Polizia Penitenziaria - Gennaio 2016 - n. 235

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PoliziaPenitenziaria Società Giustizia e Sicurezza anno XXIII • n. 235 • gennaio 2016

2421-2121

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Il sesto Congresso Nazionale del Sappe a Napoli



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28 20

26 Polizia Penitenziaria

In copertina: Il Ministro della Giustizia Orlando e il Segretario Generale Capece a Napoli

04 EDITORIALE Diecimila volte grazie a tutti gli iscritti del Sappe di Donato Capece

05 IL PULPITO Mancuso a Napoli: la sfida non va lanciata al personale ma all’Amministrazione di Giovanni Battista de Blasis

06 SAPPEINFORMA La Polizia Penitenziaria nell’esecuzione penale esterna: Convegno del Sappe a Napoli

09 DIRITTO & DIRITTI Il diritto alla libertà di coscienza del detenuto di Giovanni Passaro

10 SAPPEINFORMA Al sesto Congresso Nazionale del Sappe si festeggia il venticinquennale

Società Giustizia e Sicurezza

anno XXIII • n.235 • gennaio 2016 14 IL COMMENTO

25 LO SPORT

lI reato di oltraggio a pubblico ufficiale di Roberto Martinelli

17 MINORI Le autorità centrali per la tutela minorile di Ciro Borrelli

18 L’OSSERVATORIO Approvato il decreto per la depenalizzazione dei reati di Giovanni Battista Durante

Direttore editoriale: Giovanni Battista de Blasis deblasis@sappe.it Capo redattore: Roberto Martinelli martinelli@sappe.it Redazione cronaca: Umberto Vitale, Pasquale Salemme Redazione politica: Giovanni Battista Durante Comitato Scientifico: Prof. Vincenzo Mastronardi (Responsabile), Cons. Prof. Roberto Thomas, On. Avv. Antonio Di Pietro Donato Capece, Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Roberto Martinelli, Giovanni Passaro, Pasquale Salemme

Un cadavere nella valigia a Marechiaro di Pasquale Salemme

28 COME SCRIVEVAMO Cronaca di una figuraccia annunciata di Hari Seldon

Più tutela per la prevenzione degli infortuni di Valter Pierozzi

L’abuso sui minori di Roberto Thomas

32 LE RECENSIONI

24 CINEMA Il ponte delle spie a cura di G. B. de Blasis

Società Giustizia e Sicurezza

Direttore responsabile: Donato Capece capece@sappe.it

26 CRIMINI & CRIMINALI

30 SICUREZZA SUL LAVORO

20 CRIMINOLOGIA

PoliziaPenitenziaria Organo Ufficiale Nazionale del S.A.P.Pe. Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

Torna Carolina Kostner ed è subito argento in Giappone di Lady Oscar

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Cod. ISSN: 2421-1273 • web ISSN: 2421-2121 Stampa: Romana Editrice s.r.l. Via dell’Enopolio, 37 - 00030 S. Cesareo (Roma) Finito di stampare: gennaio 2016 Questo periodico è associato alla Unione Stampa Periodica Italiana

Edizioni SG&S

Il S.A.P.Pe. è il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria

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L’EDITORIALE

Donato Capece Direttore Responsabile Segretario Generale del Sappe capece@sappe.it

Diecimila volte grazie a tutti gli iscritti al grande Sappe

G

li oltre 100 delegati nazionali del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPe riuniti a Napoli per il sesto Congresso hanno confermato all’unanimità il mio mandato di Segretario Generale, confermando per acclamazione anche i Segretari Generali Aggiunti Giovanni Battista de Blasis, Giovanni Battista Durante, Umberto Vitale e Roberto Martinelli e il Presidente del SAPPe, Franco Marinucci.

Nella foto: la Segreteria Generale del Sappe riconfermata al VI Congresso Nazionale tenutosi a Napoli

Questa nuova conferma mi lusinga e mi stimola a potenziare, insieme con i miei più stretti collaboratori, ogni sforzo per rivendicare l’importante ruolo sociale della Polizia Penitenziaria e per pretendere che ad essa venga riconosciuta dalle Istituzioni ogni attenzione necessaria. Il nostro appello ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria e al Ministro Guardasigilli, che hanno avuto la cortesia di partecipare ed intervenire al nostro Convegno di Napoli sul ruolo del Corpo nell’ambito dell’esecuzione penale esterna, è quello di continuare a stare vicini alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria. Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per potenziare i livelli di sicurezza delle carceri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella

senza però fare alcunchè. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Da tempo noi del SAPPe, che rappresentiamo le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria impegnati 24 ore al giorno nella prima linea dei padiglioni e delle sezioni detentive delle oltre 200 carceri italiane, sollecitiamo le Autorità competenti affinchè si avvii nel nostro amato Paese una indispensabile e decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti e offrendo loro reali opportunità di recupero attraverso un potenziamento nell’area penale esterna e l’affidamento di lavori di pubblica utilità. Garantendo, nel contempo, ai poliziotti penitenziari più sicure e meno stressanti condizioni di lavoro, tenuto conto che le tensioni connesse alla detenzione determinano quotidianamente moltissimi eventi critici nelle carceri – atti di autolesionismo, tentati suicidi, risse, colluttazioni – che se non fosse per il nostro decisivo e risolutivo intervento avrebbero più gravi conseguenze. Il Parlamento è sovrano e può dunque decidere quel che ritiene più opportuno e necessario. Ma sostenere che le carceri italiane siano caratterizzate da una “cultura di violenza” è una colossale baggianata.

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Lo dice solo chi non sa nulla di quel che avviene nelle carceri italiane, dove ad esempio negli ultimi 10 anni sono stati più di 9.300 i detenuti ai quali gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria hanno salvato la vita da morte certa per tentato suicidio. Queste valutazioni grossolane fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. Questa è l’unica risposta che si può dare alla proposta di Sinistra italiana che vuole proporre l’istituzione di una Commissione d’inchiesta parlamentare sugli abusi e sui maltrattamenti nelle carceri e nei luoghi di detenzione. L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il SAPPe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una “casa di vetro”, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci “chiaro”, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale – ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente, lo ripeto, con professionalità, abnegazione e umanità dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Per altri cinque anni, grazie alla fiducia confermatami dagli oltre diecimila iscritti del SAPPe rappresentati dai cento delegati di Napoli, continuerò incessantemente a difendere l’onore e il prestigio del Corpo di Polizia Penitenziaria e il rispetto dei diritti soggettivi di tutti i suoi componenti. Diecimila volte grazie a tutti gli iscritti del SAPPe. Arrivederci al settimo Congresso. F


IL PULPITO

Mancuso a Napoli: la sfida non va lanciata al personale ma all’Amministrazione

A

nche se sono passati tanti anni (venticinque), durante i quali ho vissuto (ed organizzato) sei congressi e ventisette consigli nazionali, l’emozione di certi eventi non manca mai di salire dalla mia pancia, attraversare i miei sensi e scaldare il mio cuore. E’ un’emozione bellissima, calda ed avvolgente, che dà ulteriore carica a chi ha l’onere e l’onore di rappresentare tanti colleghi. «Chi è felice ha ragione» scriveva Lev Tolstoj, ed è per questo che dico senza ombra di dubbio che la ragione è dalla parte del SAPPe. Si, noi del SAPPe abbiamo certamente ragione, perché la felicità ci ha accompagnato in questi tre giorni trascorsi a Napoli. Felicità che ho visto disegnata sui volti di tutti i miei colleghi presenti in sala, quella sala che è rimasta sempre gremita di poliziotti penitenziari che hanno voluto godere fino in fondo dei propri giorni di gloria. E proprio felicità e gloria sono state le connotazioni della grande kermesse del SAPPe, svoltasi a Napoli il 18, 19 e 20 gennaio 2016. Una presenza così capillare e qualificata di personalità politiche ed amministrative non si era mai vista ad un appuntamento sindacale dell’amministrazione penitenziaria e, forse, anche ad un appuntamento istituzionale della giustizia più in generale. L’eccezionalità dell’evento è stata sottolineata dalle stesse autorità intervenute al convegno, che non hanno mancato di evidenziare la straordinaria partecipazione istituzionale. In buona sostanza, tutto l’establishment del Ministero della Giustizia, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità è venuto ad onorare il SAPPe. Personalmente, credo che non si ripeterà mai più in futuro una simile congiuntura apotropaica. E, altrettanto personalmente, credo che solo il SAPPe poteva realizzare una cosa simile. Il convegno si è svolto intorno al tema dell’esecuzione penale esterna e, più o meno unanimemente, è emerso un consenso generalizzato all’assunzione da parte del Corpo di Polizia Penitenziaria del compito di controllare le misure alternative alla detenzione. Significativi in tal senso alcuni passaggi dell’intervento del Procuratore Paolo Mancuso che, chiudendo il dibattito, ha detto: “ ...Il messaggio che viene fuori unitariamente da questo convegno è un messaggio di una rilevanza eccezionale: siamo di fronte a un Corpo di Polizia Penitenziaria che davanti a un momento trasformazione del Paese dice: qui ci siamo noi, ci siamo e ci siamo sempre stati, e vogliamo continuare a esserci anche in un momento in cui sappiamo le difficoltà che attraversa il Paese, le conosciamo, le abbiamo vissute e ci sono costate care.

Sappiamo che non ci verrà dato alcun riconoscimento, perché sono decenni che pochi veramente sono stati i riconoscimenti per il lavoro che è stato fatto all’interno del carcere per l’amministrazione penitenziaria. Però noi ci siamo, vogliamo esserci e vogliamo giocare un ruolo attivo.” Lo stesso Mancuso, che ha conosciuto molto bene il Dap dall’interno, ha concluso con un’affermazione paradigmatica: “E’ una sfida, dunque, del cambiamento che non va lanciata, a mio parere, al personale penitenziario, personale sempre disposto e pronto al cambiamento, credo che vada lanciata, piuttosto, alla nostra Amministrazione.” Come dire, insomma, che nessuno può dubitare delle capacità del Corpo di assumere e gestire nuovi compiti, per quanto gravosi essi siano, e che bisogna piuttosto scuotere il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e i dirigenti che lo amministrano, perché è lì che ci sono quelle sacche di resistenza al cambiamento funzionali alla conservazione dei piccoli privilegi acquisiti nel tempo sulle spalle dei poliziotti penitenziari. E’ lì, al Dap, che ci sono gli ultimi focolai di resistenza al cambiamento e, soprattutto, all’evoluzione dei compiti della Polizia Penitenziaria (basti pensare ai farneticanti comunicati contro la dirigenzializzazione dei funzionari). Karl Marx sosteneva che il capitalismo, creando i proletari, costruiva da sé le armi che ne avrebbero decretato la fine e, con altre parole, Khalil Gibran diceva la stessa cosa scrivendo che “ogni drago genera il San Giorgio che lo ucciderà.” Spesso, nel mondo del debunking e della verifica scientifica si sostiene che correlation is not causation, cioè che una correlazione non comporta necessariamente un legame tra causa ed effetto, ma a dispetto di ciò io continuo a credere che ci sia una relazione tra il fatto che chi amministra il Corpo non è interno al Corpo e tutte le difficoltà funzionali ed operative che ogni poliziotto penitenziario subisce ogni giorno. The last but not the least, non posso non evidenziare (e sottolineare) la presenza al tavolo dei relatori del Prof. Mauro Palma, neo Garante Nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà. Il solo fatto della sua presenza (peraltro prima uscita ufficiale della neonata Autorità di Garanzia) è una risposta a tutti quelli che hanno sempre accusato il SAPPe di essere un sindacato di falchi sempre chiuso in difesa corporativa dei suoi iscritti, anche quando si tratta di mele marce. A tutti coloro che ci hanno sempre attaccato in questo modo (inclusa la signora Ilaria Cucchi che ha affermato di non dover chiedere scusa a nessuno) rispondo con il motto del SAPPe: Res non verba! F Polizia Penitenziaria n.235 • gennaio 2016 • 5

Giovanni Battista de Blasis Direttore Editoriale Segretario Generale Aggiunto del Sappe deblasis@sappe.it


SAPPEINFORMA rivista@sappe.it

La Polizia Penitenziaria nell’esecuzione penale esterna: Convegno del Sappe a Napoli

I Nelle foto: alcune fasi del Convegno (foto di Maurizio De Nisi, Michele Lorenzo, Andrea Arzilli e Mario Caputi)

l Convegno del 18 gennaio a Napoli ha affrontato una tematica estremamente significativa per il particolare momento storico che sta attraversando il sistema penitenziario, oggetto di incessanti e, per certi versi, complicati processi riformistici. In questa ottica, è inevitabile il riferimento ai lavori della Commissione, presieduta dal Dott. Nicola Gratteri, tesa a riformare alcuni aspetti chiave della macchina giudiziaria, voluta dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

potrebbero transitare sotto un’unica polizia, quella della Giustizia. In questa prospettiva, il carcere dovrebbe essere riservato solo a quei detenuti che hanno commesso reati di particolare allarme sociale trasformandolo da contenitore sociale indifferenziato ad ipotesi residuale mediante l’ampliamento della platea delle misure alternative ad effetto deflattivo la cui esecuzione, vigilanza e controllo sarebbe affidata ad un apposito contingente della Polizia Penitenziaria.

specializzazioni dell’Amministrazione penitenziaria e finalizzando le attività alla funzione costituzionale della pena, alla ricerca del bilanciamento tra sicurezza e trattamento. Il modello proposto consentirebbe la confluenza nel nuovo Corpo unitario di tutte le professionalità operanti nell’Amministrazione penitenziaria e produrrebbe il superamento della dicotomia Polizia Penitenziaria/Amministrazione penitenziaria, poiché tutti i dipendenti dell’Amministrazione dovrebbero

Per quanto riguarda la Polizia Penitenziaria si propone di trasformarla in un modello di “Polizia della Giustizia” attribuendo agli agenti nuovi compiti a differenza della situazione attuale che li vede confinati nella sola funzione di custodia dei detenuti. L’obiettivo sarebbe quello di creare una forza di polizia presente anche sul territorio, arricchendola di nuove competenze come eseguire gli ordini di arresto per gli imputati con condanne definitive, ricercare latitanti, controllare gli arrestati domiciliari e i soggetti sottoposti alle misure alternative, proteggere i collaboratori di giustizia, i tribunali e i magistrati e, più in generale, gli obiettivi ritenuti sensibili. In tal modo, i nuclei operativi del servizio di protezione dei “pentiti”

In senso analogo, si sono mossi anche i lavori del Tavolo 15 degli Stati Generali, coordinati dal Dott. Sebastiano Ardita, avente ad oggetto gli operatori penitenziari e la formazione. Il Tavolo 15 propone e fa menzione del “Corpo di Giustizia” in cui far confluire una polizia ad alta specializzazione, fondendo in un’unica ed armonica realtà organizzativa le attuali e diverse carriere e

essere inquadrati, con una riforma organica che esalti le diverse professionalità, in un contesto unitario, nel Corpo di Giustizia dello Stato. Per quest’ultima proposta, però, il SAPPe, unitamente all’ANFU, ha espresso netta contrarietà sulla scelta terminologica adottata di “Corpo di Giustizia”, dal momento che ritiene imprescindibile che la nuova realtà organizzativa conservi il sostantivo

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IL CONVEGNO DI NAPOLI

Polizia, atteso che non vorremmo che nella dicitura indicata fosse sottesa la tentazione di un ridimensionamento delle funzioni di polizia, anziché di un loro accrescimento, o di un loro detrimento a causa della prossimità della nuova realtà organizzativa al Comparto Ministeri. Per tale ragione, il SAPPe ha proposto di modificarne il nome, con la più consona ed inequivocabile formula di Polizia Penitenziaria n.235 • gennaio 2016 • 7

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SAPPEINFORMA “Polizia dell’Esecuzione Penale”. Quindi ben venga un’azione riformatrice, purché non si ceda a tentazioni regressive: il mantenimento del Corpo di Polizia Penitenziaria nel Comparto Sicurezza è condicio sine qua non di ogni processo riformistico, tanto che il termine POLIZIA non può essere posto minimamente in discussione, in quanto in esso si condensano tutte le faticose e numerose battaglie fatte negli anni che ci hanno portato oggi ad essere una Forza di Polizia con la “P” maiuscola. F

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DIRITTO E DIRITTI

Il diritto alla libertà di coscienza del detenuto

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anca nella nostra Carta costituzionale un’espressa tutela alla libertà di coscienza, eppure oggi, nessuno ne dubita la sua rilevanza costituzionale. Un primo richiamo di quanto detto si ricava da una sentenza della Corte Costituzionale, con la quale fa discendere il diritto in esame dalla “connotazione unitaria” degli articoli 2, 19 e 21 della stessa Costituzione. (1) Altra derivazione è costituita dalla stretta connessione con il principio di laicità dello Stato che, a detta della Corte Costituzionale, “caratterizza il senso pluralista del nostro Stato entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse” (Sentenza n. 440 del 1995). Da tutto ciò deriva che la libertà di coscienza deve essere protetta in misura proporzionale alla scala di valori che la Costituzione italiana riconosce. Da questo riconoscimento si può giungere a definire la libertà di coscienza come una posizione soggettiva caratterizzata da un proprio contenuto (e non soltanto quindi, come libertà di manifestare liberamente la propria fede), caratterizzato dalla facoltà di pensare liberamente e di poter formare la propria concezione generale della vita, e che trova attuazione nella libertà religiosa, nella libertà di manifestare il proprio pensiero e nel diritto all’istruzione e a essere informati. Inoltre, va attribuito un valore giuridico autonomo nell’ambito della

comunità internazionale, al diritto alla libertà di coscienza riconosciuto dall’art. 18 della Dichiarazione dei Diritti Umani (2) “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza…” dal momento che tale diritto è ormai considerato dalla gran parte delle nazioni civili. In ambito europeo non può sfuggire la “Convenzione Europea dei diritti dell’uomo” che all’art. 9 suggella la libertà di coscienza “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione…” Dunque a livello nazionale il sistema delle fonti del diritto è attualmente caratterizzato dalla compresenza di tre sistemi di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo (il sistema costituzionale nazionale, il sistema CEDU, il sistema UE), ciascuno con un proprio organo giurisdizionale di vertice (Corte Costituzionale, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Corte di Giustizia dell’Unione Europea) che garantisce un accesso effettivo alla tutela. (3) Tutto ciò trova anche una sua consacrazione nell’art. 1 Ord. Pen. nella parte in cui afferma che il trattamento penitenziario deve “assicurare il rispetto della dignità della persona” ed essere “improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine […] a opinioni politiche e a credenze religiose”, e trova una apposita disciplina negli artt. 18 (diritto di comunicare ed essere informati), 19 (diritto all’istruzione) e 26 (diritto alla libertà religiosa). L’importanza di tali previsioni è data dal profondo distacco che caratterizza la L. n. 354/1975 dai contenuti del Regolamento del 1931, il quale nell’ambito di un’ideologia totalizzante e curativa, imponeva ai detenuti di partecipare alle funzioni del culto

cattolico e di frequentare le scuole istituite negli stabilimenti. (4) E’ opportuno vagliare, però, se, nonostante il richiamo dell’art.1 sopracitato, la disciplina relativa alle manifestazioni esteriori della libertà in esame, non contenga ancora eventuali resti di una certa impostazione autoritaria. F Note (1) Corte costituzionale, sentenze nn.117 del 1979 e 196 del 1987. (2) La Dichiarazione dei Diritti Umani è un codice etico di importanza storica fondamentale: è stato infatti il primo documento a sancire universalmente (cioè in ogni epoca storica e in ogni parte del mondo) i diritti che spettano all’essere umano. (3) Nel Report on the Application of the EU Charter of Fundamental Rights 2013 del 14 aprile 2014 la Commissione europea ha ribadito che in forza dell’art. 51 della Carta dell’UE, le norme di tale Carta impegnano le istituzioni e gli organi dell’UE al loro rispetto nel quadro della propria azione nonché gli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione [in giurisprudenza v., fra le altre, Corte giust., 26.2.2013, causa C-617/10 (caso Åklagaren); Corte giust., 15.11.2011, C-256/11 (caso Dereci e a.)]. I diritti fondamentali della Carta producono effetti, quindi, solo nell’ambito di tali competenze, ma questo non significa che sussiste un gap nella tutela dei diritti fondamentali, perché i singoli individui possono fare ricorso ai rimedi nazionali e, una volta esauriti, possono rivolgersi alla Corte di Strasburgo per l’applicazione delle norme della CEDU, della quale tutti gli Stati membri dell’UE sono parti. (4) A. PENNISI, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, cit. pag.114.

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Giovanni Passaro Segretario Provinciale Sappe passaro@sappe.it


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Al sesto Congresso Nazionale del Sappe si festeggia il venticinquennale

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l sesto Congresso Nazionale si è aperto in un momento politicosindacale caratterizzato da interessanti elementi di riflessione, di discussione, di valutazione e di decisione collegiali. Innanzitutto va detto che con il Congresso si sono anche celebrati i venticinque anni dall’istituzione del SAPPe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria); un periodo storico contrassegnato da lotte ma anche da

Nelle foto: alcune immagini dei lavori del VI Congresso Nazionale del SAPPe (foto di Michele Lorenzo, Andrea Arzilli e Mario Caputi)

assunta quale condizione essenziale per l’attività sindacale, tanto che veniva adottato il motto “nella nostra autonomia la nostra libertà”, poi modificato nell’attuale, più espressivo e più incisivo “RES NON VERBA”. Alla luce di ciò, l’11 gennaio 1991 (primo giorno utile per legge), irrompe sul proscenio sindacale il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, da cui l’acronimo SAPPe, che diventa ben presto la cassa

tanti successi che hanno trasformato il Corpo, mantenendolo sempre consapevole delle proprie funzioni istituzionali e in grado di rispondere alle esigenze della collettività. Il ricorrere del venticinquennale è stato un’occasione quanto mai gradita e propizia per tratteggiare i punti più salienti dell’ascesa di questo grande sindacato. Dall’11 gennaio 1991, per effetto della smilitarizzazione, anche al personale di Polizia Penitenziaria viene consentito di essere rappresentato da organizzazioni sindacali, anche se prima della predetta smilitarizzazione, in realtà, esisteva una forma di rappresentanza del personale, al pari della altre Forze Armate, costituita dal Co.Ge.R., Comitato Generale di Rappresentanza. A ridosso della Legge di riforma, il 10 gennaio 1991 si costituisce il SAPPe, in cui l’autonomia viene fin da subito 10 • Polizia Penitenziaria n.235 • gennaio 2016

di risonanza delle esigenze e delle problematiche del personale del Corpo che da tempo agognava una sua autonoma rappresentanza sindacale. Nel mese di aprile del 1991, si teneva una assemblea dei quadri sindacali presso l’Hotel Kolbe in Roma, che formalizzava la nascita e l’organizzazione statutaria della neofita sigla sindacale. Da tale atto ufficiale, che consacrava la incondizionata scelta sindacale, il


IL VI CONGRESSO NAZIONALE

SAPPe raggiunge presto le 1.500 iscrizioni: ciò consente alla nuova organizzazione, nel dicembre 1991, di diventare sigla sindacale maggiormente rappresentativa della categoria e di partecipare al tavolo della contrattazione, non senza ostacoli, superati dall’intervento della magistratura amministrativa. Da allora, e fino ad oggi, la crescita del SAPPe é stata continua, salvo fisiologiche flessioni, fino a

raggiungere e superare anche le 12.000 deleghe. In occasione del raggiungimento delle 5.700 adesioni, il SAPPe ha sentito la necessità di dotarsi di un proprio Statuto e del relativo Regolamento di esecuzione, oltre che di una organizzazione interna a vocazione democratica: dal 3 al 5 dicembre 1992 si é quindi tenuto a Roma il 1° Congresso Nazionale, con la partecipazione di tutte le delegazioni regionali e provinciali dell’organizzazione, nel corso del quale sono stati eletti i componenti della Segreteria Generale (vale a dire Giovanni Battista de Blasis, Umberto Vitale, Luca Di Resta, Giovanni Battista Durante e Nicola Caserta) ed è stata definita la linea politicoprogrammatica che porterà il

sindacato a numerosissimi successi, sia in campo contrattuale, sia in campo economico-finanziario, sia nel campo organizzativo del Corpo, sia nei servizi istituzionali. Nella circostanza, é stata decisa, inoltre, l’organizzazione del SAPPe, a livello centrale e periferico, con l’istituzione di Segreterie Regionali,

Provinciali e Locali su tutto il territorio. Nello Statuto, infine, é stato ribadito che ogni 4 anni si sarebbe tenuto il Congresso Nazionale per il rinnovo della Segreteria Generale, norma modificata in occasione del quinto Congresso nazionale di Milano del 2011, con l’elevazione del predetto termine a cinque anni, in analogia a quanto previsto per gli altri organi Polizia Penitenziaria n.235 • gennaio 2016 • 11

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SAPPEINFORMA collegiali istituzionali e sindacali. La continuità dei vertici alla guida dell’Organizzazione ha consentito il consolidarsi dei precedenti rapporti con le altre Forze di Polizia, con il Governo e con l’Amministrazione, tanto è vero che l’8 settembre del 1998 viene costituita la “Consulta dei

sindacati autonomi di polizia”, composta inizialmente dal Sindacato Autonomo di Polizia, dal Sindacato Autonomo di Polizia penitenziaria e dal Sindacato Autonomo Polizia Ambientale e Forestale, nell’intento di rappresentare congiuntamente ed in modo più efficace gli interessi degli iscritti circa il rinnovo del Contratto Collettivo di Lavoro, lo stato giuridico, la progressione di carriera e il trattamento pensionistico del personale delle Forze di Polizia. L’Associazione successivamente assumerà il più noto nome di “Consulta Sicurezza” e alle aderenti Sigle iniziali del SAP per la Polizia di Stato e dell’ANSEGUFOR (poi divenuto SAPAF) per la Polizia Ambientale e Forestale, nel 2012 si unirà il CONAPO per i Vigili del Fuoco, divenendo ben presto un organismo unitario di rappresentanza sindacale di assoluta preminenza nel Comparto Sicurezza. Appare anche importante rammentare la vocazione sovranazionale assunta dal SAPPe ormai da alcuni anni a questa parte in ambito europeo mediante interventi e scambi socio-

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IL VI CONGRESSO NAZIONALE culturali con il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria tedesca (BSDB), con quello dello Stato brasiliano di San Paolo (SINDASP) e con quello ellenico, nonché la presenza del SAPPe nel Consiglio di Giustizia, dove sono presenti tutti i sindacati autonomi della Unione Europea, di cui Donato Capece è il Vice Presidente, e in tale veste e a volte anche nel ruolo di Presidente, ha partecipato periodicamente a specifici convegni, tenutesi a Bruxelles, Barcellona, Varsavia, Tallin e Lisbona. Scopo prioritario di questi scambi ed incontri è quello di raggiungere una piattaforma uniforme nel trattamento dei poliziotti penitenziari. Il SAPPe, fin dal 1993 è sempre il primo Sindacato di categoria e questo risultato è conseguenza anche e soprattutto delle battaglie e delle manifestazioni di piazza che abbiamo promosso e a cui abbiamo partecipato. Il SAPPe ha svolto e continuerà a svolgere una forte azione propositiva, collaborando con quelle realtà politiche e istituzionali capaci di comprendere le nostre rivendicazioni, dando risposte concrete alle esigenze primarie del personale, in virtù della propria autonomia. Gli obiettivi che il SAPPe intende raggiungere, tutti prioritari, nel prossimo futuro sono così riassumibili: • Riordino delle carriere relativamente a tutti i ruoli del Corpo secondo il principio di equiordinazione, previo il ripiano totale delle carenze di organico, mediante un concorso straordinario e lo scorrimento delle graduatorie ancora vigenti; • Abbattimento della pressione fiscale,

mediante detassazione della 13° mensilità e rideterminazione delle aliquote irpef; • Stabilizzazione delle 80 euro a tutti i poliziotti previsti nella Legge di stabilità; • Istituzione di un Ufficio di Staff, alle dipendenze del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a cui affidare la completa gestione, sotto ogni aspetto, della Polizia Penitenziaria; • La sostituzione del Corpo di Polizia penitenziaria con la nuova figura istituzionale della Polizia dell’esecuzione penale, in cui il nostro patrimonio professionale possa essere esaltato e valorizzato, soprattutto in sede di controllo e gestione delle misure alternative; • L’istituzione di una dirigenza unica, in grado di superare ed abrogare ogni tipo di vincolo gerarchico verso gli attuali dirigenti penitenziari; • La definizione delle procedure relative al turnover al 100% per il 2016: indispensabili a fronte del numero annuale di unità riformate e/o poste in quiescenza; • Il rinnovo del contratto, con incrementi stipendiali dignitosi ed adeguati alla specificità che ci contraddistingue, peraltro oggetto di espresso riconoscimento normativo nell’articolo 19 del c.d. collegato lavoro; • Stanziamenti sufficienti per il pagamento, in tempo utile, di straordinario e missioni e, più in generale di indennità accessorie; • Il rinnovo del parco autoveicoli, la maggior parte dei quali sono non funzionanti o mal funzionanti; • Il potenziamento dei sistemi di

controllo in remoto e di quelli di automazione. In conclusione è importante sottolineare quello che è stato il leivmotiv di questo Sesto Congresso Nazionale, una citazione del Mahatma Ghandi: “Il futuro dipende da ciò che facciamo nel presente”. F

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Nelle foto: ancora immagini del Congresso Nazionale


IL COMMENTO

Roberto Martinelli Capo Redattore Segretario Generale Aggiunto del Sappe martinelli@sappe.it

Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale

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l portale di informazione giuridica laleggepertutti.it ha pubblicato nei giorni scorsi un interessante approfondimento sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Mi sembra utile sottoporlo all’attenzione ai lettori di “Polizia Penitenziaria – S.G. & S.”, ringraziando la redazione di laleggepertutti.it per averci autorizzato alla pubblicazione (r.m.)

Nelle foto: pubblici ufficiali nell’esercizio delle funzioni

Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, inizialmente previsto dal codice penale [1], e poi abrogato [2], è stato reintrodotto nel 2009 [3]: esso consiste nella condotta di chi, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni. La sanzione è la reclusione fino a tre anni. I presupposti La norma è rivolta a tutelare l’onore e il prestigio del pubblico ufficiale. Proprio per questo il reato, nella nuova configurazione, si configura solo se: • la condotta viene posta in luogo

pubblico o aperto al pubblico. Per “luogo pubblico” si intende quel luogo continuativamente libero, di diritto e di fatto, a tutti o a un numero indeterminato di persone senza alcuna limitazione di accesso o di orario (vedi una piazza), mentre il luogo aperto al pubblico si caratterizza per un accesso limitato a determinati momenti, o a specifiche categorie di soggetti aventi determinati requisiti, oppure è sottoposto all’osservanza di definite condizioni, poste da chi esercita un diritto sul luogo in questione (il parcheggio di un supermercato, un cinema, ecc.); • la condotta viene posta alla presenza di più persone (tale circostanza, in precedenza, costituiva solo una aggravante). Non è necessario che il reato venga commesso in presenza del pubblico ufficiale offeso (requisito che in passato ulteriormente evidenziava l’affinità dell’oltraggio con l’ingiuria) [4]; • il pubblico ufficiale viene offeso “mentre compie un atto d’ufficio” e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni. Non è sufficiente, dunque, che il pubblico ufficiale si trovi “nell’esercizio delle sue funzioni” ma è richiesto, in più, che l’oltraggio venga commesso mentre egli sta effettivamente compiendo un atto d’ufficio, il che ulteriormente sembra restringere l’ambito di applicazione della norma incriminatrice. Per esempio, se Tizio offende un vigile mentre fa le multe, dicendogli che la sua faccia sembra quella di uno spaventapasseri, non commette oltraggio a pubblico ufficiale. Al contrario, se Tizio offende il vigile proprio a causa delle multe che sta facendo alle auto, e gli grida “sei un infame” allora il reato è certamente sussistente.

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I presupposti, l’aggravante, la non punibilità della reazione agli atti arbitrari, il risarcimento

In tal modo non rilevano le offese relative a comportamenti privati del soggetto, che altrimenti, laddove venissero valutate come rilevanti, determinerebbero un inammissibile privilegio del soggetto (tali offese potranno quindi essere perseguite per il tramite della disciplina dell’ingiuria aggravata). Al contrario del passato, non scatta il reato di oltraggio a pubblico ufficiale in caso di comunicazione telegrafica o

telefonica o con scritti o disegni diretti al pubblico ufficiale. Quindi, se Tizio risponde male al poliziotto al telefono o gli chiude il telefono in faccia non può essere incriminato per tale reato. Questo perché è necessario che l’offesa sia rivolta alla presenza di più persone (requisito ovviamente incompatibile con le comunicazioni offensive a distanza). La necessaria presenza di più persone alla consumazione del reato elimina, sul piano processuale, il problema della prova ossia il rischio che lo stesso pubblico ufficiale venga a costituire l’unica fonte della prova del fatto. Infatti, il requisito della presenza di più persone si traduce nella richiesta che l’offesa venga percepita anche da altri oltre che dal pubblico ufficiale.


IL COMMENTO La frase Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale può ritenersi integrato quando siano rivolte al destinatario delle parole o frasi volgari e offensive, sebbene di uso corrente nel linguaggio usato nella società moderna. Tali parole devono assumere una valenza obiettivamente denigratoria di colui il quale esercita la pubblica funzione. Per cui non scatta il reato se la frase costituisce espressione di semplice critica, anche accesa, o di villania. In un precedente giurisprudenziale, il tribunale di Napoli ha condannato una donna, fermata per guida del motociclo senza casco; nel mentre i vigili redigevano il verbale e procedevano al fermo amministrativo del motociclo, la conducente rivolgeva ripetutamente ai verbalizzanti parole del seguente tenore: “Ste guardie di merda che non fanno un cazzo quanto le schifo!” [5]. Perché vi possa essere oltraggio non basta una qualsivoglia offesa pronunciata nei confronti del pubblico ufficiale “nell’esercizio delle funzioni” se tale offesa non sia idonea ad incidere sul prestigio della pubblica funzione. In altri termini, non basterebbe per ravvisare il reato la commissione del fatto nell’atto in cui il pubblico ufficiale esercita la funzione ove l’offesa attinga solo la personalità individuale dell’operante: non basterebbe, cioè, un semplice rapporto di contestualità o di contemporaneità tra l’atto e l’esercizio della funzione, perché sarebbe insussistente l’oltraggio quando il fatto fosse determinato da motivi estranei alle mansioni del soggetto passivo. L’aggravante Il codice penale stabilisce poi che la pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Nello specifico deve trattarsi di una condotta sufficientemente specificata, tale da configurare l’evento riportato come compiutamente identificato, anche per il tramite di elementi spaziali e temporali. La legge prevede espressamente che

l’autore dell’oltraggio non è punibile qualora, a fronte della contestazione dell’aggravante, la verità del fatto attribuito venga provata oppure per esso il pubblico ufficiale venga condannato dopo la consumazione dell’oltraggio.

prevaricazione, sia in quegli atti che, seppur formalmente legittimi, si esprimono per il tramite di modalità aggressive, offensive e sconvenienti, divenendo in tal modo idonei a legittimare la reazione del privato di fronte all’agire del pubblico ufficiale.

La causa di estinzione del reato La legge prevede poi speciale causa di estinzione del reato per l’ipotesi in cui l’imputato provveda, prima del giudizio, al risarcimento del danno arrecato al pubblico ufficiale offeso e all’ente di appartenenza del medesimo. Come noto il risarcimento del danno è tradizionalmente oggetto dell’attenuante comune [6]. Quanto al momento in cui deve intervenire il risarcimento perché l’imputato possa avvalersi della causa di estinzione del reato, il limite fissato dal legislatore è, come accennato, quello del giudizio, che la giurisprudenza ha ritenuto identificarsi con il compimento delle formalità di apertura del dibattimento [7]. Si richiede che l’imputato abbia risarcito interamente il danno provocato dall’oltraggio, tanto nei suoi risvolti patrimoniali, che in quelli non patrimoniali, ma comunque suscettibili di valutazione economica.

La sentenza In tema di oltraggio, la circostanza che all’abrogazione del delitto non abbia fatto seguito l’introduzione di nuove o diverse figure di reato, non esclude la possibilità che la condotta già tipica del delitto abrogato possa integrare altra fattispecie criminosa tuttora prevista e punita dalla legge penale. Ne consegue che deve ritenersi sussistente il reato di ingiuria aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale (o di incaricato di pubblico

La legittima reazione ad atti arbitrari Il codice penale prevede poi una causa di non punibilità [8]: non si viene puniti per oltraggio a pubblico ufficiale quando quest’ultimo abbia dato causa al fatto eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni. È oramai consolidata in giurisprudenza l’opinione secondo l’esimente in questione sia una vera e propria causa di giustificazione, con la conseguenza che, per la sua configurabilità, è necessario il consapevole travalicamento da parte del pubblico ufficiale delle proprie attribuzioni. Gli atti arbitrari del pubblico ufficiale vengono identificati dalla Corte Costituzionale [9] sia negli atti oggettivamente illegittimi, manifestazione di abuso e

servizio) ogniqualvolta il giudice di merito abbia verificato la coincidenza delle condotte previste dai due reati, ritenendo che l’offesa al prestigio del pubblico ufficiale sia esattamente corrispondente – in fatto – all’offesa al decoro, prevista per il vigente reato di ingiuria. Cassazione pen., Sez. V, 3 dicembre 2001, n. 43466 In tema di oltraggio, l’abrogazione degli articoli 341 e 344 c.p., disposta dall’articolo 18, legge 25 giugno 1999, n. 205, integra un’ipotesi di abolitio criminis disciplinata dall’articolo 2, comma 2, c.p., con la conseguenza che, se vi é stata condanna, ne cessano esecuzione ed effetti penali e la relativa sentenza deve essere revocata, ai sensi dell’articolo 673 c.p.p., dal

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IL COMMENTO giudice dell’esecuzione, al quale non é consentito modificare l’originaria qualificazione o accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto in sentenza, riqualificando come ingiuria aggravata dalla qualità del soggetto passivo (articoli 594 e 61 n. 10 c.p.) la condotta contestata come oltraggio e rideterminando, in relazione alla nuova fattispecie penale, la pena già irrogata.

Nelle foto: pubblici ufficiali nell’esercizio delle funzioni

Cassazione pen., Sez. Unite, 17 luglio 2001, n. 29023 Costituisce oltraggio a pubblico ufficiale esprimere una frase a carattere ingiurioso nel momento in cui lo stesso compie un atto dell’ufficio. Tribunale di Napoli, Sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 1155 E' luogo pubblico quello continuativamente libero, di diritto o di fatto, a tutti o a un numero indeterminato di persone, ed é certamente tale il cunicolo di collegamento di due gallerie di autostrada cui possono accedere sia il personale delle autostrade sia i viaggiatori che per ventura debbano sostare. (Fattispecie relativa a violenza carnale e connesso delitto di atti osceni). Cassazione pen., Sez. III, 20 febbraio 1986, n. 1567 Tra il delitto di atti osceni in luogo aperto al pubblico e quello di violazione di domicilio, e cioé di luogo privato, non sussiste incompatibilità logica, dato che i luoghi aperti o

esposti al pubblico sono di norma luoghi privati, tra i quali possono essere annoverati quelli di domicilio; invero, deve considerarsi luogo aperto al pubblico anche un ambiente privato, l’accesso al quale sia escluso alla generalità delle persone, ma consentita a una determinata categoria di aventi diritto. (Fattispecie di atti osceni commessi in una autorimessa condominiale

annessa e sottostante ad abitazioni private, di libero accesso solo agli occupanti gli appartamenti). (Conformi: Cass. n. 7227/1984; Cass., n. 769/1972) Cassazione pen., Sez. IV, 10 ottobre 1989, n. 13316 Ai fini del delitto di atti osceni la cella carceraria é luogo aperto al pubblico. Infatti, per luogo aperto al pubblico deve intendersi quell’ambiente anche ad accessibilità non generalizzata e libera per tutte le persone che vogliano introdurvisi, ma limitata, controllata e funzionalizzata a esigenze non private, sempre che sussista la possibilità giuridica e pratica per un numero indeterminato di soggetti, ancorché qualificati da un titolo, di accedere senza legittima opposizione di chi sull’ambiente stesso eserciti un potere di fatto o di diritto. Pertanto, la cella carceraria non può distinguersi, come luogo di privata dimora del detenuto, da altre parti dello stabilimento carcerario destinate allo svolgimento della vita di relazione della popolazione carceraria e del personale di custodia.

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Cassazione pen., Sez. III, 29 settembre 1977, Invidia La prova della verità del fatto diffamatorio, essendo una causa di esclusione della punibilità per reato concretamente accertato nella materialità del fatto, é operante ove sia piena e completa, occorre cioé la certezza che il fatto attribuito all’offeso sia vero in tutti gli elementi che hanno idoneità offensiva. Nell’ipotesi di cui all’art. 596, comma 3, n. 3, c.p., il giudizio di non punibilità dell’imputato é subordinato alla prova che tutto il fatto nel suo complesso e nelle sue modalità sia vero, perché la prova mancata, parziale o insufficiente circa la verità del fatto non esime da pena, così come non esime da pena l’addebito diffamatorio di fatto vero formato o travisato in modo da farlo ritenere più disonorevole. Cassazione pen., Sez. V, 2 maggio 1985, n. 4135 L’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, di cui all’articolo 4 del D.Lgs. Lgt. 14 settembre 1944 n. 288, é integrata ogni qual volta la condotta dello stesso pubblico ufficiale, per lo sviamento dell’esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa é conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che l’agente si rappresenti l’illiceità del proprio fare e agisca con la volontà di commettere un arbitrio in danno del privato. (Fattispecie nella quale ufficiali e agenti di polizia giudiziaria avevano proceduto, incontrando l’attiva resistenza di più persone, al fine di perquisire un locale attribuito alla disponibilità di un parlamentare, senza l’autorizzazione prescritta dall’articolo 68 della Costituzione ma su specifica disposizione dell’autorità giudiziaria, dalla quale funzionalmente dipendevano). Cassazione pen., Sez. VI, 9 marzo 2004, n. 10773 Non é fondata, nei sensi di cui in motivazione, la q.l.c. dell’art. 599,


GIUSTIZIA MINORILE comma 2 c.p., sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non é prevista l’applicabilità della relativa causa di giustificazione al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale (la Corte, dopo aver posto a raffronto la scriminante della reazione degli atti arbitrari del pubblico ufficiale e quella della provocazione, alla luce, anche, della relativa evoluzione giurisprudenziale, ha ritenuto che emerga una sostanziale coincidenza tra l’illegittimità-arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale che ha dato causa alla reazione oltraggiosa del privato e il fatto ingiusto altrui di cui all’art. 599, comma 2 c.p.). Corte Costituzionale 23 aprile 1998, n. 140 [1] Art. 341 cod. pen. [2] Art. 18 L. n. 205/199 [3] L. 94/009 che ha introdotto il nuovo art. 341 bis cod. pen. [4] Proprio la necessità che l’offesa avvenga in pubblico ed esclusivamente mentre il pubblico ufficiale compie l’atto del suo ufficio è indicativa della volontà della legge di sottolineare come la previsione di una autonoma e più grave incriminazione dell’ingiuria rivolta al pubblico ufficiale si giustifichi proprio in ragione della sua idoneità ad interferire con lo svolgimento della pubblica funzione. [5] Trib. Napoli, sent. n. 1155/2011. [6] Art. 62, comma 1, n. 6 cod. pen. [7] Si veda Cass. sent. del 21.03.1994. [8] Art. 393 bis cod. pen. [9] C. Cost. sent. n. 140/1998. da laleggepertutti.it F

Le autorità centrali per la tutela minorile

L’

Autorità Centrale è l’ufficio specializzato nell’attuazione pratica delle Convenzioni svolge un importante lavoro operativo e collabora con le omologhe Autorità degli altri paesi rappresentando un raccordo fra un cittadino e le Autorità Giudiziarie estere. Per l’Italia è stato individuato quale Autorità Centrale il Dipartimento per la Giustizia Minorile. Per contrastare il crescente fenomeno della sottrazione internazionale dei minori sono state stipulate apposite convenzioni internazionali, finalizzate a risolvere le controversie derivanti dagli illeciti trasferimenti. In ogni Stato aderente sono state istituite le Autorità Centrali Convenzionali con funzioni di raccordo tra il cittadino e le Autorità Giudiziarie ed Amministrative di un altro Stato aderente alla Convenzione. Le Convenzioni Internazionali per le quali il Dipartimento Giustizia Minorile è stato designato quale Autorità Centrale, sono state rese esecutive in Italia con la Legge 15 gennaio 1994, n. 64. Un’avvertenza però è necessaria. Come ogni ambito in cui vi è sofferenza anche quello delle sottrazioni viene individuato come una buona attività per giungere ad un reddito insperato. Si ha notizia di alcuni soggetti che si propongono – anche via internet – come “consulenti” ai fini dell’avvio della procedura della restituzione del minore. Se non si ha di fronte un funzionario delle Autorità Centrali o del Ministero degli Affari Esteri o di un avvocato in possesso di abilitazione di esercizio alla professione forense diffidate della sua opera soprattutto se comporta costi: si rischia di perdere tempo e risorse economiche. La procedura prevista dalla Convenzione è assolutamente gratuita in Italia e nella maggior parte degli Stati aderenti.

Ciro Borrelli Dirigente Sappe Scuole e Formazione Minori borrelli@sappe.it

Si precisa infine che per l’avvio della procedura convenzionale solo in determinati Stati aderenti è necessario premunirsi di un legale di fiducia o, comunque, chiedere l’assistenza legale gratuita qualora ne ricorrono le condizioni.

COSA FARE NEL CASO DELLA SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE DEL PROPRIO FIGLIO? Quando vi siano fondati sospetti riguardo alla possibilità che i propri figli possano essere vittime di una sottrazione internazionale illecita sarà opportuno attivarsi al fine di anticiparla quindi: non concedere l’autorizzazione alla trascrizione del nominativo del figlio sul passaporto dell’altro genitore. Se il bambino deve recarsi all’estero far sottoscrivere all’altro genitore un impegno a rientrare in Italia ad una data prefissata. Se invece vi è in corso un’azione per la separazione giudiziale e si ha motivo di ritenere che il figlio verrà affidato all’altro genitore, chiedere che venga previsto chiaramente nel provvedimento il divieto all’espatrio del minore senza un esplicito e formare consenso del genitore non affidatario. Se non vi è costanza di matrimonio e non è stato instaurato nessun procedimento per l’affidamento del minore, chiedere l’emissione di un apposito provvedimento che preveda il divieto all’espatrio del minore senza un consenso esplicito e formale dell’altro genitore. F

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Nella foto: il Dipartimento Minorile


L’OSSERVATORIO POLITICO

Giovanni Battista Durante Redazione Politica Segretario Generale Aggiunto del Sappe durante@sappe.it

Nelle foto dell’altra pagina: in alto Edmund Burke in basso il Prof. Francesco Palazzo

nel box sotto: che cosa e come cambia nei principali reati con il nuovo decreto (tratto da Il Sole 24 Ore)

Approvato il decreto per la depenalizzazione dei reati

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l Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha approvato un decreto legislativo recante disposizioni in materia di depenalizzazione a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67. La riforma si pone come obiettivo di trasformare alcuni reati in illeciti amministrativi, anche per deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale, e per rendere più effettiva la sanzione, anche se questo

aspetto della questione merita un approfondimento. Si ritiene che rispetto a tali illeciti abbia più forza di prevenzione, generale e speciale, una sanzione certa in tempi rapidi che la minaccia di un processo penale che per il particolare carattere dell’illecito e per i tempi stessi che scandiscono il procedimento penale rischia di causare la mancata sanzione. Questa affermazione, seppur largamente condivisibile, non costituisce una verità assoluta.

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E’ vero che può avere maggior forza deterrente una robusta sanzione pecuniaria – come scrive Giovanni Negri sul Sole 24 Ore – piuttosto che una blanda misura penale, di incerta applicazione e quasi sicura prescrizione. E’ però necessario che le sanzioni pecuniarie funzionino, per evitare l’equivoco depenalizzazione = impunità. Ma affinché le sanzioni pecuniarie funzionino è necessario che il condannato disponga di un patrimonio sufficiente a farlo.


SEGRETERIE

Sappiamo che, purtroppo, spesso non è così. Dipende sempre da chi commette il fatto e dalla sua condizione. Edmund Burke, noto come il Cicerone britannico, scriveva nel 1700 che la legge proibisce tanto ai ricchi, quanto ai poveri, di dormire sotto i ponti. Ma difficilmente il ricco finirà per dormire sotto i ponti. Prendiamo in esame il reato di guida senza patente, oggi punito con un’ammenda che va da un minimo di 2.257 ad un massimo di 9.032 euro. In caso di recidiva nel biennio scatta l’arresto fino a un anno. Con l’entrata in vigore della nuova norma la sanzione passerà da un minimo di 5.000 ad un massimo di 30.000 euro. Per i recidivi entro due anni rimane l’arresto fino ad un anno. E’ vero che l’aumento della sanzione costituisce un deterrente maggiore, ma solo per le persone per bene, per coloro, cioè, che difficilmente si metteranno alla guida di un veicolo senza aver mai conseguito la patente. Chi lo fa, in genere, non è una persona per bene, né, il più delle volte, dispone delle risorse economiche necessarie a pagare la sanzione stessa. Quindi, rispetto ad alcuni reati, possono avere un effetto di maggior deterrenza l’arresto o la reclusione. All’obiezione dei tempi lunghi e incerti della giustizia bisognerebbe rispondere che le leggi sono fatte per essere rispettate ed è compito dello Stato che ciò avvenga, così come è compito dello Stato che chi

trasgredisce venga punito, senza se e senza ma. Rispetto alla depenalizzazione del reato di guida senza patente bisognerebbe essere più cauti, perché chi si mette alla guida senza l’abilitazione e l’abilità necessarie rischia molto più di altri di causare incidenti e gravi danni a cose e persone, con conseguenze a volte devastanti. La depenalizzazione di questo reato sembra anche essere in controtendenza rispetto alla volontà di introdurre il reato di omicidio stradale, per chi si mette alla guida in stato di ebbrezza o dopo aver assunto stupefacenti e causa la morte di qualcuno. Sarebbe forse il caso di inserire nel reato di omicidio stradale anche la fattispecie di guida senza patente, piuttosto che depenalizzarlo. Lo schema del decreto riprende le proposte della commissione ministeriale, costituita nel 2014 e presieduta dal prof. Francesco Palazzo ed interviene sul codice penale e sulle leggi speciali. Vengono depenalizzati tutti reati che prevedono la multa o l’ammenda e che sono previsti da leggi speciali, nonché alcuni inseriti nel codice penale. Restano fuori dalla depenalizzazione tutti quei reati che, seppur puniti con la multa o l’ammenda, riguardano la normativa sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, ambiente territorio e paesaggio, sicurezza pubblica, giochi d’azzardo e scommesse, armi, elezioni e finanziamento ai partiti. Altro reato depenalizzato è il mancato rispetto delle prescrizioni collegate all’autorizzazione alla coltivazione di cannabis per finalità terapeutiche. Non si tratta, come ha precisato lo stesso ministro Lorenzin, di una depenalizzazione della coltivazione della cannabis, fatto che rimane reato, ma solo di una depenalizzazione rispetto ad una produzione già autorizzata per finalità terapeutiche, ma che è stata effettuata senza il rispetto delle procedure previste, cioè delle prescrizioni che accompagnano l’autorizzazione alla coltivazione per uso terapeutico. F

Trieste Raffaele Incarnato cala il poker

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l 5 dicembre al "Palatoffetti"di Crema (Cr)si è svolta la "Wuka Christmas CUP"di karate, il trofeo interregionale natalizio che chiude l'anno solare agonistico degli atleti di karate per l'anno 2015.

Ancora una vittoria finale per l'Assistente Raffaele Incarnato, della Casa Circondariale di Trieste, che si è aggiudicato l'oro nella categoria +80 kg nella specialità "Kumite sportivo" con un 6-0 in semifinale e un 7-2 in finale contro un atleta molto agile e veloce che ha messo non poco in difficoltà l'atleta triestino. Per il nostro atleta del Sappe si tratta di un "poker d'assi" in questo 2015, avendo vinto quattro manifestazioni su quattro organizzate dalla WUKA (World Union Karate Federation) federazione di cui fa parte Raffaele, in collaborazione con la CKI Italia (Confederazione Karate Italia). Queste le manifestazioni ove ha trionfato in questo 2015. • Campionato Italiano unificato Wuka-Cki 1° posto categoria +90 kg • Campionato interregionale "Wuka Spring CUP 2015" 1° posto cat. +90 kg • Campionato interregionale "Trofeo Nord est 2015" 1° posto cat. +90 kg • Campionato interregionale "Wuka Christmas CUP 2015" 1° posto cat. +80 kg. F

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Roberto Thomas già Magistrato minorile, docente di criminologia presso l’Università di Roma La Sapienza rivista@sappe.it

CRIMINOLOGIA

L’abuso sui minori I l tema dell'abuso sui minori perpetrato da parte degli adulti è collegato strettamente alle problematiche del bambino che sia stato vittima di un reato commesso in suo danno e pertanto, in quanto persona offesa da un atto criminale, è studiato dalla vittimologia, che è la branca specialistica della criminologia in generale - e di quella minorile in particolare - che analizza la persona offesa dal delitto , in relazione alla singola fattispecie criminale, al fine di

l'Alimentazione e l'Agricoltura delle Nazioni Unite che combatte la fame nel mondo) sono sconvolgenti : tre milioni e centomila bambini, sotto i cinque anni, muoiono ogni anno sulla terra per mancanza di cibo o per cause connesse all'insufficiente alimentazione che cagionano il 45% della mortalità infantile generale. Più di sessantasei milioni di bambini in età scolare, nei Paesi in via di sviluppo, frequentano le lezioni a stomaco vuoto per carenze alimentari.

ottenere il suo recupero dal grave trauma subito, con un sostegno psicologico-affettivo mirato a tal fine, ed anche per comprendere meglio le motivazioni che hanno scatenato il gesto criminale del soggetto abusante (cosiddetta criminogesi) mediante la diretta testimonianza della vittima. Però la nozione di minore “abusato” è assai più ampia, comprendendo tutti gli “abusi” fisici, psichici, affettivi, morali e sociali compiuti su di lui dal mondo degli adulti anche non costituenti reato, come quelli derivanti dalla mancanza di cibo o acqua ovvero da patimenti inerenti a situazioni di guerra. Invero proprio il primo abuso che soffre un minorenne è la sofferenza per fame dalla nascita . A tal proposito i dati della FAO (l'Organizzazione per

Ciò in un quadro generale ancor più devastante in cui, sempre secondo i dati provenienti dalla FAO, circa ottocento milioni di persone (cioè una su nove della popolazione mondiale) soffrono la fame e vivono in situazioni di carenza di un accesso adeguato all'acqua e al cibo. Le cause di questo vero e proprio sterminio globale sono diverse e variano dalle mancata produzione e equa distribuzione degli alimenti (soprattutto in Africa), all'indice di natalità eccessivo, come succede in India e in Cina. Per quest'ultima nazione, di recente, il limite per le coppie sposate di avere un unico figlio (sanzionato con salate pene pecuniarie, e nei casi più gravi, anche con quelle detentive, come si evince dal mio libro “Il diritto di

Nelle foto: immagini di bambini terrorizzati

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famiglia in Cina” Roma, Ianua, 2001) è stato aumentato a due per famiglia, segno che in Cina, grazie ad un'attenta politica demografica, si è progressivamente assai limitato quantitativamente il gravissimo problema di mortalità infantile dovuta a mancanza di sufficiente alimentazione. Tale forma inquietante di abuso sui bambini, nella maggior parte dei casi, può essere considerata necessitata da una situazione familiare di profonda indigenza economica – sovente incolpevole con riferimento al solo singolo quadro familiare di riferimento – causato da oggettivi problemi di mancanza di risorse agricole primarie sufficienti (e di una loro corretta distribuzione) e anche da contigenze di politica internazionale di carenza di aiuto da parte dei Paesi “più ricchi” nei confronti di quelli “più poveri”. Forse per tale motivo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.)- come riportano le “Linee guida in tema di abuso sui minori” redatte dalla Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza (SINPIA), Erickson, 2007, pag. 9 configura la situazione di abuso e di maltrattamento soltanto nell'inadempimento consapevole da parte dei genitori, tutori e altre persone che hanno la cura della vigilanza dei bambini, approfittando delle loro condizioni di privilegio, dei diritti dell'infanzia previsti dalla Convenzione ONU di New York del 1989 sui Diritti del fanciullo , in particolare di quello stabilito dall'art. 6, secondo cui : “1. Gli Stati Parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita. 2. Gli Stati Parti assicurano in tutta la misura del possibile la sopravvivenza e lo sviluppo dei bambini.” . Il “diritto inerente alla vita”, stabilito dalla precitata Convenzione per i soli fanciulli, è stato rettamente ampliato, per tutti gli esseri umani indistintamente, nella sua massima esplicazione di diritto fondamentale ad una sufficiente nutrizione, dal contenuto della Carta di Milano,


CRIMINOLOGIA redatta in occasione dell'Expo sul cibo e la nutrizione nel mondo, che si è svolta dal 1 maggio al 31 ottobre 2015 a Milano. In essa si legge: “I firmatari della Carta di Milano, nel sentirsi cittadini dello stesso pianeta, intendono assumersi impegni precisi per avviare un cambiamento nella gestione e distribuzione delle risorse naturali. Lo scopo della Carta è quello di sollecitare iniziative comuni tra cittadine e cittadini, membri della società civile, imprese e istituzioni pubbliche, affinchè alle generazioni future sia garantito cibo sano, sufficiente e nutriente. Per questo motivo i firmatari chiedono che il diritto al cibo sia contemplato come un diritto umano fondamentale e che i principi esposti nella Carta di Milano diventino pratiche comuni della collettività. Non è possibile un futuro sostenibile senza la consapevolezza che è necessario gestire le risorse di questo pianeta in modo equo, razionale ed efficiente...”. Col progredire dell'età, i maltrattamenti e gli abusi di bambini ad opera degli adulti si diversificano in molteplici inquietanti forme, definite nel IV Seminario Criminologico del Consiglio D'Europa, tenutosi a Strasburgo nel 1978, come : “gli atti e le carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di terzi” . Ne consegue che l'abuso e il maltrattamento si può realizzare sia con una condotta attiva (ingiurie, minacce, percosse, lesioni, atti sessuali violenti ecc.), ovvero mediante un' azione omissiva (abbandono, incuria, trascuratezza ecc.). Tali condotte, soprattutto se prolungate nel tempo, possono rappresentare un grave fattore di rischio per i bambini, potendo cagionare loro dei disturbi psicopatologici durante la maggiore età.

Gli atti di abuso così definiti possono nascere in un ambito familiare ovvero in altro extra-familiare. A proposito del primo si passa così dal genitore alcolizzato o drogato che ripetutamente esercita sul minore una costante forma di violenza non finalizzata da motivi correzionali , ma per puro sadismo derivato dall'obnubilamento alcolico o da stupefacente, a quello, apparentemente normale, che ripetutamente “bastonando” la moglie per motivi di gelosia , induce una gravissima violenza psicologica sui figli minori che assistono impotenti al “massacro” della propria madre. Una tipologia specifica di abuso è costituita dal maltrattamento subito dai piccoli nomadi , costretti ad andare a rubare da padri padroni, anziché frequentare la scuola dell'obbligo, come si è già ampiamente evidenziato nell'articolo sul tema, a mia firma, sul numero 231 di questa rivista del settembre 2015. Ma la casistica più grave, che rientra simultaneamente sia nella violenza psichica che in quella fisica, è l'abuso sessuale del minorenne commesso direttamente da una persona della famiglia, ovvero da terzi a cui viene avviato da un familiare (è quest'ultima l'ipotesi della prostituzione minorile prevista dall'art.600 bis del codice penale, come è avvenuto, ad esempio, nel 2014 per il caso, che ha avuto a lungo gli onori della cronaca nazionale, della studentessa di quindici anni, mandata a prostituirsi con importanti personaggi della politica e degli affari (tra cui il marito dell'Onorevole Mussolini ) dalla madre, nel quartiere Parioli di Roma, in collaborazione con un'altra amica sempre minorenne). Invero le mura domestiche costituiscono la genesi della tipologia più frequente di abusi sessuali in danno di minori, in cui in silenzio e nella passività assoluta la piccola vittima subisce le inquietanti e continue attenzioni sessuali - nella maggior parte dei casi, del padre o del patrigno, con la connivenza della madre, spesso preoccupata egoisticamente soltanto di

“conservare” il compagno – e le violenze che solo in parte emergono all'attenzione delle autorità, magari dopo molti anni. Talora trattasi di abusi sessuali “mascherati”, per essere meglio accettati dalle innocenti vittime, quali i lavaggi dei genitali e l'applicazione di creme vaginali, ovvero il cosiddetto abuso assistito, che consiste nel far assistere i piccoli all'attività sessuale degli adulti presenti nella famiglia. E' chiaro che siffatti abusi sono il sintomo di inquietanti perversioni o situazioni fobiche-ossessive , talora di natura psicotica, che coinvolgono l'adulto responsabile e cagionano gravissimi danni psicologici alle innocenti vittime. Purtroppo l'abuso sessuale del genitore, in molti casi, si perpetua per molti interminabili anni, fino a quando

la vittima, crescendo in età, può avere il coraggio di far trapelare la notitia criminis, o confidandosi con gli amici, ovvero con un insegnante, affidando, talora, la sua richiesta di aiuto, ad un tema scritto in classe, come sovente è successo. In ogni caso i danni alla personalità derivanti dall'abuso sessuale familiare sono devastanti : di frequente capita che la vittima, abusata per lungo tempo, entri in uno stato depressivo che perdura per tutta la sua esistenza e sia bisognosa di una lunghissima psicoterapia di recupero che, però , non sempre ottiene i risultati sperati. Chiaramente la gravità delle conseguenze è proporzionale alla lunghezza dell'esposizione agli abusi, aumentando con il loro perdurare nel tempo come già evidenziato.

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Á


CRIMINOLOGIA S'impone, pertanto, che i cosiddetti sintomi di abuso (disturbi del sonno, diuresi notturna, disturbi delle condotte alimentari, calo improvviso del rendimento scolastico, atti di autolesionismo, esplosioni emotive improvvise con pianto, crisi di rabbia o mutismo, iperattività e disturbi dell'attenzione o al contrario inibizione e tristezza ecc.) vengano rilevati dalla famiglia (ovviamente nel caso di abusi-extrafamiliari) e soprattutto dagli organi medici e scolastici quanto prima possibile.

Nella foto: un bambino spaventato

Un capitolo a parte è costituito dal presunto abuso che viene denunziato ad arte, nei procedimenti di separazione, dal genitore affidatario del figlio minore a carico dell'altro , per impedirgli una regolare frequentazione con il minore. Tale fenomeno, in costante e allarmante incremento, viene costruito “a tavolino” da avvocati senza scrupoli che assistono legalmente genitori affetti dalla sindrome studiata negli Stati Uniti della P.A.S. (acronimo che significa : parents alienation sindrome, cioè sintomatologia da alienazione genitoriale), che – pur non essendo ancora ufficialmente riconosciuta dall'associazione psichiatrica internazionale - consiste in comportamenti gravemente denigratori dell'altro genitore, attuati in presenza dei figli minori, per screditarne la figura, falsificando spesso la realtà che viene introiettata dai predetti. Si è stimato che circa 80% di tutte le violenze sessuali in danno di minorenni venga consumato da adulti

all'interno della famiglia (dato Eurispes, contenuto nel 9° Rapporto nazionale sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza) . E' questa una elevatissima percentuale assolutamente inquietante che indica, sociologicamente, un indicatore di una famiglia gravemente “malata” (come ebbi a definirla nel mio libro “Le adozioni” pag. 28, Buffetti Editore, 1989), che non solo “produce” dei minorenni che possono commettere reati, rilevandosi come concausa di tali comportamenti criminali , ma pure li vittimizza rendendoli schiavi di terribili e ripetuti abusi sessuali che non solamente deturpano l'integrità del loro corpo, ma scavano a fondo in maniera negativa nella loro anime, rendendoli gravemente depressi e alle volte con tendenze suicidiarie. Nel campo degli abusi-extrafamiliari i fenomeni drammatici di abuso minorile sono i più svariati. Emerge quantitativamente lo sfruttamento sessuale dei minori che diventa sovente anche una vera e propria riduzione in schiavitù dei piccoli per fini sessuali (si pensi alle prostitute di otto anni thailandesi che alimentano un ricco turismo sessuale, o al traffico di prostitute minorenni straniere che sono schiavizzate da delinquenti senza scrupoli con violenza, dopo averle fatte venire in Italia con il miraggio di un lavoro assicurato) . Emergono, inoltre, anche molti abusi sessuali extrafamiliari in danno di bambini e bambine che si realizzano sovente in situazioni di mancanza di controllo familiare adeguato e carenza affettiva che inducono il minore ad accettare le attenzioni affettive di un estraneo a fine di pedofilia. Sta prendendo sempre di più drammatica importanza, altresì, il fenomeno dell' inquadramento coartato di minorenni in gruppi paramilitari (ad esempio, è assai inquietante il recente fenomeno dell'utilizzo, da parte del cosiddetto, autoproclamatosi, califfato isis, di bambine foderate di esplosivo, “immolatesi” in attentati terroristici, oppure il caso di bambini di diecidodici anni video-ripresi mentre

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ammazzano con un colpo di pistola alla nuca o con una coltellata alla gola degli ostaggi). Di più le associazioni criminali organizzate italiane (di stampo genericamente definito mafioso) assoldano sovente nella loro organizzazione dei minori di quattordici anni, sfruttandoli, per la loro mancanza di responsabilità penale a motivo dell'età (ex art. 97 del codice penale), come manovalanza per la commissione di reati (vendita di oggetti falsificati, furto, fino a quelli di più grave allarme sociale, quale la rapina, lo spaccio della droga e l'omicidio), “rubando” la loro infanzia, come si può leggere nel bel libro di Pina Varriale “Ragazzi di camorra” Edizione Piemme, 2007. Da ultimo, senza alcuna pretesa di completezza, occorre sottolineare anche lo sconcertante fenomeno della uccisione di adolescenti per l'espianto di organi da rivendere illegalmente a caro prezzo per il loro trapianto su ricchi ammalati. La valutazione dell'esistenza di un abuso minorile deve essere fatta attraverso una valutazione diagnostica integrata, sia dal punto di vista medico generale e medico legale, che psicologico-psichiatrica, nonchè psico-sociale. La diagnosi medica - premessa una descrizione di anamnesi anteatta della presunta vittima minorile di abuso, e nella finalità di evitare qualsiasi eccessiva e inutile invasività nella sfera della naturale riservatezza del bambino - deve procedere, mediante un esame obiettivo, ad identificare lo stato nutrizionale generale, eventuali lesioni fisiche, recenti e pregresse, soprattutto relative alla parte genitale e anale (queste ultime particolarmente approfondite nel caso di sospetto abuso sessuale, in cui necessita anche la eventuale raccolta di tracce di materiale biologico presenti sul corpo o sugli indumenti della vittima), anche con l'ausilio di una diagnostica per immagini. La diagnosi psicologico-psichiatrica comprende - oltre all'anamnesi psicologica atta a rilevare i segni clinici che si possono ritrovare più


CRIMINOLOGIA facilmente nei vari tipi di abuso minorile - i colloqui clinici con il bambino e i suoi genitori (per questi ultimi è importante analizzarli mediante un modello valutativo della qualità delle cure genitoriali, ideata da I. Wilkinson in “The Darlington family assessment system : Clinical guidelines for practitioners” , in Journal of Family Therapy, 2000, vol. 22, n. 2, p. 211) e la somministrazione al medesimo di test proiettivi, consistenti in osservazione del gioco del piccolo e della sua relazione con i genitori e in protocolli diagnostici standardizzati (checklist di comportamento : CBCL,TRF, YSR, KDSADS, PTSD Inventory ecc.). L'indagine psico-sociale (svolta dai servizi sociali territoriali in collegamento con i Consultori sociofamiliari dei comuni, le strutture ospedaliere, i Servizi di salute mentale per l'età evolutiva e i centri per le tossicodipendenze) deve, invece, verificare le condizioni di vita del minore nella sua famiglia e nel contesto sociale di pertinenza, identificando eventuali fattori di rischio psico-sociale presenti nel precitato contesto. Se da questa analisi integrata emergono gravi indizi di abusi sul minore che configurano dei reati penali, è obbligatorio (ai sensi dell'art. 331 del codice di procedura penale) riferire al pubblico ministero competente detta notitia criminis, al fine di farlo procedere all'inizio dell'azione penale giudiziaria nei confronti degli autori dei precitati abusi. In questo scenario assai negativo sorgono molti interrogativi sugli interventi di prevenzione concreta a tutela di questi minori abusati. Sicuramente la politica di pubblicizzare al massimo singoli episodi denunciati all'autorità è utile per spingere coloro che soffrono purtroppo di simili comportamenti da parte di adulti ad una tempestiva manifestazione esterna di essi, anche indirettamente, ad esempio comunicandoli a terze persone. In tal senso appare estremamente utile il protocollo d'intesa siglato fra

l'Autorità Garante Nazionale per l'Infanzia e il Dipartimento della Pubblica Sicurezza il 10 dicembre 2013, atto a rendere più efficace l'azione di prevenzione e contrasto alle violazioni dei diritti dei minori di età. Per vincere poi le inevitabili resistenze psicologiche ad aprirsi con fiducia alla denuncia, soccorre anche il sistema dei vari centralini telefonici di ascolto (“telefono azzurro”, “telefono rosa” ecc.) per una comunicazione mirata e, talora, anonima, ma sempre dotata della possibilità di collegarsi alle varie Procure per i minorenni presso i relativi Tribunali, autorità giudiziaria competente, in prima battuta, per gli interventi urgenti di recupero dei minori abusati. Il web, poi, con la sua globale capacità comunicativa, potrebbe diventare il principale canalizzatore delle sofferenze dei minori abusati attraverso una richiesta di aiuto che potrebbe filtrare attraverso le maglie della rete ed essere immediatamente rigirata da coloro che la ricevono all'autorità competente. Così oltre al “ciattare” alle volte notizie insignificanti e talora veramente “stupide” fra coetanei, amici e tutti gli altri anonimi frequentatori del web (cosiddetti internauti), il web potrebbe diventare, in tal maniera, un utilissimo veicolo di conoscenza di situazioni di grave abuso che coinvolge dei minorenni. A tal proposito sarebbe opportuno costituire sempre di più dei siti informatici “mirati”, pubblicizzandoli adeguatamente (al pari dei precitati telefoni “azzurro”, e “rosa” ) , in grado di poter “ascoltare”, anche garantendo l'anonimato, gli sfoghi disperati di tanti adolescenti, bisognosi di conforto e sostegno (come ad esempio il 9,9% degli adolescenti che visitano i siti sull'anoressia e il 4,9% di quelli che guardano i siti sul suicidio con consigli annessi, secondo gli inquietanti dati forniti dalla “Indagine conoscitiva sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia nel 2012” realizzata da Telefono Azzurro ed Eurispes). F

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a cura di Giovanni Battista de Blasis

CINEMA DIETRO LE SBARRE

Il ponte delle spie

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Nelle foto: la locandina e alcune scene del film

New York, nel 1957, il pittore Rudolf Abel viene arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Anche durante il clima della guerra fredda la democrazia impone che l’accusato sia sottoposto ad un giusto processo con tutte le garanzie previste dai principi costituzionali degli Stati Uniti. Come avvocato difensore di Abel viene, però, scelto James Donovan che fino a quel momento si era occupato soltanto di risarcimenti danni e di assicurazioni. Nonostante tutto Donovan prende davvero sul serio la difesa di Abel, anche a costo di incomprensioni e disprezzo da parte della moglie, dei giudici e dell’intera opinione pubblica americana. Durante il processo un aereo spia americano viene abbattuto dai sovietici e il tenente Francis Gary Powers viene imprigionato in Russia. A quel punto si profila la possibilità di uno scambio di prigionieri con la

Russia e, incredibilmente, la CIA incarica Donovan stesso di gestire il delicatissimo negoziato. Da questo momento, l’intrigo hitchcockiano lascia la scena a un incedere più letterario, con risvolti quasi leggendari, sia pure in un presente incerto circoscritto dall’immagine claustrofobica del muro di Berlino. In questo contesto, il Donovan di Tom Hanks sembra lo stereotipo del personaggio hitchcockiano, quello con cappotto, cappello e ombrello, ma nel cinema di Spielberg più che mai, l’apparenza in qualche modo inganna. Donovan, infatti, è l’uomo che incarna il mestiere che fa e che lo interpreta come una missione. L’avvocato James Donovan non si occupa soltanto di giustizia, l’avvocato James Donovan è un giusto per antonomasia. Donovan non vede Abel soltanto come una spia, un russo o un nemico, lui sceglie di guardarlo e assisterlo come una essere umano. Più entra in confidenza con lui e più il personaggio si colora e acquista profondità, la profondità dell’amicizia e dell’ammirazione. Ed è così che l’avvocato non vuole sapere la verità sulla colpevolezza o l’innocenza del suo assistito e l’imputato non si preoccupa affatto del proprio destino. Alla fine lo scambio dei prigionieri avverrà sul Ponte di Glienicke detto il “Ponte delle Spie”, tra Berlino Ovest e Potsdam. E Donovan riuscirà anche a far

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la scheda del film Regia: Steven Spielberg Titolo originale: Bridge of Spies Sceneggiatura: Matt Charman, Ethan Coen, Joel Coen Fotografia: Janusz Kaminski Montaggio: Michael Kahn Scenografia: Adam Stockhausen Musica: John Williams Costumi: Kasia Walicka-Maimone Arredamento: Bernhard Henrich, Rena DeAngelo Effetti: Gerd Nefzer, Physical Effects Produzione: Steven Spielberg, Marc Platt Productions, Kristie Makosko per Amblin Entertainment Distribuzione: 20th Century Fox Personaggi e interpreti: James Donovan: Tom Hanks Rudolf Abel: Mark Rylance Mary Donovan: Amy Ryan Wolfgang Vogel: Sebastian Koch Thomas Watters: Alan Alda Hoffman, funzionario CIA: Scott Shepherd Francis Powers: Austin Stowell Ivan Schischkin: Mikhail Gorevoy Frederic Pryor: Will Rogers (II) Doug Forrester: Billy Magnussen Carol Donovan: Eve Hewson Ag. Blasco: Domenick Lombardozzi Agente Williams: Michael Gaston Allen Dulles: Peter McRobbie Earl Warren: Edward James Hyland Bates: Joshua Harto Roger Donovan: Noah Schnapp Will Tompkins: Stephen Kunken Tenente James: Greg Nutcher Agente Faye: Jon Donahue Alison: Rebekah Brockman Genere: Drammatico, Thriller Durata: 140 minuti, USA, 2015 liberare dalle autorità berlinesi della Repubblica Democratica Tedesca lo studente statunitense di economia Frederic Pryor, pure lui arrestato per spionaggio dalla polizia della Germania orientale. La liberazione di Pryor passerà attraverso il famosissimo Checkpoint Charlie. Tutto il film sarà, alla fine, riassunto in una frase di Donovan: “Non conta quello che di te penseranno gli altri, ma quello che sai tu.” F


LO SPORT

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arolina è tornata. In pista dopo la squalifica di ventuno mesi è arrivata a cogliere l’argento in una prestigiosa gara di Osaka: la terza edizione del Medal Winners Open, competizione ad inviti e con una formula insolita rispetto ad una gara tradizionale (non era previsto il doppio programma, corto e lungo) ma comunque si teneva sotto l’egida della Federazione mondiale Isu ed era valutata da cinque giudici. Ottimo test sullo stato di forma dopo il lungo stop forzato e primo step agonistico di avvicinamento ai prossimi campionati mondiali di Boston (28 marzo-3 aprile), l’impegno giapponese ha raccontato una Carolina personalmente distesa e sportivamente competitiva. A giudicare dalla performance della ripresa Carolina può potenzialmente avvicinarsi ai prossimi al prossimo impegno iridato con ottimismo e buoni margini di miglioramento. “Libertà e nuove sensazioni. Gli ingredienti di una medaglia d’argento’’, questo si poteva leggere su un post pubblicato dalla portacolori della Polizia Penitenziaria al termine della prova di Osaka. Dopo le ultime vicende personali e sportive è davvero difficile darle torto. La fuoriclasse delle Fiamme Azzurre infatti, era stata squalificata non senza polemiche fino al 31 dicembre scorso in relazione alla vicenda che ha coinvolto l’ex fidanzato Alex Schwazer, poi trovato positivo all’eritropoietina. Potendo contare in tutti questi mesi sull’appoggio del suo gruppo sportivo, dei tifosi e delle persone care che non hanno mai smesso di credere in lei e di sostenerla, sul ghiaccio del Towa Yakuhin Ractab Dome di Osaka in Giappone ha sfoderato sicurezza ed eleganza, fattori che da Sochi in poi hanno caratterizzato la sua carriera da

Torna Carolina Kostner ed è subito argento in Giappone atleta matura e tecnicamente completa. Il suo programma, pattinato sulle note di Me’ditation (tratto dall’opera che racconta la storia della cortigiana Thais), le è valso 59,69 punti. Prima di lei, a 12 lunghezze, la canadese Joannie Rochette. Sotto consiglio del suo allenatore Michael Huth, tutti i salti tripli sono stati mutati in doppi. La riserva che dovrà sciogliere nelle prossime settimane sarà quella se proseguirà la sua carriera agonistica partecipando alle gare vere, quelle con il doppio programma oppure si dedicherà solo alle esibizioni. Tecnicamente potrebbe ancora ambire alla partecipazione ai Mondiali di Boston. Intanto come possibili gare di avvicinamento potrebbe partecipare al Sofia Trophy (10-14), al Bavarian Open, sulla pista di casa a Oberstdorf (19-20) o al Nordics Open (27-28) ad Aalborg in Danimarca. Più volte nel corso della sua carriera Carolina ha attraversato momenti difficili e periodi sportivamente pesanti come macigni, capaci di minare per sempre le motivazioni a continuare l’attività agonistica per chi nel corso del tempo non si sia costruito spalle abbastanza forti da reggerne la forza compressiva sull’autostima ed il morale. Anche stavolta però, pur nel momento negativo vissuto, ha saputo rialzarsi e prendere il buono che poteva, guardando avanti, con il sorriso e l’ottimismo che ormai sono diventati il suo cavallo di Troia per sfondare qualunque muro di difficoltà e vincere ancora. F Polizia Penitenziaria n.235 • gennaio 2016 • 25

Lady Oscar rivista@sappe.it

Nelle foto: Carolina Kostner insieme al suo allenatore Michael Huth sotto Carolina ad Osaka


CRIMINI E CRIMINALI

Pasquale Salemme Segretario Nazionale del Sappe salemme@sappe.it

Un cadavere nella valigia a Marechiaro

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Nella foto: la “finestrella di Marechiaro”

apoli è una città dalle mille sfaccettature ed ogni parola è superflua per definire la sua bellezza; come tutte le grandi città del mondo è un mix di conflitti, contraddizioni e violenza. A Napoli sono legati i miei bellissimi ricordi dell’Università e quelli di un recente passato che mi ha segnato grandemente.

donna nuda avvolta in un lenzuolo. Il corpo è stato inarcato in modo innaturale per farlo entrare nella valigia. Le mani sono legate con dello spago, la bocca è sigillata con un cerotto e il collo è stretto da un collant viola. Il corpo della donna presenta numerose ferite, soprattutto alla gola e intorno al seno.

Napoli è anche la città della mia squadra del cuore e tornarci, in occasione nel 6° Congresso Nazionale del SAPPe, è stato un piacere indescrivibile. Solitamente Napoli, e soprattutto il suo hinterland, è anche tristemente nota per la presenza sul suo territorio di una particolare associazione criminale, di cui ho avuto modo di ricostruire la storia nel numero 193 di questa rivista (Dalla guapperia alla camorra). Il 3 settembre 1983, non lontano dalla famosa “finestrella di Marechiaro”, una ragazzina scorge una valigia abbandonata, tra le auto parcheggiate, da cui cola del sangue dalle fessure. La ragazzina avverte i genitori che a loro volta chiamano la polizia. Quando arriva la polizia una piccola folla si è radunata intorno alla valigia. L’apertura del bagaglio è agghiacciante. Al suo interno vi è il cadavere di una

Gli inquirenti ipotizzano che sia l’ennesimo omicidio di una guerra di camorra in atto: in un ristorante nelle vicinanze si stava festeggiando la comunione di due figlie di un boss di Secondigliano. Il giorno seguente la polizia, rilevando le impronti digitali, già presenti nella propria banca dati, identifica la donna: era stata schedata per precedenti legati all’uso di sostanze stupefacenti. Silvana Antinozzi, di anni 38, impiegata al Comune di Napoli. La polizia, quindi, si reca presso la sua abitazione, al cui interno, oltre ad un estremo disordine, si rilevano macchie di sangue sparse ovunque, oltre ad evidenti segni di una colluttazione. La donna è stata uccisa nel suo monolocale in Vico Scalciccia, poco distante dal porto, con sedici coltellate, e trasportata all’interno di una valigia, a Marechiaro. L’ipotesi che sia un chiaro messaggio

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al capo clan che festeggiava anch’egli a Marechiaro appare sempre più consistente, ma gli inquirenti non tralasciano altre piste. Iniziano così a ricostruire il passato della vittima alla ricerca di tracce utili per risalire all’assassino. La donna dopo un matrimonio finito male con un assistente universitario, con una figlia di 17 anni a carico, si era lasciata andare, tanto da abbandonarsi all’alcool e alla droga. Addirittura da alcuni mesi non andava più a lavoro e tre giorni prima era uscita, a seguito di ricovero, dalla clinica “Villa Anna” a Marina di Ischitella. Gli inquirenti scavano proprio sulla sua permanenza nella clinica e fondano il loro sospetto su un uomo in particolare, Andrea Rea, anch’egli ricoverato nello stesso periodo nella struttura sanitaria, con precedenti penali a suo carico per due casi di violenze sessuali, di cui una nei confronti di una ragazza finlandese in vacanza ad Ischia. Andrea Rea è un ragazzo di 33 anni, alto un metro e novanta, laureato in filosofia e appartenente ad una famiglia della cosiddetta Napoli-bene. Gli elementi che incastrano il Rea sono inconfutabili. Nella casa della donna uccisa ci sono le sue impronte digitali; sul lavandino è stato trovato un orologio al quarzo che appartiene all’assassino: gli infermieri della clinica “Villa Anna”, dove il Rea era stato ricoverato nello stesso periodo della donna, lo riconoscono; il coltello utilizzato per uccidere la ragazza appartiene a un set di coltelli della madre di Rea. Gli inquirenti scoprono che la vittima e il suo carnefice si erano conosciuti qualche giorno prima proprio nella clinica “Villa Anna”, dove entrambi erano stati ricoverati.


CRIMINI E CRIMINALI Viene immediatamente spiccato un ordine di cattura per Andrea Rea, il quale nel frattempo si è reso irreperibile. I genitori, interpellati dalla polizia, dichiarano che Andrea non ha fatto più rientro a casa dopo il pranzo domenicale. Dopo qualche giorno, Rea telefona ai genitori avvertendoli che si trova a Nizza. Questi, per evitare che il figlio possa compiere ulteriori reati, avvertono gli inquirenti. Il padre si reca a Nizza, insieme ad un amico medico, e convince il figlio a tornare indietro: la polizia aveva ritenuto opportuno non dare il via ad una caccia all’uomo che avrebbe potuto avere chissà quali conseguenze, viste le condizioni mentali del giovane. Scortati da un’auto della squadra mobile i due giungono a Napoli, dove Rea accompagnato in questura, confessa il suo crimine: ha ucciso lui Silvana Antinozzi. Al sostituto procuratore Amodeo che lo interroga, presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziale di Sant’Efremo di Napoli, sul perché di tanta ferocia, risponde: “Ho agito per ansia purificatrice perché volevo liberare il mondo dalle donne”. A seguito della confessione Andrea Rea fu soprannominato il mostro di Posillipo. Alquanto inquietante è la circostanza che il giovane, nel periodo dell’assassinio, non doveva trovarsi in libertà, in quanto doveva permanere nell’ospedale psichiatrico giudiziario fino al mese di novembre di quell’anno. La misura di sicurezza era stata revocata dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Napoli, a seguito di certificazione che attestava l’assenza di turbe psichiche e ne considerava cessata la pericolosità sociale. Inoltre, dopo alcuni giorni, il Rea confessa anche l’omicidio di un’altra donna scomparsa alcuni anni prima: Anna Bisanti, napoletana di 27 anni. Riguardo questo omicidio, racconta che il giorno di Natale del 1983, aveva convinto la ragazza a salire sulla sua auto per una gita lungo il litorale

domiziano, tra Napoli e Caserta. Arrivati in spiaggia l’aveva uccisa con un coltello e chiusa in un sacco di plastica e buttata in mare: il corpo non verrà mai ritrovato. Secondo gli psichiatri, l’elemento scatenate della follia del Rea potrebbe collegarsi all’improvvisa morte del fratello, avvenuti alcuni anni prima, di soli 17 anni. La grave perdita ha sicuramente contribuito ad amplificare i suoi precedenti disturbi psichici. Il 9 marzo del 1990, è riconosciuto, a seguito del processo per l’assassino di Silvana Antinozzi, incapace d’intendere e di volere e quindi condannato a 10 anni da trascorrere in un manicomio giudiziale.

fama di omicida, tiene in apprensione l’intera città di Napoli. Sarà ritrovato a Milano, dopo 48 ore, davanti alla stazione centrale in stato confusionale, a seguito di un controllo dei carabinieri che avevano notato l’uomo in difficoltà. Rea non oppone alcuna resistenza. Le modalità criminose del Rea destarono sospetti anche nella Procura di Firenze che nel 1985, all’indomani dell’ultimo omicidio del mostro di Firenze, si interessò a lui. Una Vespa usata dal Rea fu segnalata nei pressi degli Scopeti, dove il “mostro”, la notte dell’8 settembre, aveva ucciso e mutilato Jean Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot (alla storia del mostro di Firenze sono stati

I periti ritengono che sia affetto da “schizofrenia paranoidea”. La schizofrenia paranoide è caratterizzata da preoccupazione relativa a deliri o allucinazioni uditive, senza prevalenza di disorganizzazione dell’eloquio o incongruità affettiva. Nel maggio dell’anno successivo, il Giudice dell’Udienza Preliminare di Napoli, Raffaele Marino, infligge al pluriomicida ulteriori 5 anni di internamento in ospedale psichiatrico, dichiarando che l’imputato non può essere processato per la totale infermità di mente già riconosciuta per il delitto di Silvana Antinozzi (1). Il 23 febbraio 2003, Andrea lascia l’ospedale “Filippo Saporito” di Aversa, dove era rinchiuso, usufruendo di uno dei tanti permessi che gli vengono concessi per il suo eccellente comportamento, ma alla scadenza del permesso non rientra. La sua fuga, accompagnata dalla sua

dedicati quattro numeri di questa rivista, dal 191 al 194). Venne interrogato, ma le indagini si arenarono quasi subito: non solo era troppo giovane per essere l’assassino (il primo omicidio risaliva al 1968 e Rea a quel tempo aveva appena 12 anni), ma soprattutto perché aveva un alibi di ferro. Il ragazzo napoletano a quel tempo frequentava dei centri terapeutici in Toscana e la sera del delitto si trovava proprio nei pressi di Firenze. Attualmente Andrea Rea è internato nell’ospedale Giudiziario Filippo Saporito di Aversa, che come tutti gli altri cinque O.P.G. sparsi sul territorio nazionale, doveva chiudere lo scorso 31 marzo 2015. Alla prossima... F (1) De Stefano, Napoli criminale, omicidi di camorra ma non solo, Newton compton editori, 2015.

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Nelle foto: il parcheggio dove fu rivenuta la valiga con il cadavere di Silvana Antinozzi (in basso)

Nella foto sotto: una immagine di Andrea Rea al momento dell’arresto


a cura di Giovanni Battista de Blasis

COME SCRIVEVAMO

Cronaca di una figuraccia annunciata di Hari Seldon Più di venti anni di pubblicazioni hanno conferito al mensile Polizia Penitenziaria Società Giustizia & Sicurezza la dignità di qualificata fonte storica, oltre quella di autorevole voce di opinione. La consapevolezza di aver acquisito questo ruolo ci ha convinto dell’opportunità di introdurre una rubrica - Come Scrivevamo che contenga una copia anastatica di un articolo di particolare interesse storico pubblicato tanti anni addietro. A corredo dell’articolo abbiamo ritenuto di riprodurre la copertina, l’indice e la vignetta del numero originale della Rivista nel quale fu pubblicato.

I

l 20 luglio, nel pomeriggio afoso della canicola romana, si è concluso il tour de force delle trattative per il rinnovo del contratto collettivo di lavoro per le Forze di Polizia e Forze Armate ricomprese nel Comparto Sicurezza istituito dal D.Lgs. 195 del 12 maggio 1995. Nella splendida cornice della Sala Stoppani di Palazzo Vidoni - sede del Dipartimento della Funzione Pubblica - s’è svolta la cerimonia (perchè di questo si è trattato) per la firma del “Contratto”. La sala, per l’occasione, era gremita come non mai davanti ai flash dei fotografi ed alle telecamere della tivvù. Stelle e stellette da far invidia alla Via Lattea; mezzo Governo; Burocrati d’alto lignaggio e le rappresentanze sindacali al gran completo. Unici assenti, con l’aggravante della recidività, il Ministro di Grazia e Giustizia Sua Severità Filippo Mancuso e Direttore e Vice Direttore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria, per i quali -poichè latitanti da sempre -è stato applicato il “rito contumace”. Dall’altra parte è risultato assente ingiustificato (fortunatamente soltanto in un frangente) il buon senso. Ma veniamo alla cronaca della giornata. Il primo intervento è stato quello del Presidente del Tavolo Contrattuale Cons. Franco Frattini, Ministro per la Funzione Pubblica, il quale si è dichiarato soddisfatto dei risultati ed ha espresso un plauso alle 00.SS. per il grande senso di responsabilità dimostrato che ha determinato una assoluta omogeneità, seppure distinta, delle categorie. Lo stesso Frattini ha espresso viva soddisfazioni per la partecipazione nelle e per le nuove procedure contrattuali. Più o meno dello stesso tenore gli

interventi degli altri Ministri tutti improntati ad un senso di soddisfazione e di ringraziamento alla assennata partecipazione sindacale. Gli interventi si sono così susseguiti: Ministro dell’Interno R. Coronas, Ministro della Difesa D. Corcione, Ministro delle Finanze A. Fantozzi, Ministro delle Risorse Agricole D. Lucchetti; da ultimo (ed unico a parlare a nome d...) Sottosegretario alla Giustizia D. Marra.

Comandante Generale s’è sottratto al dovere (e soprattutto all’onore) di rappresentare - per lo Stato - il Corpo di appartenenza. In realtà, massimo rappresentante dell’Amministrazione, e quindi del Corpo di Polizia Penitenziaria, è stato

Il fatto, giacchè di per sè eloquente più d’ogni discorso, si commenterebbe da solo, ma non riesco, comunque, ad astenermi dall’esprimere grande rammarico e profonda indignazione a nome di un Corpo di Polizia dello Stato composto da 45.000 uomini da sempre orfano di riferimenti istituzionali quasi fosse figlio di un Dio minore. Non è un caso, infatti, che all’assenza di “Mancuso il censore” si sia anche aggiunta quella del neo Direttore Generale Salvatore Cianci e del suo Vice Salvatore Vecchione che, evidentemente, non si sentono affatto “Salvatori” di fatto oltre che di nome. Grave, gravissimo, l’episodio laddove nessun altro Dirigente Generale o

il Dott. Giuseppe Suraci, Vice Direttore dell’Ufficio Centrale del Personale, e pertanto - VICE del VICE del VICE del Direttore Generale! A tal riguardo mi esimo, prudentemente, dall’esprimere fino in fondo la mia opinione. Gli interventi della rappresentanza sindacale hanno espresso, più o meno concordamente, soddisfazione per aver chiuso una fatica di quattro mesi con un risultato abbastanza soddisfacente riconoscendo il contratto come il migliore possibile per l’attuale momento del Paese. Allo stesso tempo è stata evidenziata la positività della riunione del tavolo tra le 00.SS. maggioritarie (SIULP, SAP, SAPPe, ANSEGUFOR, CGIL, CISL e UIL) perchè il coordinamento delle Forze

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COME SCRIVEVAMO Sindacali ha consentito di raggiungere il massimo risultato. E’ stata sottolineata anche la soddisfazione per i momenti sinergici raggiunti con i COCER di Carabinieri e Guardia di Finanza. Tutti quanti hanno auspicato un futuro prossimo di grande collaborazione. Sulla stessa lunghezza d’onda si sono collocati anche i COCER i quali hanno rivendicato però maggiore incisività nelle trattative prossime venture. In particolare, il Gen. Carleschi, Presidente del COCER dei Carabinieri, ha richiamato l’attenzione del consesso (dopo le farneticazioni di Piras) sul fatto che veniva dato troppo spazio a chi vantava poche centinaia di iscritti a fronte del credito concesso a chi rappresentava più di centomila uomini.

nostri - sic! - OSAPP, SIALPe e SINAPPe). Questa è stata, a mio avviso, l’unica dimostrazione di assenza ingiustificata del buon senso da parte sindacale. (Per fortuna il “tribuno” Piras rappresenta con tutto il Polo a malapena il 5% del personale del Comparto). Il Segretario Generale del SIAP (unico nell’occasione) ha estratto una relazione scritta di almeno 10 pagine ed ha esordito con un «Noi diciamo no al contratto». Eppoi ha sciorinato una sequela di farneticazioni accusando tutti di «magheggi da armamentario massonico», evocando dalla sua parte (con cattivo gusto retorico) “morti e feriti” ed ha presuntuosamente dato lettura - integralmente - degli artt. 9,

ignoranza e piaggeria al potere. Al culmine del delirio oratorio si sono uditi citare i demoni di Hitler e Stalin, quali infelici metafore dell’attuale Governo. Fortunatamente, per lui e per tutti, appena capito il tono dell’intervento l’intera sala lo ha completamente ignorato e si è passati (mentre Piras continuava imperterrito a sciorinare parole) direttamente alle operazioni protocollari della firma. Morale della favola anche Piras, con tutti i suoi adepti, ha firmato il contratto. Ultimissimo accenno, anch’esso purtroppo negativo, sull’andamento delle trattative al tavolo tecnico. E’ stato notato, infatti, da più parti che negli incontri protrattisi nella notte (taluni fino alle 3 di mattina) nessun rappresentante del Ministero di Grazia

L’intervento del SAPPe - per bocca del Segretario Generale Capece - ha espresso, purtroppo, oltre alla soddisfazione per la stipula del contratto, l’indignazione per l’assenza dei diretti interlocutori istituzionali e non ha potuto fare a meno di comprendere la richiesta di dimissioni del Ministro Mancuso, e del Vice Direttore Generale Vecchione - considerata l’attenuante della fresca nomina per il Direttore Generale Cianci. Ultima annotazione, solo per l’onore della cronaca e per un tocco di colore, va fatta sull’intervento del Segretario Generale del S.I.A.P. (Sindacato Agenti Polizia di Stato) Piras a nome del cd. “Polo Sindacale” del quale, com’è noto, fanno parte i

18, 28, 34, 35, 52 e 54 della Costituzione accusando la classe politica (dimenticando che questo è un Governo di tecnici) di PAVIDITA’ e VIGLIACCHERIA e la Polizia di

e Giustizia è rimasto al suo posto sino alla fine, contrariamente al Dipartimento della Funzione Pubblica ed al Ministero dell’Interno immancabilmente presenti con

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Nelle foto: accanto al titolo la copertina del numero di settembre 1995 sotto alcune fasi della “cerimonia” per la firma del contratto

Á


COME SCRIVEVAMO l’intera delegazione fino al termine dei lavori (la nostra delegazione di parte pubblica abbandonava, man mano, alla chetichella, la riunione). Vero è che nessuno si è accorto della differenza, tenuto conto che le trattative si sono sempre svolte tra 00.SS. e Funzione Pubblica/Interno

Nei box: la vignetta ed il sommario del numero di settembre 1995

(e a volte il Tesoro) senza che i “Nostri” facessero sentire la propria voce e/o il proprio parere. D’aldronde anche la dislocazione fisica delle delegazioni era emblematica della valenza delle parti: Da un lato, compatte, le 00.SS., dall’altro - di fronte - Dipartimento

Funzione Pubblica con a destra gli Interni ed a sinistra il Tesoro. Ai margini del tavolo, e trasversalmente rispetto ad esso, sedeva il resto della delegazione di parte pubblica. Per non parlare dei rappresentanti! Per il Dipartimento della Pubblica

Sicurezza (nostro omologo diretto) Prefetto Ferrante, Vice Capo della Polizia equivalente - SI PARVA LICET COMPONERE MAGNIS - al nostro Vice Direttore Generale; per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziana Dott. Giuseppe Suraci, Vice Direttore dall’Ufficio CentraIe del Personale equivalente - credo - ad un Questore di P.S. Insomma, e per farla breve, se è vero - come è vero - che la nostra amministrazione lascia molto a desiderare nella gestione delle cose e nel governo del Personale se giudicata nella sua attività istituzionale; tanto più evidente è la sua impreparazione quando viene paragonata (com’è accaduto in occasione delle trattative) ad altre Amministrazioni (con la A maiuscola) dello Stato tanto che, per servirmi di una figura retorica mutuata dalla fisica, mi sento di definire la presenza del D.A.P. al tavolo contrattuale come un puro e semplice EPIFENOMENO. Arrivederci per la cronaca della prossima tornata contrattuale prevista - presumibilmente - entro la fine dell’anno. F

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Più tutela per la prevenzione degli infortuni

I

n materia di prevenzione infortuni gli adempimenti a carico di un imprenditore (cooperativa) che volesse avvalersi del lavoro dei detenuti si allineano a quelli richiesti nei confronti di ogni altro lavoratore interno all’amministrazione. Il Ministero della Giustizia, con regolamento in vigore dal 4 febbraio 2015, disciplina l’applicazione delle misure prevenzionistiche a tutela dell’incolumità psico-fisica dei lavoratori anche ai detenuti con conferme e peculiarità rispetto ai rapporti di lavoro “esterni”. Irrinunciabili, il servizio di prevenzione e protezione, il documento unico di valutazione dei rischi e la sorveglianza sanitaria, ma con i dovuti correttivi. Il lavoro è una componente essenziale del trattamento rieducativo dei condannati in espiazione di pena. Centinaia di edifici penitenziari richiedono quotidianamente manutenzione e periodicamente interventi di più ampio respiro; la sicurezza del lavoro (da chiunque espletata, interno o esterno alla struttura) deve essere compiutamente garantita, in modo da non compromettere la salute e le peculiari esigenze custodiali e di mantenimento dell’ordine e della disciplina. Il carcere non può essere luogo “vuoto di diritti”, anche perché lo Stato assume uno specifico impegno di protezione e tutela di chi - suo malgrado - diventa ospite della struttura. Questo principio vale sia per il personale operante negli istituti penitenziari (come agenti di Polizia Penitenziaria, psicologi ed educatori) sia per i detenuti lavoratori, che svolgono una certa attività. Le strutture giudiziarie e penitenziarie, in quanto luogo di lavoro, rientrano a pieno titolo nell’ambito di


SICUREZZA SUL LAVORO applicazione del D.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, recante il Testo Unico in materia di salute e sicurezza. Il detenuto che accetta opportunità lavorative in carcere deve poter espletare gli incombenti lavorativi senza essere esposto ai rischi di un ambiente insicuro e compromettente per la sua integrità fisica. In Italia non è previsto il lavoro forzato; il lavoro carcerario è previsto (e caldeggiato) come un’opportunità di impiego del tempo, di apprendimento di un mestiere che, in prospettiva, ne faciliti un reinserimento a fine pena nella società libera e infine, come fonte di reddito per migliorare le condizioni di vita in carcere, risarcire il danno da reato, pagare le spese processuali e di mantenimento in carcere, contribuire ai bisogni della famiglia. Comunque sia, forzato o volontario, svolto per conto dell’amministrazione penitenziaria o per entità esterne, il lavoro del detenuto non può non essere lavoro sicuro, esattamente come il lavoro di un soggetto libero. Lavoro carcerario - questa volta inteso come lavoro in carcere - è anche quello di chi è chiamato dall’esterno a svolgere la propria attività lavorativa in una struttura penitenziaria. Da un lato, il committente pubblica amministrazione deve mettere a disposizione un ambiente di lavoro

sicuro e con eventuali insidie segnalate e/o rimosse (DUVRI). Dall’altro, non possono venir trascurate le peculiari esigenze connesse al servizio istituzionale espletato e le specifiche peculiarità organizzative delle strutture giudiziarie penitenziarie. Il lavoro del detenuto e il lavoro che l’esterno espleta in luogo carcerario non devono diventare occasione per favorire evasioni o compromissioni dell’ordine e della

disciplina carceraria. Ne consegue l’importanza del decreto 18 novembre 2014 n. 201, in vigore dal 4 febbraio 2015, con cui il Ministero della Giustizia ha adottato il regolamento previsto dal Testo Unico della sicurezza sul lavoro in merito alle norme prevenzionistiche riguardanti non solo il personale operante negli istituti penitenziari ma anche gli stessi detenuti lavoratori. Fondamentale è che la sicurezza nel carcere è considerata valore subvalente rispetto alla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro (art. 2 comma 1): • la tutela della incolumità ed integrità fisica è il principio conduttore cui si devono adeguare le misure strutturali e organizzative necessarie per garantire la disciplina carceraria. Sempre l’art. 2 del D.M. elenca le esigenze da tener presenti comunque in occasione di esecuzione di lavori all’interno del circuito penitenziario: • si va dalla non interferenza con l’ordinato esercizio della funzione giurisdizionale, alla tutela della sicurezza dei luoghi da attentati a sabotaggi (mediante garanzia della piena operatività del personale di custodia) fino al mantenimento delle misure di rapida evacuazione dei detenuti (e del personale) in presenza di situazioni di pericolo, quali “idonei percorsi per l’esodo” (piano d’emergenza). In questa prospettiva, di considerazione del carcere alla stregua di un qualsiasi luogo di lavoro, viene ribadito che sono irrinunciabili il servizio di prevenzione e protezione, il documento unico di valutazione dei rischi da interferenze e la sorveglianza sanitaria. Ne consegue che, almeno in materia prevenzionistica, gli adempimenti a carico di un imprenditore che volesse avvalersi del lavoro dei detenuti non si discostano di molto da quelli richiesti nei confronti di ogni altro lavoratore. Logicamente, tuttavia, si impongono dei correttivi: • i servizi di vigilanza (da non confondere con il controllo sui detenuti) sono affidati “in via esclusiva” all’apposito servizio

istituito con riferimento alle strutture penitenziarie mentre, solo tra i lavoratori detenuti, non trovano applicazione - ai sensi dell’art. 2 comma 5 del decreto - gli artt. 47 e 50 del Testo Unico, con questo derogando all’istituzione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (siano essi

aziendali, territoriali o di sito) negli istituti penitenziari. I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (art. 4) del personale interno devono, inoltre, tener conto del fatto che quota dei lavoratori interessati è formata da detenuti, soggetti per definizione “meno liberi” di fare osservazioni critiche nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, ma di necessità destinatari di una tutela non minore rispetto a quella da assicurare ai lavoratori liberi che accedono alla struttura carceraria. In conclusione, si evince l’importanza di quest’ultimo decreto anche per tutti gli imprenditori che volessero fare domanda per usufruire, nella propria attività, del lavoro dei detenuti all’interno degli stessi istituti penitenziari. Purtroppo, ormai da anni, mancano veri incentivi tali da rendere economicamente allettante questa possibilità, tuttavia, anche una maggior chiarezza a livello normativo costituisce di per sé un passo in avanti indice di una rinnovata attenzione del legislatore. F

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a cura di Valter Pierozzi Dirigente Sappe Esperto di sicurezza sul lavoro valter60@live.it

Nelle foto: attrezzature e segnalazioni antinfortunistiche


a cura di Erremme rivista@sappe.it

LE RECENSIONI Nelson DeMille

LA PANTERA MONDADORI Edizioni pagg. 610 - euro 25,00

C

onfesso che quando scrivo di DeMille, uno dei più importanti scrittori di spy-story al mondo, un autore che ha venduto milioni di copie, sono “di parte”. Ho infatti ‘divorato’ tutti i suoi libri e sono tra i primi a correre in libreria non appena ho notizia di una sua nuova uscita. Riesce a non deludermi mai e questa sua ultima fatica, La Pantera, romanzo avvincente e di straordinaria attualità politica, ne è l’ennesima conferma. La trama è avvincente e lo stile di scrittura coinvolgente. John Corey è tornato: l’ex detective della omicidi di New York e adesso agente antiterrorismo è stato inviato in uno dei paesi più pericolosi del mondo, lo Yemen. Qui, assieme alla moglie, l’agente dell’FBI Kate Mayfield, deve catturare uno dei più alti strateghi di Al-Qaeda, l’uomo noto come “la Pantera”. Inafferrabile e spietato, è ricercato per innumerevoli atti di terrorismo, per numerose stragi e il governo degli Stati Uniti è pronto a tutto per fermarlo. Ma John e Kate sono ancora nuovi del gioco, non ne conoscono le regole, i giocatori, il punteggio. Sanno solo che c’è qualcosa che non

quadra nella loro missione – e che i cacciatori stanno per diventare le prede. Scandito da straordinari colpi di scena e raccontato dall’inimitabile voce di John Corey, splendidamente ambientato nell’inquietante scenario di un paese in cui nulla è ciò che sembra, La Pantera ci porta al cuore di un dubbio terribile e profondo: siamo in grado di distinguere fino in fondo i nostri nemici dai nostri alleati?

Paolo Bellotti

VISTI DA DENTRO ITACA Edizioni pagg. 160 - euro 13,00

Prima di giudicare un uomo, cammina per tre lune nelle sue scarpe”. Il richiamo a famoso e antico proverbio indiano è azzeccato e pertinente per raccontare questo bel libro nato dall’esperienza professionale dell’Autore. Paolo Bellotti è infatti un funzionario giuridico pedagogico in servizio nell’Istituto penale di Alessandria dopo essere stato per anni educatore, anche nel settore minorile, e presidente del Consorzio dei servizi sociali dell’alessandrino. E le storie che qui racconta sono storie vere, di vita vissuta, frutto dell’esperienza lavorativo dell’Autore e rielaborate in forma narrativa. I nomi dei protagonisti sono stati modificati ma le loro storie no. Un vecchio contadino fratricida, uno straniero omicida per gelosia, un sedicente megalomane agente segreto, un camorrista sono i protagonisti delle storie delle quali ci parla Bellotti: storie diverse tra loro, che si susseguono nelle centosessanta pagine di questo bel libro che si legge d’un fiato, che ci raccontano i percorsi umani tortuosi e complicati di chi commette reati e di come talvolta la loro psiche sia stata attraversata da traumi che l’hanno condizionata in profondità. Senza dare alcuna giustificazione o, men che meno, comprensione, Bellotti racconta

32 • Polizia Penitenziaria n.235 • gennaio 2016

queste storie ed aiuta a comprendere il senso del proverbio indiano citato in premessa.

M. Letizia Galati e Lucia Randazzo

LA MESSA ALLA PROVA NEL PROCESSO PENALE Le applicazioni pratiche della Legge n.67/2014

GIUFFRE’ Edizioni pagg. 180 - euro 24,00

I

l Probation, secondo la definizione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per mezzo delle Raccomandazioni n. R(2010)1 e n. R(92)16 descrive l’esecuzione in area penale esterna di sanzioni e misure, definite dalla legge ed imposte ad un autore di reato. Comprende una serie di attività ed interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica. Tutte le amministrazioni occidentali, compresa quella italiana, incaricate di tale parte dell’esecuzione penale condividono tale definizione. La messa alla prova è una forma di probation giudiziale innovativa nel settore degli adulti, introdotta con la legge 28 aprile 2014 n. 67 e consiste nella sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado, su richiesta di persona imputata per reati di minore allarme sociale. Con la sospensione del procedimento, l’imputato viene affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna per lo svolgimento di un programma di trattamento che prevede come attività obbligatorie, l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione gratuita in favore della collettività, l’attuazione di condotte riparative, volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché il risarcimento del danno dallo stesso cagionato e, ove possibile, l’attività di


LE RECENSIONI mediazione con la vittima del reato. Questo ottimo libro, edito da Giuffrè nella collana “Teoria e pratica”, raccoglie una disamina particolarmente approfondita del nuovo istituto giuridico della messa alla prova nel processo penale, sì da renderne la lettura e la consultazione assolutamente necessari per comprenderne finalità, obiettivi e prospettive nell’ambito di una nuova esecuzione della pena.

Leonardo Gori

IL RITORNO DEL COLONNELLO ARCIERI TEA Edizioni pagg. 360 - euro 14,00

U

na garanzia, Leonardo Gori. Ci consegna quest’ultima fatica letteraria ed è ancora una volta un mix di partecipazione e coinvolgimento per le imprese di Bruno Arcieri, il suo personaggio più singolare e più amato dalla narrativa gialla italiana. Prima capitano dei Carabinieri nell’Italia degli anni Trenta, poi ufficiale dei Servizi segreti nella Seconda guerra mondiale e infine inquieto senior citizen negli anni Sessanta del Novecento: un uomo, leale, che ha davvero servito lo Stato coniugando però al senso del dovere quello della critica, e che dello Stato ha condiviso ambiguità, disastri e grandezze, finendo col portarne le stesse cicatrici. La storia raccontata in questo romanza comincia a Parigi, nell’effervescente maggio del 1968. Tra i passanti che osservano dal marciapiede gli studenti in rivolta invadere i boulevard c’è anche lui, Bruno Arcieri. A Parigi Arcieri si sta nascondendo: da chi ha cercato di ucciderlo, dai ricordi, dai rimorsi, dai fantasmi del passato. Si fa chiamare Marcel, aiuta nella cucina di un bistrot e si è fatto pure crescere la barba. Ha trovato anche uno sguardo amico, quello di Marie, ma è inquieto, si sente braccato, ed è stufo di scappare. Così, quando gli «amici» gli consigliano di lasciare la città e

cercarsi un altro rifugio, magari in Spagna, Arcieri non ci sta. Sì, lascerà Parigi, ma per tornare a Firenze, per saldare i conti sospesi, fare chiarezza, forse giustizia, e combattere un’altra battaglia, anche se dovesse essere l’ultima. Alla fine di un viaggio avventuroso, l’uomo che il 15 maggio 1968 scende dal treno alla stazione di Santa Maria Novella non è più Marcel, è il colonnello dei Carabinieri Bruno Arcieri. È tornato, e non per stare a guardare...

Francesco Carrer e Sergio Garbarino

LAVORARE IN POLIZIA: STRESS E BURNOUT FRANCO ANGELI Edizioni pagg. 240 - euro 30,00

È

stato recentemente evidenziato, nel corso di un convegno specialistico, che il fenomeno dei suicidi tra gli appartenenti alle forze dell’Ordine ha assunto, specialmente negli ultimi anni, dimensioni preoccupanti, con un tasso fino ad 8 volte più alto della media nazionale e decine di centinaia di vittime, circa 600 negli ultimi dieci anni. Dati assolutamente impietosi per tutto il Comparto Sicurezza: negli ultimi 10 anni circa 150 poliziotti si sono suicidati. Simili i dati per quanto concerne i Carabinieri, tra il 2003 ed il 2013, il numero dei suicidi è stato di 149 persone. Tra gli appartenenti alle forze Armate (Esercito, Marina ed Aeronautica,), nel periodo 2003-2013 si sono contate 92 vittime di suicidio. Per quanto riguarda la Guardia di Finanza nel febbraio/marzo dell’anno scorso ben quattro Finanzieri si tolsero la vita. Dati certi dicono che dal 1996 al 2006, 74 finanzieri si sono tolti la vita: purtroppo, non si dispone di fati più recenti. La Polizia Penitenziaria è quella più colpita da questo disagio: dal 2000 al 2013 si sono tolti la vita più di 100 colleghi , a fronte di un organico di quasi 1/3 dei Carabinieri. Anche nella Forestale ci sono stati numerosi casi di suicidi.

Come si vede dai dati esposti, il tasso di suicidi tra Poliziotti, Carabinieri e Finanzieri arriva ad essere circa tre volte più alto rispetto alla media nazionale, mentre quello della Polizia penitenziaria è quasi 8 volte superiore! Eppure, se ne parla poco. Forse perché accettare il coinvolgimento, seppur in senso lato, delle Istituzioni nei suicidi dei propri dipendenti è difficile e impopolare, sia da un punto di vista delle responsabilità, che dalle misure di prevenzione che andrebbero adottate. Tale imbarazzo cresce ancor di più se ad essere le protagoniste di questo triste fenomeno sono le forze dell’Ordine. Nonostante i numeri così elevati e preoccupanti, dunque, c’è una scarsa conoscenza del problema da parte dei cittadini. Va a sanare questa colpevole mancanza di informazione sull’argomento il pregevole libro di Carrer e Garbarino, che affronta i problemi legati allo stress lavoro-correlato grazie a un osservatorio privilegiato: quello del medico della Polizia, ogni giorno a contatto con il disagio dei poliziotti. Proprio la stretta collaborazione fra un medico-ricercatore (Garbarino) e un criminologo (Carrer) ha prodotto la rilettura originale del vissuto dei poliziotti, dello stress correlato al loro lavoro e dell’impatto che questo ha sulla loro vita: stress, burnout, sindrome da stress post-traumatico, ansia, insonnia fino alla depressione e, nei casi più estremi, suicidio. Un’opera eccellente, che merita di essere letta e presa come punto di riferimento dalle Autorità competenti per dare corso a efficaci interventi per il benessere organizzativo degli Operatori della Sicurezza appartenenti ai vari Corpi di Polizia dello Stato e delle Forze Armate. F

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L’ULTIMA PAGINA Il Convegno dell’appuntato Caputo di Mario Caputi e Giovanni Battista de Blasis © 1992-2016 rivista@sappe.it

NOI StIAMO quI A DISCutERE SE IL BICCHIERE è MEzzO PIENO O MEzzO VuOtO, MENtRE quELLI AL DAP C'HANNO IN MANO LA BOttIGLIA ...

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www.mariocaputi.it

Per ora é uscito il libro! Raccolta antologica delle vignette dell’Appuntato Caputo pubblicate dal 1994 al 2014 sulla Rivista mensile Polizia Penitenziaria - Società Giustizia & Sicurezza Da che parte é l’uscita? si puo’ acquistare in tutte le librerie laFeltrinelli oppure sui siti www.lafeltrinelli.it e www.ilmiolibro.it

Formato 15 x 23 cm Copertina morbida 240 pagine a colori ISBN: 9788891092052



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