Le speranze avvolte in fasce. L'origine delle fasce

LE SPERANZE AVVOLTE IN FASCE L’ORIGINE DELLE FASCE

Giuseppe Maddalena Jr

www.signuridilifasci.it

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Giuseppe Maddalena Jr

LE SPERANZE AVVOLTE IN FASCE L’ORIGINE DELLE FASCE

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Ipotesi sull’origine delle fasce Sono solo delle ipotesi, anche se suffragate da pochi documenti, ma fino a quando non saranno portati alla luce nuovi elementi, ci sembra che la tradizione delle fasce a Pietraperzia possa senz’altro essere collegata all’uso di quest’ultime per i bambini abbandonati. E questo rende la tradizione ancora più significativa poiché legata anche all’uso evangelico della fascia al momento della nascita di Nostro Signore Gesù Cristo.

I) Alcune considerazioni sulle fasce L’elemento che caratterizza la processione di lu Signuri di li fasci è costituito da circa 160/180 fasce di lino bianco che ogni anno, la sera del venerdì santo, vengono annodate in un cerchio metallico collocato ai piedi di un antico Crocifisso posto alla sommità di una croce alta circa 9 metri, inserita su una vara che ne consente il trasporto a spalla.

La fascia è realizzata dal fedele che ha espresso un voto nei confronti del Signore Gesù Cristo. Si tratta, molto spesso, del ringraziamento per la guarigione da una malattia, ma anche, in tempi più recenti, il ringraziamento per la nascita di un figlio. Quest’ultima motivazione ci riporta in qualche modo alle origini della processione stessa come in seguito si dirà.

Ogni fascia è annodata a metà della sua lunghezza complessiva, producendo in tal modo il suo raddoppiamento. Sono necessarie, infatti, due persone per tenere in mano ciascuno un capo della stessa fascia durante la processione.

Le fasce più antiche si tramandano da una generazione all’altra, rappresentando un legame, oltre che con la secolare tradizione, anche con l’originario proprietario, spesso il nonno o anche il bisnonno o un parente che l’ha lasciata “in eredità”. Si tratta quindi di un bene prezioso!

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È opportuno specificare com'erano e come sono realizzate le fasce per comprenderne l'origine e la funzione e il modo in cui la processione ha assunto la caratteristica attuale.

La fascia è allestita unendo due strisce di lino di uguale lunghezza. Il punto di unione determina anche lu mizzu - il centro - della fascia, che mediante un nodo - lu gruppu - è legata al cerchio metallico, consentendone in tal modo il raddoppiamento.

Tutto ciò non è un caso ma frutto di una tradizione che si è modificata nel tempo e che ci vede ripetere alcuni gesti a volte senza comprenderne la motivazione originaria.

Le fasce antiche hanno una lunghezza originaria tra i 20 e i 23 metri, mentre quelle attuali misurano 33 metri. Le prime in alcuni casi sono state “allungate” o rattoppate nel corso degli anni con l'aggiunta di nuove strisce di lino o di altra stoffa.

Il motivo di tale allungamento è stato determinato dal fatto che prima del 1904 ogni fascia era costituita da una sola striscia di lino, necessaria a unire la croce con il proprietario posto ai piedi della croce stessa. La fascia, quindi, era lunga tanto quanto serviva a essere tenuta da un solo fedele. Dopo questa data fu modificato il sistema di legatura.

La stampa del 1861, tra l'altro, evidenzia perfettamente che le fasce, nella parte tenuta in mano dal fedele, non erano aggomitolate come avviene oggi, ma arrivavano ad altezza di chi le teneva.

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Ogni proprietario di fascia si collocava vicino alla vara, in maniera quasi perpendicolare alla Croce, e non era necessario avere delle fasce più lunghe, come ai nostri giorni.

L’attuale sistema di legatura delle fasce al cerchio metallico formato da due semicerchi uniti con delle viti - consente, una volta divise le due parti del cerchio, che esse siano liberate in un solo colpo, evitando l’attesa che obbligava i proprietari, dopo la calata della croce, ad attendere a lungo lo scioglimento delle singole fasce.

La tradizione di realizzare fasce più lunghe, quindi, risale agli ultimi 50 anni.

Negli anni successivi al secondo conflitto mondiale alcune fasce furono realizzate con stoffa diversa dal lino. Solo negli ultimi trent’anni è stata rivalutata la tradizione di realizzarle con l’antico tessuto.

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II) Ipotesi sull’origine delle fasce La domanda che spesso ci rivolge chi viene da fuori per assistere al rito è la seguente: “Che cosa rappresentano le fasce e qual è la loro funzione?” E “Perché sono legate ai piedi del Crocifisso?”

La risposta più naturale che diamo è che esse rappresentano un voto per una grazia ricevuta. Alla seconda domanda la risposta quasi univoca è che in origine le prime fasce furono realizzate con la funzione di equilibrio del fercolo.

Uno studio più attento mi ha portato a pensare che la funzione di equilibrio del fercolo potrebbe essere solo una conseguenza dell’uso stesso delle strisce di lino. La funzione di equilibrio delle fasce non era, probabilmente, lo scopo principale della loro realizzazione. Le pochissime fasce esistenti a metà ‘800 non potevano svolgere tale compito.

Trattandosi di un rito religioso dobbiamo prima di tutto capire se ci furono delle specifiche motivazioni di carattere spirituale che portarono i fedeli di Pietraperzia o la Confraternita a concepire una processione così originale.

La fonte primaria di conoscenza per ogni credente è il Vangelo. È dalla lettura dei Vangeli che forse si può trovare qualche spunto per ricercare l’origine della nostra tradizione.

L'uso di fasce e di bende, infatti, potrebbe essere un preciso richiamo a quanto riportato dagli Evangelisti, soprattutto Luca e Giovanni.

Scrive l’Evangelista Luca: «Mentre si trovavano in quel luogo, [a Betlemme] si compirono per lei i giorni del parto.

Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2, 6-7).

“Lo avvolse in fasce”: un gesto tanto semplice, ma dal significato profondo. Il Figlio di Dio, divenuto figlio di Maria, 7

assume la condizione umana, cioè quella comune a tutti noi. Una condizione destinata a concludersi con la morte.

Dall’altro «[Giuseppe di Arimatea] Lo depose dalla croce e lo mise in un sepolcro... » (Lc 23, 53).

L'Evangelista Giovanni, invece, ci descrive quanto avvenuto al momento dell'arrivo degli apostoli al sepolcro: «Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20, 5-7).

Le fasce viste dai due apostoli, che alla notizia della risurrezione avevano corso al sepolcro, erano servite per avvolgere e legare il lenzuolo (Sindone) che ricopriva il corpo di Gesù, mentre il sudario avvolgeva e legava il capo.

Nelle chiese di tanti comuni d’Italia e durante molte processioni del venerdì santo, delle fasce bianche sono collocate sulle braccia della croce come avviene, ad esempio, a Piazza Armerina o a Nicosia, dove, però sono colorate. Un preciso richiamo, questo, alle fasce utilizzate per la “deposizione”.

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Da questi accostamenti il raccordo insistente, nel pensiero cristiano, tra le “fasce” di Maria e le “bende funerarie” di Giuseppe di Arimatea; tra la “mangiatoia” e il ”sepolcro”.

Non sappiamo se al momento di legare la prima fascia ai piedi del nostro Crocifisso i fedeli di Pietraperzia abbiamo voluto esprimere un preciso riferimento alla narrazione evangelica. La consuetudine di avvolgere in fasce i bambini, riportata dai Vangeli, richiama alla memoria l’analoga tradizione di avvolgere in fasce, per i primi 40 giorni, anche quelli nati nella nostra comunità.

Per dare una spiegazione di carattere storico sulla nascita e sulla funzione della fascia nella nostra processione è necessario partire proprio dal significato del termine nella lingua siciliana.

Nel 1786 l'abate Michele Pasqualino nel “Vocabolario siciliano etimologico italiano e latino” dà questa definizione del termine: “fascia, striscia di panno lino lunga, e stretta, la quale avvolta intorno a chicchessia, lega, e strigne leggiermente”. Prosegue ancora lo studioso: “fasci nel numero di più diconsi tutti panni lini, che involgono e stringono i bambini prima di vestirsi”.

Vincenzo Mortillaro, che pubblica il suo vocabolario nel 1838, dà la stessa definizione di fascia: “…striscia di pannolino, o di altro lunga, e stretta, che avvolta intorno a checchessia, lega e stringe.

Dicesi anche di tutte le cose, che circondano, e difendono le altre”.

Già nel '700 e nell’'800, quindi, con il termine fascia si intendeva una striscia di panno di lino usata per avvolgere e stringere bambini o

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persone adulte. E fasci, al plurale, i panni che …stringono i bambini prima di vestirsi.

La consuetudine di fasciare i neonati, tanto diffusa e radicata, si perpetua nel tempo giungendo quasi fino ai nostri giorni. È documentata - intorno alla fine degli anni trenta del secolo XX - dal Pitrè quando segnala che Più di due terzi della Sicilia serbano l’uso di mettere prigioniero tra le tenaci fasce il neonato e di ficcare in una delle ripiegature della fasciatura lo Abbizzè - l’a,b,c - o Buzzeu o Santa Cruci, cioè un libricino di poche pagine con immagini, segni e preghiere, la cui funzione è quella di avere molte virtù e preserva, chi lo ha addosso, di qualche maleficio possibile. (cfr. Usi e costumi, credenze e pregiudizi ecc. di G. Pitrè volume II, pag.

149) Anche a Pietraperzia la tradizione di avvolgere i bambini in fasce per i primi mesi di vita è rimasta in uso fino agli anni '60 del secolo XX. È altresì testimoniato da persone ancora viventi che nel territorio di Pietraperzia, almeno fino alla fine del XIX secolo, il lino era coltivato, lavorato e infine tessuto. Diverse sono le testimonianze in tal senso che risultano interessanti sia per quanto riguarda la produzione del lino, sia per l’utilizzo che se ne faceva.

La signora Carmela Marotta (1927-2018) vedova del signor Filippo Anzallo (1925-1975) ha raccontato che il signor Giuseppe Anzallo fu Filippo - padre del marito - si trovò un giorno nei pressi del fiume Salso, dove possedeva un appezzamento di terreno nel quale coltivava il lino. Giunse improvvisa una forte piena tale da provocare 10

grande apprensione allo stesso e al fratello Calogero, da far temere per la loro stessa vita.

Lo stesso Anzallo fece voto di realizzare una fascia di lino se i presenti al fiume si fossero salvati. Allo scampato pericolo seguì la realizzazione di una fascia. La storia narrata dalla signora Marotta dovrebbe risalire agli anni 1910/1915 circa, anche se quest’ultima dichiarò che la fascia era stata realizzata intorno al 1890, quando in realtà i protagonisti della vicenda non erano ancora nati o erano troppo piccoli. La fascia, infatti, è annotata nel registro alfabetico dei proprietari di fasce, utilizzato dal 1894 ed in uso fino al 1975, mentre non c’è traccia di essa nel registro del '92. La parte antica della fascia quella in lino - misura 19,50 metri, in epoca recente alla fascia è stata aggiunta una striscia di stoffa di circa 2 metri.

Una piena del Salso, in effetti, è documentata storicamente nel novembre 1915, quando a Licata, dove il fiume sfocia, causò 115 morti. È invece più probabile che i due Anzallo si trovassero al fiume per attendere alla lavorazione del lino che veniva fatto macerare tenendolo a mollo circa 15 giorni.

Quanto dichiarato dalla signora Carmela Marotta è molto probabile che faccia riferimento a questo momento della lavorazione del lino.

Il signor Rosario Caffo (n.1933) ha raccontato che il lino utilizzato per la realizzazione della fascia della sua famiglia fu coltivato in contrada Vallone dell’Oro, in territorio di Pietraperzia. La fascia, il cui primo proprietario fu il signor Damiano Satariano fu Antonino, porta la data del 1888. È la più antica tra quelle in cui è ricamato l’anno di realizzazione.

A Pietraperzia, quindi, non solo si coltivava il lino ma si realizzavano anche le fasce che servivano per avvolgere i bambini appena nati.

Secondo alcune testimonianze, al bambino veniva prima messo il panno, poi il fascione e solo in ultimo la fascia vera e propria.

Il fascione era una stoffa quadrata delle dimensioni di circa 80x80 centimetri posto sotto la fascia.

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Negli anni '30 del secolo XX il lino per le fasce - della lunghezza di 225 centimetri e della larghezza di 20 - cominciò a essere acquistato già pronto e non fu piÚ necessario realizzare a mano l’antico tessuto, frutto di un durissimo lavoro.

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III) La ruota dei proietti Nel 1705 i monaci del Terz’Ordine di S. Francesco, in seguito alla donazione fatta in loro favore dalla Confraternita Maria SS. del Soccorso, erano divenuti proprietari dell’omonima chiesa, come risulta anche dal documento del 1828 in cui si fa espresso riferimento alla processione del venerdì santo che infatti sortendo dalla chiesa de’ Padri del terz’ordine gira per le strade di quella Comune...

L’esistenza del convento è documentata dal 1711 nel “Libro dei Capitoli” del Terzo Ordine Francescano di Sicilia. (cfr. Giovanni Parisi “Il Terz’Ordine Regolare in Sicilia”, Casa Editrice, Antelminelli, Torino, 1963) Attaccata alla sacrestia della chiesa di Maria Ss. del Soccorso, esisteva la ruota dei projetti. Entrambe, fino agli anni '60 del XIX secolo, facevano parte del complesso conventuale dei Padri del Terz’ordine di S. Francesco.

L’istituto della ruota fu reso obbligatorio, in Sicilia, dal viceré De La Viefuille nel 1751, ma probabilmente esisteva già in alcune città siciliane e fu abolito ufficialmente solo nel 1923 con un regolamento approvato dal governo Mussolini.

L'esistenza della ruota dei proietti a Pietraperzia è documentata almeno dal 1756 e il suo funzionamento durò fino alla metà degli anni '40 del secolo XX.

La ruota - la rota - era costituita da un cilindro di legno che collegava l’esterno con l’interno dell’edificio. Il cilindro era fissato, come una finestra, dentro un muro e ruotava con un perno in modo tale da portare il neonato dall’altra parte del muro stesso. Si trattava di 15

un meccanismo abbastanza semplice ideato e costruito per facilitare l’abbandono di un neonato!

L’abbandono del bambino era determinato, quasi sempre, da ragioni economiche ma anche da motivazioni di carattere sociale. Si trattava, spesso, del frutto di relazioni extraconiugali.

In una pianta del 1877, conservata presso l’Archivio di Stato di Enna, il complesso del convento e della chiesa è disegnato come un unico corpo di fabbrica, con la via Bottino che iniziava all’incrocio dell’attuale scalinata Michele Ciulla che dalla stessa via sale verso Largo Lino Guarnaccia e s’immette nell’attuale via Castello.

La ruota era collocata alla fine del fabbricato, all’angolo tra l’allora Corso Vittorio Emanuele - oggi via Castello - accanto al civico 210, di fronte l’attuale abitazione della famiglia ImpresciaCollotta. Secondo qualche altra testimonianza, invece, la ruota era posta all’angolo dello stesso fabbricato ma con accesso dalla scalinata Michele Ciulla che dall’attuale Via Castello scende in via Bottino.

La documentazione ritrovata nell’archivio della Diocesi di Piazza Armerina dimostra che nei primi anni '30 il Comune, proprietario della sacrestia e della ruota annessi alla chiesa, intendeva ristrutturarli e adibirli a Canonica. Già nei documenti catastali del 1940 la sacrestia era diruta, mentre il fabbricato che aveva ospitato la ruota era ancora in piedi.

In uno studio del 1978 dal titolo “Pietraperzia: un paese vecchio”, pubblicato nella rivista Archivio Storico per la Sicilia Orientale, la studiosa Silvana Raffaele afferma che per la prima volta il termine in rota projectorum si trova in un atto di battesimo del marzo 1756, custodito nell’archivio della Chiesa Madre della nostra città.

Dai documenti finora consultati nei vari Archivi non è stato possibile accertare se la ruota dei proietti fosse inizialmente gestita dai Padri del Terz’Ordine che abitavano il convento oppure dalla Confraternita che nella chiesa del Carmine aveva la propria sede.

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Dopo l'Unità d'Italia, a seguito della legge n.3036 del 7 luglio 1866, furono soppressi gli Enti Ecclesiastici, i cui beni furono requisisti dal Demanio del Regno d’Italia ed in parte assegnati ai Comuni, come avvenne per il convento dei Padri del Terz’Ordine di S. Francesco, conosciuto più comunemente come convento del Carmine.

Va rilevato, per inciso, che i Carmelitani non abitarono mai il convento del Carmine, come ha documentato il sac. Filippo Marotta nella nota di presentazione al volume “Pietraperzia dalle origini al 1776” (pag. 59 e segg.).

Dopo la partenza dei frati francescani da Pietraperzia, la gestione della ruota fu affidata dal Comune a una propria dipendente, denominata pia ricevitrice, dai cittadini la rutara.

La legge Rattazzi n. 753 del 3 agosto 1862 aveva istituito in ogni Comune la Congregazione di Carità con lo scopo di curare l’amministrazione dei beni destinati a beneficio dei poveri, nonché vigilare sulle preesistenti Confraternite denominate Opere Pie. L’art. 1 della legge designava con i termini di “opera pia o istituzione di assistenza e beneficenza” un ente morale che aveva come fine quello 17

di “soccorrere le classi meno agiate, (...) di prestare loro assistenza, educarle, istruirle ed avviarle a qualche professione”.

Erano gli anni in cui si formava il nuovo Stato Italiano con risvolti sulla storia della nostra Confraternita e di riflesso anche sulla tradizione del venerdì santo pietrino.

Tutti i beni appartenenti alle Confraternite pietrine passarono sotto la gestione della Congregazione che dal 1903 si adoperò anche per la costruzione dell’ospedale Rosina Di Natale, a seguito della donazione fatta dall’omonima benefattrice.

Ciò fu motivo di una lunga causa civile durata dal 1890 al 1913 che vide coinvolta, indirettamente, anche la nostra Confraternita.

Per effetto della legge Rattazzi la Congregazione era subentrata nei rapporti patrimoniali delle Confraternite di Pietraperzia e particolarmente di quella intitolata a Maria Ss. del Soccorso, titolare di una rendita che le derivava da un lascito della principessa Giulia Moncada del 1584 con il testamento pubblicato dal notaio Giacomo Galasso da Palermo il 16 ottobre 1587.

L’archivio della Congregazione di Carità locale - ora donato alla Parrocchia S. Maria Maggiore e custodito nell’archivio della Confraternita Maria SS. del Soccorso - fornisce qualche documento utile per comprendere la complessa vicenda che intercorse tra la Congregazione e la Confraternita e che probabilmente in qualche modo determinò l’evolversi della processione come oggi noi la conosciamo.

La successiva legge n. 2248 del 1865 stabilì che tra le spese obbligatorie sostenute da ogni Comune vi fossero quelle da destinare all’assistenza sanitaria per i poveri e per il mantenimento degli esposti, i cosiddetti projetti, cioè bambini abbandonati.

Dal 1866 l’obbligo di fornire quanto era necessario per l’assistenza dei projetti fu quindi posto in capo alla Congregazione di Carità comunale, nel cui archivio si trovano alcuni elenchi di fanciulli abbandonati, risalenti agli anni '65-'70 del secolo XIX, con l’indicazione delle somme pagate a vario titolo per l’assistenza degli sventurati bambini nei primi anni di vita.

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Non sempre si trattava di bambini privi dei genitori. Dietro l’assistenza ai projetti, ruotava, in realtà, tutto un sistema economico, per cui non era infrequente che la madre consegnasse alla ruota il proprio figlio per riprenderlo qualche ora dopo come balia e riscuotere così il contributo mensile!

Nei documenti dell’Archivio esiste un elenco del 1866 dal quale si rileva che numerosi erano i proietti affidati alla ruota annessa al complesso conventuale della chiesa del Carmine.

In un documento redatto dalla stessa Congregazione nel 1866, risulta che la stessa forniva il necessario a 66 bambini, di cui 19 nati in quello stesso anno.

Dal momento in cui l’onere di provvedere ai bambini abbandonati fu affidato alla locale Congregazione di Carità, quest’ultima erogò per ciascun proietto un contributo di 4 lire e 25 centesimi mensili a titolo di alimenti, somma che veniva corrisposta per i primi sette anni di vita per le bambine e per i primi cinque anni per i maschi.

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Solo per il primo mese di vita veniva erogato un contributo di 1 lira e 27 centesimi per l’acquisto di pannilini. (cfr. Archivio Congregazione di Carità di Pietraperzia - elenco projetti 1866).

Dal 1868 i suddetti importi furono aumentati rispettivamente a 6 lire per gli alimenti e a lire 1 e 70 centesimi per i pannilini e fasciatura. Proprio da quell’anno all’indicazione di pannilini fu aggiunta quella di fasciatura, costituendo un’unica voce contabile, confermando che già a questa data la cura dei proietti era affidata alla Congregazione.

Pannolini e fasciatura che erano evidentemente i panni lini e le fasce in cui venivano avvolti i bambini dopo la nascita, come chiariscono meglio i vocabolari siciliani di fine '700 e primi dell’'800.

Il Regolamento emanato a Catania il 6 marzo 1820 dall’Intendente della Valle di Catania, Duca di Sammartino, all’art. 14 riporta che “il fanciullo sarà dato alla nutrice coperto per la prima volta di pannolini, e ravvolto di fasce”, confermando tale uso per i proietti (cfr. Silvana Raffaele “Dalla beneficenza all’assistenza” ed.

CUECM 1990)”.

Anche l’art. 14 del Regolamento emanato dal Prefetto di Caltanissetta in data 22 giugno 1867, recita: “Presso la pia ricevitrice sarà tenuta una discreta provvista di pannolini, e fasce per la pronta copertura dei bambini che sarebbero gettati alla ruota del tutto ignudi…. È proibito apprestare in danaro, ma esclusivamente in genere tanto le fasce e i pannolini, quanto di vestizione di cui al presente articolo”. È evidente che fasce e pannolini dovevano essere fornite alla ruotara in natura e non in denaro. Provo a formulare un’ipotesi suffragata, al momento, solo da pochi documenti storici, non sempre chiarissimi.

La madre del bambino consegnava il projetto, coperto da qualche modesto panno. Il primo compito della rutara, subito dopo l’accoglienza, era quello di ′nfasciarlo, utilizzando proprio una fascia cioè una “striscia di panno lino lunga, e stretta, la quale avvolta intorno a chicchessia, lega, e strigne leggiermente” secondo il vocabolario del Pasqualino. Mi piace pensare che su ogni fascia che 20

avvolgeva un bambino venissero ricamate le iniziali del nome e del cognome attribuito al proietto. Tradizione, questa, inconsapevolmente tramandata nel tempo. Ancora oggi, infatti, senza che ve ne sia una precisa esigenza, su ogni fascia sono ricamate le iniziali del primo proprietario. È probabile che in un primo tempo fossero utilizzate fasce di lino già realizzate dai nostri concittadini per essere destinate ai proietti. Venivano offerte per voto dai fedeli per essere appese ai piedi del SS. Crocifisso. La Confraternita, che curava la processione del Calvario, in seguito consegnava le fasce alla rutara. In tal modo si chiedeva al SS. Crocifisso la protezione per i fanciulli abbandonati.

Non stupisce, perciò, se uno dei voti attualmente più ricorrenti è quello di realizzare la fascia per la nascita di un bambino!

Riguardo al fatto che le fasce in un primo tempo potessero essere solo “appese”, sovviene l’espressione usata dai pietrini ancora oggi per definire il momento della legatura della fascia ai piedi del SS. Crocifisso: appènniri la fascia.

Appendere, infatti, significa letteralmente «fissare un oggetto a un elemento di sostegno, appoggiandolo, legandolo o altrimenti fermandolo ad esso, in modo che resti rialzato da terra o da altro piano orizzontale» (Enciclopedia Treccani). Il termine appendere, infatti, ha il significato di qualcosa che pende senza che all’estremità l’oggetto sia tenuto da qualcuno o da qualcosa.

Così doveva essere all’inizio per le fasce, le quali venivano appese ai piedi del Ss. Crocifisso e solo in un secondo momento tenute dai proprietari, anche con la funzione, importante ma non esclusiva, di equilibrio della Croce.

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L’ipotesi più probabile, in definitiva, è che le fasce fossero realizzate per voto, destinandole ai projetti solo dopo che erano state legate ai piedi del SS. Crocifisso nella loro lunghezza complessiva, tagliandole successivamente in più parti per essere destinate a fasciare i bambini appena nati per i primi 40 giorni di vita.

Al termine della processione da ogni singola fascia - lunga originariamente 20/23 metri - si potevano ricavare circa 10 strisce di misura più piccola, ciascuna della lunghezza di poco più di 2 metri.

Una volta consunte naturalmente le fasce venivano distrutte, motivo per cui di quelle più antiche non è rimasta nessuna traccia. Questo spiegherebbe l’esiguo numero di fasce ritratte nella stampa del 1861.

Si trattava solamente delle fasce realizzate per quell’anno.

Il voto del fedele era ripetuto ogni anno per il tempo in cui si era obbligato verso il Signore Gesù Cristo. Ogni anno il fedele realizzava una nuova fascia di lino, che serviva poi per avvolgere altri bambini.

Si potrebbe anche ipotizzare che fasce della lunghezza di 2-3 metri venissero in un primo tempo utilizzate per avvolgere il proietto e, una volta ultimato il compito originario, fossero unite tra loro per formare una fascia più lunga, da legare ai piedi del SS. Crocifisso durante la processione, per chiederne grazie e protezione.

In entrambe le ipotesi, la funzione di equilibrio durante la processione del Calvario, fu conseguente allo scopo originario per cui le fasce erano realizzate.

Sorge, a questo punto un’altra domanda: “Perché dopo il 1885 le fasce rimasero di proprietà del fedele o della famiglia che l'aveva realizzata, mentre di quelle realizzate in precedenza non è rimasta alcuna traccia?”

Anche in questo caso si può formulare un’ipotesi.

Dopo che le fasce erano state appese ai piedi del SS. Crocifisso, le preziose strisce di lino venivano lasciate alla Confraternita che dietro compenso monetario le consegnava alla Congregazione che, a sua volta le metteva a disposizione della rutara per avvolgervi i projetti.

Questo sistema dovette durare per un po’ di tempo, ma qualcosa ad un dato momento interruppe la tradizione.

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Nel 1890 sorse una lite giudiziaria tra la Congregazione di Carità di Pietraperzia, in rappresentanza della nostra Confraternita, e il Demanio dello Stato, che si concluse solo nel 1913. La vicenda nasceva dal fatto che l’Ufficio del Registro, nella rappresentanza del Demanio, aveva citato in giudizio la Confraternita chiedendo a quest’ultima di riconoscere che non aveva più nessuna pretesa riguardo al censo un tempo percepito dall’Opera Pia sui beni già appartenuti al Convento del Terz’Ordine Francescano, ora di proprietà dello Stato Italiano per effetto della legge del 1866 che soppresse gli Enti Ecclesiastici.

La Confraternita non acconsentì al rilascio della dichiarazione che non aveva nulla a pretendere, anche in considerazione del fatto, che il censo spettante sui cespiti in questione era stato trasformato in rendita di Titoli Pubblici del Regno d’Italia. I Titoli erano stati requisiti dallo stesso Stato Italiano per effetto del decreto Garibaldino del 1860 al fine di risarcire i cosiddetti Danneggiati Borbonici.

La Confraternita, a partire dal 1871, era stata privata definitivamente dell’importo annuo di 205 lire derivante dal canone che la stessa percepiva su due terreni agricoli siti in contrada Fiumara e Rancitito, acquistati a suo tempo con le originarie 125 onze lasciate 23

dalla principessa Giulia Moncada Barresi per il soddisfacimento del legato di maritaggio disposto da quest’ultima con il testamento del 28 marzo 1584 in favore di una figlia orfana di confrate, scelta a sorte tra il numero di 12 nella solennità della festività della Madonna del Soccorso l’8 settembre di ogni anno.

A seguito di questa causa la Confraternita si vide costretta, senza alcuna ragione, a doversi difendere legalmente per una vicenda in cui era, di fatto, estranea.

La diretta conseguenza fu che la Confraternita dovette affrontare anche l’umiliazione del pignoramento di beni nella propria sede, per questo motivo gli amministratori dell’epoca occultarono i documenti della stessa Confraternita.

La causa civile ebbe inizio in quel 1890, ma sicuramente già in precedenza le richieste del Demanio dello Stato alla Confraternita, rappresentata dalla Congregazione di Carità - per recuperare le somme che a suo parere riteneva avesse indebitamente incassate, incrinarono i rapporti tra Congregazione e Confraternita.

Lo sfaldarsi dei rapporti tra le due Istituzioni indusse la Confraternita a non fornire più le fasce che i devoti lasciavano in chiesa, obbligando la Congregazione a provvedervi per conto proprio.

In un appunto ritrovato tra i documenti della Congregazione, datato 28 agosto 1890, il presidente della stessa ordinava al segretario: date alla ruotara una fascia, quattro pannolini, e due coppolini, segno che le fasce non erano fornite dalla Confraternita.

Questo interessante documento dimostra che a questa data era già la Congregazione a fornire la fascia per i proietti, mentre le fasce legate ai piedi del SS. Crocifisso venivano già riportate in casa dai rispettivi proprietari.

La Confraternita - che dalla vendita delle fasce aveva ricavato, in un primo tempo, le somme necessarie all’organizzazione della processione -, si limitò solamente a chiedere annualmente ai fedeli un contributo in denaro.

Ancora oggi ai fedeli che si recano al Carmine per appènniri la fascia viene richiesto, dalla Confraternita, un contributo economico

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libero, la cui origine e motivazione potrebbero derivare da quanto precedentemente esposto.

L’ipotesi più probabile è che la Confraternita avesse convinto i fedeli a riportarsi a casa le fasce, lasciando alla stessa un contributo economico, invitandoli a riportare l’anno successivo la stessa fascia, che veniva nuovamente legata a fronte di un’offerta in danaro.

Sembrerebbe questo il vero motivo per cui le fasce legate ai piedi del SS. Crocifisso aumentarono notevolmente tra gli anni '80 e i primi anni '90 del secolo XIX, senza un’apparente motivazione.

Dal censimento delle fasce realizzato nel 1996 dalla Confraternita, si rileva l’esistenza ancora oggi di una quindicina di esse realizzate tra il 1885 e il 1900, mentre nessuna di quelle realizzate prima di questo periodo è giunta fino a noi.

La certezza storica sulla data di realizzazione esiste solo per le fasce oggi in possesso delle famiglie Caffo e Amico, legate per la prima volta rispettivamente nel 1888 e nel 1892. Sappiamo che altre fasce furono realizzate in quegli anni, attraverso il racconto fatto dagli eredi dei primi proprietari.

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In una annotazione del 1889 - la prima in cui in un registro della Confraternita vengono menzionate - l’ammontare delle somme incassate per la legatura delle fasce fu di L. 1,50. Se si ipotizza una richiesta di contributo di pochi centesimi, si può supporre che quell’anno le fasce attaccate non superarono la quindicina.

IV) Alcune notizie sui primi proprietari delle fasce Nel 2013 il sac. Filippo Marotta, nipote del defunto parroco Michele Carà (1870-1946) ha restituito alla Confraternita alcuni documenti e un registro appartenuti a quest’ultima.

Il registro fu utilizzato come brogliaccio di appunti dal 1892, come dimostrano le annotazioni riportate con quella data. Nello stesso anno e comunque non oltre il 1894 vi furono riportati i proprietari delle fasce allora esistenti, a ciascuno dei quali era stato richiesto il pagamento di una lira.

Alla fine dell’elenco, sotto la data del 2 aprile 1904, sono riportate 3 fasce, forse realizzate in quello stesso anno, mentre l’ultima data riportata è quella del 10 aprile 1914 quando vengono annotate le fasce di Bevilacqua Calogero fu Sebastiano, Salvaggio Giuseppe fu Giovanni e Pinnadauria Salvatore fu Calogero, realizzate proprio in quell’anno e tuttora esistenti.

La prima di queste tre fasce riporta ancora oggi ricamata nello stesso lino la data di realizzazione - 1914 - confermando quindi l’esattezza dell’annotazione ritrovata nel registro del '92.

Complessivamente vi furono annotati i nomi dei proprietari di 71 fasce, che successivamente furono trascritti in maniera più ordinata nello stesso registro.

Uno dei nomi riportati corrisponde a tale Sillitto Calogero fu Vincenzo nato nel 1826 e morto nel 1894, il che dimostra, infatti, che l’elenco fu riportato prima di quella data.

Lo stesso nome è riportato come primo nominativo della lettera 'S' nel registro alfabetico, realizzato a partire dal 1894, in cui furono riportati i nomi dei proprietari delle fasce esistenti a quella data e quelle che man mano furono realizzate fino al 1975.

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Nell'inventario della Confraternita redatto il 10 maggio 1914, il registro è riportato tra i documenti esistenti.

Il primo nome riportato nel registro del '92, poi trascritto nel registro alfabetico del '94 sotto la lettera 'C', è quello di Pietro Cacciato (1851-1933).

Attualmente la fascia di Cacciato è in possesso del confrate Filippo Falzone (1939), il quale ha affermato che la stessa fu realizzata nel 1885, cosa verosimile alla luce di quanto ha raccontato un’altra pronipote del Cacciato, la signora Natala Alù.

Ritengo utile raccontare la storia di questa fascia perché, conoscendo la data di nascita del primo proprietario e l’anno di presumibile realizzazione, ci aiuta a capire quando in realtà le fasce legate alla croce furono riportate a casa al termine della processione.

Il Cacciato svolse il servizio di leva militare dopo il 1870 ed ebbe un problema alla vista. Fece voto di realizzare una fascia se il Signore Gesù Cristo l’avesse guarito dalla malattia, cosa che si verificò puntualmente. Al ritorno dal servizio militare, verosimilmente 27

tra il 1873 e il 1880, realizzò la fascia ancora esistente, la cui misura originaria è di circa 23 metri.

Tale data si desume tenendo presente che il Cacciato era nato nel 1851. Se si tiene in considerazione che il servizio di leva obbligatoria era svolto dopo la maggiore età, è facile supporre che la fascia sia stata realizzata negli anni '70 del secolo XIX. Le date sopra riportate sono utili a dimostrare che verosimilmente prima di allora non esisteva nessun registro o documento in cui la Confraternita annotava i proprietari di fasce, sia perché erano di numero esiguo, sia perché i fedeli si limitavano esclusivamente a realizzare la fascia, legandola ai piedi del Ss. Crocifisso. La lasciavano, quindi, alla Confraternita che provvedeva a consegnarla o più probabilmente venderla alla Congregazione che a sua volta la metteva a disposizione della rutara.

Solo dal 1889, infatti, troviamo nei registri della Confraternita, offerte per le fasce. Anche nei documenti contabili riguardanti la Confraternita, esistenti presso gli Archivi di Stato di Enna e Caltanissetta, non c’è nessuna registrazione che faccia riferimento alle fasce e più in generale allo svolgimento della processione. È molto probabile che a partire dal 1880/85 le fasce furono riportate a casa dai rispettivi fedeli dopo la processione e legate alla Croce negli anni successivi.

Da qui la necessità per la Confraternita di registrarne i proprietari, per richiederne un contributo economico.

Le poche fasce rappresentate nella stampa di Cosimo Adamo sono quelle realizzate e legate nell’anno in cui il disegno fu eseguito, utilizzate poi per avvolgervi i proietti.

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Da questo momento la processione del Cravaniu - la Croce con 6/10 fasce legate ai piedi del SS. Crocifisso - diventerà gradualmente lu Signuri di li fasci. È solo un’ipotesi, ma è certo che prima degli anni '80 del secolo XIX le fasce non erano riportate a casa dai fedeli dopo la processione e non c’è traccia di esse nei documenti finora riportati alla luce.

Se si fossero conservate come quelle realizzate nell’ultimo ventennio dell'800, qualcuna di esse sarebbe giunta fino a noi.

Le ipotesi formulate sono suffragate da pochi e scarni documenti d’archivio, non sempre di facile interpretazione. Fino a quando non saranno portati alla luce nuovi elementi, mi sembra che la nostra processione possa essere collegata alla tradizione di avvolgere in fasce i bambini, soprattutto quelli abbandonati alla ruota, rendendo più suggestiva l’origine della processione e legandola alla tradizione evangelica di avvolgere in fasce il Signore Gesù Cristo al momento della nascita… e anche della morte.

Le fasce accompagnano un Pietrino per tutta la vita!

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