FANTASTICO #3

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Fantastico! ─ #3 autunno 2020

NOMI. COSE. CITTÀ.

NUMERO #3 12 racconti 10 interviste 3 rubriche 1 cruciverba 1 playlist



«Personalmente continuo ad avvertire la presenza di qualcosa che si trova dall’altra parte delle cose, per questo non smetterò mai di cercare». Julio Cortázar Bestiario

«Chiedo a chi organizza il mondo perché è tutto così grigio E il pomeriggio è già tutto buio Perché ho dimenticato il cellulare in ufficio E ho il cuore così in gola che o muoio o lo ingoio». Dargen D'Amico Malpensandoti



Dai un'occhiata al futuro Editoriale fantastico di Ilenia Adornato

I futuri migliori prendono spesso la rincorsa dai presenti incerti e, data l’incertezza di questo presente, il nostro sarà un futuro straordinario: il Disneyland Paris dei futuri. Ricordate la scena di (500) giorni insieme (riferimento cinematografico altissimo) in cui il protagonista, Tom, è così euforico per la sua cotta da mettersi a ballare per strada? Tom saltella, improvvisa coreografie, sorride smaccatamente e abbraccia i passanti. Ecco, immagino così il termine di questa pandemia incontrollata. Ci immagino felici e grati al punto da organizzare un Coachella a Canicattì. Che stramberia. Sogno, ma non so che cosa sia avvenuto nel cosmo nel momento in cui starete leggendo queste righe; spero siano state solo cose assai belle. Mentre io scrivo, l’autunno ammanta gli alberi in giardino e Conte emana l’ultimo DPCM: «Il decreto raccomanda fortemente di evitare feste e riunioni tra oltre sei persone non conviventi»: ricorderemo questo spettacolo d’arte varia per sempre. Intanto, sui social, le opinioni contrastanti e le corse al titolone ci regalano la stabilità emotiva di un cavallo a dondolo e la vita offline è tutta una fila, un controllo temperatura, un dispenser di gel alcolico. Poi ci siamo noi che cerchiamo di riparare la realtà adattandoci a questa impermanenza. Tutto questo passerà. Dobbiamo solo essere pazienti, smontare e rimontare la realtà e poi riprenderci tutto: le corse in aeroporto, i concerti tra la gente, gli anziani che ballano il liscio alle sagre, le partite dalle tribune affollate e tutti i baci sotto casa che non ci siamo dati. Sarà molto bello. Sappiamo dove siamo solo quando corriamo il rischio di non saperlo per scoprirlo. E noi in questi mesi non sappiamo neppure se la luce del frigorifero si spegne davvero quando lo chiudiamo. Una delle poche cose che sappiamo è che questo che avete tra le mani è il terzo numero di questa creatura chiamata Fantastico! Siamo ufficialmente diventati un oggetto, che felicità! Alberto, con il quale condivido la direzione editoriale della rivista, ha desiderato questo passaggio alla carta con tutto se stesso. «Parti dal poco, basta una piccola idea, ma netta, precisa, che s’accampi sulla pagina. Su quella bava di ragno potrai sviluppare la ragnatela delle parole», per costruire questo numero della rivista siamo partiti dalla bava di ragno suggerita da Calvino: le idee fantastiche. Le idee fantastiche sono diventate parole. E le parole, una volta scritte, esistono. In questo numero autunnale ci sono i racconti degli autori fantastici, valanghe di domande e risposte, i preziosi stralci di due case editrici, le foto, le colonne sonore e l’immancabile cruciverba. Parliamo di parole, romanzi, donne, cibo e memoria. Intervistiamo un Premio Campiello e una sociolinguista, un editor e un’antropologa. Mettiamo insieme Gué Pequeno e la poesia spaccacuore. Insomma: roba emozionante. Benvenuti sul terzo numero di Fantastico!, la rivista. Un periodico intimo come una storia d’amore, irresistibile come un libro d’avventura, potente come la promessa di un mondo più giusto. Postilla Se non ci fossero le persone elencate alla voce “Citofonare Fantastico”, questo numero non esisterebbe. Quindi, ecco: grazie. Potrei scrivere un “Fantastico! siete voi”, ma mi sentirei scema. E grazie a tutti voi che ci leggete e supportate da quasi due anni. Se esistesse un termometro per misurare la gratitudine, esploderebbe. Boom.



Contenuti fantastici 9

Potere alle parole | intervista a Vera Gheno

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Saudade | Lorenzo Cittadini

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La lingua segnata di Liborio Bonfiglio | intervista a Remo Rapino

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Il maratoneta (Marcos y Marcos) | William Goldman

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La memoria che usi per ricordarmi | Giulia Fuso

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Tu chiamale se vuoi emozioni, la rabbia | a cura di Antonella Dilorenzo

24

Maestoso è l'abbandono | Intervista a Sara Gamberini

27

V A L D E R R A M A | Alessandro Maynam

33

Cibo e parole: non sono due mondi poi così distanti | intervista a Mariachiara Montera

37

Quello che i rapper non dicono | Giulio Armeni di Storia d'aa filosofia coatta

42

Fenomenologia di un corpo elettrico | intervista a Jennifer Guerra

44

Amanita mia | Sara Pilastro

45

Scrivere con le orecchie | intervista a Fabio Stassi

49

Viaggi a chiocciola | Anna Di Prima

53

Scrivimi quando arrivi | Francesco Raco

58

Non sono sicura che io esista | foto di Carolina Merlo

62

Sono solo parole | Johnny Shock

64

Noi non abbiamo colpa | intervista a Marta Zura-Puntaroni

67

Tre movimenti e un epilogo | Urfidia

70

Cartacei cartacei | intervista a Chiara Gandolfi

73

La solitudine del manager | Lerio

78

Il numero sette | #1 intervista a Giulia Zollino, #2 intervista a Donata Columbro

82

Le cose inutili (pièdimosca edizioni) | Carlo Sperduti

84

Gli altri fanno volume (pièdimosca edizioni) | Angelo Calvisi

87

La porta è sempre aperta | michiamanofab

89

Fantastico! mixtape

90

Sinusoidi controfase | Shadia Ceres

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Cruciverba | a cura de Il Piccolo

95

Fai una lista | Alberto bebo Guidetti

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Citofonare Fantastico!



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Potere alle parole

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intervista a Vera Gheno di Ilenia Adornato Vera Gheno è una traduttrice e sociolinguista specializzata in comunicazione digitale. Insegna all’Università di Firenze, collabora con la casa editrice Zanichelli, scrive valanghe di post e di libri illuminanti. Qui ci parla della potenza delle parole e dell’importanza del silenzio, di Femminili Singolari e di impacchi all’henné. «Ognuno di noi è le parole che sceglie: conoscerne il significato e saperle usare nel modo giusto e al momento giusto ci dà un potere enorme, forse il più grande di tutti». Rubo le parole dalla quarta di copertina del tuo ultimo libro, Potere alle parole, per chiederti: Come si selezionano le parole adatte a raccontare le cose? Io mi affido a tre coordinate, se così vogliamo chiamarle: il contesto, gli interlocutori e l'intenzione comunicativa. Sono le domande che mi faccio tutte le volte che devo usare le parole, e mi aiutano a non sbagliare parole – o meglio, riducono la possibilità di fare errori gravi. Dopodiché non mi illudo che esista un modo ideale di comunicare, ma almeno ci provo. Ricordi il momento in cui hai trovato le parole giuste per descriverti? Mica l’ho trovato! Diciamo che a un certo punto mi sono detta: «Ok, posso dirmi sociolinguista», e questo aver trovato un’etichetta professionale mi ha aiutata a “centrarmi”. Ma sono in perenne ricerca, come credo la maggior parte di noi. Il nickname ‟A wandering sociolinguist", la sociolinguista errante, in fondo fa riferimento anche a una mia condizione esistenziale, a tutt’oggi abbastanza irrisolta (ma non infelice, alla fin fine). «Siamo noi a nominare le cose, a decidere come chiamarle. Un potere immenso; anche perché il modo con cui chiamiamo le cose non è indifferente, dato che ne metterà in luce aspetti diversi. Perché esistono i sinonimi, per esempio? Perché non inventare un sistema semplificato in cui a ogni cosa o concetto corrisponde uno e un solo cartellino? Non sarebbe tutto più semplice? Certo; solo che perderemmo molte possibilità espressive: ognuno di noi ha, invece, modo di dire con parole sue quello che percepisce della realtà». Potere alle parole Einaudi, 2019

Come sta la lingua italiana oggi? Diceva Tullio De Mauro che l’italiano non è mai stato meglio. In fondo, quando mai è stato parlato da così tante persone e usato per scopi così differenti? Sono d’accordo con lui, e con il fatto che casomai la nostra sensazione che l’italiano stia male è legata al fatto che oggi, molto più di una volta, il discorso pubblico non è riservato solo alle persone in grado di comunicare bene, ma abbiamo tutti acquisito una sorta di megafono. Hanno visibilità livelli di uso della lingua che prima rimanevano per lo più nascosti. Poi, ovviamente, De Mauro aggiungeva che l’italiano sta bene, sì, ma un po’ meno gli italiani (da un punto di vista culturale). E su questo ultimo punto dovremmo lavorare... Fantastico! appaga l’esigenza di sfuggire dalle sgrammaticature e dalle narrazioni imbruttite presenti sui social. Tu, quindi, sei la nostra dea, la nostra Sailor sociolinguista. Come combatti la guerra alle sgrammaticature? Non amo le metafore di guerra: sono sulla linea del mio collega Federico Faloppa che, in riferimento alla narrazione della pandemia,


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giustamente nota come l’uso di topoi narrativi di ambito bellico porti con sé una serie di conseguenze francamente poco desiderabili, come ad esempio la proliferazione di figure nemiche. Abbraccio più la filosofia del nudge, della spinta gentile. Ho notato, nel corso di molti anni di attività, che la stragrande maggioranza delle persone ama riflettere sul proprio modo di comunicare, se guidata a farlo con gentilezza. Più che altro, cerco di fare questo: far vedere a chi ho di fronte il vantaggio di governare le parole, là dove un uso distratto, invece, non può che provocare disagi e fastidi. Anche la ridefinizione del femminile passa dalle parole. In Femminili Singolari tu smonti con accuratezza tutte le convinzioni linguistiche della comunità italiana, rintracciandone l’inclinazione maschilista. Ha senso mantenere distinzioni tra mestieri al femminile e mestieri al maschile? E perché mai dovrebbe avere senso? Una delle repliche che sento più spesso sui social è “i mestieri sono neutri, ‘architetto’ vale sia per il maschio sia per la femmina”. Mi chiedo sempre se chi fa queste affermazioni si è mai fermato a pensare che sono molti di più i mestieri che decliniamo tranquillamente al femminile che non quelli che facciamo fatica a declinare: perché per maestra, operaia, sarta, regina, contadina eccetera non varrebbe questa regola della neutralità dei mestieri e dei ruoli? Semplice, perché a questi siamo abituati, a ministra, assessora, questora, avvocata no. L’unica vera differenza è l’abitudine, anzi, l’inerzia linguistica. Solo che, siccome diventiamo tutti un po’ “inerti”, linguisticamente parlando, ci inventiamo regole inesistenti. I mestieri non sono neutri nel momento in cui ci rivolgiamo a una persona che svolge un certo mestiere, e questo è quanto prescrive la norma della nostra lingua. Il problema, infatti, non è linguistico, ma decisamente socioculturale. Alda Merini scriveva: «Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire». Che importanza hanno i silenzi nella scrittura e nella narrazione? Un’importanza enorme, spesso sottovalutata. Il silenzio non è mancanza di comunicazione, ma comunicazione a sua volta. E va saputo gestire nel migliore dei modi. Non a caso, sto scrivendo un libro proprio su quello che io chiamo «metodo DRS» ossia dubbio, riflessione, silenzio: per me, le pietre angolari del mio modo di comunicare. Ho amato il tuo approfondimento per Internazionale Kids. Come si trasmette l’amore per le parole ai bambini? Mi viene in mente solo una cosa: dando l’esempio. Una delle riflessioni più importanti della sociolinguistica è che noi siamo linguisticamente frutto del nostro ambiente; se un bambino cresce in un contesto culturalmente e linguisticamente deprivato, avrà più difficoltà ad assaporare la gioia, il potere della parola. Io sto cercando di insegnare a mia figlia, che ha quasi tredici anni, a essere curiosa rispetto a tutto ciò che l’ambiente attorno a lei può comunicarle. Certo, mi piacerebbe anche che leggesse di più, ma... Intanto mi accontento di stimolare la sua curiosità linguistica.


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La tua parola preferita. Non ne ho una, perché penso che le parole servano tutte. Questo mi impedisce di sceglierne una preferita. Forse, le mie parole preferite sono i nomi delle persone che amo. Dove possiamo leggerti, vederti, ascoltarti nei prossimi mesi? Dal lunedì al venerdì dalle 15:30 alle 16:00 conduco un programma su Radio1Rai, Linguacce, con Carlo Cianetti. Per il resto, giro tantissimo e il modo più semplice per sapere dove trovarmi è seguire il mio profilo su Facebook: da brava rappresentante della generazione X quale sono, è il social che aggiorno di più. Come prepari l’henné? In maniera molto spartana: aggiungo acqua calda, aspetto qualche ora e mi metto la pappa in testa per almeno tre ore. Il tutto coperto da una cuffia da doccia e da un berretto di lana per tenere l’impacco al caldo. Poi risciacquo e metto un balsamo sulle punte, altrimenti mi vengono i capelli secchissimi. Sono dieci anni che mi faccio l’henné e alla fine questo metodo con me funziona... Posto che la polvere sia di ottima qualità e abbia un buon potere colorante!


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Saudade

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di Lorenzo Cittadini

L’odore del caffè mi ha raggiunto sino ai piedi del letto alle prime luci, ha intriso la coperta calda di sogni, mi ha dato il buongiorno svegliandomi. L’aroma fresco e pungente, droga per i sensi, svuotato di realtà, mi sono ritrovato al tavolino del bar di Lisbona dove Fernando Pessoa trascorreva le sue mattine. Poi, scritta l’ennesima lettera, sono sceso dal miradouro de Santa Luiza e mi sono incamminato verso Belém, confortato dalla luce riflessa delle onde di un Tago nostalgico, note colorate di saudade amica. Il Cristo re brillava al di là del fiume e benediceva le vite, ferite di questa gente appuntita dalla lingua veloce. Ho preso un tram, come il poeta sono andato a trovare i pescatori dell’Alfama, ho riso con loro, gesti decisi consumati dal mestiere. Di nuovo in cammino in questa città che stringo al petto come una fotografia dai contorni sbiaditi che racconta di tempi lontani. Ho comprato un giornale lungo il marciapiede all’angolo, da un ragazzino dal viso stretto simpatico, ho fatto i complimenti a una meravigliosa lusitana, accennando un portoghese zoppicante, imbevuto di azzardi linguistici. Mi sono ritrovato al Barrio Alto, ripulito dalla notte di festa, i cani fuggivano da un muro all’altro, arcobaleno di odori per il loro fiuto, camerieri stanchi dei resti di follia che hanno macchiato vetri e tavolini. A riportarmi in vita un anziano signore che sorseggiava il suo caffè, un buffo cappello e occhiali tondi neri. Ecco, sento di nuovo l’aroma carezzarmi il volto e farmi alzare. Passi lenti da gigante, allungo i muscoli e oltre la libreria scorgo il cofanetto dove conservo all’asciutto i miei sigari, le copie dei dischi registrati e dei libri scritti che tengo come archivio personale. Ah che voglia di un sigaro all’alba al mare d’estate, passeggiando distratto, inventando l’ennesimo personaggio. Si dissolve la densa nebbia dagli occhi e suona la sirena di un nuovo giorno. Apro così Viaggi e altri viaggi di Antonio Tabucchi: ritrovo la lettura sospesa proprio mentre l’autore si muove nella sua Lisbona, nella Lisbona di Fernando Pessoa, nella Lisbona di tutti i Fernando Pessoa. Per Tabucchi il poeta portoghese è un faro, guida, passi da seguire perché conducono alla verità ricercata, rapito dall’essenza lusitana, una verità trovata tra i caffè letterari della capitale, il Tago e gli azulejos del miradouro. Una verità dipinta di saudade, sentimento nascosto, enigma, riflesso dell’anima, inclinazione e disposizione a uscire da sé stessi per rientrarci, esperienza sensoriale, distillato di luce al tramonto e futuro soffocato, momenti unici dei quali sappiamo che non rivedremo la forma, consapevoli di aver toccato la bellezza, una ferita che fa male, ma che viene dalla meraviglia. Non la si può spiegare la saudade, non è nostalgia e basta, dentro di sé ospita la solitudine, da cui viene il nome, c’è malinconia certamente; non c’è solo il passato, ecco spuntare il futuro. È quella nostalgia per qualcosa che vorremmo si realizzasse o quel sentimento che ci fa mancare il momento che stiamo vivendo proprio nel momento in cui lo stiamo vivendo. Ecco la saudade. Anch’io come Tabucchi ho contemplato la nebbia illuminata dei lampioni che danno sul Tago; mi trovavo sempre a Belém, anni fa, con Giovanni e Marino, fedeli compagni di viaggio al mio fianco. In quel momento però ero solo, perché la saudade è un soffio solitario, è un passo nel vuoto, è una mano tesa verso di noi che ci invita a cogliere il fragile, il passeggero, la bellezza in transito, il dettaglio e l’amarezza, dolore e potenza, farli nostri in un istante. Su quella panchina che non concedeva molto alla vista la saudade era la luce debole sulle case, angolo soffuso dell’anima, periferia di un sentimento talvolta stanco, assopito, defilato. Saudade dialogo


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intimo, voce che sussurra dolcezze andate, rimpianto per non goderne nel futuro, è una croce da portare, specchio inevitabile dell’incertezza che l’oceano urla dal cuore del mondo. Da quel punto mai dicibile, dall’ignoto più profondo che si concede ferendoci lo spirito, dicendo che a volte non c’è risposta al mondo, che siamo tessere di un mosaico, bagagli in bilico sul precipizio a cui è concesso il sentimento, la percezione, l’intuizione, l’amore e niente più. Forse la saudade è il migliore dei sentimenti che l’uomo può provare, o forse no, è solo un macigno in più su queste sabbie mobili che ci affogano e dalle quali dobbiamo salvarci. La saudade non ha risposta, esiste e ci dobbiamo fare i conti. Nessun giudice, nessun valore, esiste e non infrange nessuna regola. Non è per tutti, non tutti ne fanno esperienza, ma questo è normale, come ogni cosa. Tutti però possono provarla, a patto che si abbandoni qualsiasi peso o zavorra, che si esca da sé, come nel vero viaggio, direbbe Franco Riva, troncando ogni ponte che ci riporta a casa, costruendone altri per proseguire, trovando un nuovo cammino per poi rientrare. Saudade impossibile, eterna, straziante e meravigliosa.


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La lingua segnata di Liborio Bonfiglio

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intervista a Remo Rapino di Modestina Cedola Siamo impastati tutti diversi, ma con gli stessi ingredienti, anche se facciamo fatica a riconoscerci negli altri, soprattutto quando l’altro è un “cocciamatte” come Liborio Bonfiglio. Troppi segni neri per potergli stare vicino, meglio fargli i quiz o portarlo a bere che lo spettacolo è assicurato, più che al cinematografo. Liborio Bonfiglio raccontandoci la sua vita ci riporta la storia italiana dell’ultimo secolo vista dalla sua prospettiva marginale. Sì, perché la storia non la fanno solo gli eroi. La storia tocca tutti, anche se solo alcuni finiscono nei libri. Anzi no, adesso in un libro ci è finito pure Liborio Bonfiglio. Ne abbiamo parlato con Remo Rapino autore per minimum fax di Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio. Liborio dice di sé che «di quelli come lui non ci si può mica ricordare», eppure è intorno al ricordo che costruisce la sua esistenza. L’epitaffio da scrivere sulla sua lapide per tramandare il suo ricordo a quelli che verranno. Il suo farsi memoria per Ermes Venturi. Il lavorio incessante della sua mente intorno alle esperienze di vita vissuta. Il racconto della sua storia consegnata a noi lettori come promemoria della recente storia italiana. In effetti la figura di Liborio si snoda attraverso diversi frammenti di memoria: gli eventi di un secolo, i personaggi che lo accompagnano, i suoi giorni. Un racconto di sé che si fa racconto di un Paese, visto da una periferia esistenziale, dai margini del tempo e dello spazio, eppure vera e preziosa, specie nel momento in cui dà voce a chi non ha voce, agli ultimi della fila , a testimonianza che la storia non la fanno soltanto «quelli che hanno letto un milione di libri» ma anche «quelli che non sanno nemmeno parlare» (Francesco De Gregori, La storia siamo noi).

Remo Rapino è stato insegnante di filosofia nei licei. Vive a Lanciano. Ha pubblicato i racconti Esercizi di ribellione (Carabba, 2012) e alcune raccolte di poesia, tra cui La profezia di Kavafis (Moby-dick, 2003) e Le biciclette alle case di ringhiera (Tabula Fati, 2017). Nel 2020 ha vinto il Premio Campiello con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax, 2019).

Una delle caratteristiche che più mi ha colpito di Liborio Bonfiglio, e che per me lo distingue dagli altri, è la creanza. Anche Liborio riconosce alcune stranezze negli altri, ma tace per non ferirli. È una cosa che sembra piccola, ma che dice molto di lui e di chi gli sta intorno. Liborio, forse, non è felice, ma non vorrebbe mai essere felice sull’infelicità degli altri. Ogni suo gesto, alla fin fine, è un gesto d’amore verso gli altri (quelli là), quasi consapevole che non amare gli uomini è come essere morti alla terra. I suoi valori (fratellanza, solidarietà ecc.) sono valori sconfitti dalla società moderna e capitalistica. Il suo senso di amicizia realizza, spesso, una relazione, una coincidenza di anime. Questa la sua creanza, la sua innata gentilezza, nata, nello stesso tempo dal dolore e dalla meraviglia rispetto alle cose del mondo. Una mia cara zia ottantenne una volta mi disse che il vero problema che affligge la nostra società è la solitudine. Liborio sarebbe d’accordo?


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Certo. Liborio vive il senso della solitudine per tutta la vita. Ma la vecchiaia è l’età in cui, forse, la si sente maggiormente. Da noi un detto popolare, tra ironia e tristezza, dice «Sciaccise la vicchjiaie» (Sia maledetta la vecchiaia). La vecchiaia, però, è anche memoria, nostalgia dolce, tranquillità d’animo, ricerca d’altro. Come per la follia se ne potrebbe fare un elogio da Seneca a Bobbio a Bloch, che addirittura la rovescia in Il principio speranza. Nel sogno puoi essere quello che vuoi, nella realtà no perché spesso ci pensano gli altri a farti indossare un vestito senza nemmeno chiederti se è della tua taglia. È quello che succede a Liborio e ai suoi segni neri che vengono ben presto bollati senza appello nel paese dove nasce. Liborio non è parte integrante della comunità, ma il cocciamatte del paese di cui prendersi gioco. A Bologna e Bagnacavallo le cose vanno diversamente, anche se è solo, Liborio si sente parte di una comunità. Si sente riconosciuto e trattato da pari assaporando a tratti una sorta di felicità. Liborio, a ben vedere, non è mai tristemente solo, ma vive la comunità. Anche quando è isolato lui lotta per essere accolto, per appartenere alla Polis. Non solo attraverso il lavoro o altre esperienze. Accanto ai segni neri ci sono anche le «cattiverie rivoltose», un modo di far parte del mondo. Liborio con il suo piccolo cartello «VERGOGNA» tra le mani sottolinea le ingiustizie dei prepotenti perpetrate ai danni dei più deboli. Dove andrebbe a manifestare oggi Liborio? Questa considerazione dimostra la verità di quanto sopra. I luoghi della vergogna, oggi come ieri, sono molteplici a causa delle inammissibili, vergognose appunto, ingiustizie sociali a livello mondiale, a causa del sistema economico-finanziario dominante. Liborio manifesterebbe, col suo cartello, contro la guerra, per più giusti contratti di lavoro, contro il precariato, per la difesa dell’ambiente. Con una battuta: in cielo, in terra e in ogni luogo. Liborio vede tramontare il sogno del comunismo e l’avanzata del capitalismo che infesta con la sua fretta il lavoro e le persone. Fin dalla più tenera età per campare si adatta a qualsiasi lavoro, ma è nella terra e nei suoi ritmi che impara che ogni cosa ha un suo tempo. Liborio, cammina, costantemente, ogni giorno, sui sentieri, difficili, ma necessari, del sogno, dell’utopia. Egli sa ascoltare la vita, fino alla fine quando getta il suo ultimo grido di sfida: «Ma scine, vediamo che cazzo succede», sa aspettare, non sta mai fermo, dappertutto, si muove. Del resto il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente (per dirla con il Marx de L’Ideologia tedesca). E Liborio, in un modo o nell’altro, si ritrova dentro quel movimento reale. L’altro giorno alla radio ho sentito una canzone di Samuele Bersani che a un certo punto faceva «poi dopo una serie di giorni infelici venne fuori vestito di bianco sembrava una lucciola in mezzo a un blackout» e mi sono immaginata Liborio Bonfiglio con il suo camice bianco, sturlazza in


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bocca e gli occhi uguali a quelli del padre che cammina in mezzo ad un paese ancora tutto da aggiustare. Questa immagine ispirerebbe a Liborio un’altra lapide: Qui riposa Bonfiglio Liborio lucciola. Liborio è maestro nell’inventare lapidi. Bello immaginare un camposanto pieno di lapidi liboriane. Il folle come portatore di luce. D’altra parte la follia spesso esprime un’energia insopprimibile, che, se esplode, tende a rovesciare i codici sociali dominanti, le presunte certezze, le false verità. L’invenzione della lingua di Liborio ha una genesi? È una lingua che diventa il veicolo migliore (e necessario) per affezionarsi al suo pensare e al suo vivere, ma è anche una lingua che seppur d’invenzione non distanzia il lettore, non lo mette in difficoltà, anzi. La scrittura non può mai essere intesa come un meccanico rispecchiamento della realtà. La scrittura agisce sulla realtà sempre con una logica della trasformazione. Una logica che è anche sentimento. Inventare una storia è sempre molto meno complicato che inventare una lingua. Liborio si prova a scrivere su un quaderno, con una BIC nera, la sua vita e può scrivere solo così come parla: di qui un flusso parlato, che non è né italiano, né dialetto, ma un fiume di gergalismi, dialettismi, parole fantasiose, anche di origine medievale. Un parlare che produce anche effetti comici e divertenti. Un linguaggio della ragione che osserva e del cuore che sente. Il glossario è un gioco finale, ma il lettore, anche in aree geografiche lontane, comprende il senso ultimo di quel parlare strologando balbuzie. Fabio Stassi, in un’intervista su questo numero di Fantastico!, ci parla di quanto abbiamo ancora –̶ forse più che mai –̶ bisogno di innamorarci dei personaggi nei libri, spodestando un po’ questo mito della "grande storia". Tu da scrittore e da lettore che ne pensi? L’aver insegnato per molti anni Storia e Filosofia ha condizionato la scelta di fare di Liborio un protagonista sui generis. Sono sempre stato affascinato dalla cosiddetta “storia della marginalità” (pensiamo a Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, alle ricerche di Les Annales, altro ancora). La grande storia è solo una parte. Agli studenti leggevo Domande di un lettore operaio di Bertolt Brecht per far capire l’importanza dei “fuori margine”, la fatica degli uomini semplici, dei partigiani non indifferenti (Gramsci). Lo penso ancora, con forza e convinzione, come scrittore, come lettore e, soprattutto, come cittadino democratico e antifascista.


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di William Goldman traduzione di Tilde Arcelli Riva Marcos y Marcos, 2020

Prima dell’inizio Ogni volta che passava in macchina per Yorkville, Rosenbaum si arrabbiava, per principio. La zona della Ottantaseiesima est era l’ultima roccaforte dei crucchi di Manhattan, e prima sostituivano le vecchie birrerie con nuovi condomìni, meglio era. Non che Rosenbaum avesse sofferto personalmente durante la guerra – tutta la sua famiglia era in America dagli anni Venti – ma solo passare per strade dove si respirava mentalità teutonica avrebbe fatto venire i nervi a chiunque. Specie a Rosenbaum. Tutto gli faceva venire i nervi. Se un’ingiustizia osava passargli sotto il naso, lui l’afferrava e la strizzava con tutta la bile rimasta nel suo vecchio corpo settantottenne. I Giants che se ne andavano nel Jersey gli facevano venire i nervi; i negri gli facevano venire i nervi, ora più che mai, con la loro pretesa di essere come tutti gli altri; i Kennedy gli facevano venire i nervi; i comunisti, i film porno, le riviste sporche, il prezzo vertiginoso del pastrami, e potrei andare avanti all’infinito. Quel giorno di settembre era particolarmente stizzoso. Faceva caldo, stava andando a Newark ed era già in ritardo all’appuntamento con i suoi unici vecchi amici ancora in vita, che lo aspettavano per la settimanale partita a carte nella loro casa di riposo. Tre schiappe, ecco cos’erano, tre luridi giocatori, gente lurida, ma riuscivano ancora a respirare autonomamente, e a settantotto anni è già molto. Neanche a loro per la verità piaceva troppo Rosenbaum, e le partite finivano sempre a urla e insulti; eppure lui ci tornava sempre, perché non aveva ancora trovato un modo migliore di passare il giovedì, che già di per sé, con tutte le sue stramaledette ventiquattro ore, gli faceva venire i nervi in partenza. Una canzone diceva: “Il sabato è la sera più malinconica della settimana”, un’altra: “Lunedì, lunedì, perché mi tratti così?”, ma Rosenbaum sapeva che era il giovedì il giorno da tenere d’occhio. In vita sua, tutte le cose storte gli erano capitate di giovedì. S’era sposato di giovedì; i figli gli erano morti tutt’e due di giovedì, a distanza di anni, ma sempre di giovedì: e chi si aspetta di dover sopravvivere ai propri figli? Terribile. Rosenbaum aveva fumato tre pacchetti di sigarette al giorno per cinquantacinque anni, suo figlio non aveva mai fatto un tiro, e chi pensate si sia beccato il cancro? E sempre di giovedì gli avevano cavato i denti. La Ottantaseiesima era un caos. Gimbels East. Da quando Gimbels East era venuto nell’Ottantaseiesima strada, non potevi più farci affidamento. Era sempre stata la via più rapida per attraversare la città, dieci volte meglio della Settantanovesima; la Settantaduesima, poi, la facevano solo i turisti. No, bisognava prendere l’Ottantaseiesima per filare veramente, e ci mancava proprio che venisse quel Gimbels East a guastare tutto. Nessuno entrava a far spese da Gimbels East, salvo i negri. Nessun ebreo si sarebbe mai fatto sorprendere a fare acquisti in questo Gimbels. Non era Gimbels, questo; il vero Gimbels stava nella Trentaquattresima, di fronte a Macy’s, e quella nullità poteva farsi chiamare Gimbels finché voleva, per Rosenbaum restava solo un Gimbels di seconda scelta. Non voltò sull’Ottantaseiesima, ma proseguì lungo First Avenue fino all’Ottantasettesima, prima di girare a sinistra. Come numero, l’87 gli faceva girare le palle. La prima mammografia di sua moglie gli era costata


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1 Bellezza ebrea. [N.d.r] 2 Mach schnell: muoviti, datti una mossa. [N.d.r]

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appunto ottantasette dollari. E tutto per trovarsi davanti quel macellaio di lusso, farsi fare una foto e sentire la notizia. “C’è decisamente un nodulo nel seno sinistro di sua moglie” aveva cominciato il medico, e Rosenbaum, furioso per tanta imbecillità, s’era girato verso la sua pallida sposa e aveva detto: “Mia cara, siamo stati davvero fortunati a venire da questo geniale specialista. Gli diciamo che tu hai un nodulo nel seno sinistro e lui basandosi semplicemente su questa vaga informazione, è in grado di assicurarci con assoluta certezza che il nodulo è un nodulo”. Poi rivolgendosi al medico, un giovinastro probabilmente sposato con una bionda shiksa1: “Ma certo, c’è un nodulo nel seno sinistro, mio dio, lei sì che se ne intende di tette, non sono venuto qui a chiederle cos’è quella protuberanza sulla faccia – quella si chiama naso, non so se insegnano ancora queste cose all’università di medicina”. “Che spiritoso suo marito” aveva detto allora il medico guardando sua moglie, e lei aveva risposto stancamente: “Mica tanto”. L’Ottantasettesima sembrava scorrevole. Rosenbaum infilò la Second Avenue senza difficoltà, imbroccò perfettamente il verde e arrivò alla Third Avenue in un baleno. Aspettò con impazienza che scattasse il semaforo, diede due colpi al clacson prima che quell’affare si decidesse a obbedirgli, poi pigiò l’acceleratore e partì verso la Lexington. Dicevano tutti che guidava malissimo, anche in famiglia glielo ripetevano in continuazione, ma parlavano per dare aria ai denti. In trentacinque anni, nemmeno una multa. Qualche volta c’era mancato un soffio, certo, un paio di graffi qua e là, tre o quattro volte era quasi arrivato a fare a pugni: ma nemmeno una multa, che andassero tutti al diavolo, solo di criticarlo, solo di questo erano stati capaci, e di farlo penare. Rosenbaum cominciò a penare per conto suo all’angolo tra l’Ottantasettesima e Lexington Avenue. Il semaforo era rosso, e va bene – si può sopravvivere a un semaforo rosso. Ma l’auto davanti a lui era un maledetta Volkswagen nazista, che per di più stava in mezzo alla strada, in modo che lui non poteva affiancarla e darle la polvere quando sarebbe venuto verde. Rosenbaum suonò un paio di volte il clacson, borbottando fra sé, ma cosa ci si può aspettare da un imbecille in Volkswagen? Lui aveva sempre avuto delle Chevrolet, anche prima della guerra. Se ti intendi di macchine e non vuoi gettar via i quattrini, guidi una Chevrolet. A meno di essere scemi. Il semaforo passò al verde, ma la Volkswagen non si mosse. Rosenbaum suonò ancora il clacson, un po’ più forte, ma la macchina davanti a lui continuava a bloccarlo. Sentiva il motore che grattava, nel tentativo di accendersi. «Fatti da parte!» urlò Rosenbaum. «Smettila di grattare…» Finalmente la Volkswagen partì, attraversò la Lex e cominciò a costeggiare lentamente il retro di Gimbels East. Rosenbaum gli stava attaccato cercando di superarlo, ma la Volkswagen non mollava il centro della strada. D’un tratto il motore si spense di nuovo e la macchina scivolò per un po’, poi si fermò lentamente, bloccandolo in pieno. Rosenbaum si sporse dal finestrino, suonando i clacson a ripetizione, e si mise a urlare a gola spiegata: «Muoviti, muoviti, muoviti… che diavolo fai, sgombera, levati, imbecille, pericolo pubblico, muoviti con quella macchina o ti faccio muovere io…!». Dalla Volkswagen uscì una sola parola. «Langsamer!». Langsamer! Calma. Non te la prendere. Traducetelo come vi pare. Rosenbaum cominciava a sudare copiosamente, per il caldo e per la rabbia. «Langsamer a me, stupido mangiacrauti, mach shnell!»2.


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Il relitto nella Volkswagen si sporse dal finestrino, si voltò verso di lui e cercò di agitare un pugno vetusto. Ripeté: «Langsamer!». La vista di quel tizio fece venire i nervi a Rosenbaum. Un vegliardo, con un piede nella fossa, con gli occhi azzurri come tutti i nazisti, un unno in libertà in piena Manhattan, vecchio e fatiscente: era da pazzi lasciargli guidare una macchina. Al secondo “Langsamer” Rosenbaum rimase un attimo immobile, madido di sudore. Poi fece avanzare la sua Chevy e diede un colpetto alla Volkswagen. Fu così bello, che indietreggiò di qualche metro, poi avanzò di nuovo e diede un altro colpetto, un po’ più forte. Erano anni che non aveva tanta voglia di battersi con uno straniero. Perché? Be’, perché a) era a Yorkville; b) sull’Ottantasettesima; c) proprio dietro Gimbels East; d) bloccato; e) da una Volkswagen; f) guidata da un vegliardo mangiapatate; g) che lo stava facendo arrivare in ritardo alla partita del giovedì; h) il che era particolarmente irritante perché la sua Chevy non aveva l’aria condizionata e, benché fosse pomeriggio inoltrato a settembre inoltrato, la temperatura raggiungeva i novantadue gradi; i) Fahrenheit; j) e passa. Rosenbaum andò addosso all’altra macchina per la terza volta, spingendola avanti di qualche metro, prima che si fermasse; ma a un tratto la Volkswagen si rimise in moto e partì verso Park Avenue e Rosenbaum dapprima rimase sbalordito, poi brandì la sua Chevy, raggiunse la Volkswagen e cercò di superarla da destra, perché adesso sapeva di avere una missione nella vita, e tutto il resto passava in secondo piano: superare quella maledetta Volkswagen, mettersi davanti, bloccarla e poi rallentare al m…a…s…s…i…m…o. Ma l’altra macchina non si dava per inteso: se Rosenbaum andava a destra, la Volkswagen si spostava a destra, se andava a sinistra, la Volkswagen faceva altrettanto, e d’un tratto, la guerra era stata dichiarata sull’Ottantasettesima strada, e a Rosenbaum stava bene, perché il giorno che una Chevrolet non ce l’avesse fatta a sgominare quel bidone d’importazione tanto valeva mandare tutto all’inferno.

ISBN 978-88-7168-964-7 © William Goldman 1974 © Marcos y Marcos 2020


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La memoria che usi per ricordarmi di Giulia Fuso

Agosto è tre decine di domeniche trenta suoni che conosco a memoria monosillabi secchi a prevalenza di consonanti che sbattono, sbattono, sbattono. Ho accumulato tutta la stanchezza delle ore pomeridiane in provincia come nonna che mi tocca la testa e cura il coniglio albino gli cava gli occhi veloce; è l’uscita che non trovo è l’abbigliamento inadatto. So dire di ottobre la struttura delle parole l’odore della stanza quando taci e dici con gli occhi le vocali che non riconosco che non conosco, come non so l’orario della tua fame e l’orario della tua sete come non conosco il passo le scarpe nel cassetto che tieni pulite la memoria che usi per ricordarmi avendomi, pur non avendomi mai avuto.

fantastico


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Tu chiamale se vuoi emozioni la rabbia a cura di Antonella Dilorenzo

La rabbia è uno sguardo. Furia. La rabbia è corpo senza ragione. Un corpo che non conosce ragioni se non quelle della forza. Di quanto meschina e inutile (solo di primo acchito) sia questa emozione, ce lo dice lei stessa. Non esiste se non come il frutto di un altro sentimento da cui scaturisce. Vive di luce riflessa, e non sopporta l’idea di non essere la protagonista. Scatta sempre dopo qualcos’altro, perché è la motivazione che c’è dietro a essere sua genitrice. La rabbia per via dell’invidia, della gelosia, dell’ingiustizia, della contrarietà, dell’impedimento, di qualcosa che non va nel verso di chi la prova, ma si impone in direzione uguale e contraria. Nonostante questo, però, la rabbia un primato ce l’ha. In psicologia. È considerata un’emozione primaria, per il solo fatto di essere innata e poter essere provata da tutti senza distinzione. Digrignare i denti, spalancare le orbite degli occhi, allargare le narici, tremare: nei romanzi che abbiamo letto è così che questa emozione assume corporeità. Eppure la rabbia può essere anche silenziosa, «nervosa dentro», come l’ha definita lo scrittore Raduan Nassar. La rabbia si cova, la rabbia monta, la rabbia è repressa, anche inespressa. Può conservarsi. Tanto da avere vita lunga, crescere e avvilupparsi al corpo e alla mente, trasformarsi nello stimolo a creare, a vivere, a ribellarsi. Quindi, si colloca tra la sua causa scatenante e il parto di un buon motivo. E se la rabbia, come la verità, sta nel mezzo, allora è un sentimento vero.

Un bicchiere di rabbia di Raduar Nassan edito da SUR 2018

Di rabbia se ne scrive da sempre: come non citare il De Ira di Seneca, Il condominio di J. G. Ballard e i suoi inquilini arrabbiati? Questa volta, però, andremo alla ricerca delle mille facce della rabbia. Si parlerà di sfuriate, ma anche di rabbia funzionale, sociale, cieca, amica.

Raduar Nassan, brasiliano, nel suo Un bicchiere di rabbia, narra della relazione sentimentale tra un uomo e una donna, lui fascista, lei sessantottina. Così opposti nell’orientamento politico, quanto divergenti nella loro relazione: il sesso è il solo medium di comunicazione in grado di pacificarli. Fuori dalle lenzuola, la rabbia è l’unico sentimento che provano l’uno verso l’altro, così importante tanto che Nassan ne dedica un intero capitolo intitolato: «La sfuriata». Una lite tra i due protagonisti, nata da un motivo banale: un «ragazzino» detto con disprezzo da lei, viene contraccambiato con un «stronza, merda» da parte di lui. In questi passi letterari entrati nella storia (Un bicchiere di rabbia è diventato anche un film diretto da Aluizio Abranches nel 1999), si arriva a una


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fantastico

Io sono Ava di Erin Stewart edito da Garzanti 2019

Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli edito da Mondadori 2020

sola conclusione: uomo e donna sono gli stessi dalla notte dei tempi. Una lite fra l’uno e l’altra può essere ugualmente rabbiosa, che sia avvenuta ai tempi di Garibaldi, o che si sia consumata in pieno fascismo o ai giorni nostri. Un bicchiere di rabbia è uscito in prima edizione nel 1978 ed è stato ripubblicato in Italia nel 2018 da SUR.

Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli, vincitore del Premio Strega Giovani 2020, racconta la rabbia come un sentimento intimo e profondo attraverso la storia di Daniele, un ventenne romano costretto a una settimana di TSO nel reparto psichiatrico di un ospedale. Condivide la stanza con altri uomini di diverse età obbligati anche loro al medesimo trattamento. Un episodio in particolare ci fa capire quanto la rabbia possa derivare dalla contrarietà per un diritto negato. Giorgio, un omone ricoverato nella stessa stanza di Daniele, che chiede di poter vedere un amico caduto dalla finestra poco prima. L’impossibilità nel fargli visita fa montare in lui, con furia cieca, una rabbia che potremmo definire sociale, causata da un diritto mancato: «Giorgio cresce, come il pane di notte, come i bambini negli anni, l’erba sotto il sole. Cresce. D’altezza e larghezza. Di rabbia». Ma rabbia non vuol dire pazzia. Ci vorrebbe poco per capire che si tratta, invece, d’altro, come racconta lo stesso Mencarelli: «Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. Invece non lo hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani».

La rabbia può rivelarsi sotto forma di distacco, silenzio, fino a diventare riflessione e motrice di coraggio. Lo sa bene Ava, la sedicenne protagonista del romanzo di Erin Stewart rimasta vittima di un incendio domestico in cui ha perso i genitori, e che porta sulla pelle le cicatrici di quell’episodio fatale: ha ustioni sul 60% del corpo. Non ha capelli, le orecchie sono consumate e le dita delle sue mani non sono proprio a posto. In questo libro la rabbia è spesso funzionale alla crescita e alla salvezza della protagonista. Ava reagisce con impeto ad alcune situazioni che la portano a ribellarsi a una condizione fisica che non accetta. Si sente un rifiuto della società, un essere poco attraente, ma quando conosce la rabbia scatenata dall’odio di chi non l’accetta, comincerà la scalata verso la sua risalita. Un romanzo coraggioso e resiliente.


Bernardo Cavallino di Mattia Labadessa edito da Feltrinelli Comics 2019

La forma del silenzio di Stefano Corbetta edito da Ponte alle Grazie 2020

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Questa è una storia in cui il silenzio e l’assenza parlano più delle parole dette. Leo ha sei anni, è nato sordo. Frequenta l’istituto Tarra in una Milano degli anni ‘60, in cui la lingua dei segni non è ancora concessa, ma sostituita dall’Oralismo, pratica che costringe i non udenti a emettere suoni con la bocca per esprimersi. Qui la rabbia è un sentimento che scava giorno dopo giorno nell’anima di un bambino che non sa “dire a parole” il suo disagio interno. Quando lui scompare, la rabbia sfiora tutti i personaggi di questa storia che vogliono dare una spiegazione all’assenza, all’ignoto: arrabbiata è sua madre che si rassegna a un figlio che non c’è più; arrabbiata è una sorella che, grazie ad alcuni indizi, si rimette alla ricerca del fratello perduto, dopo circa vent’anni dalla scomparsa; arrabbiato è un padre che la fa finita perché non regge il colpo dell’assenza. E se la parola rabbia significa “fare violenza”, qui c’è un silenzio che violenta le anime fino a tormentarle.

Chiudiamo la nostra selezione con una graphic novel che ha il merito di raccontare la rabbia, così come altre emozioni, con profonda delicatezza. Il protagonista è Bernardo Cavallino, un uccello ideato da Mattia Labadessa, che ha un’ossessione: spegnere una candelina ogni volta in cui prova un’emozione. E gli succede anche quando la rabbia va a fargli visita durante una partita alla PlayStation con Colonna. Il suo amico non lo capisce, non comprende la paura di morire che lo ossessiona e cerca di distrarlo con inezie, come una partita di calcio virtuale. Ed è lì che Bernardo si arrabbia: urla, inveisce contro di lui, vuole disfarsi di quell’aggeggio inutile che riproduce Cristiano Ronaldo in 3D, e lanciarlo giù dal balcone. Quando il distaccamento dalla realtà lo riporta sui suoi passi, si ferma e anche questa volta, per calmarsi, soffia su una candelina. A dare maggiore profondità all’intera struttura narrativa vi è poi anche l’uso geniale della metanarrativa: Mattia Labadessa entra letteralmente nella storia, dipingendo di veridicità le emozioni provate dal suo protagonista. Una graphic novel fatta di tratti intimi e delicati.


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Maestoso è l'abbandono

fantastico

intervista a Sara Gamberini di Giulia Fuso Maestoso è l’abbandono è un inno alla libertà di lasciarsi il passato alle spalle, ma è ancor più un invito alla necessità di proiettarsi al futuro con mente sana e aperta senza che il passato sia di impedimento. È anche leggibile come un manuale di cura personale, dove quello che è stato diventa una base solida per slanci e partenze. Non c’è alcuna necessità di escludere l’accaduto, perché tutto diventa parte buona del divenire, una sorta di organico nutriente. Invece di puntare sul malinconico e lo struggente, la prosa di Sara Gamberini vira verso un territorio abbastanza inedito per la letteratura italiana, in cui il confine tra visibile e invisibile, tra mondo immaginato e mondo reale sembra non esistere. Nonostante la nostra letteratura sia sempre stata poco disponibile ad accettare questo modo di raccontare – tesa com’è ad indagare il “concreto” in modo ossessivo – l’accoglienza dei librai e dei lettori è stata inaspettata e generosa. Quanto per te si rivela necessario scegliere questa tipologia di linguaggio in un mondo profondamente concreto e che tende ad allontanarsi dal suggestivo? Moltissimo. So di aver scritto un libro strano. Ma se ho esordito a quarant’anni è perché mi premeva dire qualcosa che consideravo proprio importante e non potevo tacere. Se poi sia stato davvero importante, chi può dirlo. Ogni fatto ha il suo tempo, si sa, per questo non avevo paura di perdere nulla, le mie aspettative all’uscita del romanzo erano calme, rare, molto basse. Ci tenevo a raccontare di quell’incanto, più volte mi sono chiesta come affrontarlo, a chi dedicare questa storia, come raggiungere le persone, temevo il fraintendimento. E la poesia mi è venuta in aiuto. Quanto è stato complesso raccontare l’amore altissimo, di cui si parla nel romanzo, elevandolo sopra le parole e il reale? Mentre scrivevo, vivevo proprio un amore altissimo, sconcertante, pieno di silenzi e di attesa. Penso che l’amore dirompente, al pari dell’invisibile, possano essere raccontati solo chiedendo alle parole di venirci in aiuto per colmare uno scarto. Come se le parole acquisissero un corpo, un cuore e le mani per gesticolare, e infine potessero sollevarti. Ad esempio, a me sembra che in Maestoso è l’abbandono più di tutto le parole respirino, a volte a fondo, altre in modo affannoso. Sara Gamberini vive a Verona. Ha lavorato in alcune strutture psichiatriche e collaborato con diverse case editrici nella valutazione di manoscritti. Maestoso è l'abbandono (Hacca, 2018) è il suo primo romanzo.

Questa attenzione all’incanto può rischiare di essere fraintesa specie tra chi, leggendo questo esordio, si chiede se tra l’io narrante e l’autrice ci sia una mimesi? Senz’altro, e credo sia anche accaduto, ma lo avevo messo in conto, anzi, questo romanzo nasce, tra le altre cose, anche con l’intento di affrontare il grande pregiudizio di cui è spesso oggetto la ricerca spirituale, soprattutto quando non si rifà a una religione riconosciuta, ma si concentra indistintamente su tutto ciò che si nasconde tra le pieghe del reale e non ha nome. Francesca


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Chiappa, la mia editor, ha detto una cosa per me bellissima, a cui non avevo pensato, quando ha letto il romanzo ha avuto la sensazione che io provassi a rinominare il mondo. Il rischio, che non volevo correre, era di sconfinare in superficie, vicino ai tanti fraintendimenti della New Age, corrente piuttosto lontana dal mio modo di percepire l’invisibile. Ricordo che qualcuno, appena uscito il romanzo, per prendermi un po’ in giro o perché si sentiva contrariato forse, una volta ha scritto: «questa si sente una psicomaga». Magari fosse vero, ho riso molto. Diventare una maga è uno dei miei sogni irrealizzabili più grandi. Ho ricevuto anche altri nomignoli, di cui ho perso il ricordo. Questo per dire che non è mancata la diffidenza, ma ho ricevuto e ricevo tuttora molte attestazioni di gratitudine. Le persone a cui è dedicato questo libro hanno compreso in modo preciso il mio intento e ne sono felice. Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se lo avesse scritto un uomo. Ho anche avuto la sensazione che qualcuno ogni tanto rimanesse deluso, come a dire lo vedi, ti innervosisci anche tu, sei scorretta, ti demoralizzi, ti arrabbi, soffri, come tutti. Dunque sei umana, racconti un sacco di fandonie. Come se essere animisti, cattolici, maghi, musulmani, fate, buddisti, marabout, significasse essere invincibili o molto forti, integerrimi, santi. È vero il contrario, se mai, si impara a non nascondere la propria delicatezza, come sostiene la meravigliosa Chandra Livia Candiani. Parli di poesia, sfondi una porta aperta. I versi diventano un “luogo” e trovano un riscontro forte nella tua narrativa, approcci a loro in maniera evidente e questa è senza dubbio una cifra che ti rende riconoscibile. Com’è il tuo rapporto con la poesia? Più in generale, quali sono i luoghi che abiti (fisici o meno) e che ti appartengono? Credo sia difficile parlare di invisibile senza ricorrere alla poesia, tutto diventa poetico anche senza volerlo. È il tema dell’incanto a essere poetico per l’uomo, come una nostalgia, come l’infanzia. Il mio rapporto con la poesia è profondo, mi è familiare. Sono una persona sentimentale, anche da bambina lo ero, appassionata di amore eterno; dalla poesia imparo a stare con le cose così come sono, a non confondere il superfluo con l’essenziale, imparo alcune verità, ricevo conforto. Questi sono alcuni dei luoghi immateriali che abito, quelli fisici, invece, comprendono la mia casa, un altro “amore altissimo”, con i miei libri, i quaderni, le ciotole in cui raccolgo le bacche che mi piacciono molto, così rotonde e rosse, e le teiere, la lampada a forma di coniglio, l’angelo Evocaj che pende dal soffitto, fatto con il Das dalla mia amica Valentina, e poi la natura, il bosco disordinato e fitto vicino a casa, il mio giardino, i sentieri in collina. Chi ti segue sui social è già abituato alla grazia delle tue parole, a questo continuo scambio di benessere; Può la narrativa in generale avere anche questa funzione? Può essere la scrittura uno scambio gentile e utile con il mondo? Quali sono gli autori a cui ti appoggi, che consiglieresti e che credi abbiano la tua stessa spinta? Ti ringrazio per quello che dici, per me è stata una sorpresa. Non credevo che le mie parole potessero suscitare benessere, io rac-


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contavo le mie piccole vicende, e poi si è aperto un mondo. Un mondo sconosciuto che altro non era che la mia vocazione profonda, così connaturata in me da essere inseparabile dalla mia persona e, quindi, impossibile da osservare da fuori come si fa invece con un pregio, un difetto o un talento. La narrativa può avere tutte le funzioni del mondo e, certo, può essere uno scambio gentile e utile con i lettori, mi piace questa idea. Personalmente sogno che si liberi sempre più da certe convenzioni, dalla spendibilità, dal coraggio pacato. A volte, ed è una mia sensazione, non ho un intento polemico, avverto certa narrativa imbrigliata nella formula, in realtà inconoscibile, della buona riuscita di un romanzo. Allora, devo confessare, vorrei organizzare in suo onore una rivoluzione. Poi mi ripeto che siamo in tanti, non tutti quelli che scrivono devono essere per forza interessati alle rivoluzioni, e così placo un po’, ma solo un po’, il mio desiderio di comunione. Gli autori che amo sono molti, come immaginerai, chiudo gli occhi e ne menziono qualcuno senza pensare. Allora mi vengono in mente Julio Cortázar, Mariangela Gualtieri, Olga Tokarczuck, Jenny Offill, Chandra Livia Candiani, Clarice Lispector, Romain Gary, Cristina Campo. Da lettrice mi sono chiesta che seguito avranno le tue parole, se continuerà questa scia luminosa o se ci sarà un cambio di rotta. Molti sostengono che il secondo libro di un autore sia o conferma o smentita, cosa puoi raccontarci? Quali sono le novità? Sono una persona abbastanza imprevedibile, io stessa conosco poco della mia ispirazione. La scia luminosa, però, è difficile che scompaia perché è qui, sempre vicino. Sto finendo di scrivere il secondo romanzo e ho la sensazione che ci siano molti punti d’incontro con Maestoso è l’abbandono, il mio modo di scrivere non è cambiato. Certo, è un romanzo diverso e, quindi, per forza di cose conferme e smentite si alterneranno. A breve uscirà Quando il mondo era tutto azzurro, un libro a cui tengo molto, pubblicato dalla casa editrice Topipittori e illustrato da Elisa Talentino. È un albo rivolto a tutti, bambini piccoli, meno piccoli e adulti sognatori.


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nota per la lettura a firma del firmatario :-) La morale è che il calcio è bello ma che le droghe fanno male e il calcio è brutto ma le droghe sono bellissime. La morale è che Colombia e Uruguay non sono la stessa cosa. Ma che a volte per qualcuno sono la stessa cosa. E che va bene così. E che tante altre cose. Fidati, che la fiducia non si chiede, ma si da. Tu, fidati. Dentro c’è un po’ di linguaggio burocratese-procedurale ridicolo. Onomatopee precise sono due, tutto il resto è un po’ a caso e vuole solo dare enfasi e turbamento. Le onomatopee precise (che indicano agonia) sono queste: 1) arrgg 2) ARRG Poi ho scritto più volte “stommmale” con 3 M.

(firma qui)

Buona lettura, Ale


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VALDERRAMA

fantastico

di Alessandro Maynam

Quando il fosso del tamuro si dirama, nel lungo abbrivio una giolla frana Antico proverbio brullatese, 274 a.c ca.

(squillo di telefono) (bip) (_) (_) «Sì pronto salve sono Damer, il vostro operatore di Servizio Di Emergenza Speciale, mi dica». «Stommmalissimo...arrgg...aiutatemi! Vi pregooo...arrgg...stommmale!» «Si calmi. Respiri. Mi dia il Numero Cliente e mi dica qual è il problema». «Stommmalissimo...arrgg...muoio! La mia coscienza è dislocata, ho visioni alterate! ARRGG! Dolore atroce nnnnnel tratto gastrico! Le tempie in scoppiooo...arrgg...non ce la faccio piú! Ora la faccio finita! Mi sta esplodendo la pancia, la testa espl...espl...mi sta...arrgg...aiutatemi!» «Signore, per procedere con l’assistenza, ho bisogno del suo Numero Cliente». «Non so quale sia...arrgg...» «Allora mi dia il suo numero di POD». «POD? Eh? Odddio, stommmalissimo, mi aiuti, mi dia assistenza! ARRGG!» «Signore, si calmi. Il suo numero di POD è stato inviato nella mail che lei ha ricevuto insieme al codice del contratto prestatorio, sottoscritto da lei quando è diventato cliente di Servizio Di Emergenza Speciale. Controlli le sue mail. Se non trova nemmeno il numero del POD, puó bastare il codice di identificazione a 23 cifre che le abbiamo mandato per posta insieme alla ricevuta del primo semestre». «La prego, sto per svenire, ho paura di morire nel sonno, ssssssoffocato dal vomito! ARRGG! Sono sdraiato sul pavimento della mia cucina, in agoniaaa...arrgg...non so dove siano questi codici...ARRGG...non so dove guardare ma mi aiuti lo stesso, la supplico, stommmalissimo!» «La comprendo. Cerco di venirle incontro. Intanto mi dica il suo nome... signooor?» «Salimbeni. Mi chiamooo ss--S-Salimbeni». «Va bene, Signor Salimbeni. Mi dia semplicemente il numero di fisco codificato e poi mi dica se vuole addebitare la chiamata come categoria A o B; procederó subito ad agire come operatore per Servizio Di Emergenza Speciale». «SLMBN-SLMBN-666. Categoria B». «Peeeeeeerfetto, grazie mille! Mi dica tutto, adesso. Qual è il problema?» «Soffro di una malattia terribile! Una volta al mese ho questi attacchi improvvisi, dolori lancinanti, squarci...arrgg...piango, sbavo...arrgg...poi convulsioni, quindi stramazzo, poi respiro a fatica, finché non svengo o nnnnnnnon mi addormento! Dura sempre tre giorni...ARRGG...una volta al mese, puntuale, infame». «Sa di cosa è malato esattamente, signor Salimbeni?» «sssssss-Si». «Mi riporti pure il nome della patologia, prego». «Uhmmm….arrgg...ssssono malato di...di...di CCCALCIO!» «Dello sport chiamato calcio o, internazionalmente, football, intende?» «Sì, lui. Sono malato di...calcio! ARRGG! DI CALCIOOOOO!»


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«Ho capito. E per quale motivo pensa che il calcio le causi questi dolori atroci?» «Perché ogni giorno della mia vita è dedicato interamente al calcio! Ogni minuto! Non assumo niente altro che calcio...ARRGG...vivo di calcio. Sono calcio. È la mia vita e anche la mia morte. Sta tutto lí. Calcio. Arrgg...chemmmale!» «La capisco. Ok. Sono qua per aiutarla, stia tranquillo. Facciamo intanto una cosa essenziale, Salimbeni. Vuole farmi una cortesia, sì? Mi ascolti: si sforzi e provi ad alzarsi, poi cammini fino al frigorifero, lo apra e prenda dell’acqua gassata fredda. Deve berne subito un bicchierone. Lei ce l’ha nel frigo dell’acqua gassata fredda? E soprattutto, ha un bicchierone?» «Nooo...arrgg….» «Allora le devo addebitare l’utenza per l’acqua gassata fredda, va bene? Se conferma, gliela mando subito in presenza, così tra trenta secondi può pure aprire la Valvola dell’Interspazio più vicina a lei, dove troverà il bicchierone di acqua gassata fredda. È fondamentale che lei lo beva, mi creda». «Ok». «Peeeeeeeeeeerfetto. Addebito eseguito. Dovrebbe esserle già arrivato il prodotto. Vada pure a prenderlo. Beva subito». «Ci provo». «Vada». Il signor Salimbeni alle 02.31 di un sabato notte appoggia il telefono sul pavimento e grazie ad un movimento importante del settore toracico e ad uno sforzo sovrumano del secondo muscolo cortico-centrale riesce a strisciare verso la prima Valvola Dell’Interspazio posta sotto il tavolo della cucina e ad aprire la tele-porta dove trova il suo bicchierone di acqua gassata fredda pronto da bere. Tracannate le prime tre boccate con l’impeto dell’aggrappato alla vita, contempla l’anidride carbonica che gli elettrizza e solletica la testa e ascolta lo stomaco contorcersi di energia e la gola accogliere lo sgorgante sonío acqueo. Si rende conto che è davvero sitibondo di acqua frizzante fredda. Beve, respira profondo, chiude gli occhi, poi ribeve e rirespira profondo e richiude gli occhi, finché il dolore non arriva ad un livello sopportabile, che lo libera almeno dai mugugni e dai gemiti di sofferenza. Ancora atrofizzato dalla vita in giù e usando solo le braccia, striscia con successo verso il telefono appoggiato a terra. Sono le 2.33 e il signor Salimbeni è ancora convinto di essere malato di calcio. «Pronto?» «Ha bevuto il suo bicchierone, Signor Salimbeni? Sta meglio, no?» «Ho bevuto. Mi sento un pochino meglio! Pazzesco!» «Ben ritrovato. Mi fa piacere. Ma ora veniamo a noi e al suo problema. Procediamo con metodo analitico e cerchiamo di non perderci nella inedia delle astrazioni ideologiche e mi dica: cosa fa durante la sua giornata? Come occupa lo spazio intorno al tempo? Mi apra il suo cuore! Racconti! Mi porti nel suo mondo, Salimbeni!» Salimbeni tira quello che sembra un sospiro di sollievo smorzato da un tono di rassegnazione. La condensa del suo lungo respiro penetra le linee telefoniche calde e prepara l’ascolto liquido e silente dell’operatore Damer.


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«Ok, la situazione è questa. Da anni non lavoro, vivo di sussidi ed eredità insieme ai miei cinque gatti soriani Didí, Vavá, Kakà, Pelé e Ivanauskas. La mattina mi sveglio verso le sei, metto su un caffè e mi ritiro subito nelle mie stanze da studio. Accendo il computer e passo le prime sei ore della giornata a leggere le notizie dei cinque più importanti campionati di calcio europei: risultati, tabellini, classifiche, statistiche, quindi articoli e alcuni editoriali. Alle sei del mattino però ci sono ancora le notizie del giorno prima: io intanto rileggo quelle, che male non fa, e aspetto le nove per i nuovi aggiornamenti. Dopo un veloce pranzo, inizia lo studio del pomeriggio, che è dedicato alla visione di centinaia di documenti multimediali riguardanti qualsiasi giocatore di qualsiasi squadra durante qualsiasi partita avvenuta in qualsiasi tempo di qualsiasi spazio, alla lettura di libri: conosco il nome di 500.438 giocatori (aggiornato a ieri) e ho visto 122.785 partite (aggiornato ad oggi), conosco a memoria settantotto formazioni scese in campo durante una finale ufficiale UEFA. A casa ho gli almanacchi della Curva Edizioni di tutte e ventuno le Coppe Del Mondo, di tutte le cinquanta edizioni di Continental League e di tutte le sessantasei edizioni della Coppa Campioni. Alle sei del pomeriggio in genere mollo la parte teorica e la documentazione audio-visiva, perché tre sere alla settimana vado a giocare a calcetto con i miei amici, con i quali facciamo insieme anche il Fantacalcio e con cui in spogliatoio parliamo quasi solo ed esclusivamente di calcio, con focus speciale sul calciomercato. Due sere alla settimana, invece, alleno la squadra dei pulcini della parrocchia. La domenica la dedico interamente alla mia più grande passione calcistica: il campionato uruguayano! Lo seguo da quando da bambino ero abbonato a Deportivo Uruguayo, che mi arrivava nella cassetta delle lettere una volta al mese grazie alla bontà di papà. La domenica mi guardo minimo un paio di partite, almeno quelle delle mie squadre preferite ovvero Peñarol e Danubio...azzurrissime! Lo sa che nella Primera División Profesional de Uruguay ci sono sedici squadre, quattordici delle quali provengono dalla capitale Montevideo? Questo significa che l’ottanta per cento dei calciatori uruguagi la domenica della partita puó raggiungere lo stadio con la propria bicicletta... ah ah ah, una immagine neorealista davvero struggente, non trova!? Questa è la mia vita. Puntualmente una volta al mese finisco a vedere tre partite di calcio dopo cena, una dietro l’altra, e vado in strip totale, mi assale questo male morale e poi fisico, carnale, perché il calcio mi ama e mi odia, non mi dà tregua, mi ribolle nel sangue, mi tiene sveglio la notte. Mi aiuti, la prego...» «Signor Salimbeni, solo una domanda. Come ha detto che si chiama il suo quinto gatto?» «Ivanauskas». «È un bellissimo nome, complimenti! È un nome lettone?» «Lituano». «Capisco. I miei complimenti». «Grazie!» «Signor Salimbeni, mi ascolti: lei sta benissimo. LEI-STA-BENISSIMO». «Eh?» «Non si preoccupi, il suo è solo un normalissimo processo psicosomatico che lei si auto-infligge inconsciamente a causa della ubiqua pressione sociale sulla sua benigna dipendenza, esercitata soprattutto dalle lobby di intellettuali e dai chirurghi dello spirito che governano il mondo e i media e che vorrebbero anche la morte di un ente come Servizio Di


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Emergenza Speciale. E del calcio». «Eh?» «Lei non ha nessun problema, è sanissimo». «Ok...» «Chi le ha detto poi che è malato di calcio?» «Un mio amico». «Classico. Mai fidarsi di un amico. Lei deve fidarsi solo di Servizio Di Emergenza Speciale». «Ok!» «Lei sta benissimo». «Ok!» «La cosa peró più importante è che lei continui a pagare compagnie telefoniche per potersi vedere le repliche delle partite del campionato iraniano. Continui ad attivare servizi, a pagare bollette e abbonamenti. Continui». «Ok!» «...e continui a comprare i libri della Curva Edizioni». «Ok!» «...e cambi il pc e le sue casse monitor appena verrà infettato da un virus cinese che le verrà passato da un sito di dirette online con numero di partita iva registrato a Dubai e il server in una taverna di Camisano Vicentino». «Ok!» «...e continui a comprare le scarpe da calcio e gli scarpini da calcetto, almeno una volta l’anno! Compri le magliette colorate in poliestere e i parastinchi in avorio. Compri! Spenda!» «Ok!» «Continui a rimanere cliente di Servizio Di Emergenza Speciale, noi in cambio le manderemo tante bollette da pagare! Va bene?» «Ok!» «Lei è prima di tutto registrato come soggetto economico e finanziario e solo incidentalmente come ente emozionale ed esistentivo, se lo ricordi!» «Ok!» «Si fidi di me». «Ok!» «Lei sta bene, se lo metta in testa e non pensi ad altro». «Ok!» «Segua il mio consiglio!» «Ok». «Lei sta benissimo!» «Va bene!» «Lei è tutto quello che deve essere e nulla di più!» «Ok!» «Lei è l’essere più perfetto che lei possa essere!» «Ok». «Sii felice, Salimbeni: sii CALCIO!» «Ok!» Sono le 2:39 di un sabato notte nebbioso nel paesino di Brullate e il Signor Salimbeni, convintosi velocemente di essere sano e puro e innescando quindi un processo psicosomatico inverso a quello che lo ha portato fino al delirio, si alza da terra con un balzo fiero, col telefono ancora in mano e vicino all’orecchio, ostentando un ritrovato sorriso virtuoso ai limiti dell’improntitudine, fiero, non più aggrottato dal male.


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Chiama a raccolta i suoi cinque soriani con un fischio da gattaro professionista, accende le luci al neon che prima gli scorticavano la cornea e inizia ad aprire i cassetti e le ante in cerca di cibo croccante e gustoso. Il gentilissimo operatore Damer di Servizio Di Emergenza Speciale rimane per qualche secondo in linea ad ascoltare i rumori ambientali e il linguaggio di fortuna di quello che adesso è banalmente un uomo solo che parla con i suoi cinque gatti di casa, quindi fa una domanda. «Le volevo chiedere una cosa, poi la chiamata finisce qua e la saluto. Mi tolga una curiosità, visto che sono anche io un appassionatissimo di calcio. Da un fanatico all’altro: qual è il suo giocatore uruguayano preferito, signor Salimbeni?» «Il mio...arrgg...il mio ggggioc...arrgg...il mio giocatore uruguayano pppppreferito?» «Esatto. Chi è?» «Arrgg...è...arrgg...è Val….Valderr...Valderrammmm….arrgg….ARRGG, stommmalissimo di nuovooo...oddddiooooooo...mi scoppia la testaaaaaa! Aiutooooooooo! ARRGG!» «Le addebito un secondo bicchierone di frizzante fredda, SIGNOR SALIMBENI?» «...VALDERRAMA!»


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Cibo e parole: non sono due mondi poi così distanti

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intervista a Mariachiara Montera di Antonella Dilorenzo Con la bocca facciamo due cose essenziali: mangiare e parlare. Con la bocca sentiamo i gusti dei cibi, ma proviamo anche emozioni, proprio nel momento in cui ci esprimiamo a parole. Possiamo essere pungenti, riflessivi, arroganti o convincenti. Proprio come l’anima di una pietanza quando l’assaggiamo. Quale gusto ci lascia? Ogni parola e ogni cibo sono un’esperienza. E chi meglio di Mariachiara Montera, nota su Instagram come @maricler, può raccontarci questo legame insolito – ma neppure tanto – tra cibo, parole e territorio? Lei è una Content Creator e noi l’abbiamo intervistata! Siccome Fantastico! tiene esageratamente alle parole, quella che ti sottoporrò sarà un’intervista piena di lemmi, termini che strizzano l’occhio alla grammatica viaggiando su una base sicura che ti sta a cuore: il cibo e il territorio. Ci stai? No, ma non ho scelta perché sono troppo curiosa e affamata, anzi, sono sicura che siano sinonimi. Iniziamo con gli aggettivi. Un po’ campana, un po’ torinese. Quanto l’etichetta territoriale ha inciso sul tuo sgomitare nella società?

«La verità è che ognuno di noi ha dei parametri di gusto, ma anche di emotività con cui giudica un piatto: non c’è nulla di obiettivo e il piacere è la cosa più soggettiva che esista. Più che saper usare le parole, quindi, a volte dovremmo imparare a esplorare le nostre emozioni».

E anche un po’ bolognese e milanese. Sono arrivata a quell’età – ho 40 anni – in cui il tempo trascorso lontano dal luogo di nascita è maggiore di quello passato nel paesino natio: è il punto in cui molte persone si spaventano perché temono di perdere le proprie radici, in cui si aggrappano alla nostalgia. Ma sai, si ha nostalgia della memoria, di come ci ricordiamo le cose, quasi mai dei fatti. E io tra la nostalgia di quel che è stato e l’entusiasmo verso quel che sarà, ho sempre fatto il tifo per il secondo: in qualunque città sia arrivata, sono sempre stata attenta a godermi il modo migliore per stare bene, a seconda del momento della vita in cui ero, insieme a tutte le me che sono stata. E qui è dove la schiettezza campana si mescola con l’efficienza milanese insieme alla pacatezza sabauda e così via: per andare avanti, insomma, ho sempre portato tante piccole radici con me, senza preoccuparmi di essere un monoblocco. Più che confrontarmi con una singola città, poi, mi sono sempre preoccupata di vivere serena con me stessa, ampliando quindi i confini della città in sé: vivo a Torino, ma non vivo "solo" Torino. Ho case meno ufficiali e più intime in diverse parti d’Italia. Questo essere migrante ogni tanto ha portato a un’integrazione complessa, altre a volte ricevere e fornire stimoli in quantità elevata. E alla fine, se il tuo obiettivo è diventare la versione migliore di te stessa, le etichette che dicono da dove arrivi, cosa mangi, come ti vesti, che lavoro fai, cambiano continuamente: conta quindi così tanto costruirci una vita sopra?


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Andiamo sui verbi. Quando qualcosa ci entusiasma e ci viene chiesto un parere, finiamo sempre con l’usare il termine piacere, nella più familiare delle espressioni che è “Mi piace”. Sei molto abile con la scrittura, per cui ti chiedo: se ti trovassi davanti il piatto migliore che tu abbia mai assaggiato, come lo racconteresti allo chef evitando di dire semplicemente che “ti piace”? Quando assaggio dei sapori che “mi piacciono”, alcuni di questi sono talmente emozionanti che il risultato è una rivelazione. Allora, per raccontarlo a uno chef, gli direi che «Questo piatto è sorprendente», per dirgli poi cosa mi ha rivelato: il vero sapore del granchio, ad esempio, la sorpresa di conoscere un ingrediente mai assaggiato. La verità è che ognuno di noi ha dei parametri di gusto, ma anche di emotività con cui giudica un piatto: non c’è nulla di obiettivo e il piacere è la cosa più soggettiva che esista. Più che saper usare le parole, quindi, a volte dovremmo imparare a esplorare le nostre emozioni e non il vocabolario per poterle descrivere in maniera appropriata. Passo ai sostantivi e faccio un minestrone, forse azzeccato: cibo, senso di colpa, body shaming e parole. Quale frase (o storia) riesci a comporre unendo tutti questi termini? Le parole sono il senso di colpa con cui si fa body shaming usando il cibo. Insomma: il cibo e la fame sono uno dei modi con cui si controllano e si giudicano i corpi. «Sei ingrassata, sei dimagrita, hai ancora fame, ma davvero vuoi anche il dolce»: sono domande che tutte ci siamo sentite fare perché essere donne ha voluto dire rientrare in certi canoni narrativi che ci vogliono delicate, esili e inferiori. E, invece, mangiamo quanto ci piace, quel che ci piace, per essere chi ci piace. Rimanendo sul concetto di parole importanti, voglio fare un gioco. Se il comune denominatore di questa intervista rimane legato al cibo e al territorio ti chiederei di dirmi, un nome, una cosa e una città che fanno da guida nel tuo percorso. E perché. Nome: Juri Chiotti, ossia lo chef di Reis, cibo libero di montagna. Ti dico lui perché in mezzo ai giovani chef che fanno una cucina contemporanea partendo da ingredienti del territorio, è quello che conosco meglio e stimo di più. Perché si è fatto da solo e guarda avanti con la tenacia di chi vuole valorizzare un territorio, e lo fa in una zona del Piemonte che non sono le Langhe, ma la Valle Varaita. Tu lo sai dove è la Valle Varaita? Ecco: se qualcuno la conosce, è grazie a persone come lui. Cosa: sembra banale, ma ti dico mappa. Ogni volta che viaggio in una città costruisco una mappa su Google Maps dove segno indirizzi gastronomici, cartolerie e negozi di illustrazioni, musei particolari. Insomma, le ragioni per cui viaggio. La mappa è il modo in cui costruisco le aspettative sul luogo, più che usarla per pianificare degli itinerari: quello lo faccio giorno per giorno, al risveglio quando mi chiedo “Oggi di cosa ho fame?”. E lì comincia il viaggio nel viaggio.


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Città: molto complicato scegliere una meta gastronomica tra tutte quelle che vorrei scoprire, ma ti dico dove vorrei tornare: Lisbona. Ci sono stata per la prima volta due anni fa, da sola, ed è stata una sorpresa da ogni punto di vista: mi aspettavo una città decadente, ho trovato una capitale esplosiva. Sento di aver assaggiato solo una minima parte di quello che la città offre e sono molto curiosa di tornarci. “L”: decima lettera dell’alfabeto italiano che dà inizio alla parola “lingua”. Qui non ti chiedo nulla, so che intuirai! Racconta un po'… Lingua è un podcast su cibo e relazioni: è uscito alla fine del 2019 per Storytel e sono sei episodi che poi sono sei storie vere. Si parla di divorzio, di disturbi alimentari, di come si ritrova l’amore, di maternità, di un tentativo di suicidio, di malattia: tutti temi e momenti che sono più presenti di quanto crediamo nella nostra vita, raccontati con onestà e una buona dose di emotività. E sorpresa: finiscono tutti bene! Per Lingua ho scelto il cibo come filo conduttore, come traino narrativo, perché tutti possiamo immedesimarci in qualcosa che avviene a tavola, in cucina. E anche perché il cibo è la storia che conosco meglio. La “L” viene definita una consonante costrittiva. Sei mai stata costretta a moderare la lingua o, come diciamo nel gergo, a morderla per non dire qualcosa? Quando ti succede? E quando le parole, a volte, è bene che sfocino nel silenzio? Qui ci sta benissimo una metafora culinaria: ogni cosa che non diciamo è un tappo che mettiamo su un barattolo. Ora nel barattolo abbiamo qualcosa che può rimanere a lungo lì dentro, e magari migliorare col tempo, o c’è un ingrediente fresco che vale la pena mangiare subito? Ecco, anche se non sono la persona ideale per dei dibattiti, perché sono più riflessiva e analitica che con la battuta pronta, ho imparato che a dire la propria non si fa mai male. Quindi, metto molti meno tappi di prima, nella vita privata come nel lavoro. E ho imparato che meno tappi metti, più riesci a dire ogni cosa in maniera equilibrata, perché ti confronti in maniera dialogica con gli altri in maniera costante. Insomma, c’è bellezza nel confronto, ma è anche vero che vivo in una bolla che mi sono costruita su misura nel tempo. Provo con un anglicismo: social. Come si comunica il cibo sui social? Lo dico nella maniera più prosaica possibile: stai sui social se davvero te ne frega e se sei in grado di conversare con qualcuno. Se ti interessa ascoltare, confrontarti, dare e insegnare. Come persona, come azienda e, quindi, come account. Dunque, il cibo si comunica coinvolgendo qualcuno e parlandoci. Che vuol dire avere chiaro a chi vuoi parlare, e scrivere come se gli stessi già parlando. Non so tu, ma io vedo continuamente didascalie che sembrano volantini senza vita con testi come «A time to relax» o «Il nostro pollo arrosto». Ecco, prova a immaginare di


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essere a tavola con un produttore di vino o tisane che ti guarda e ti dice «A time to relax». Esattamente tu come reagiresti? Finiamo questa sorta di interrogazione con l’argomento a piacere. Dimmi qualcosa tu. Quello che ti pare! Ricorda però l’intenzione di questa intervista. C’è una cosa che sto facendo spesso ultimamente, ispirata da un articolo di Francesca Moretti su Vice, ed è sostituire l’aggettivo “etnico” con “internazionale” per i ristoranti di cucina straniera in Italia. Usiamo “etnico” per indicare qualcosa che non appartiene alla nostra cultura, ed è di un’etnia, di un popolo diverso: mettiamo una distanza e un giudizio ogni volta che usiamo quell’aggettivo. Mi sto, quindi, sforzando di sostituire un aggettivo perché sì, le parole sono importanti.


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Quello che i rapper non dicono di Giulio Armeni di Storia d'aa filosofia coatta

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Fenomenologia di un corpo elettrico

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intervista a Jennifer Guerra di Shadia Ceres Jennifer Guerra, assodato che appartenga a quelle stesse onde del mare, nascerà nel 1995 a Brescia. Attualmente, redattrice di The Vision, voce della serie podcast AntiCorpi, mani e polsi dell’opera letteraria Il corpo elettrico, essere pensante e giovane giornalista, regala a noi alcune preziose parole. Jennifer, sono rimasta molto colpita dallo spazio che dedichi alla comprensione del corpo come comune denominatore dell’essere umano e contenitore di bellezza. Ricordi quando hai preso consapevolezza – per la prima volta – di averne uno? Ho sempre avuto un pessimo rapporto con i miei peli, che per me sono stati un tormento per molti anni. Credo che il primo episodio di consapevolezza del corpo sia arrivato proprio con la prima ceretta, fatta a 13 anni in occasione della cresima. Per me fu un evento abbastanza traumatico proprio perché segnò un passaggio dall’infanzia in cui i peli non rappresentano un problema all’età adulta in cui, invece, cominciano a far parte della “gestione” del tuo corpo. Oggi sono molto più serena, anche se tuttora confesso di non viverli in totale sicurezza. Qual è, secondo te, il significato contemporaneo della parola “femminismo”?

«In principio è Gea, la terra, che per partenogenesi dà alla luce le grandi montagne e il mare spumeggiante. In seguito è Pandora, la prima donna mortale, modellata dalle mani divine dell’artigiano Efesto, cui la plasma mescolando argilla e acqua marina. Una caduta irreparabile, una rovina, la madre di tutte le donne». Il corpo elettrico. Il desiderio del femminismo che verrà. Tlon, 2020

È lo stesso di sempre, perché cambia il contesto sociale ma l’essenza del femminismo rimane la stessa: è l’affermazione della soggettività femminile nel mondo. Il femminismo è composto da due parti, che sono interrelate e indivisibili: la filosofia politica e il movimento. Queste due componenti si influenzano in maniera reciproca, anche se spesso si crede che i movimenti siano in qualche modo esauriti. La realtà del femminismo è molecolare, anche se la percezione comune è che si tratti di qualcosa di compatto e unico. Per questo spesso è difficile far capire l’importanza che i gruppi femministi e la riflessione teorica hanno sul quotidiano. Ma ti assicuro che sono entrambi presenti. Avvicinandoci ad un tema molto discusso nell’ultimo periodo: quanto pensi sia importante e necessario il linguaggio nelle dinamiche di genere? È molto importante, anche se riconosco che serve un certo “allenamento” per emanciparsi da alcune convenzioni e limitazioni che la lingua italiana ci impone. Scrivendo il libro mi sono resa conto di quanto sia difficile usare in maniera inclusiva la lingua italiana, specialmente nel capitolo che ho dedicato al transfemminismo in cui parlo anche delle persone non binarie, per cui mi si poneva un problema di pronomi e di desinenze. Per questo ho pensato di cominciare con una vera e propria “nota alla traduzione”, anche se il


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mio libro è scritto in italiano: mi sono sentita come una traduttrice alle prese con un’altra lingua, che si ritrova a dover fare delle scelte lessicali e grammaticali che in qualche modo tradiscono il “vero senso” di ciò che è scritto. Essendo una giovane donna a te coetanea, mi viene spontaneo chiederti – infine – quanto sia complesso avere e gestire una risonanza così forte come la tua. Ti senti responsabile per le vite e le menti espandibili dei giovanissimi che ti seguono? È molto complesso, anche perché io non sono un’attivista, ma una giornalista, quindi oltre alle responsabilità legate all’uso dei social devo pensare anche a quelle legate alla mia professione. Per questo cerco sempre di fare una comunicazione pulita, chiara, diretta, polemica, ma mai indignata, anche se spesso i social hanno altre dinamiche e altre tempistiche. Non voglio diventare un modello o un’opinionista, voglio fare informazione: sono due cose molto diverse.


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Amanita mia di Sara Pilastro

AUTUNNO IN 4/4

ROSAE

1/4

Declino giornate in vocativo, il pianoforte si suona da sé. Non ho catene, ali nemmeno.

Il respiro di chi vive poche ore a settimana è denso e grigio. 2/4

POLO NORD GEOGRAFICO

Per me siete fulmini a ciel sereno: un gran frastuono, e nessun temporale.

Mi aggrappo a quei momenti in cui mi prendi, talvolta ti evoco: tutti cercano un punto fisso. Al di là della geografia e del presente indicativo, tu balli leggera su una pagina bianca, né musa, né mamma.

3/4 Gocce fanno a gara a chi arriva prima sul fondo delle vetrine. Foglie in bilico sul filo del vento e le pozzanghere riflettono il viale al contrario, ma non me, trascurata, persino dal paesaggio. 4/4 Vivere in punta di piedi per fare meno rumore del tempo che scorre.


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Scrivere con le orecchie

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Dalla solitudine dello scrittore alla lingua delle giraffe: una chiacchierata con Fabio Stassi di minimum fax di Alberto bebo Guidetti Fabio Stassi l’ho conosciuto telefonicamente alcuni mesi fa, stavo lavorando su una puntata de Lo Stato Sociale show quando Daniele Di Gennaro, editore e fondatore di minimum fax, mi ha suggerito di parlare di due suoi libri: Storia di un boxeur latino, di Gianni Minà e Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino. Entrambi, poi, hanno aperto alcuni cassetti del mio cuore e sono finiti anche nello scorso numero di Fantastico!, la rivista. Ed è dietro questi libri che ho trovato Fabio Stassi: editor, scrittore, insegnante e soprattutto persona dalla passione travolgente. Abbiamo fatto due chiacchiere disordinate in una assolata mattina romana, questo è il risultato. Remo Rapino è fresco vincitore del premio Campiello 2020 con il suo Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, che hai curato come editor. Come ci sei arrivato? Come è nato editorialmente il libro?

Fabio Stassi è un editor e uno scrittore. Vive a Viterbo e lavora a Roma. Scrive sui treni. Per minimum fax ha pubblicato È finito il nostro Carnevale (2007), La rivincita di Capablanca (2008), Il libro dei personaggi letterari (2015) e Con in bocca il sapore del mondo (2018). Per Sellerio sono usciti L’ultimo ballo di Charlot (2012), Come un respiro interrotto (2014), Fumisteria (2015), La lettrice scomparsa (2016), Angelica e le comete (2017) e Ogni coincidenza ha un’anima (2018) e Uccido chi voglio (2020). È il curatore italiano di Curarsi con i libri e di Crescere con i libri di Ella Berthoud e Susan Elderkin (Sellerio 2016 e 2017). Ha vinto numerosi premi, tra cui il Selezione Campiello, l’Alassio, il Vittorini Opera Prima, lo Sciascia, lo Scerbanenco, l’Arpino. Dai testi raccolti in Con in bocca il sapore del mondo è stato tratto il programma L’attimo fuggente andato in onda su Rai 5 (2018).

Sono arrivato al libro di Rapino per traiettorie d’amicizia. Remo aveva letto un mio libro per minimum fax e mi aveva invitato a presentarlo a Lanciano, il suo paese d’origine, lì abbiamo scoperto di condividere molte passioni letterarie e di vita. Due o tre anni dopo mi ha invitato a scuola, dove lui ancora insegnava distinguendosi come docente “irregolare”, con questo albero di poesie… Ma soprattutto mi portò a mangiare su un trabocco, dove mi parlò di questo libro su un matto, con un linguaggio strano. Poco tempo dopo mi inviò la prima versione di Bonfiglio Liborio. Da subito mi innamorai di quel libro, dall’incipit, perché mi suonava… Come diceva Borges «i libri suonano», e Bonfiglio Liborio suona bene da subito con «questo cazzone di paese», lo senti dal primo rigo… e poi i rimandi alla letteratura del Novecento, il secolo riletto dalla marginalità… Riportare la riflessione sul Novecento poi è uno dei miei pallini, perché l’abbiamo liquidato troppo precocemente, anche sulle cose buone. All’epoca ancora non collaboravo con la casa editrice, quindi provai a farlo leggere in giro, ma quando Daniele Di Gennaro mi propose di entrare nella squadra di minimum fax gli dissi subito: «Guarda, io mi porto in dote un libro, questo libro qui». Che era appunto Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio. Citavi Borges quando diceva che «i libri suonano» e non posso che essere più che d’accordo. Però è anche vero che questo è un libro forte anche – e soprattutto – grazie a un personaggio fortissimo, benché solo. Questo è soprattutto un libro sulla solitudine: quando lavora, il manicomio, la vecchiaia, è un libro sull’essere isolati dagli altri e sentirsi isolati dagli altri. Bronski diceva «Se vuoi valutare un romanzo, leggi tanta poesia e poi guarda quanti romanzi stanno in piedi»… Pochissimi. Rapino ha lavorato sulle parole per tutta la vita, arrivando a donare a Liborio questo linguaggio simulato da


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letterato. Dentro c’è di tutto, persino il settecento, c’è Cavazzoni, c’è Ippolito Nievo… Si inserisce in una tradizione letteraria ampissima portandola vicina a noi. Ed è la dimostrazione poi della necessaria centralità del personaggio. Riportare il centro sul personaggio è anche un modo per riportare il centro sul lettore, dargli la possibilità di innamorarsi di qualcuno. Dobbiamo stare dalla parte del lettore. Tutta la parabola di Rapino e Bonfiglio Liborio ci suggerisce quanto sia importante stare dalla parte del lettore, non si può stare solo dalla parte di sé stessi, da scrittori, si rischia di peccare di presunzione. In questo caso c’è la forza di un libro semplice, tutto sommato, che puoi raccontare con una frase, già dal suo titolo. Bonfiglio Liborio è un personaggio, e a questi torniamo sempre, per affezionarci. Aver vinto il Campiello è una grande gioia, è magari anche un segnale, una direzione prossima per il mondo dell’editoria. Ci siamo conosciuti qualche mese fa grazie a due libri dietro cui “ti sei nascosto”, facendo da editor. Come sei arrivato a curare questo aspetto della produzione? È una specie di abitudine che ho da quando sono ragazzo... L’editing, i consigli, le correzioni, sono cose che ho sempre fatto per amici e conoscenti, e sono dell’idea anche che gli amici e gli affetti abbiano un ruolo nel guidarti, nel darti forza o indicazione come scrittore. Sarà banale, ma è necessario avere un occhio esterno che guardi al proprio lavoro. Quello dell’editor è un mestiere strano, non è scientifico, devi imparare a fidarti del tuo istinto. Io poi sono abbastanza incerto, mi metto sempre in discussione, mi pongo domande, ma infine è l’istinto che ci guida, ci fa comprendere immediatamente quello che abbiamo davanti. È chiaro che si riconosce qualcosa che ci somiglia, che colpisce, per farlo però non puoi avere preconcetti o pregiudizi. Personalmente poi preferisco i libri di pancia, emotivi, anche se poi la testa c’è sempre, inevitabilmente. Scrivere un libro è scrivere un’architettura, ma in fin dei conti devo sentire questa nota emotiva e anche aiutarla. Spesso si fa un lavoro di destrutturazione: «hai imparato delle cose, dimenticale». È un’esperienza di condivisione, di entusiasmo. Credo che, anche se non fosse arrivata minimum fax, per Remo, l’avrei fatto comunque. Dalla parte del lettore, dalla parte dello scrittore, ma anche dalla tua parte. È un triangolo magico quello in cui lavora l’editor? La letteratura, la musica, l’arte devono essere accessibili, libere. Devono stare dalla parte di chi le fruisce, farsi comprendere. E poi c’è l’artigianato, smonti i pezzi, rimonti altri elementi. Con Remo, per esempio, il finale era già scritto, ma lui era andato avanti, allora abbiamo tolto, siamo tornati indietro, abbiamo limato. La chiusura del libro ha qualcosa di magico e forse l’ho riconosciuta anche grazie al mio passato famigliare: durante la cena di Natale mia nonna faceva il tavolo degli assenti, apparecchiava per quei parenti lontani che abitavano in Argentina, a “Nuova York”, a Monte-


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video. Quella tavola finale di Liborio io l’avevo già vista da bambino! Il valore e il rispetto della memoria e del racconto, perché i miei avevano il rispetto per la storia e pur da semi-analfabeti avevano un’incredibile capacità narrativa. Non erano smagati, non erano come noi che abbiamo perso fiducia nel racconto. Raccontare, appunto, non è solo farlo in forma scritta, ma anche i tuoi parenti con la tavola degli assenti, che ho visto fare anche io in forme diverse, gli aneddoti, la storia orale. Per chi scrive storie quanto è importante saperle raccontare anche a voce? Si dice che Calvino fosse quasi incapace di parlare e raccontare in pubblico. C’è sempre una componente emotiva, mi sono persuaso che magari se si scrive qualche disagio con il linguaggio può esserci e diventa un modo per raggiungere l’altro, l’alterità. Ci sono scrittori-narratori, cantastorie, perché sono bravi a scrivere, ma anche a raccontare a voce, gente come Cristiano Cavina, in Romagna. Ci sono scrittori più di parole, più concentrati sul giro della frase… Parlando della mia esperienza: io ho imparato a parlare in pubblico, prima mi metteva ansia anche solo salire sul palco. Esposto lì sopra con il microfono, sei solo tu, ma con il tempo ho trovato un mio modo per risultare efficace, perché ho capito che mi piace stare in mezzo alle persone e raccontare storie. Devo confessarti che sono arrabbiatissimo verso lo storytelling commerciale e lo storytelling del sé. Si è perso il gusto per i personaggi, le parabole macroscopiche. La parola è dappertutto, ma non si sa quasi più riconoscere chi o cosa ha davvero la spinta nel mettersi a raccontare. Si soffre molto nella spettacolarizzazione di tutto, nella letteratura… Che poi ripensandoci è marginale, noi impattiamo marginalmente nella società, purtroppo. Dobbiamo trovare un modo di stare al mondo, per quanto difficile. Io sono un anti-carismatico, anti-narciso, e questa cosa cerco di tradurla nella pratica, insisto: stare dal lato del lettore. Sai che poi lì fuori c’è chi saprà distinguere cosa è autentico, anche se poi la letteratura lavora con la bugia, che è una bugia per smascherare una verità. Scrivere, raccontare, affabulare è prerogativa dei folli, come Liborio ma anche Don Chisciotte, come gli scrittori, perché scrivere è in parte anche un gesto di follia. E importante è anche come si porge il linguaggio. Faccio una digressione: ho scoperto “la lingua delle giraffe”. La giraffa è l’animale con il cuore più grosso e lontano dal cervello, un antropologo americano dice che ai bambini dobbiamo parlare la lingua delle giraffe, cioè porgere con gentilezza la lingua, imparare ad esprimere i bisogni, sé stessi, senza prevaricazione, senza violenza. Una lingua vicina al cuore. È un tempo difficile questo, pieno di insoddisfazione, è un tempo “terapeutico”, ma non in senso positivo, in cui tutti cercano un benessere individuale curativo solitario, illusorio e momentaneo, senza rendersi conto che è importante condividere una gioia, sentire un senso comunitario.


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fantastico

È una società che ci vuole separati e soli, ma così come Liborio di Rapino è solo, anche lo scrittore si auto-impone delle solitudini. Scrivere è un mestiere solitario e fai i conti con la solitudine. Più lo fai e più aumenta l’incertezza, il contrario rispetto agli altri mestieri. Impari delle cose, ma dalla volta dopo devi ricominciare da capo e di frequente ci prende il panico: «Non terminerò il capitolo, non consegnerò il libro». Le direzioni sono infinite e, quindi, sbagli. Però tutto questo è salutare, perché è un panico che obbliga poi a fidarti del tuo istinto, è un processo di fiducia. E poi lo vedi se i pezzi si dispongono, anche se sei da solo. Ti volevo raccontare una cosa successa qui in redazione di minimum fax, un paio di anni fa. Mi serve per arrivare a farti l’ultima domanda. Prima di consegnare il fumetto per Feltrinelli e prima di fondare Fantastico! avevo portato un po’ di mie cose a Daniele, che già conoscevo, perché stavamo parlando per un’eventuale pubblicazione. Era la prima volta che, da solo, mi sedevo alla scrivania di uno come lui, che stimo moltissimo, in attesa di un verdetto. Mi disse che per saper scrivere, evidentemente sapevo scrivere, ma per quanto mi conosceva, dentro quelle parole non c’era la mia voce, non mi riconosceva. Era la prima volta che mi arrivava un giudizio simile e quando uscii dalla porta, seduto in macchina, pensai: «Guarda te ‘sto stronzo!». Ho capito nel tempo cosa voleva dire, perché ad uno come me avesse detto quella frase e mi aiutò ad allinearmi con la scrittura, con le mie competenze. Infatti, da lì ho scritto pochissimo, felicemente, e ho progettato moltissimo, molto più felicemente, cose che mi somigliano. In cui c’è la mia voce. Tagliando corto: mi sono persuaso che fare lo scrittore non è un obbligo, non te lo suggerisce il dottore; ma dal canto mio non saprei che suggerimento dare a chi vuole provarci. Tu che hai più esperienza di me, hai un suggerimento, una proposta, qualcosa da dire a chi vuole provarci? La scuola di lettura è la prima scuola da affrontare per chi vuole scrivere. Dobbiamo leggere, sempre, il più possibile. E poi ascoltare tanta musica, proprio perché è un discorso di allenamento dell’orecchio: si scrive con le orecchie. Tutti pensano che per scrivere serva l’occhio, lo sguardo, invece è una proiezione musicale, non visiva. Come i sogni, che si fanno ad occhi chiusi, ma hanno suoni e colori. Ascoltate quello che vi pare e cercate di capire qual è la musica che sentite più affine, perché corrisponderà a quello che diventerà il vostro modo di scrivere.


punto esclamativo

Viaggi a chiocciola

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di Anna Di Prima

#3 Bon Apétit Se ti sei mai chiesto cosa possa offrire il nostro social preferito dal punto di vista culinario (oltre le foto della vendemmia di Cracco) sei nella pagina giusta! Il lato molto shock e poco chic del food porn, un viaggio per minori accompagnati nel mondo dell’#InstagramFood e tutte le golosità che forse ti sono sfuggite.

@totallygourmet La crème de la crème del “peggior food” di Caracas curato dall’occhio vispo di @uglydesign. Forme bizzarre, gusti improponibili ed eleganza da svendere in questa trash collection che coinvolge ogni portata del pranzo della domenica.

@pastarelle E non c’è pranzo della domenica senza PASTARELLE, “pastry romance” by @priscylli. Preparati a navigare in un mare di crema pasticcera alla granella di pistacchio, mezz’ora di scrolling basta per coprire il fabbisogno giornaliero. Di tutta la famiglia.


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fantastico

@panolo_blahnik Se hanno mai provato a venderti una dieta No-Carb, questa è la ciabatta giusta da lanciargli. La croccantezza della rosetta incontra l’irriverenza del tacco a spillo, che se ne escono favolosi e vincenti in questo profilo dal sapore estremamente modaiolo.

@meals.on.reels Semplicemente le migliori mangiate cinematografiche raccolte da @binchuation e spiattellate su Instagram. «Senti st’olive, so greche!».


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punto esclamativo

@lindseygazel Alti e bassi della cultura pop al profumo di biscotti. A differenza dell’ormai diffuso gusto comune, continuo ad adorare i dolci pieni di zucchero e colorante. Un profilo che fa venire voglia di tutto, tranne la fame.

@ice_cream_books Finalmente è arrivata la quota Pinterest della rubrica: dolcissime coppie di grandi letture e adorabili dessert. Esempio preferito: il libro sui Simpsons (by @olivierlebrun) comodamente disteso su due palline di gelato Twinkies.


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fantastico

@foodiesinthewild Phones eat first. Che tu sia al fast food o al ristorante stellato, ricordati SEMPRE di fotografare quello mangi. E magari ricordati di mangiarlo. @foodiesinthewild è una raccolta quasi olimpica dei migliori set fotografici a cui spesso capita di assistere.

@chinese_plating L'appetito vien guardando: viaggio documentale negli archivi del food design cinese del 20th. Vere e proprie sculture vitaminiche, impiattamenti talmente elaborati da far sembrare le piĂš banali Cucurbitaceae le piĂš antiche giade asiatiche.


punto esclamativo

Scrivimi quando arrivi

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di Francesco Raco

Inizio febbraio 2020. Il festival di Sanremo in tv. Fra pochi giorni ho un volo di sola andata per il Sud America. Lascerò in un colpo solo casa e lavoro in Veneto. Prima però è il caso di passare in Calabria per salutare i miei. La sera precedente alla mia ripartenza ho una lunga discussione con mia madre. Amadeus intanto presenta il duetto Bugo-Morgan. Sto facendo qualcosa che mia mamma non riesce a concepire. Un vero e proprio salto nel vuoto. Sto lasciando una vita stabile, per cosa? Un viaggio lontano. I toni si accendono. «Le brutte intenzioni, la maleducazione…» Morgan, nel suo outfit leopardato, inizia a cantare la sua versione alternativa di Sincero. La discussione con mamma, proprio prima di andar via, mi lascia l’amaro in bocca. La lascio in cucina e salgo di sopra molto turbato, non volevo andarmene così. Nel mentre Bugo abbandona il palco e Morgan si appresta a diventare un meme vivente. Quella notte non chiudo occhio. Ho troppi pensieri per la testa. Percepisco l’importanza e il peso delle mie decisioni. È da qualche giorno che ho la mezza idea di tenere un diario di viaggio. Scrivere mette in ordine le cose. Ti costringe a prendere quel brusio continuo che tutti abbiamo in testa e dargli una sistemata. Il 2019 è stato l’anno in cui ho iniziato a mettere su carta i miei pensieri. Ho la mezza idea di portare questa pratica molto intima e personale su una piattaforma tutt’altro che privata. Al mattino metto i piedi a terra e penso: se terrò un diario voglio che sia rivolto a mia mamma. Forse così, coinvolgendola in quell’avventura, allevierò le sue paure e, chi lo sa, magari migliorerà anche il nostro rapporto, la nostra comunicazione spesso così conflittuale. Perché farlo pubblicamente con un blog? Perché voleva essere un canale di comunicazione anche per tutti gli amici che si sarebbero chiesti «che fine ha fatto Fraco?», ma devo essere sincero: c’è sempre una componente di vanità, o, se vogliamo dirlo diversamente, “amore per sé”. Ci metto tanto di me, della mia personalità un po’ cazzara e un po’ sognatrice. Che poi il blog non è altro che una variante di quello che già faccio per lavoro, ovvero raccontare storie con le immagini. Scrittura e video editing sono fondamentalmente la stessa cosa, o meglio: forme diverse di storytelling. È l’11 marzo. Io e Benedetto, dopo un mese di viaggio tra Brasile, Argentina e Cile abbiamo raggiunto il Sud del Sud. Dopo un mese esatto dalla partenza, viene annunciata l’emergenza mondiale e lo stato di pandemia. Panico. Su un traghetto di ritorno da Ushuaia un cileno, vedendomi con la mascherina, mi rassicura: «Tranquillo! Il coronavirus non ci raggiungerà. Ci sono le Ande che ci proteggono!». Il 13 siamo a Santiago. In Cile avremmo dovuto passarci qualche settimana, ma il mio amico torna in Europa. Io mi rintano in un appartamento della capitale e prendo tempo mentre la paura pian piano arriva anche lì dentro. Sono giorni molto difficili. Non accetto che quel viaggio, che per me rappresentava molto più di un viaggio, possa fermarsi dopo solo un mese, in quel modo. Studio la mappa epidemiologica per trovare una via di fuga. Sono sul punto di fare un milione di cose, ognuna delle quali alla fine non si concretizzerà. Contattato anche una certa signora Glenda


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fantastico

con Workaway, un sistema che ti dà la possibilità di trovare vitto e alloggio in cambio di un lavoro part-time. Sarei dovuto andare ad Atacama a prestare aiuto per la costruzione di un camping nel deserto e in cambio lei e suo padre novantenne mi avrebbero tenuto con loro: mi vedevo già a giocare a carte nel deserto con l’anziano. Prenoto il volo, Glenda non vede l’ora di accogliermi, mentre minimizza sui rischi del Covid. Invece il 27 marzo la congedo definitivamente: anche quel volo è stato cancellato. Le prometto che prima o poi tornerò e lei mi risponde con un agrodolce: «Que todo salga como tú deseas», Che vada tutto come desideri. Il 1° aprile, il giorno del compleanno di mia mamma, dopo un volo straordinario quanto infinito di quasi tre giorni, organizzato dall’Unità di Crisi, arrivo a casa mia, in Calabria. Pensavo che l’esperienza del blog fosse finita lì. Invece pian piano il progetto ha trovato nuova linfa. La pandemia non aveva spento la mia voglia di esplorare né quella di raccontare e, anche se i paesaggi non erano esotici come quelli sudamericani, questo periodo è stato fondamentale per fare quello che mia madre, dal canto suo, predica da una vita: prima di andare lontano conosci la tua terra. Ho sempre rifiutato questo consiglio soprattutto perché seguendolo avrei visitato il Sud America, al meglio, in veneranda età. O magari sarei morto prima. Ecco che il destino si beffava di me, costringendomi ad accontentare la mamma e ritrovandomi a perlustrare la Calabria senza pianificazione, traendone le maggiori soddisfazioni. Non solo per la bellezza dei luoghi, ma anche perché in questi mesi ho avuto l’impressione che qualsiasi cosa accada, anche se in quel momento può sembrarti una grande botta di sfiga, può trasformarsi in un’opportunità. Sta a noi coglierla. non è facile, perché è necessario un cambio di prospettiva. E poi ho fatto mio il vero senso del viaggio, che non dipende strettamente da dove sei o dove vai, ma è in realtà una vera e propria attitudine. L’attitudine di essere sempre in movimento, ma non in fuga. Di comprendere che tutto cambia, passa e, quindi, vale la pena di fermarsi per godere di quello che il presente ti sta offrendo. Credo che sia stato necessario questo viaggio, che non è ancora concluso. E credo che non finirà mai. Ho ancora voglia di perdermi e di sbagliare strada. E a tal proposito c’è un verbo che amo particolarmente, perché include entrambi questi concetti: errare. E mentre continuo ad errare, nel dubbio, scrivo. Anche se non sono ancora arrivato.


Foto di Benedetto Conte

punto esclamativo

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Cile. 8 marzo 2020. Sveglia alle 2:30 di notte. Cravatta al collo, torcia frontale. Trekking notturno nella Patagonia cilena. Dobbiamo arrivare in tempo per la première dello spettacolo di domattina. Il teatro è fantastico e la messa in scena è superba. Oltre a una splendida alba la “compagnia de Las Torres” improvvisa anche un arcobaleno tra le gelide e annuvolate cime. Bellissima poi l’idea di coinvolgere il pubblico sul palco. In questo scatto il momento più alto della mia interpretazione. 92 minuti di applausi.


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fantastico

Calabria. 12 aprile 2020. Come tante biglie impazzite il virus si diffonde per tutta la terra. In Italia è il tempo delle autocertificazioni e dei tutorial su come fare il pane a casa. L’Unità di Crisi chiede la mia estradizione e a breve anch’io mi unisco ai miei connazionali. Sono i giorni in cui mi affeziono terribilmente a Enrico Mentana. Mi rintano a casa dei miei e mi rifugio spesso sul tetto di casa. Il sole e le pastasciutte di mamma rendono questo mio brusco ritorno a casa un po’ meno amaro.


punto esclamativo

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Calabria. Maggio 2020. Fase 2. Si aprono le gabbie e si torna a vivere. Tanta libertà in un colpo solo mi spiazza. Io penso, è uno scherzo, sorrido e mi alzo. Cammino senza sosta. Un viaggio iniziato in Brasile sta proseguendo nei boschi calabresi. A che gioco stiamo giocando? Forse a Monopoly, che a volte vai in prigione, a volte i dadi ti fanno passare dal via. La vita è un bellissimo gioco da tavolo.


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Non sono sicura che io esista

fantastico

Un omaggio alla mia collezione di donne Foto di Carolina Merlo Bellissime, disperate, resistenti, vivaci, semplici, coraggiose, delicate, travolgenti. Nelle mie parole ci sono i loro ricci, un profumo che passa per strada, le dita intrecciate, l’ingresso in una stanza, uscirne di fretta con grazia, il modo sbagliato di reggere il bicchiere, uno sguardo di lato, mordersi il labbro, coprire il sorriso. Nei miei giorni ci sono i loro accenti, le storie, pensieri, ricordi: sono il bagaglio che non imbarco, il reso che non intendo firmare.

ELEONORA

CM


ELISA

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ERIKA

punto esclamativo


LAURA

FRANCESCA

60 fantastico


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Non sono sicuro che io esista, in realtĂ . Sono tutti gli scrittori che ho letto, tutte le persone che ho incontrato, tutte le donne che ho amato, tutte le cittĂ che ho visitato F. Pessoa

MARTINA

punto esclamativo


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Sono solo parole

fantastico

di Johnny Shock

È una fredda sera di settembre, in quel periodo dell’anno in cui sono finiti gli esami, non sono ancora ricominciate le lezioni e non c’è proprio un cazzo da fare. Odio queste giornate, soprattutto perché abbiamo così tanto tempo a disposizione che spesso lo utilizziamo nel modo sbagliato e ce ne pentiamo quando ricomincia la routine universitaria ad ottobre. Nello specifico, stasera siamo in sei a casa di uno di noi, sdraiati su un lunghissimo divano a parlare del niente, in attesa che arrivi mezzanotte per tornare a casa. Nel flusso di discorsi, uno di noi racconta che un nostro amico in comune, che quella sera non è presente, è così tanto sconfortato dell’aver passato i venticinque senza aver mai avuto una ragazza da essersi iscritto, contro ogni suo precetto morale, ad una nota app di incontri. Uno di noi propone di creare un profilo finto di una ragazza e di cercarlo, per capire che cosa abbia scritto di se stesso. È un’idea del cazzo, ma siamo parecchio annoiati (e in parte anche curiosi) e ci convinciamo a farlo dopo un paio di minuti. Mentre mi iscrivo al sito con la mia mail, altri due scaricano da internet una foto di una ragazza da usare come immagine del profilo, cercando su Google “Ragazze carine che bevono birra”. Scegliamo un nome finto, scriviamo una descrizione molto generica e siamo dentro. Gli altri si mettono a capannello intorno a me che, nei panni di Elisa, inizio a fare delle ricerche, sfruttando tutti gli strumenti che ho a disposizione. Purtroppo non esiste la barra di ricerca diretta, ma le persone appaiono secondo un algoritmo che prende in considerazione vari fattori di compatibilità, tra cui vicinanza geografica, interessi, fasce di età e altro. Nei primi due minuti non succede assolutamente nulla: del nostro amico nemmeno l’ombra, mentre io continuo a rifiutare tutte le proposte provenienti da uomini etero arrapati. Poco dopo, non sappiamo bene per quale motivo, le richieste di conversazione da parte di gente a caso iniziano ad aumentare esponenzialmente: ogni dieci secondi veniamo interrotti dalla notifica dell’arrivo di un messaggio, sempre da uomini nella fascia di età 25-35. Gli approcci non sono sempre dei migliori: un po’ imbarazzanti, ma non scortesi. Mi sento stranamente apprezzato. Sulle primepenso che ricevere complimenti non richiesti non sia così terribile come raccontano certe pagine sui social. Forse abbiamo perso la capacità di apprezzare la spontaneità degli sconosciuti, o forse sono stato fortunato io. Mi perdo nei meandri di queste considerazioni e non mi rendo conto che, nel frattempo, non ho risposto a nessuno dei ragazzi che mi hanno scritto. Gli apprezzamenti ed i complimenti sinceri, in pochissimi minuti, alla ricezione di un visualizzato senza risposta, sono evoluti in commenti spinti sul mio aspetto fisico, o almeno, su quello di Elisa, per poi passare alle proposte e poi agli insulti, da «Chi ti credi di essere?» a «Stronza», passando per «Figa di legno», un generico ««Escile», un sottile «Che ti farei», corredato da una miriade di emoji allusive e un tentativo di mettere le cose in chiaro fin da subito: «Guarda che io cerco una storia seria, se non sei interessata basta che mi rispondi». Guardo gli altri mentre le richieste di messaggi continuano ad aumentare, assieme agli approcci creativi, quelli impazienti e, naturalmente, gli insulti. Non mi sono mai trovato in una situazione del genere in tutta la mia vita e non so come reagire. La crescita è vertiginosa e non riuscirei a rispondere a tutti nemmeno volendo, ma lascio correre e cerco di non leggere più nessuna delle notifiche che mi arrivano. Ho anche dimen-


punto esclamativo

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ticato perché stia facendo questa cosa e l’unico desiderio che ho al momento è di spegnere tutto. Mi sento violato. Mi sento violato e, anche se non sono solito ricevere complimenti, l’ultima mezz’ora è bastata e avanzata. Mi sento violato perché sentirsi trattati come dei pezzi di carne è terribile e io, maschio bianco etero con un grado di autostima essenziale, ma non spropositato, non lo avevo mai realizzato. Mi sento violato per tutte quelle volte che ho sentito dire da parte di qualche ragazzo che sono solo complimenti. Mi sento violato perché molti di questi non erano degli approcci creativi, ma seppur digitali, delle molestie. Perché offendere qualcuno se non ti risponde? Perché riempire di volgarità una persona sconosciuta? Che senso ha chiedere di mostrare il proprio corpo senza alcuna mediazione? Mi sento violato e dentro di me ora sorge un dubbio. Chissà a quante ragazze in passato, forse anche inconsciamente, ho fatto provare la stessa sensazione, senza dare il giusto peso alle parole. Chissà quante persone ho messo a disagio facendo qualche commentino del cazzo, solo perché non ho avuto la maturità… La pazienza o la voglia di capire. Esco dall’account, cancello il profilo e disinstallo l’App.


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Noi non abbiamo colpa

fantastico

Intervista a Marta Zura-Puntaroni di Arianna Capulli A tre anni dall’uscita di Grande Era Onirica, Marta Zura-Puntaroni torna con Noi non abbiamo colpa, nuovo romanzo edito da minimum fax. Noi non abbiamo colpa è un inno all’imprevedibilità della vita. Anche dove il tempo e le abitudini sembrano avere il tratto distintivo della monotonia, qualcuno, d’un tratto, può capitare ci dica qualcosa che non avremmo voluto sentire. Tante donne, ognuna con la sua personalità, col suo ruolo nel mondo, in una parte di mondo. Ciao Marta, la domanda in genere più fastidiosa: come stai? Dici bene, è una domanda che odio. È una domanda a cui non c’è risposta giusta: da una parte nessuna delle persone che te la fa vuole veramente avere scaricati addosso tutti i tuoi problemi, lo sta dicendo per educazione, convenzione. Dall’altra parte non vuole neanche sentirti elencare tutti i tuoi successi nel caso la vita ti stia andando bene, non è il caso di vantarsi o suscitare invidie. Ormai quando devo per forza rispondere a un «Come stai» mi limito a un «Si tira avanti». È la risposta che dava mia nonna. «Se non lo sai fare non lo sai neanche comandare». Ti anticipo che farò buon uso di questa massima custodita nel tuo romanzo, io che faccio trovare casa pulita alla signora che viene ogni tanto ad aiutarmi. Se non l’hai vissuto ti puoi ugualmente immedesimare? Penso che sia possibile immedesimarsi. Credo di essere una persona relativamente empatica, credo di immedesimarmi parecchio nelle storie, nei drammi degli altri. Non è sempre detto che però l’immedesimazione o l’empatia mi permettano di sentirmi così vicino a qualcosa da farmi trovare la voglia di scriverne. Scrivere di te, della tua vita. Durante una diretta Instagram di presentazione dicesti che dove c’è scritto romanzo in copertina è pressoché impossibile non ci sia la vita dello scrittore nel libro. Non hai mai nascosto questo libro parlasse anche (o soprattutto) di te, di voi. Cosa ci si aspetta/augura quando ci si rende conto di aver rivelato parte del proprio vissuto? «Tutto quello che può fare un romanziere è tentare di analizzare l’animo umano, e l’animo umano è qualcosa di troppo incongruo, meraviglioso, complesso per essere circoscritto in una parabola, per essere limitato dal dovere di educare, per poter ignorare il male e il bene che naturalmente e inevitabilmente convivono al suo interno».

Principalmente mi auguro di sfuggire a due cose: la domanda pruriginosa sull’autobiografismo – quella che vuole sapere chi è chi, cosa è vero e cosa è falso, cosa è successo e cosa è inventato, la domanda che di base è solo pettegolezzo – e la recensione negativa che si apre o si conclude con un commento sul mio coraggio – questo è capitato molto con Grande Era Onirica, il mio primo libro, anch’esso parzialmente autobiografico: i «apprezzo molto il coraggio di Marta per aver parlato di questo argomento», i «senza nulla voler togliere al coraggio di parlare di qualcosa di così doloroso». Secondo me chi legge un romanzo a questa maniera non ha capito proprio come si leggono i romanzi. Ti è piaciuto, non ti è piaciuto, va bene: il fatto che la mia storia sia la mia storia non dovrebbe dare o togliere nulla al romanzo, il particolare è l’universale, nulla che ci accade è accaduto soltanto a noi.


punto esclamativo

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«Ho riconosciuto in lui l’egoismo che per un periodo mi ha caratterizzata, l’egoismo del depresso, che non riesce a riconoscere altro che la sua sofferenza». Mi ha colpito molto questa frase perché ritengo sia un’affermazione fondata, ma in questa forma, dovessi affermarlo io di questi tempi, avrei paura di essere fraintesa. Com’è scrivere un libro in un momento storico in cui bisogna stare attenti a quello che si scrive? Come scrittrice, senti di avere delle responsabilità nei confronti del lettore? No. Sono una romanziera, e il romanzo non deve essere pedagogico, non deve educare, non è una parabola cristiana, non rivela verità morali. Tutto quello che può fare un romanziere è tentare di analizzare l’animo umano, e l’animo umano è qualcosa di troppo incongruo, meraviglioso, complesso per essere circoscritto in una parabola, per essere limitato dal dovere di educare, per poter ignorare il male e il bene che naturalmente e inevitabilmente convivono al suo interno. Mentre scrivo non penso mai al lettore, ma soltanto a quello che sto scrivendo. C’è un momento in cui, a fine libro, ovviamente si riprende in mano tutto e si rende, passami il termine, presentabile: si riempie qualche buco di trama, si alleggeriscono frasi o giri di parole, si bada all’ordine e al ritmo. Ma questo è un lavoro che si fa alla fine e la priorità è sempre non snaturare quello che si è scritto. Quando dico questa cosa, ossia che non penso ai lettori, molti si offendono terribilmente. Io credo sia molto più rispettoso e meno paternalistico dare in mano ai lettori qualcosa di autentico, vivo, non qualcosa di già morto, vivisezionato, masticato come ormai tanto spesso accade. Non mi piace trattare il lettore come uno stupido o un incapace, non credo quella sia letteratura. Hai più volte squarciato pubblicamente la tela che raffigura lo scrittore chino sulla scrivania, determinato e concentrato, fiero e crogiolante nelle sue parole. Ti va di raccontare le tue abitudini da scrittrice? Consegno i capitoli sempre in ritardo, faccio disperare il mio editor, difficilmente quando inizio a scrivere un libro so come andrà a finire – Grande Era Onirica è stato scritto quasi in trance, senza nessuna consapevolezza, mentre per Noi non abbiamo colpa la cosa è stata ancora più assurda: ho tentato di fare la “scrittrice per bene”, tentare di darmi uno schema a inizio libro per seguirlo poi nella stesura. È stato un fallimento: ho scritto qualcosa di totalmente diverso da quello che “volevo” scrivere, mi sono trovata a essere mera esecutrice fisica di personaggi e storie che avevano una loro volontà e mi hanno governato fino all’ultima parola. E visto che il mio più che un lavoro da scrivano è una seduta spiritica scrivo spesso di notte, a letto. «In città incontrarsi è un’ansia fatta di spostamenti che rubano ore alla vita». Secondo te, si potrebbe fare qualcosa per rendere le città appiccicose e confortevoli come i paesi? Oddio, non lo so anche perché – devo ammetterlo – non ho mai vissuto in una città, a esclusione dei sei mesi di Erasmus a Parigi,


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fantastico

dove comunque avevo reso il mio quartiere “paese” e difficilmente mi spostavo da lì. Sono una ragazza di campagna, al massimo da centro storico di borgo medievale, non so dare soluzioni perché non conosco veramente i problemi di chi vive una metropoli. La Marta alter-ego del romanzo vive in una città – non si capisce bene se Roma? Milano? – e per descrivere la sensazione di fatica ho pensato a mia sorella, che vive a Milano da quasi dieci anni, o agli aneddoti degli amici che vivono a Roma. È pure una questione di carattere: c’è chi probabilmente morirebbe di noia a vivere come faccio io nei pochi chilometri quadrati del centro di Siena o negli spazi ampi, ma dalla densità quasi nulla, della campagna maceratese. Il mestiere della badante. Trovo tu ne abbia parlato in modo onesto, sincero, rispettoso. Hai dei suggerimenti da dare a chi non riesce ad affidarsi, a delegare, come, in parte, capita ad Antea? Andare in psicoterapia vale? Purtroppo c’è un’eredità matriarcale – che poi è quella narrata nel libro – molto forte che condanna tantissime donne ad avere a che fare con aspettative altissime in merito alla cura che devono dedicare all’altro. Badare ai figli, badare agli anziani: anche se il badare non è pratico, ma soprattutto psicologico, c’è sempre da incastrarsi da sole nel ruolo di martire della famiglia, anche provando piacere nelle sofferenze che derivano da questo stato. Ho rischiato di farlo io stessa più e più volte, ripetendo esattamente gli schemi che mi erano stati inculcati da mia nonna, senza che io abbia particolari doti da governante o da massaia. Se ci sono cascata io significa che è un rischio concreto per molte. L’unica maniera in cui sono riuscita a sfuggire a questa trappola, quella della crocerossina che bada a tutti e così ha la scusa per lamentarsi e non badare a sé, è stato parlandone con la psicoterapeuta.


punto esclamativo

Tre movimenti e un epilogo

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di Urfidia

Primo movimento La sveglia è alle sei. Si alza e infila le pantofole che le hanno regalato le bambine a Natale. Va in bagno, si pettina e mette la vestaglia. Poi scende a preparare la colazione, mette sul fuoco la moka da sei, scalda il latte e apparecchia la tavola con cereali, biscotti, pane e marmellata. Chissà stamane cosa vorrà mangiare Lucia; è la più grande, ma è anche quella che fa storie su tutto. Sofia, invece, prende quello che le capita a tiro, vale per il cibo come per tutto il resto. Torna su a svegliarle, un bacio e qualche parola bisbigliata all’orecchio, poi spalanca le persiane e richiude in fretta la finestra, perché non entri il freddo – «Vi aspetto giù, dai che è tutto pronto». Fa in tempo a svegliare anche il marito, prima di correre a togliere il caffè dal fornello. La mattina presto è così, tutta in salita, un incastro dopo l’altro, sempre con l’occhio all’orologio. È già tutto predisposto: i vestiti scelti la sera prima, le cartelle pronte, i compiti fatti, ma le bambine trovano comunque il modo per bisticciare e ritardare sulla tabella di marcia. Stamattina il motivo del contendere è lo specchio del bagno: chi si fa i codini per prima? «Mamma, no! Se lei si fa i codini, allora io voglio le trecce, mamma, ti prego fammi le trecce!». La piccola è in piedi davanti allo specchio che si annoda gli elastici alla bell’e meglio, i codini sono storti e ciuffi di capelli sparano disordinatamente da ogni lato. «Bene, Sofi, ora vai a metterti le scarpe mentre sistemo i capelli a tua sorella», si sono fatte le 7.20 e alle 8.00 devono essere a scuola: «Siamo in ritardo, ti faccio una treccia singola perchè non c’è tempo». Di rimando la bambina tira su col naso e incrocia le braccia. Le mette la sua molletta preferita, un fiocco rosso in tessuto con sopra una perlina, ma nemmeno quello sembra rasserenarla. Ad ogni modo, non può fare altro per lei, non c’è tempo. Prende giacca e chiavi della macchina, saluta con un cenno il marito ed esce, seguita a ruota dalle bambine. Quegli zaini sono enormi per le loro piccole spalle. Li ha comprati fluorescenti apposta, fucsia e arancione, per poterle riconoscere al volo, soprattutto quando escono la mattina in mezzo alla nebbia e lei sta facendo manovra con l’auto. La treccia ordinata e i codini scomposti. La provinciale è scorrevole finchè non si arriva alla seconda rotonda, lì c’è l’immissione dagli altri paesi e ci si incomincia a incolonnare, un’auto alla volta, una dietro l’altra. Il parabrezza da spannare, la radio accesa, le bambine ormai silenziose sui sedili posteriori, mentre dai campi, ancora timida, sale la nebbia. Si sta solo preparando per dicembre e gennaio. La nebbia dolce d’ottobre svanisce in fretta mangiata dai gas di scarico. Arrivate a scuola, lascia la macchina in doppia fila, un bacio e qualche parola bisbigliata all’orecchio. La mamma di Viola la ferma al volo, «Per un caffè» le dice. Così si attardano a chiacchierare. Non ama molto avere a che fare con le altre mamme, con i loro gruppetti, i pettegolezzi e i sotterfugi, ma la mamma di Viola le sta simpatica, chiacchiera tantissimo e non fa mai domande. Lei la ascolta divertita perché racconta sempre aneddoti buffi e non sparla mai delle altre. Sa di essere il pubblico meno adatto a questa esuberante performer, non le sta dietro, non tiene il passo, ride in ritardo alle battute e legge la delusione sul volto dell’altra. Un clacson la salva dall’imbarazzo di non essere all’altezza, deve spostare la macchina e si salutano in fretta. Secondo movimento Mentre chiede scusa all’automobilista e mette in moto, sente le campane a morto della chiesa di fronte. L’altro esce sgommando dal po-


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fantastico

steggio e lei, dopo aver controllato che la mamma di Viola non sia più nei dintorni, mette la retro e parcheggia. Poi scesa dall’auto, le gambe, inspiegabilmente forti e decise, attraversano il sagrato e la trascinano in chiesa. Dentro c’è solo un parente. Il prete sull’altare si fa il segno della croce. In mezzo alla navata principale campeggia il feretro coperto di fiori. Lei resta in fondo, sulla destra, vicino alle candele che tremano al suo passaggio. Le colonne la nascondono alla vista del parroco. Segue l’omelia funebre, la voce monotona e priva di emozione dell’officiante, le volute di incenso che lentamente salgono, si spandono, attraversano tutte le navate e arrivano prepotenti al naso. Le vede chiaramente dissolversi controluce, attraverso le vetrate colorate mentre il sole fuori è già alto. Pensa al funerale della Ersilia, quando lei era ragazza e abitava ancora in città: tutto il quartiere si era raccolto attorno alla scomparsa della vecchia signora. Le porte della chiesa erano rimaste aperte, tanta era la gente che si accalcava per l’ultimo saluto. Ricorda la commozione del prete, che sospirava e si soffiava il naso in continuazione, del sindacalista di via Conte Rosso, aggrappato alla giacca della moglie, della parrucchiera struccata. Rivede ancora Ersilia che batte il bastone a terra a scandire le parole, i racconti, il tempo che passa inesorabile. Quella vecchina di novanta e passa anni la conoscevano tutti, col suo legno ricurvo vagava per il rione come un aedo senza posa, pronta a fermarti e raccontarti una storia. Che bello sarebbe se il suo fantasma fosse ancora lì, in quelle vie piccole e popolari, dove per chiamare gli amici bastava lanciare un urlo verso le finestre, con le vecchine addossate ai muri, sedute a chiacchierare e a studiare i forestieri, mentre il barista, dall’altro lato della strada, tirà giù l’ennesimo espresso e si stappa la prima birra della giornata. Ma non è nel suo vecchio quartiere, questa non è la sua città e lei non è più la ragazzina di un tempo. Il tempo si è fermato in questa chiesa di provincia senza un’anima da abbracciare, mentre un prete assente vomita parole vuote verso quell’unico parente. Accende una candela. Poi si volta, dà le spalle all’altare ed esce. Per curiosità si ferma a leggere il nome del defunto: Brigida Vescovo. «Che la terra ti sia lieve», come si dice in questi casi. E se morisse lei ora? Chissà chi verrebbe al suo funerale. Certo, il marito, le bambine, la sorella da Treviso, più scocciata dal viaggio che affranta dalla inconsistente perdita. E la mamma di Viola. Forse. Ma solo se l’evento può rientrare nel repertorio da intrattenimento da bar. No, troppo lugubre. Lei non verrà. Terzo movimento Nonostante la stanchezza, quella notte non riesce a dormire. Tutti in casa stanno già riposando da ore, ma lei non riesce proprio a chiudere occhio, continua a ronzarle in testa quella sciocca domanda: «E se morissi ora?». Si alza e comincia a girovagare per casa a piedi nudi. Controlla lo studio del marito, si ferma qualche istante in camera delle bambine ad ascoltarne il respiro regolare, dormono serene. Poi scende dabbasso, beve un bicchiere d’acqua e si ferma a scrutare l’oscurità fuori dalla finestra della cucina. Non fa nulla di particolare, è solo una donna inerte, in mezzo al nulla, in una lunga notte d’autunno. Spalanca la porta di casa e si arresta a guardare il giardino con l’auto posteggiata nel vialetto, la bougainvillea che si prepara all’inverno, i giochi delle bambine sparpagliati sulla destra, vicino all’altalena. Sono ombre note, conosciute, ombre


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in cui può affondare la mano perchè sa già quello che troverà. Tutto è silenzio. Tutto è immobile. La luna è piccola e lontana, tanto che pare un lumino sul punto di spegnersi, oltre il giardino è buio totale. Là fuori non c’è niente per lei, solo campi freddi, messi a riposo sotto il letame. In generale, là fuori non c’è proprio niente per lei. Passa veloce un’auto sulla provinciale, un breve ronzio, i fari fendono l’oscurità, è questione di pochi secondi, poi tutto torna come prima. Il silenzio fisso e scuro, come una gelatina densa e collosa che si attacca alle dita, ai capelli. Lentamente gli occhi si riabituano al buio, scende i tre gradini che la separano dal patio, lo attraversa e esce dal cancelletto. Sente sotto i piedi la terra umida dell’autunno, di quelle notti lievi che portano ancora per poco i dolci segni dell’estate. Copre quei pochi metri che la separano dalla strada provinciale e poi raggiunge l’asfalto tiepido. E prende a camminarci sopra. Si sente come ipnotizzata, come se il rapido baluginare dei fari l’avesse sedotta e incoraggiata. Eppure si sente tanto stanca, tanto, come se stesse camminando da ore. Da quanto tempo è là fuori? All’improvviso si ferma, deve riposare, è sudata e scossa da tremiti, il respiro affannato. Si guarda attorno ed è tutto così buio, ha paura ed è stanca. Deve riposare. Così si sdraia in mezzo alla carreggiata. Un fantasma bianco riverso lungo la strada, i capelli sparpagliati intorno al viso, le mani giunte e composte sul petto, le piante dei piedi nere, aspetta che arrivi un’auto a travolgerla. Sopra di lei c’è il cielo scuro, immenso, pronto a inghiottirla, mentre sotto la lingua d’asfalto la solleva col suo terrore caldo. Resta lì, ferma e composta, cercando di perdersi nella volta celeste, convinta che in un attimo si possa scomparire, finendo tra le fauci del creato. Aspetta e aspetta, ma non accade nulla. Non arriva nessuno, il cielo non le casca addosso e gli animali non corrono a divorarla. Quel mondo così crudele, incredibilmente, la notte dorme come tutti gli altri. Ed ora anche lei è così stanca che vorrebbe solo dormire. Chiude gli occhi, «Solo per un istante, solo un istante» si dice. Epilogo Quando si risveglia qualcosa nel cielo è cambiato. C’è una lontana sfumatura di rosa. E lei è ancora viva, non è passata nessuna auto. È ancora viva. Si è solo appisolata. Da quanto tempo è là fuori? Si alza, si scuote la camicia da notte, si sistema i capelli e torna verso casa. Pochi metri. Aveva fatto solo pochi metri. È un altro giorno, ma verrà una nuova notte. Domani, forse, domani sarà la notte giusta. Potrà tornare a vagare nel buio e sarà la volta buona, ne è certa. C’è sempre un lieto fine. Ma ora deve occuparsi delle bambine. Rincasa, cambia il pigiama, infila le pantofole, prepara la colazione, mette sul fuoco la moka da sei, scalda il latte e apparecchia la tavola con cereali, biscotti, pane e marmellata. Chiama le bambine una, due volte, ma loro non rispondono. E allora sale a svegliarle.


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Cartacei cartacei

fantastico

Intervista a Chiara Gandolfi di Anna Di Prima Se penso al copywriting, penso a BalenalaB. Chiara, verbal designer, vive a Parigi e trova sempre le parole giuste. Aiuta i brand a scoprire la loro identità verbale, tiene corsi, offre consulenze e regala incredibili spunti e vademecum creativi per gli appassionati iscritti alla sua newsletter. Non potevamo che farle qualche domanda. Ciao Chiara, e benvenuta su Fantastico!. In quanto collettivo di persone a cui capita di scrivere, ci sentiamo già irrimediabilmente connessi con la tua realtà. Ci illustri chi sei e di cosa ti occupi? Sono Chiara Gandolfi, classe 1980, vagabonda. Nasco nelle Marche, esploro la provincia lombarda in lungo e largo, lavoro a Milano, a Bergamo, Brescia, mi fermo un po’ sul Lago di Garda, vado ovunque mi porti il meridiano del cuore. Ora, per esempio, vivo a Parigi. Sono una libera professionista: sotto il nome di BalenalaB mi occupo di progettare l’identità verbale dei brand. Che roba è? È il linguaggio che gira intorno alla marca e lo definisce: nome, payoff, testi, tono di voce. Un lavoro che è allo stesso tempo creativo e rigoroso. Alla fine sono un’ostetrica psicologa guida turistica astronauta chef. Insegno copywriting pubblicitario e ho scritto un manualetto per trovare il proprio stile nella scrittura. Ho un progetto che si chiama My Italian Voice: qui registro audio professionali per video, spot, audioguide, videogiochi e qualsiasi altra cosa abbia bisogno di una voce in italiano. Devi sapere che ho lavorato tanti anni in radio prima di mettermi in proprio. Ho fatto teatro, musical e corsi di recitazione e dizione: mi è sempre piaciuto dare voce alle parole. Ho uno studio di registrazione che mi permette di lavorare con tutto il mondo: fantastico! No? Nella newsletter di settembre raccontavi il rebranding di BalenalaB: nuovo job title, payoff, concept e un nuovo sito. Cosa ti ha spinto a tali cambiamenti? E cosa ti aspetti ora come verbal designer?

«Ho letto storie banali raccontate in modo banale e storie banali raccontate in modo sorprendente: la differenza è tutta lì nell’intensità con cui le hai sapute provare e interpretare che poi diventa la capacità di saperle raccontare».

Non era previsto. Avevo programmato uno shooting per rinfrescare le foto di brand, ma mentre preparavamo gli scatti mi sono accorta che non erano solo i capelli a essere cambiati. Sono cresciuta come professionista, mi sono specializzata, ho scoperto cosa sono più brava a fare e cosa mi piace fare. Volevo che si percepisse che non sono una copywriter che scrive articoli un tanto al chilo o a cui puoi dire «dai, sistemami questo testo». Per me un testo non è mai solo la sua scrittura. La scrittura stessa non è solo scrittura: è idea e progettazione, organizzazione dei contenuti, scrittura e revisione. Ci vuole tempo, è fatto di fasi, di prese di coscienza, di collaborazione. Per questo ho dovuto trovare altre parole per far capire che non c’era solo la scrittura nel mio lavoro, così è nato verbal designer. Un job title dinamico che punta l’attenzione sulla verbal identity, ma in cui non sono l’esperta di identità verbale che teorizza, bensì sono quella che entra, tira fuori, prende e crea. Ti porto a essere chi vuoi essere. Mi aspetto di incontrare clienti in linea con questo modo di con-


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cepire l’identità e la scrittura. Imprenditori e imprenditrici sensibili, audaci, ambiziosi che vogliono fare le cose bene, partire o ripartire con il piede giustissimo. Abbiamo sbirciato il tuo Speciale Creatività e no, non lo abbiamo dimenticato in un angolo polveroso del computer. Oltre a spiegarci brevemente di cosa si tratta, vorremmo che ci raccontassi il momento (di noia?) che ti ha spinto a crearlo, e soprattutto per chi lo hai scritto. Lo speciale creatività è diventato un piccolo e-book che regalo a chi si iscrive alla newsletter di BalenalaB. È la raccolta delle dodici riflessioni a tema creatività che ho mandato via mail l’anno scorso a chi si era iscritto. Non contiene nessuna verità infusa o regoletta, ma la mia esperienza, quella sì, e qualche consiglio che ha funzionato per me o che mi ha aiutato a essere più pronta ad abbracciare i momenti creativi e ad avere dei risultati. Ogni capitolo contiene una riflessione + una parola spiegata nella sua etimologia e collegata all’argomento + un’illustrazione originale fatta da Roberto Pasini. Per me è sempre stata una grande sfida la newsletter, diciamo pure una delle maggiori ansie legate alla mia promozione. Ma come, mi dirai, scrivi post sui social che potenzialmente potrebbero leggere tutti e poi ti blocchi di fronte a un gruppo di duemila, tremila persone? Eh, sì. L’ho sempre trovata una grossa responsabilità quella di entrare nella casella mail della gente che ha scelto di riceverti e proporre qualcosa di davvero interessante che lasci una scia di piacere, di conoscenza o di consapevolezza. Volevo che le persone non solo la aprissero, ma che chiudendola sentissero un friccico ner core che facesse venire voglia di intraprendere qualcosa di grandioso. Ci sono tantissime belle newsletter in giro e allo stesso tempo ce ne sono moltissime di brutte e inutili che contribuiscono al rumore dei messaggi intorno a noi. Così è nato lo speciale creatività, per chiccheggiare nella mente delle persone. E per lo stesso motivo è nato lo speciale emozioni. È un esperimento artistico, verbale, visivo e sonoro che vuole far provare delle emozioni. Sarebbe stato più facile fare dodici lezioni che insegnano come emozionare con le parole, i suoni e le immagini. Ma no, quello te lo possono e vogliono insegnare tutti (alcuni più titolati di altri), dove posso dire qualcosa di nuovo io è sul campo. Voglio farti piangere, voglio farti ridere. Lo speciale emozioni è un progetto di squadra: ci sono dentro oltre a me, il già citato Roberto, graphic designer, Francesco, sound designer e Daniela, psicologa junghiana che ci aiuterà a collegare le emozioni agli archetipi per conoscerci un po’ meglio. Questi progetti speciali servono prima di tutto a tenere sveglia la mia creatività. Sono uno dei modi che ho escogitato per fare qualcosa che mi piace, come mi piace e che sia allo stesso tempo piacevole per qualcun altro. Ad un giovane essere umano con la passione per la scrittura, quali consigli senti di offrire per intraprendere una carriera nel mondo testuale? Se vuole fare lo scrittore, la scrittrice, il consiglio è di vivere la vita. Sì, davvero, vivere la vita. La nostra capacità di scrittura è tanto più ele-


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vata quanto più abbiamo saputo provare dei sentimenti e imparato a decifrarli, quanto più abbiamo fatto esperienza di situazioni più o meno singolari e li abbiamo saputi leggere, quanto più abbiamo indagato e vissuto noi stessi, conosciuto altri scavato gli animi umani. Ho letto storie banali raccontate in modo banale e storie banali raccontate in modo sorprendente: la differenza è tutta lì nell’intensità con cui le hai sapute provare e interpretare che poi diventa la capacità di saperle raccontare. Se vuole scrivere per il business il consiglio è di iniziare a lavorare su progetti reali di clienti reali. E se non ci sono clienti, di fare un portfolio per mettersi alla prova su case study inventate e poter testare il proprio valore. Di imparare da tutto e dai migliori, di praticare l’umiltà, di mantenere alta la curiosità per non fermarsi mai, mai, mai alla scrittura. Sarai sommersa da richieste di consigli di lettura, e noi purtroppo non saremo da meno. Vogliamo proprio sapere: il libro che non hai mai smesso di rileggere, quello totalmente sottolineato e quello che presteresti ad un amico in partenza. Un libro che continuo a leggere, io che i libri li leggo una volta sola, che ho amato e che mi hanno fatto amare più forte: John Cheever, Una specie di solitudine. I diari. Qui c’è esattamente quello che dicevo prima agli aspiranti scrittori, c’è la vita in tutta la sua crudele verità. Memorabile.


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La solitudine del manager

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di Lerio

Le porte a vetri si aprono al solo avvicinarsi del corpo, scivolano sui loro binari senza rumore o attrito alcuno, sfidano le leggi della fisica per consentire un ingresso frictionless, senza che il visitatore debba neanche rallentare il passo. Appena superata la soglia dell’edificio, il piede del visitatore si posa sul tappeto di moquette grigio Micron (Pantone 200007), che si distacca dal pavimento pur rimanendo nella stessa palette di colori primari. La linea scura e impercettibilmente attutita del tappeto supera il bancone della reception sulla sinistra e guida fino all’ascensore (prima) e le scale (poi). Il visitatore si sofferma solo un attimo al bancone in finto legno, sul quale è esposta una ciotolina trasparente di orsetti gommosi, imbustati singolarmente in confezioni di plastica trasparente con il logo aziendale. Dietro al bancone solamente due sedie ergonomiche LÅNGFJÄLL (IKEA) scure, vuote. Gli schermi spenti, i goffi case dei computer nascosti alla vista. Sulla destra del tappeto invece, opposto alle porte geometriche degli ascensori, un tavolino basso dello stesso colore e materiale della reception, un rivestimento plastico di scarsa qualità, sul quale campeggiano riviste quali «Die Zeit» e «Business Insider», le cui copertine suggeriscono scenari ansiogeni. Nonostante i display indichino la disponibilità di entrambi gli ascensori, il visitatore preferisce proseguire sul tappeto di moquette cortissima fino alla porta delle scale, maniglia cromata, oblò trasparente in doppio vetro, per isolare dal rumore, ma concedere la visibilità sull’altro lato. Le pareti delle scale, come quelle dell’ingresso, sono lasciate in cemento a vista, in pieno stile beton-chic, ultima moda berlinese. Gli ascensori accedono al quinto e ultimo piano solo previa lettura di un unico microchip, diverso da quello stretto nella mano sinistra del visitatore. Confidence / Falling in Love Dopo due rampe da diciannove gradini l’una, troppo ripide per rispettare la regola di Blondel (2x alzata + pedata = 62-65 cm), si arriva finalmente al primo piano. Di fianco alla porta d’ingresso (una copia della precedente al piano terra, maniglia e oblò compresi), è impossibile non notare il pannello 110x60cm color magenta (o meglio Diva Pink, Pantone 161650) sul quale campeggiano due scritte e un logo, tutti e tre bianchi; il simbolo è l’arcinota mano stilizzata stretta a pugno con il pollice alzato, le scritte (una sotto l’altra) sono Confidence e Falling in Love. Di fianco al pannello colorato c’è un sensore scuro, davanti al quale il visitatore fa passare lo stesso microchip che ha mostrato alle vetrate dell’ingresso. La porta si sblocca con un clic impercettibile. Il visitatore la spinge per accedere a uno spazio simile al precedente nello stile, ma aperto su vari corridoi e stanze. Le pareti perimetrali e divisorie sono tutte in vetro,di modo che, anche dalla sua posizione relativamente centrale all’interno della planimetria, il visitatore possa ammirare la strada e i condomini di fronte, illuminati dai bassi raggi del sole. Senza muovere un muscolo, il visitatore può anche studiare un’altissima percentuale delle postazioni lavorative del piano, nel ruolo dell’osservatore di un ipotetico panopticon aziendale. Le scrivanie regolabili (BEKANT, ovviamente IKEA) però sono vuote, le sedie anche (qui c’è più varietà, ma la provenienza è sempre quella), e le stanze da quattro-sei posti risultano asettiche nella loro interscambiabilità. Ogni postazione rivela qualche piccola differenza (due o tre monitor, mouse ergonomico o classico) e minuscole personalizzazioni (quadernini più o meno consunti, portapenne, qualche post-it colorato all’angolo di uno schermo), ma dopotutto questo è il piano dedicato al consulting, deve risultare pulito e ordinato, rassi-


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fantastico

curante. Nascoste dietro le pareti opache degli ascensori, il visitatore scopre (ma non lo scopre, lo sapeva già) due spaziose sale riunioni. La scelta di non renderle immediatamente visibili non è casuale: per raggiungerle, l’eventuale cliente è costretto ad ammirare il resto del regno e dei sudditi impegnati alacremente nel loro lavoro, qualunque esso sia. Le aziende di consulenza informatica (dette body shops) forniscono i propri dipendenti al cliente di turno, a seconda delle loro (presunte) capacità, come pura forza lavoro. Per questo l’apparenza è parte integrante del prodotto e ai dipendenti di questo livello è richiesto un certo dress code, per quanto blando (siamo pur sempre in Germania). In questo momento non c’è nessuno a testimoniarlo (il visitatore indossa ben altro), ma camicia e jeans sono più che sufficienti. L’apparenza è fondamentale anche nel lavoro stesso: un’elaborata finzione che spesso occupa più delle 40 ore di contratto. Il visitatore non ha bei ricordi del suo periodo passato al primo piano dell’azienda. Giunto infine alle sale riunioni, studia le stanze perimetrali come se non le avesse mai viste, sfiora con lo sguardo il tavolo IKEA e il grande schermo sull’unica parete di cemento (a vista). In un angolo, il tipico cavalletto con blocco A1 per le presentazioni cartacee, come in un film americano anni 2000. Sul tavolo un telefono, la tastiera e il mouse per comandare lo schermo, e una composizione perfettamente simmetrica di bicchieri di vetro e bottigliette di succo d’arancia, succo di mela e acqua mediamente gasata. I bicchieri sono sei, disposti a piramide, con le bottigliette ai lati, due per ogni tipologia. Il visitatore ha l’insana tentazione di versarsi un po’ di succo d’arancia (frutta al 100%), ma gli dispiacerebbe rovinare la composizione. Allunga quindi una mano guantata e alza la cornetta del telefono aziendale. Compone un numero interno, ma appena sente dei suoni dall’altro lato butta giù. Ha riconosciuto una voce sintetica che fa ben sperare. Il visitatore controlla l’orologio e sorride. Si ferma qualche secondo a osservare il sole calare sui condomini della fu Berlino Est fuori dalla finestra prima di tornare sui propri passi e salire di un altro piano. Happiness / Wonderful Words Il pannello del secondo piano è verde smeraldo (Pantone 17-5641) e riporta il disegno stilizzato di una mano chiusa con indice e medio alzati, aperti in un segno di vittoria, o di pace, a seconda delle interpretazioni; le scritte bianche sottostanti sono Happiness e Wonderful Words. Il visitatore avvicina il microchip al sensore, spinge la porta uguale a tutte le altre e si affaccia sul piano di project manager e contabili. Il visitatore si aggira per gli uffici, copie di quelli del piano inferiore, come in esplorazione. Qui non tutte le pareti sono in vetro, solo quelle adiacenti ai corridoi: i project manager hanno diritto a un minimo di privacy. Anche perché di solito sono loro a rispondere della contabilità dei propri progetti, per cui non hanno alcun interesse a perdere tempo (e quindi denaro). Sono loro a dover valutare ogni progetto, riunione, attività, ottimizzando i costi in base ai benefici, cercando nel frattempo di ottenere anche un ambiente lavorativo quantomeno accettabile al minimo della spesa possibile. È a questo piano che gli altri dipendenti sono ridotti a numeri. Il visitatore lo conosce meno degli altri, anche se c’è poco da scoprire oltre ai quadri di arte astratta esposti qua e là, tocchi di colore sulle pareti di cemento e cartongesso. Si ferma a studiarli qualche secondo: foto modificate fino a rendere irriconoscibile un qualunque soggetto, rendering di pixel a cascata in ogni direzione, macchie cromatiche a cui difficilmente si potrebbe attribuire un senso univoco, e che proprio per questo assol-


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vono alla loro funzione decorativa. L’arte non figurativa (o quantomeno un certo tipo di arte non figurativa) è molto apprezzata in ambito aziendale proprio per la sua assenza di significati evidenti e quindi per il suo essere, alla fine dei conti, innocua. Un altro caso di massimizzazione degli effetti a fronte di spese evidentemente ridotte all’osso (chissà se anche le tele sono IKEA). Le postazioni lavorative occupano la totalità dello spazio e le scrivanie sono solo appena più disordinate di quelle del piano inferiore. Le sale riunioni qui sono distribuite all’interno della planimetria, i cui corridoi si snodano in maniera non intuitiva, forse un tentativo di moltiplicare gli spazi, almeno di fronte all’occhio di un cliente inesperto. L’azienda stessa rivendica la propria essenza di grande scatola nera, scintillante e seducente, ma impenetrabile, nonostante le facciate di vetro dell’edificio. Da fuori, di notte, è possibile ammirare gli scheletri degli uffici vuoti, le silhouette delle scrivanie, persino intravedere i neon azzurrognoli dell’ultimo piano, ma questo non rivela nulla di diverso da qualunque altro quartiere lavorativo di una metropoli europea qualsiasi. Berlino è sempre più piena e trasparente, e per questo sempre più vuota e rarefatta, inaccessibile. Al posto dei condomini abitativi, dei club, dei vecchi edifici bombardati, sorgono decine di piani di uffici protofuturistici, vetro e cemento figli di un’estetica già vecchia che punta all’eternità, o quantomeno alla fine dell’essere umano. Solo studiando da più vicino quelle scrivanie, si può notare lo sporco incastrato fra i tasti del mouse, delle tastiere, le superfici appiccicose, i succhi versati e mai puliti, le sottili linee di muffa ignorate dalle donne delle pulizie con il velo che non parlano una parola di tedesco ma che ringraziano con gli occhi per non essere finite nei campi a raccogliere asparagi o nei container dei macelli del Nord-Ovest. Challenge / Costant Flow Il terzo pannello è azzurro cielo (Swedish Blue, Pantone 18-4330) e la manina stilizzata questa volta mostra indice medio anulare alzati e uniti, il visitatore non sa se questo gesto possa avere un altro significato, ma è evidente ormai che il suo compito principale sia indicare il piano; le scritte bianche sono Challenge e Costant Flow. Il visitatore entra a passo sicuro, non perde tempo con le vetrate delle sale riunioni, le sedie spostate, le scrivanie in disordine: questo piano non è accessibile ai clienti e si vede. C’è persino una piccola cucina, affacciata sul lato aperto dell’edificio, sulla strada più grande e trafficata, percorsa ora solo da qualche rara macchina della Polizei. Il cielo è scuro, fa notte sempre prima; nel silenzio dell’edificio il visitatore sente solo il ronzio dei computer perennemente accesi e le sirene lontane. Si siede su una delle sedie ODGER della cucina, e guarda fuori. Le finestre accese dei condomini sembrano formare un disegno la cui interpretazione è al di fuori della sua portata, tra gli edifici intravede i cantieri sparsi per la metropoli. La notte tinge tutto di grigio tranne le luci rosse delle gru. Gli ultimi alberi là sotto sono quasi tutti spogli. È tentato di fare un’altra chiamata, dalla sua (ex) postazione lavorativa, ma non commetterà un errore così grossolano. I programmatori di questo piano sono dipendenti interni, non devono mantenere una facciata se non di fronte ai project manager del piano inferiore, che a loro volta si occupano di mantenerla con i clienti, in un’escalation di costi e tempi morti, oltre che di eventuali scaricabarile nei non rari momenti di criticità. Il visitatore scrolla le spalle, sorride notando le briciole sui tavoli, la camicia sgualcita sulla sedia del suo (ex) capo, le ciabatte sotto alla scrivania di un altro


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(ex) collega. Questo piano è quasi una seconda casa per molti di loro, per i veterani, quelli che non puntano a cambiare azienda ogni anno per aumentare il proprio RAL (senza altro motivo oltre alle leggi di mercato). I veterani scelgono per la carriera aziendale, anziché interaziendale, consapevoli di puntare tutto su un cavallo solo o magari pensando già alla pensione, ragionamenti caratteristici di una generazione alla quale il visitatore non appartiene. Il suo ex capo progetto, ad esempio, per i quindici anni di fedeltà aziendale, ha ricevuto una tazza con il logo e un ringraziamento personale dal manager e titolare, il Capo Supremo. Aveva quasi sperato di incontrarlo, ma Lui non si mostra se non per speciali occasioni formali, e spesso solo per ologramma. Al visitatore i propri ex colleghi fanno quasi tenerezza, specie quando passano nell’edificio i loro weekend, chini sul codice di servizi web che qualcun altro rivenderà per cifre indipendenti dal loro impegno e stipendio. Il visitatore guarda per la prima volta verso l’alto e nota i tubi di aerazione in bella vista, l’alluminio lucido contro il cemento opaco del soffitto. Come se non ci fosse più nulla da nascondere o verso cui tendere, l’esposizione delle strutture interne (condutture, aerazione, ecc.) è una caratteristica fondante del beton-chic, un fascino industrial che ha sempre pervaso Berlino ma che ora è arrivato agli uffici, trasformandoli in riflessi asettici e geometrici delle rovine sparse per la metropoli, pezzi di storia recente che riverberano attraverso i cantieri non ancora terminati, su fino agli ultimi grattacieli della città. Quando il visitatore si alza per uscire, getta solo un’ultima occhiata alla propria scrivania, ormai vuota e sgombra di ogni suo oggetto personale. Impassion / Keep Smiling Il quarto pannello è giallo ambra (Pantone 14-1045) e riporta la solita mano stilizzata in una posa impossibile, con il solo mignolo chiuso verso il palmo e le altre dita aperte a indicare il numero del piano. Quella figura dà tanto fastidio al visitatore quanto i gradini troppo alti e scomodi, evidentemente progettati per ottimizzare l’ingombro delle scale e non per renderle percorribili da esseri umani. Le scritte bianche del pannello gli suonano particolarmente insensate: Impassion e Keep Smiling. Non è più il momento di farsi domande, né di prendersi pause, inoltre il visitatore sa bene di non poter accedere al piano dei server con quel microchip trafugato. Rievoca mentalmente, fra un gradino e l’altro, le file di armadietti, i fasci di cavi, le piccole luci lampeggianti, il frastuono dei server e dei condizionatori rinchiusi nella sala di massima sicurezza dell’edificio, là dove sono nascosti, conservati e moltiplicati tutti i dati dell’azienda e dei suoi clienti, in una concentrazione di valore senza pari e indubbiamente di vari ordini di grandezza superiore a quella di qualunque dipendente, facilmente sostituibile. Il visitatore si immagina per un attimo di accedere al quarto piano, alla sala blindata al suo interno, di disattivare il sistema refrigerante e i sensori antincendio per poi dare fuoco a quel cumulo di impulsi elettrici in una coreografia di scintille molto poco realistica ma altrettanto cinematografica. Ma la sua rabbia non è diretta contro degli innocui microprocessori e non ha più bisogno di perdere tempo: controlla il proprio orologio e sbuffa nel passamontagna, provato dalla scalata dell’edificio. Per fortuna è rimasto solo un piano. Envision / Be Strong Il quinto e ultimo pannello è blu opale (Pantone 19-4120) e presenta due scritte un po’ presuntuose, almeno agli occhi del visitatore: Envision e


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Be Strong. La mano aperta mostra con le dita il numero del piano, ma sembra anche intimare un arresto all’incauto visitatore giunto fino a qui. La cosa più curiosa forse è che questa porta non presenta né oblò né sensore. La vera presunzione di chi non ha mai usato le scale e non le considera neanche come un reale accesso: questa è l’unica porta dell’edificio che non necessita altro che una buona dose di coraggio per essere aperta. Quando il visitatore scoprì questo dettaglio, a suo tempo, non aveva ancora pianificato nulla di tutto ciò che sarebbe successo, ma se ora è qui, a ricalcare in pieno un cliché romanzesco o televisivo, lo deve proprio a questa porta, unica via di accesso all’ultimo piano. Con il battito leggermente accelerato, il visitatore preme sulla maniglia cromata. Cede. Il quinto e ultimo piano dell’edificio è riservato solo a Lui, in un immenso open space trasformato in ufficio. La moquette di un colore simile ma diverso da quello del pannello ricopre ogni centimetro quadrato e si rispecchia nel soffitto altrettanto blu. Le fonti di luce sono nascoste alla vista e la bassa luminosità azzurrognola del piano sembra provenire dalle pareti stesse, specchi di una realtà distante, mentre le colonne portanti, unica concessione alla fisica dell’edificio, sono mimetizzate nell’immensità dello spazio agorafobico. Per quanto distante, il soffitto sembra schiacciare l’intero piano, e quindi il visitatore, fra due gigantesche macine quadrate, sproporzionate rispetto a qualunque figura umana, anche la Sua. Lo sguardo del visitatore si perde lungo le vetrate perimetrali, prima di identificare la spessa scrivania di marmo, isola massiccia e ingombrante in quel mare blu scuro. Le venature più chiare sembrano spume di improbabili onde infrante contro l’unico scoglio dell’intero piano e quindi dell’universo tutto. Le regole e le strategie aziendali hanno perso improvvisamente significato, le strutture burocratiche sono collassate sulla soglia appena varcata. Persino i colori risultano alieni e difficilmente classificabili. Il visitatore raccoglie le forze e si dirige verso l’immensa scrivania, apparentemente scolpita assieme all’edificio stesso. Là fuori si svolge una notte berlinese come le altre, i passanti si muovono come formiche, incauti passeggeri di un mondo non loro. Le sirene delle ambulanze e della Polizei sono sempre più lontane. Le stelle oscurate dalle luci dei grattacieli. Il visitatore si deve concentrare per raggiungere la scrivania di marmo e il corpo riverso su di essa. Ogni passo è una vertigine e ogni gesto uno sforzo sovrumano. Giunto al cospetto dell’isola di marmo e del suo occupante, il visitatore si costringe ad allungare la mano guantata per controllare il battito inesistente, esala un sospiro e chiude gli occhi. Quando li riapro torno sui miei passi e mi preparo alla lenta discesa. Mentre ripercorro i centocinquantadue ripidi scalini verso il livello stradale, penso ai miei ex-colleghi che domani torneranno in ufficio come se niente fosse, si siederanno alle loro postazioni e continueranno a lavorare come sempre, per sempre.


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Il numero sette

fantastico

di Giulia Trapuzzano

Il sette è un numero di fondamentale importanza per me, rappresenta nella sua imperfezione dispari, il massimo compimento di un progetto divino. Non a caso possiamo trovare così tante raffigurazioni simboliche che ne portano il marchio: il sistema planetario, le sette virtù, i sette colori dell’iride, le sette note musicali, i sette vizi capitali, i sette sigilli di Giovanni apostolo. È un numero che in un’ideale sequenza tarologica rappresenta l’ambizione alla vittoria; è promessa di conquiste, soluzioni, successi interiori. E comunque ci rivela l’insicurezza, la pendenza, quell’incertezza nascosta nei dettagli che può ribaltare il tavolo da un momento all’altro e rimettere in discussione tutto. È il compimento glorioso di un passaggio da un momento a un altro; il viaggio dell’essere che è giunto alla fine di un primo ciclo di crescita intellettuale e spirituale, ma che non ha ancora completato il suo percorso. Semplicemente, come i sassi, come gli alberi distruggere, costruire abbiamo studiato infiniti modi per addormentarci e svegliarci ancora accanto. Come gli alberi, Il numero sette, Fine Before You Came

Il dialogo per me è innanzitutto incertezza, sbilanciamento, capacità di sporgersi da un dirupo per fare una richiesta e aspettare che una risposta arrivi a spianarci nuova strada di fronte ai piedi o a gettarci spietata nell’ignoto. Ogni domanda è un salto nel vuoto verso la conoscenza. Benvenuti nella mia rubrica di interviste “Il numero sette”. Faccio sette domande a donne straordinarie che abitualmente ribaltano i tavoli del mondo.

#1 Intervista a Giulia Zollino Giulia Zollino è antropologa, educatrice sessuale, operatrice di strada, sex worker. Fa divulgazione su Instagram con l’obiettivo di raccontare il mondo del lavoro sessuale e le storie delle persone che vi orbitano intorno. Con la sua comunicazione abbatte ogni giorno preconcetti tossici, stigma e luoghi comuni legati alla prostituzione, promuovendo un reale dibattito sex-positive, la solidarietà e la corretta informazione. Grazie al lavoro di Zollino emergono sfaccettature necessarie a restituire la complessità del contesto: l’economia, il femminismo, la libertà, l’autoaffermazione, l’intimità, il piacere, la fragilità. L’identità. Come hai scelto Instagram quale piattaforma ideale per la tua comunicazione? Ne avevi prese in considerazione altre prima?

Giulia Zollino Antropologa, educatrice sessuale e operatrice di strada. Parla e scrive di Sex Work.

Prima di aprire questo profilo di divulgazione non avevo Instagram. Ovviamente, ne avevo sentito parlare, ma non sapevo come funzionasse e soprattutto se mi ci sarei trovata bene. Il processo decisionale che mi ha portato poi a sceglierlo come piattaforma di divulgazione è stato travagliato. Mi chiedevo se sarei stata in grado di superare l’imbarazzo, se sarei riuscita a mettermi totalmente in gioco e anche un po’ in discussione. Un giorno però mi sono buttata e mi è piaciuto subito! Appena l’ho provato, ho capito che poteva essere il contenitore adatto per il progetto che


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avevo in mente. Invece, per rispondere alla seconda domanda: no, non avevo preso in considerazione altre piattaforme. Quali sono le principali difficoltà che hai riscontrato nel fare informazione su social? Sicuramente il fatto che richiede molto tempo e costanza, motivo per cui ho da poco inserito la possibilità di fare delle donazioni per sostenere il mio progetto. Forse dall’esterno non si ha la percezione che chi crea contenuti investa tantissimo tempo e risorse per produrli. È un vero e proprio lavoro. Un altro aspetto riguarda la responsabilità della visibilità. Rispetto agli inizi, ora sento molto di più il peso di deludere in qualche modo la community e di non essere abbastanza. Maledetta sindrome dell’impostora. Pensi sia possibile immaginare un futuro in cui il web diventa una piattaforma adatta all’educazione sessuale e soprattutto all’educazione sentimentale/emotiva? Credo che in parte lo sia già. Ci sono tantissime persone e realtà che fanno divulgazione sull’educazione alla sessualità e affettività. Penso che questa sia la strada vincente! Come definiresti la community che ti segue? Pempemmosa. Scherzo. Credo che le persone che mi seguono siano persone coraggiose. Ci vuole coraggio per mettere in discussione tutti i pregiudizi e gli stereotipi che abbiamo introiettato sia in materia di sessualità che di lavoro sessuale. Quali sono i valori essenziali del sex work che ci tieni a trasmettere e quali i preconcetti che vorresti invece sovvertire? In primis che il lavoro sessuale è un lavoro e che le persone che lo esercitano sono prima di tutto persone. Le/i sex workers non sono delle figure altre, lontane da noi. Sono vicino a noi, fanno parte della società. Per quanto riguarda i preconcetti ce ne sono tantissimi. Uno di quelli contro il quale lotto ferocemente è l’equiparazione del sex work allo sfruttamento. Lo sfruttamento c’è, sarebbe stupido dire il contrario, ma non è esclusivo e costitutivo del lavoro sessuale. Il lavoro sessuale racchiude in sé tantissime soggettività, storie, narrazioni ed è profondamente sbagliato appiattirle in favore di una rappresentazione pietistica e vittimizzante. Secondo virologi e immunologi, la “promiscuità” è da dimenticare per sempre. L’abitudine a riunirsi e unirsi – che sia per socializzare, lavorare, amarsi o raggiungersi in ogni forma – non sarà più così naturale. Che ne è (sarà) dunque del lavoro sessuale, dell’espressione del sé e del discorso sul mantenimento dei confini intimi ai tempi del distanziamento sociale? Cosa sta cambiando la pandemia? Sono cambiate tantissime cose. La pandemia ha evidenziato delle problematiche già esistenti, marginalizzato gruppi sociali di sex workers già di per sé marginalizzati e contribuito ad un progressi-


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fantastico

vo slittamento dell’industria del sesso verso l’online. Sono tante, infatti, le persone che si sono cimentate per la prima volta con il telelavoro sessuale (cam, produzione e vendita contenuti online, sexting). Tuttavia, il telelavoro non è un’opzione per tutte quelle persone che non dispongono delle risorse necessarie e che non possono permettersi di rischiare di essere riconosciute. La visibilità è un privilegio. Il sex work in una parola. Lavoro.

#2 Intervista a Donata Columbro Donata Columbro è la responsabile della Dataninja School. È specializzata in campagne di attivismo digitale e crowdfunding, si occupa di divulgazione, formazione e di “rendere umani” i dati, raccontandoli con chiarezza, competenza, autentica passione e un pizzico di umorismo. La sua comunicazione mi coinvolge profondamente; l’ho intervistata per farmela raccontare meglio. So che il tuo amore per i dati sboccia nel 2014 e diventa presto un lavoro. Da allora cosa è cambiato per te e per il contesto di analisi in generale? Dal 2014 a oggi ho cambiato titolo di lavoro diverse volte, e dico titolo perché l’essenza credo sia rimasta sempre la stessa: produrre contenuti di valore per muovere le persone all’azione. L’ho fatto scrivendo pezzi da freelance, lavorando a campagne sociali, in una redazione online. Io non mi occupo di elaborare dati per mestiere, ma aiuto le altre persone a usarli per comunicare meglio. È cambiato credo il mio approccio, non mi rivolgo più a un settore in particolare (le ONG), né a uno scopo particolare (la comunicazione), ma a chiunque abbia la curiosità di capire meglio. I dati sono fondamentali in comunicazione, in politica, in medicina. È possibile secondo te creare ulteriori ecosistemi umani più sostenibli e consapevoli grazie ai dati? Non credo, nel senso che non sono i dati, non è la tecnologia a cambiare il mondo. Sono le persone e le scelte che fanno, anche in ambito di raccolta e rappresentazione dei dati.

Donata Columbro Giornalista e digital strategist, responsabile della Data Ninja School, ossessionata dai media digitali e da internet come motore di cambiamento sociale.

Su Fantastico! parliamo di letteratura e arti figurative; tecniche di espressione umana che ci affascinano profondamente. Secondo te, i dati possono essere considerati arte? Dipende dal contesto, dati sono tutto quello che produciamo, anche le parole e note lo sono, i movimenti della danza, i colori possono esserlo. Ci sono figure specifiche che sono i e le data artist, che creano contenuti sonori e visivi grazie ai dati. Quindi sì, è arte.


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Cosa ti ispira in ambito di ricerca? Mi ispira tutto quello che riguarda l’etica e l’umanesimo dei dati e la tecnologia. Cosa preferisci comunicare online? Tutto ciò che può essere utile alle persone. Il data journalism in Italia ha avuto un’evoluzione lentissima. Sarebbe stata più semplice la comunicazione del nuovo coronavirus se ci fossero state redazioni pronte a lavorare sui dati? Sì, ma anche redazioni con giornaliste e giornalisti scientifici, che lavorano soprattutto all’esterno e in autonomia, penso per esempio a Roberta Villa. Ancora dati, esseri umani, pandemia… e social network. Come stai vivendo il contatto tra questi elementi? Sto cercando di usare i canali social per informare sui temi della pandemia, aiutando a orientarsi tra le fonti, e le definizioni dei dati. In questi giorni l’OMS ha parlato di pandemic fatigue e credo sia un altro pericolo a cui fare attenzione, oltre all’infodemia. Conserviamo la nostra salute mentale quando ci occupiamo di questi temi, informandoci, ma senza alimentare l’ossessione dei numeri e del controllo quotidiano.


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Le cose inutili

fantastico

di Carlo Sperduti pièdimosca edizioni, 2020

Dai taccuini di Vlado Merletti: il caso della capra morta Parigi! Da sempre residenza di parigini, luogo in cui si parla correntemente francese e in cui sì, è vero, la baguette convive col boulevard. Città dalle mille erre mosce e dal traliccio altissimo in cui sì, è vero, il bouquiniste convive con l’arrondissement; dove le donne camminano per le strade, così come gli uomini, i cani e i piccioni, e se ci si sofferma a osservare i dettagli ci si accorge che sì, è vero, la crêpe convive col bonjour e la viande, disinvoltamente, col pardon. Parigi! Città dalle mille sfaccettature e dai tanti accenti sull’ultima sillaba, in cui il rapporto col prossimo si fa talvolta difficile, insidioso, e la conversazione langue: française. Sono trascorsi appena venti minuti dalle mie ultime righe, ed è proprio qui, nel cuore della Ville Lumière, teatro di innumerevoli amori e promenade, che mi imbatto sul lungosenna, da poco abbandonata Rue du Bac e valicato il Quai Voltaire per esplorare la zona sottostante il Pont Royal, tra cocenti desideri di brie e malinconici ricordi di champagne, in un cadavere di capra. Lo esamino: è freschissimo, a tal segno che una pozza di sangue gli si allarga ancora un poco intorno, dirigendosi verso il fiume indifferente. Nello sguardo dell’animale colgo un accenno di disappunto; nella distorsione delle labbra e nei denti scoperti, forse, i prodromi di un’intempestiva richiesta di aiuto. Il ventre è stato aperto con un unico lungo taglio, probabilmente inciso con un grosso coltello in acciaio, di quelli da macelleria. Stimo la lunghezza della lama colpevole intorno ai trenta centimetri. Forse addirittura ventotto. La bestia è riversa su un fianco, a poca distanza da un salice piacente isolato nei pressi del limite estremo di questo tratto di banchina, dove iniziano o finiscono – dipende dal verso – chissà quante passeggiate, sotto queste strade e questi ponti... lungo questo fiume indifferente. Due dei quattro stomaci sono fuoriusciti: uno in parte, uno del tutto. Altri organi si confondono tra loro in una massa scura e fluida che m’indurrebbe al vomito, se non l’avesse già fatto tre volte. Mi trovo forse di fronte a un sacrificio operato da sette sataniche? Oppure la macabra iniziativa è riconducibile a un unico autore? Per la prima volta nella mia vita mi trovo a tu per tu, da solo, con una capra appena estinta. L’emozione è grande, ma se qualcuno dovesse discendere le stesse scale che ho percorso poco fa, cosa penserebbe? Se qualcuno dovesse arrivare dalla stessa banchina su cui ora mi trovo, da laggiù, cosa succederebbe? Quali le conseguenze? Ho scorto, in effetti, un gruppo di persone in lontananza. Mi venivano incontro, così ho deciso di recuperare il livello della strada e tentare di capire cosa stesse succedendo da qui sopra, facendo attenzione a non farmi notare e a non assumere atteggiamenti sospetti. Ma, d’altra parte, sono un distinto signore appoggiato a un distinto muretto che scrive su un elegante taccuino. Chi mai potrebbe porsi domande o fare illazioni sul mio conto? Ora che vedo meglio il gruppo, posso fare una stima approssimativa: devono essere una ventina. Non sono più così distanti. Alcuni di loro si divido-


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no il peso di grossi oggetti, credo metallici, di cui non comprendo l’utilizzo. Riesco in compenso a captare alcune parole. Non parlano in francese. Smetto di scrivere in favore di un ascolto più attento. Di seguito alcune annotazioni, osservazioni e conclusioni sulla scena di cui sono stato testimone oculare, ricavate da indizi schiaccianti e desunte dalla mia buona competenza passiva della lingua turca, pur fortemente ostacolata, nella circostanza, dalle continue interferenze dei rumori urbani. Il gruppo di individui, tutti uomini, dai venti ai cinquant’anni circa, responsabili della fenditura e della dipartita della capra, è originario della provincia turca di Aydın. Gli oggetti di cui in un primo momento non ero riuscito a individuare la funzione sono: un gruppo elettrogeno; una macchina da kebab di media grandezza con una capacità di almeno quaranta chilogrammi; tutti gli accessori necessari alla cottura, al condimento e all’avvolgimento della carne stessa; numerose sedie in plastica bianca e due tavolini dello stesso materiale. Sin dai primi stralci di conversazione mi è apparso chiaro l’intento di predisporre una significativa quantità di kuyu kebab, pietanza tipica a base di carne di capra. Il motivo del pubblico banchetto mi è parso ideologico. Si trattava infatti – se le scomode condizioni dell’appostamento non hanno ingannato il mio udito e se la contemplazione del salice non mi ha distratto – di una rivendicazione d’identità; della denuncia, insomma, dell’ingiusta discriminazione del kuyu, minoranza di kebab schiacciata dalle più popolari e reperibili varianti a base di agnello, manzo o pollo. Quei pochi turchi volevano risvegliare le coscienze tanto degli altri appartenenti alla comunità turca parigina, quanto dei numerosi parigini regolari consumatori di kebab. Il sopraggiungere delle forze dell’ordine ha rapidamente disperso i manifestanti. Io, pur da estraneo alla causa, mi sento solidale con essa e voglio mettere nero su bianco il mio giuramento: vagherò per le vie di questa città finché la mia fame di kuyu kebab non sarà soddisfatta. Ripensando ad alcuni particolari della faccenda, i conti non tornano: perché mai i turchi non hanno trasportato l’attrezzatura sul lungosenna insieme alla capra, in luogo di abbandonare lì il cadavere e tornare in un secondo momento per la cottura? Non potrebbe darsi che la capra sia stata messa lì da qualcun altro, a mo’ di esca, forse proprio con l’intento di far uscire allo scoperto i fautori della sedizione, e che questi abbiano creduto di approfittare di un ritrovamento fortuito per richiamare l’attenzione sulle proprie ragioni, ingegnandosi nella maniera che ho visto? Non potrebbero essere state le stesse forze dell’ordine a piazzare la capra sul bordo della Senna? Un quadro della vicenda più complesso e triste di quanto potessi immaginare mi si va componendo in testa. Non saprò mai, credo, come siano veramente andate le cose. Quel che è certo è che1

1 Le considerazioni del Merletti

s’interrompono qui. Non è dato sapere come avrebbe portato a termine la riflessione (N.d.R.).


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Gli altri fanno volume

fantastico

di Angelo Calvisi pièdimosca edizioni, 2020

1995, giorno 10205 Crisi glicemica Il quartiere mi piace, dico per lavorarci. In certe zone i clienti sono ossi da raschiare. Magari sono stati loro a cercarti, ma prima di firmare ti fanno un sacco di domande, poi vogliono rivederti e ti fanno perdere giornate e giornate per discutere di particolari senza importanza. In questo quartiere no. Sono tutti bendisposti nei confronti del venditore errante e considerano l’assicurazione un bene rifugio proiettato nel futuro. È questa la parola magica: futuro. Io, per me, assicurazioni non ne voglio. È un dettaglio che in azienda non è visto di buon occhio. I capetti dell’Ufficio Personale dicono che è un discorso di professionalità. Come fai a vendere un prodotto in cui non credi? Vagli a spiegare che non si tratta di crederci o non crederci, ma di scaramanzia, perché pensare all’investimento, alla tranquillità per il futuro, secondo me porta una sfiga tremenda. Il quartiere mi piace, anche per abitarci. È un quartiere in salita. I palazzi ottocenteschi stanno bene accanto agli edifici più recenti di via Napoli, via Bari, via Vesuvio, tutte strade che sono una specie di omaggio ai meridionali che si sono stabiliti in questa zona nel secondo dopoguerra. Più a monte, alla fine del quartiere, finisce anche la città e cominciano i boschi, le aree attrezzate per i picnic, i punti panoramici da cui puoi dominare il golfo di Genova. Mi diverte guidare la Vespa per le strade a spirale di questo quartiere, non mi sembra nemmeno di andare a lavorare. Stamattina pioviggina, le gocce sono fresche, c’è una luce dolce e incongrua. Potrei guidare così fino a domani, però dopo il tornante dell’edicola mi si para davanti un cinghiale. Tiro una frenata che per poco non mi ammucchio a terra. Il cinghiale è distante una decina di metri, al centro della carreggiata, e mi punta. Sul giornale l’altro giorno c’era scritto che ne sono stati avvistati piccoli branchi, cinghiali pacifici scesi dai monti qui attorno a cui i bambini del quartiere hanno dato dei nomi. Il più grosso lo hanno chiamato Obelix. Il cinghiale davanti alla Vespa è gigantesco, sarà di sicuro lui. Si è allontanato un attimo, trotterellando, poi è tornato a rivolgere la sua attenzione verso di me. Non lo definirei propriamente pacifico, in effetti mi sta caricando. Non avevo mai visto un cinghiale al galoppo. È veloce, ma quei pochi secondi che mi separano dall’impatto si dilatano e non passano più. Da destra un rumore, una specie di sbuffo. Il cinghiale stramazza, colpito dal proiettile della guardia forestale appostata dietro un Rover verde, e come nella scena di un film sulla caccia al bisonte il suo muso finisce la corsa a un palmo dalla ruota della Vespa. Arrivo al palazzo del cliente che ho il fiato corto. Mi allento il nodo della cravatta, suono alla porta. Viene ad aprire un’anziana rattrappita. Vigilava dal poggiolo e si è lasciata commuovere dalla sorte del cinghiale. Socchiudo gli occhi. Vedo il filo di sangue che esce da dietro l’orecchio dell’animale e come un nuovo battesimo sento il suo spirito che mi si installa tra stomaco e polmoni. L’anziana non si dà pace. Ripete quelle trecento volte povera bestia, poi finalmente mi fa entrare nella casa con il soffitto basso e le travi di legno: abitazione di un’altra epoca, anche il mobilio. Sui ripiani ingombri di bamboline e bomboniere prendono polvere i bicchierini di un servizio da vermouth. A ogni respiro lo spazio mi si restringe addosso.


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Cosa gradisce? 
Nulla, grazie sono a posto così. 
L’anziana, delusa, si accovaccia in una poltroncina in disparte, la sua palpebra umida risveglia sentimenti di pietà. Intanto una ragazza fa capolino dalla camera attigua. Si siede al tavolo, la testa reclinata. Mi siedo pure io. Sono appiccicoso, il vestito in fresco lana color canna di fucile è bagnato su spalle e ginocchia. Domina la stanza un uomo di circa cinquant’anni, ben piantato, una tempra da duro. È da quando sono entrato che sta in piedi vicino alla finestra. Indossa una vestaglia granata, il suo aspetto generale è spiegazzato. E fuma. Fuma un sigaro pestilenziale. E passeggia. Ogni tanto si ferma e mi scruta. La polizza assicurativa che devo vendere, questa polizza che risarcisce le spese per i denti, gli occhiali, o i danni patiti per un improvviso attacco di demenza, i suoi lati buoni onestamente li ha. Provo a esporli alla famiglia, ma ogni frase o concetto che cerco di organizzare nel ragionamento è superato dall’immagine del cinghiale, dal fremito del suo corpo che agonizza. Non sono per niente brillante, anzi: sto soffocando. È il fumo insopportabile del sigaro che con la sua puzza si è infilato nella tasca della giacca. Dovrei bere qualcosa. La signora zompettando felice va in cucina a prendermi un bicchiere d’acqua. Io parlo in automatico, per rompere il ghiaccio, come mi hanno insegnato. Quanti anni ha la ragazza? Che scuola? Diciassette, risponde l’uomo col sigaro, liceo linguistico. L’inglese, balbetto, è ormai una conoscenza irrinunciabile se vogliamo essere competitivi nel mondo del lavoro. L’uomo col sigaro misura il perimetro della stanza col passo dell’oca, poi si ferma e con le mani affondate nei fianchi fa: l’inglese? Intendo dire le lingue. 
L’inglese non serve a un cazzo.
 Intendevo le lingue, tento ancora, ma l’uomo col sigaro non mi ascolta.
 Sa cosa serve? 
No. 
Serve l’arabo oppure lo spagnolo. Ah. Serve il cinese. Tra pochi anni saremo invasi dalla marmaglia. Cinesi, africani, sudamericani. Il meticciato, dice agitando il sigaro, occorre difendersi dal meticciato, poi aggiunge delle frasi che si perdono nella palude dei miei timpani, nel vetro sporco della finestra. Chi è quell’uomo in vestaglia? Chi è la ragazza triste, testa reclinata, un principio di acne? E perché l’anziana signora continua a piangere e ridere insieme e a pronunciare insensate maledizioni? Mi sto perdendo in dieci metri quadrati e mi è tornato il tremito laterale del campo visivo. Sono due mesi che per dimagrire mangio soltanto semi di zucca e il tremito del campo visivo mi sta comunicando l’ingresso in una crisi glicemica. Generalmente la fronteggio con i Pocket Coffee. Vado avanti così, alternando semi di zucca e Pocket Coffee, perché devo rientrare nel peso forma. È un imperativo di Caterina. Ha detto che altrimenti non mi vuole più. Bevo il bicchier d’acqua che mi ha portato la vecchia, mi chino per prendere la valigetta. Il muso sanguinante del cinghiale si sovrappone alla faccia dell’uomo con il sigaro. Appoggio la valigetta sulle gambe, cerco i Pocket Coffee. Una zaffata


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fantastico

di sigaro mi annebbia il cervello. Negli ultimi attimi di lucidità constato che nella valigetta c’è la polizza che oggi nessuno firmerà, la busta con il referto delle analisi, un sacchettino di carta contenente rimasugli di semi di zucca. Ci sono anche i Pocket Coffee. Sono in fondo al buio e io con le dita non ci arrivo.

Carlo Sperduti Le cose inutili

Angelo Calvisi Gli altri fanno volume

© pièdimosca edizioni 2020 info@piedimoscaedizioni.com
 www.piedimoscaedizioni.com collana ossa

© pièdimosca edizioni 2020 info@piedimoscaedizioni.com www.piedimoscaedizioni.com collana ossa

progetto grafico Marinella Caslini – Disgrafica Atelier www.disgrafica.com

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redazione settepiani studio editoriale www.settepiani.com

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ufficio stampa Filippo Costantini – Mg2 Comunicazione Costanza Raspa

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pièdimosca edizioni | settepiani aps via g. savonarola 88 06121 perugia (PG)

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I edizione: marzo 2020 ISBN 978-88-94352-96-2

I edizione: marzo 2020 ISBN 978-88-94352-97-9


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La porta è sempre aperta

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di michiamanofab

Ricordo che molti anni fa un’amica mi chiese di accompagnarla in una grande casa di cura vicino Torino per far visita a uno zio. Accettai con entusiasmo e uno strano senso di sollievo, come se mi avesse chiesto di uscire compensando la mia mancanza di coraggio. La verità è che questi luoghi mi hanno sempre affascinato, un po’ come i cimiteri, così vasti, silenziosi e immersi nel verde. Almeno se guardati dal punto di vista del visitatore, che entra ed esce con facilità da posti che per altri significano per sempre. Ti guardi intorno, scambi due parole con chi non può o non ti vuole rispondere e saluti. «Ci vediamo presto» dici: «Mi raccomando». Ma quel «Ci vediamo presto» è diventato «Addio» già da tanto tempo. Sei un po’ triste, magari turbato, ma non è così male dopotutto: sei solo un visitatore, una comparsa momentanea in una routine calma e imprevedibile allo stesso tempo; non sai che ci sono certi giorni e certi orari in cui il mondo ti stravolge e abbandona. Ti sfiora l’idea ma non ci fai caso, sarai sempre un visitatore, mai un ospite. Di questo ero convinto. Rimasi subito colpito dall’atmosfera presente in quel salone d’ingresso, la fisionomia di alcuni pazienti era strana, quasi deforme e mi chiedevo quanto malattia fisica e mentale fossero collegate, quale fosse causa e quale conseguenza. Una strana concezione di vita sembrava dominare quel posto e quella gente, una concezione che mi era in qualche modo familiare. Lo zio sedeva sul letto di una stanza doppia di media grandezza con due grandi finestre sul giardino, nonostante questo era buia. Guardava la nipote che gli parlava, ma non rispondeva mai, non ha detto nulla per tutto il tempo. Pensai che non fosse poi così strano e mi domandai che cosa ci facesse lì. Il suo compagno di stanza, al contrario, era super attivo e continuava a chiedermi una sigaretta. Entrava nella stanza, mi chiedeva una sigaretta, dicevo che non ne avevo, borbottava e usciva. E così per varie volte. Tornando a casa, la mia amica sembrava quasi divertita da quell’esperienza e dalle persone incontrate, ognuna con una sua particolarità. Era una via di mezzo tra interesse e presa in giro e la madre, assente fino a quel momento, comparve all’improvviso per rimproverarla. Io annuivo ad alcune cose, ma ero molto silenzioso e con la testa piena di immagini e pensieri. Uno su tutti mise in crisi la mia visione positiva di quei posti: non ci si poteva mai chiudere a chiave, da nessuna parte. Mi dispiaceva per loro, mi salì l’ansia al solo pensiero di vivere con un impedimento del genere, ma sarei sempre stato solo un visitatore, di questo ero convinto e allora mi calmai, tornando ad annuire alla mia amica con mezzi sorrisi, mentre il verde lasciava il posto alla città e il frastuono della vita di sempre tornava a impossessarsi di noi come se l’avessimo già dimenticato. La madre continuava a urlarci contro e non capivo cosa avesse da agitarsi tanto. Tempo dopo son tornato in uno di questi posti. Era molto diverso, non essendo una vera casa di cura, ma semplicemente il reparto psichiatrico di un ospedale. Quello di Perugia. Niente luce, niente verde, niente spazio. Si entra nell’ospedale e si inizia a scendere, dopo un po’ le porte smettono di aprirsi con facilità e capisci che stai per entrare in un mondo a parte. Non ricordo chi andai a trovare, ricordo solo stanze bianche e spoglie e un ragazzo che mi chiedeva sempre delle mentine. Dicevo che non ne avevo, se ne andava e tornava. E così per varie volte. Ricordo anche che me ne andai subito, mi sentivo soffocato e una grande tristezza mi invase di colpo, dovevo uscire. «Scusatemi, ma


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fantastico

devo andarmene, non tornerò più in posti come questo» dicevo ai dottori e agli infermieri, come se potessero essere interessati a un semplice ragazzo in visita con tutti i problemi che devono affrontare ogni giorno. Comunque così feci, da allora non sono mai più stato in uno di questi posti e il fascino è svanito. Ho sentito alcune volte la mia amica, ero convinto facesse la scrittrice o la psicologa e chiedevo sempre aggiornamenti a riguardo, ma ogni volta mi diceva che aveva mollato l’università per aprirsi una pizzeria. Lei mi chiedeva come facessi a stare ancora all’università dopo tutti questi anni, perché non la lasciavo, perché non dicevo ai professori e agli assistenti che non sarei mai più tornato in quel posto. Io non rispondevo, ogni tanto annuivo, facevo un mezzo sorriso che lei non poteva vedere e restavo in silenzio finché non decideva di chiudere la chiamata. L’ultima volta mi ha detto che sua madre era morta, che gli ultimi tempi non ci stava più con la testa, poi non ci siamo più sentiti. Ogni tanto mi siedo sul letto della mia stanza doppia immersa nel verde e penso alla sua carriera da scrittrice, penso che non vedo l’ora di leggere un suo libro e ne parlo col mio compagno di stanza, completamente diverso da me, così attivo e con la mania per le mentine, da quando ha smesso di fumare; altre volte cammino per i corridoi bianchi e vuoti dell’università, saluto i miei compagni di corso e i docenti, ma mi guardano indifferenti come fossi un numero utile solo per fare dei calcoli ogni tanto, penso che non vedo l’ora di andare nel locale di lei a mangiare una pizza, farle una sorpresa. Per un attimo torno voglioso di fare, di scoprire, di vivere. Poi la routine mi invade e in certi orari il mondo mi stravolge e abbandona. Mi stendo sul letto a fissare una porta sempre aperta per controllare che non entri nessuno, ma dalla quale è inutile uscire perché ce n’è un’altra dopo, impossibile da smuovere.


MIXTAPE

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Sinusoidi controfase

fantastico

di Shadia Ceres

La luce di settembre mi consola, è un barattolo pieno di desideri e cose da dire; è uno sguardo traboccante di malinconia, un bacio proprio lì dove vorrei essere, non sapere dove iniziare ma soprattutto dove finire. È un mese dolce, ma se ti avvicini ti trafigge, è lento e costante, una goccia che cade ripetutamente su una roccia fino a modificarla irrimediabilmente, per sempre. È una canzone che non riesco più ad ascoltare, Plutone circondato dalle sue cinque lune, ma lontanissimo dal sole, gli occhi di chi ci ha creduto molto e ha fatto bene. Mese di poco incanto, ma di tanto conto. Giorni pieni di luci che ci si spengono alle spalle e tante storie da non poter raccontare. Sono le sei del pomeriggio, il mio orario preferito per guardare il cielo oltre il finestrino del regionale 2378 diretto alla stazione di Roma Termini. Mi prendo un momento per pensare che ci sarà un tempo migliore per tutti, perfino per me. La riproduzione casuale mi offre una canzone che invita a spingere, ricordandomi di tutte quelle volte in cui sono andata alla ricerca di qualcosa di mio che potesse valicare le distanze geografiche. Metto il telefono in modalità aereo con la speranza che una volta scesa dal treno possa stupirmi delle persone che mi hanno pensata e cercata proprio mentre ero a guardare il sole addormentarsi dietro i campi di grano, l’attrazione migliore della tratta ferroviaria. Mi piace quando tutto intorno a me non cambia, non si muove di un millimetro, mi fa sentire al sicuro. Così come le persone che non fanno caso a quello che mangiano, i panifici aperti la notte, chi sa tante cose e chi parla scegliendo le parole con cura, come fossero quelle i propri abiti. Piove burrascosamente, fuori dai vetri, e ai malinconici succedono cose strane quando piove mentre salgono sui treni: ricordano tutto. Allora ritornerò a Parigi per cercare il bottone della mia giacca perso sette anni fa. Me ne fa di sporche, il tempo. È una dolente fitta intercostale. Come in quel verso perduto di Elsa Morante che diceva: «Col tempo… col tempo. Col tempo ci si consola, cura ogni ferita. E invece quest’urlo non si spegne mai!» Aznavour canta in francese qualcosa che ancora riesco a capire, mentre davanti a me si susseguono fastidiose insegne che bucano il sorgente velo notturno. Avere ormai più di vent’anni è un macigno sulla schiena e un pensiero fisso in testa; sono le calze rotte, è tornare a casa per stare male, avere la nausea e sentirsi sempre stanchi, trascurarsi per mettersi alla prova, per capire se si è in grado di provare qualcosa; saltare i pasti, uscire senza l’ombrello, i timbri sulle mani e gli adesivi incollati ovunque, scoprirsi seduti attorno a un tavolo alle cinque di mattina. Quello che mi fa stare bene è quasi sempre non spiegabile e la maggior parte delle mie storie felici non hanno una data, molte hanno dei luoghi, quasi tutte contengono persone. Ma sono quasi sempre irriferibili. Dopo aver superato anche l’impossibile penso che alla fine morirò travolta dai miei stessi pensieri. La mia spietata voglia adolescenziale di esplodere si è trasformata nella voglia di andare in frantumi. Sicuramente sono più arrendevole di prima. Quando racconto la mia storia, solitamente, apro un vaso che non è neanche più di Pandora. È un teatro, un proscenio, e io l’unica attrice monologante della compagnia. Negli anni mi è capitato di scrivere talmente tanto del mio passato che adesso mi appare quasi come una finzione, una sceneggiatura che ho dovuto imparare a memoria,ma che non sento


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quasi più. Invece ci sono gesti, suoni, odori e colori che non dico a nessuno eppure fanno ancora male, come questo rumore di sottofondo che mi spaventa e atterrisce. C’è sempre così tanto da dire, da parlare, da ascoltare. Parole inutili, egocentriche. Sorrisi di convenienza, spenti, che provengono da uno sforzo muscolare anche molto piccolo. Ci sarebbe bisogno di così tanto altro che se ci penso – e ci penso spesso – mi verrebbe voglia di scappare lontano. Eppure, più fuggo e più capisco che è tutta una grande, gigantesca, perpetua impalcatura dalla quale non posso liberarmi. E di tutto questo casino, di tutta la morte, tra tutte le storte, le cadute rovinose, i legami strappati, la rabbia e la violenza, il sentimento peggiore è sempre stato quello di non sentirmi mai amata abbastanza, soprattutto dalla persona che mi dimora dentro il corpo. Ho vissuto giorni infausti che mi determinano e specificano, mi danno una spinta in più per pretendere una rivincita. Ho ammirato l’Italia farmi spazio da tutti i finestrini dei treni e le Alpi innevate salutarmi sorridenti da tutti quelli degli aerei fatiscenti sui quali sono salita prendendo la rincorsa. Ho dormito in letti di legno e metallo su pavimenti lerci; dentro una tenda di plastica mentre i fulmini colpivano tutti gli alberi della terra maremmana; nella cuccetta di un treno notturno diretto a Milano Centrale e poi su un pullman diretto nello stato americano del Connecticut e, finalmente, dopo una lunghissima corsa durata decenni, sono riuscita a scendere alla fermata giusta. Adesso, sono distesa su questo talamo profumato e bisbigliante, mentre fuori scoppia il più roboante dei temporali. Francesco dorme accanto a me, rivolto dalla parte opposta. Tira un sospiro e nel sonno mi prende una mano. A me non serve roba facile – penso – serve roba vera. «Sinusoidi controfase». Una definizione insolita per la mia mente assemblata e sorretta da poesie, che è arrivata al mio orecchio sinistro nel mezzo di una festa, mentre la musica e alcune voci si sovrapponevano e non si capiva bene da dove provenissero e dove sarebbero andate a finire. E come i temporali estivi, faccio il doppio nodo a tutto ciò che arriva all’improvviso per ricordarmi che quello che scombina i piani, talvolta porta sollievo. Vorrei avere il potere di riavvolgere il nastro fino all’origine, cancellare tutto quello che non è servito a niente e sostituire il primo ricordo che ho della mia vita, con uno assieme a lui. Ne basterebbe anche uno piccolo, inutile, di quando l’ho sfiorato per la prima volta e ho capito che era vero. L’ho conosciuto quando avevamo sei anni, dentro una stanza profondissima che odorava di das e stelle di plastica, incorniciata da finestre enormi, trasparenti, attraverso le quali si poteva vedere tutto il cielo disponibile. Non c’era nient’altro tra quei vetri e il cielo, nessun ostacolo: avrei voluto avere quella visuale per tutta la vita. Eppure, quelle finestre vennero bruscamente sostituite da altri infissi, da altri paesaggi, da altri ricordi fatti di lacrime e lezzi nauseabondi, lenzuola di plastica e guanti in lattice. Da quella nuova prospettiva in poi, ho sempre dovuto cavarmela da sola: durante gli anni di isolamento e malattia mi sono persa giochi, aquiloni, maestre e il primo fidanzatino da tenere per mano, le notti insieme a qualche compagna di classe a mettere il rossetto e stilare stupide classifiche. Mentre i miei coetanei imparavano l’aritmetica e L’infinito di Leopardi a memoria, io imparavo a gestire la paura di morire


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e la voglia sfibrante di restare aggrappata alla vita. Non sapevo svolgere le divisioni in colonna,ma potevo elencare in ordine alfabetico tutti i componenti delle medicine che mi avevano iniettato durante quei cicli di chemioterapia adesso non numerabili. Poi la vita ha fatto il suo corso, la nostra memoria ha iniziato a diventare lunatica e funambola, ha incominciato a mascherare i volti e i ricordi bambini con un velo di nebbia sottile al di là della quale non esisteva quasi più nulla, se non un deposito di condizionali. Una vita che, a pensarci adesso, sembra più distante di tutto il resto. Sono diventata adulta dentro un giorno caldissimo di maggio, dentro una frase brevissima, di una manciata di secondi, spinta da una voce dietro a una cornetta. Quando, per rivincita, ho incominciato ad essere felice per delle stramberie. Quando ho imparato a contare i metri quadri delle case in affitto, a conoscere mnemonicamente tutte le fermate ferroviarie della regione poco sopra la mia e a calcolare quanti chilometri mi avrebbero separata dal mare, una volta fuggita per sempre. Sono diventata adulta su una rampa di scale antincendio, con il sole che si faceva spazio tra un gradino e l’altro, con un’altra frase brevissima: «A te non serve niente, ma qualcuno che ti accompagni lungo la strada che sceglierai di percorrere, e viceversa» e ancora «qualcuno che sappia accettare la tua storia, disinnescandola a tua insaputa». È stato proprio lungo quella stessa strada che ci siamo incontrati nuovamente, mentre sotto di me la bicicletta emetteva un suono premonitore di catene e articolazioni arrugginite. Ci siamo incontrati nuovamente, ma il destino non c’entra niente. O meglio, pensarlo mi rende sicuramente più tranquilla, meno agitata, meno asservente. Ci siamo incontrati nuovamente perché lo abbiamo voluto, perché ad un certo punto è necessario pure dare una sterzata feroce al proprio manubrio sempre costretto allo stesso percorso, giorno dopo giorno, senza mai una deviazione, una scorciatoia, una strada sterrata e boschiva. Ci siamo incontrati nuovamente su una spiaggia solitaria, davanti ad un tramonto rosa e a una luce che aveva il colore dell’oro. In testa avevo una canzone dei Beatles che mi ha ricordato un’equazione matematica terribilmente complicata: 1 + 1 = 1. I giorni hanno iniziato a scorrere sempre più veloci, mentre la mia fretta ha lasciato spazio ad un respiro più lento, il suo. Ho dovuto imparare a scardinare convinzioni pregresse e ridimensionare le sfumature, perché quello che avevo davanti era molto meglio. L’ho capito quando ho iniziato a raccontare i miei sentimenti senza usare più idilliache metafore. Nulla era come lo avevo immaginato o come l’avevo vissuto fino a quel preciso momento, improvvisamente sono scesa dal palcoscenico e c’era una vista incredibile. Quanto è bello togliersi gli occhiali nel mezzo di un bacio, come gesto di resa. «Siamo due sinusoidi controfase» ripete, con una mano sopra la mia guancia «sempre a valori opposti. Tra le due curve – che poi saremmo noi – immagina una sommatoria costante di zero. Lo so che potrebbe anche sembrare brutto da dire, perché per gli uomini comuni lo zero rappresenta il nulla, l’assenza di qualcosa. Eppure, se cambi punto di


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vista e inizi a calcolarlo come l’unico valore dell’equilibrio, in mezzo a tutto il mare di numeri che esistono, positivi e negativi, è lì che troverai la risposta a ciò che voglio dirti. A quello che tu sei per me, a quello che io sono per te». Penso a quanto siamo poveri, tutti, a modo nostro, di centinaia di dettagli. Senza accorgercene facciamo a meno per anni delle docce fredde che rianimano la voglia di viaggiare, del buio che non è pece, ma mantello elegante, delle spade che non sono di Damocle ma dei guerrieri della luce di Coelho. Siamo poveri, ma abbiamo inaspettate ricchezze sull’altro piatto della bilancia, quello dove si accumulano tutti i gesti, i pensieri, le confessioni e le condivisioni di cui non ci eravamo accorti. Più annotiamo il peso di ciò che non abbiamo, più ci facciamo ciechi di fronte a quello che non avevamo chiesto, ma che ci ha raggiunti ugualmente. Mi hanno voluta miope e al tempo stesso incapace di mettere a fuoco i momenti preziosi e questa, forse, è stata la mia più grande fortuna: ho sviluppato il resto dei sensi disponibili, per assaporare e toccare meglio il suo giungere fino a me. La cura non può essere sempre e solo il tempo, rispondo imperante alla me di qualche anno fa, ricoperta da frasi di circostanza sgrammaticate. La cura è un soffio di vento delicato che poi diventa morso, è un tramonto che si spegne dietro le nostre schiene durante un viaggio in macchina con gli Smiths alla radio, è svegliarsi nel mezzo della notte per restituire un abbraccio involontario; sono i piedi per terra e i pensieri nel cielo, la quiete e il caos. La cura è meravigliarsi, è la tenerezza, è la magnificente smisuratezza dell’universo. Una volta, una ragazza non vedente mi chiese di che colore fosse tinto il cielo in quel preciso momento. «Giallo!» gridai io. Lei rise «Dammi più dettagli, non ci vedo!» rispose. «È il colore che ti senti sulla pelle quando sei contenta.» dissi di getto. Da un po’ di tempo, è come se per me non esistesse altro colore.


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Il grande piccolo

IL GRANDE PICCOLO a cura della redazione de Il Piccolo

NUMERO QUARANTUNO il piccolo

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68. 69. 70. 72. 73. 75. 77. 78. 79.

Codifica e decodifica i geni Sono vicine nella poesia Intrinseco, indissolubilmente La cosa latina Casupole disastrate Borraccia in pelle In mezzo all’unicorno Studia la relazione tra l’uomo e l’ambiente Fa coppia con Chandon

VERTICALI 1. Si dice a chi è triste 2. Cuneo sulle targhe 3. Gli Ewok vivono sulla sua luna 4. User Interface 5. Avverbio di luogo 6. Segue la religione nata in Etiopia negli anni ‘30 7. Gas usato nella refrigerazione 8. L’Asimov scrittore (iniz.) 9. Lo fa chi si ferma a sette e mezzo 10. Foglio a griglia molto fitta 11. Ce l’ha buona chi ha voglia di fare 12. Lo fa la barca di Orietta Berti 13. Antivirus gratuito 14. Il verso del cane 15. Ottica Non Lineare 16. Fugge da qualsiasi pericolo 20. Un caccia russo 22. Si facevano in avorio 23. Precedente l’anno zero 24. Antica colonia greca sulla costa della Basilicata 26. Affleck, Harper, Stiller 27. Quelli essenziali si trovano in erboristeria 29. Altro nome delle tonsille faringee 30. Figura retorica che utilizza una negazione di una frase di senso contrario

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31. 34. 38. 39. 41. 42. 43. 45. 47. 48. 49. 52. 53. 54. 55. 56. 59. 64. 65. 66. 67. 68. 71. 74. 75. 76.

IL PICCOLO è scritto in IKI MONO by CAST FOUNDRY, disegnato da Bea Enzo D’Agostino, amica e fan de IL PICCOLO

ORIZZONTALI 1. Principio di design per cui l’icona di salvataggio è un floppy disk 11. Non fa andare l’acqua per terra in bagno 17. Articolo indeterminativo 18. Né sì né no 19. Pronti per andare in mare 20. Prima di XP 21. Si dice a chi è fuori 23. Preposizione eufonica 24. Non tutti arrivano alla sua fine 25. Ha occhi rossi e pelle candida 28. Campo di prigionia sovietico 29. Rientranze delle pareti 32. Il massimo raggiungibile 33. Curano le cause 35. Il Larsson scrittore (iniz.) 36. La prima preposizione 37. Dice “Fletto i muscoli e sono nel vuoto” 39. Sulla calcolatrice con COS e TAN 40. Non apprezzano nulla 44. Cresce ogni anno 46. Registration Authority Officer 47. Hank ___, Il Giant Man della Marvel 48. Operating System 50. Credo che allontana dalla chiesa cattolica 51. Canzone e film incentrati sulla fine della scuola del’obbligo 57. Sit-Com degli anni ‘90 su Italia Uno 58. Produceva cellulari prima degli smartphone 60. Internet Explorer 61. Violento getto di vomito 62. Articolo romanaccio 63. In mezzo alla Peroni 64. Giusto per il quesito posto 65. Film, manga e romanzo giapponese su degli studenti costretti a uccidersi tra loro dal governo

Zona a nord di Milano Agnese... spagnola Il Kombat dei videogiochi Città famosa per il suo teatro dell’opera La pianta che vuole meno acqua Cantavano Losing My Religion Curva che si avvicina indefinitamente ad un altra Sta per “attenzione” Il soprannome del cantante dei Negrita Zona del pavese famosa per i suoi vini Si visita online Oggi si chiama “friulano” Ingiallimento della pelle La Billy drag queen di Up & Down e Come on and Do It Genova sulle targhe La fine del Colosseo Composto utilizzato per anestesie Lasciò Troia dopo l’assedio Sigla per bullshit Provocante con gusto Risata contemporanea Fiumiciattoli di campagna Il Neodimio Al centro della voragine Trasformano lo sterzo in stormo Congiunzione latina

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di Alberto bebo Guidetti

Due giorni fa mi ha chiamato Rocca, ha detto: «Una volta c’erano i muri a cui tirare le testate, adesso non si capisce dove siano finiti questi muri». Mi guardo attorno, non ci sono i muri, sono sulla riva di un mare qualsiasi, fa fresco, ma si sta bene. Magari, penso. Non devo buttarmi giù. Non troppo. Non devo arrabbiarmi. Non troppo. Non vorrei perdermi in cose inutili, quel tanto che basta. Trovare la voglia di cucinare a pranzo, trovarla anche a cena. E viceversa. Se mi tolgo i pensieri dalla testa, poi cosa resta? Invecchio: mi si imbiancano la barba, i capelli. Fuori fa più freddo di ieri. Mi affatica riscrivere costantemente le priorità, ci ho messo dieci anni a metterle in ordine. Ogni tanto ho paura di ascoltare troppa poca musica. Da inizio anno ho perso diversi chili. Sono contento, mi sento meglio. Nessuno degli attacchini per lo strofinaccio in cucina rimane attaccato. Come si chiamano quei cosi di plastica per tenere su lo strofinaccio della cucina, attacchini? Mi mancano più spesso del solito i miei amici, le mie amiche, alcuni affetti. Poi esco, sperando che il mondo mi sorprenda e mi distragga. Su alcuni progetti a cui sto lavorando ho la percezione di non essere efficace. Vorrei dire che non sono spaventato. Non lo sono, non penso sia un problema. Gli ultimi aggiornamenti sul Coronavirus sono un dato di realtà da cui scappo volentieri. Da 35 anni, con un certo orgoglio, non sono indispensabile allo sforzo produttivo del paese. Dei passanti, di chi sta al bar, di chi scrive su un social network, di chi va in tv, di chi parla in radio, di chi scrive su un giornale: non sopporto più le opinioni. Su tutto, non le sopporto più. Tenetevele, fateci altro, scriveteci un libro così che – chiuse lì dentro – nessuno le possa leggere, fatene un monologo visto che i teatri sono chiusi, propinateli ai vostri cari ammesso che ne abbiate. Lasciatemi in pace, lasciateci respirare. Ho ripensato quasi ogni giorno, negli ultimi quindici giorni, alla lista Un po’ di di Sottsass. Alcune volte rifiuto di fare una cosa, non riesco a concentrarmi – mi dico, poi la faccio, mi sembra di averla fatta di merda, va bene lo stesso. Mi confondo, mi sento confuso. Purtroppo è un anno in cui molti hanno visto morire persone a loro care. Ho fatto pensieri, ragionamenti, deduzioni e nessuna di queste mi ha portato a pensare al lutto di un caro come ad una faccenda degna di storytelling. Collocandomi in una netta minoranza. Ho visto film bellissimi, ho visto anche film davvero di merda. Pochissima musica ha saputo intercettare anche solo qualcosa di ciò che sta capitando nel 2020, a riprova che distrarsi fa bene all’arte. Per qualche minuto mi sono convinto che sarebbe molto più comodo essere un complottista, su ogni singolo e banale aspetto della vita, per potermi cullare nella speranza che salti fuori il gran capo di ogni singolo e banale aspetto della vita e che esclami: «Bòn dai regaz, era una finta». Odio i ricchi, tutti, indiscriminatamente, perché è giusto, perché sono sempre più democratico. Crisi climatica, crisi economica, crisi sociale, crisi psicologica. Chiamalo come ti pare, è il capitalismo. Non devo agitarmi. Non troppo. Devo vestirmi. Uscire. Ho cominciato a fare una lista di cose. L’ho finita.



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Citofonare Fantastico! Alberto bebo Guidetti – fondatore Ilenia Adornato – direttrice editoriale Stefano Maggiore – capo progetto Hanno collaborato a questo numero:

Alberto bebo Guidetti Ilenia Adornato Lorenzo Cittadini William Goldman Giulia Fuso Antonella Dilorenzo Alessandro Maynam Giulio Armeni di STORIA D’AA FILOSOFIA COATTA Sara Pilastro Modestina Cedola Anna Di Prima

Francesco Raco Johnny Shock Arianna Capulli Urfidia Lerio Giulia Trapuzzano Michiamanofab Shadia Ceres La redazione de Il Piccolo Marcos y Marcos pièdimosca edizioni Carolina Merlo

Grazie a Roberta Solari per gli estratti da Il maratoneta | Marcos y Marcos Grazie a Elena Zuccaccia per gli estratti da Le cose inutili e Gli altri fanno volume | pièdimosca edizioni Per informazioni, proposte, lamentele e collaborazioni scrivere a: fantasticopuntoesclamativo@gmail.com Ci trovate su Instagram: @fantastico.esclamativo La nostra newsletter settimanale: fantastico.substack.com … e su Facebook: Fantastico.esclamativo Ig e Fb: Arianna Capulli Revisione testi: Elisa Rubio Frost

Il progetto grafico e l'impaginazione della rivista è della graphic designer Veronica Simionato. Il logo di Fantastico! è di Giulia Gagliano, illustratrice e grafica.

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ISBN 9788832118520


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