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DIRITTO E DIRITTI

GiovanniPassaro rivista@sappe.it

La lingua segreta dei tatuaggi sulla persona detenuta

D

a una ricerca svolta presso le carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia femminile, in tema di “tatuaggi sulla persona detenuta”, è emerso come la modalità di comunicazione non verbale della popolazione detenuta nel corso degli anni ha subito una profonda trasformazione.

Nelle foto: sopra i “cinque punti della malavita” al centro una attrezzatura “artigianale” per tatuaggi

In passato, tatuarsi in carcere ostentava l’essere stato in “galera” (anche perché i tatuaggi realizzati con il metodo della "puntura a mano" creavano segni distintamente imperfetti, quindi con un aspetto più primitivo), rappresentava motivo di orgoglio, ovvero, intimava rispetto nel gergo carcerario ed incuteva timore nelle persone della società libera. Le prigioni sono state per molto tempo luogo di prova per alcuni detenuti che praticavano l’art tattoo per avere in cambio favori materiali o protezione da parte di altri carcerati. Ovviamente i tatuatori che realizzavano i loro lavori in galera non avevano a disposizione le strumentazioni adatte, né gli inchiostri adeguati alla realizzazione di tatuaggi così come siamo abituati a vederli.

Per questo motivo i tatuaggi realizzati in carcere erano ben distinguibili da quelli professionali; si trattava infatti di disegni eseguiti con tratti incerti e con pigmenti scadenti che scolorivano facilmente e presentavano sfumature assolutamente imprecise e decisamente poco estetiche. Il segno distintivo per documentare il passaggio nelle patrie galere era il tatuaggio, una vera e propria cultura, nonché, segno di autoespressione; tra gli esempi più significativi si annoverano i “cinque punti della malavita” (quattro punti con uno al centro) sul dorso della mano atti a rappresentare l’essere chiuso tra le quattro mura della cella. La posizione di questo tatuaggio permetteva di esternare l’appartenenza alla criminalità organizzata all’atto della stretta di mano con le persone con cui si veniva in contatto. In sostanza, il soggetto che possedeva il tatuaggio appariva compiaciuto dal tributato rispetto e ammirazione chiaro segno di soggezione. C’era una suggestione esoterica latente, un’atmosfera d’iniziazione, che prendeva la testa e solo dopo la pancia dell’osservatore che, se aveva il coraggio di non fuggire spaventato, si trovava inevitabilmente ad interrogarsi, a porsi domande, con il timore e la riverenza dovuti, come di fronte ad un alchimista, un essere superiore. Oggi, la “cultura detentiva” si è dovuta conformare al progresso tecnologico che con il diffondersi delle telecamere di sorveglianza risentiva dei tatuaggi come segno di riconoscimento per gli investigatori. Quindi nei tempi moderni tatuarsi simboli “vicino” alla cultura criminale, quali farfalle (simbolo di libertà), la bara (espressione di “meglio morto che infame”, non tradire, non fare nomi), ecc. è

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considerato, dagli ambienti malavitosi, come atteggiamento immaturo e gradasso. Infatti, la criminalità organizzata nell’accurata selezione dei propri adepti predilige persone incensurate, che non attirino l’attenzione delle forze dell’ordine per portare a termine malaffari.

Un tempo, tatuarsi era proprio di criminali e marginali. Oggi, è un comportamento mainstream, non senza qualche riserva, anche perché le tecniche di realizzazione del tatuaggio in carcere sono migliorate con l’utilizzo improprio dell’impianto elettronico del lettore mp3 per la costruzione delle macchinette artigianali, nonostante il divieto posto dal regolamento sull’ordinamento penitenziario, con il conseguente risultato che è quasi impercettibile all’occhio umano la differenza tra tatuaggi eseguiti da un professionista e quelli realizzati in carcere. Il tatuaggio è diventato un vero e proprio fenomeno di massa, conservando il sapore di una piccola ed eccitante trasgressione.


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