Centododici anni fa a Pierre Loti toccò un arrivo di ben altra suggestione: “Quando siamo giusto ai piedi delle masse incombenti di pietre scolpite, delle terrazze, degli scaloni, delle torri che puntano al cielo, è allora che incontriamo il villaggio da cui salgono quelle preghiere cantate: in mezzo a qualche alta, esile palma, delle casette su palafitte, in legno e stuoie, molto leggere, con piccole eleganti finestre a festoni, che si riempiono subito di teste curiose del nostro arrivo. Sono persone dal cranio rasato, tutte uniformemente abbigliate di una veste color limone e d'un drappo arancione. Cantano a mezza voce e ci guardano, senza interrompere la loro litania pacata” (Un Pelerin d'Angkor, cap. VII). Nel recinto del terzo chiostro inizia la processione lungo le pareti scolpite, invidiando Delaporte, Mouhot e i pochi altri a cui toccò l'emozione di scoprirle alla luce delle torce, sotto la volta buia di alberi giganteschi, a quel tempo signori assoluti del luogo. Siamo soggiogati dal lungo rilievo col rimescolamento dell'Oceano di latte, forse la più intrigante delle narrazioni, anche per l'incredibile risonanza di miti apparentemente lontani, a cominciare da quello nibelungico. Come sempre avviene nei racconti più suggestivi, anche qui il mito non acquista autorevolezza di racconto morale rinunciando alla dimensione incredibile ma al 70