KILLER CITY e altri Racconti

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dedicato alle donne brindisine che loro malgrado hanno incontrato Slurry

La morte è una cosa tremenda, di cui tutti abbiamo paura, un’ombra spettrale che aumenta la sua potenza al calare del sole e uccide con l’aiuto del buio. Si cerca un motivo, una giustificazione, una spiegazione, un assassino.

Ciò che l’essere umano può fare è schivarla o affrontarla. Ciò che l’essere umano non deve fare è causarla, in qualsiasi modo, perché una volta procurato il danno non resterà che piangere.

Quello che oggi stiamo combinando, devastando il pianeta, è un vero e proprio suicidio di massa, uno sterminio silenzioso causato dall’accidia e dall’avidità, mali che uccidono al pari di una guerra.

Ho scritto questo racconto pensando a quanto oggi siano vicini due posti lontani nel pianeta, a quanto sia delicata una giovane vita, che vorrebbe crescere senza complicazioni, a quanto gli esseri umani continuino a sbagliare commettendo gli stessi errori, determinando gli stessi orrori, a quanto sia bello il mondo ovunque si viva, a quanto sia speciale il viaggio, la percorrenza, a quanto il cosiddetto progresso ci abbia condizionato, a quanto un volo possa provocare un incontro, quello con una bambina stupenda, partorita da una famiglia per bene.

Questa è la mia sesta pubblicazione ufficiale. Dopo aver scritto “nu giurn’a ferragostu”, racconto in dialetto brindisino, “agnello di dio”, libro inchiesta sulla situazione ambientale della mia terra, “scusutu”, raccolta di poesie in lingua e dialetto, “le Gran Fler”, romanzo scritto immaginando il futuro dei miei due figli, e “calìmi”, altra raccolta di poesie, cedo al richiamo di questo romanzo breve, “Killer City” (ispirato a una storia vera) e di altri racconti.

Il mio nome è Pierpaolo Petrosillo, sono nato e vivo felicemente nella mia Brindisi: “un capolavoro della natura”.

pierpaolopetrosillo.blogspot.com pierpaolo.petrosillo@libero.it

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prima ricominci a vivere dopo un dolore profondo e meno vita ti scivolerà tra le mani

pierpaolo petrosillo

KILLER CITY

Impedivo ai ricordi di sopravvenire. Stazionavo davanti alla finestra come un sordomuto, tenendo lontano il turbinio dei pensieri. Soltanto con le figure acquisite dalle pupille, mi accorgevo di non essere sepolto. Ero inerte, assente, una specie di vegetale che rilevava solo immagini in sequenza. Tramutavo i passanti in personaggi avventurosi e strani, componendo scenari che occupavano la mia mente tramortita. Una routine che mi perseguitava da mesi, compromettendo i rapporti con la mia famiglia e soprattutto con mia moglie, una mosca senza capo che vagava in casa affannandosi a fare e rifare infinite faccende domestiche. Consumavo il tempo senza più nulla da esplorare né imparare, nemmeno dalla mia nipotina, che tentava invano di scuotermi chiamandomi nonno a cantilena. Vedevo il verde nella terra, il mare in lontananza e le navi che lo puntinavano, il cielo e le stelle che spuntavano dai tramonti.

La tristezza mi avvolgeva, cercando di sedare il dolore.

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Mi domandavo il perchè di tante sofferenze, per quale incomprensibile motivo il destino scelga di spezzare una vita prima di un’altra, come si possa continuare a vivere dopo una tempesta di lacrime, quali siano gli specchi in cui possiamo guardare. Intanto, con la fronte attaccata al vetro, osservavo lui, il vicino di casa, che saltava in groppa alla sua bicicletta per andare in centro, e mi distraevo fantasticando.

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Nel cuore dell’Asia esiste un vasto territorio a forma di gallinella. Il becco pizzica l’Afghanistan, gli occhi guardano il Tagikistan, il petto, gonfio delle catene montuose dell’Himalaya e del Kunlun Shan, lambisce il Nepal e l’India, mentre a nord la groppa si protegge sotto la Grande Muraglia Cinese. Il tetto del mondo. La grande Cina del vecchio Tibet, il posto magico che testimonia i miliardi di anni trascorsi dall’aggregazione delle polveri interstellari, esattamente nel cuore della creatura dal corpo gigante e dalle zampe orientate al Vietnam. La regione dello Yunnan è un immenso altopiano con vette spiccate fino a 2000 metri sul livello del mare. Una terra striata che pare ricavata graffiando il suolo con una ciclopica mano dalle unghie affilate. La dimora di Slurry era poco lontano dalla città di Qujing, incastonata in un anfratto della montagna. Un posto incantato dove il tempo scandisce le sue epoche lasciandone traccia. Dalle valli alberate alle rocce scoscese, dai monti pietrosi ai fiumi delle cascate, dalle case costruite con tavole inchiodate ai tetti coi baffi all’insù, dai pilastri di mattonelle alle

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scritte coi simboli, dai bagliori delle stelle ai fari dei lampioni cittadini, dai grattacieli slanciati agli edifici bassi dipinti artisticamente, dai vialetti di selce alle strade asfaltate lungo i versanti, dai ponticelli di legno a quelli di ghisa con i tiranti d’acciaio, dai terrazzamenti per il riso ai giardini pensili, dai serpenti di vetro degli stadi e delle ferrovie a quelli carnosi e velenosi dei selciati. Ma le facce delle persone si somigliano, stirate dal sole o lisciate dal vento e dalla neve, gente di modesta statura e fisico mingherlino che concede sorrisi stentati e parole soltanto all’occorrenza, che si contenta di un bizzarro vestito bardato di draghi o indossa abiti aderenti e compìti, che raccoglie l’acqua dal fiume coi secchi oppure beve al rubinetto cromato, che naviga su imbarcazioni di tronchi o prende un motoscafo per taxi, che mangia in una ciotola sul tappeto oppure siede al tavolo intarsiato, che fa il bagno in una tinozza o si accomoda nella vasca di ceramica coi pedali dorati. Qujing, la città dove il buio delinea i panorami e il sole li abbaglia sfocandoli. Un tutt’uno tenuto insieme dai suoni

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rilassanti di antichi strumenti o moderni sintetizzatori. Slurry giaceva sepolto da 250 milioni di anni nelle profondità di una montagna impiantata a rovescio nelle viscere della terra, dove luce e buio sono indistinti e la quiete è un silenzio tombale interrotto soltanto dai vermi che bucano il terreno.

Una miniera abusiva, tra le tante in quella zona, non lontana dall’abitato, un posto quasi inaccessibile, raggiungibile soltanto percorrendo una via tortuosa che scalava scuri monti segnaletici.

Si scavava da anni coi permessi scaduti, a ritmo forsennato, senza paura di essere sottoposti a controlli. Non vi era tregua nemmeno in quel periodo di luglio, stagione delle piogge, in cui si rallentava l’estrazione a cielo aperto per favorire e rinforzare il prelievo del minerale dal sottosuolo. Nei pozzi profondi, al riparo dalle intemperie, i minatori scendevano dal tunnel a squadre di sei unità, percorrendo il primo tratto a piedi, attraversando un cunicolo in diagonale con scalini lunghi e vischiosi.

Giungevano a un grande pianerottolo sotterraneo, anticamera dell’ascensore per la discesa lungo

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l’albero in verticale. I primi piani avevano rami orizzontali corti, ma più si andava giù e più la ramificazione si allungava impervia, pericolosa. Quel giorno si andò al settimo livello, quello più rischioso perché aveva i bracci lunghissimi e stretti, a 180 metri di profondità. E fuori pioveva, continuava a piovere. Ma nei labirinti si doveva scavare e scavare dopo le cariche di esplosivo, perché quell’antracite era la più preziosa, ricca di carbonio e con eccezionale potere calorifico. Le sei bestie erano a fine turno, quel maledetto pomeriggio, e avevano appena finito di caricare i carrelli che sarebbero giunti all’esterno tramite montacarichi e nastri trasportatori dedicati. Enormi quantità di roccia grezza stipata in grandi cumuli dilavati dalla pioggia. Perché quel giorno pioveva, pioveva forte, pioveva tanto, pioveva violentemente e l’acqua cominciava a penetrare sgorgando nella galleria, raggiungendo con prepotenza l’ascensore e riempiendolo da dove poteva. Pioveva, pioveva, pioveva e l’acqua scendeva nel fusto dell’albero sotterraneo e mandava in blocco gli impianti elettrici

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e di sollevamento, le luci si spegnevano e sui cavi scariche elettriche e sfiammate improvvise, e i tunnel, lentamente, divenivano acquari per topi che non riuscivano più a respirare. D’improvviso, la frana travolse.

Fuori, dal cielo nero, continuava a scendere pioggia potente, lavando immense quantità di polveri, terra e composti di zolfo o altre indesiderate particelle, diminuendone la forza riscaldante.

Ignaro della tragedia, Slurry, setacciato e frantumato in ciottoli omogenei sparati a pressione nell’acqua sanguinante, il mattino seguente avrebbe iniziato il suo viaggio lungo il fiume, a bordo di un grosso tubo sommerso. L’affluente Xi-Jiang aveva un intorno rigoglioso di foreste, una collezione di rupi frastagliate e lingue di spiagge abitate dai contadini nomadi che avevano impiantato piccoli villaggi di palafitte.

Proprio in quelle acque, da dove si traguardano monti spuntati come tepee di indiani d’America, si narra che un certo Mascimoto, un minuscolo essere con la pelle accartocciata, sfilasse ogni giorno con

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una snella imbarcazione mossa da un solo remo e che, accompagnato da un silenzio avvolgente e da una calma vigorosa, si recasse ogni alba in un’isoletta a valle, all’incrocio col fiume Zhu-Jiang. Un posto sconosciuto alle mappe dove egli coltivava perle favolose in grado di abbagliare. Si pensa trattasse i suoi molluschi tipo animali domestici da 400 grammi, tenuti al guinzaglio delle boe, e che gli desse da masticare una pozione di sabbia miracolosa dispensata con la sua manina scarna. Si dice che ogni cinque anni una strana gente dai vestiti bianchi e i capelli biondi si recasse lì a comprare quei gioielli per smerciarli in Inghilterra. Si dice pure che furono quegli stessi loschi individui, dal soldo facile, a soprannominare lo Zhu-Jiang “il fiume delle perle”, un serpentone verde smeraldo disteso per 800 chilometri, in cui confluiscono migliaia di rivoli per raggiungere il mare meridionale della Cina. Un percorso a ostacoli che varia il suo panorama man mano che le montagne si sgonfiano tramutandosi in colline e poi in umida pianura, e infine in torbido acquitrino, con la flora palustre che

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preserva il riso.

Le risaie sono uno spettacolo della natura, vanno in scena l’estate inverdendo i germogli sulle terrazze e dopo il giallo vivo della piena stagione chiudono il sipario in autunno, con un raccolto che fornisce il vitto per tutto l’anno a intere popolazioni.

Dopo una settimana, Slurry completò la prima tappa del suo viaggio giungendo nel porto commerciale di Shenzhen, a nord dell’Isola di Hong Kong. Scenari moderni, super moderni, grandiose città con sinuose costruzioni di vetro e palazzi lanciati verso le nuvole, scritte luminose in verticale e schermi a led posizionati dappertutto, strade aggrovigliate e parchi sparpagliati qua e là. Formicai contemporanei con formiche a forma di persona e veicoli ovunque, posti futuristici da sfiorare di striscio come a bordo di un tubo giunto a destinazione, la stiva n°4 di un titanico cargo denominato Oriental Sun.

La nave era grassa e interminabile, tetra e angosciante, dai fianchi neri, il fondo rosso e la torre di poppa a quattro piani, con uffici e alloggi, pitturata di un bianco opaco.

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Un colosso di ferro talmente possente che i membri dell’equipaggio sembravano manipoli di pulci disseminate, e il suo stomaco era un vomitevole miscuglio ammassato negli scomparti.

Tra i tanti omini frenetici che si davano da fare, compiendo azioni di ogni tipo, se ne distingueva subito uno, molto singolare e vistoso, chiamato scherzosamente da tutti col nomignolo CiaoLin.

Indossava un jeans scolorito col bottone centrale protagonista sopra la lampo, scarpe da tennis e un giubbotto impermeabile rosso semi imbottito, buono per tutte le stagioni. Aveva occhiali ampi tartarugati, baffo canuto spesso e barba rasata, cappello turchese risvoltato e camminata zoppa. Era molto rispettato, un uomo d’esperienza che sapeva sempre cosa fare, dimenandosi sul ponte e percorrendolo costantemente da prua a poppa.

Urlava suggerimenti e raccomandazioni ai marinai, consigliando quanto necessario prima di mollare gli ormeggi, operazione che preferiva coordinare personalmente, invitando a sciogliere le cime una

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per una. Dopo, appena la nave sarebbe salpata staccandosi dalla banchina, CiaoLin, quel curioso individuo che di cinese aveva solo la corporatura minuta, avrebbe imprecato violentemente alla vita bestemmiando contro le migliaia di container in attesa sui piazzali di calcestruzzo, contro le ciclopiche gru che avevano caricato le stive, contro quel viavai di tir che facevano capolino nei parcheggi, contro quei viziati turisti che avevano dovuto imbarcare per fare contenta la compagnia di navigazione, contro i fumi delle città, contro le guerre e contro la finta pace, contro quel tifone mai incontrato, contro il cielo che gli aveva strappato sua moglie da trent’anni, contro la ricerca di un’altra lei e di sé stesso, cominciata sin da allora abbandonando la sua identità e i suoi due figli alla provvidenza, imbarcandosi in giro per il mondo su quei fenomenali ricoveri galleggianti. L’uscita dal porto coincise con la stasi della sua collera, col lacrimare dei suoi occhi, con la supplica al mare di rincontrare la meravigliosa donna che lo aveva accudito fino ai quarant’anni, amandolo come

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soltanto il primo amore può fare. Dal ponte di comando alcune frasi recitate dal Comandante sul luogo di partenza e su quello di destinazione, il porto di Singapore, 2500 chilometri da percorrere alla velocità massima di 15 nodi. Tre giorni e mezzo di navigazione previsti. Il Mare Cinese Meridionale, estremo occidentale dell’Oceano Pacifico, è un’apparente distesa di tranquillità, e per toccare il fondo bisognerebbe scendere a 5000 metri, nell’abisso sotto cui si celano giacimenti di gas e petrolio, gli ori tanto contesi dagli Stati intorno e da lontane superpotenze. Passando per l’arcipelago delle Isole Spratly, un centinaio di gemme coralline a fior d’acqua, la Oriental Sun incappò subito in un terribile tifone. Acquazzoni e vento sballottarono il cargo per alcune ore, montando onde lunghe che sbattevano il mare come un immenso lenzuolo. Nessuno ebbe il coraggio o l’incoscienza di stare in coperta, tranne lui, l’uomo temerario che da anni attendeva quella tempesta per insultarla e inveire senza paura contro la violenza devastante, brutale, inspiegabile, la

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stessa che gli aveva sottratto la moglie imponendogli la malattia mortale. In quelle interminabili ore, CiaoLin, come impazzito, corse lungo gli orli della nave, afferrò la balaustra come a volerla strappare, balzò a piè pari sui coperchi delle stive, sbatté i pugni e la testa sul ferro del pavimento, si impadronì della prua sporgendosi d’impulso, urlò ininterrottamente sfiorando il limite della follia umana, liberandosi in quel lasso di tempo dal dolore atroce frullato nella mente. Sino a quando quel qualcosa con cui prendersela si allontanò. La visione di alcuni balenotteri, che nuotavano in superficie sfiatando acqua, palesò il pericolo scampato. Quando la nave raggiunse l’ultimo atollo dell’ arcipelago violentato dalle perforazioni petrolifere, la radio di bordo informò che l’uragano era stato battezzato Nepartak, l’ennesimo killer che aveva ucciso senza pietà osando mettere a repentaglio anche le preziosissime basi militari cinesi, faraoniche opere in costruzione tra gli isolotti incontaminati. Gli ospiti, smorzato il terrore improvviso che li aveva

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scossi, lasciarono timidamente gli alloggi e le loro comodità per godersi il vento caldo e rilassante che sfiniva la tensione. Si schierarono in fila sul ponte salutando in lontananza una confortante portaerei americana in pattugliamento, una grigia e imponente città armata scortata dal fedele cacciatorpediniere. CiaoLin scagliò le residue frasi di rabbia addosso ai malcapitati turisti e contro le piattaforme petrolifere schivate per miracolo, incolpando dissennati governi di manomettere isole naturali riversandoci cemento per farne piste d’atterraggio o impiantare basi missilistiche per sorvegliare il Vietnam, le Filippine, la Malesia e la città-stato di Singapore, uno di quei puntini importanti del globo posizionati sulla fascia equatoriale. Avvicinatosi lentamente al gruppetto spensierato, con voce accennata, quasi intimidatoria, sussurrò: IosocheleisoleAnambassonounsognoappartato che si lascia guardare, ma sul ponte non sono ammessisandalidaspiaggianétantomenotacchi alti, una scivolata vorrebbe dire rischiare di finire irrecuperatiinmare.

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Aipasseggerièrichiestodiprovvederedipersona allapuliziadellapropriacabinaefarsiilbucato. Se qualcuno ha il vizio del fumo, sappia che è sempre vietato, fatta eccezione che nella saletta fumatori. Gli orari dei pasti sono rigidissimi, ospedalieri,tardarevorràdiredigiunare.Ilmenùèa discrezione del cuoco di bordo, cucina semplice e nutriente.Cisisiederàsemprealpostostabilito. Ognunoèresponsabilepersonalmentedelleazioni compiute. Qui non abbiamo medico e nemmeno infermeria. Organizzate pure le vostre attività, ma rispettate le regole del viaggio. E quando sbarchereteperlevisite,inparticolarenelprossimo porto,rientrateabordoentrol’orariofissato,come viindicheràilComandante.

Tenetesempreaportatadimanoilpassaporto,ese qualcunodivoinonèinpossessodelcertificatodi vaccinazione internazionale per la febbre gialla gli consigliodistaremoltoattento,ancheaglialitidichi vivenderàunaporcellanaouncuscinodivelluto. Nonguardatemiconquellefaccediffidenti,volgete lo sguardo all’orizzonte e riuscirete a intravedere l’eccezionalitàdelprossimoporto.

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Giungere a Singapore al tramonto è un’esperienza incantevole. Da una parte l’ultima luce del sole, e dall’altra il concentrato di mille giostre.

Il mare era calmo, calmissimo, e tutti erano in coperta, affacciati verso un cinema all’aperto che proiettava immagini di tecnologia e futuro. Venne mollata l’ancora tra le cento navi alla fonda, tutte in turno, attendendo un posto accanto ai piazzali di calcestruzzo, ricoperti da container stipati a incastro. Il panorama era galattico, avvolto da stringhe chilometriche di luci rosse e blu, capigliature viola sui grattacieli, funghi cementizi con sfinestrature in sequenza intervallate nel gambo. Spiccavano autostrade a strapiombo conficcate negli abitati, fiori disseminati ovunque e piante esotiche di contorno, stadi sportivi realizzati sugli specchi d’acqua e gallerie di plexiglass destinate ai veicoli, dischi volanti d’acciaio per alieni atterrati senza pass. Potevano immaginarsi suoni striati di postmoderno, il vociare pazzesco della gente, odori di zolfo e benzina mescolati a profumi di tinture.

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L’arrivo del buio amplificava a dismisura il tutto, rendendolo ancora più fasullo e giocoso.

Il posticino sulla banchina si sarebbe liberato intorno alle mezzanotte, dopo diverse ore di bivacco, e la ciurma e i turisti al completo sarebbero scesi a terra con una concessione inusuale del Comandante che, date le circostanze, avrebbe autorizzato il rientro alle 4.30. Da buon condottiero sarebbe rimasto a bordo in compagnia dell’immancabile CiaoLin, custode indefesso di Slurry, parlando dei viaggi insieme, delle mete raggiunte, di gente da foresta o di città, di popoli del mare, di amori trovati e perduti, di amori fugaci e travolgenti, di amori stabili e duraturi, di amicizia e di morte, delle onde che cavalcano il tempo, di sorrisi incrociati e di frasi di pietra. Entrambi, sarebbero andati in branda non prima del rientro dell’ultimo passeggero.

Il mattino seguente, la colazione andò quasi deserta, tranne quella in intimità e in silenzio del Comandante e del suo scudiero CiaoLin, in compagnia degli addetti al rifornimento carburante e del solito piatto di fette biscottate con la marmellata di prugne.

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Al pranzo sarebbero stati tutti presenti e ai tavoli si sarebbe parlato di acquisti in abbondanza fatti a buon prezzo, sfoggiando vestiti di seta tagliati su misura, orecchini penzolanti, oggetti tecnologici e piccoli busti di legno rappresentativi. Si sarebbe riso sotto l’effetto prolungato della sbornia o smaltendo i postumi inebrianti del tè verde alla curcuma, la spezia miracolosa che ritarda la vecchiaia e fa riemergere i ricordi modificandoli e adottandoli come fossero veri. Si sarebbe mormorato rievocando la libidine della prostituta di professione risistemandosi nuovamente i pantaloni come dopo una prestazione esaltante. Si sarebbe commentata la diversità degli individui incontrati e la loro scarsa ospitalità, discusso sulla dimensione delle insegne, sul perdersi in un locale con accesso da un portone anonimo, sul cibo disgustoso o stuzzicante, circa le code al semaforo per pedoni o le spallate davanti alle bancarelle, di un drink sorseggiato davanti a una vetrata trasparente con vista sulla polis, dei distributori automatici di cambio moneta e della miriade di zanzare a folate, di

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sguardi fugaci mai predisposti all’incontro e, infine, dell’importanza dei consigli di CiaoLin, che aveva raccomandato di stare uniti e non dare confidenza a nessuno. A fine pranzo il piccolo uomo fece il giro dei tavoli annunciando la partenza per il tardo pomeriggio, aggiungendo la raccomandazione ripetuta più volte. Attentialleprossimeoredinavigazione,potrebbero sottenderebruttesorprese.

Non uscite dai vostri alloggi per nessun motivo e non aprite nemmeno la porta, potremmo ricevere visiteindesiderate.

Nonmostratemaianessunolavostrapaura,néil vostrocoraggio. Quinonsifannoesercitazioni. La nave cargo Oriental Sun salpò dal porto commerciale di Singapore intorno alle 18 e nell’arco di una manciata di minuti lasciò quell’esaltante giostra introducendosi nel famigerato Stretto di Malacca, un imbuto di mare lungo 700 chilometri, tra Malesia e Indonesia, in cui si infilano cinquantamila navi all’anno.

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Dal ponte di comando le frasi del Comandante sul luogo di partenza e su quello di destinazione, il porto di Colombo, 3000 chilometri da percorrere alla velocità massima di 15 nodi. Quattro giorni di navigazione previsti. Il collo dell’imbuto era un luogo angusto, insicuro, un cimitero di navi affondate dalle tempeste o dagli arrembaggi, da battaglie cruente o dalla guida maldestra di un condottiero. Un recipiente d’acqua salata contenente mucchi di piccole terre affioranti e copiose foci fluviali, ripari ideali per nascondersi, mimetizzarsi, sfuggire alla cattura e rientrare alla povertà del proprio villaggio, celato all’oppressore colonialista.

Quella sera tenebrosa e sospetta, una foschia fumante impediva la luce della luna. Lungo la scia della nave si concentrò una famiglia di capodogli, sommergibili in emersione scontornati da infiniti pesciolini rifugiati nelle grinze. Una scena eccezionale, insolita, che confuse i radar innescando allarmi in sequenza, costringendo il Comandante a disattivarne le funzioni.

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Si fece a gara per imbracciare i binocoli puntandoli dritti sugli zampilli delle magnifiche statue, gettanti a quindici metri d’altezza. Dopo un’ora di avvistamenti, quell’esibizione errante divenne una routine a cui preferire il sonno. Questo era il momento. Tra i crinali bruni dei cetacei si infiltrò un gommone mimetico con a bordo una dozzina di uomini grigi. Nella quiete, gli scagnozzi si accostarono alla poppa del gigante per abbordarlo, lanciarono alcune scalette di corda arpionandole alle ringhiere perimetrali di sicurezza e si intromisero clandestinamente nel condominio. Addormentarono la guardia con un bavaglio intriso di sonnifero, raggiunsero le cabine dei turisti forzando gli sportelloni e, puntando i fucili contro gli occupanti, si fecero consegnare soldi e oggetti preziosi riposti in un sacco di juta, poi si dileguarono come fantasmi. I malcapitati corsero scioccati dal sottufficiale di picchetto trovandolo disteso e dormiente, infine raggiunsero la cabina del comandante raccontando gelidamente il fatto. Fu convocata una riunione urgente con l’equipaggio al completo, impartendo

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immediatamente ordini di perquisire la nave e controllare l’integrità del carico e le condizioni di sicurezza necessarie a proseguire il viaggio. Tutto risultò in ordine. Piratidastrapazzochesaccheggiano per campare, commentò CiaoLin rivolgendosi ai turisti. Chenesannoquestibalordidelvaloredellamerce cheportiamo?

Poveri disperati che vedono passare sotto i loro occhi ingenui la ricchezza incommensurabile degli europei, viziati che fingono azioni umanitarie, combinatecongliamicid’oltreoceano,eprofessano la tutela dei diritti umani tenendosi stretto il loro benessereeilloropoteredidecidereperglialtri. Ma forse, se la storia si è preoccupata di crearlo, vorràdirecheunpoteresovranoènecessarioper tenerciabada,chilosa.Dicerto,traitantiterroristi sulla faccia della terra, i più cattivi eccoli qua, continuò CiaoLin togliendosi il cappello.

Mispaccaronolatestaconilcalciodiunmitra,altro chequeiquattrowinchestercheavevanotraipolsi questipiratidastrapazzo.

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Quellavoltacisequestraronoconl’interanaveper una settimana, finché non gli venne recapitato a domiciliouncaricodiarmimoderneinriscatto. Sceglieredifarsiunavacanzainunpostodelgenere. Cheincoscienti.Eoravipisciateneipantalonicome bimbi che non sanno ancora camminare e cercano unsensoallapropriaesistenza.

La vostra superficialità e la vostra debolezza mi fannogirareicoglioni.Eanchelavostraignoranzae lavostraricchezza. Duemilaeuroperunavacanzadimerda,quellasu questanavedimerda.

Qui tutto dipende esclusivamente dagli imperativi dellamerce.Gliscali,lalorodurata,glioraridiarrivo eglioraridipartenza.

Anche le restrizioni dipendono dalla sicurezza di Slurry.

Nessunalibertàdipasseggiarefuoriorario,divisitare le zone di lavoro o il ponte di comando. Ma probabilmente è questa l’avventura che andate cercando. Il pranzo successivo fu la consolazione ai turisti da parte del cuoco. Una mangiata raffinata ed una

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liberatoria bevuta per scrollarsi di dosso la terribile esperienza in cui erano incappati. La nave lasciò ferita lo stretto di Malacca svoltando presso l’arcipelago delle Isole Nicobar, orientandosi verso l’Oceano Indiano. Un’altra notte da affrontare con l’angoscia, ma anche con quel coraggio ritrovato che subentra quando si vuole uscire presto da una sofferenza agghiacciante.

Da queste parti gli atolli partecipano a strani scherzi, calamitando le tartarughe distratte dalle sagome navali, familiari distorti e fuorvianti. I gusci erano una moltitudine di mine vaganti senza intenzione di esplodere, chiazze in movimento collegate al mare, con le teste che riaffioravano a singhiozzi come a voler salutare prostrando il cranio alla Oriental Sun, la falsa madre che le stava involontariamente trainando con uno stuolo di ganci immaginari. Si dispersero lentamente emulando le nuvole a frotte che si districavano nell’aria formando profili di continenti e poi spalancavano il sipario mostrando l’immensità.

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Nelle notti terse bisogna guardare la voragine del cielo,osservarelavicinanzadellenuvolesporadiche che si radunano cercandosi, assumendo forme corrette. Lestelleinvecesonolontanissime,distantianniluce, e i bagliori che assumono ai nostri occhi sono scorretti,perchéquiarrivasoltantounaproiezione, unaimmaginealteratadellarealtàchecrediamodi vivere in un tempo differente. La mia vita ha una durataperfettamentestabilita,chemascheraimiei cambiamenti e mi illude di immortalità. Mi fa innamorare di una persona e della sua anima prendendosi gioco di me, mettendomi in contatto conl’universo. CiaoLin restò sul ponte tutta la notte, farneticando sul senso della vita e di un amore interrotto. Mentre la marcia della Oriental Sun proseguì monotona, senza intoppi, con latitudine costante, a nord del parallelo equatoriale. Fino al porto di Colombo, importante e popolosa città dello Sri Lanka, piccolo Stato insulare appendice dell’India, al cospetto del quale il cargo giunse sornione e silente.

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Ecco, disse CiaoLin ai turisti sopraggiunti prima dello sbarco, questoèilgiardinod’Oriente,il“portocon frondosi alberi di mango” da cui parte acciaio e caucciù,nelqualesifaconceriaeoliodicocco,si smerciano bevande afrodisiache e pietre preziose comelozaffiroblu,ilgioiellochetuttibramanoper mostrared’essereReoRegina.

Intornoallabaiatrovereteilquartierecommercialee quelloindigeno,Pettah.Piùasudilrionedilussoea nord,moltoanord,glisterminatiquartieripoveri. Qualsiasi cosa cerchiate, a Pettah c’è sicuramente qualchebazaringradodisoddisfarvi. Ognistradahalasuaspecialità.Unbagnodifollain cuiinserirsiirragionevolmente. ...Estatemoltoattentiallezanzare.

Poteteandare,vimostreròlaprincipessaDianaela suagemmadatrentamilionidisterlinequandosarà il momento delle dive. Dimenticavo, pranzerete a terra,smarrititralebancarelleelevarietàdigenti che questo posto scontra. E mi raccomando, non fatevi ingannare da intrugli misteriosi o pastiglie vivificanti e rimedi medici a buon mercato, qui si spacciadituttoperpochispiccioli.

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IlComandantevifasaperecheilrientroèprevisto perle22.00.Salpiamoall’alba,nhh,nhh,nhh! Salutò il gruppo con un accenno di risata dal suono cupo, tipica di chi conosce bene un posto che spetta ad altri esplorare, e si apprestò a dirigere le solite operazioni di ormeggio alla banchina prenotata. Al rientro tardivo, intorno alla mezzanotte, i turisti fecero passerella davanti a CiaoLin descrivendo un’accozzaglia di stili e banali architetture moderne, una terra dai mille volti e ataviche tradizioni e culture mescolate tra strisce pedonali e gas di scarico, un guazzabuglio di colori e credenze religiose ostentate in cattedrali o moschee, costruzioni a mosaico zeppe di libri moderni e antichi manoscritti. Una matassa di itinerari da cardare a piacimento. Un’aiuola coloniale contemporanea a ridosso della cinta di lungomare in patina glam, design d’alta moda e charme orientale. Avevodimenticatodidirvidellagofrequentatodai pellicani, sbottò CiaoLin sogghignando, e di stare attenti ai leoni e alle tigri imbambolate negli ingressi a vetrina degli alberghi, potrebbero ruggire.

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La partenza da quel porto di mare avvenne in sordina e col personale al minimo per questioni scaramantiche correlate a CiaoLin, vittima qualche anno addietro di un brutto incidente capitatogli proprio durante il medesimo ormeggio.

Pensaidipoterdrizzareunacimainsolitudine, iniziò a raccontare CiaLin all’orecchio di un giovane mozzo inesperto che lo stava aiutando, mamirimaselagambaincastratanell’avvolgimento. Diedi un gemito che credo abbiano percepito dall’aldilà.

Nonerailmiomomento,midisseilmedicomentre cucival’interocollodelpiede. Guarda,c’èunapiastradititaniosaldataeavvitata alleossa. Èunmiracolo,cheioabbiacontinuatoacamminare. Credochequelchirurgoavesseragione,nonerala mia ora, anche se io avrei lasciato questo mondo schifososenzaesitare. Sì, perché quando la vita ti toglie un pezzo essenzialedite,comeunamoglieoaddiritturaun figlio,muoriprimadimorire.

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Dal ponte di comando le solite frasi recitate dal Comandante sul luogo di partenza e su quello di destinazione, il porto di Aden, 4000 chilometri da percorrere alla velocità massima di 15 nodi. Cinque giorni e mezzo di viaggio previsti. Ma stavolta la meta più desiderata erano le Isole Maldive, rinomato elisio atteso a poche ore di navigazione. Durante la mattinata, i turisti, con ancora indosso profumi di India, e interiormente gli sconvolgimenti di un paese magico, fecero uno spuntino sulla terrazza della palazzina, al caldo piacevole gustato tra sdraio e poltroncine. Una scorpacciata di durian, lo strano frutto a forma di grossa pigna con dentro due polmoni gialli al gusto di vaniglia e mandorla imbevuti di puzzolente crema di formaggio e salsa di cipolla, un nutriente bizzoso che più si mangia e meno si è disposti a smettere. E più l’abbuffata si perpetuava e più si scommetteva sulla statura sempreverde e sull’età della pianta di provenienza: 20 metri, cinquant’anni, cento anni e 30 metri, 40 metri e duecento anni sorretti da ferree radici e una

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chioma da albero di Natale contenente, a primavera, grappoli di fiori sfilati color giallo fulgido. Da quell’attico privilegiato, quel novero di ospiti ebbe la fortuna di assistere a un cortometraggio entusiasmante. Trenta minuti di spettacolo proiettato su carta stagnola liquida, un tappeto d’argento spiegato verso le Maldive, l’atteso paradiso terrestre che si materializzava a sprazzi. Quelle sono isole che compaiono e scompaiono giocandoconlemareeeconlelorosagome, disse CiaoLin introducendo il sonoro nel film, equelliche vedete sguazzare a branchi sono tonni che si divertonoassiemeagliavannotti,predeambiteda marmaglie di gabbiani kamikaze, gli uccelli a cui piace schernire gli aerei internazionali in fase di atterraggio. Quiunavoltasivivevagrazieaglialberidelpanee smerciandoconchiglieecocco,mentreoggisifanno accordiconaltriStatiperspremerecolturismo.Ma questononèilperiodomiglioreperfarevacanze, tranne che per voi. Potrebbe sopravvenire il maltempo e trasformare in un batter d’occhio il

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biancoaccecantedellasabbiainombrosomarrone, e tramutare l’azzurro folgorante del mare in blu cobalto, il colore preferito da squali martello e barracuda.Ilventopotrebbesoffiaretalmenteforte da agitare oceani e innescare vulcani sottomarini seppellendo intere lagune e trucidando barriere coralline.Sequestaèlavostraideadiparadiso,beh, siete già accomodati sul luogo ideale per una immersioneindimenticabile.

Perduta l’ultima vista dell’ultima isola, e dileguatosi l’ultimo gabbiano dell’ultimo stormo, il ragazzo dai capelli lisci, sin dall’imbarco conquistato dal fascino seducente di CiaoLin, gli si avvicinò esprimendo il desiderio di visitare le zone precluse. Così andarono per le scale, percorse in una miriade di domande e sguardi affini, fino a raggiungere il tratto di ponte proibito e l’orlo delle stive. Sorvegliando i boccaporti, domandò cosa ci fosse lì dentro di tanto prezioso da muovere un colosso così grande per un tragitto così lungo.

Quidentroc’èSlurry.Tanti,tantissimislurrysucuiè basatal’apparenteevoluzionedelgenereumano.

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Un progresso fatto di riflettori accesi su un luogo chenonneavrebbebisogno,unbenesserefattodi superfluitàedesteriorità,dominatodacorseeazioni frenetiche, imbrigliato da nozioni su nozioni e ragionamentisuragionamenti.

Fermatiaguardaregliesseriumani,ditantointanto, ècomeseportasseroaddossoletraccedelviaggio interstellarecompiutoperarrivarefinqui.

Guarda attentamente i neonati e ti sembreranno cloniextraterrestriprodottiinserie,poi,coltempo,li vedraiacquisireuncomportamentoconformatoalla razza,einfinelirivedraidiventarevecchitornandoa somigliarsi,comedovesseroprepararsiatornarealla galassiadiappartenenza.

Chissàseungiornorammenteraiquestemieparole, questi nostri sguardi penetranti l’orizzonte, questi pensieririvoltiall’immensità.Eseincertimomenti riusciraiaguardartidentro,perlustrando,scavando, ricercandoquellocherealmentesei.

Chissàsedomanisaraiuncostruttorediamiciziee sesaraicapacediamareunadonna,unaesoltanto una, perché l’amore è così. Se mai ti sentirai collegatoaglialtriconunfilosottileeinvisibile,una

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lenzatenacedanonspezzaremaipernonrestare intrappolatonellasolitudine.

Forsetalvoltatisentiraiunalberoounpetalo,una gocciadirugiadaounfilamentodicirro,oppureuna meteorasenzascoponépercorsoassegnato. Adessoèoradirientrare,iniziaafarfresco,maporta con tequestotramontoluminosochesi spegnerà nell’acqua,epoiportatilanotteel’albadidomanie ilsuonuovotramonto,eun’altranottefinoallafine deltempospettanteagliuominiinquestaprigione stupefacente.

Il giovane mosse giocosamente le pupille verso l’alto ed esclamò la curiosità sui piccoli aerei che ininterrottamente perlustravano i cieli. Impaurito, fece domande in sequenza su quanti ne potessero arrivare ancora e se trasportassero bombe, se fossero amici o nemici, se potessero precipitare. CiaoLin sapeva perfettamente di quei modellini e accennò un sorriso seguito da una spiegazione rassicurante. Sta’tranquillo,stavoltanonèlaguerra,sonodroni dipattugliamentoingaggiatidaforzeinternazionali

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per monitorare il mare che bagna le terre del petrolio e dei diamanti. Da queste parti tutte le imbarcazioni, anche le bagnarole, sono sotto la sorveglianza di telecamere che memorizzano financheivoltidellepersoneabordo,noicompresi. Vieni con me nella sala comando, ché se siamo fortunatiascolteremoilresocontodelletrasmittenti.

Appresero che era stato scongiurato un pericoloso attacco pirata partito dalla Somalia, un peschereccio fittizio sventolante una bandiera azzurra con la stella bianca al centro. Come quella portata sul petto dagli sceriffi, disse CiaoLin al ragazzo incuriosito, il quale, mosso da ingenua intraprendenza, avrebbe voluto cliccare pulsanti e roteare manopole imitando un videogame. Si soffermò poi sulle rilevazioni dell’ecoscandaglio accorgendosi che la profondità del mare stava progressivamente riducendosi. Dai 2000 metri ai 1800, ai 1500, 1250 e infine 980, un chilometro di spessore liquido sotto una chiglia di lastre in ghisa. Sarebbero state le ore di navigazione sopra le vette della dorsale oceanica medio-indiana, la sequenza

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di catene montuose sottomarine che avrebbe consegnato la nave al golfo di Aden, il mare d’ingresso traAfrica e Medio Oriente. Rilevata la profondità desiderata, combinata alla latitudine nord di 23° e 26’, CiaoLin sarebbe accorso dal Comandante a farsi accordare il permesso di routine per una escursione molto speciale. Con l’aiuto dell’apprendista, radunò repentinamente i turisti invitandoli a seguirlo nello stomaco della nave, la sala macchine, una galleria di larghi cunicoli ad alta temperatura, l’uno nell’altro, in cui si camminava come all’interno di un sommergibile, seguendo le passerelle metalliche infilate tra le tubazioni di svariato spessore. Condusse i visitatori dove avrebbero guardato la chiglia dal di dentro, un collage di curvi rettangoli ferrosi bullonati e saldati scrupolosamente tra loro. Invitò il macchinista ad abbassare al minimo i motori, riducendo il rumore a un rombo, e recitò a voce fina. Ascoltate…Ascoltate.Èlui.Cistaabbracciando. Lofaognivoltagiuntialpuntopreciso,metàstrada perfettatral’EquatoreeilTropicodelCancro.

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…Ilmomentodelcontatto.

Hagliocchigrandiquantolavostratesta,eisuoi tentacoli sono tronchi animati. La sua corazza è liscia,scivolosa,disegnatacolviola,elasuacodaè piattaelarga.Saràilnostrorimorchiatoredifiducia sino all’arcipelago di Socotra, dove gli alberi sono ciclopiciombrelliconlaresinachiamatasanguedi drago. Avvertite la sua presenza, ascoltatene il battito tambureggiante,irregolare…iolochiamo“l’essere”. Luièquipernoi.Peraccompagnarcidolcemente. Lasciateviabbrancare…Percepite.Chiudetegliocchi e state tranquilli, ci scorterà fino a 300 chilometri dallespiagge.

Furono minuti indimenticabili per tutti, un tempo lento in cui perdersi con la suggestione, lasciare andare i pensieri sublimi rilasciando le conseguenti emozioni. L’incredibile elastico teso da CiaoLin si ritrasse improvvisamente quando il macchinista dovette riattivare i motori d’improvviso alla profondità di 500 metri, momento in cui si descrisse il distacco della misteriosa creatura, che con serici colpi di tentacoli

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sarebbe ridiscesa nel suo abisso. La nave, superata l’isola di Socotra, avrebbe tracciato il golfo di Aden giungendo presso l’omonimo ultimo porto oceanico. Dal ponte di comando le consuete frasi recitate dal Comandante sulla successiva città di destinazione, Porto Said, 2500 chilometri da percorrere a due velocità: 12 nodi nel Mar Rosso e 9 nodi nel Canale di Suez. Sei giorni di navigazione previsti. Il porto di Aden era un rifugio navale ricavato alle pendici del vulcano spento, nella cui bocca dimorava una città commerciale disordinata e trascurata, da visitare svogliati in poche ore della sera. L’equipaggio avrebbe spedito a terra un emissario per comprare sigarette e liquori a buon mercato, mentre gli altri avrebbero assolto ai compiti della sosta tecnica, necessaria a caricare carburante e viveri. CiaoLin e il Comandante avrebbero disquisito sulle differenze tra una montagna e un vulcano, tra l’oceano che avrebbero presto lasciato e il mare che li attendeva, tra un’isola e una penisola, tra il salire del sole e il suo declino, che principiava sopra il

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cratere. Avrebbero anche pianificato l’escursione ai turisti presso “il luogo dell’incanto”, come amavano definirlo ridendoci su. Come previsto, “dal porto d’Aden si parton le navi” alle prime ore del mattino, quando all’ingresso non v’è traffico e le gru sono in disuso, orientate verso le bitte. La Oriental Sun salpò alle ore 5.00, e dopo qualche ora si infilò nello stretto di Bab el Mendeb, “la porta del lamento funebre” che li avrebbe introdotti nel Mar Rosso, spaccatura tra il continente nero e la penisola arabica. Sul ponte gremito, durante il passaggio nell’imbocco, CiaoLin imparò dal suo studioso apprendista, che raccontava delle origini dell’uomo moderno e della prima grande migrazione africana avvenuta da quelle parti un milione di anni prima, quando scimmie evolute cominciarono a popolare altre terre. ll Comandante, invece, si defilò flemmaticamente verso la prua, sciorinando cultura marittima nel preannunciare le Isole Hanish alla viaggiatrice piacente di mezza età, ammaliandola con racconti di

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impavidi cacciatori di orche che si imbellettano con le pinne o le mettono in mostra sulle rocce grigie per scongiurare orde esotiche. Ravvicinatosi alla donna le riferì confidenzialmente dell’escursione a sorpresa prevista all’imbrunire, quando la calura d’agosto avrebbe lasciato spazio alla tenue frescura. Al tramonto, mentre il cargo fendeva il Mar Rosso alla velocità costante di 12 nodi, in groppa al Tropico del Cancro si avvistarono in lontananza le sagome brillanti delle Isole Farasan, il Santuario Marino dimora di squali-balena, mante, tartarughe cerchiate e altre strane creature mitologiche. Tutti gli ospiti imbarcati e l’equipaggio al completo potettero gustare quel paesaggio fiabesco, mentre il sole tendeva celermente a nascondersi spalancando la penombra. Quando la donna chiese al suo Comandante il motivo del nome “luogo dell’incanto”, CiaoLin accorse verso la poppa della nave, si affacciò alla ringhiera in compagnia del codazzo al suo seguito e improvvisò il solito copione.

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Sentite l’odore della nostalgia, del ricordo, quel profumoseccoepolverosodifiorimortisparsidal vento.

Lasciatevitrascinaredall’immaginazione. Oraguardateversosinistra,guardate!

Vedetequelleombreinlontananza? Sonoloro.Sonoloro! Vengonoversodinoi...

Trovate un punto saldo a cui aggrapparvi e non innervositevi,restatecalmiepermettetecheilloro cantopenetrinellavostramenteeaccarezziivostri pensieripiùintimi.

Il finto cinese sembrò amplificare la sua stazza affacciandosi verso il mare aperto, estrasse un’armonica dalla tasca interna del giubbino e volgendosi a una caterva di ombre nuotatrici inventò una musica sconclusionata, innescando un balletto marino inimitabile.

Tra timori e stupore, piacere e tensione, fantasia e realtà, ogni passeggero scorse in ogni creatura una sirena, una diva preferita che gli cantava dei suoi desideri estratti dal proprio passato, così come CiaoLin inneggiò al canto strepitoso di Maria Callas,

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alle bellezze travolgenti di Sofia Loren e Ava Gardner, al fascino coinvolgente di Lady Diana, alla sensualità volteggiante di Marilyn, alla raffinatezza di Greta Garbo e ad altre donne divine che non smetteranno mai di vivere continuando a nuotare nella vastità delle emozioni regalate. Concluse la carrellata rivelando il nome della sirena più autentica, la vera “Signora del mare”, Miriam, una femmina di dugongo, coccolona e infantile, morta cucciola con la plastica appiccicata allo stomaco. Quando la squadra di animali interruppe la sua danza per tornarsene al nascondiglio tra le mangrovie del Sinai, lacrime e sorrisi pervasero le lamiere, innescando una surreale atmosfera mistica, in cui l’anima di ognuno si sentì autorizzata a fare ciò che sentiva.

Durante la cena furono elargite mance generose agli inservienti, si bevve brindando alla salute di qualsiasi cosa e con ogni rima, poi si scattarono foto notturne ai riflessi dell’acqua marina, si inviarono messaggi inconsueti a familiari e amici, si parlò e si scherzò

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spontaneamente fino a notte fonda trasgredendo le regole più intolleranti. La donna si concesse ai piaceri corporei gridati nella cabina del Comandante, mentre CiaoLin, ancora esausto per la performance, si sedette sul ponte ad ascoltare l’interrogatorio del giovane apprendista sull’origine della luna guardata, sulla distanza delle stelle che puntinavano l’oscurità. Nei giorni a seguire, come concordato, i due rispettarono un appuntamento fisso nel dopo cena, disquisendo sugli argomenti del cielo. Soloperraggiungerelalunacivorrebberodueanni dinavigazionecontinua.Leigirainstancabileattorno a noi, mostrando sempre la stessa faccia. Noi possiamovederlaquandocistadifronteeilsolela illumina,facendolaapparirespicchioodisco.Ruota susèstessaognigiorno,eintornoalsuopianetain unmese.Insiemegiriamoattornoalsoleinunanno, viaggiandoallavelocitàdi100milachilometriorari. Tuttociòchepossiamovedereguardandoilcieloè grazieallalucedellestelle,direttaoriflessa,checi arrivainunattimoodopoduemilionidianniluce, quanto dista la galassia di Andromeda, quell’uovo

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frittoaspiralechepotraiscrutareseaguzzilavista. Ognistellaèunapalladifuocochebrucia,mentrei pianetisonolesuescheggesfuggiteall’origine. Guardando verso quel vuoto profondo e infinito, noterai il grande squarcio che è la Via Lattea, la galassia che ci contiene insieme a 200 miliardi di stelle. Potrai così immaginare la grandezza di un universocompostoda300miliardidigalassie. Mac’èunastrospecialenelcosmo,semprevisibile da adesso in poi, la Stella Polare, la bussola dei naviganti, la punta della costellazione dell’Orsa Minore.Masiccomevedochenonmicredi,epensi chequellochedicosiaassurdo,staseraticondurrò dovehoimparatotuttoquestograzieall’uomoche trent’annifasepperaccogliermidaterracomeuno stracciofradiciodisofferenzaemalinconia. A una condizione, però. Non farmi più domande perchénonsapreicosarispondere. CiaoLin condusse il palpitante accompagnatore nella parte più alta della nave, l’osservatorio, un ampio salone trasparente con accesso consentito solo al Comandante e ai sottoposti di sua fiducia.

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Da lì, gli occhi del giovane moltiplicarono la loro visuale, riproponendogli quanto osservato a occhio nudo e tanto dell’immaginato.

Vedi,caroragazzo,ilcosmohacapitotutto. Bisognaruotaresulpropriopernoeintornoaglialtri. E,insieme,girareintornoaunsole.

Credo che il destino degli uomini sia quello di trovarsi una buona stella intorno a cui ruotare, lasciandosiilluminarequantobasta.

Mia moglie emanava una luce straordinaria, abbagliante,eioeroilsuounicopianeta.

Quando si spegne una stella,muore tuttociò che orbitaattornoaessa.Daallorasonodiventatouna cometa impazzita alla ricerca di una gravità, forse della grande forza intorno a cui orbitano tutte le galassie.

Chi può conoscere la grandezza dell’universo e quanticielidistelleesistonoocisonostatiocene saranno?Èsufficienteguardareilcielocheabbiamo davanti ai nostri occhi, per comprendere di non doversiimbrigliareauninizioeaunafine. Probabilmentenoipossiamosoltantocercarequello checièconsentitodisapere,maavvertiamo,nella

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nostra natura, come una possibilità di scoprire il creatore, possediamo l’indole dell’esploratore nomade,continuamenteallaricercadiunqualcosa chenontroverà. Iocredochesecicontentassimosemplicementedi gustarci questo pianeta miracoloso in cui viviamo, salvaguardandolo e difendendolo dai nostri stessi attacchi, saremmo felici come coloro che si soddisfanodelnecessario,escludendoilsuperfluo. Bastapoco,pervivere,bastapocopermorireeforse bastapocoancheperrinascere.

Ma come possiamo fare a non distruggere questo pianeta, fu l’unica domanda che il giovane non seppe trattenere. Perrisolvereunagravequestione,vannoapplicate soluzionidrastiche. Èimpossibile,pernoiumani,accettarediesserenoi stessilacausadelproblema,enonlenostreazioni. Noinonabbiamodasalvarealcunpianeta,alpianeta nonglienefreganientedinoi,noidobbiamosalvare noi stessi, questo bisogna comprendere. Capito questo, e considerato che i nostri comportamenti non cambieranno mai, come la storia dimostra, si

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puòfaresolounacosa,estinguercisenzasofferenza. Programmare una riduzione progressiva della popolazionefinoatornareaessereeco-sostenibili. Ripristinarel’annozero. Aproposito,poniiltuoocchiosuquelcannocchiale puntatoapruaeavvisterailemontagnedelSinai, che lambiremo domani pomeriggio entrando nel GolfodiSuez. L’indomani, percorrendo quel placido tratto di mare, nella consueta adunata sul ponte fu reclamata la presenza del prete di bordo, domandando anche dove fosse la tana dei dugonghi tra le mangrovie. CiaoLin indicò vagamente un fiumiciattolo con la vegetazione sommersa dalla marea e nominò un anziano esemplare vecchio settantacinque anni, a capo di una comunità di sopravvissuti. Il Comandante intervenne in maniera sbrigativa annunciando che faceva lui stesso le funzioni del prete. Poi dovette articolare una spiegazione al turista che chiedeva se proprio quelle furono le acque aperte da Mosè, col bastone di Dio, per salvare il popolo ebreo dalla furia degli egiziani.

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Rispose sostenendo che un Dio, sia esso d’Oriente o sia esso d’Occidente, non potrebbe sterminare un popolo per salvarne un altro, e non dovrebbe avere la necessità di manifestarsi a un solo uomo e di scrivergli leggi, non dovrebbe pretendere l’esclusività a scapito di altre fedi e non dovrebbe, in alcun modo, prevaricare gli altri. Raccontò infine di quando ramazzava la stessa nave passeggeri su cui aveva fatto transito un famoso ometto smagrito con una capretta al guinzaglio che gli faceva latte da bere, e di quando chiese un autografo al musicista italiano che cantò “se ci fosse un uomo”.

Da buon sostituto prete, accennò anche dei pensieri religiosi e filosofici cinesi e indiani, non mancando di elogiare tribù australiane, africane e americane. Pescò poi a pagina 87 del piccolo manuale tenuto in un tascone: “nel mangiare, nel dormire e nel compiere altre funzioni fisiche, l’uomo non è diverso dall’animale; quello che lo distingue è lo sforzo incessante di elevarsi sul piano morale. Mentre professiamo di seguire la via più elevata, di fatto la nostra condotta ci smentisce sovente”.

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Quindi asserì che se proprio un Dio dovesse decidere di fare qualcosa, potrebbe mettere su una bilancia il cuore di ogni defunto durante il passaggio nell’aldilà e, pesando precisamente, giudicare di conseguenza. Concluse sentenziando che “tutte le religioni sono nel vero e che ognuna è imperfetta e insufficiente, in quanto interpretazione particolare di poveri intelletti e miseri cuori umani”. In ultimo, indirizzò un cenno d’approvazione a CiaoLin per la visita notturna al suo osservatorio, invitandolo tacitamente a seguirlo nel suo ufficio per la compilazione delle scartoffie da mostrare al presidio doganale di Suez, il noioso controllo rituale ai documenti di Slurry, adempimento necessario a immettersi nel Canale. Ma la notte prima di quel transito la Oriental Sun dovette riportare i motori al minimo per affrontare l’insidiosa tempesta di sabbia proveniente da oriente, un’intemperia che nei bassi fondali può causare pericolosissimi incagliamenti. Il comandante diffuse l’ordine tassativo di non uscire dalle cabine e di non aprire gli oblò per alcun motivo,

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mise in preallarme il personale della sala comando, obbligato a intervenire soltanto in caso d’emergenza o qualora la nave avesse perso la rotta.

Per fortuna le ore successive trascorsero innocue, senza danni, finché l’alba non smorzò il vento e le preoccupazioni, conciliando una breve dormita. Dalle postazioni si riaprirono i finestrini, si tirò un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo e si sdrammatizzò con frasi scherzose sull’ipotesi di avvertire profumi di dromedari e lana di bukhara. Il Comandante aggiunse che avrebbero setacciato frammenti di lapislazzuli spalando la sabbia che soverchiava le stive, e che in cambusa sarebbero apparse scorte di gustosa manna trasportata dal vento. Di primo mattino, il cargo, ancora ricoperto come una duna di riporto, sottopassò El-Qantara, l’alto Ponte di Suez poggiato sull’Africa e sull’Asia, e iniziò la tranquilla sfilata unendosi alla carovana di imbarcazioni marcianti alla velocità fissa di 9 nodi. La Oriental Sun seguì la fila, tra panorami alternati di pianure e falesie, villaggi e città coloniali d’Egitto, traguardando o incrociando natanti d’ogni tipo: dagli

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yacht alle petroliere, dalle barche a vela ai mezzi da guerra. Tutti precisamente annodati, in ogni miglio, a una fune immaginaria tesa tra i due capi. Un muto carillon con allacciati innumerabili cammelli che percorrevano una grondaia di 200 chilometri. Un giochino che avrebbe condotto direttamente nella pancia di Port Said, covo di etnie che i turisti avrebbero visitato in tarda sera. L’ultima città e l’ultimo porto di sosta prima del rush finale. Dal ponte di comando le ultime frasi recitate dal Comandante sul luogo di partenza e su quello di destinazione, il porto di Brindisi, 2000 chilometri da percorrere alla velocità media di 15 nodi. Tre giorni e mezzo di navigazione prima dello scalo finale. Camminate senza sosta e troverete giardini d’ogni forma,oltreaun’accozzagliadiarchitetture,costumi ereligioni.Manoncercatemaistorianeipostinati perconvenienzeeconomiche.

State attenti alla piena del Nilo. Rammentate che siamo nella stagione delle piogge, quindi quel vecchiaccio di fiume potrebbe inondare la città in dieciminuti,nnh,nnh,nnh!

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Ricordatevidistareattentiallezanzare,prosperein ognicittàdiportochesirispetti.

Se al rientro non riuscirete a ritrovare la nave, orientatevicoifumidell’industriaepuntatedrittial faroealsuomolosporgente.

Noiresteremosuquestipennelliinterminabiliperi rifornimentinecessari,anchedisigaridelfaraonea contrabbando.Erientrateprimadellamezzanotte.

Guardando i turisti in lontananza il Comandante maledisse le dighe, sempre utili per chi sta a monte e dannose per chi sta a valle. Poi disse a CiaoLin che i turisti non sarebbero rientrati prima dell’una, aggiungendo che squilibrare il corso della natura porta sempre disastri irreversibili.

La Oriental Sun salpò alle 5.00, l’ora in cui avrebbe evitato il problematico ingorgo di navi in attesa del transito, e dopo una decina di minuti di navigazione nelle acque miti del Mediterraneo, la goduria di un amplesso inatteso.

Setimettiacercarlesaràcome“tentareditrovarele sorgentidelNilo”,masepercasohailafortunadi incontrarle in massa, fermati e ammirale il più

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possibile,perchéanchequestoincontrononavverrà maipiù.

La traiettoria del cargo intercettò un immenso banco di meduse perlate che si aprì all’impatto con la prua, regalando come una visione di cielo visto dall’alto, con migliaia di palloncini bianchi sospesi nell’acqua azzurra.

Lo squilibrato ed emotivo turista, vittima ricorrente delle sue incertezze e della sua sensibilità, l’unico recatosi sul ponte di primo mattino, sommessamente chiese a CiaoLin quanto dolore potesse procurare una ferita urticante.

Tutte le paure sono riconducibili alla medesima paura,ospitetimoroso:quelladimorire.

Da una ferita profonda si può guarire soltanto guardandoildoloreinfaccia. Ognivitanascepersopportareunacertaquantitàdi dolori,oltrelaqualenonsipuòpiùvivere. Perquestomotivo,ogniessereumanopuòaccusare soltantoidoloripiùvicinialui,respingendoquelli altruiasalvaguardiadellapropriasopravvivenza. Tudovresticominciareafarecosì.

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Quel giorno e il seguente furono sereni e rilassanti, dominati dalla stanchezza, accentuata da torride temperature d’agosto. Il sole picchiava forte, e l’aria umida e pesante stringeva il respiro e incollava la pelle. Solo il tardo pomeriggio consentiva l’uscita per respirare usando i polmoni del mare e la fragranza delle praterie di alghe, il segno di vicinanza alla costa, quella nei pressi della più grande e ventosa isola della Grecia. ACretaqualcunohadistesopernoiunacopertadi posidonia, signori, una foresta di alberi del mare dedicataalsuodioperdarglifiori,fruttieossigeno. Un miracolo spontaneo cresciuto per formare e proteggerearenilispumeggiantidairiflessirosa. Vidicochedaquestepartisiètrasferitaunacolonia digranchiblu,sbarcatidallazavorradeimercantili perchéattrattidaicolorideiborghiantichi,nnh,nnh, nnh!…Calmapiatta,Comandante. ComeladefiniscelasuaRosadeiVenti? Il Comandante sorrise strizzando il labbro e con due parole spiegò sommariamente dei venti, di quelli che provengono dai punti cardinali e di quelli che si

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portano il nome della regione d’origine, come la Libia o la Siria. Disse delle incognite sulle ragioni che determinano la provenienza precisa e la forza di un vento, del suo perché, forse legato al dover tenere continuamente tutto in mescolanza.

Poi predisse un potente ostro che avrebbe sospinto la nave verso l’Italia.

Lungo il celere tragitto, percorso alla velocità inconsueta di 18 nodi, la Oriental Sun oltrepassò l’abisso Calypso, il crepaccio più profondo del Mediterraneo, avvicinandosi alle Isole Ionie, punto in cui l’audace Comandante, assumendosene ogni responsabilità, decise di lambire il “Fiore di Levante”, l’isola incantata di Zacinto. Consigliò ai turisti di fotografare la “Spiaggia del Relitto”, ai piedi di rocce scoscese biancastre e fitta vegetazione, un eden accessibile soltanto via mare.

Quella poesia, ammirata durante il pranzo, rievocò la storia già conosciuta delle Sirene e quella epica e misteriosa narrata dal giovane appassionato di storia. Parlò di Itaca e del suo Re Ulisse, dei suoi viaggi di conquista, della sua imbarcazione a vela tra

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gli uragani e del suo fedele e audace equipaggio, delle sue brutalità e soprusi, del povero gigante Polifemo e del suo vivere violentato dai profittatori, di gesta efferate e del Cavallo di Troia ideato per ingannare il nemico ficcandosi nel petto, dei suoi amori effimeri e duraturi, menzogneri ed enigmatici come quello della Maga Circe, che si divertiva a trasformare gli uomini in porci, o del suo sentimento sincero e solido per l’amata Penelope, la principessa che lo attese indomita e fiduciosa tessendo una tela interminabile.

Guardatecomesimuovequelgiganteafiord’acqua! Saràalmeno7metrieilmusopareunaproboscide! NonvisembraforsePolifemotrasformatoinsqualo elefanteperseguirel’ombradegliaerei?

Direichesidirigeversol’attraentecostasalentina. Non preoccupatevi, mangia solo plancton e gioca coififoni,nnh,nnh,nnh!

Più la spedizione si avvicinava a destinazione e più l’umore di CiaoLin andava trasformandosi. Come cominciasse a usare l’ironia per fronteggiare le asperità e il disprezzo per eludere il romanticismo.

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Fuoriusciva il combattimento interiore tra amore, rabbia, solitudine e nostalgia, scontro sfogato con espressioni contrastanti. Credo che adori le cozze a pinna, gli enormi molluschi ancorati al fondale con filamenti d’oro. Proliferanosoltantonelmarecristallinoepuro,che bevonofiltrandolodicontinuo.Ilcentenarioguscio dimadreperlapotrebbecontenereunuomoeuna donnarinchiusiperl’eternità,nnh,nnh,nnh! Maforsevoipreferirestequestimitiliconditiemessi in tavola per colazione, oppure trasformati in nacchereperritmifolcloristiciossessividimoda. Noicivediamodomattina,ragazzo,sulpontealle8. All’ora precisa la luce intermittente del faro di Santa Maria di Leuca si rifrangeva negli occhi marroncini di CiaoLin e del suo giovane apprendista, entrambi incollati alla balaustra a fissare la bianca torre sulla scogliera. Una volta mia moglie mi portò a visitarla, amava questo genere di escursioni. Salimmo una scala a chiocciola per duecentocinquantacinque gradini consecutivi,raggiungendolagrandelanterna.

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Da lì i nostri sguardi non incontrarono più limite, unendosi a una bellezza disarmante che faceva viaggiarelementiall’infinito.

Questo è il sogno, caro ragazzo, incontrare un angelotuttoperteericonoscerlo,fondersiconlui tenendoglilealiinefficienzapervolareassieme.

Ricorda che una rosa è sempre una rosa, anche quandosfiorisce. Adesso ti devo lasciare, oggi c’è luna nuova e la tramontananonsifasentiredaunbelpo’,quindi attraversare il famigerato Canale d’Otranto può nascondere insidie pericolose. Le correnti non rispettanomail’orologioenonsiinteressanodelle dimensioni delle navi, bisogna solo accelerare progressivamentepersentirlemeno,eprenderlenel versogiusto.

Per fortuna la temuta borea non arrivò e la navecargo Oriental Sun, ancora sospinta dal tenue scirocco, finalmente indirizzò la prua verso il traguardo, Brindisi, dove Slurry, completata la seconda tappa del suo viaggio, sarebbe stato accolto con tutte le cure dedicate.

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Aquest’oradifineagostoilsolecuoceleuova. Nonfateviingannaredallalucerossaintermittente messaincima,quelceroda200metrinonèunfaro disegnalazionemaunaciminierabardatadirosso sangue che continua ad avvelenare i polli nel gallinaio,prigionieriinuncampodiconcentramento senza recinzioni o segnalazioni, sacrificati a fuoco lentofacendolisoffriresenzacheseneaccorgano.

Una volta esistevano laghi di sale, e a ridosso si coltivavano carciofeti in cui il contadino, come fu miopadre,siconfondeva.

C’era il mare limpido biancheggiante per le pietre del fondale, prima che divenisse un sepolcro per rifiuti chimici di ogni genere, il risultato di quelle torce in attività impiantate dentro una finta città composta soltanto da tubi e cisterne, e qualche ufficiodipertinenza.

Lecentraliacarbone,cosìcomeipetrolchimici,sono imonumenticheabbiamocostruitodedicandolialla nostra stolidità, rendendogli ossequio con i nostri comportamentiscriteriati,sbeffeggiandoquelloche lanaturaciharegalato.

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Lamiacittàèquesto,lacontraddizionetraindustria pesanteebellezzasmisuratadelterritorio,unluogo nel quale la parola progresso assume significati discordanti.Esattamentecomeguardareadestrae poi a sinistra scrutando panorami differenti, esiti dellamedesimarealtà.

Michiedodicosaabbiamoveramentebisogno,sedi unamodernitàirriverenteodiunastoriariscopertae valorizzata,sediazionivelocieschiveopazientie ragionevoli comportamenti. Mi chiedo se essere abitantidelmondointero,enonpiùdiunsingolo posto,vogliadirediventareabitantidelnulla,senza unlegameesenzaunaradice.Michiedosestiamo vivendo come barbari osiamosoloun’invasione di blatteaffaccendateeappesantitedazainicolmidi egoismoeargento,sesiamoallafinediunaciviltào inattesadiunanuovadaconcepire.

Michiedoilperchétentiamodisalvaguardareuna spiaggiainvececheunacosta,unalberoinveceche un bosco, una foce invece che un fiume, quando tuttoilpianetadovrebbeessereun’areaprotetta.Mi chiedoperchéaunalbergoanonimononpreferiamo unanticocastellopercontemplarlo.Guardateisuoi

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mattonirossidisoleeilsuointornodimare. Piùci avvicineremoepiùquestalungadigaviappariràtale epiùimmagineretemercantiliimbottiticonstatuedi bronzoenavivenezianeeturcheosoldatidiguardia sullemura.

Isaltideidelfinisonosempreugualiinognidove, cosìcomeletraiettorieelerisatedeigabbiani.

Esistono soltanto tre porti sicuri, si va dicendo, giugno,luglioeBrindisi, quindinulladatemere,in questo porto incantevole e paludoso, soltanto le zanzare,quelle maledette zanzare chesucchiano il sangue delle prede inermi e si nutrono avide a sazietà.Bisognerebbeschiacciarleschiaffeggiandosi lemanispietatamente,menefreghistispettatori,una perunafinoasterminarletutte.Poisipotràfareun bel brindisi alla salute come dopo una crociata davantiaunfiascodivino,nnh,nnh,nnh!

Perchilodesidera,dall’Aeroportosi puòrientrare anticipatamentenelpropriopaese.

Masappiatecheilviaggiodiritorno,compiutodalla medesimastrada,contieneinsélabellezzaunicadel poterriviverequantogiàvissuto.Sebramaterestare, trovateiltempoperesplorarelabibliotecadibordo.

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Ogniospitehal’obbligodilasciareunlibropergli altricheverrannodopodilui. E ricordate, “siamo soltanto garzoni di bottega mandatidaldroghiereperriscuotereisospesi”. La Oriental Sun attraccò alla banchina di Costa Morena affiancandosi alle gru Mazinga, che in due giorni avrebbero vuotato le stive. Lui, CiaoLin, dopo gli ultimi fugaci suggerimenti ai turisti sui tanti luoghi da visitare a Brindisi, fu il primo a scendere dalla nave strepitando dalla passerella commenti sugli abitanti del posto, gente tranquilla e placida ma incline all’inerzia. Appena sbarcato, imbracciò con ardore la sua fedele bici arrugginita, legata al paletto, e iniziò la morbida pedalata verso la città. Si sarebbe fermato al cimitero, il posto in cui non aveva mai creduto ma che era l’unico legame materiale con la moglie, poi avrebbe ottemperato al rito del bacio ai piedi alla Madonna del Terremoto nella Chiesa di San Paolo, prima di dirigersi in centro verso il suo monolocale, riagganciando i suoi due figli e le loro vicissitudini.

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Avrebbe fatto la spesa alla salsamenteria di fiducia incontrando conoscenti con i quali si sarebbe intrattenuto piacevolmente parlando dell’estate e infine, dopo una doccia calda e la cena da povero, sarebbe andato a letto presto. La notte avrebbe sognato o immaginato i suoi nipoti e i vecchi colleghi dell’azienda aeronautica che gli tenevano ancora il posto ma soprattutto, immerso nella fragranza delle lenzuola ricamate, avrebbe percepito l’illusione di un calore familiare femminile al suo fianco, che lo avrebbe scaldato fin dentro l’anima.

Le operazioni di svuotamento della Oriental Sun rispettarono i tempi previsti e Slurry, estratto dalla stiva 4 con un mastodontico aspirapolvere che ultimava il lavoro, si ritrovò a bordo di un vagone ricoperto da un telone di plastica, un contenitore apposito che avrebbe viaggiato su un nastro trasportatore lungo dodici chilometri, una ferita a cielo aperto, spessa venti metri, inflitta al terreno agricolo e ai canali, conficcata nel principio della terza tappa del viaggio.

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Slurry fu scaraventato sulla sommità della lugubre montagna, contenuta dentro un falso palazzetto, scivolando dall’alto in basso fino ad incastrarsi al suo posto nel versante.

La sua missione dovette attendere alcuni giorni, prima di compiersi, giornate in cui si udiva il ronzio ridondante degli elicotteri che sorvegliavano la zona e, soprattutto, echeggiavano frasi di sdegno e rabbia pronunciate da un giudizioso custode di Torchiarolo, un paesino distante un tiro di schioppo:

…energia elettrica per tutto il Sud… ...un carbonile coperto realizzato dopo vent’anni... …una nave al giorno per milioni e milioni di tonnellate di carbone... … cinque anni di Orimulsion bruciato per le vene dei cittadini… ..piacevolissime missioni in Indonesia e SudAmerica riservate ai politicanti in mandato... …contadini con le mani annerite e manager strapagati... ...ministri ruffiani, millantatori della cattura di anidride carbonica, disinteressati alle aziende agricole

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fallimentari, cui si propone un obolo di liquidazione... ...frama no’ s’era ma’fumatu ‘na sicaretta… ...danni ambientali quantificati con gli anni di vita persi dalla popolazione… ...rifiuti tossici per riempire cave o spianare aranceti. ...reti elettriche colabrodo… …spiagge invase da anomale sabbie che si solidificano… aironi e falchi sfrattati dalle Saline… ...denunce rabbiose dell’Ordine dei Medici… ...giovani studenti pluripremiati per esilaranti progetti di panchine solari… ...indagini epidemiologiche ignorate o ritardate banchettando dopo tagli di nastri alla presenza di giornalisti consenzienti e leccaculo, “strategicamente sensibilizzati per migliorare i rapporti col territorio interessato”… ...impegni e accordi presi in una baracca e giudici assennati che tentano di sorreggerla… ...ridicoli concerti finanziati e alberi di luce per Natale oingaggi milionari per mercenari del basket, inviati nei reparti d’ospedale ad allietare i bambini... ...misere sovvenzioni all’AIL e all’ANT…

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Un giovedì di settembre arrivò la sua ora. Pioveva, quella notte, pioveva violentemente e le gocce sbattevano sul tetto a dome come biglie di vetro che si frantumavano all’impatto. La benna di estrazione azzeccò la sua pesca e la introdusse nella grande caldaia, un braciere enorme dal fuoco smisurato, un bruciatore che disintegrava il pietrame facendone polvere sottilissima che attraversava i filtri e diventava fumo che ascende il camino e si invola mescolandosi alla pioggia. Perché fuori pioveva, pioveva incessantemente, a dirotto, e le biglie si trasformavano in una cascata fine e fitta, danzante dal cielo alla terra. Una nebbiolina acida e vasta, ricca di carbonio, un insetticida spruzzato di continuo dalla sommità dell’ombrello trasparente dilatato nel buio. Il volo di Slurry avvenne all’alba, quando quella cappa diede posto al primo sole, sfocato e timido. Spirava un leggero vento levantino verso la città, con il soffio puntato a Sant’Elia, esteso e popolato quartiere ai margini. Tante scuole e asili, verde e attrezzature sportive in quantità, strade comode e

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spaziose, ideali percorsi per il rinomato mercato rionale del giovedì, la festa dei commercianti e delle casalinghe con inizio di primo mattino. Nei corridoi di bancarelle variopinte si trovava di tutto, dalle olive alle scarpe, dalla roba usata al capo firmato, dalle piante ai bottoni, dalle trine agli stracci, dall’intimo alla bigiotteria, quella sfavillante tanto amata dalle ragazzine, ancora non impegnate con l’anno scolastico. Sarah frugava tra i banchi, curiosa e attenta, come immersa in un fondale inesplorato. Ogni tanto alzava la testa cercando il viso di sua madre, che con le sopracciglia le faceva un cenno di intesa. Dialogava con i commessi trattando sul prezzo con successo, utilizzando il suo sorriso a denti larghi e perfetti. Fu proprio in uno di quei sorrisi coinvolgenti, che avvenne l’invasione. Slurry approfittò di una folata di vento per introdursi sotto la tenda della bancarella incurvando la traiettoria e penetrò oltre le sue labbra schivandone i diamanti, si appoggiò sulla lingua e poi si intrufolò nella gola insieme a un sorso di saliva deglutita per celia.

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Si mischiò all’ossigeno necessario a un respiro e percorse gli alveoli polmonari convogliando nel sangue e nelle sue arterie principali, prese una deviazione dirigendosi di nuovo verso la testa e fino al cervello, incastonandosi in un microscopico nidus d’ingresso ai capillari, un tortuoso e dilatato gomitolo ad alta pressione.

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Trasalii alla potenza delle ultime scene immaginate, ricomparendo alcuni attimi nello spazio vuoto della mia stanza, specchiato nella consueta veduta traguardata dalla finestra. Respiravo affannosamente, gonfiando e sgonfiando la mappa di vapore formata sul vetro, su cui le lacrime segnavano solchi in verticale.

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Sarah amava leggere le favole. Alla fine della terza elementare, conclusa a voti pieni, scelse il suo primo libricino da leggere per le vacanze. Sì, Sarah, il nome desiderato da mia moglie per la figlia femmina s’addiceva a ogni comportamento. Santa donna, mia moglie, un’eccezionale casalinga con la stessa voglia di vedermi tornare tutti i giorni dopo il lavoro, di mettere il piatto in tavola con la pietanza quotidiana, di farmi trovare il letto in ordine e profumato, con il cuscino ripiegato sullo schienale. Io facevo l’insegnante dopo una laurea in filosofia. Comprammo casa appena sposati, in una piccola palazzina della frazione “La Rosa”, un sobborgo così denominato, forse, perché tutto l’anno vi trovi piante sempreverdi e fiori. La sposai che non aveva nemmeno vent’anni e io ero alla soglia dei trenta. Ma gli amori nascono così, da giovani, quando si ha la possibilità di un percorso comune, amalgamandosi come due ingredienti che sentono di dover stare insieme a tutti i costi. È così che si superano le difficoltà e le crisi, volendo restare uniti, consapevoli e convinti che un periodo negativo

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passerà, accrescendo una luce che può essere solo temporaneamente offuscata, mai smettendo di brillare. Abbiamo avuto una vita modesta e felice, fatta di gesti semplici e piccole cose. Piccole fin quando non arrivarono i figli, che sono grandi cose.

Il primogenito è stato un bambolotto di cinque chili che denominammo da subito “omone” per la sua stazza corpulenta, il suo sguardo da adulto e le dita grandi.

Poi arrivò il secondo, una forza della natura svelatasi non appena fuori dal grembo, ma anche dentro la pancia, a dir la verità. Infine arrivò lei, la tanto sospirata femminuccia, quando oramai avevamo perso le speranze.

In gravidanza avviammo tutti i controlli di rito, considerata l’età di mia moglie, ma decidemmo di non approfondire con esami specifici. Volevamo quella bambina così come Dio avrebbe voluto inviarcela.

Il giorno del parto fu un’emozione indescrivibile. Esitavo a toccare quella bambolina dai capelli neri temendo di farle male.

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Quando la presi in braccio mi tremavano le braccia. Poi la sollevai al cielo per ringraziarlo. Quanto sono forti le donne, capaci di fare ciò che fanno senza lamentarsi mai oltremisura. Mentre noi uomini siamo lì ad aiutare illudendoci di essere i più forti. Sarah, un angelo inviatoci con l’ultima corsa disponibile. Decidemmo casualmente per la “h” nel momento della registrazione all’anagrafe. La sua crescita fu lenta e veloce allo stesso tempo. Sì, perché gustammo tutti i primi mesi e i primi anni senza perderci la magia di ogni giorno, ma furono comunque veloci, perché la felicità non puoi fermarla e nemmeno allungarla. Una donnina che abbiamo accudito come un bocciolo. Lei riempiva la casa con le sue tenerezze, con la sua dolcezza, allietava i momenti difficili con una canzoncina sussurrata, riempiva il cuore guardandoti con i suoi occhi di nocciola e sorridendo con i dentini dritti. All’asilo era stata sempre composta, ci riferivano le insegnanti, e disegnò con passione la sua famiglia, rappresentando attorno casette e sentieri.

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Disegnava spesso del mare e del suo coniglietto avuto in regalo per i sei anni, completando interi album in tempi record. L’estate amava sedersi sul bagnasciuga e costruire statuine e animaletti di sabbia. Si lasciava attraversare le gambe dal finale delle onde, schiuma che tentava di bere domandando sempre il perché col sale non si può. Mosse i primi passi proprio tentando di scalciare il mare per paura dei granchi. Quando iniziò le elementari sapeva quasi scrivere e accennava la lettura di intere frasi. Le righe dei suoi quaderni erano perfettamente riempite, e con uno stile di scrittura tutto suo. Faceva i compiti con precisione e puntualità, e man mano le sue valutazioni divennero sempre più soddisfacenti, fino ad arrivare alla pagella esaltante della quarta elementare. “Desiderosa di sapere, ha continuato a distinguersi per le grandi capacità di memorizzazione e interiorizzazione dei concetti affrontati, chiedendo di poterli ampliare e approfondire.Ha prodotto elaborati corretti, dimostrando valide doti di sintesi, di logica e

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di collegamento fra le varie conoscenze. Si è rivolta alle insegnanti sempre con grande rispetto e fiducia. Ben voluta dai compagni per le attività libere, ha saputo relazionarsi positivamente e coordinare i lavori di gruppo. Ha conseguito ottimi livelli di competenza nelle diverse aree disciplinari”.

Quando lessi il giudizio non riuscivo a tenere fermo il foglio, che si bagnò con le mie lacrime. Aveva una mania per le scarpe, gli orecchini, gli anelli, e passava ore e ore a cercarli nei negozi. Lo zio, fratello di mia moglie, la rimproverava col suo modo di fare un po’ burbero, ma due ore dopo l’avrebbe sommersa di confezioni regalo fattegli consegnare dalla nonna, sempre a disposizione dei nipotini. Mio figlio, il medio, prendeva in braccio sua sorella come un fuscello per dimostrarle il suo senso di protezione, mentre il grande le parlava pacato comprendendola istintivamente.

A Sarah i primi denti durarono fino a dieci anni e, una volta caduti, quelli nuovi furono grossi e bianchi come il latte che beveva insaziabile.

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Aveva un rapporto particolare con mio fratello, lo zio preferito, con cui scherzava in maniera confidenziale e ironica. Con lui faceva interminabili nuotate oppure giri in barca imparando a remare. Mi raccontò di aver visto una grande tartaruga ferita che vagava nel porto e averla soccorsa semplicemente liberandola da un bustone di spazzatura. Un’altra volta mi raccontarono di una nuotata che li aveva condotti a un prato di fiori bianchi spuntati nel fondo marino e un’altra volta ancora di aver portato a spasso, sul bagnasciuga, un grosso tronco tirandolo coi brandelli di una rete da pesca. C’era una cosa di cui non riferivano mai nulla, ma io li vedevo trasportare pietre di varie misure con la forma degli animali o l’aspetto di scenari futuristici. Trovai in garage una collezione tenuta segreta, sistemata meticolosamente sugli scaffali come per farne una mostra.

Quando Sarah accettava l’invito a dormire da mio fratello, sua moglie le preparava da dormire per terra su piumoni e lenzuola aggrovigliate, una ragnatela in cui lei amava sentirsi un ragnetto.

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Con le sorelle di mia moglie, invece, adorava sedersi ai tavolini dei bar, chiacchierando in compagnia di un gelatone variegato. Dava confidenza solo a chi le era simpatico, mentre per gli altri vi erano solo falsi sorrisi a muso strinto e discorsi di circostanza.

Alle scuole medie Sarah ebbe uno sviluppo fisico incontrollato, raggiungendo sua madre in altezza e cominciando a relazionarsi come fosse un’amica. Camminava a piedi larghi e correva farraginosa. Divenne un’adolescente adorabile e si circondò di amichette che le ruotavano attorno come comari. Una di queste la portava spesso con la sua famiglia sul gommone, esperienza che Sarah paragonava al decollo.

All’esame di terza media presentò due tesine, la prima sulla raccolta differenziata all’epoca di Federico II di Svevia e sul Protocollo di Kyoto, la seconda riguardante i canti popolari della Puglia. Stupì i professori intonando una pizzica, variando tra toni acuti e bassi come fosse una cantante di professione. Quel giorno tornò a casa con un forte mal di testa e quando si alzò da tavola dopo il

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pranzo iniziò a sbandare smarrendo l’equilibrio, fino a rovinare sul divano, dove riposò esausta per diverse ore. Non demmo peso a quel malore, considerandolo una conseguenza della stanchezza e dell’emozione. Per le scuole superiori ci impose il Liceo Artistico, volendo coltivare attitudini e doti. Si appassionò ancor di più al pianoforte, con cui sino ad allora aveva giochicchiato, provando a suonare musica classica sperimentandone l’infusione nel rap e altri generi moderni. Il disegno restò una preferenza, specializzandosi nel creare piccoli tatuaggi da proporre alle amiche più grandi. Le piacevano anche le tinte ai capelli, accostando colori smaltati a tonalità metallizzate. Adorava la manualità e trascorreva pomeriggi interi a realizzare anelli e orecchini, intervallando il lavoro con la preparazione di “stacchiodde” e sottaceti. Ispirandosi alla mia passione per la fantascienza, inventò pendenti molto particolari che ricoprivano l’intero orecchio terminando a punta, bellissime creazioni che riscossero incredibile successo tra le

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ragazzine della sua età, divenendo uno stile. Non faceva in tempo a terminare un monile che lo aveva già promesso a qualcuna. Frequentava una palestra di ginnastica artistica, che praticava con diligenza e puntualità, e alla fine di ogni allenamento eseguiva i salti sulle molle. Un pomeriggio, quando aveva circa sedici anni, avvertimmo l’interruzione repentina di una sua improvvisata al pianoforte. Accorremmo e la trovammo priva di sensi, con la fronte sui tasti e i capelli penzolanti. La presi in braccio adagiandola sul lettino e la facemmo rinvenire cospargendole acqua fresca sulle tempie. Il suo colorito, le pupille dilatate e le difficoltà nel labiale, ci segnalarono che non si trattava di un malore trascurabile e che c’era bisogno di un approfondimento. Da lì una serie di controlli a catena e una diagnosi preoccupante di lieve occlusione alle vene del cervello. Ci dissero dell’ipotesi di una delicata operazione, che però ci sconsigliarono perché troppo rischiosa. Doveva iniziare a riguardarsi, evitando sforzi o stanchezze psico-fisiche eccessive.

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Decidemmo di dirle tutto e, ovviamente, la prima rinuncia, accettata da lei con estrema maturità, furono le gare sportive. Con una terapia semplice, e controlli semestrali, la sua vita riprese senza ulteriori privazioni. Al suo diciottesimo compleanno, festeggiato in maniera sobria in un locale affittato per l’occasione, decise di presentarci Francesco, un giovane serio e posato che lavorava in una fabbrica di plastiche dell’area industriale. Un grande lavoratore, un uomo dai modi garbati e rispettosi che la assecondava in ogni suo desiderio, permettendole questo e quello nei limiti della ragionevolezza. Addirittura, quando lei decise di frequentare il DAMS, l’università degli artisti, cercò di evitarle il treno accompagnandola sovente in ateneo con l’auto e, compatibilmente con i turni di lavoro, la aspettava per la fine della lezione.

Un ragazzo d’oro, il suo primo e unico, che l’ha amata dal primo giorno della loro vita assieme, godendo della sua giovialità e assistendola nei periodi del terribile mal di testa.

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Il giorno della laurea la nostra immensa felicità fu raddoppiata dalla notizia che Sarah decise di darci dopo la tesi: era incinta e avevano deciso di sposarsi in luglio. Già, il periodo delle piogge, nel quale sarebbero partiti per un lungo viaggio.

Staccai la faccia dalla finestra e cancellai quel triste groviglio di aliti e lacrime. Accorsi da mia moglie col timore di non trovarla e le carezzai le guance. Io e lei, insieme, cercando un senso alle nostre vite, e Francesco, nel ricordo del suo amore, avremmo cresciuto Sara, la splendida bambina dai capelli e gli occhi di castagna come sua madre.

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Postfazione

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Ho letto molti dei libri di Pierpaolo, i suoi racconti, le sue poesie, le ricostruzioni storiche e geografiche, le sue denunce. Killer City sembra contenerli tutti. Racconta di un viaggio, racconta la rotta del carbone dalla Cina all’Italia, un percorso sempre segnato da gravi violazioni dei diritti umani, dagli interessi economici delle multinazionali del settore e dalle misteriose attività di società con sedi nei vari paradisi fiscali. Ma il suo è un “retelling”, cioè un raccontare questa storia in modo diverso, rovesciandone i termini e la prospettiva, modificandone il genere con la sua scrittura. Lo definirei, sicura di non sbagliare, un genere poetico: è poetico il modo di descrivere i luoghi, le diverse tappe del viaggio, è poetica la descrizione dell’anima dei personaggi, dei loro sogni, dei loro amori, persino dei loro dolori, è con poesia che viene raccontato il loro sacrificio. E così, attraverso una lettura magica e interessante, si giunge alla fine di questo viaggio, nella nostra Brindisi, città bellissima e unica, città martoriata, epilogo e conclusione della rotta del carbone, che qui viene a compiere la sua scellerata azione. Nella descrizione che l’autore fa di Brindisi c'è tutto il suo amore per la sua città, intrecciato con la consapevolezza delle sue terribili contraddizioni: una terra, la nostra, portata al sacrificio in nome di interessi di cui nessuno di noi ha beneficiato, ma di cui tutti, in un modo o nell'altro, siamo stati

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vittima.

La crudezza del finale toglie il fiato, soprattutto perchè accompagnata dai mille dubbi che il futuro riserva a questo territorio e a chi lo abita. Ma è proprio quella crudezza a rendere evidente che è ancora e ancora la nostra terra a essere preda selezionata per future tragedie. E per noi non è ancora tempo di goderci unicamente le sue bellezze.

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Ornella

Per anni mi sono nutrito di racconti a sfondo nautico: mitiche navigazioni nei mari del Sud, ancoraggi in rade riparate o in atolli sperduti, dimenticati dal mondo. Quindi è stato un piacevole impatto, quello di un panorama evocativo di orizzonti infiniti a cavallo dell’ equatore, ma anche quello di ricordi affettuosi, di letture coinvolgenti.

Ma dietro si intradeve il killer, nascosto dentro lo stomaco del tetro colosso, nella stiva della nave: Slurry e il suo viaggio. Là, dove nasce, sono miniere abusive, pozzi profondi in cui lavorano intere comunità, gente che consuma la propria vita per sopravvivere sotto la splendida bandiera del progresso, dell’energia. Ed è paradossale pensare che la luce abbagliante di meravigliose città, come quelle incontrate durante il viaggio, nasca proprio nelle oscurità delle miniere. Là dove finisce il viaggio, dall’altro capo del pianeta, in un braciere enorme di fiamme infuriate, sotto forma di polvere sottilissima Slurry esce da una ciminiera e si riversa sul territorio circostante avvelenando aree naturali, coltivazioni, persone.

E anche in questo è paradossale pensare come un processo deleterio e mortale ha il suo risvolto “vivificante”: fabbriche (quindi lavoro), sfavillanti città (alcune con grattacieli rivestiti da stupendi giardini verticali).

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Ma si sa come ogni villa, per quanto bellissima, ha il suo scantinato. Come ogni nave, per quanto maestosa, ha la sua sentina. Così, la nostra società ha i suoi territori di serie A e serie B (a volte anche C). Un modello di sviluppo imperniato su una sorta di “razzismo ambientale”, promosso da multinazionali e avallato dal modello politico attuale. Quindi, comunità costrette ad accettare impianti altamente impattanti, inermi cittadini, che provano a ribellarsi, vittime di un modello di sviluppo cinico, utilitaristico. Una macchina che crea agnelli sacrificali, compromettendo la cultura delle relazioni, le amicizie, l’affratellamento, valori che si perdono in nome di un individualismo del “si salvi chi può”.

L’ultimo paradosso sta nel finale. Il racconto più doloroso, ma in cui emerge forte anche l’amore. Nonostante la parte più corposa e avventurosa della storia sia il viaggio del carbone e le vicende del protagonista, si chiude il libro immaginando Sarah e pensando all’amore attorno alla sua persona da parte di tutti, dei suoi genitori. Con lo stesso amore che si ha verso i figli dovremmo rapportarci a questa nostra terra.

Antonio Caforio

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La storia raccontata mi ha riportato alla mente il famoso “giro del mondo in 80 giorni”, il viaggio che un ricco personaggio londinese si impegnò a fare per una scommessa da 20.000 sterline, nel lontano 1870. All’epoca eravamo in piena “Terza Rivoluzione Industriale”, oggi siamo invece alle prese con la “Quarta”, nella quale il mondo digitale, l’intelligenza artificiale e l’ingegneria genetica stanno compenetrando la nostra esistenza, sempre più dipendente dalla cosiddetta transizione ecologica, quel periodo temporale necessario all’eliminazione dei maledetti combustibili fossili.

Già, forse Slurry sta compiendo i suoi ultimi viaggi verso Brindisi, attraverso il Canale di Suez e l’Asia meridionale, proprio come nel romanzo di Jules Verne.

Pierpaolo svela lentamente dove si vuole arrivare, e progressivamente spinge l’attenzione del lettore alla comprensione della sostanza trasportata, preziosa e silente, apparentemente innocua, per un fine tragico. Sì, drammatico come la sorte di una bambina innocente, brutalmente descritta con poche frasi nel finale. Parole amare e toccanti che mi rammentano la storia vera raccontataci anni addietro da un signore di mezza età, che sconvolse una riunione NAC in una sera d’estate.

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Il libro tiene attaccati stretti alla lettura, facile e scorrevole, stando a bordo del cargo, l’enorme nave che destina alcune cabine a turisti particolari, tenuti in riga da un casareccio nostromo imbarcatosi alla ricerca di una nuova vita dopo una grave perdita personale. Spero che Brindisi e tutte le altre killer cities trovino ancora gente affezionata al territorio e alle sue bellezze, come è stato ed è il Movimento No al Carbone. Persone capaci, con le loro azioni premeditate, di salvare il mondo.

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Donato Mancino

Caro Pierpaolo, mi hai chiesto una postfazione per questa tua opera ma, tra i miei pensieri, non ho trovato niente di meglio che questa lettera. La stretta di mano della nostra ultradecennale amicizia è simbolicamente avvenuta sotto le Colonne terminali della Via Appia, dando il via ad un incredibile viaggio insieme fatto di battaglie, sfide, (tanta) ironia, sorrisi, lacrime, delusioni, tradimenti, confidenze, famiglia, affetto, vittorie e sconfitte. Un percorso condiviso che oggi mi ha portato qui a scriverti queste quattro righe. “Killer City” è un racconto coerente con la tua ricerca di uomo tra gli uomini. Hai deciso di affrontare una delle più grandi paure (forse la più devastante) che un genitore possa provare nella sua esistenza. Lo hai fatto contestualizzando la storia rispetto alla nostra triste e quotidiana cronaca cittadina ma condendo gli eventi con la tua straordinaria e fervida immaginazione, con la tua sensibilità, con la tua unica poesia. Le peripezie di CiaoLin in giro per il mondo a bordo dell’Oriental Sun sono il giusto contrappasso avventuroso rispetto alla drammaticità del principale tema approfondito. Solchiamo con lui gli immensi mari della terra, scopriamo le gigantesche megalopoli, ci lasciamo accarezzare dalla spettacolare bellezza donataci da Madre Natura con un senso di sfida e di libertà che rendono più soave ogni visione narrata. Questo libro esce in un contesto mondiale raccapricciante per il genere umano. La pandemia da Covid 19 ancora in corso,

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l’insensata guerra per l’energia tra Russia e Ucraina, i dirompenti effetti del riscaldamento climatico sotto i nostri occhi: alluvioni, trombe d’aria improvvise, siccità di fiumi e invasi, la temperatura del Mar Mediterraneo divenuta ormai quasi tropicale. Per restare al nostro amato territorio, siamo la generazione che sta assistendo inerme alla devastazione del simbolo naturale più sacro: l’ulivo secolare. Di contro, la politica e le principali istituzioni nazionali sono impegnate in un tragico balletto retorico che nelle parole esalta termini come “Sostenibilità”, “Verde”, “Ecologia”, “Ambiente” e nei fatti supporta e caldeggia l’utilizzo delle fonti più inquinanti per la produzione di energia: “Carbone”, “Gas”, “Nucleare”. Lo scenario è davvero sconfortante. Però, caro Pierpaolo, voglio lasciarti con un messaggio di speranza. Mi rifiuto di pensare che tutto sia perduto. Guardo negli occhi profondi dei nostri figli e vedo in loro la luce della verità. Il nostro viaggio non è ancora finito e loro sono la speranza di un futuro migliore. Continuiamo a lottare insieme, superando le delusioni. Con tutta la gioia e l’entusiasmo per la Vita che dobbiamo onorare con fermezza e determinazione.

Grazie, amico mio carissimo. Continua a veleggiare!

Simone Salvemini

Brindisi, 22/08/2022

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altri racconti

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Bomba a orologeria

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Piero, architetto di mezza età, alla riunione dell’ordine professionale sentì parlare di una strana fabbrica nell’area industriale. Si vociferava avesse qualcosa di peculiare, di estremamente rischioso. Si faceva riferimento a un numero preciso: 334, come fosse la combinazione della cassaforte entro cui era rinchiusa. Prima di fare una passeggiata sul posto, Piero ritenne doveroso documentarsi. Digitare la cifra sul motore di ricerca risultò sufficiente per esplorare un mondo sconosciuto.

Legge Seveso. Un incidente disastroso, una nuvola velenosa, pecore gonfie e contaminate, bambini come punzecchiati da insetti alieni, piante disseccate, gente evacuata, abitazioni demolite e terreni rimossi. Terrore e disperazione nella bassa Brianza, un territorio presidiato per settimane impedendo a chiunque di entrarvi. Divieti di coltivazione e allevamento. Un’intera fabbrica rasa al suolo per farne un parco e un centro sportivo. In proposito, Piero interrogò il web inserendo nella

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ricerca la sua città di residenza. Comparve l’interessante “Manuale di Informazione ai cittadini per la gestione del Rischio Industriale” dal quale, facilmente, si desumevano specifici pericoli e precauzioni correlate.

“Sollecitare un maggiore livello di consapevolezza del rischio nella comunità interessata…

Il Comune deve portare a conoscenza della popolazione, che può essere colpita da un incidente rilevante, tutte le informazioni e le norme di comportamento da osservare”.

Nel documento erano elencati gli “Impianti Soggetti a Rischio di Incidente Rilevante”, tra cui l’intero Polo Petrolchimico, che Piero conosceva bene per aver sbrigato qualche pratica di condono.

La cartografia allegata indicava le zone intorno maggiormente a rischio, gli “scenari con effetto domino: zona 1 di sicuro impatto, zona 2 di danno, zona 3 di attenzione cautelare. Poolfire, flashfire, jetfire, fireball, ecc.”.

Il prontuario abbondava di leggi, anche comunitarie, e atterriva con potenziali accadimenti:

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“lesioni agli occhi e alla pelle, ustioni, causticazione degli organi, effetti vari di natura cancerogena”. Infine riportava, come una presa in giro, qualche nozione sulle tipicità naturalistiche del luogo. Una lettura non facile in tutti i sensi. Fortunatamente, o purtroppo, il rintocco del vecchio orologio riuscì a fargli dimenticare le conseguenze più terribili, e i suoi ricordi divagarono a bassa voce. Preferisco rammentare i nonni e di quando si cucinava utilizzando la vecchia bombola che si infilava nel comparto rettangolare. Erano grigio chiaro, scuro, verdone. Duravano circa un mese, poi si sostituivano con attenzione. Per farlo veniva il bombolaio col mezzo modificato, anche motorino robusto con camera ad aria avvolgente il portapacchi. Bastava stare attenti alle fughe di gas. Guarnizione nuova ogni volta e avvitatura stretta del bullone per evitare fuoriuscite di GPL: Gas da Petrolio Liquefatto. Una magia che generava la fiammella azzurra luminescente. Se gli soffiavi sopra non si spegneva mai del tutto. Un dito avvicinato inavvertitamente

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avrebbe preso fuoco in pochi attimi tipo capocchia di cerino. Anche una sola bombola andava trattata con la massima attenzione: 25 litri di gas, o chili che fossero. 25 chili. Soltanto 25 chili... Un granello di polvere da sparo, rispetto all’impianto apparso su Internet. La curiosità crebbe a dismisura, così Piero si ritrovò catapultato con l’auto lungo un vialone, scarsamente frequentato da comuni cittadini. I titoli delle vie portavano il nome di Archimede e altri geni. Ai lati una varietà di industrie. Ma la meta era un “deposito costiero” facilmente rintracciato sulle mappe. Che strano non trovarsi vicino alla costa nonostante la denominazione.

La lentezza era scandita da un rugginoso treno che gli scorreva parallelamente. Somigliava ai trenini giocattolo di una volta, fatti di vagoni bombati tutti uguali. Ne contò diciotto. Fiancheggiarono Piero impedendogli la visuale del mare, imponendone un’altra che col blu non ci azzeccava proprio.

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A un tratto il mezzo si arrestò e dalla locomotiva scese un macchinista in blue jeans vecchio stile. Nell’attesa di vedere cosa facesse, Piero ricercò parole in italiano, o comunque comprensibili, tra quelle riportate sulle targhette laterali del treno. In mezzo a simboli fosforescenti, ossido e sigle indecifrabili, non ci capì niente, tranne che dentro c’era qualcosa di delicato. Intanto il guidatore deviò il pomello per indirizzare la marcia lungo i binari che tagliavano la strada spaccandola di traverso, immobilizzando ogni mezzo con un tacito diritto di precedenza.

Da un muro di calcestruzzo si spalancò un cancello che pareva non esserci, localizzando un varco che inghiottì quelle grosse pillole coricate sulla strada ferrata. In appena due minuti. Dentro, un concentramento di vagoni parcheggiati che Piero ebbe appena il tempo di sbirciare durante il richiudersi automatico dello sbarramento. Il piazzale antistante restò una sequenza di camion che, composti, avrebbero formato un altro treno in sosta.

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L’invadente architetto, nonostante nessun cartello gli confermasse le intuizioni e le preoccupazioni, ebbe il presentimento di essere arrivato a destinazione.

Il portatile gli rivelò che, nel recente passato, Viareggio aveva tremato e pianto per lo scoppio di un vagone cisterna deragliato, contenente GPL, assassinando una dozzina di abitanti, travolti dalle fiamme in un susseguirsi di esplosioni a “effetto domino”, definite dal Sindaco “scena apocalittica”. Terrificato, Piero proseguì svoltando a destra, concedendosi una panoramica più ampia. Avvistò quattro scompagnate e gigantesche capsule a cupola ancorate a terra come molari, oggetti che anche un fotografo inesperto sarebbe riuscito a impressionare da lontano.

Lì davanti, finalmente il cartello tanto atteso. Il bianco nel verde smeraldo riportava il nome dell’Azienda.

Naturalmente, per motivi di pericolosità è vietato fumare, e per questioni di riservatezza è consigliabile non fare fotografie.

La visione gli rapì lo sguardo ipnotizzandolo. E, di più, spaventandolo.

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Al cospetto di quelle enormi cisterne di ferro a forma di globo, Piero si sentì una rondella.

I boccioni si alimentavano con una cannuccia e si controllavano con scalette conformate. Parevano bombe a mano cresciute a dismisura per un’errata iniezione ormonale. Gli si gelò il sangue. Ma se non è successo niente sinora non può mica capitare proprio adesso, no?

Al terzo assordante sibilo, in venti minuti appena, volse lo sguardo al cielo perché un aereo di linea lo adombrò. Meglio correr via... Svoltò ancora e rivide identici cartelli e muri di recinzione. Poi, sull’asfalto, tracce di altri binari verso altri cancelli. Si stoppò ancora e scrutò una specie di collina con l’erbetta, da cui spuntavano tubazioni e valvole. Non intravide possibilità di crescita per gli alberi, sopra quel colle con accesso da passerelle monoposto.

Notando infine tele-occhi dappertutto, si allontanò, convinto che avrebbero registrato la permanenza dello spione. Meglio tornarmene a casa tranquillo, starsene sereni

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sotto il proprio tetto, fin che regge...

Ma cosa avrà visto precisamente l’architetto?

Cosa c’era lì sotto e lì dentro?

Cosa contenevano quei palloncioni e quei camion, quel treno? Che valvole girava l’incaricato?

Perché tutte quelle telecamere puntate e tanta attenzione e controllo? Per quante centinaia di migliaia di volte bisognerebbe moltiplicare quel granello di polvere da sparo di 25 chili per equivalere quell’ordigno esplosivo di gas Propano?

Chissà cosa c’era da spartire col cracking del vicino Polo Chimico?

I nomi d’azienda e l’ubicazione riaprirono scenari sul monitor del PC. E dalla schiera dei link disponibili Piero apprese di procedure in quantità.

Lesse attentamente la Valutazione di Impatto Ambientale e varie Concessioni di aree demaniali succulenti. Localizzò moli-pennello dipinti male e, tra questi, lo specifico per navi gasiere: molo 7, in cui presunse scaricassero o caricassero attraverso un gasdotto, interrato lungo tutto il tragitto chilometrico percorso in auto.

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Fu colpito dalla notizia che nel 1989, in Siberia, l’esplosione di gas Propano liquido, fuoriuscito da un oleodotto, provocò vittime anche tra i bambini.

Le sue idee, allora, si rischiararono come quando, dopo un temporale senza fulmini, fortunatamente vien fuori il sole. Comprese così di non aver visto una cosa da poco, in quell’oretta dedicata. Ma guarda un po’ se uno deve finir sempre per andare a spulciare scartoffie prodotte da chi, senza il minimo intoppo, fattura decine di milioni di euro l’anno e conosce svariati santi in paradiso.

Gli venne da intonare una canzoncina benaugurante ad ogni abitante, la cantilena che comincia con tanti auguri a te, che ti ritrovi l’ennesima candelina di compleanno, assommata alle altre, posata su una imponente torta bunkerizzata. Un dolce prelibato preparato dagli svariati Enti competenti, i quali, da cinquant’anni, degustano al momento. Professionisti che progettano città a sé stanti, colossali affair nazionali in cui sono coinvolti i Ministeri riuniti in Conferenze di Servizi, riunioni abilitate a rigurgitare permessi mettendosi le dita in gola, firmando

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autorizzazioni alla costruzione ed esercizio insieme, infischiandosene altamente delle disperate grida locali di autotutela.

Atti Unici del peggior teatro di marionette, con copioni da rispettare e basta, che si esibiscono occultando il manovratore.

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fortuna, orgoglio e morte

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Uscii a fare due passi. Albeggiava. L’aria di quella frescura estiva che provoca un brivido di piacevole freddo sulla nuca.

Fa luce presto, in questa stagione. Un flash che immortala lo splendore d’ogni quotidiano arricchendo le figurine che lo assembleranno. Alcuni secondi e all’azzurro del cielo m’abbaglio anch’io. Un passo segue l’altro in continua sequenza. Di quel ritmo colgo il sonoro. Cadenze simili ma diverse. Le strade sono libere. Passano i camion dell’immondizia, a quest’ora, prelevando i contenitori con un artiglio. Scuotere per svuotare dai rifiuti ripristinando la funzione. Una pulizia di maniera da farsi ogni giorno, necessaria per non ritrovarsi talmente sporchi da farsi schifo. Pensavo ai miei bidoni, ricolmi di sacchetti di rabbia, ipocrisia, menzogna, indolenza, cinismo, e stoltezza presente in ognuno. Che bella tinta hanno le facciate dei palazzi del centro storico. Anche il bianco delle “case minime” di una volta, sbirciando dalle finestrelle, si barda

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unendosi ai resti delle coperture a cannizzu.

Stanze che paiono rivivere frugando nel tempo, ritoccandolo. Anche lei, la pietra al naturale, si imbelletta. Talvolta abbasso la testa sul nero pece delle chianche laviche, dorso di vecchio asino che non raglia più da decenni. Assuefatto al servizio, non sa più arrabbiarsi, preferisce zittire e riposare, dominato da chi lo aggioga e costringe alla riverenza. Mi sento un filo di cotone a doppia mandata che si infila nell’imbocco dei vicoli trasformandoli in crune d’aghi. Appena il tempo di passarci dentro e sei già fuori a esplorare uno squarcio inaspettato che si apre nuovo per te.

Qualche dozzina di passi appena e giungo alla visuale, ispezionata come fossi la punta di un compasso perfetto ruotato da dita premurose. I miei occhi mutano in sguardo da cannocchiale e puntano e passano attraverso lo sventolio della bandiera tricolore, il disegno nel pavimento con le colonne romane e la testa del cervo, le quinte che inquadrano la piazza, i sedili di pietra a sfilza, una

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fontana monumentale con l’acqua che sgorga sciogliendo nomi e luoghi scolpitigli addosso. Santi da calendario, in quella cascata, vedo a migliaia. Tronchi mozzati portati via dalla corrente. Alberi. Tanti. A sembianza di soldati schierati. Quindici, diciotto, una grande chiesa che accoglie. D’un tratto la volontà mi smuove, arrestando la fetta di fantasia che si stava imponendo. I pensieri decelerano come avessero timore di gustare qualcosa, o semplicemente per non osar disturbar gli uccelli che hanno il mare per dimora. L’immenso spiazzo è durato mezz’ora. Ora sono al fermo-ventre, con le cosce incollate al carparo grezzo, e il cervello riprende la corsa. Mi affaccio all’inimitabile terrazza vista mare, ferma lì per osservare la meraviglia di un seno penzolante a ponente, adornato di schifarieddi sistemati in fila nelle sponde. Guardando quel panorama mozzafiato, trafitto dalle traiettorie dei gabbiani, mi incanto, liberandomi. Rivedo ogni amante la città, con le braccia poggiate sul muro che para il petto, intento a sventagliare

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ricordi lanciati come ami da una canna o a stare seduto di fianco sul marmo verdone, ove ancora, dando vita alle venature, le giovani coppie si innamorano. Abili volatori, quegli aerei bianchi ultraleggeri, slanciati da esili ginocchia, mollano gli ormeggi. Trainano un cavallo cieco che rimembra gloriose parole: fortuna, orgoglio e morte. Sorti scompigliate che s’avvicendano implacabili nelle città di mare, la cui storia rispecchia fedele la salute del proprio porto, esattamente come in quello, triste, che sto ammirando bloccando lo sguardo sul “Villaggio dei Pescatori”. Quel cavallo grigio e chiaro, usando la vivacità degli uccelli di cui si compone, balza indietro nel percorso, trottando verso una strana linea d’ombra su cui, in bilico, ci si barcamena vivendo. E mi sento vivo, vivace, contento, ritrovato al tempo in cui le genti facevano valigie per le Indie e per trent’anni la ventura di un luogo straordinario fu felicemente segnata da traffici sani e navi strapiene di persone, che giungevano da parti sperdute di

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mondo iniettando ricchezze e culture.

Terminata la lunga galoppata di fortuna, io, animale, divenni bestia che violenta agnelli indifesi e paurosi mettendoli al muro per puntargli contro la ferraglia assassina. Un tempo amaro e sanguinoso in cui l’orgoglio esasperava all’impazzire e spietatamente riusciva a prevalere sulla ragione, imponendo con ferocia, a fratelli, la superiorità di una razza inferiore perché capace di condurre all’odio e allo sterminio, azzerando la bellezza della varietà delle pelli.

Scrollate le aquile aggrappate a forza sulla schiena, scappando via da quel putiferio insensato e da quella marmaglia criminale organizzata, sguinzagliai uno stallone che galoppa fascinosi tragitti di pianura sotto il cielo sereno. Un itinerario conducente a tetri scenari industriali, disgustosi e selvaggi, conseguenti alla corsa sconsiderata e frenetica. Un’immagine pregna di dolore. Un prodigio della creazione obbligato a essere inguardabile come l’agonia alla soglia della morte, a cui ricollego quella malinconica cartolina col timone di pietra innalzato verso il trionfo.

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Niente e nessuno morirà mai completamente, e ogni pancia di donna conterrà comunque un neonato puledro che vorrà alzarsi in piedi e andare a briglia sciolta, correndo animosamente verso una nuova realtà senza memoria, verso un futuro da raggiungere con la consapevolezza di chi ha imparato a volare e scorda tutto per ricominciare, riprendendo da capo come si principia una bella giornata, la mia. Mi volto e ogni cosa cambia, il rumore zittisce il silenzio. Sono cambiato anch’io, come il colore delle nuvole, come l’intensità del vento, come i riflessi.

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gli schiavi di Tecnova

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La Società ti può rendere schiavo o libero. Può dare lavoro spremendo individui o costruire persone che avranno la possibilità di guadagnarsi da vivere con dignità. All’imbrunire, davanti alla sua casa in condominio, passano continuamente gli immigrati in bicicletta, i neri, per l’esattezza, suggerendo alla mente di Marco un vecchio film con le scimmie al potere. Muovendosi più lentamente si è portati a riflettere, ascoltare. Si è indotti a percepire il mondo che ci circonda, andando oltre le apparenze. Certe volte è come lanciare una sonda dentro, puntare un telescopio nell’interiorità, esplorare la dimensione in cui non si è padroni di niente, in cui non esiste l’affanno, la smania, la rincorsa, il delirio. Talvolta è come restare impalati emulando un lampione di strada, immaginando un’esistenza in cui fare e pensare abbiano la medesima importanza. Se l’uomo restasse davanti alla finestra meditando un’azione, prima di compierla, non appiccherebbe incendi nella vita di chi cerca di starsene tranquillo in un’esistenza decente, lontana dall’ingiustizia.

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Se tenesse le braccia conserte non avvertirebbe la puzza di sudore perché manca il deodorante. Se abitasse al piano terra non si sentirebbe superiore a una specie che non ha avuto la possibilità del benessere.

Se ogni tanto l’uomo si sentisse un cane non si illuderebbe di poter essere padrone di un posto soltanto perché ha avuto la sorte di abitarlo nascendovi. Fissando quel via vai, Marco si chiese quali diritti in più avesse rispetto a quelle sagome al tramonto, perché pretendere privilegi di cittadinanza senza mai adempiere ad alcun dovere civile. E se i comportamenti giusti fossero quelli degli intrusi, che al tardo pomeriggio interpretano film già visti intromettendosi nella mia agiatezza?

Ormai si distinguono, passeggiano per le vie, fanno le consegne, chiedono l’elemosina, chinano la schiena nei filari per dodici ore consecutive confondendosi con le lucertole al sole. Non posso sparargli con la fionda, affondargli i barconi di cartone, ricacciarli indietro rispedendoli nell’inferno

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da cui provengono. Non posso perché quegli inferi sono anche il mio mondo, quello che a fuoco lento mi sta bruciando da lontano. Specchiandosi nel vetro gli parve che la civiltà stesse ricominciando capovolgendosi, già, proprio come in un “pianeta delle scimmie” che scorre con la pellicola all’indietro. Fuoco contro gli stranieri, contro quegli animali bizzarri da cui discendiamo, fuoco contro chi non ha poteri ed è costretto a fuggire dalla terra natia, fuoco contro chi, pochi decenni addietro, popolava le miniere del Belgio in cambio di carbone o, ancor prima, le strade degli Stati Uniti d’America bramandone il sogno. Fuoco contro chi andava a cercar fortuna nella incontaminata Australia o nell’austera Germania. Uomo contro uomo, da sempre, simile contro simile, gorilla contro scimmia o scimmie contro gorilla che si ostinano a vestirsi da dominatori terrorizzando nei mari o schiavizzando nelle campagne. Non si è scimmie perché si cammina lasciando penzolare le braccia, e non si è gorilla perché si sbattono i pugni sul petto.

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Non si è uomo perché si galoppa su un cavallo o s’adopera un fucile. Non si è dominatore perché si impone una gogna allo straniero. Si è animali quando si trattano gli altri, da animali. Si è uomini quando si dona almeno un indumento, quando si regala un sorriso sincero e una manciata di denari che allevino la povertà. E si è altrettanto uomini quando si usa la bici arrugginita, quando ci si siede su una panchina danneggiata o quando si fanno lunghe passeggiate tranquille. Si è uomini quando si rispetta qualsiasi umile lavoro esercitato per campare. E si è altrettanto donne quando si è costrette a essere buie lucciole vessate, vittime incapaci di far risplendere di dignità il loro corpo marrone, disperso tra sentieri cupi, vicoli chiusi e terreno infangato. Marco uscì sul balcone e si accorse che in ogni tonalità di pelle si distinguevano occhi bianchi, che si somigliavano per l’umido che contenevano. Rientrò in casa e impugnò un coltello da cucina senza timore né crudeltà, immaginando che la presa potesse toccare prima all’una e poi all’altra specie.

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Teorizzò che presto gli occidentali avrebbero riconsegnato vizi e vanità, pigrizia e arroganza, presunzione e stoltezza, sperpero e abuso.

Rivide la fine del vecchio film e gli stessi errori, gli stessi abomini commessi nella lugubre notte.

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Il cane nero

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L’atavico cane nero è rigorosamente nero. E dalla bocca è capace di sputare fuoco all’indietro. Nel suo girovagare, stavolta ha trovato l’ospitalità settembrina che trova la cozza maleodorante di porto. Nelle sale di un convento, per l’esattezza, dove le suore facevano scuola. Il proprietario attuale, l’ospitante, è il Comune, fedele patrocinante degli eventi connessi alle passeggiate del mostriciattolo. Lo scopo di certe mostre è sempre la diffusione della conoscenza del soggetto organizzatore/espositore attraverso la sua storia e le sue opere. Tante, davvero tante. Come corposa è la vita dell’animale. E così, spazio alle foto dei pionieri, dei gruppi che camminano altezzosi per la liberazione d’Italia, dell’infanzia del fondatore, ai gadget da tavolo e da pantaloni, alle colonnine distributrici. Spazio a libri, diari, brogliacci, marchi di auto d’epoca, alle autorità di Stato e Clero sottobraccio, a turbanti e dromedari d’Oriente. Spazio a frammenti di neve e ghiaccio transalpino, di deserti e oasi africane, di oceani e montagne ai confini del mondo, in cui nessuno amerebbe vivere.

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Le materie prime si assommano sempre con unico denominatore il danaro.

Il “miracolo economico italiano”, l’ambizione che ci ha portato nel globo collegandoci alla cintura di un girotondo a maglia larga. Tante sale, ognuna con la sua tele visione, il suo giacimento, la piattaforma, il tragitto, il pozzo, il polo. Tutto collegato da enormi navi che fanno la spola tra un golfo e un mare, tra uno stretto e un canale, tra una dorsale e l’altra del pianeta, suturato da infrastrutture interrate o sottomarine.

Lavoratori di qualsivoglia origine e in qualunque condizione. Dalle immagini in bianco e nero a quelle in cinemascope. Tutto, accuratamente scelto per una nobile presentazione. Un animale veramente grosso, si deduce. L’orgoglio dello Stato e della mitica multinazionale, partecipata con mano pubblica, leader nel mondo. Profonde molto rispetto, la pelliccia. Buffet in pompa magna, signorine gentili e disponibili, figuri eleganti con vestiti firmati e scarpe lustrate, educazione, perbenismo.

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Buongiorno! Si accomodi prego! Gradisce qualcosa da bere? Non si preoccupi, venga! Può lasciare un commento al terminale, se vuole! Avanti, prego, faccia come se fosse a casa sua. Mi colpirono queste ultime parole: faccia come se fosse a casa sua. E mi chiesi se fossi io, che mi trovo nella mia terra, l’ospite, o lo fossero altri che se ne sono impossessati.

Origliando, scoprii che sono state organizzate visite guidate all’interno delle fabbriche. La nostra formula è l’incontro! La nostra materia prima dà forma ai vostri desideri! Non riuscii a trovare compagnia per bere qualcosa. Con chi avrei potuto? Allora decisi di lasciare il mio commento. Questo posto non è per me, sono tutti pesci fuor d’acqua. Io dalle apparenze non mi faccio ingannare, dall’esibizione delle vetrine addobbate non mi lascio ammaliare, dalla mezza autenticità non mi lascio affascinare. Non mi farò tentare dalla mercanzia truccata che un rivenditore di fumi espone nel negozio. E poi perché scelgono sempre i luoghi occupati, con tanti liberi che ce ne sono?

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Quel che vidi fu sufficiente per capire: un bel volume di storia pubblicato per la Storia, una fetta di realtà spolverata di zucchero a velo. Uscendo, turbato, pensai alla vita di un uomo sano che ha piantato, in un terreno inquinato, la radice di un albero che stava seccando. Uno di quegli uomini che alla fine di una guerra cammina e fa camminare gli altri con orgoglio alternativo e libertà sensata. Certe volte ci vogliono i conflitti per far riemergere le menti valide. Passata la burrasca tutto si acquieta, le barche vanno dove devono andare, la bussola torna a funzionare e la rotta è semplice da individuare. Poi il mare si increspa ancora, le correnti aumentano, si formano i cavalloni. Un aereo precipita e uccide l’obiettivo col suo striminzito equipaggio. Ricorrenti drammi nazionali che lasciano dubbi fondati. Tragicamente, per congetture avverse, spesso si concludono premature le vite degne di rispetto unanime. Mi si impose il ricordo di un altro uomo straordinario, Pasolini.

Solo il suo ricordo mi scombussola le idee. Simboli italiani assassinati atrocemente. Misteri.

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Pensai alla nostra società, allo Stato, alla politica, alle banche, ai politici fedigrafi per professione, alle mosse a inganno, alle mani pulite, al capitalismo, alla maxitangente, a sottosuoli ricchissimi, alle gole raschiate dai respiri, alle tette e alle ovaie appestate, alle mutazioni genetiche, ai villaggi dei veleni, ai consorzi che intrecciano superpotenze. E tutto, nel cervello, si mescolò e confuse imbrogliandosi in diciture di somiglianti società, che costruiscono città di ferro.

Dov’è la mostra, scusi? Dove si mangia? Un gruppo di passanti lo domandò insistentemente. Non risposi. I miei sensi erano scollegati. Tutto mi appariva strano, sognante, fantasioso, annebbiato, fittamente fumoso. Nero, alto, denso. Vidi. Vidi tanti veleni nel cielo spuntati fuori da una vecchia marmitta gigante che contamina l’aria, la terra, il sangue, le meningi. Non riuscivo a comprenderne la ragione, il movente. Non so, non so perché accade tutto questo. E forse nemmeno mi interessa. Già, in verità non me ne frega niente della causa, non mi riguardano i nomi

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cangianti che si avvicendano ruotando attorno allo stesso centro effervescente. Non mi interessano i loro intrecci. Non mi importa di essere così piccolo da poter venire schiacciato da un carro armato senza che nessuno se ne accorga.

Mi interessano gli sconvolgenti resoconti delle caratterizzazioni dei terreni e delle falde, le analisi di rischio sito specifico per l’esposizione dei lavoratori, gli impianti sotto sequestro, i processi e le autorizzazioni provvisorie all’esercizio, i piani di emergenza esterna, di evacuazione.

Mi interessano rifiuti e fanghi tossici smaltiti come tizzoni nell’inceneritore di diritto pubblico. Mi interessano le morti bianche e le famiglie in attesa di giustizia.

Mi interessa un vecchio fiume e quando mio zio mi portava a fare la virmara, li purpi e li cauri pilusi. Mi interessa un parco nel quale, molto vicino, piccoli alunni innocenti vanno in gita con la scuola. Per questo, dal bluffatore non mi feci ingannare con uno spritz e quattro stuzzichini relegandomi intontito dietro una cancellata.

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Il paese senza vita

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Scavai nei ricordi con immenso piacere, ritrovando quelle splendide giornate in cui si andava a funghi raccogliendo castagne. Il giorno pareva allungato. Sfido, sveglia alle quattro. Ma, oltre questo, le giornate sembravano colme di gustosa intensità, di un sapore prolungato. Vien da pensare che quelle sono le ore per cui viviamo, ricordate come fossero più piene e vere, come se realmente entrassero nella scatola del vivere. La collina, gli alberi, le foglie per terra, la fontanella col rubinetto, il sentiero che segue il selciato che segue l’asfalto. Risuona nelle mie orecchie una musica sinfonica, quasi evocando il luogo che con mia moglie andiamo a visitare, un violino che concilia un riposo rimandato al pomeriggio. Guido rilassato. Sì, in questi tragitti d’altura anche la monotonia dell’auto svanisce, lasciando posto alla curiosità e al dialogo, e ti senti come adagiato su un’amaca che ondeggia, ondeggia a ogni curva intorno ai colli, grandi ombre che si intravedono nel dormiveglia dell’alba, quando la prima luce crea i colori e modella i contorni.

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Scendiamo per proseguire a piedi lungo il selciato, anch’esso sinuoso e districato tra arbusti e tronchi di querce secolari. Ci conduce più in alto fino a un intermezzo, una piana dove hanno realizzato un centinaio di mini appartamenti con vista, ironizza mia moglie avvistando i loculi del cimitero del paese. Sono tutti piccoli condomini a tinte tenui, continua, cinque piani al massimo e nessun balcone. Una vista fantastica sulle vallate ricoperte di foschia. Un quartiere senza vita ma dotato di illuminazione, acqua potabile e un parcheggio arrangiato, occupato soltanto da una vecchia campagnola verde militare. Un uomo e una donna siedono sui sedili posteriori con la schiena ricurva. Ci avviciniamo lenti chiedendo informazioni su come raggiungere l’eremo ricercato. La donna solleva il capo continuando ad allacciarsi le scarpe da trekking, ci guarda di sfuggita e proseguendo i preparativi si offre per accompagnarci non appena pronti. Ci dicono di essere scalatori per diletto e che da vent’anni, dopo la morte del figlio, seppellito al terzo piano, ogni fine settimana si

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recano sul posto dell’accaduto alla ricerca di nuovi sentieri da esplorare. Aspettiamo pochi minuti riflettendo su quel dramma, poi ci incamminiamo dietro di loro, lungo i resti della vecchia mulattiera. Lui è un uomo dalla faccia buona e i modi educati, premuroso nel dispensare suggerimenti e aneddoti raccontati a bassa voce. Lei è taciturna, misteriosa, tiene la testa della fila indiana scandendo i riposi. Dopo circa un quarto d’ora di arrampicata giungiamo al bivio preannunciato. La fantasia svolta a destra, scombinando d’un tratto la fila. Ci ritroviamo a tu per tu con la coppia. Lei sferra uno sguardo intimidatorio fulminante e lui estrae dalla tasca un coltello da boscaiolo. Gli salto addosso senza esitare, lo sbatto sulla scarpata laterale sfilandogli di mano l’arma e quando lui mi afferra la gola gli agguanto di prepotenza il giubbotto scaraventandolo di sotto. Le urla si esauriscono in pochi secondi, sommate a quelle di lei, che decide di raggiungere il marito tuffandosi nel burrone.

La realtà svolta a sinistra, imboccando il tratto che ci condurrà all’eremo.

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Salutiamo quella coppia gentile, piena di delicatezze nei nostri confronti, ringraziando più volte per la compagnia e per la guida. Infine, durante la breve passeggiata di rientro, cerchiamo i nostri sguardi, immaginando, ognuno a proprio modo, cosa possa significare la perdita prematura di un figlio, e la vita che deve continuare senza di lui trovando un’alternativa al suicidio.

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Il Santo

(contenuto nell’Antologia “Venti Variabili” - Les Flaneurs Ed.,2019)

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Eccolo. È arrivato finalmente. Appena in tempo. Sempre in sella alla sua bici riciclata. Non tanto vecchia, in fondo. Una mountain viola, riconoscibile da un personalissimo portapacchi posteriore in rete metallica verde. Sembra un contenitore per conigli che tentano di uscire dal cilindro. L’abbigliamento, al solito, inconfondibile: pantaloncino corto da calcio anni ‘70 e zoccolatura Dr. Sholl’s, gommata nuova da lui stesso. Magliettina sbracciata slabbrata, forse interna, quella che capita, obbligatoriamente con le cuciture in fuori. Niente orologi o altri oggetti superflui. La regola è nessun fastidio. Ma cosa si è messo in testa, stasera? D’accordo, la sua testa è sempre apparsa come un pianeta lontano ma, ma quel disco cavo sfocato un po’ sollevato dalla chierica… ricorda gli anelli di Saturno. Che strano però, emana una luce sottile. E molto intensa. Non l’avevo mai visto così. Eppure lo conosco da una vita. Mi ha cresciuto anche lui, praticamente. Mi rivolgo a uno spettatore in attesa del teatrino:

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Ehi tu! Ehi! Lo vedi quello lì?

Quello un po’ strano, lì davanti. Sì, sì, quello con la bicicletta parcheggiata proprio sotto il palco! La vedi quella specie di aureola sul cocuzzolo?

Mi risponde con voce nasale deformata: Eh magari stai vedendo un Santo! Pensa allo spettacolo, va’! E sta’ fermo con le mani addosso!

Replico incredulo:

Ma come, non lo vedi? Non vedi quello che vedo io? Stizzito, il mingherlino con pustole dappertutto mi invita nervosamente a star zitto e a lasciarlo in pace, dandomi del cretino. Mi scuso con lui rasserenandolo. Per tutto il finire della sera vidi quel figuro pelato, a braccetto con la sua bici, così, con l’aspetto di un uomo venuto dalle nuvole. Quell’anello velato sulla testa aveva soppiantato i boccoli a visiera che da giovane gli avevano riempito la fronte colorandolo di castano. Il mattino dopo lo rividi inalterato. In tutto. Aureola compresa. E così nelle settimane successive, e per tutto il periodo a seguire.

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Sì, era un Santo, non mi potevo sbagliare. Per me era un Santo. O almeno io lo consideravo tale. Un autentico angelo. E già, a pensarci, gli angeli, o santi che siano, sono quegli esseri capaci di fare ciò che quasi nessuno fa, usare l’amore. Eppure la sua vita pare una sventura, un tormento, un’angoscia, una tragedia. Ma solo per gli altri, per chi lo sta a guardare. Non per lui. Sveglia al mattino come per andare a lavorare. Scendere dal letto, infilare le ciabatte e via a fare la colazione, quella di un qualsiasi ragazzo di una volta: coppa di ceramica bianca e cucchiaio d’acciaio da affondare nel pezzo di pane del giorno prima messo a mollo nel latte.

Ci si siede. E alla fine ci si rialza. Si va al bagno: lavaggio denti, viso, ascelle e pettinata finale a quel che resta. Ci si veste. Pronti per la spesa come uno sposato. Si scendono tre gradini, poi il breve e lento tragitto d’andata. E al ritorno una sola busta portata in spalla.

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Pietanza singola, cucinata sbrigativamente con sapori e contorni antichi. Pronti per il pranzo. Piatto unico, ma completo. Servirsi delle posate, portarle alla bocca, pulire col tovagliolo. Stavolta è il bicchiere che va alla bocca per bere, e poi riscende. Acqua, ovviamente. La frutta sminuzzata non può mancare. Ci si siede, e alla fine ci si rialza. Il pomeriggio non c’è tempo di riposare. Si va di nuovo al bagno. Stavolta per il di dietro, e poi per il davanti. Da lavarli entrambi, dopo. C’è da sedersi anche lì. E c’è da rialzarsi ancora. La TV non serve, il cellulare solo per le urgenze. Dieci flessioni e una corsettina nel corridoio per rimanere in forma. Un album dei Beatles in sottofondo e un po’ di chitarra d’accompagnamento sulla voce, quando è possibile, giusto per tenersi allenati. E poi lavare, strizzare, stendere i panni. Con i panni fa un lavoro strano: li mette insieme, tre o quattro, e invece dello stendino li adagia sul tavolo, li accosta e li nastra l’un l’altro creandone uno unico. Un enorme pannolone ventiquattr’ore.

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Poi spolverare, un po’ di scopa elettrica, mettere a posto gli oggetti. Ogni volta che passa ne elimina alcuni. Lentamente, sta denudando quell’appartamento come un cadavere da portare all’obitorio in attesa dell’autopsia. Una volt’a settimana si va al bagno per la pulizia totale. Ci si sveste. Si pulisce tutto. Fino al naso, alle orecchie ed altri luoghi nascosti e intimi. Si asciugano i ciuffi dei capelli, il cambio della biancheria, le mutandine, il reggiseno, la canottiera. Infilare i pantaloni larghi, la camicetta, le calze, le scarpe, il giubbino d’inverno, il cappello di cashmere. All’imbrunire la passeggiata, inclusa la visita alla parrocchia. Si sta scomodamente seduti, guardando i burattini eseguire il movimento di rito che prevede l’alternanza con lo stare in piedi. Si rientra a casa. È l’ora di cena. Ci si siede. Pasto da umili, naturalmente. Al sabato non si rinuncia alla pizza, apparecchiando il necessario a corredo del cartone. Solita liturgia del mangiare. Si sparecchia. Ci si rialza per l’ultima volta nella giornata. Finalmente a letto. Ci si sveste, ridando forma a quei

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pigiami rigati appendendoli alle spalliere laterali.

Il meritato riposo del dormire.

C’è odore di donna, accanto a lui. Ma senza più fragranza.

Già, questa vita si svolge a quattro mani, a quattr’occhi, a quattro gambe, e chissà, forse a quattro orecchie. Certamente a due bocche da sfamare, due buchi di culo da gestire, due genitali da ripulire.

Lui è quella sedia con le ruote sotto. Lui è quel letto matrimoniale protetto ai lati. Lui è quel pannolone gigante realizzato in serie con diritti d’autore. Lui è i suoi occhi. Lui è le sue parole. Lui è il suo vivere.

È sua sorella, quelle braccia collegate alle sue mentre camminano. È sua sorella, quelle gambe fronte alle sue mentre camminano. È sua sorella, quella bocca in più. Ha il morbo di Alzheimer. Allo stadio avanzato. I denti che le restano, la schiena sferica, una mano viola, un ictus. Non ha più parole, e forse nemmeno pensieri.

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Profilo aguzzo, gambe di pietra incernierate, braccia penzolanti e ventre gonfio, ciuffetti da neonato cosparsi sul capo, pelle bianca interrotta dalle piaghe da decubito. Pare essere il custode di un vecchio campanile abbandonato, dove il tempo ha i giorni contati. E Dio la può vedere! E un giorno, un giorno Dio è riuscito a vedere anche lui! Come si dice: aiuta, che Dio ti aiuta. E Dio lo ha aiutato. Ha pensato a lui. Non è vero che Dio non esiste! Da quel momento ha cominciato a farlo inviandogli un pacco regalo. Una confezione a misura d’uomo, anzi, di donna. Un involto gigante con dentro un angelo peccatore tutto per lui. Iniziandolo. Incredulo che ci potesse essere ancora un anziano da iniziare. Quell’angelo dai fianchi larghi e dalle cosce di pane, dalle mammelle strizzate e penzolanti, dalle labbra di rossetto viola e le palpebre abbinate, dai capelli racchiusi in una coda, già ammaritato e con la pancia gonfiata e sgonfiata per due volte, tanto tempo fa. Una creatura a sembianza di ragazza, con le ali

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cresciute fino all’età dell’adolescenza e poi lasciate lì in attesa di volare. Una creatura con ancora il bisogno di un affetto vero e puro, che va a trovarlo quando può per svuotare i serbatoi in tutti i modi, come dice lui. Senza null’altro a pretendere. Per la verità, per quanto incalcolabile fosse il debito verso di lui, anche il Diavolo gli ha spedito i suoi pacchi regalo del medesimo tipo. Ma, dopo averci giocato un po’, lui ne ha sentito la puzza di fumo, preferendo il suo caro angelo. Quante cose abbiamo da imparare. Fino a imparare che non possiamo capire. Ma continuare comunque a voler imparare. E a chiederci cosa sia un santo, cosa sia un angelo, cosa sia un uomo. Se soltanto in ciascuno ci fosse un po’ di quella vita. Fare per nostra madre quando invecchia in un ospedale esaurendo le forze. Fare per nostra zia senza doverla rinchiudere in un ospizio. Fare per nostra sorella fin che le batte il cuore. Avere un nome e cognome che non ci va di dire a nessuno perché non serve.

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Allora, senza offesa, come dice lui, per i Santi, io ti santifico nel nome di tua madre e di tua sorella. Perché solo chi ama il vivere degli altri, conosce il vivere. Perché solo chi combatte la morte degli altri, capisce la vita.

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La barchetta nel web

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Sono in mezzo a una corrente che toglie le funzioni ai remi, che guida senza render conto di dove io sia e dove stia andando con la mia piccola imbarcazione solitaria. Un comodo monoposto inaffondabile, garantito, che mi fa vagare spensierato e distaccato senza il bisogno di mettere i piedi per terra.

Mi vidi proprio così, una sera, immerso in notizie che nessun telegiornale aveva osato diffondere. Mi si svelavano notizie superficiali incuriosendomi magnificamente, rendendomi soddisfatto come uno a cui non manca niente e si sente il sintomo di una rivoluzione. Sguazzavo in deviazioni e anfratti che intercettavano facilmente la mia direzione. Che strana sensazione, tutti i giorni calare una rete immaginaria pescando facilmente informazioni, in breve tempo, che mi scagliano d’istinto contro qualcosa o qualcuno. Mi feci la convinzione che ci vorrebbe una legge mondiale per eliminare immediatamente i motori di ricerca che proteggono le caste di alcuni Paesi, specialmente orientali. Ma cos’è una Casta? Chi la compone?

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Ci sono nomi e cognomi oppure la lista è talmente lunga da non poter essere letta perché a un certo rigo mi investirebbe? È stato approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza... Repressione attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet...

… questo la dice lunga sulle alleanze trasversali del disegno liberticida della Casta.

In pratica, semmai un qualunque cittadino dovesse invitare, attraverso un blog, un profilo facebook o altro, a disobbedire o a istigare contro una legge che ritiene ingiusta, i providers dovranno bloccare tutto. L'attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro ventiquattro ore. Per i provider sono previste sanzioni pecuniarie, per i blogger il carcere. Quanto è interessante il web, internet, strumento straordinario che come tutte le invenzioni eccezionali andrebbe usato nel modo giusto per non creare confusione. Basta scoperte, per oggi, mi scollego e vado a lavarmi le mani sporche. Ma chi ho guardato in faccia ultimamente?

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Ho parlato con ologrammi o con persone?

Pirateria digitale, multimediale, pacchetti sicurezza, ma dove mi colloco io in tutto questo? Dove stanno convergendo i miei ragionamenti?

Fatela girare il più possibile per cercare di svegliare le coscienze addormentate, perché la democrazia, ammesso che esista, è un concetto vuoto, se guardato da un solo punto di vista.

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La festa degli aquiloni

(contenuto nell’Antologia “chiodi nella parete”- Les Flaneurs Ed.,2021)

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Ristetti incredulo davanti al manifesto, convinto si trattasse di uno scherzo. Una scritta a colori pastello: “la festa degli aquiloni”. Al che i pensieri decollarono attraversando un panorama di stoffe variopinte rappresentato da bambini e, non so perché, dal mio amato mare. Immaginai centinaia di famiglie entrare nei propri veicoli per recarsi nel posto prestabilito. Auto piccole, grandi, pulmini variegati, ogni gruppo organizzato a suo modo, e all’interno borsoni, zaini e contenitori d’ogni tipo e dimensione con tutta l’attrezzatura necessaria a mettere in campo il proprio aquilone. Attraverso i finestrini, scrutai un’atmosfera surreale, magica, gioviale come non si vede quasi più, nelle famiglie. Arrivai nell’area prescelta. La giornata è fantastica, il mare una lastra di metallo increspata, e gli alberi si agitano vanitosi sfoggiando le foglie. Nel parcheggio di brecciolino c’è spazio per tutti. Senza fretta, senza affanni, si trova posto facilmente. Pezzi di aquiloni ovunque e tutti sono indaffarati a montare. Asticine, supporti in ferro, teloni sforbiciati, gomitoli di spago e ogni aggeggio occorrente per il

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grande evento.

I membri della famiglia collaborano in armonia. C’è da scherzare, aiutarsi, ridere, sdrammatizzare una qualsiasi difficoltà, ma nel contempo bisogna darsi da fare, partecipare. Ciascun nucleo sarà pronto quando sarà pronto, prendendosi il tempo utile a intraprendere nel modo migliore. Non vi sono griglie di partenza, non c’è uno start, nessun fischio d’inizio, non è contemplato il giudice di gara e non è previsto alcun punteggio. A un punto certo lo sguardo si alzerà verso un cielo arlecchino e l’arcobaleno apparirà in manciate di coriandoli incollati sullo squarcio di cartoncino azzurro. Una festa di colori. Ognuno, in base alla raffica del momento, avrà deciso il lancio del proprio aquilone, che in funzione dei flussi delle correnti ondeggerà, si stabilizzerà, fluttuerà, e poi di nuovo si stabilizzerà. Si dovranno governare i colpi del vento senza permettergli di provocare cadute, si potranno seguire traiettorie, apprezzare leggerezze, e in mano si avranno le redini attraverso un filo invisibile, un contatto destinato, un giorno, a spezzarsi.

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Quell’attimo in cui non ci sarà più il governante, e vedremo la creatura volare via a perdita d’occhio verso un itinerario sconosciuto. Una settimana dopo ci sono andato sul serio, alla festa degli aquiloni. C’era il cielo, naturalmente, i bambini, il panorama era una splendida spiaggia tra una diga e il castello circondati dal mare piatto, quasi immobile. Ma purtroppo le famiglie erano solo un manipolo e quasi nessuna aveva portato l’aquilone, magari nella speranza che qualcuno li avrebbe distribuiti. E per fortuna fu così. Ognuno ricevette il proprio piccolo aquilone premontato. Bisognava solo applicargli la coda e lasciarlo alla spinta della prima brezza. Una cosa facile che fecero in molti. Già, perché il mio pareva aver deciso di non volare. No, non riusciva proprio a intercettare nemmeno un fiato di vento. Dapprima ritenni di essere io l’incapace, ma poi iniziai a ipotizzare che potesse essere un difetto di fabbrica, una questione di regolazioni. Notate le mie evidenti difficoltà, si avvicinò un uomo dall’aria esperta: Serve aiuto? Non vuole volare?

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Poi, senza che io avessi replicato, si ritrovò in mano il mio aquilone. Ci provò lui, a farlo volare, ma non ci riuscì. Meno male, mi avrebbe fatto fare la solita figura del cretino. Così cominciò a smontarlo, a regolarlo, a rettificarlo. Ero stato fortunato, mi disse di essere un tecnico aeronautico. Beh, non mi poteva capitare di meglio. Anche la moglie si mise ad aiutare. Due esperti nell’arte del volo. Discutevano anche animosamente, ma confidarono che per loro era una cosa normale. Dopo la rettifica, ancora niente, il mio aquilone non ne voleva sapere, di volare. Ma dopo una sostanziale modifica finalmente sembrò accogliere un soffio di vento e iniziò ad alzarsi a 3 metri, 5 metri, 8 metri, poi si fermò e iniziò a beccheggiare ostinato. Sembrava far segno di no col muso. Allora il tecnico aeronautico asserì seriosamente che non vi era più ombra di dubbio, il mio aquilone era difettoso e forse l’organizzatore aveva scelto me intenzionalmente.

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Tentai di governarlo ancora io stesso, ma il mio aquilone aveva proprio deciso di non aggregarsi agli altri. Dai suoi 8 metri di altezza vibrava incerto, tremolava nervoso contrastando i comandi. Dai suoi 8 metri di altezza massima raggiunta, diceva no. Mi stancò fiaccandomi la pazienza, così decisi di abbandonarlo. Cercai velocemente di legare il filo a una pietra solida ma, mentre facevo il nodo, il filo si spezzò, lasciando quell’aquilone, quel giocattolo, alla sua libertà. La libertà di cercarsi un percorso senza un comando, conscio di dovere inevitabilmente, prima o poi, precipitare.

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La rosa e il pidocchio

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Fh, fh, fh, fh, fh, fh... Continuo a spruzzare, cara Maria. Tutti i giorni. Come hai disposto tu. Non perdo la speranza di vederla rifiorire. Avevo una rosa, un giorno. Una splendida pianta di rose rosse comperata per il trentesimo compleanno della mia donna. La più grossa la chiamai mia moglie, la mezzana mio figlio grande, e la piccola mio figlio piccolo. La piantai nel mio vaso più grande, e per farla attecchire misi dentro la mia terra migliore. La fertilizzai. Ho potuto godere di quelle rose di velluto tutti i giorni. Ne ammiravo le proporzioni, il colore cangiante, l’armonia con cui stavano insieme. La loro esplosione era sublime, forte la loro presenza, teneri i loro petali. Non facevo altro che dargli acqua, semplice e banale acqua, tutti i giorni nella stessa misura. E quella pianta mi ripagava di ogni attenzione, facendomi sentire un giardiniere perfetto. Pensavo di essermi specializzato, di non avere altro da imparare. Allora cominciai a trascurarla, dando la sua crescita e il suo sviluppo per scontati, automatici,

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pensando che quella stupefacente pianta, una volta attecchita, potesse vivere da sé. È andata così, cara Maria. Fino al giorno in cui sono spuntati quei maledetti pidocchi. Spregevoli parassiti venuti dal niente. Non me ne sono accorto. E quando l’ho fatto mi sono illuso che sarebbero andati via da soli. Invece quegli schifosi hanno insistito, si sono moltiplicati, succhiando la linfa vitale. Le rose non luccicavano più, avevano smarrito la tenerezza e non potevo più ammirarle, apprezzarne la meraviglia. Sono stato un pessimo giardiniere: superficiale, distratto, disattento. Poi un giorno arrivasti tu, cara Maria. Non facesti altro che osservare le mie rose dal di fuori mentre rinsecchivano, accorgendoti dei pidocchi. Mi dicesti che quello spray anti-pidocchio li avrebbe sterminati tutti, ma nel contempo avrebbe seccato anche la pianta. Mi promettesti però che sarebbe rinata, rifiorendo l’anno successivo. Ora sono un giardiniere attento, spruzzo indefesso da diversi anni. Ho certamente sconfitto quei dannati parassiti, ma le mie rose non rifioriscono.

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Finché avrò vita aspetterò di rivederle in fiore, sia pure per perdonarmi di averle fatte seccare. Un momento! Mi è venuta un’idea!

Forse il finale può giungere inaspettato? Qualcosa di inimmaginabile potrebbe manifestarsi... Poto tutto, cara Maria, sono stanco di fare come hai detto tu, voglio fare a modo mio, lasciare solo un gambo. ...Dopo qualche mese, tutto rifiorì. Ma la cosa più incredibile fu rivedere esattamente tre rose rosse che spuntavano. Diverse, ma uguali alle precedenti. Seppure differenti, erano rose nella loro nuova bellezza.

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Moira

(contenuto nell’Antologia “però, che storie” - Il Raggio Verde Ed.,2018)

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Ore 13:00, si apre il cancello, ingresso consentito. Anche quel venerdì superai la guardiola e la sbarra d’acciaio per l’accesso al viale. Percorsi il lungo tratto di strisce pedonali che fiancheggia la pista rotonda degli elicotteri, intrapresi per l’ascensore più prossimo, il solito, chiusi gli occhi prima di guardare la pulsantiera, e pigiai a caso per il piano di destinazione. A quell’ora tutti avevano già pranzato, ed erano svegli per le visite d’occasione, un’ora sola prima degli arrivederci e del riposo pomeridiano. Avevo deciso di far visita a qualunque ammalato da quando mia moglie mi aveva lasciato. Le avevo ceduto la nostra casa felice e provvedevo al sostentamento della famiglia. Erano trascorsi quindici mesi, e anche i nostri figli, alle prese con le turbolenze dell’adolescenza, ormai mi consideravano un pazzo da internare come lei aveva sempre professato. A volte lo credevo anch’io, lo avevo creduto spesso, in passato, specialmente quando occupavo letti sconosciuti caldi d’amore, o declamavo parole non pensate, o quando ridevo a

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denti stretti di fronte allo specchio e poi scappavo a ballare nel salone dimenandomi sul tappeto, e molte, molte altre volte in cui mi ero chiesto cosa avevo fatto e perché stavo vivendo tanta estraneità. Mi sentivo un folle anche tutti i giorni a quest’ora, quando perpetuavo la quotidiana abitudine di ricercare conosciuti malati d’ospedale, alternando questa pazzia col mio lavoro di libero professionista, il circolo tennis e il restauro di oggetti antichi, biciclette comprese, passioni che mi catturavano le ore a disposizione imbrigliando le ansie. Non potevo farci nulla, la mia mente mi imponeva routine che duravano da più di un anno distogliendomi dalla malinconia, oppure trascinandomi alla ricerca di un fiato amico che potesse sussurrarmi una frase vera in risposta a discorsi di conforto recitati a memoria. Nelle corsie d’ospedale si viaggia come in un aeroporto senza aerei, per una destinazione ignota, a un certo punto si apre uno sportello d’accesso a un vano, e si entra senza poter tradurre la scritta in rosso maiuscolo. Quel giorno afoso di inizio estate, entrai nella stanza

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28B del Reparto Chirurgia, settimo piano, e mi arrestai incredulo davanti al primo letto. Riconobbi immediatamente i suoi tentacoli ricci adagiati sul guanciale, e mi immersi negli occhi scuri nascosti nel fondo di occhiaie incupite. Avvicinandomi di più mi accorsi delle spine infilzate negli avambracci per calmarle il dolore e fornirle nutrimento.

Le gocce della flebo correvano ininterrottamente, lente come una pioggia che non può bagnare. Sul comodino oggetti alla rinfusa e una pianta di gigli arancioni, animaletti adesivi per scolaretti novelli, e un libretto per scrivere le didascalie delle foto che amava fare. Una passione proveniente dalla scuola media, ove mi ricordo giungeva puntualmente munita di macchina fotografica a tracolla e piccola matita nella tasca. Moira, esclamai, ch’è successo?

Non aveva la forza nemmeno di parlare, e anelava singhiozzando frasi comprensibili a malapena. Quando mi riconobbe fu contentissima di vedermi, di rivedermi, per l’esattezza. Credo fossero più o meno cinque anni che non ci incontravamo, da quel

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periodo di alcuni mesi in cui feci la spola tra il mio paese e la città in cui lei si era trasferita per motivi di lavoro e d’amore. Sì, l’amore, la forza dirompente a cui ognuno di noi dà la propria interpretazione, attribuendogli un significato diverso a seconda di uno o dell’altro incontro, a seconda di una o di un’altra età che si sta vivendo. Ci eravamo frequentati intensamente, avevo fatto il trasfertista andando a trovarla due volte a settimana, turni a casa sua di sei ore circa, sino a tarda sera, quando smontavo perché lei doveva riprendersi la figlia parcheggiata a casa dalla nonna, addetta ai compiti e alla cena. Veniva da una sconfortante separazione maturata nei primi anni di crescita della sua bimba, una rottura concretizzatasi con la consapevolezza di non amare un uomo che non sapeva starle accanto nei momenti di bisogno. Ovviamente, io tradivo nascondendomi da entrambe, inventando scuse banali tipo corsi di formazione per ingannare mia moglie e crisi matrimoniale per convincere l’amante, una brutta fissazione perpetrata con varie donne d’occasione.

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I viaggi all’estero erano una storia a sé, un circo in cui liberavo l’animale in me sfrenandomi saltando da un trampolino all’altro della gabbia a luci rosse. E lì tutto si risolveva elargendo una mancia infilata nel bikini di pizzo, ripagando la prestazione di ghiaccio. Ho fatto il ladro fin quando non sono stato colto in flagrante, al che mia moglie, arrabbiata e delusa dalle mie menzogne e dalla mia faccia finta, mi ha gettato la fede contro, come si fa con un piatto da voler rompere e non aggiustare più. Quindici mesi fa, quando, com’ho detto, principiai a ricercare effimeri affetti esplorando nei letti d’ospedale dalle 13.00 alle 14.00 di ogni santo e sacro giorno. Da allora le mie mani non avevano più toccato un corpo di donna, nemmeno sfiorato, a dire il vero, sentendosi indegne al pari della mia persona. Ma lei, Moira, mi invitò a sedere al suo capezzale come fossi un ragazzino immaturo che ha bisogno di farsi lisciare i capelli, e fece scivolare la sua mano scarna e bianca sulla mia lunga e scura, lambendola tipo un fazzoletto di seta la base da spolverare. Tutti, prima o poi, capiamo di dover parlare a un altro

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per impedire il dolore alla sua voce, uno spasmo interiore che rimbomba anche quando si accenna una risata. Dopo una conversazione durata esattamente sessanta minuti, appresi, confrontando le parole con il referto in calce alla cartella clinica appesa ai piedi del letto, che le avevano asportato le ovaie e l’intero utero per togliere tutto il male possibile che le stava consumando la pancia, il rigonfiamento lieve e duro su cui lei posava amorosamente i polpastrelli per ammorbidire. Tornai da lei il giorno seguente, il suo quinto di ricovero, come lei mi aveva obbligato a fare salutandomi nel precedente incontro. Il miglioramento di ventiquattr’ore si notava nel suo sorriso, in cui si stagliavano i grandi denti d’avorio. Mi sedetti, col permesso già acquisito, accostandomi al comodino per parlarle sottovoce, e intanto, prima la mia mano e poi il mio sguardo, in modo oramai innaturale per me, incapparono nel suo piccolo piede, nascosto come uno scoiattolino sotto le lenzuola.

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Le chiesi scusa spostando la vista sui seni assenti, reminiscenza delle mammelle gonfie d’ardore che mi avevano ammantato il torace come una coperta di lana bollente strisciata su e giù dalla leva incardinata nel turgido anfratto. Rammentavo perfettamente quei turni interminabili d’allenamento e il sapore dei sudori mischiati come marmellate di uva. E pensare che in classe avevo ignorato il suo corteggiamento considerandola un po’ sovrappeso, inseguendo lo stupido stereotipo da modella di quegli anni seduta al banco in prima fila. Si accorse del mio sguardo assorto sul seno e interruppe i miei svaghi ad occhi aperti svelandomi che glielo avevano asportato nel precedente intervento chirurgico, poi sussurrò fiduciosa che presto glielo avrebbero ricostruito. Aveva la malattia mortale figlia del buio, cucitagli addosso dal suo destino ineluttabile, Moira, la più piccola di tre sorelle gemelle. Volle mostrarmi alcune foto che aveva scattato il giorno dopo quell’operazione. Immagini della stanza con frammenti del suo corpo immortalati qua e là,

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pezzi di braccia, di spalla, e pezzi di gambe tagliate a una strega mingherlina chinata sulla soglia del bagno. Immagini di infermiere col cappello azzurro e bianco simil carta, di altre pazienti senza denti e coi capelli ramati, con le vene sul viso e la testa rasata, con la sedia a ruote per camminare e il respiratore agganciato alla bocca. Nel mio vagare quotidiano, in tutti gli angoli di quelle foto avevo già fatto visita. Sì, perché gli ospedali non sono alberghi, sono strette corsie intrecciate come labirinti, cori di urla volgari e lamenti di cane. Gli ospedali sono luoghi in cui ogni piccolo disagio è un incubo, dove ogni individuo è una presenza singolare, e quello in uscita insegna il da farsi a quello in entrata. Sono fabbricati in cui al piano di sotto si fatica a respirare e da quello di sopra si ode il gemito di una vocina appena partorita. Gli ospedali sono luoghi in cui gli uomini scordano la meschinità e l’apparenza, e aiutano il simile a vomitare o gli asciugano il sangue col fazzoletto, o indossano un guanto di spugna per ripulirgli il culo dalla defecazione. Sono luoghi in cui la notte si

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gonfiano i cuori degli anziani e di giorno adulti e bambini tergiversano insieme tra una visita specialistica e un esame clinico, luoghi in cui i capezzoli delle donne biancheggiano liberi sotto le vestaglie chiare, esprimendo un senso d’amore che non può descriversi.

Gli ospedali sono luoghi in cui la pressione sanguigna ribollisce un corpo o ne agghiaccia un altro, luoghi in cui senti la falce della morte ghermirti il collo e staccarsi da te soltanto se ne ha voglia. Sono luoghi in cui la parola di un inserviente gentile vale più del cinismo mestierante del dottore. Sono luoghi che quando ti affacci alla finestra vedi l’autostrada con la campagna di fianco e il cielo sopra, luoghi teneri in cui offrire un cioccolatino e un fiore, o luoghi amari in cui perdere l’identità e la ragione.

Gli ospedali sono luoghi che quando esci trasformano le tue gambe in un giardino fievole e tremolante sognato all’alba.

È il senso della vita, a scaraventarti dentro, ed è il medesimo senso della vita a sospingerti fuori,

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muovendoti con il silenzio di un passo lieve che sa oltrepassare il cancello. Moira sarebbe stata dimessa all’indomani, e io, cedendo alla sua giaculatoria, sarei andato a trovarla nella palazzina grigia del quartiere di periferia con dentro incastonato l’appartamento popolare di sua madre, vedova di un marito distaccato che collezionò biglietti da concerto, impianti hi-fi e strumenti musicali vari, che non sapeva nemmeno suonare. Nella nostra esistenza si può incappare in persone, poche, capaci in breve tempo di scrivere solchi indelebili sul cuore senza volerlo, o si possono conoscere individui, tanti, incapaci di lasciar traccia dopo una vita intera. Andandomene dopo un arrivederci, percorrendo le scale in discesa mi capitò di inciampare sulle sue ginocchia rannicchiate in su e di scontrare le mie guance abbronzate con le sue pallide e scarnite, di rasserenarla con i palmi rugosi delle mie mani adagiati sulle sue guance lisce, calici di vetro avvolti per essere consolati.

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Mi ripresentai da lei per appuntamento dopo due giorni appena, volendo incontrarla all’aria aperta del cortile condominiale, uno spazio ampio con la vasca rotonda dei pesci rossi e le panchine di pietra posizionate all’ombra degli alberi da frutto. Uscì dal portone con la schiena curva e le falangi conformate al ventre. La presi sottobraccio come una pensionata al semaforo e le feci attraversare il tratto d’asfalto destinato ai pedoni. Ci accomodammo sul marmo ruvido del sedile con le spalle rivolte l’uno verso l’altra, e cominciammo a parlare smarrendo la dimensione del tempo. Disegnammo le nostre vite ripercorrendo due disastri annunciati. Mi disse che il prossimo 5 luglio, alle ore 9:00, avrebbe dovuto recarsi direttamente in reparto per una TAC specifica all’addome, con la quale i medici avrebbero verificato se nel vuoto creatogli nella pancia si fossero formate altre superfetazioni. Aggiunse che la terapia riabilitativa prevedeva una passeggiata giornaliera sempre più lunga. Oggi erano previsti cinquanta passi, ieri dieci, domani

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cento e dopodomani duecento, fino al giorno in cui ne avrebbe percorsi mille, la sua meta. Percorremmo insieme i cinquanta passi previsti, colloquiando meravigliosamente. La salutai all’imbrunire dopo che mi aveva mostrato le foto scattate al suo gatto il giorno prima, durante il completamento dei dieci passi d’allenamento. Fosse stato per me le avrei fatto visita ogni giorno divagando sugli aneddoti della scuola e sulle nostre giornate da amanti, ma temevo di importunarla, annoiarla, di essere pesante, e così mi rifeci vivo il giorno dei cinquecento passi, che lei avrebbe percorso da sola, perché voleva così, affacciandosi alla campagna adiacente il quartiere di residenza. Nel pomeriggio, all’ombra di un piccolo albero di albicocche, mi esibì una foto scattata a un rogo di sterpaglie, con il fuoco che si sparpagliava lento verso i lati senza intaccare la pineta retrostante. Mi mostrò altre vecchie foto che immortalavano cespugli circolari di capperi e pale scompagnate di fichi d’India, oltre a una decrepita casetta di campagna di sua proprietà, uno dei suoi cassetti con

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dentro il sogno di sistemarla per andarci a vivere da marzo a ottobre. Il mio regalo di quel giorno fu una minuscola piantina con la pelle di lucertola, capace di sfoggiare gemme di velluto giallo a primavera, che lei si impegnò a trapiantare nei grossi vasi fiorati curati dalla madre sul balcone.

Non le chiesi del giorno seguente, né lei mi anticipò nulla, ma so che avrebbe percorso esattamente il numero di passi necessari a raggiungere l’obiettivo prefissato, mille. E così fece, inviandomi la sera stessa le immagini.

La grande fontana sprizzava acqua coi colori dell’arcobaleno, e le gocce saltavano gioiose usando le forze del vento, che le slanciava verso i ferri azzurri e tondi che contornavano il tutto come simboli di un’atavica olimpiade. Il viale era il fresco di una dozzina di finte braccia giganti poste a tre metri d’altezza, figure che consegnavano la loro ombra al pavimento arrampicandosi sul pergolato e isolando a meraviglia la luce del sole.

Moira aveva ultimato alla perfezione la sua riabilitazione, e il 5 luglio, all’orario stabilito, qualcuno

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avrebbe letto la sentenza della sua condanna a morte, quel documento non scritto che ci accomuna tutti tenendoci con le spalle al muro, bloccati davanti al medesimo plotone d’esecuzione. Lasciai quell’amica, quell’amante, quel ricordo, quella zattera, alla sua ostinata marea, che avrebbe designato la spiaggia su cui farla approdare. Il 5 luglio della mia vita, nella triste tana da cento euro al mese che avevo in fitto, ricevetti la telefonata di mia moglie, che con voce disponibile mi rammentò del nostro anniversario di matrimonio, invitandomi a prendere un caffè nel nostro bar preferito. Che strano, non le è mai piaciuto il caffè.

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Un’allucinazione

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Che atmosfera, in quel locale. Un'aria surreale ma tangibile. Calma. Si distinguono persone. Si muovono, guardano, parlano sottovoce. Anche il proprietario è una di loro.

Un luogo ospitale, un'alcova. Una camera attraverso lo specchio. Un senso di protezione, riparo. Si prende posto in sala. Ordinati, sereni. Si resta in attesa. Lo spazio è pieno, piccolo. La luce della lampada poggiata sulla pedana di legno si diffonde per quanto deve. Lascia nella penombra una vecchia sedia d'asilo e due pilastri laterali fatti di libri gettati in opera. Sembrano avere un'armatura che li rende robusti, solidi. Come a schiacciarci più dentro in quella tana, qualcuno spinge alle spalle, ed è come se una volta entrato chiudesse lentamente il portone, tum!

Poi il rumore immaginario delle battute di una grossa chiave per impedire l’uscita.

L’omone si fa chiamare Otto, come otto piccoli nani assemblati. Una presenza. Sì, una presenza che si insinua dentro ognuno.

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Guardatemi, guardatemi! Ascoltatemi! Ho bisogno di voi! Adesso! Sembra dire senza dire. Sono i suoi occhi a parlare. Vivi, estranei.

La sua figura è misteriosa, allucinata. È vestito da operaio fuori moda. Le sue braccia sembrano racchiuderci, le sue gambe rimpicciolirci, la sua faccia inchiodarci. Una voce aliena fuoriesce rauca, come registrata nel mangianastri. Inizia a narrare una storia proveniente dal futuro. L'uomo delle stelle vuole scrutare terrestri. Si dipanano frasi che cercano soluzioni a una questione complicata, arruffata. Un enigma. Poi la comunicazione fermenta, il suo corpo si agita, accelera le movenze, la sua anima sembra arrabbiarsi. Si ferma. C'è qualche uomo in mezzo a voi, domanda con il suo silenzio. Cerca. Cerca uomini, significati, valori interiori. Crede ancora che ci possano essere. Spera di trovarne. Un folle. Un pazzo che ha incontrato qualcuno, ha vissuto con qualcuno, ha perso qualcuno.

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Un visionario che ha creduto di vedere sé stesso.

La sua esistenza si è sviluppata per sorprendenti combinazioni, i suoi pensieri lo hanno inseguito, braccato, torturato, stregato fino a farlo galleggiare dolcemente ondeggiando le mani. Sono esistito! Sono esistitooooo… Sono le ultime parole del suo tacere.

La luce si spegne, accogliendo il buio. Non si può che applaudire, convinti che quelle siano solo esibizioni. L’ombra se ne va, incuneandosi nel mezzo degli spettatori, trascinandosi la forza necessaria per riaprire quel portone inzuppato di aliti, liberando il pubblico alle vere allucinazioni. Ne siamo tutti preda, poveri illusi tentati dall’esistenza.

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Ringraziamenti:

Grazie a mia moglie e a tutte le donne brindisine, madri in un territorio oppresso.

Grazie a tutte le persone che sono state ispirazione per i racconti. In particolare grazie a Lino, Laura, Ilaria, Franco, Marco.

Grazie a Michele Bombacigno per la disponibilità e l’aiuto necessario a realizzare questo libro.

Grazie a Ornella Tarullo, Donato Mancino,Antonio Caforio e Simone Salvemini, per le parole e per il sentimento espresso nella postfazione.

Grazie a Lucia Portolano e a tutti i giornalisti che svolgono coscienziosamente il loro lavoro.

Grazie a tutti i cittadini che si impegnano, dedicando una parte del loro tempo libero, per avere una città migliore.

Grazie a Francesca Danese per l’utilità della sua arte teatrale.

“siamo solo sentimento, e siamo, soltanto quando lo siamo”

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INDICE

Killer City Pag. 9

Bomba a orologeria Pag.103

Fortuna, orgoglio e morte Pag.115 (contenuto nell’Antologia “Via Maestra” - HOBOS Edizioni 2011)

Gli schiavi di Tecnova Pag.123

Il cane nero Pag.129

Il paese senza vita Pag.137

Il Santo Pag.143 (contenuto nell’Antologia “Venti Variabili” - Les Flaneurs Ed. 2019)

La barchetta nel web Pag.153

La festa degli aquiloni Pag.157 (contenuto nell’Antologia “chiodi nella parete” - Les Flaneurs Ed. 2021)

La Rosa e il Pidocchio Pag.163

Moira Pag.167 (contenuto nell’Antologia “però, che storie” - Il Raggio Verde Ed. 2018)

Un’allucinazione Pag.183

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© PIERPAOLO PETROSILLO 2022 È vietata qualunque tipo di riproduzione senza l’esplicito consenso dell’autore Stampa: Tipografia MINIGRAF - BR ISBN 9788894241228

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