introduzione di tale reato lo fanno, come dicevamo, per introdurre più

che una forma di tutela per gli oppressi, una fattispecie penale per reprimere il più delle volte presunti comportamenti illeciti degli appartenenti alle Forze di polizia. Per convincersene basta leggere le dichiarazioni e le richieste di alcuni di questi personaggi più o meno noti. Il senatore Manconi, per esempio, sostiene che così com’è formulato, cioè un reato comune e non proprio del pubblico ufficiale, diventa di difficile applicazione; quindi, mentre per l’autorevole opinionista del Corriere della Sera è una priorità per punire gli scafisti, per Manconi ed altri sembra essere una priorità per punire gli appartenenti alle Forze di polizia. Per altri non è sufficiente l’introduzione del reato di tortura, ma bisognerebbe introdurre una norma che rendesse obbligatorio il riconoscimento dei poliziotti che operano in ordine pubblico. Tanto, cosa gliene importa a loro delle ragioni di sicurezza e di incolumità dei poliziotti, magari mettiamo sul casco o sulla divisa anche il loro indirizzo di casa, così qualcuno può andare a sparargli addosso. E questo può considerarsi un paese normale? Noi riteniamo invece che il reato di tortura, così com’è formulato, creerà non pochi problemi soprattutto ai colleghi che operano nelle carceri. Infatti, l’art. 613 bis qualifica il reato di tortura come il comportamento di “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità umana, cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia o autorità o potestà o cura o assistenza ovvero che si trovi in una condizione di minorata difesa, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.” Leggendo il testo, il problema non è tanto se il reato è proprio o comune, ma meglio che sia comune, se proprio deve essere, perché così si rivolge alla generalità dei consociati e non solo ai pubblici ufficiali, ma il fatto che i trattamenti inumani e degradanti diventino fattispecie autonoma di qualificazione del reato stesso e non


giustizia minorile semplice conseguenza dei comportamenti violenti o delle minacce. Quindi, questa parte del testo andrebbe corretta, per evitare che anche l’esecuzione di una sanzione disciplinare o l’applicazione di particolari misure di sicurezza e di prevenzione all’interno di un istituto di pena possano essere qualificati come trattamenti inumani e degradanti e, quindi, diventare reato di tortura. C’è anche un’altra disposizione normativa del testo che suscita non poche perplessità, proprio per l’approccio ideologico di cui sembra essere conseguenza. Ci riferiamo alla modifica dell’articolo 19 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. La disposizione modificata prevederebbe che “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura”. Fin qui nulla quaestio. L’ultimo capoverso della disposizione prevede che “Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani.” Mentre nella prima parte della disposizione si fa correttamente riferimento al divieto di respingimento della persona che nel proprio Stato rischia di essere sottoposta a tortura, nell’ultimo capoverso, invece, si introduce un elemento di valutazione ulteriore e generico, non più riferito alla persona, ma al fatto che nello Stato interessato sia pratica diffusa la violazione dei diritti umani. Quindi, la valutazione si sposta dal piano personale a quello generale, ponendo, di fatto, un divieto quasi assoluto di respingimento, estradizione o espulsione, tenuto conto che la maggior parte delle persone che arrivano in Italia in questo momento provengono da paesi in cui la violazione dei diritti umani è sistematica. H

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n questo articolo parleremo ancora una volta della oramai concreta possibilità dell’inserimento dei Commissari del Corpo di Polizia Penitenziaria nel settore minorile. E’ doveroso a questo proposito ricordare che il Decreto Legislativo 21 maggio 2000, n. 146 riguardante l’istituzione dei ruoli direttivi ordinario e speciale del Corpo di Polizia Penitenziaria - a norma dell’articolo 12 della legge 28 luglio 1999, n. 266 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 132 dell’ 8 giugno 2000(Rettifica G.U. n. 183 del 7 agosto 2000) - è arrivato a circa dieci anni dall’istituzione del Corpo, determinando una serie di difficoltà, forse dovute anche al blocco delle assunzioni. Tuttavia, è noto a tutti come il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria appartenente ai ruoli direttivi non ha avuto fino ad oggi alcuna possibilità concreta di transitare dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria alle dipendenze del Dipartimento per la Giustizia Minorile. Secondo alcuni l’inserimento di Funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria in ambito minorile risulterebbe uno spreco di risorse, se si considera che la maggior parte dei direttori degli Istituti Penali per Minori provengono dall’area pedagogico-trattamentale, ovvero sono ex educatori. In ogni caso si rammenta che il DGM è stato istituito nel 2000 ed è l’evoluzione dell’ex Ufficio Centrale Giustizia Minorile del D.A.P. Attualmente dipendono dal Dipartimento Giustizia Minorile circa novecento unità appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria (ad esclusione dei Commissari perché non ancora esistenti completamente a quel tempo), assegnate in pianta organica alla Giustizia Minorile con D.P.C.M. 08 febbraio 2001. Di questi, molti sono in servizio presso la sede centrale di Roma e sono preposti alla sicurezza della struttura centrale e alla tutela del Capo Dipartimento. Il Dipartimento per la Giustizia Minorile, costituito da una articolazione amministrativa centrale e territoriale, provvede ad assicurare l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile, garantendo la certezza della

Giustizia Minorile: a maggio i primi commissari

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Ciro Borrelli Referente Sappe per la Formazione e Scuole G. Minorile borrelli@sappe.it

pena, la tutela dei diritti soggettivi, la promozione dei processi evolutivi adolescenziali in atto e perseguendo la finalità del reinserimento sociale e lavorativo dei minori entrati nel circuito penale. Si occupa della tutela dei diritti dei minori e dei giovaniadulti, dai 14 ai 25 anni, sottoposti a misure penali, mediante interventi di tipo preventivo, educativo e di reinserimento sociale. Altra finalità è quella di attivare programmi educativi,

di studio e di formazione-lavoro, di tempo libero e di animazione, per assicurare una effettiva integrazione di detti minori e giovani-adulti con la comunità esterna. L’istruzione, insieme alla formazione professionale e il lavoro, è uno degli strumenti principali del trattamento sia per il valore intrinseco e sia in quanto mezzo di espressione e realizzazione delle singole capacità e potenzialità. Ritornando di nuovo sull’argomento, si fa presente che presso il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria si sono svolte delle riunioni avente oggetto tra l’altro proprio l’inserimento dei Commissari nei servizi minorili. A conferma della fondatezza delle informazioni, ci risulta che già dal mese di maggio 2015 alcuni Commissari del Corpo prenderanno servizio in alcuni Servizi Minorili del territorio. H

Nella foto: Commissari schierati

Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015


12 Roberto Thomas già Magistrato minorile, docente di criminologia presso l’Università di Roma la Sapienza rivista@sappe.it

criminologia

Il minore mafioso on il termine generico di mafia devono intendersi varie tipologie territoriali di associazioni di criminalità organizzata, con diverse denominazioni (“mafia” e “cosa nostra” in Sicilia, “camorra” in Campania, “'ndrangheta” in Calabria, “sacra corona unita” in Puglia) e dotate di autonome strutture organizzative, unificate tutte dal costituire l'“altro Stato”, quello che combatte le istituzioni statuali - talora conniventi con essa - per avere “consenso” alle sue imprese criminali, approfittando di situazioni di miseria morale, culturale e materiale della popolazione che da essa si sente, in un certo senso, “protetta” , ricevendone spesso benefici economici e posti di lavoro clientelari.

C

Nelle foto: a fianco il Cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo a destra il Ministro dell’Interno borbonico Liborio Romano

Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015

Credo che la migliore definizione di questo gravissimo fenomeno criminale sia stata data da un prelato , il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, che nel 1979, nel suo Messaggio per l'Avvento scriveva : “La mafia è pretesa di fare a meno della legge e di poterla impunemente violare; è clientelismo e favoritismo insieme, è sentirsi sicuri perché protetti da un amico o da un gruppo di persone che contano. Simili atteggiamenti non si riscontrano solo in individui o gruppi

caratterialmente delinquenti ma anche in tanti che con il loro abituale comportamento arrogante e pretenzioso si dimostrano culturalmente mafiosi, anche se ostentano una rispettabilità sociale”. La dislocazione locale degli assetti mafiosi - a prescindere dalle loro “succursali” nella ricca Italia settentrionale e i collegamenti con le mafie di tutto il mondo, quale , ad esempio, la mafia russa, quella cinese e i cartelli colombiani della droga - è, come si è visto, lungo il territorio di quattro regioni, considerate attualmente a grave rischio di criminalità, e cioè la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia, tutte storicamente appartenenti all'ex Regno Borbonico delle Due Sicilie, dove, nell'ottocento, è sorto, su vasta scala, il fenomeno mafioso. In Sicilia l'aggettivo mafioso compare per la prima volta in un documento giudiziario nel 1838, quando il Procuratore generale del Regno, a Trapani, Pietro Ulloa scriveva un rapporto al Ministro della Giustizia borbonico rilevando un “comportamento mafioso....tipico di sette...” e diventa un termine popolare a seguito del dramma teatrale “ I mafiusi della Vicaria” scritto da Giuseppe Rizzotto nel 1863. Il termine 'ndrangheta (che deriva dai vocaboli greci anér =uomo eroico e agathòs= buono ) compare per la prima volta in una informativa scritta dal prefetto di Reggio Calabria, Tamajo, al Ministro dell'Interno nel 1884. La sacra corona unita (denominazione che ricorda, in maniera blasfema, l'analogo simbolo cattolico) prende piede in Puglia, come fenomeno criminale, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, quando vengono mandati in soggiorno obbligato in quella ridente terra diciannove

mafiosi siciliani, oltre all'inserimento nelle carceri pugliesi di diverse decine di camorristi napoletani. La camorra vede la sua nascita nell'ottocento in Campania, con la denominazione “bella società riformata”, quindi con il termine attuale (etimologicamente derivato dall'analogo termine spagnolo che significa rissa) ricompare alla fine della seconda guerra mondiale. A tal proposito si deve ricordare che nel 1860 , Garibaldi alla testa dei suoi “mille”( che nel frattempo, rinforzati dai picciotti siciliani erano diventati oltre ventimila) entrò a Napoli, senza colpo ferire, in carrozza a fianco del ministro dell'Interno borbonico Liborio Romano, scortato, ai due lati , da un gruppo di giovani con un'identica particolare giubba e spadino al fianco, come risulta chiaramente dai quadri ad olio dell'epoca: erano i camorristi che avevano concordato, tramite il predetto ministro, passato poi nelle file garibaldine, il ritiro dalla città – senza alcuna resistenza armata, pur possibile, da parte dell'esercito

borbonico, ancora ben organizzato e di numero doppio rispetto ai garibaldini - del re Francesco II, riparato con la sua corte a Gaeta, e del suo esercito. Ancora nel 1944, lo sbarco in Sicilia degli Alleati venne favorito dai buoni uffici della mafia siciliana, come è noto da alcuni documenti riservati, tratti dagli archivi segreti americani recentemente declassificati, che sono stati analizzati da Ezio Costanzo nel suo libro “Mafia e Alleati -Servizi Segreti Americani e sbarco in


criminologia Sicilia” Le Nove Muse Editrice . Questi due esempi storici mostrano di per sé il potere che siffatte organizzazioni criminali posseggono, con la connivenza talora di pubblici funzionari e spesso del clero ( pare ci sia una particolare benevolenza da parte di quest'ultimo, tanto da consentire, durante la processione del patrono del paese l'“inchino” della statua del Santo davanti alla casa del boss locale). A tal proposito si deve ricordare che, a parte il ricordato messaggio del Cardinale Pappalardo, solo con papa Giovanni Paolo II (in un famoso discorso nella Valle dei templi in cui urlò, rivolto ai mafiosi, con veemenza “Lo dico ai responsabili, convertitevi, ve lo ripeto convertitevi ! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio !”), e Benedetto XVI (che al Politeama di Palermo affermò : “La mafia è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo), venne pronunciata una chiara condanna della Chiesa cattolica contro tali organizzazioni criminali. Poi bisogna arrivare al 21 giugno 2014, a Cassano Ionico, in cui Papa Francesco , senza mezzi termini, scomunicò per la prima volta nella storia gli associati alle grandi associazioni criminali, affermando : “La 'ndrangheta è questo : adorazione del male e disprezzo del bene comune... Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”. Sotto un profilo strettamente giuridico le mafie in generale vengono definite nel contenuto dell'art. 416 bis, terzo comma del codice penale, secondo cui : “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivi per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione, o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri,ovvero al fine di impedire o ostacolare il

libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o altri in occasione di consultazioni elettorali”. Il precitato articolo prevede, poi, la pena della detenzione dai sette ai dodici anni per i meri partecipanti all'associazione, che passano dai nove ai quattordici anni per i suoi promotori dirigenti organizzativi. Nel caso di associazione “armata” le pene salgono, rispettivamente, dai nove ai quindici anni per i primi , e dai dodici ai ventiquattro anni per i secondi. I minori che nascono in una famiglia mafiosa, in quanto agganciata a vario livello ad una delle grandi organizzazioni criminali precitate, respirano, fin da piccoli, le regole “d'onore” imposte dai vari boss mafiosi. Chiaramente l'ambiente gioca un ruolo assolutamente prevalente per l'introiezione delle norme di appartenenza mafiosa. Invero è stato ampiamente studiato in criminologia - dalla teoria psicologica-sociale dell'apprendimento sociale ideata da Albert Bandura ( in “ Social learning through imitation”, in Nebraska Symposium on Motivation, Lincol, Nebraska University Press, 1962, pp. 211-369; Idem “Social Learning Theory”, Englewood Cliffs, N.J., Prentice Hall, 1977. ) - l'apprensione da parte dei bambini dei ruoli negativi, nell'ambito della famiglia, attraverso la loro imitazione, supportata da un sistema di ricompense offerte dagli adulti. Siffatta analisi riprendeva, approfondendola, quella sociologica della trasmissione culturale per apprendimento, già ideata da Edwin H.Sutherland nel suo libro “Principles of criminology” Philadelphia, Lippincott, 1947, denominata “teoria delle associazioni differenziali”, che segnalava l'importanza della comunicazione culturale che può portare sia all'acquisizione di modelli delinquenziali che, differenzialmente, di quelli normali a secondo “di una prevalenza di definizioni favorevoli alla violazione della legge su quelle

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sfavorevoli alla violazione stessa”. In particolare Sutherland sottolineava i comportamenti antisociali soprattutto all'interno dei micro-gruppi, dominati da figure di spicco di criminali dotati di un solido carisma negativo che influenzava soprattutto i più giovani. E così il piccolo “mafioso” già dodicenne può essere “messo alla prova” sulle sue capacità criminogene, approfittando soprattutto della circostanza della mancanza assoluta d'imputabilità penale (“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”, recita, infatti, l' articolo 97 del codice penale). Pertanto viene spesso adoperato, inizialmente, come “manovalanza” per la commissione di reati non particolarmente gravi in gruppo con giovani dello stesso clan più esperti, che fanno da suoi (cattivi) maestri. Successivamente verso i tredici anni avviene il salto di qualità : sempre garantito dallo scudo della non imputabilità, a motivo dell'età, gli viene affidato il primo incarico

veramente “fiduciario”: eseguire una sentenza di morte facendo il killer in cambio di poche centinaia di euro. Così si entra a pieno titolo nel “gruppo di fuoco” dell'associazione criminosa, percorrendo una vera e propria carriera criminale, da incarichi subalterni a quelli “dirigenziali” di vario livello, raggiunti col trascorrere degli anni, normalmente essendo divenuti maggiorenni, nei vari settori di competenza mafiosa, dal racket delle estorsioni ai negozianti e imprenditori

Nelle foto: a destra Giuseppe Rizzotto sopra un “guappo”

‡ Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015


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criminologia (cui viene garantita , tramite l'esborso di laute somme , la “protezione” ) al traffico di droga locale ( gestendo proprie raffinerie clandestine ) e internazionale, allo sfruttamento della prostituzione, alla gestione delle scommesse clandestine e del gioco d'azzardo, degli appalti pubblici , dei fondi della comunità europea, e di parte del sistema bancario. Insomma un panorama sconvolgente e variegato di attività criminali cui lo Stato cerca di far fronte mettendo in campo un massiccio numero di uomini appartenenti alle forze di Polizia (talora integrato dall'esercito, soprattutto nel caso di gravi massacri di adepti mafiosi, frutto di lotte intestine fra i clan rivali), ma spesso senza il necessario intervento strutturale di carattere economico (e

Nella foto: processione con “inchino”

Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015

cioè la creazione di nuove grandi imprese che possano dare un lavoro onesto a tanti disoccupati) e culturale (indicazione di un diverso modello identificativo dell'appartenenza collettiva, mediante una seria educazione alla legalità per i giovanissimi prodotta dalla scuola e dagli altri centri aggregativi, cosa assai difficile soprattutto attualmente, in cui la nostra politica non dà certamente un bell'esempio, percorsa com'è da una serie infinita di scandali ). Chiaramente il fatto, prima sottolineato, che i minori nati in un ambiente mafioso “apprendano” i comportamenti devianti della loro famiglia fin da piccolissimi, rende estremamente arduo qualsiasi tentativo di prevenzione criminale e del loro successivo recupero ( pur sempre da tentare ) in quanto il loro DNA è

totalmente assorbito dal modello mafioso ereditato e vissuto quotidianamente, senza possibilità di accedere alla conoscenza di ruoli culturali alternativi. Come magistrato minorile ho avuto, qualche anno fa, la ventura di poter interrogare un minore di diciassette anni, siciliano, pentito di mafia e pertanto in regime di protezione come collaboratore di giustizia ( uno dei pochissimi pentiti infradiciottenni!) che alla mia domanda sul perché fosse diventato un killer della mafia, mi ha risposto : “vede, signor giudice, la mia famiglia è mafiosa da varie generazioni e nonostante tutto non si è arricchita come altre, tanto che io ho iniziato a uccidere fin da quando avevo tredici anni, con un premio di cinquecento euro e la qualifica di “uomo d'onore”, che mi consentì di inserirmi nel gruppo di adulti che trattava le estorsioni in danno dei negozianti, con uno “stipendio” mensile progressivamente arrivato a tremila euro a diciassette anni, quando mi hanno arrestato e ho deciso di collaborare, mettendo a grave rischio la mia famiglia di origine che si è dissociata, inviandomi anche minacce di morte...”. Alla mia domanda di come vedesse il suo futuro mi rispose: “ spero di avere presto una nuova identità non solo anagrafica (come si usa fare per proteggere tutti i pentiti dalle vendette mafiose, una volta scontata la pena assai diminuita a motivo della collaborazione con la giustizia), ma anche umana, avendo compreso il grande dolore che ho arrecato ingiustamente a tante persone , sparendo dall'Italia e andando all'estero, dove potrò lavorare onestamente, con l'aiuto fornitomi dalle istituzioni, mettendo a frutto anche la licenza media che ho preso, nel frattempo, dentro il carcere minorile... ho il desiderio di mettere su famiglia con tanti figli che, stia tranquillo, non diventeranno, come me, dei piccoli mafiosi” . Spero, vivamente, che quel ragazzo possa mantenere la parola datami! H

a tutela relativa allo svolgimento della prestazione di lavoro notturno non rappresenta in sé una novità degli ultimi anni. Era già prevista dalla Legge 9 dicembre 1977 n. 903 (art. 5, comma 2), norma che è stata successivamente modificata dalla Legge 5 febbraio 1999, n. 25 (articolo 17, comma 1). Ma il percorso di ridefinizione normativa si è perfezionato con l’articolo 53 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) e, ancora, con il Decreto Legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (art. 11) che reca “Attuazione della direttiva 93/104/CE e della direttiva 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”. Questo quadro normativo, integrato da circolari ministeriali e da giurisprudenza, merita un’approfondita analisi rispetto alle diverse fattispecie e alle condizioni previste. In primis, occorre puntualizzare che i benefici previsti a favore delle persone portatrici di handicap (Legge 104/92) ma senza il riconoscimento della situazione di gravità (art. 3, comma 1, Legge 104/92) riguardano esclusivamente il lavoratore portatore di handicap (1). Al contrario, i benefici derivanti dal riconoscimento della situazione di “gravità” (art.3, comma 3, Legge 104/92) possono riguardare non solo il lavoratore disabile ma anche i suoi familiari. Non sono obbligati a prestare lavoro notturno la lavoratrice o il lavoratore che abbia a “proprio carico” una persona con disabilità ai sensi della legge 104/92. Si tratta, com’è stato spiegato nella Circolare del Ministero del Lavoro n. 8/2005 di un “vero e proprio diritto potestativo”, attribuito a queste particolari tipologie soggettive di lavoratori, ai quali viene in concreto riconosciuto un “diritto di resistenza” rispetto alla eventualità di un impiego delle energie lavorative nella fascia tutelata di orario notturno. L’orario di lavoro giornaliero, infatti, in alcuni casi, può cadere anche in fasce

L


diritto e diritti orarie considerate “notturne” dalla normativa o dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. E’ considerato «periodo notturno» (2) l’arco di tempo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino (3) (ad esempio, è considerato «periodo notturno» un turno che va dalle 24.00 della sera alle 06.00 di mattina del giorno dopo). Per completezza di esposizione, è necessario evidenziare che è considerato «lavoratore notturno» qualsiasi lavoratore che svolga: • almeno tre ore del proprio orario di lavoro giornaliero durante il «periodo notturno»; • almeno una parte del proprio orario di lavoro durante il periodo notturno, nell’arco dell’anno, secondo le norme definite dai singoli Contratti Collettivi

benefici della legge n. 104/92. La Direzione Generale per l’Attività ispettiva del Ministero del Lavoro con l’interpello in commento fornisce un chiarimento in relazione all’individuazione del soggetto ammesso al beneficio di cui all’articolo 11, comma 2 lettera c) del D.Lgs n. 66/2003 secondo il quale la lavoratrice o il lavoratore che abbia a carico un soggetto disabile, ai sensi della Legge n.104/1992 possono

proprio carico” che faccia salvi i diritti del disabile e del soggetto che lo assiste, rispondendo, nel contempo, alla necessità di contenere possibili abusi e un uso distorto del beneficio, visto che la normativa di cui alla Legge 104/1992 è volta, in particolare attraverso la fruizione del permessi di cui all’articolo 33, ad agevolare la cura del soggetto che si trovi in stato di disabilità, ha precisato di conseguenza, che anche la

Nazionali di Lavoro; • un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno durante il «periodo notturno» (in caso di lavoro a tempo parziale, tale limite è ridimensionato in proporzione al numero di ore svolte). L’orario dei lavoratori notturni non deve superare 8 ore medie nell’arco delle 24 ore. Sul significato da attribuire all’espressione “a proprio carico”, la Risoluzione del Ministero del Lavoro del 6 febbraio 2009 n. 4 chiarisce che solo il soggetto che risulti già godere dei benefici della legge 104/92, o ne possieda i requisiti per farlo, potrà richiedere l’esonero dal lavoro notturno. Deriva onere del lavoratore o lavoratrice di dimostrare al proprio Datore di lavoro tale effettiva assistenza, nonché di godere già (o possedere i requisiti per godere) dei

rifiutare di svolgere lavoro notturno. L’articolo 11, comma 2 lettera c) del D.Lgs. n. 66/2003 riconosce alla lavoratrice o al lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104 la possibilità di rifiutare di prestare lavoro notturno. Si deve notare come, a differenza della legge n. 104/1992, che annovera i soggetti che possono beneficiare dei permessi giornalieri o mensili, la norma contenuta nel D.Lgs n. 66/2003 stabilisce che i soggetti che possono rifiutarsi di svolgere attività notturna sono, genericamente, quelli con un disabile “a proprio carico”. In assenza, infatti, di significativi precedenti giurisprudenziali in materia e di specifiche indicazioni interpretative il Ministero del Lavoro, al fine di addivenire ad una interpretazione del concetto di “a

disposizione contenuta nel D.Lgs 66/2003, deve essere interpretata secondo la medesima ratio. Di conseguenza solo il soggetto che risulti già godere dei benefici della Legge n. 104/1992, o che possiede i requisiti per goderne, potrà richiedere l’esonero dal lavoro notturno. H

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Esenzione dal lavoro notturno Legge 104/92

Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it

Nelle foto: a sinistra un medico sopra: una sezione detentiva

Note (1) Pag. 65 “Servizio sociale professionale e medicina legale”, Laura Brizzi e Claudia Cannoni, 2010, Maggioli. (2) Decreto legislativo n. 66, 8 aprile 2003, art. 1, comma 2, lettera d). (3) La Circolare del Ministero del Lavoro n. 8, 3 marzo 2005, specifica che sia da intendersi lavoro notturno anche quello svolto tra le 24 e le 7, tra le 23 e le 6, tra le 22 e le 5.

Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015


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Mario Salzano Commissario di Polizia Penitenziaria rivista@sappe.it

funzionari funzionali

La sorveglianza dinamica “mirata” innegabile che quello attuale è da considerarsi a tutti gli effetti un momento di transizione, un periodo di cambiamento, in cui viene spesso riconsiderato sia il ruolo dell’operatore penitenziario sia il metodo con cui esercitare i compiti istituzionali, nonché l’organizzazione tutta della vita detentiva. Si ritiene che, per svolgere al meglio la professione del poliziotto penitenziario, oltre a possedere le competenze necessarie, occorra anche essere consapevoli di questo cambiamento e conoscerne la direzione, non foss’altro che per essere capaci di interpretarlo nel migliore dei modi. In questo contesto si inserisce, a pieno titolo, il modello della sorveglianza dinamica, che risulta essere tema quanto mai attuale. Bisogna, però, specificare che esso non trova le sue origini ai giorni nostri, ma è possibile rinvenirne le direttive già nell’ordinamento penitenziario del 1975. I principi ivi contenuti erano e sono tutt’oggi considerati all’avanguardia, anche se per svariati motivi, sono stati spesso disattesi. La spinta verso il cambiamento è costituita principalmente dalla raccomandazione europea R(2006)2 rivolta agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee nonché dalle recenti sentenze di condanna della Corte di Strasburgo nei confronti del nostro Paese per trattamento “inumano” e “degradante” verso la popolazione detenuta. Si avvia, quindi, una profonda innovazione, spostando l’obiettivo dalla sorveglianza all’osservazione della persona nei diversi momenti della giornata, riqualificando il tempo e lo spazio negli istituti e pervenendo verso modelli di detenzione più consoni ai principi costituzionali ed alla finalità rieducativa della pena.

È

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In tal modo si delineano i tratti essenziali della sorveglianza dinamica, che si propone come una nuova modalità di gestione basata non più sulla mera custodia, finalizzata prevalentemente a prevenire fatti e azioni che possano compromettere la sicurezza intramurale oppure persino la stessa incolumità personale, ma sulla conoscenza, attraverso la semplificazione, razionalizzazione e qualificazione dei carichi di lavoro. Conoscenza che risulta fondamentale già inizialmente per sottoporre al soggetto il c.d. “patto di responsabilità”, condicio sine qua non per il suo conseguenziale inserimento nei reparti gestiti con il regime dinamico. È necessaria, poi, una maggiore interazione e scambio di informazioni tra i vari operatori penitenziari, basato su una stretta integrazione tra gli stessi con un coinvolgimento diretto e un’assunzione di responsabilità da parte delle diverse figure professionali operanti nel mondo carcere. In quest’ottica potrà trovare finalmente concreta attuazione l’art. 5 della legge di riforma del Corpo di Polizia Penitenziaria che vuole che il personale partecipi attivamente nell’ambito dei processi di conoscenza del detenuto, esaltando, al contempo, il livello di professionalità e specializzazione. Ulteriore passaggio nella realizzazione delle condizioni che consentono la sorveglianza dinamica consiste nella differenziazione degli istituti, per graduarli in relazione alla tipologia giuridica e, prima ancora, al livello di concreta pericolosità dei soggetti. La conoscenza del detenuto, però, risulterebbero fortemente limitate ove il perimetro della loro vita rimanesse confinato nei pochi metri quadri della cella o del corridoio, così come avviene in troppi istituti.

Occorre, quindi, realizzare una diversa gestione, ampliando gli spazi e favorendo le principali attività trattamentali, anche attraverso il coinvolgimento della comunità esterna in tutte le sue articolazioni, istituzionali e non, così creando le condizioni perché il detenuto sia impegnato a trascorrere fuori dalla cella la maggior parte della giornata. Altro presupposto indispensabile è quello strutturale. Sotto questo aspetto risulta fondamentale la predisposizione di un adeguato sistema di videosorveglianza, la presenza di una efficiente sala regia nonché una struttura adeguata che permetta al personale di collocarsi in posizioni strategiche onde sorvegliare ed assistere la popolazione detenuta in piena sicurezza. Ulteriore punto fondamentale nel dispiegarsi ottimale della sorveglianza dinamica risulta essere l’organizzazione del lavoro per Unità Operative, prevista espressamente all’art. 33 del regolamento di servizio, ma che, ancora oggi, non trova piena attuazione in tutti gli istituti. A distanza da qualche anno da questo nuovo modo di “fare sorveglianza”, si osserva che siamo al cospetto di una modalità di gestione che, ancora, divide molto gli addetti ai lavori. Questo perché, se appare innegabile che essa presenti aspetti positivi (si pensi al miglioramento della qualità sia della vita lavorativa degli operatori penitenziari, sia della convivenza dei ristretti), allo stesso tempo non mancano perplessità in merito. E’ facile ritenere che tale modello funzioni ed abbia un senso nel momento in cui conservi una valenza premiale: finché i ristretti nei reparti dinamici siano scelti sulla base di determinati crismi (trattasi, per lo più, di soggetti con scarso indice di pericolosità) e vi sia, di contro, il deterrente di poter tornare presso i reparti “chiusi” in caso di trasgressioni di qualsiasi tipo, allora si ritiene assicurato il successo del nuovo modello. Se, al contrario, si dovesse pensare ad un istituto organizzato con tale modalità nella sua interezza, allora, tanta strada dovrà essere ancora fatta. H


mondo penitenziario

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ome è noto, dopo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per i gravi fatti accaduti presso la Scuola Diaz di Genova e la caserma di Bolzaneto si è riacceso il dibattito sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano, tanto che l’iter legislativo per la sua approvazione ha visto, in questi giorni, una significativa accelerazione, al fine di arrivare ad una codificazione definitiva, anche se, a nostro avviso, non esaustiva. Infatti, il testo all’esame del Senato della Repubblica, che riproduce sostanzialmente il testo unificato approvato dall’Aula della Camera dei Deputati nella XV legislatura, individua il reato di tortura nella duplice ed alternativa condotta di chi pone in essere violenze o minacce gravi, ovvero di chi pone in essere trattamenti inumani e degradanti la dignità umana, quando questi cagionino acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, autorità, potestà, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizione di minorata difesa. Tale ampia formulazione, se da un lato risponde alla esigenza di evitare qualsiasi situazione di impunità, dall’altro si pone in contrasto con il principio di stretta legalità. Infatti, il principio di legalità sarebbe rispettato nella forma, ma eluso nella sostanza, se la legge che eleva a reato un dato fatto lo configurasse in termini così generici da non lasciare individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente rilevante. Appartiene, infatti, alla stessa ragione ispiratrice del principio di legalità l’esigenza della tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale, al fine di salvaguardare il cittadino contro eventuali abusi del potere giudiziario. E ciò è tanto vero nel contesto penitenziario dove il sovraffollamento, la carenza di organico e l’inadeguatezza delle strutture detentive rischiano di “oggettivare” una responsabilità che, invece, deve rimanere personale, in forza

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Corpo di Polizia Penitenziaria

Introduzione al reato di tortura all’articolo 27 della Costituzione. A preoccupare, infatti, per quanto più direttamente ci riguarda, è la portata eccessivamente ampia della nozione di tortura delineata nel disegno di legge in discussione al Parlamento, che va ben oltre quella prevista dalle diverse Convenzioni internazionali, ratificate dall’Italia, sebbene le stesse, nonché la copiosa giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul tema, possano ben fungere da base per una formulazione chiara e precisa di tale nuovo reato, anche per dare un senso effettivo al disposto dell’art. 13 della Costituzione. I rilievi più importanti all’attuale disegno di legge n. 849/2013 possono, pertanto, essere mossi circa la mancata netta distinzione tra torture e trattamenti inumani e degradanti, sia sotto il profilo definitorio che per quello sanzionatorio, avuto riguardo alle condizioni detentive, ove i trattamenti inumani e degradanti sono espressione, il più delle volte, del sistema penitenziario complessivamente considerato, piuttosto che di specifiche condotte concretamente poste in essere dagli operatori penitenziari, tanto che il disegno di legge n. 4990/04 a firma degli On.le Pecorella e Mormino, in questo senso prevedeva che “Il fatto non è punibile se sono inflitte sofferenze o patimenti come conseguenza di condotte o sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate”, in un’ottica di necessario bilanciamento degli interessi in rilievo, perlomeno nell’ambito che ci occupa, ove una maggiore riflessione circa le condotte da punire sembra ineludibile. In ragione di quanto sopra, la codificazione e la configurazione del reato di tortura dovrebbero essere, a nostro modesto parere, affrontate in

Luca Pasqualoni Commissario Segretario Nazionale ANFU pasqualoni@sappe.it

maniera quanto più ponderata ed equilibrata senza cedere a condizionamenti ideologici o a spinte contingenti, sempre possibili in detta materia, cercando di contemperare al meglio l’esigenza di evitare che condotte caratterizzate da un intenso disvalore sociale rimangano impunite, anche per effetto del maturare dei termini prescrizionali, così come evitare, nel contempo, il rischio di una indiscriminata criminalizzazione delle Forze di polizia, con particolare riferimento alla Polizia Penitenziaria. Infatti, non vi è chi non veda come il

Corpo di Polizia Penitenziaria, proprio in ragione delle degradanti ed inumane condizioni detentive che sovente affliggono i penitenziari italiani e per le quali l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte Europea, rischia, più di ogni altra Forza dell’ordine, di essere esposta maggiormente all’azione penale, fintantoché i trattamenti inumani e degradanti, concepiti, nel testo in discussione in Parlamento, quale condotta autonoma, non saranno meglio precisati e determinati, in relazione all’ambito penitenziario in cui vengono in rilievo pregnanti obblighi di protezione e significative posizioni di garanzia.H

Nella foto: tortura

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salute e igiene sul lavoro

Allarme salute in carcere: rafforzare la tutela igienico-sanitaria dei Baschi azzurri ono ormai più di vent’anni, da quando cioè si costituì il SAPPE a seguito della smilitarizzazione del dicembre 1990, che riserviamo e pretendiamo una particolare attenzione per la tutela igienicosanitaria della salute degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria.

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Nelle foto: Agente in una sezione nell’altra pagina: visita medica in carcere

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E’ evidente a tutti come la struttura penitenziaria sia, di per sé, un luogo particolarmente sensibile sotto questo aspetto. Da uno studio dell’Ufficio regionale europeo dell’Organizzazione mondiale di sanità è emerso che sono circa 6 milioni ogni anno i detenuti nella regione europea dell’OMS che vivono in carceri sovraffollate e insalubri, dove frequenti sono le malattie trasmissibili, alti i tassi di Hiv, epatiti e tubercolosi, molto più che nella popolazione generale, elevata la prevalenza di malattie croniche e problemi di salute mentale, tra cui disturbi da abuso di sostanze. La salute in carcere è parte della salute pubblica e le strutture penitenziarie parte della nostra società. Un terzo dei detenuti lasciano infatti gli istituti di detenzione ogni anno, generando una interazione

molto stretta tra carcere e società. E chi vive in mezzo a loro quotidianamente, ossia i poliziotti penitenziari, è soggetto ad alto rischio. Nei primi giorni di aprile è stato presentato uno studio molto importante, curato dall’Agenzia Regionale di Sanità (Ars) della Toscana, dal quale è emerso che il 70% dei detenuti, circa 16 mila persone, nelle carceri di Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e negli istituti penitenziari dell’Azienda sanitaria di Salerno, è affetto da almeno una patologia: soprattutto disturbi psichici, malattie infettive e dell’apparato digerente. L’11,5% ha una patologia infettiva e parassitaria, l’epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa. Sempre il 70% è fumatore (contro il 23% della media della popolazione generale). Secondo il rapporto, i detenuti sono affetti soprattutto da disturbi di natura psichica: oltre il 40% è risultato essere affetto da almeno una patologia psichiatrica, con differenze notevoli a seconda della regione considerata. “Fra i disturbi psichici – ha precisato Fabio Voller, dirigente dell’Ars Toscana e coordinatore scientifico del progetto - prevalgono quelli da dipendenza da sostanze, diagnosticati nel 24% di tutto il campione e i disturbi nevrotici e di adattamento”. Ai disturbi di salute mentale seguono per frequenza le malattie dell’apparato gastrointestinale, che si collocano al secondo posto per numero di diagnosi riscontrate, affliggendo il 14,5% degli arruolati. Si sottolinea come circa il 40% dei disturbi di questo grande gruppo di malattie sia costituito dalle patologie

dei denti e del cavo orale, storicamente estremamente diffuse all’interno delle strutture penitenziarie e il 37,5% sia rappresentato da esofagiti, gastriti e ulcere gastroduodenali, spesso legate allo stress anche all’utilizzo eccessivo di alcuni farmaci, come i fans. Fra le malattie infettive e parassitarie, che colpiscono l’11,5% di tutti i detenuti sottoposti a visita, l’epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa all’interno delle strutture penitenziarie partecipanti allo studio dell’Agenzia regionale di Sanità toscana, con una prevalenza del 7,4%, seguita da epatite B e Aids che colpiscono entrambe il 2% degli arruolati. “L’epatite C è probabilmente legata alla tossicodipendenza, ed incredibilmente riguarda in misura maggiore i detenuti italiani. Ma questo potrebbe dipendere solo dalla maggiore reticenza degli stranieri a sottoporsi agli screening infettivologici”. I tentativi di suicidio ed i gesti di autolesionismo rappresentano un’emergenza nel sistema carcerario italiano. Secondo quanto rilevato dai clinici, su 13.781 detenuti che presentavano questa informazione in cartella, 666 hanno messo in atto almeno un gesto autolesivo nel corso dell’ultimo anno di detenzione raggiungendo il valore complessivo di 4,5 atti ogni 100 detenuti. Spesso inoltre l’atto autolesivo è reiterato: mediamente infatti ogni detenuto ha compiuto questo gesto circa 2 volte. Secondo quanto rilevato dallo studio, il numero di detenuti che nel corso dell’ultimo anno di detenzione hanno tentato almeno una volta il suicidio è di 143 (l’1% del totale). Su tutti i detenuti ‘nuovi giunti da libertà’, con o senza precedenti, che accedevano a 6 strutture detentive dal 3 febbraio al 3 giugno 2014, è stato effettuato uno screening, rappresentato da uno degli strumenti maggiormente utilizzati in questo ambito (scala di Blaauw). Nel caso di positività al test veniva applicato un protocollo specifico di


segreterie prevenzione, con il coinvolgimento di una mini-équipe multidisciplinare integrata tra personale sanitario, del sociale e della giustizia. Circa il 53% dei nuovi giunti arruolati e sottoposti a valutazione per il rischio suicidio è risultato positivo: il 44% circa dei detenuti positivi alla scala di Blaauw presentava almeno una patologia e il 56% delle diagnosi rilevate era rappresentato dai disturbi psichici, soprattutto dal disturbo da dipendenza da sostanze. “Nel nostro campione - ha sottolineato Caterina Silvestri, ricercatrice dell’Ars Toscana – oggetto dell’intervento di prevenzione non si sono verificati tentati suicidi durante la rilevazione”. Nello studio sono state coinvolte 6 strutture detentive per minori, per un

Da sottolineare come si siano verificati 10 gesti autolesivi e 2 suicidi in questo gruppo: un fenomeno che evidenzia la necessità di intervenire, ancor più che nella popolazione detenuta adulta, con azioni volte a favorire il recupero sociale di questi soggetti. L’ottimo lavoro condotto dall’Agenzia regionale di Sanità (Ars) della Toscana conferma una volta di più in quali e quante situazioni ‘a rischio’ hanno a che fare tutti i giorni i poliziotti penitenziari impegnati nella prima linea delle sezioni detentive delle carceri italiane e come sia fondamentale, per il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, non abbassare la guardia su questa drammatica realtà. Noi vogliamo che la tutela della salute di chi lavora in carcere sia

totale di 86 detenuti minorenni (65% ragazzi e 35% ragazze). L’età media è stata 17 anni e il gruppo etnico più rappresentato quello dell’Europa dell’Est (45% circa, con una percentuale che sfiora l’80% per quanto riguarda le femmine). Il livello scolastico è risultato molto basso, con il 20% dei ragazzi che non ha conseguito alcun titolo di studio, suggerendo il fatto che questi minori sembrano sfuggire al controllo sociale, vivendo spesso in un grave stato di abbandono non solo familiare ma anche istituzionale. Circa il 40% del totale dei minori arruolati ha manifestato almeno una malattia, in particolar modo sono risultate essere maggiormente frequenti le patologie psichiatriche, coinvolgendo il 18,6% dei minorenni detenuti.

effettivamente esercitata, e non sia solo un argomento che occupa pagine di libri e dispense. Questo riguarda i detenuti ma anche coloro che lavorano a stretto contatto con i detenuti - come i poliziotti penitenziari -, che devono essere messi nelle condizioni di operare con tutte le tutele, a cominciare da quelle sanitarie. E questo, in conclusione, conferma l’attualità delle storiche richieste del SAPPE in materia di tutela igienicosanitaria per la salute degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, a cominciare da periodiche e continue visite di controllo e una profilassi ad hoc per coloro che lavorano a contatto con molte situazioni a rischio ogni giorno, per 24 ore. H R.M.

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Acerra Gara di motocross con centoquaranta piloti alla partenza

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n’ottima giornata di sport e di sano motocross ha caratterizzato la terza prova del Campionato Campano Motocross FMI 2015 svolta sul Crossdromo Città di Acerra (NA). Lo sfortunato circuito è stato fermo nei primi 3 mesi dell’anno a causa dell’inondazione dovuta alle forti piogge, che lo hanno reso impraticabile ai crossisti del sud Italia, così quella che doveva essere la prima tappa della nuova stagione è

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stata spostata al 19 aprile per il terzo round del campionato. Il Moto Club Cerbone Moto coadiuvato dallo staff del Moto Club Ultracross e dal nostro direttore di Gara Nazionale FMI Sovrintendente Ciro Borrelli hanno lavorato duramente nelle settimane antecedenti la gara, per rendere il circuito disponibile ai piloti. Lo sforzo organizzativo ancora una volta ha dato i suoi frutti, rendendo il tracciato spettacolare e ovviamente apprezzato da tutti i 140 piloti provenienti da tutto il centro-sud Italia. Infatti tutte le manche sono state tiratissime con notevoli spunti agonistici in tutte le categorie. Alla prova ha partecipato il figlio dell’Assistente Capo Nunzio Sandulli, giovane promessa del Motocross italiano, giunto con la sua KTM al terzo posto nella categoria Junior 125. H C.B.

Nella foto: il giudice di gara Ciro Borrelli posa accanto al collega Nunzio Sandulli e a suo figlio, giovane pilota di cross

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dalle segreterie Asti Assemblea degli iscritti al Sappe

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attività sindacale del nuovo Segretario Regionale del Piemonte Vicente Santilli è iniziata con una visita al penitenziario di Asti nel quale si è tenuta una assemblea sindacale con gli iscritti ed un incontro con i quadri dirigenziali del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. H

L’ Paola Gesto di solidarietà della locale Segreteria del Sappe l giorno 28 marzo una delegazione della Segreteria di Paola, nell'ambito dell'attività esterna e di collaborazione con altri enti ed associazioni, ha donato un gazebo all'associazione Stare Insieme onlus di Paola che si occupa di assistenza ed integrazione per i diversamente abili. L'iniziativa è stata ben supportata dal personale iscritto che ha collaborato per la buona riuscita dell'evento. Il Presidente dell'associazione Elvira Perricone ha accolto la delegazione della Segreteria Sappe con un buffet

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conviviale, consegnando una pergamena al Vice Segretario Regionale Salvatore Panaro per esprimere i più sentiti ringraziamenti e consegnando dei lavoretti artigianali fatti dai soci diversamente abili, ai quali sono stati regalate dai segretari Sappe delle uova pasquali. H Nicola La Triglia


dalle segreterie

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Aosta Polizia Penitenziaria solidale con i bimbi dell’ospedale di Beauregard n occasione della Pasqua, il Corpo di Polizia Penitenziaria di Brissogne ha donato dei giocattoli per i bimbi ricoverati nel reparto di Pediatria dell’Ospedale Beauregard. Bambole, trenini, costruzioni, cavallucci e tappetini ludici, acquistati grazie alla contribuzione volontaria del personale della Casa Circondariale, il 31 marzo 2015 sono

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stati portati a destinazione da una delegazione capitanata dal Vice Commissario Roberto Di Martino, Comandante del Reparto. «È la nostra prima iniziativa di questo genere, ma non l’ultima dice il Comandante - e in quanto

professionisti che hanno a che fare con il mondo della detenzione, ci è sembrato appropriato, in un momento così importante come la Pasqua, pensare a quei bimbi che la malattia tiene chiusi in un reparto di ospedale». H Giovanni Passaro

Baschi Azzurri ed il lavoro dei detenuti in carcere. E’ quello che abbiamo chiesto al Vice Presidente del Senato della Repubblica, Maurizio Gasparri”, ha commentato al termine della visita Capece. Il Sappe ha evidenziato come a Roma Regina Coeli siano detenute 918 persone: 784 sono gli imputati e 133 i condannati. La situazione penitenziaria, a Regina Coeli e nel Lazio, resta grave e questo determina per i poliziotti penitenziari pericolose condizioni di lavoro e un elevato indice di stress. I numeri degli eventi critici accaduti nei dodici mesi del 2014 a Roma Regina Coeli sono allarmanti: si sono infatti registrati 8 tentati suicidi di detenuti, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 70 episodi di autolesionismo, 41 colluttazioni e 7 ferimenti. Il Sappe ha

anche chiesto al Vice Presidente del Senato della Repubblica la riapertura delle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro e la riorganizzazione e l’omogeneizzazione delle carriere delle Forze di Polizia. H

Roma

il Vice Presidente del Senato Gasparri visita Regina Coeli artedì 14 aprile il Vice Presidente del Senato della Repubblica, Maurizio Gasparri, ha accolto l’invito del Sappe ed ha visitato il penitenziario romano di Regina Coeli, incontrando i poliziotti penitenziari. Gasparri ha visitato il Centro clinico del penitenziario e le sezioni detentive, accompagnato dal Segretario Generale Donato Capece, dal segretario provinciale Sappe di Roma Giovanni Passaro, dal direttore del carcere e dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, incontrando e salutando i poliziotti penitenziari di servizio. Il senatore Gasparri ha poi incontrato dirigenti, iscritti Sappe e poliziotti nella Sala riunioni del carcere romano. “Un incremento di poliziotti penitenziari per sanare le carenze degli organici del Reparto di Regina Coeli, lo stanziamento di fondi per favorire la formazione e l’aggiornamento professionale dei

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dalle segreterie Trieste

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Raffaele Incarnato campione italiano di Full Contat sul podio di Montecatini Terme

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i è svolta nel palazzetto dello sport di Montecatini Terme (Pistoia),"Pala Terme" l'edizione del "Campionato Italiano

di Karate Unificato" versione Kata (forme) e Kumite (combattimento). A questa edizione hanno partecipato sette federazioni di karate nel campionato italiano organizzato dalla C.K.I (Confederazione Karate-Do Italia). L'agente scelto Raffaele Incarnato si è distinto, arrivando sul gradino più alto del podio, nella specialità Kumite +80

Trapani Il pensionamento del collega Francesco Nolfo ono sempre più rari i colleghi che vengono a lavorare fino all’ultimo giorno, prima del tanto sospirato pensionamento, e ancora più rari quelli che vengono a fare l’ultima notte prima di lasciare definitivamente il Corpo. E’ il caso del Sovrintendente Francesco Nolfo che dopo 35 anni di onorata carriera, svolta prevalentemente alla C.C. Trapani, ha voluto festeggiare con colleghi, infermieri e medici, del turno notturno del 4 aprile u.s. il suo addio al Corpo di Polizia Penitenziaria. Una torta enorme con un pensiero bellissimo per i colleghi “se ho raggiunto questo traguardo è anche merito vostro, grazie di cuore!!!!” Dopo il turno, tutte le ferie arretrate e infine il traguardo della pensione a

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domanda. Bravo Francesco, in un panorama italiano dove talvolta prevalgono i disvalori, il tuo è un esempio di attaccamento al dovere che tutti dovrebbero imitare e che il DAP dovrebbe premiare in modo particolare. Al Sovrintendente Nolfo, facciamo tanti auguri e che possa godersi il meritato riposo dopo 35 anni di servizio a turno. H Giuseppe Romano

kg, categoria dei pesi massimi, diventando così campione italiano della C.K.I., ma appartenendo e combattendo per la federazione neonata WUKA ITALIA (World Union Karate Federation). Il ragazzo fa parte della scuola "Shinryu Karate Trieste" ed è anche preparatore atletico dei karateka della stessa scuola. H


lo sport

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l miglioramento della condizione carceraria e del trattamento dei detenuti attraverso la pratica e la formazione sportiva costituisce il paradigma del progetto “Sport in carcere”, fortemente voluto dalle Fiamme Azzurre e dal Commissario Marcello Tolu con la preziosa collaborazione del Coni. Un progetto che ha rianimato, in tutta Italia, iniziative e appuntamenti che mirano a consolidare un percorso di recupero di chi è costretto dietro le sbarre. Tra questi merita di essere segnalata la recente presentazione, al Mu.Cri. (Museo Criminologico) di Roma, del libro “Per la libertà - Il Rugby oltre le sbarre” scritto da Antonio Falda. Presente, non a caso, anche il commissario Tolu che ne voluto così manifestare il pieno appoggio delle Fiamme Azzurre all’iniziativa. Il Rugby, insomma, visto come riscatto, come possibilità di vivere normalmente, anche in prigione. Per quello che possa voler dire “normalmente” in una prigione, come sanno soprattutto le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che ogni giorno garantiscono, con professionalità e sacrificio, la tranquillità e la sicurezza degli istituti carcerari. Ma costruire la “normalità” in carcere vuol dire anche dare una possibilità diversa a chi si trova ospite in queste strutture. Antonio Falda, che nella sua vita ha scritto solo di Rugby, ha raccontato in maniera mirabile nel suo ultimo libro storie ed esperienze che vanno anche al di là della palla ovale. Questo volume, infatti, non è solo il racconto delle iniziative svoltesi in carcere legate a questa disciplina sportiva, ma descrive il viaggio, fisico e non solo, fatto dall’autore attraverso l’Italia nell’arco di 210 giorni, partendo da Nisida (Napoli) e passando per Terni, Torino, Monza, Frosinone, Porto Azzurro (Livorno), Bollate (Milano), e Sollicciano (Firenze), dove ha incontrato gli operatori esterni, gli educatori/allenatori, i direttori, i detenuti coinvolti nell’iniziativa e ovviamente chi ha l’onere e l’onore di permettere tutto questo: le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Tantissimi gli illustri ospiti che hanno

Presentato al Museo Criminologico il libro “Per la libertà - il rugby oltre le sbarre” alla presenza di atleti delle Fiamme Azzurre animato il dibattito che si è svolto il 16 aprile scorso durante la presentazione del libro di Falda, ben moderato dal giornalista Rai Paolo Pacitti. Presente anche il presidente del CONI Lazio Riccardo Viola. Il Rugby come disciplina pura, prodromica rispetto ai valori veri dello sport, capace di interpretare quei principi di sano agonismo e di passione sincera che altre discipline ormai incarnano sempre meno. Tra gli esempi positivi che sono stati narrati e raccontati, c’è quello de La Drola. La prima e fino a qualche mese fa unica squadra di Rugby in Italia composta da detenuti che partecipa ad un campionato regolare della disciplina. “Drola” vuol dire palla ovale in piemontese. La squadra gioca le sue partite all’interno della casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” dove sono ristretti tutti i giocatori, raccolti insieme in una sezione speciale a loro dedicata. La Drola Rugby milita dalla scorsa stagione nel campionato regionale di serie C e ha viaggiato spesso ai vertici della classifica. L’unica differenza rispetto agli avversari e che La Drola gioca, ovviamente, sempre in casa. Alla fine della fiera, il viaggio nelle carceri attraverso la palla ovale che il libro di Falda ci offre diventa quasi una scusa per parlare d’altro, di altri, di coloro che sono prigionieri e di chi, non per una condanna ma per scelta professionale, come i baschi azzurri, si reca regolarmente all’interno di quei luoghi dove si concentrano e si respirano dolori, sofferenze, solitudini, frustrazioni, violenza e rabbia. E proprio lì, su quei campi improvvisati, tra il cemento e il metallo delle sbarre, si annida anche la speranza, la voglia di cambiare, la ricerca dell’occasione e in qualche caso dell’ossessione di riscatto.

A questo punto, è stato scritto e detto, il Rugby emerge come uno dei mezzi per poterlo fare; il modo, per chi ha sbagliato ma vuole riprendere in mano la propria vita, di averne la possibilità. Lo sport che a “un ragazzo di strada ha fatto bene”, come dice ad Antonio Falda uno dei suoi interlocutori, diventa quello che il teatro è stato per Aniello Arena, l’attore condannato all’ergastolo che - partendo da un laboratorio teatrale all’interno del carcere - è stato protagonista del film “Reality” e premiato con un Nastro d’argento nel 2013. Arriva così quello che risulta essere il messaggio finale del libro, l’insegnamento che l’autore ha tratto dalla sua esperienza e che trasmette a chi lo legge: che si tratti di sport, di arte, di teatro, l’importante è non mollare, non abbandonare chi ha sbagliato e sta pagando per i propri errori e dare a tutti coloro che lo vogliono un motivo e anche i mezzi per non cadere di nuovo. “Per la libertà - Il Rugby oltre le sbarre”, infatti, non è solo il titolo del libro: sono soprattutto le parole usate da due delle squadre di cui si racconta come motto e incitamento. Le Fiamme Azzurre, che hanno lavorato e continuano a lavorare al progetto “Sport in carcere” e che sono costantemente impegnate non solo per conseguire successi con i propri straordinari campioni, ma soprattutto per trasmettere e diffondere i valori più autentici dello sport, di tutti gli sport, non potevano non essere presenti a questa bella iniziativa. Che in qualche modo hanno ispirato sin dalla loro origine, per i valori di cui esse stesse sono portatrici, da sempre al servizio dello sport. H

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Lady Oscar rivista@sappe.it

Nella foto: la copertina del libro

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cinema dietro le sbarre

Jack Reacher La prova decisiva a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

ella pacifica e tranquilla cittadina americana di Pittsburgh, la polizia indaga sull’uccisione di cinque persone, colpite da uno sconosciuto cecchino e apparentemente scelte a caso sulle rive di un fiume mentre conducono la vita di tutti i giorni. Le indagini sembrano portare all’ ex militare James Barr, tiratore scelto, sul quale vengono raccolte prove schiaccianti. L’interrogatorio del sospettato non

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spontaneamente alle Autorità, allo scopo di scagionarsi da ogni accusa. Arrestato e condotto in carcere, Jack comincia ad analizzare in maniera scrupolosa tutti gli elementi in possesso degli investigatori e, con l’aiuto dell’avvocato che lo assiste Helen Rodin, riesce a far luce sulla vicenda. Si scopre così che dietro gli omicidi ci sarebbe una banda di delinquenti capeggiata da un certo The Zec, che

Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

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porta a nulla, perché il militare tace ostinatamente. L’unica cosa che si riesce ad ottenere è un nome scritto su un foglio: Jack Reacher, un ex poliziotto militare. Durante il trasporto verso il carcere, James viene lasciato in balìa di altri detenuti che lo pestano ferocemente, tanto da ridurlo in coma. Il coma di Barr rende il compito della polizia ancora più arduo, perché nessuno ha idea di come rintracciare l’uomo indicato dall’ex soldato, con le indagini che finiscono in un vicolo cieco. Inaspettatamente, però, è proprio lo stesso Jack Reacher a presentarsi

ha escogitato tutto il piano criminale. Paradossalmente, il personaggio di Jack Reacher impersonato da Tom Cruise, ex investigatore dell’esercito americano al di sopra della legge e mosso soltanto da imperativi morali di giustizia e verità, ha talmente tante qualità da rasentare il ridicolo. Da segnalare la presenza di Werner Herzog (Il suo Zec è il personaggio chiave del film) e di Robert Duvall. Il film è tratto da “La prova decisiva”, romanzo della serie creata da Lee Child con protagonista Jack Reacher. La regia e lo script sono di Christopher McQuarrie, sceneggiatore dei Soliti sospetti. H

la scheda del film Regia: Christopher McQuarrie Altri titoli: One Shot Tratto dal romanzo "La prova decisiva" di Lee Child Soggetto: Lee Child (romanzi) Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Josh Olson Fotografia: Caleb Deschanel Montaggio: Kevin Stitt Arredamento: Douglas A. Mowat Scenografia: James D. Bissell, Jim Bissell Musica: Joe Kraemer Costumi: Susan Matheson Produzione: Tom Cruise, Don Granger, Paula Wagner per Mutual Film Company, Paramount Pictures, Skydance Productions Distribuzione: Universal Pictures International Italy - DVD e Blu-Ray: Universal Pictures Home Entertainment Personaggi ed Interpreti: Jack Reacher: Tom Cruise Helen Rodin: Rosamund Pike Alex Rodin: Richard Jenkins Detective Emerson: David Oyelowo Zec: Werner Herzog Charlie: Jai Courtney James Barr: Joseph Sikora Linsky. Michael Raymond-James Mindy: Kristen Dalton Sandy: Alexia Fast Cash: Robert Duvall Jeb Oliver: Josh Helman Rob Farrior: James Martin Kelly Nancy Holt: Nicole Forester Anne Yanni: Tammy Felice Wesley: Scott A. Martin Chrissie Farrior: Julia Yorks Oline Archer: Susan Angelo Darren Sawyer: Joe Coyle Archer: Peter Gannon Genere: Thriller Durata: 131 minuti, USA, 2013


storia penitenziaria rieste, nel secondo dopoguerra è stata occupata da truppe alleate anglo-americane fino al 1954: alcune foto dell’epoca, che vedete, portano anche la scritta in inglese e furono ritrovate durante la pulizia degli archivi, così come quel regolamento del 1931 con il timbro “Headquarters, Venezia Giulia Police Force, Prisons Divisions”. Anche il Corpo Agenti di Custodia fu assoggettato alle leggi delle truppe alleate. Venne costituito un Governo Militare Alleato (G.M.A.) della Venezia Giulia, del quale oltre ai militari fecero parte anche molti personaggi civili con esperienze amministrative già maturate in passato durante le varie amministrazioni civili e militari succedutesi nella regione,

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Gli Agenti di Custodia di Trieste durante l’occupazione Alleata

possibilmente il meno compromessi in prima persona con l’ex–partito fascista precedentemente al potere, ed i rappresentanti di tutti i partiti democratici risorti nuovamente dopo il crollo del fascismo e la cessazione delle ostilità. Venne costituita una Polizia Civile della Venezia Giulia, a garanzia dell’ordine e della sicurezza della linea di demarcazione, delle popolazioni residenti e dell’osservanza delle leggi del G.M.A., la quale fu completamente addestrata e diretta dai britannici. La sede del G.M.A. e del Comando delle forze della Polizia Civile della Venezia Giulia (P.C.V.G.) fu sempre la città di Trieste. la "Civil Police", i famosi "Cerini" (dal liner tinto di bianco che faceva pensare allo zolfo dei fiammiferi). A questo proposito esiste un divertente aneddoto: durante un temporale le uniformi di alcuni "cerini" si bagnarono,iniziando a grondare colore ed a stingersi a chiazze. I "cerini", portavano il berretto rigido Americano (tinto di blu), il liner bianco o una bustina di foggia all'Inglese. H Filomeno Porcelluzzi

Nelle foto: basket in cortile e il reparto sartoria schemi di uniformi e insegne di qualifica della Polizia Civile la pagina del Regolamento timbrata “HQ”

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Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Nelle foto: sopra la locandina del film “Scacco mortale” a destra: una scacchiera

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crimini e criminali

Se vinco a scacchi uccido ancora! entre si svolge un incontro tra due giovani scacchisti, il perdente aggredisce, ferendo il vincitore. Il ragazzo vincitore, che è affidato assieme alla madre alcoolizzata, alle cure di uno psicoterapeuta, assiste poi impassibile al suicidio per svenamento di quest’ultima seguitando ad esercitarsi con la scacchiera.

“M

Qualche anno più tardi lo stesso ragazzo è impegnato in un torneo internazionale in un’isola dello stato di Washington dove conosce una delle hostess della manifestazione. Dopo un incontro intimo con lo scacchista, l’hostess viene trovata morta per dissanguamento e Peter (questo è il nome del ragazzo) riceve la telefonata dell’assassino che annuncia l’inizio di una partita a scacchi con lui”. Ho deciso di riportarvi la trama del film “Scacco mortale”, un thriller del 1992, del regista svizzero Carl Schenkel, perché ha delle similitudini con la storia che vi sto per raccontare; A differenza di quanto avviene nel film, però, nella realtà la partita a scacchi è giocata dall’assassino o dal mitomane alle forze dell’ordine. Al di là della “sfida”, il racconto è anche caratterizzato dalla storia di una donna con una doppia vita, in due

città diverse. Una storia che potrebbe sembrare proprio di quelle viste solo nei film ma che, in realtà, è più comune di quello che si possa immaginare. Non mi riferisco alla personalità multipla o disturbo dissociativo di identità come disturbo di natura psichiatrica, che si caratterizza per la presenza, in uno stesso individuo, di più identità o stati della personalità ben distinti aventi una propria modalità di percepire l’ambiente, di relazionarsi ed interagire con gli altri. Mi riferisco invece, ad una doppia vita parallela che molte persone vivono e che è frequente soprattutto per chi lavora in una città diversa da quella del contesto familiare. Il 10 febbraio del 1996, intorno alle 22,00, i Carabinieri trovano all’interno di un residence (ex albergo “Moderno”), nei pressi della stazione ferroviaria di Ancona, il cadavere di Anna Maria Bevacqua, massacrata con quindici coltellate alla schiena; si appurerà successivamente che, poco prima di essere stata uccisa, aveva avuto un rapporto sessuale. Dai primi sopralluoghi sulla scena del crimine, emerge che l’omicidio risalirebbe a qualche giorno prima. Il corpo è riverso a terra in un lago di sangue, nel bagno dell’appartamento. Camicia da notte e biancheria intima sono i soli indumenti indossati dalla donna. Nessun segno di effrazione sulla porta d’ ingresso, nessun indizio di colluttazione. Nelle stanze gli oggetti sono al loro posto e l’ assassino non si è nemmeno preoccupato di mettersi in tasca ventimila lire e alcuni gioielli che la donna custodiva nella borsetta. La Bevacqua ha trentatre anni ed è originaria di Sant’Arcangelo di Romagna (Rimini); Da pochi mesi aveva preso in affitto quel residence ad Ancona, nonostante abitasse stabilmente a Rimini.

La donna conviveva nella città romagnola con un uomo molto più anziano di lei, di 73 anni, e con il figlio di quest’ultimo di 50 anni. Oltre alla terribile morte della donna, i due uomini scoprono così che la stessa era una meretrice di professione e che riceveva i suoi clienti nel residence di Ancona. I clienti erano per lo più adescati nei locali notturni della riviera marchigiana, ma anche in treno durante i suoi spostamenti: in talune circostanze le prestazione erano gratuite. La personalità della donna era molto complessa, come risulta dagli interrogatori dei familiari e degli avventori occasionali o abituali che l’avevano conosciuta, e ciò contribuì a rendere le indagini molto difficili. Peraltro, la sua vita era fatta di molteplici esistenze, frammentate, a compartimenti stagni, la cui interpretazione era resa ancora più composita dai racconti – vere e proprie simulazioni – che la Bevacqua faceva a conoscenti e soprattutto a persone incontrate occasionalmente in treno. Aveva anche frequentato una scuola di canto e lavorato in diversi locali della costa romagnola. Gli inquirenti, senza escludere alcuna pista, iniziano da subito a vagliare le posizioni di quelle persone, circa una decina, che avevano avuto contatti con la donna o che avevano cercato, senza riuscirvi, di incontrarla il giorno dell’omicidio. Gli inquirenti, inoltre, vagliano l’ambiente famigliare, l’ambito dei suoi affetti e quello del suo lavoro, suddiviso fra incontri con clienti occasionali e clienti abituali. Più di ogni altra cosa, cercano di individuare una persona che, forse fuori Ancona, da un telefono pubblico, verso le 16:30 dell’8 febbraio, parlò con Anna Maria: forse l’ultima ad avere parlato con la donna prima che fosse uccisa. Gli investigatori, alcune settimane dopo il ritrovamento del corpo, giungono anche a diramare un identikit dell’assassino: uomo, 38/40 anni, alto 175 centimetri circa, di corporatura normale, volto scavato e capelli castani. Le foto segnaletiche portano ad


crimini e criminali individuare otto persone che assomigliano all’uomo dell’identikit dell’assassino. Una di queste, peraltro cliente della vittima, sottoposta ad interrogatorio, fornisce un alibi altalenante, tanto da indurre i magistrati a sottoporlo al test del DNA. Il test rileva la compatibilità del DNA del sospettato con alcuni peli rinvenuti nel residence dove fu trovata la donna morta, non risulta però compatibile con quello del liquido seminale trovato nel preservativo sul luogo del delitto. Le risultanze del test portano gli inquirenti ad abbandonare la pista e portano soprattutto le indagini ad una fase di stallo sino alla fine di febbraio quando, alla stazione dei Carabinieri di Ancona, è recapitata una lettera,

partite a scacchi una per taluna delle tre con cui divideva l’appartamento, l’ultima per te ogni sconfitta una morte, io ho i bianchi. Cominciamo B2 in B3. Contatto io. Bye, bye (omissis) lei farà da arbitro. Cerchi di contattare un quotidiano per la pubblicazione della partita ogni sabato”. La lettera, costituita da due fogli, contiene 25 righe scritte con un normografo, senza rispettare la punteggiatura e con alcuni errori di ortografia. L’anonimo, dunque, mostra di essere a conoscenza delle mosse degli inquirenti che dovrebbero rimanere segrete. Il militare al quale fa riferimento l’anonimo “scrittore” viene interrogato, in qualità’ di testimone, da

una squillo, originaria di Santo Domingo, trovata morta in un appartamento a Lido di Savio (Ravenna) con due coltelli conficcati nel petto. Chi ha ucciso la Bevacqua avrebbe agito sotto l’impulso del momento. In particolare, l’analisi psicologica evidenziava come l’omicida sia una persona con profonde turbe caratteriali di tipo sessuale. Probabilmente ha agito dopo una sua manifestazione di impotenza. L’uomo, o la donna, in precedenza, potrebbe avere già ucciso. Per questo gli investigatori analizzano i fatti di sangue in cui le vittime sono state delle prostitute per stabilire eventuali analogie. Non ottenendo alcun risultato, la

spedita qualche giorno prima da Falconara, che dista soli dieci chilometri dal capoluogo marchigiano. La missiva riporta il seguente testo: “Egregio (omissis) o altro tu sia (omissis), ti consiglio da ora in avanti, di soffrire di amnesia, se non vuoi fare la fine di Anna Maria” - il riferimento è ad un Carabiniere che conosceva la ragazza squillo per averla incontrata frequentemente in treno durante i suoi spostamenti dal capoluogo marchigiano a Sant’Arcangelo di Romagna -, ed ancora: “Trovarti e farti fuori a Sant’Arcangelo di Romagna sarà semplice, anche non conoscendoti. I colleghi del settore operativo di Rimini sono stati così gentili a dirmi del colloquio di (omissis) appena ho detto di essere il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Ancona. Anch’io devo tenermi informato, sono sicuro che sai molto di più. Facciamo quattro

un ufficiale dell’Arma stessa, ma dichiara di non sapere chi potesse essere il latore della missiva. Si tratta del killer o di un mitomane? Gli inquirenti non si sentono di escludere nessuna delle due ipotesi. La lettera scatena l’immaginario collettivo ed esperti e meno esperti iniziano ad interpretare il contenuto della missiva e addirittura a prevedere le date e i luoghi dei prossimi omicidi. Numerose sono le telefonate anonime che giungono alle forze dell’ordine di pseudo-sfidanti a partite a scacchi con la posta della vita di una donna. Dell’intrigo è investita anche l’Unità di analisi dei crimini violenti che dispone una perizia psicologica, le cui risultanze non escludono che l’assassino possa essere anche una donna. Inoltre, la perizia esclude che possa trattarsi di un serial killer: ipotesi avanzata dopo che nella riviera romagnola erano avvenuti altri episodi similari, soprattutto dopo l’omicidio di

lettera, dopo alcuni mesi, non fu interpretata dagli inquirenti come una sfida, ma come la bravata di un mitomane. Nessun elemento permetteva di identificare l’autore della missiva con l’assassino. A proposito, per completezza di informazioni, la mossa iniziale del mitomane B2 in B3 è un’apertura Larsen che comporta un fianchetto dell’alfiere di donna. Si libera l’alfiere accanto alla donna. Il nome deriva da Bengt Larsen, un gran maestro danese, che ebbe un discreto successo. La mossa, non notissima, presuppone una certa conoscenza degli scacchi. La contromossa? E7 in E5 oppure D7 in D5. Cioè il pedone nero davanti al re o alla regina, spostato di due caselle. Per la precisione, nell’ottobre del 1998, le indagine riguardanti l’omicidio di Anna Maria Bevacqua furono archiviate senza colpevoli. Alla prossima... H

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Nelle foto: sopra e a sinistra articoli pubblicati sul quotidiano l’Unità

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28 a cura di Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it

Nel box sopra: la copertina del numero di gennaio 2001

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come scrivevamo

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iù di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo - che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

Two Much! Basta anche meno... di Donato Capece

A

nno nuovo, vita nuova: l’Amministrazione penitenziaria si rinnova, continuano i cambiamenti al DAP, prosegue senza tregua il valzer delle poltrone a largo Daga, si moltiplicano gli incarichi dirigenziali. E nel frattempo, non una sola unità s’é aggiunta all’organico del Corpo. Che fine hanno fatto i famosi 2.300 nuovi agenti, 800 dei quali - a dire del ministro Fassino e di Caselli avrebbero dovuto prendere servizio fin dallo scorso mese di settembre? Vediamo quali sono stati i cambiamenti voluti da Gian Carlo Caselli. Emilio Di Somma, già capo del personale, é stato nominato vice capo del DAP, con l’assunzione di numerose deleghe (relazioni sindacali, coordinamento NTP, GOM, Banda e Gruppi sportivi del Corpo, nonché la segreteria generale), affiancandosi così a Paolo Mancuso (vicario, con affidamento ad interim della direzione dell’ufficio centrale della formazione). L’UGAP, come ufficio autonomo, non esiste più e le sue competenze sono state assorbite, armi e bagagli (strutture e personale), dall’ufficio centrale dell’ispettorato, alla cui direzione é stato nominato Giuseppe Suraci. Al suo posto di direttore dell’ufficio centrale beni e servizi arriva quindi il generale Enrico Ragosa. In pratica, un cambio di poltrone... Un po’ più in basso nella gerarchia caselliana un altro cambio di sedie: l’ex provveditore per il Lazio Gianni Veschi ha assunto l’incarico di vice direttore dell’ufficio centrale dell’ispettorato ed al suo posto é stato nominato Angelo Zaccagnino, già vice di Emilio Di Somma al personale. Entrambi i provvedimenti, però, sono provvisori, dal 4 dicembre 2000 al 30

giugno 2001: poi si vedrà. Tanti cambi, ma la sostanza é sempre la stessa, e dal DAP nessuno, di fatto, si muove. Adesso ci sono due vice capo al DAP, ma forse ne bastava uno. Gian Carlo Caselli, intanto, ha regalato all’Amministrazione una nuova rivista mensile, “Le Due Città” (vedi Il Pulpito di De Blasis, qui a fianco), un poco gradito pseudonimo per tutti, dal momento che lo pagheranno gli aderenti all’Ente di Assistenza con l’aumento da 1.000 a 3.000 lire della quota mensile. Due città, non ne bastava una, almeno nella testata! Pare che da qualche tempo tutto raddoppi al DAP, quasi si trattasse di divulgare un’offerta del tipo prendi due e paghi uno: incarichi, competenze, uffici, testate giornalistiche, appartamenti in uso, scorte, ecc.. In molti istituti manca il direttore, e chi potrebbe coprire quell’incarico fa il paio con un suo collega in qualche comodo ufficio del DAP. Un caso per tutti: Volterra é senza direzione dal 1997. Forse - se la criminalità continua ad avanzare - c’é il pericolo che raddoppino perfino i detenuti (ma non gli istituti). L’unica cosa che sicuramente non raddoppia, anzi sta diminuendo, é l’organico del Corpo di Polizia Penitenziaria e del restante personale dell’Amministrazione. Two much, viene da pensare, ma la situazione non é tanto allegra e divertente quanto quella di Antonio Banderas nel film omonimo. Meglio pochi, ma buoni. Meglio uno solo, ma che sappia quello che deve fare e lo faccia bene. E non ci stancheremo mai di ripeterlo: non é il caso di Gian Carlo Caselli, il Super Capo del DAP. H


come scrivevamo

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Gian Carlo Caselli Superstar Una città tutta per lui E’ uscito il primo numero di “Le Due Città”, rivista dell’Amministrazione Penitenziaria: Metà dello spazio è dedicato al Capo del DAP di Giovanni Battista de Blasis otto l’albero di Natale 2000 la Polizia Penitenziaria ha trovato (oltre al solito carbone) l’aumento della quota contributiva all’Ente di Assistenza, passata da 1.000 a 3.000 lire, e una bellissima rivista redatta ed edita dall’Amministrazione Penitenziaria, “Le Due Città”, pagata appunto dall’Ente di Assistenza. La rivista é stata fortemente voluta (e non poteva essere altrimenti...) dal Capo del Dipartimento Gian Carlo Caselli senza, peraltro, che venisse sentito il Comitato di Indirizzo dell’Ente, di cui fanno parte le rappresentanze del personale. I motivi, a ogni buon conto, ce li spiega lo stesso Caselli nell’editoriale del numero appena uscito e nella lettera accompagnatoria con cui ci ha gentilmente inviato copia della rivista. “L’Amministrazione Penitenziaria si propone di fornire ampia e corretta informazione sui problemi dell’esecuzione della pena”, scrive Caselli nella lettera indirizzata a noi del SAPPE. Nell’editoriale, poi, spiega meglio le sue intenzioni: “Stupisce che, nel momento in cui si avvia una trasformazione (del DAP, n.d.r.) dopo anni di attesa, si manifestino contrapposizioni talora preconcette, che poco hanno a che vedere con i reali interessi dell’Amministrazione e del personale”, come dire “Stupisce che qualcuno mi contraddica”. E quindi, ancora: “Mancava uno strumento capace di proiettare all’esterno l’immagine e i problemi dell’Amministrazione. Il DAP ha il dovere di dare di sé un’informazione non alterata dall’ostilità o dall’incomprensione”, come dire “Mancava uno strumento che possa parlare di me come voglio io”. Risultato: una rivista di 48 pagine con 8 (otto) foto di Caselli (di cui 4 con papa

S

Giovanni Paolo II); il nome di Caselli viene citato 24 (ventiquattro) volte, ovverosia una pagina si e una no, praticamente mezza rivista tutta per lui; ben 5 pagine sono dedicate a una circolare di Caselli che “segna la strategia del sistema penitenziario”. I peana si sprecano... Appare quasi forzato - ma tutto ha un limite - che in questo primo numero il Capo del Dipartimento abbia dovuto lasciare un po’ di spazio anche a personaggi quali il Papa (in visita a Regina Coeli), il Presidente della Repubblica (alla Festa Annuale del Corpo), il Ministro della Giustizia, la medaglia olimpica Giovanni Pellielo, l’on. Carlo Leoni, l’on. Alfredo Mantovano. Ci domandiamo cosa potrà succedere con il prossimo numero!

Nel box la copertina de “Le Due Città”

contributo di decine di migliaia di iscritti all’Ente di Assistenza”. Non é dato sapere, invece, quali siano stati ufficialmente i costi

Sotto: la vignetta del numero di gennaio 2001

HEI CAPUTO, CHI E’ QUEL SIGNORE VESTITO DI BIANCO CHE STRINGE LA MANO A CASELLI ?

In pratica, Gian Carlo Caselli é assente soltanto nella vignetta di ElleKappa, ma abbiamo rimediato noi, dedicandogli la vignetta di Caputo su questo numero di “Polizia Penitenziaria”. E tutto ciò, come dice lo stesso Caselli, “é reso possibile dal

complessivi dell’opera: si può presumere che sia stata sufficiente una fetta (un dodicesimo) dei 400 milioni previsti per quella spesa dal bilancio preventivo dell’Ente, ma a parere nostro quella cifra non basterà a coprire nemmeno la metà delle spese da sostenere.

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A E S P

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Accademia Europea Studi Penitenziari

Nel box sopra: il sommario del numero di gennaio 2001

sotto; una immagine di Gian Carlo Caselli

E, comunque, crediamo che ogni appartenente al Corpo vorrà sapere come vengono spesi i soldi che versa spontaneamente per la causa dell’Ente. Prendiamo atto che, almeno, il Presidente Caselli avrà uno “strumento capace di proiettare all’esterno l’immagine dell’Amministrazione”, e quindi “La Sua”.

L’Accademia Europea Studi Penitenziari, polo didattico dell’Università Telematica PEGASO, i cui titoli di studio, oltre ad accrescere la cultura personale, sono spendibili per la partecipazione a concorsi riservati a laureati (es. commissario penitenziario), propone il corso di laurea magistrale in giurisprudenza. Costi e pagamenti in convenzione: 1.700 euro Retta annuale rateizzabile in 4 rate anziché euro 3.000 info e appuntamenti: 3 38.5386271 0 6.83798043 studipenitenziari@gmail.com Via Trionfale, 140 • Roma

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Senza entrare nel merito del significato della testata (su cui ci sarebbe parecchio da dire...), prendiamo atto altresì che “Le Due Città” sono praticamente già assegnate: una per l’Amministrazione e una per il Presidente Gian Carlo Caselli. H

Istituto penitenziario rappresenta nell’immaginario collettivo sempre e comunque un luogo di sofferenza, talvolta associato ad azioni di rivolta o soprusi a vario titolo. Che sia in antiche strutture situate nei centri storici cittadini o fuori città, si riesce sempre ad individuarlo dall’esterno, ma niente lascia capire cosa succeda una volta varcato l’ingresso. Spesso infatti mi si chiede di spiegare come si svolge la vita al suo interno. Dalle domande che mi vengono rivolte è chiara una duplice curiosità: comprendere se sono rispettati i diritti delle persone ed allo stesso tempo ricevere assicurazione su una concreta espiazione della pena. Per me è un modo di dare sostanza a quell’idea nebulosa e talvolta distorta che se ne ha, sia del Corpo di Polizia Penitenziaria, che delle persone ristrette. Entrambi passiamo dal ruolo di orchi a quello di vittime, sulla base di quanto talvolta accade e dal modo con cui i media ne parlano. Cercherò quindi di descrivere cosa succede dal momento in cui una persona arrestata fa ingresso in Istituto: la sua vita personale e giuridica passa attraverso le nostre azioni, i nostri doveri e professionalità. Noi operatori siamo coloro che lo accompagneranno in questa parte del suo cammino. Un dovere ed una responsabilità che rende peculiare il nostro lavoro e ci differenzia dalle altre forze dell’ordine, perché non si tratta di una mera applicazione di un articolo di legge, ma dell’interazione con persone, dolori, difficoltà. Ed è di ciò che si deve tenere di conto in ogni azione, nell’applicazione del regolamento, nella tutela di quell’ordine e sicurezza all’interno del penitenziario, affinché non avvengano prevaricazioni o soprusi da una parte o dall’altra: rispetto dei diritti e doveri di ognuno in una comunità dove non si sceglie volontariamente di stare, dove il background di ognuno interagisce con quello di altri, in una difficoltà dovuta alla limitazione delle

L’


donne in uniforme proprie libertà. All’ingresso in Istituto quindi, la persona arrestata, verrà sottoposta a perquisizione. Un atto importante e delicatissimo che, seppur effettuato con professionalità e rispetto, non può non lasciare segno su chi la subisce, ma comunque necessario per evitare l’introduzione di sostanze o oggetti atti a offendere. E’ forse quello il momento in cui uno si rende conto di essere stato privato della libertà. Successivamente verrà immatricolato e gli verrà assegnato un fascicolo nel quale sarà racchiuso il suo percorso all’interno dell’Istituto: giuridico, disciplinare, sanitario. Terminata la registrazione, la persona, che a quel punto assume lo status di detenuto, viene sottoposta a visita medica e presa in carico dal servizio sanitario al fine di garantire e assicurare il diritto alla salute fisica e psicologica per tutto il tempo che rimarrà ristretta. Infine farà ingresso nei reparti detentivi veri e propri, entrando in contatto con una parte della popolazione detenuta. Il tipo di reato commesso, la posizione giuridica e le eventuali dichiarazioni di incompatibilità rilasciate dal detenuto o le sue condizioni di salute determineranno l’assegnazione in un reparto invece che in un altro. Quella che sembra una semplice operazione di routine, di fatto riveste notevole importanza: che si tratti o meno di una prima carcerazione, la persona che viene ristretta si trova a tu per tu con se stessa ed i problemi che hanno determinato il compimento di un reato, disorientata e sola, spesso se tossicodipendente in astinenza. Essere presenti in questa prima fase con valutazioni appropriate ed efficaci significa intervenire preventivamente contro eventuali atti autolesionisti dovuti alla disperazione. Con il passare dei giorni in generale c’è un assestamento ed un istintivo adattamento alla nuova situazione di vita. La giornata è scandita da orari per le attività e di regole che servono non solo a garantire ordine e sicurezza ma anche al rispetto dei pari diritti di ognuno. Attività e corsi di ogni genere:

Un mondo sospeso alfabetizzazione, scuola media e superiore, scrittura creativa, yoga, teatro, palestra, giardinaggio, musica, catechesi e incontri con i vari ministri di culto. Volontari, educatori, assistenti sociali, operatori dell’altro diritto per le questioni legali e comunità che effettuano incontri per verificare la possibilità di soluzioni alternative alla detenzione. Colloqui con familiari, avvocati, mediatori culturali. Psicologi e psichiatri, medici di base e specialistici quali ad esempio del Sert per i tossicodipendenti, oppure odontoiatri, ginecologi, oculisti, infettivologi, cardiologi, radiologi, che effettuano visite regolari e cadenzate. Attività lavorative remunerate: pulizie dei locali comuni, preparazione e distribuzione dei pasti, idraulici, elettricisti, muratori, giardinieri. E’ un mondo sospeso, ma in fermento, vivo. Ben lontano fortunatamente da quella concezione philadelphiana della seconda metà del XVIII secolo. Certe volte arrivano in Istituto e sono talmente provati dalla vita di strada da chiedersi se siano uomini e donne quelli che abbiamo di fronte: abbrutiti, sudici, affamati, arrabbiati, aggressivi o ammutoliti. E’ un mondo sospeso anche quello esterno per taluni. Il penitenziario diventa così una bolla protettiva dove riprendere contatto con se stessi ma temporanea, effimera, se poi una volta usciti non mutano le condizioni iniziali. Può apparire assurdo agli occhi di taluni, ma quando ad una persona, che all’esterno viveva di espedienti, dai la possibilità di avere pasti regolari, un tetto sopra la testa, un adeguato sostegno sanitario e psicologico, interessi e opportunità di

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Laura Pierini Vice Segretario Sappe Firenze capece@sappe.it

lavoro, la vedi quasi sempre rifiorire. E’ una questione di dignità recuperata. Lo so, il termine ‘rifiorire’ fa sgranare gli occhi se soprattutto teniamo presenti le sanzioni della Corte di Strasburgo per la situazione dei penitenziari italiani ma come posso definire lo stato di una persona che torna a sorridere, riacquista peso, lo sguardo acceso e curioso, con voglia di fare e di vivere?

Non vuole essere una generalizzazione dal momento che il tasso dei suicidi e degli atti autolesionisti rimangono molto alti ed il disagio e la sofferenza dovuta alla carcerazione è presente in ognuno di loro, ma suscitare spunti di riflessione e una visione quanto più completa di questa realtà. Dalla prossima volta vorrei entrare un po’ più nello specifico del nostro lavoro e di come, di fatto, non si possa continuare ad immaginarlo fatto semplicemente di chiavi che aprono e chiudono le celle. A presto. H

Nella foto: il mondo

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32 a cura di Erremme rivista@sappe.it

le recensioni Matthew Bazell

STADI O TEATRI? Il modello inglese e l’anima persa del calcio ECLETTICA Edizioni pagg. 261 - euro 16,00 inalmente arriva l’edizione italiana di un libro, “Theatre of silence”, edito in Inghilterra nel 2008, che punta il dito contro il ‘modello inglese” del tifo da stadio che molti vorrebbero introdurre anche in Italia. Evidentemente senza conoscerlo, viene da rilevare. Bazell è autore di una denuncia impietosa sulla snaturamento del calcio inglese, ostaggio di interessi economici, prezzi tutt’altro che popolari, partite ad ogni ora e ad ogni giorno ed assurde leggi repressive che hanno snaturato la natura stessa degli stadi di calcio (trasformati in silenti teatri) e la passione dei tifosi organizzati. E così il calcio moderno, stagione dopo stagione, supera ogni orwelliana immaginazione. Meno male che c’è chi non si arrende e giorno dopo giorno mette le basi per un altro calcio. Bazell ci aiuta a comprendere, in profondità, la natura stessa dei mali che caratterizzano il calcio moderno, e ci mette dunque in guardia sulla spesso invocata taumaturgica medicina inglese. Perché, per usare un concetto espresso da un altro scrittore di curva, John King, “...a nessuna industria televisiva sembra che interessi dei tifosi ma senza

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l’urlo e il movimento del pubblico il calcio sarebbe uno zero. Il calcio è una storia di passione. Sarà sempre così. Senza la passione il calcio è morto: solo 22 uomini che corrono su un prato e danno calci a una palla: proprio una gran cagata. E’ la tifoseria che fa diventare il calcio una cosa importante…”

Luciano Garibaldi

Gli anni spezzati. IL COMMISSARIO. LuigiCalabresi Medaglia d’Oro ARES Edizioni pagg. 216 - euro 14,80

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l Commissario della Polizia di Stato Luigi Calabresi, addetto alla squadra politica della Questura di Milano e spesso incaricato di controllare le manifestazioni dell’estrema sinistra, convocò nel 1969 il ferroviere Giuseppe Pinelli in quanto indagato per la strage di piazza Fontana. Il 15 dicembre Pinelli morì dopo essere precipitato dalla finestra dell’ufficio del commissario. Luigi Calabresi si dichiarò estraneo ai fatti, aggiungendo di non essere stato nemmeno presente nella stanza. Cinque poliziotti confermarono la loro presenza e l’assenza del commissario, chiamato a rapporto dal suo superiore. Nell’ottobre del 1975 la sentenza sulla morte di Pinelli, dopo l’inchiesta, escluse sia l’ipotesi del suicidio e definì la morte come accidentale, a causa di un malore. Venne anche confermata l’assenza di Calabresi al momento della morte di Pinelli. Eppure, è solo nel 2004 (il 14 maggio) – 32 anni dopo l’omicidio... – che il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria di Luigi Calabresi... In quei giorni, diversi quotidiani e periodici, in particolare “L’Espresso” e “L’Unità”, imbastirono, senza alcuna prova, una campagna diffamatoria contro Calabresi, accusandolo di omicidio e di torture. 800 intellettuali, ben prima della sentenza definitiva sull’accaduto, firmarono una lettera di accusa contro

Calabresi in cui lo identificarono come il responsabile della morte di Pinelli, definendolo «commissario torturatore». Sottoscritta e divulgata inizialmente il 10 giugno 1971 da dieci firmatari, la lettera aperta fu pubblicata sul settimanale L’Espresso il 13 giugno, a margine di un articolo di Camilla Cederna intitolato Colpi di scena e colpi di karate. Gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli. Il titolo si ispirava all’ipotesi, emersa da alcune prime indiscrezioni sulle ferite ritrovate sul corpo di Pinelli e sostenuta da Lotta Continua e da diversi ambienti extraparlamentari, che la defenestrazione di Pinelli fosse stata causata da un colpo di karate. Le settimane successive, il 20 e il 27 giugno, la lettera venne ripubblicata, con l’adesione di centinaia di personalità del mondo politico e intellettuale italiano, fino a giungere a 757 firme. In seguito a tale lettera il clima si infiammò ulteriormente, comparvero minacce sui muri e intimidazioni via lettera. Il 17 maggio 1972 fu assassinato da due sicari. Anni dopo si scoprì che i mandati furono Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. Questo bel libro di Luciano Garibaldi, dal quale è stata tratta la miniserie televisiva sul Commissario Calabresi andata in onda sulla RaiTv, ricostruisce questa drammatica storia. Ed ha il pregio di farlo con estrema chiarezza. Per non dimenticare.

Mario Sossi con Luciano Garibaldi

Gli anni spezzati. IL GIUDICE. Nella prigione delle BR ARES Edizioni pagg. 256 - euro 14,80 l magistrato Mario Sossi fu rapito dalle Brigate Rosse nell’aprile del 1974. Sostituto procuratore, titolare di diverse inchieste sui gruppi eversivi della sinistra extraparlamentare, e pubblico ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre, Sossi venne rapito da un’organizzazione terroristica, fino ad allora poco conosciuta, che si firmò

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le recensioni col nome di “Brigate Rosse”. Per le BR, attive soprattutto nell’ambiente sindacale con numerose infiltrazioni tra gli operai delle fabbriche del Nord, si trattò del primo attacco al cuore dello Stato, un colpo diretto contro i rappresentanti delle istituzioni, che inaugura una lunga serie di attentati e che può essere considerato come un’anticipazione del rapimento di Aldo Moro. La foto di Sossi nella prigione brigatista, con alle spalle la bandiera rivendicativa delle BR è, non a caso, una delle immagini più ricorrenti nei libri che si occupano di terrorismo. In questo libro, racconta all’amico giornalista Luciano Garibaldi la sua allucinante avventura per tenere fede, a dirlo è lui stesso, a un impegno preso tacitamente durante quegli interminabili giorni nel «carcere del popolo»: spiegare agli italiani, soprattutto ai giovani, quale spaventosa ideologia di morte si nascondesse dietro l’utopia rivoluzionaria. E lo fece sebbene non mancasse chi lo sconsigliava, data la sua condizione di «condannato a morte in libertà provvisoria», ribadita dai capi brigatisti il 22 maggio 1978 nell’aula di giustizia di Torino dove venivano processati. E’ un libro che si legge d’un fiato, che aiuta a comprendere in quale incredibile spirale di follia ideologico-rivoluzionaria fossero irreversibilmente pervase le menti di molti giovani (ma non solo).

Pietro Nardiello

GUIDACI ANCORA AGO ECLETTICA Edizioni pagg. 170 - euro 15,00

Liverpool. I motivi del suicidio – si parlò di alcuni investimenti andati male, nonché di un prestito che gli era stato appena rifiutato – divennero abbastanza chiari quando fu rinvenuto un biglietto in cui il calciatore spiegava il suo gesto, da ricollegarsi probabilmente alle porte chiuse che il mondo del calcio gli serrava: «mi sento chiuso in un buco». Di Bartolomei giocò nella Salernitana e proprio nella Salernitana concluse la sua carriera. Questa di Nardiello non è però una biografia, ma il racconto nel quale l’autore alterna la passione sportiva e gli eventi importanti degli anni ’90 del secolo scorso, come la caduta del muro di Berlino e lo tsunami tangentopoli. Il percorso trova naturale conclusione con i palpitanti momenti che videro i tifosi granata raggiungere lo stadio Olimpico di Roma dove la Salernitana avrebbe disputato, contro la Lodigiani, la finale di andata dei play off promozione per il raggiungimento della serie cadetta, solamente sei giorni dopo i tragici eventi del 30 maggio 1994 quando Ago si tolse la vita. Un libro che fa molto riflettere sul mal di vivere che può colpire e segnare anche la vita di persone a cui davvero sembra non mancare nulla.

Alberto Magnaghi

UN’IDEA DI LIBERTA’. San Vittore ’79 Rebibbia ’82 DERVE APPRODI Edizioni pagg. 208 - euro 15,00

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lberto Magnaghi fu tra i fondatori di Potere operaio. Dopo lo scioglimento del gruppo, nel 1973, abbandonò la toria di un calcio che non c’è più e di un protagonista di quei militanza politica attiva e si dedicò alla ricerca e all’insegnamento tempi, Agostino di Bartolomei. Dal carattere schivo e riservato, molto universitario divenendo direttore del Dipartimento di Scienze del Territorio lontano dai canoni classici del calciatore, morì suicida la mattina del della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Il 21 dicembre 30 maggio 1994 a San Marco, la 1979 si ritrovò inaspettatamente frazione di Castellabate dove viveva, arrestato nel quadro dell’inchiesta sparandosi al petto con la sua pistola giudiziaria cosiddetta «7 aprile» Smith & Wesson calibro 38. Erano trascorsi dieci anni esatti dalla finale di contro l’Autonomia operaia. Scontò così tre anni di carcerazione Coppa dei Campioni persa dalla sua preventiva. E fu durante quella Roma (di cui era capitano) contro il

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carcerazione che scrisse questo libro: Un’idea di libertà. Questo suo diario raccoglie la quotidianità vissuta in cella, in carcere, e contiene una ferma critica alla funzione sociale di rieducazione e risocializzazione dell’istituzione penitenziaria. Curiosi i racconti sull’autocostruzione di un tavolino con lattine di birra vuote, di mensole con pacchetti di cartone della pasta o di un aliante con materiali vari di riuso, attività poste in essere quali strategie di resistenza che il prigioniero mette in atto contro “l’annientamento psicofisico del biopotere carcerario” ed il “controllo scientifico sui corpi”.

Marco Ruotolo

DIGNITA’ E CARCERE SCIENTIFICA Edizioni pagg. 116 euro 12,00 econda edizione per questo interessante ed agile volumetto, che si occupa della condizione detentiva ponendo al centro il tema della dignità. E non è un caso se esso è stato, già dalla prima edizione, un valido supporto didattico per gli studenti universitari. Nel libro infatti vengono affrontati con estrema chiarezza e competenza i temi della umanizzazione della pena, del rispetto e della dignità della persona detenuta con un fondamentale denominatore comune: la Carta costituzionale. Un lavoro, questo di Ruotolo, assai utile, capace di solleticare le coscienze e sollecitare riflessioni e critiche costruttive per una nuova ragionata strutturazione della esecuzione penale nel nostro Paese. H

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l’ultima pagina a cura di Marco Ruotolo

IL SENSO DELLA PENA. Ad un anno dalla Sentenza Torreggiani della Corte EDU SCIENTIFICA Editoriale pagg. 190 - euro 15,00

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l libro raccoglie gli atti del seminario sul “Il senso della pena” che si è svolto nella sala Teatro della Casa Circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso il 28 maggio 2014. Promosso dall’Associazione italiana

inviate le vostre lettere a rivista@sappe.it

dei costituzionalisti (AIC) in collaborazione con il Master di II livello in Diritto penitenziario e Costituzione, attivato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma tre, il seminario si è avvalso dell’intervento di molti qualificato relatori, che hanno sviscerato il complesso tema anche in una dibattuta tavola rotonda e che ha messo “sul tavolo” critiche e riflessioni utili ad una nuova organizzazione penitenziaria. Spunti e proposte concrete, che pongono l’umanizzazione della pena e la Costituzione al centro di questa auspicata riforma che dovrà, necessariamente, disegnare un nuovo ruolo operativo anche per il Corpo di

Polizia Penitenziaria ed i suoi appartenenti. H

il mondo dell’appuntato Caputo Dalla Vigilanza dinamica alla Ristrutturazione dinamica di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2015

...CAPUTO, SBRIGATI A MISURARE QUEL TRAMEZZO!

Polizia Penitenziaria n.227 aprile 2015


www.mariocaputi.it

Per ora é uscito il libro! Raccolta antologica delle vignette dell’Appuntato Caputo pubblicate dal 1994 al 2014 sulla Rivista mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza Da che parte é l’uscita? si puo’ acquistare in tutte le librerie laFeltrinelli oppure sui siti www.lafeltrinelli.it e www.ilmiolibro.it

Formato 14,5x 22 cm Copertina morbida 240 pagine a colori ISBN: 9788891092052



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