Antonio SIleo, Il senso di una scelta, le ragioni di una vita

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PIERO LUCIA

ANTONIO SILEO, LE PASSIONI D’UNA VITA

Bozze non corrette Testo provvisorio e ancora da limare

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ANTONIO SILEO, LE PASSIONI D’UNA VITA La storia di un popolo e di una nazione, anche nella contemporaneità, non è mai immediatamente e definitivamente riassumibile nell’esclusivo richiamo ai personaggi di maggiore rilievo che, a vario titolo, nei tempi passati o in quelli più recenti, sono periodicamente assurti al clamore delle cronache. Essa è invece anche contaminata da innumerevoli vicende, minute, di una grande moltitudine di persone semplici che, con l’esempio e l’impegno quotidiano profuso a favore dell’interesse generale, nel pezzo di mondo in cui hanno trascorso il proprio tempo, sono riusciti a consentire ai propri concittadini un tangibile miglioramento della loro condizione, materiale e morale. Un grande fiume d’impegno, d’intelligenza e di passioni collettive in movimento alla ricerca di un orizzonte nuovo, verso una diversa, migliore prospettiva. Essi sono stati, per così dire, “i costruttori” della democrazia italiana, della repubblica in cui oggi viviamo e l’esempio, di abnegazione, di generosità e di tenacia che hanno dato, nel perseguire con ogni possibile energia la realizzazione degli ideali in cui hanno creduto, è di per sé un valore, da mantenere vivo e attuale, un’eredità che non va mai smarrita. D’altra parte, la validità di un’esistenza, spesa con altruismo e dedizione verso il prossimo, rimane sempre moderna e attuale nella sua sostanza se si riesce a trasferirne ad altri, a chi ci viene dopo, l’essenza ed il valore. Perciò la rimembranza ed il ricordo, di scelte e azioni non neutrali, effettuate a volte anche a proprio rischio personale, valgono come un insegnamento, da conservare intatto e imperituro. Esperienze, di vita e di passione, da cui è sempre utile e necessario ripartire, con una coscienza nuova, fornendo linfa ed energia continuamente rinnovate, bandendo il pessimismo e la rassegnazione. C’è un dovere, etico e morale, quello di consegnare a chi poi ci sopravviene il lascito di un sentiero già tracciato- insieme- dalla coerenza e dal rigore, da una visione del mondo in cui c’è piena corrispondenza tra ciò che si dichiara e ciò che poi, con le proprie azioni e sacrifici, si realizza. Un filo rosso, che poi riemerge, di una memoria salda, edificata su profonde convinzioni, che non si lacera nè si può spezzare. E’ questa l’indispensabile premessa per consentire, a chi s’imbatterà in questa note, di entrare dentro una storia, riuscendo a interpretare, nel modo più compiuto, la vicenda di un uomo, nato in un angolo appartato della realtà meridionale, in una terra bella, selvaggia, affascinante, alle cui radici è rimasto sempre legato, in maniera intensa, profonda e indissolubile. La sua terra, dura ed orgogliosa, per migliorare il cui destino si è battuto e si batte ogni giorno che passa, con ogni sua energia, ancora oggi, nella contemporaneità del tempo presente che viviamo. Una terra, aspra e difficile, apparsa da tempi immemorabili come fatalmente e inesorabilmente condannata ad un destino amaro, pietrificata in un’era antica, all’apparenza ferma, immobile per sempre ed ibernata in una fissa trama, ciclicamente identica a sé stessa, simile al paesaggio d’intorno, coperto ogni inverno dalla neve. A volte, se su una qualsiasi storia si abbozza una riflessione appena in parte approfondita, non sbrigativa, schematica e veloce, di pura superficie, succede l’apparente paradosso secondo cui, grazie alla rilettura di una vicenda umana limitata, può essere riscritta, con maggiore ampiezza ed una più sicura cura dei dettagli, scavando dentro ai particolari, la storia di tutto un più grande contesto generale nel suo insieme. E’ quanto si è tentato di fare e di proporre all’attenzione nella rivisitazione di alcuni dei passaggi essenziali della vicenda umana e politica di un uomo, attivo ed operoso, fiero ed orgoglioso dei valori in cui ha creduto e crede, di una persona al contempo acuta, 2


che è in grado di leggere nella profondità di fatti e circostanze, dando un senso compiuto all’andamento di quanto accade con un linguaggio limpido, essenziale, denso di contenuti e privo di retorica, scavando con l’entusiasmo e con l’intensità emozionale di un altro tempo andato nelle questioni dell’oggi, persuaso della necessità di insegnare ad altri una profonda ed essenziale verità. Quella secondo cui è sempre l’uomo a costruire, col suo modo di stare al mondo e le sue azioni, il suo destino. Nessuna cosa ci è mai data quale lascito eterno, destinato a durare per un periodo infinitamente dilatato rimanendo sempre miracolosamente intatta. Ogni conquista va anzi difesa con tenacia e condivisa, più a fondo radicata, se non si vuole incorrere in gravi regressioni, al ritorno a condizioni di antiche barbarie e arretratezze già vissute. La storia che per grandi linee si cercherà di raccontare è quella di Antonio Sileo, un uomo di estrazioni contadine, nato e vissuto nella Basilicata, costretto dalle circostanze della vita ad uno snodo della sua esistenza ad emigrare, come tanti altri fratelli del nostro Mezzogiorno, e poi a un certo punto ritornato allo stesso punto di partenza, nel posto dove le sue radici vennero piantate. Una storia che non contiene un’accurata analisi economico-sociale quanto piuttosto spunti di una biografia individuale ciclicamente combinati con alcuni dei passaggi più intensi e più salienti della storia politica d’Italia e di alcuni dei più aspri conflitti che si sono succeduti nel paese. La sua famiglia era composta da gente umile, legata alla terra. Suo padre spesso gli ripeteva che era fondamentale seminare la terra nel momento giusto, nel modo giusto, nel posto giusto. Altrimenti la natura si sarebbe rivoltata contro sconfessandoti. Stille concentrate di profonda, autentica, indiscutibile saggezza. Una vita, quindi, la sua, naturalmente anche intrecciata a più fasi e passaggi significativi della storia del nostro Mezzogiorno. Alle battaglie, alle grandi lotte, alle vittorie, al misto di sconfitte e di tragedie che l’hanno attraversata. Ed al contempo un altro atto dovuto: l’obbligato richiamo a lezioni ed insegnamenti ricavati dall’esempio di personalità di alto profilo, che hanno svolto un ruolo e una funzione di riferimento decisivi in delicati frangenti della nostra recente storia nazionale. Antonio li ha assunti da guida e come esempio. Insegnamenti che gli hanno consentito d’individuare la strada da seguire in ogni particolare circostanza e che cerca tutt’ora, col proprio impegno e con la sua passione, di tenere nella propria anima sempre vivi e di onorare.

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BASILICATA La Basilicata è situata nel cuore del Meridione e di questa parte d’Italia riassume, in maniera notevole, anche plasticamente, il concentrato di contraddizioni e di possibilità inesplorate. Un’ evidente, aspra e profonda, discrasia tra potenzialità e realtà effettiva. Da un lato la regione, con circa 600.000 abitanti e con una bassa densità di popolazione per km2, appare infatti per più aspetti come segregata, ai confini dello sviluppo, posta in una funzione di crescita e d’espansione ancora marginale e residuale, all’apparenza quasi priva di storia e identità ben definite e di attrattive produttive, economiche, turistiche. Elemento di valutazione e di giudizio, come si vedrà più avanti, se in quanto tale assunto in via sinteticamente riassuntiva, piuttosto superficiale e approssimato. La Regione si affaccia su due mari, il Tirreno e lo Ionio e confina a Nord con le province di Avellino e di Foggia, a Est con la Provincia di Bari, Barletta, Taranto, a Sud con la provincia di Cosenza, ad Ovest con quella di Salerno. E in verità presenta, nella conformazione paesaggistica e ambientale, straordinarie attrattive naturali, una miscela virtuosa e quasi intatta di incantevoli località marine e montuose, di assoluto e indiscutibile rilievo. Ed ha nel proprio seno un fascino segreto e misterioso, essendo una delle parti più belle e ancora in ampia misura inesplorate della penisola italiana. E’una regione piuttosto eterogenea in ciascuna delle sue aree specifiche, dalle pianure, alle coste, ai centri dell’interno, al suo Appennino. Ancora oggi essa appare in larga misura ricoperta da un manto ampio di boschi e di foreste, fattore di distintiva identità rimasto in buona parte intatto da un’epoca antica e millenaria ad oggi, nel pieno dell’età contemporanea. E’ stato un territorio in cui si sono susseguite, nei vari secoli che si sono succeduti, plurime tracce di differenti culture e civiltà, un crocevia di popoli diversi. Dominazioni straniere e devastazioni progressive che ne sono derivate nel suo suggestivo e originale territorio. Greci, Normanni, Bizantini, gli Svevi di Federico II il cui spirito di grande legislatore e di guerriero sembra presiedere ancora oggi su questa terra dalle alture dei suoi grandi castelli disseminati sul terreno. La regione è inoltre un composito aggregato di piccoli paesi, sparsi un po’ dovunque, spesso su cocuzzoli montuosi e che presentano una straordinaria, originale difformità, di storie diverse e tradizioni. In alcuni luoghi, costruiti da profughi albanesi sfuggiti intorno al 1500 all’oppressione turca e riparati ed accolti in queste terre, sussiste in molti aspetti l’antica tradizione, la lingua, i costumi, le usanze, la stessa religione.1 Le zone interne, in specie nei periodi invernali, sono soggette a brusche precipitazioni nevose che di frequente isolano quei borghi e che spesso si protraggono fino alla primavera più avanzata. La rete viaria e le diverse strade di comunicazione, in specie di collegamento ai centri dell’interno, sono in parte ancora inefficienti e accidentate, e ciò costituisce una delle ragioni principali che ostacola uno sviluppo maggiore e più integrato, più moderno, più virtuoso. Uno degli essenziali elementi negativi che, come vedremo, ha ostacolato ed impedisce, ancora oggi, un diverso e più intenso sviluppo della crescita, dell’economia, del turismo della Regione nel suo insieme. L’agricoltura, con l’allevamento zootecnico per la produzione di carni e di salumi o dei più diversi tipi di formaggi, la cerealicoltura, con la lavorazione di grano duro, orzo, avena, la frutticultura e la viticultura (notevole la qualità dell’Aglianico lucano), la

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Al Nord Maschito, Ginestra, Barile; al Sud San Paolo Albanese, San Costantino Albanese, nell’area del Pollino. Tutti comuni situati in provincia di Potenza.

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produzione dell’olio di oliva, spesso di elevata qualità, concorrono a definire l’attività economica prevalente nella regione, storicamente in larga parte a tradizione agraria. Negli anni ’50 l’imprenditore biellese Stefano Rivetti aveva deciso di creare a Maratea un polo industriale nel settore tessile. Fino ad allora la cittadina, di circa 5.000 abitanti, aveva avuto un’economia incentrata sull’agricoltura e sul pascolo. Rivetti creò lo stabilimento “Lini e Lane” e l’operazione fu favorita dalla Cassa del Mezzogiorno e dal ministro Emilio Colombo. Il Conte Rivetti, uomo di cultura, conosceva la zona che poteva consentire, a causa della disponibilità di molti ovini, l’approvvigionamento della lana. L’ambiziosa idea era quella di creare un consorzio industriale nel Golfo di Policastro, con sede centrale a Praiammare, in Calabria, dove nascerà la Marlane, poi confluita nel gruppo ENI Lanerossi. L’area industriale avrebbe riguardato, per la Lucania, i centri di Lauria, Rivello, Nemoli, Trecchine e Maratea; in Calabria Praiammare, San Nicola Arcella, Scalea e Santa Domenica Talao. Di tutto ciò non è rimasto più nulla. In alternativa sono sorte solo alcune strutture turistiche. Un’ipotesi, di trasformazione e di sviluppo, poi bruscamente interrotte. Il Conte Rivetti riposa a Maratea, nei pressi del monte con la grande statua del Cristo.2 Lo sviluppo industriale,3 ha assunto un rilievo più marcato in tempi relativamente più recenti a fronte della decisione di impiantare, da parte della Fiat, nella zona, un grande stabilimento di auto a Melfi con la realizzazione di un grande investimento. La Fiat vede attualmente impiegati nell’impianto circa 5.500 operai, dopo averne impegnati intorno ai 7.000 nella fase conclusiva del suo iniziale insediamento. Un esempio, di realizzazione industriale di rilievo, in realtà limitato e circoscritto, per dimensione d’impresa pressoché esclusivo rispetto al contesto d’insieme complessivo.

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Utile la consultazione di “Il Conte Stefano Rivetti- l’imprenditore gentiluomo”, Marianna Trotta, Maratea, 2006. Stefano Rivetti fece dono al comune di Maratea della grande statua del Cristo Redentore, ben visibile sul monte che sovrasta la cittadina. 3 All’inizio degli anni’60, l’ENI, a quel tempo guidata da Enrico Mattei, individuò nella Basilicata aree di giacimenti di metano e di conseguenza venne assunta la decisione di impiantare a Pisticci l’Anic, che impiegherà 2000 operai per la lavorazione di fibre acriliche e poliammidiche. L’impresa si approvvigionava di materia prima da Gela. Attualmente l’attività risulta completamente soppressa.

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UNA REGIONE TRA RAZIONALITA’ E MAGIA LA BASILICATA NELLA LETTERATURA DELL’ETA’ CONTEMPORANEA Un affresco, lirico e meditativo, di accentuato, fortissimo realismo, era già stato proposto all’attenzione dell’opinione pubblica italiana da Carlo Levi che, nella sua opera “Cristo si è fermato ad Eboli”, destinata a riscuotere grande successo in tutto il mondo, si era soffermato su alcuni dei più suggestivi aspetti della realtà lucana. Lo scrittore, condannato per antifascismo ad un soggiorno coatto negli anni 1935-1936 nei paesi di Aliano e di Grassano, aveva poi riassunto l’esperienza nel suo racconto sinteticamente definito “come un viaggio al principio del tempo”.4 Nelle pagine di Carlo Levi, lo sguardo del lettore si dischiudeva alla scoperta di una nuova civiltà, quella dei contadini del sud, completamente diversa dalla condizione del resto dell’Italia, sul loro modo, superstizioso e miscredente, d’intendere la vita “fuori dalla storia e dalla ragione progressiva”. L’opera, forse per la prima volta nella storia della letteratura, finiva per fornire il quadro, assai nitido ed efficace, di una realtà segnata da “antichissima pazienza e paziente dolore”. Per l’insieme delle ragioni appena esposte, a giudizio di Rocco Scotellaro, si trattava di un appassionante e crudele “memoriale” dei paesi lucani, di una fedele rappresentazione della loro storia e delle loro più originali e suggestive identità Più avanti nel tempo, nel 1957, Guido Piovene, nella sua voluminosa opera “Viaggio in Italia”, fotografica e fedele rappresentazione delle specificità della Nazione e dei suoi tanti suggestivi borghi, si soffermava acutamente, col suo particolare stile giornalistico, su svariati e minuti particolari della realtà lucana, dalla peculiarità della sua storia, alla sua cultura, alle sue più antiche tradizioni. Il giornalista-scrittore indagava su alcuni, singolari aspetti del territorio e dei costumi della popolazione. Anzitutto sull’accentuato isolamento della Regione dal resto del paese e sul come le sue intrinseche contraddizioni balzassero subito in risalto, in modo esasperato. La più evidente era costituita dalla grande bellezza naturale e dal notevole patrimonio culturale antico, entrambi aspetti non valorizzati a sufficienza, per ciò che avrebbero invece meritato.5 Osservava inoltre l’unicità di alcuni suoi luoghi, in specie Matera, la città dei Sassi, costruzioni d’architettura ad uso abitativo uniche nel mondo per la specificità assai particolare .6 Enucleava poi i tanti mali atavici con cui, come ricordava l’insigne meridionalista, Giustino Fortunato, figlio di quella terra, il popolo aveva dovuto a lungo convivere e combattere, “le tre piaghe” della malaria, delle frane, dei periodici e sconvolgenti terremoti. Inoltre il grandissimo ritardo con cui una popolazione contadina, 4

L’opera di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, è del 1945. La Basilicata medioevale, dizione d’origine bizantina, ricorda Piovene, a partire dal 1932, in piena epoca fascista, modificherà il proprio nome in Lucania. 6 I Sassi di Matera rappresentano una delle costruzioni architettoniche più originali costruite nel corso della storia umana. Si tratta di un complesso sistema abitativo di grotte sovrapposte l’una all’altra costruito nel tufo delle gruvine ed utilizzate come insediamento abitativo da tempi molto antichi. Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, sono strutture antichissime, di epoca preistorica, che costituiscono un suggestivo complesso architettonico, primitive abitazioni sotterranee scavate nelle facciate di pietra, che consentono il mantenimento di un armonioso rapporto con l’ambiente naturale. Si mostrano poste su un burrone. Carlo Levi, in “ Cristo si è fermato ad Eboli” li descrive come due mezzi imbuti separati da uno sperone di roccia, un qualcosa di assai simile alla forma dell’inferno di Dante per come lo immaginiamo. In esse rocce nel 1952 vivevano 15.000 persone, la metà dell’intera popolazione di Matera. Fu l’anno in cui, per l’approssimazione e la grande precarietà delle condizioni igieniche, per l’assenza di fognature, col conseguente rischio dell’insorgere di epidemie, se ne decide lo sfollamento, 5

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a lungo rimasta in larga parte analfabeta, era riuscita finalmente a usufruire di servizi primari ed essenziali come l’acqua, la luce, un minimo sistema di strade di collegamento, l’avvio di un sistema educativo e d’istruzione. Piovene condivideva il fatto che l’intervento della “Cassa del Mezzogiorno” era servito ad avviare un primo, importante cambiamento, favorendo-almeno in parte- oltre che una ristrutturazione più moderna del territorio, anche l’attecchire di prime, timide tracce di industrializzazione. Evidenziava altresì, con efficacia, che il capitale che era prodotto in loco poi per lo più emigrava, disperdendosi senza venire reinvestito in zona, rendendo così assai fragile e complessa la possibilità di una effettiva crescita autogovernata. Inoltre, appariva del tutto evidente che la Riforma agraria era stata attuata in modo parziale e limitato ed in tal senso come le aspettative, tese a realizzare una profonda trasformazione dei rapporti di proprietà e di produzione agraria in dinamiche nuove, più moderne ed avanzate, si fossero scontrate con forti e potenti resistenze. Metteva altresì in risalto l’esistenza di una concreta difficoltà e di una diffidenza nel realizzare una forte cooperazione tra i contadini assegnatari. In ogni caso, all’indomani dei primi processi di riforma e degli interventi della Cassa, si potevano iniziare a percepire alcune novità :il reddito, almeno nelle aree di pianura, raddoppiava, e tuttavia restava insufficiente per il grosso delle famiglie contadine, i cui membri poi di frequente decidevano di prendere la strada dell’emigrazione. Nel reportage, tra le varie questioni di particolare interesse, veniva messo in evidenza la grande capacità lavorativa degli abitanti, ottimi muratori ed artigiani, come ad Avigliano, abilissimi a costruire la propria abitazione e nella fabbricazione di utensili, coltelli, cesti, cassoni dipinti. “ Le opere più nobili dell’artigianato in Italia” : le espressioni al proposito utilizzate da Piovene. La Lucania era una società ancora patriarcale, per così dire in bilico, da un lato tra una potenziale condizione di modernità e sviluppo, dall’altro con la persistenza di antiquate credenze e superstizioni di epoche passate. La regione continuava ad essere, in alcuni suoi nuclei in specie dell’interno, attraversata da miti e rituali residuali di una “civiltà magica”, come aveva osservato anche Ernesto De Martino.7 L’antropologo, nella sua indagine, analizzava nei dettagli la sussistenza di queste antiche credenze in molti piccoli centri ove, da tempo immemorabile, si faceva un consueto ricorso a pratiche di magia. Evidenziava come “ Tuttora in Lucania un regime arcaico di esistenza impegna ancora larghi strati sociali, malgrado la civiltà moderna….”. Spiegava la ragione di ciò nel fatto che “ E’ certamente la precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza di prospettive inerenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da forze naturali e sociali non controllabili, la carenza di forme di assistenza sociale, l’asprezza della fatica nel quadro di un’economia agricola arretrata, l’angusta memoria di comportamenti razionali con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che favoriscono il mantenersi di pratiche magiche”.8 Aviano, Ferrandina, Oppido Lucano, Marsico Vetere, Colobraro, Tricarico, Marsico Nuovo, Genzano, Savoia, Stigliano, Viggiano, Pisticci, Grottole, Valsinni i numerosi centri in cui il ricorso a tali pratiche e la sussistenza di queste credenze arcaiche tenacemente sussisteva. La regione è stata un’area fiera, fortemente attaccata alle proprie specificità 7

L’antropologo Ernesto De Martino nella sua opera, Sud e Magia, Feltrinelli, si era puntigliosamente soffermato su vari aspetti sintomo del permanere di una civiltà “magica”, coi suoi rituali insieme raccapriccianti e affascinanti. De Martino evidenziava una varietà d’interpretazioni, usanze, pratiche particolari, in specie contro il malocchio e la sciagura, la “fascinazione” cui non di rado si faceva ricorso da parte dei familiari delle persone ritenute vittime presunte. Per estirpare ogni forma d’invidia o di malocchio si faceva ricorso a presunti “guaritori”. Pratica piuttosto frequente in centri come Aviano e che metteva in evidenza la sussistenza di superstizioni e di antichi retaggi medioevali restati intatti da tempo immemorabile, che sussistevano, in netto e conflittuale rapporto con la scienza e con la medicina ufficiali. Il ricorso ai “guaritori” serviva a riconquistare una condizione normale di esistenza, ad essere liberati finalmente dal male che aveva attaccato l’inconsapevole vittima, che l’aveva invasa, per invidia o gelosia. Un fenomeno che, sebbene in misura assai inferiore, retaggio di quella civiltà “ magica e misteriosa” cui ci si è riferiti, sussiste a livello più accentuato di quanto accade in altri borghi di altre realtà meridionali e non è definitivamente liquidato. 8 Ernesto De Martino, Sud e magia”, introduzione di Umberto Galimberti, Universale economica Feltrinelli, Milano, 2008, p.89

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ed all’autonomia e terra selvaggia di brigantaggio.9 E poi ancora l’insistente dilungarsi sulla bellezza del paesaggio, in larga parte incontaminato e quasi intatto, con grandi montagne e boschi enormi. Con laghi, fiumi, dal Bradano, al Basento, all’Agri ed acqua in quantità, da veicolare verso un potente sistema di dighe. Lo scrittore indicava finanche possibili luoghi ove porre le dighe: San Giuliano del Bradano, nella stretta del Sinni, quella di Gannano, con larghi serbatoi e potenti centrali idroelettriche. Infine completava la rappresentazione con l’elenco di una lunga filiera di chiese e monasteri, all’interno di entrambe le province, dense di tracce non sepolte di civiltà passate e di dominazioni che si erano nei secoli tra loro succedute. Piovene insisteva con realismo sulla necessità di completare le opere di bonifica, irrigazione, trasformazione fondiaria già avviata coi processi di riforma e di vincere, in via definitiva, la piaga dell’analfabetismo e dell’incultura. L’insieme di questi interventi, tra loro coordinati, l’infrastrutturazione del territorio, la crescita multidisciplinare dei saperi, avrebbe dato risalto alle grandi positive qualità di quelle genti. Inoltre la propensione agraria dei terreni, le colture dei vari, specifici prodotti della terra, barbabietole, tabacco, frutti, cereali, ortaggi. La realizzazione di quanto immaginato avrebbe in tal modo alla fine assicurato una straordinaria capacità di attrazione dall’esterno ed un’esaltazione delle potenziali capacità d’integrazione, della regione col resto del paese. Elementi, come si può capire facilmente, tutt’ora per più aspetti di forte attualità. “ Quando l’irrigazione sarà compiuta, si avrà una plaga tra le più fertili d’Italia; tanto da chiamarla, non senza iperbole, la California d’Italia, definendone la qualità di grande orto-giardino sorto sopra un deserto”.10

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La Basilicata divenne ben presto, dopo l’unificazione, il cuore della rivolta antisabauda. Capi e protagonisti principali degli atti di brigantaggio in zona furono Carmine Donatello Crocco, di Rionero in Vulture, e Ninco Nanco, suo luogotenente, originario di Avigliano. Uno dei principali punti di raccordo e di coordinamento delle azioni delle bande sovversive, già dall’indomani dell’unità d’Italia, fu il Castello di Lagopesole. Crocco, arrestato e processato, sarà condannato al carcere a vita e morirà nel 1905 nel carcere di Portoferrato. Ninco Nanco invece venne catturato e giustiziato a Frusci, una contrada del comune di Avigliano, nel 1863. 10 Non si tratta affatto di considerazioni e idee storicamente datate e superate. A me pare invece che il nucleo essenziale di questo ragionamento conservi più aspetti di forte attualità.

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FORENZA La nostra storia parte e si dirama proprio da uno di questi centri dell’interno, situati su un’altura, particolarmente suggestivi, dal luogo in cui si snoderà un’esistenza ed una vita intensa e per tale ragione degna di essere narrata. Nella Valle del Bradano, nel comprensorio del Vulture, a nord dell’Appennino lucano, in linea d’aria quasi al confine con la Puglia, c’è il piccolo comune di Forenza. Esso si adagia dolcemente su una quieta e morbida collina a più di 800 metri sul livello del mare. Da quella postazione lo sguardo si estende sul Monte Vulture e poi si allunga lontano, fino al Gargano, sul Tavoliere pugliese. E’ un sito di antica costruzione, la cui origine può essere fissata antecedentemente all’anno 1000, in pieno medioevo. La cittadina, nella sua lunga storia, in origine area sannita poi caduta sotto il dominio romano, vedrà più avanti nel tempo un incessante scia di dominazioni straniere, dai Longobardi ai Normanni, agli Angioini, fino agli Asburgo, in tempi relativamente più recenti.11Il punto di più antico riferimento simbolico del sito, è individuabile nelle vestigia del castello, al centro del pianoro. Un castello che, nei secoli, sarà destinato a subire svariate mutazioni strutturali ed ampie e profonde trasformazioni, fin quasi a decadere. Oggi a dominare pressoché tutto il paesaggio urbano è la Chiesa di San Nicola e Maria SS. Allo stesso modo in cui in genere è accaduto nei grandi e piccoli borghi della penisola italiana, sulla struttura primitiva del sito si sono poi nel tempo sovrapposte molteplici modificazioni strutturali successive, da quelle originarie medioevali alle settecentesche più recenti, per lo più sorte fuori le mura, ben oltre il centro dell’antico perimetro urbano primitivo. Il ceppo antico è costituito da una struttura, semplice ed essenziale, coerente con l’ossatura di una cultura e di un’economia alla sua comparsa già d’impronta spiccatamente contadina. Vestigia evidenti di una pregressa identità, di un’economia a impianto agrario in larga prevalenza, possono infatti intravedersi nel centro storico, proprio nella “Casa Contadina”, la casa-museo che ospita una delle collezioni più singolari della Basilicata, in cui l’ambiente domestico è ricostituito, in maniera assolutamente fedele, con arredi, oggetti, suppellettili originali assolutamente autentici e collocati secondo un ordine spazialetemporale razionale. Assieme ai monumentali Palmenti, grandi recipienti scavati dentro al tufo ed utilizzati per pigiare l’uva, testimonianza assai fedele e distintiva dell’identità di quell’antico mondo contadino.12 Il territorio circostante è a sua volta particolarmente intenso e affascinante. Esso appare circondato da uno dei più ampi, fitti ed estesi polmoni verdi della Basilicata, il “Bosco Grande comunale”, che presenta una grande varietà di piante e fiori, anche piuttosto rari, l’orchidea o la valeriana, ed anche grandi alberi orgogliosi con querce secolari. 11

In zona è diffuso il mito dei cavalieri templari che, presumibilmente, toccarono quei luoghi svolgendo una funzione protettiva dei pellegrini che iniziavano il tragitto che li avrebbe condotti prima in Puglia e- da lì- in Terra Santa al Santo Sepolcro. Si sostiene altresì che a Forenza avrebbe soggiornato Ugo dei Pagani, fondatore e primo Gran Maestro dell’Ordine dei Templari in pieno medioevo, intorno al 1118. Nella cittadina, il 16 agosto, in ricordo di questa storia e di quegli avvenimenti, si svolge un corteo storico con costumi d’epoca. 12 Nota testimoniale dell’architetto Felice Vincenzo Cavuoto

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Il bosco, che si estende continuamente per decine e decine di ettari, ha costituito e costituisce ancora oggi un peculiare fattore distintivo, un elemento naturale identitario della specificità dell’economia locale, un denso polmone verde che ha a lungo segnato e definito l’originalità della storia e la qualità dell’indirizzo assunto dalla specificità dello sviluppo locale. Una presenza, decisiva e imprescindibile, per comprendere meglio le caratteristiche del vivere di una comunità, le sue potenzialità, i suoi problemi. IN GIOVENTU’ E’ in questo contesto, orografico e ambientale suggestivo, in questa realtà in cui da sempre l’uomo per sopravvivere ha dovuto ingaggiare una strenua lotta per il governo di una natura aspra e non di rado selvaggiamente ostile, con la variegata specificità dei suoi problemi, in questo ambienteinsieme duro e affascinante- che si è snodata ed è trascorsa la maggior parte dell’esistenza del protagonista di questa narrazione. E’ qui, a Forenza, in quel piccolo centro in provincia di Potenza, posto su un’altura che, il 21 Novembre del 1934, nasce Antonio Sileo. Un’esistenza e una vicenda umana, la sua, destinata ben presto ad essere segnata da tante lotte, da grandi passioni civili ed ideali, e sempre proiettata alla realizzazione, per la comunità, di condizioni di vita migliori e più civili. Una scelta ed un impegno assunto fin da giovanissimo. La famiglia era composta da sei persone, padre, madre, quattro fratelli, tutti maschi. Oltre ad Antonio, Vincenzo, Michele, Mario. Il padre era di Avigliano, uno dei paesi più importanti della provincia di Potenza, con un territorio comunale vastissimo e con moltissime frazioni. Una delle maggiori è quella di Lagopesole, col suo bellissimo castello, uno dei maggiori possedimenti di Federico II. La madre era originaria di Forenza. Lì è stato acceso il fuoco, lì è rimasta la cenere. Oggi Sileo ha quasi 80 anni, 4 figli, Salvatore, Marisa, Erminia, Mauro, distribuiti tra Salerno Torino, Melfi, Venosa, e 11 nipoti. Stanno tutti bene e si vogliono bene tra di loro, una cosa di cui il nonno è molto fiero. Il padre era un contadino, come la grande maggioranza della popolazione di allora. Contadini e boscaioli, taglialegna. Per sbarcare la vita si doveva e per più versi ancora oggi, nonostante l’indiscutibile progresso realizzato, si deve fare tutto. A quel tempo era il bosco pressoché l’unica risorsa da cui a Forenza si attingeva, un’enorme estensione di 4.000 ettari di bosco, di circa 20 Km, con piante secolari. Nei paesi di allora c’erano i forni ed il paese era noto per avere più forni che producevano un pane gustoso, di grandi forme, anche da 10 chili. La legna alimentava i forni, ed il pane durava molto tempo. Bastava avere l’accortezza di mettere le forme in grandi pezze di panno ed il pane si conservava a lungo intatto, anche per 15 giorni, e si consumava tutto, non produceva muffa, né marciva, come invece troppo spesso accade al pane di oggi. Il pane si faceva col lievito naturale ed era l’alimento essenziale della famiglia contadina. Non si perdeva nulla e in casa si utilizzava integralmente tutto ciò che si riusciva ad avere a disposizione. L’alimentazione era semplice ed essenziale, non c’erano i sofisticati cibi di oggi, né additivo alcuno. La madre, attorno a cui ruotava l’intera economia domestica e l’organizzazione della casa, con il poco che aveva a sua disposizione, preparava di tutto, strascinati con cime di rape, con fagioli, ceci, verdure e legumi. Non c’erano soldi. Nelle case dei contadini si ricorreva di frequente al baratto di risorse di natura, allo scambio o al prestito reciproco di prodotti semplici, non soldi ma scambio di cicerchie, lenticchie, ceci, grano. Molte volte, nel 1949- 1950, si cuoceva ancora il grano, si faceva il grano cotto. La madre preparava un piatto unico e, nello stesso piatto, faceva la divisione del cibo in parti eguali tra i figlioli. Suo padre andava ogni giorno in campagna e, durante 10


la sua assenza, la casa veniva affidata per ogni necessità a sua madre. Tutta l’organizzazione del vivere quotidiano ruotava intorno a lei. Andava al lavatoio a lavare gli abiti, in una grande vasca, poi li metteva ad asciugare al sole, così come facevano le altre donne, madri di famiglia. La madre dall’alba al tramonto lavorava sempre, per ogni esigenza della sua famiglia. Verso le undici, al massimo intorno a mezzogiorno, il giovane Antonio s’incamminava a piedi per andare incontro a sua madre per aiutarla a riportare i panni puliti a casa. I vestiti, ancora tutti bagnati, pesavano il triplo. Lui, il più grande dei figli, cercava di dare una mano per quanto era in grado di fare. Durante il periodo della seconda guerra mondiale, verso la fine, ancora ragazzo in tenera età, era solito andare di frequente verso Palazzo San Gervasio, dove si svolgeva una grande fiera in cui, per quel tempo, ci si poteva approvvigionare di tutto. A circa 5 Km di distanza dal centro di Forenza c’è un piccolo terreno di proprietà della famiglia, in contrada Monte. Lì il nonno, a quel tempo, aveva - oltre al terreno - una casa fatta tutta di pietra, in aperta campagna. Il nonno manteneva i nipoti rigorosamente sotto il proprio controllo. In paese non si poteva stare più, c’erano i tedeschi, fin dall’agosto del 1943, non ci si poteva rifornire, non si poteva prendere nulla, erano autorizzati a circolare per le strade soltanto i vecchi ed i bambini. Antonio aveva allora meno di 10 anni, andava in paese con un asinello, prendeva un po’ di vino e si riforniva di quel po’ di cibo che trovava, indispensabile per tirare avanti in quel duro tempo segnato dagli stenti. Al momento dell’inizio della ritirata dei tedeschi, un giorno in cui era andato in paese, vide all’improvviso una pioggia di volantini che cadevano giù dal cielo. Nei volantini si invitavano i civili a sgomberare il paese, a non uscire di casa. Un poco più distante i tedeschi, vicino al lavatoio, i loro mezzi coi motori accesi in procinto di partire. Il nonno gli aveva raccomandato di fare attenzione alle fave che aveva cominciato a preparare dentro un enorme pentolone di rame. Il ragazzo doveva stare molto attento alla cottura. Una volta cotte le fave, con due fette di pane, un po’ di olio e sale, avrebbero potuto avere il pranzo e si sarebbero sfamati i suoi fratelli e lui. Il piccolo pezzo di terra della sua famiglia aveva un’estensione di poco più di 1 ettaro, intorno ai 12.000 metri. In quello spazio limitato vennero scaricate 11 bombe, un metro e mezzo l’una, una addirittura di circa 5 quintali, più o meno a venti metri dal terreno dei Sileo. Era il mese di agosto, quando si inizia a raccogliere l’uva bianca per fare il vino moscato. E con suo fratello era andato proprio in cerca del moscato, quando vide quel fosso, questa grande voragine. Erano bombe destinate a cadere su Forenza, proprio nel centro del paese. I carabinieri, sopraggiunti, si diedero subito da fare a recintare il territorio ed Antonio coi suoi familiari fu costretto ad andare ad abitare in grotte in disuso forse da 100 anni. Quello diventò il rifugio dei Sileo, per mesi e mesi, fino a che finalmente le bombe non furono rimosse o fatte brillare. Bombe, sganciate dagli aerei americani, che non gli consentivano di raggiungere il terreno di famiglia. Solo suo nonno poteva andare lì, dopo avere avuto uno speciale permesso di ingresso dalle autorità. Intorno al sito era tutto piantonato. Il nonno poteva prendere solo qualche piccola cosa, poi doveva andare subito via. Le grotte erano state usate nel passato come rifugio dai briganti.13 Nascondigli, che ora diventavano case, con camere da letto dove si dormiva e spazi ristretti in cui si viveva giorno e notte. Persone costrette a vivere quotidianamente mischiate insieme agli animali. Lì si portava tutto, mentre intorno, nell’aria, si sentiva il sordo rombo dei motori degli aerei che, ad ondate intermittenti, sorvolavano la zona. 13

Numerose bande armate irregolari agirono nell’Italia Meridionale sin dall’indomani della conquista del Mezzogiorno susseguente all’iniziativa di Garibaldi e, poi, all’intervento della monarchia sabauda. Il Piemonte estese al mezzogiorno il proprio sistema di governo e la sua legislazione. La Basilicata fu una delle regioni in cui il fenomeno del brigantaggio si esplicitò in maniera più marcata. La condizione di profonda miseria e povertà dei contadini, che da tempo immemorabile attendevano l’assegnazione delle terre, non si verificò ed esse restarono nelle mani dei vecchi proprietari. L’aumento della tassazione, con l’introduzione della leva militare obbligatoria, costituirono le principali ragioni della violenta sollevazione, incoraggiata e sostenuta dai Borboni e dalla stessa Chiesa. L’esercito sabaudo fu spietato nel perseguire i fenomeni di renitenza alla leva, facendo ricorso a molte fucilazioni. Il conflitto durò, con diverse accentuazioni, dal 1860 al 1870. Il suo picco si verificò nel biennio 1862-1864.

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Le grotte erano fatte di un misto di sabbia e breccia. Lì trascorrerà la vita il giovane Sileo, per tutta la fase finale della guerra.

BALVANO, QUEL DISASTRO DIMENTICATO Tornando indietro con la memoria ai durissimi mesi conclusivi della seconda guerra mondiale, quasi sempre ci si sofferma, giustamente, sulla lunga scia di morte e distruzione che ricoprì a quel tempo la nazione. L’attenzione prevalente degli storici si attarda, in larga prevalenza ed a ragione, sul fatto che fu il centro nord del paese a vivere, in maniera particolarmente sanguinosa, il conflitto che esplose tra forze contrapposte, tra l’esercito occupante dei nazisti, spalleggiati dalle milizie fasciste della Repubblica Sociale di Salò, ed il movimento partigiano. Indubbiamente fu in quell’area che venne scritta la pagina fondamentale del riscatto del popolo italiano che riconquistò con la lotta armata la propria dignità e la libertà che gli era stata confiscata nel lungo ventennio della dittatura. Fu lì che si pagò il maggiore prezzo, di vittime e di sangue, per ridare dignità alla nazione. Eppure sarebbe assolutamente errato dimenticare le innumerevoli vicende, di opposizione e resistenza civile, che si svilupparono anche in altri punti dell’Italia, a Roma, nella capitale occupata, a Napoli, che insorse nelle sue 4 giornate, dal 27 al 30 settembre del 1943, scacciando dalla città la belva hitleriana sanguinaria versando per questo un alto tributo di sangue. Napoli, con la sua epica insurrezione popolare, si libererà con le sue sole forze, così che - al momento dell’arrivo delle forze alleate- in città non c’è più traccia di tedeschi. Per l’atto di grande eroismo popolare, la città sarà insignita della medaglia d’oro. Lo stesso omaggio sarà assegnato a Gennaro Capuozzo, 12 anni; Filippo Illuminati, 13 anni, Pasquale Formisano, 17 anni, Mario Menechini, 18 anni. Gli “scugnizzi“, caduti in combattimento. Globalmente, tra gli oltre 2000 combattenti, in quei giorni perderanno la vita, nello scontro armato contro i tedeschi, 168 napoletani, a cui vanno aggiunti 140 vittime tra i civili, 19 morti non identificati, 162 i feriti, 75 gli invalidi permanenti.14 In realtà la prima città del mezzogiorno che insorgerà contro i tedeschi e si libererà dall’oppressore, prima dell’arrivo degli anglo americani, è Matera dove, il 21 settembre del 1943, si verificheranno scontri armati tra nazisti e popolazione locale, con un bilancio complessivo di 19 morti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il I Battaglione tedesco di paracadutisti, comandato dal Maggiore Wolf werner Gral Von der Schulemburg, si rende protagonista della strage per rappresaglia conseguente all’avvenuto conflitto armato tra due soldati italiani e 2 soldati tedeschi. I tedeschi fanno saltare in aria il Palazzo della Milizia e l’esplosione causa 16 morti. Si sono già registrati scontri tra tedeschi e materani, con morti da entrambe le parti. L’insurrezione della popolazione eviterà la distruzione della città. Oggi, davanti alla Prefettura di Matera, vi è una lapide che ricorda l’episodio.15 La città, nel settembre 1966, venne insignita di medaglia d’argento al valor militare dal Ministro Tremelloni. Un altro gravissimo episodio si verificò a Rionero dove, il 16 settembre del 1943, la popolazione, stremata dalla fame, diede l’assalto ai magazzini per approvvigionarsi di generi alimentari. I tedeschi diedero fuoco al deposito e l’azione causò due morti, una donna arsa viva nell’incendio ed un ragazzo di 17 anni che si era impadronito di un sacco di farina. I tedeschi poi, il 24 settembre del

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Corrado Barbagallo, Napoli contro il terrore nazista, Casa Editrice Maone, Napoli, 1944 Giovanni Caserta, Dalla cronaca alla Storia- Il 21 settembre 1943 a Matera, Matera, BMG, 2008

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1943, causarono l’eccidio di 16 persone, tra cui Pasquale Sibilia, un contadino che aveva aperto il fuoco e ferito un sergente paracadutista italiano sorpreso a rubare le galline davanti al suo podere.16 Atto di un’ulteriore, feroce rappresaglia! In tempi recenti è stato inaugurato un monumento in memoria di quei fatti. Sarebbe perciò ingeneroso, anche in relazione a quanto è stato appena ricordato, evitare ed anzi cancellare l’enormità della tragedia che, in quei mesi finali del conflitto, finì per devastare il paese nel suo insieme. Gli innumerevoli bombardamenti alleati che colpivano, non di rado in maniera indiscriminata, molti piccoli e grandi centri dell’Italia del Sud, le vittime civili innocenti sacrificate senza colpa al demone maligno della guerra. La miseria nera, la fame che la facevano ovunque da padrone. Uno sconvolgimento immane, che finì per abbattersi su tutta l’Italia intera. Nessuno era certo dell’esito finale della tragedia in corso, di come se ne sarebbe usciti, né di chi sarebbe riuscito a sopravvivere alla catastrofe che si era riversata sul paese. Un paese rimasto, come è noto, dopo l’8 Settembre del 1943, completamente sbandato e privo di una guida, come il suo esercito, dopo la fuga, da Roma a Brindisi, del Re e della sua corte. Un contesto confuso, e per più aspetti convulso e inestricabile, nel quale, caduto il Fascismo e Mussolini, unici padroni incontrastati erano rimaste le forze d’occupazione dell’esercito tedesco ed i nazisti, sempre più avvelenati e ostili al popolo italiano, pronti a mettere in essere, ovunque, feroci rappresaglie e ritorsioni contro i combattenti partigiani ma anche, di frequente, contro incolpevoli, cittadini inermi. Grande la scia di morti, stragi, delitti, distruzioni. E poi il dramma della fame di massa e la miseria tutt’intorno, che riducevano la popolazione sempre più identica a pallidi spettri vaganti piuttosto che a persone. Molti gli episodi, di questa autentica e irrazionale strage di innocenti, accaduti non molto prima della definitiva fine del conflitto, che sono rimasti a lungo nascosti ed ignorati, anche nel meridione d’Italia ed in Basilicata. Distruzioni e lutti, ovunque. Un’enorme tragedia si era consumata il 3 marzo del 1944, a Balvano, un piccolo paese ai confini tra la Campania e la Basilicata. Fu il più grave incidente della storia delle ferrovie italiane, che causò ben 650 vittime ed anche quello di cui, incomprensibilmente, meno si è parlato e che è rimasto per decenni sostanzialmente nascosto ed occultato all’opinione pubblica. Agghiacciante soltanto immaginare i corpi delle vittime allineati, l’uno dopo l’altro, appena fuori dalla “Galleria delle Armi”. In realtà si comprende di più la ragione di quel silenzio omertoso se ci si immerge per un istante solo nel clima storico del tempo. In quei giorni sul suolo italiano si combatteva ancora e la possibilità di morire era in ogni istante in agguato dietro l’angolo. L’Italia del Sud, nel marzo del 1944, ormai era stata finalmente liberata e già veniva amministrata dalle forze alleate anglo americane. Napoli poi, con la sua insurrezione popolare, aveva riconquistato ,da sola, la propria libertà, Roma era invece ancora occupata dai nazisti nel mentre al Nord era sempre in vita la Repubblica di Salò, coi fascisti al soldo delle forze naziste occupanti. Nel Centro Nord, a differenza di quanto accadeva nel Sud del paese, divampava la guerra partigiana. Il Sud però viveva in una situazione di degrado estremo in cui a farla da padrona, in maniera quasi esclusiva, era la fame. Imperava il mercato nero ed ogni giorno dalle campagne centinaia di uomini, donne e bambini si recavano a Napoli per sfamare una popolazione costretta ad ogni stento e sacrificio pur di sopravvivere. Cercavano di tutto, qualunque cosa potesse andare bene per sfamarsi. Farina, uova, zucchero, sale, cose indispensabili, non sempre reperibili, vendute in cambio di danaro, oro, gioielli e quanto di prezioso, nonostante tutto, era restato ancora nelle case.17 Così venivano presi d’assalto carretti, camion e soprattutto treni, quelli adibiti per lo più al trasporto di merci. Treni identici a quello che si era mosso dalla stazione di Napoli in quel tragico pomeriggio 16

E. Cervellini, Regio Vulturis, Venosa Osanna, 2003 In verità, quando non si riuscì a trovare quasi più nulla in giro, si fece ricorso, di frequente, anche alle bucce di patate ed alle più diverse varietà di radici di piante e di verdure reperibili. Un paese intero ridotto alla miseria più assoluta, alla denutrizione ed alla fame nera. 17

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del 2 marzo 1944. Un treno che, nel corso del viaggio, incrementò il suo numero di passeggeri, fermata dopo fermata, a dismisura. Il treno 8017 era composto da vagoni scoperti. Era fin troppo facile salirci dentro, anche se ben presto i convogli divennero tutti sovraccarichi. Cresciuti a dismisura i passeggeri! A Battipaglia la Mp ( Military patrol) era intervenuta a colpi di sfollagente, inutilmente. Poi, poco dopo la mezzanotte, il treno merci entrò nella stazione di Balvano, con 650 persone a bordo. A Salerno la linea elettrica era sospesa e così la locomotiva iniziò a procedere con le caldaie alimentate a carbone. Il treno, composto da 45 carri e 2 locomotive di testa, ripartì dopo una sosta di 50 minuti. Poco dopo, nella “Galleria delle armi” , in un luogo dove in passato i briganti erano soliti nascondere le loro armi, il treno perse velocità, fino a bloccarsi, quasi al centro del tunnel della galleria lunga due chilometri. I viaggiatori, tra i quali molti napoletani, restarono all’improvviso imprigionati, nel mentre tutto intorno il fumo del carbone continuava a fuoriuscire. I gas ben presto invasero ogni spazio, con conseguenze tragiche e letali. L’inchiesta fu rapidissima e si concluse passando completamente inosservata. Un manto, di ingiustificabile e colpevole silenzio, coprì quanto accaduto. Nessun responsabile del disastro venne individuato né tampoco perseguito. Gli americani insabbiarono i risultati dell’inchiesta, lo stesso avvenne da parte delle autorità italiane. Si tenne una riunione del Consiglio dei Ministri, il 7 marzo del 1944, da cui risultò che sul treno non ci sarebbero dovute essere le centinaia di persone che invece vi erano salite. Lo avevano fatto di nascosto e a proprio rischio. Fu però accertato che il personale ferroviario aveva preteso ed accettato il pagamento del costo del biglietto per il viaggio. L’inchiesta finale del Procuratore della Repubblica di Potenza individuò il carbone quale unica causa di quanto era accaduto, il carbone, responsabile delle morti causate da asfissia, che era stato fornito dagli alleati. Oltre alle foto originali ed ai pochissimi articoli apparsi sulla stampa dell’epoca, oltre agli scarni documenti controfirmati dal generale Badoglio, capo del Governo, si sono conosciuti solo i nomi di 432 vittime identificate. Le altre sono rimaste invece sconosciute. Un silenzio, in verità assordante, quindi, e quasi assoluto per lunghissimi decenni. Se in qualche modo a un certo punto il fatto è riemerso in superficie, trovando finalmente eco nelle cronache, ciò è avvenuto grazie agli sforzi fatti negli anni da giornalisti e scrittori che hanno rintracciato alcuni dei pochissimi superstiti, i loro familiari o i loro figli. E’ stato per ultimo Salvio Esposito, psicologo napoletano, a ritessere la trama di quanto era accaduto.18 Un romanzo, il suo, di una crudezza estrema, esplicativo della durezza del tempo da cui il mezzogiorno ed un paese sventurato avevano cercato d’iniziare con estrema fatica a fuoriuscire. Un atto dovuto per evitare che quelle vittime innocenti fossero ancora uccise tante e tante altre volte ancora.

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Salvio Esposito, La Galleria delle Armi, Editore Marotta & Camp;

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L’ITALIA DEL 1945: INIZIA UN MONDO NUOVO Tornando a ritroso indietro incontro al tempo, è il caso in avvio di soffermarsi, seppur succintamente, sulla peculiarità della situazione esistente in Italia nel 1945, all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale La guerra finalmente era finita. La grande strage d’innocenti perpetrata in ogni angolo del mondo, la dolorosa scia di morte, distruzione e lutti inenarrabili che si portava dietro, che ognuno si augurava di non vedere più nel prossimo futuro in nessun modo replicati. Gli errori del passato, memori di ciò che era accaduto, non avrebbero dovuto più essere compiuti per non pregiudicare la possibilità di un’altra prospettiva, di futuro migliore, di pace, giustizia, maggiore libertà per chi era riuscito a scampare a quel disastro, per l’umanità sopravvissuta. Dopo una lunga stagione di lutti, di fame e di tragedie, lentamente la vita riprendeva il proprio corso, con il suo concentrato di speranze e aspirazioni, con una fiducia che cautamente iniziava a riapparire. Era l’inizio di un grande sussulto d’impegno collettivo in grado di realizzare una stagione nuova, di autentica ripresa e di riscatto. Gli uomini e le donne del paese si rimettevano, con ogni abnegazione ed energia in movimento, con il bagaglio di sogni, speranze e aspirazioni per troppo tempo rimaste compresse e conculcate. Ora, per fortuna, finalmente una nuova stagione aveva inizio e ci si attivava, ovunque e in ogni modo, per dare, dopo tante sofferenze accumulate, un altro, diverso senso all’esistenza. La generazione che aveva conosciuto sulla propria carne lo sfregio di quell’immane disastro consumato, avrebbe dato prova di una capacità di riscatto, d’impegno e di lavoro straordinario e assai difficilmente prevedibile. E’in verità stupefacente constatare la grande energia di cui all’occorrenza dispone il popolo italiano, più volte in grado, nel corso della storia nazionale, di dare il meglio di sé a fronte di situazioni gravi, all’apparenza almeno disperate. Poco per volta, la vita ritornava alla normalità. Si è scavato, sono state rimosse le bombe, ad una ad una. A Venosa, verso la fase finale del conflitto, l’esercito tedesco già in ritirata verso il Nord. Gli Alleati avevano allestito un campo di concentramento. I tedeschi avevano sgombrato e c’era rimasto solo un piccolo presidio americano. Gli ultimi fuochi, prima della definitiva conclusione del conflitto che aveva disseminato di morti, feriti e distruzioni i territori della vecchia Europa ma anche innumerevoli altri punti, in innumerevoli centri sparsi sull’insieme del pianeta. Ciò che l’uomo, con grandi sforzi e sacrifici aveva edificato, lo stesso uomo, nel suo impeto di follia senza confini, aveva poi distrutto e cancellato, riducendo il mondo che era stato prima ad una grande distesa di rovine. La Germania, piegata in via definitiva, sconfitta dalle potenze alleate, si apprestava a vivere, per una lunga fase, la dolorosa perdita della sua stessa integrità territoriale. Berlino, la capitale, divisa nelle sue parti tra le diverse potenze vincitrici. La Nazione tedesca, nel suo complesso, tagliata a metà, in una parte Est e in una parte Ovest, assegnate rispettivamente all’Urss e agli Usa in relazione alle distinte sfere d’influenza definite e concordate dai grandi del mondo nel vertice di Jalta, nel sud dell’Ucraina, sul Mar Nero. Le stesse potenze vincitrici del conflitto, alle prese coi grandi problemi della ripresa dell’economia e della ricostruzione, della fuoriuscita dalle profonde ferite subite sulle proprie carni durante il ferocissimo conflitto, soltanto gli Usa destinati a sostituire da allora in poi la Gran Bretagna come 15


forza leader dell’Occidente tutto intero, sembravano dimostrare un qualche dinamismo. Ci si apprestava, da lì a poco, ad inviare alle nazioni alleate del vecchio Continente consistenti aiuti in mezzi, risorse finanziarie e materiali per garantire un’immediata e solida ripresa delle loro assai fragili e incrinate economie. Si prefigurava il grande piano Marshal, condizionato però, nell’elargizione degli aiuti, dall’orientamento politico e di governo interno, convergente o divergente da quello della maggiore potenza presente sulla scena, dei singoli paesi dell’area occidentale. Il nuovo mondo, uscito vittorioso dal conflitto, ben presto iniziava di nuovo a separarsi, dividendosi, avviando al proprio interno una contrapposizione rude, in specie ma non solo nell’Europa, in modo verticale. Iniziavano a scomparire dappertutto o a diventare assai meno incisive, un poco ovunque, le formazioni intermedie, le aree per così dire grigie. La guerra fredda, ben presto, avrebbe contrapposto sulla scacchiera del mondo nel suo insieme i due grandi avversari, Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ed all’interno dei singoli paesi lo scontro frontale andava a sua volta a definirsi, nell’ambito della specificità del confronto ideologico e politico nazionale. E’ quanto avvenne, come vedremo, in Italia, dove la lotta di resistenza aveva creato nuove gerarchie e dove era sorto il partito comunista più forte e più potente dell’Europa. Di per sè, per tale situazione e per la rottura dell’unità antifascista cui ben presto si sarebbe pervenuti, il livello di scontro e di contrasto tra le forze politiche ed i distinti gruppi sociali era destinato a diventare, da allora in avanti, particolarmente aspro e lacerante, a trascinarsi ancora a lungo nel successivo procedere del tempo.

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LA CAMERA DEL LAVORO Erano finalmente rientrati nel paese, il tempo era passato, Antonio aveva già 13-14 anni. Il ragazzo osservava sua madre lavorare e cercava di rendersi in qualche modo utile, dandosi da fare per aiutare la famiglia. C’era il prete, Don Giovanni, e allora di frequente andava lì a chiedere che gli facessero fare una qualsiasi cosa. Il prete cercava di rassicurarlo, gli diceva di avere pazienza, che di sicuro avrebbe prima o poi trovato il modo di impiegarsi. Però il tempo passava, mesi e mesi di attesa e non accadeva nulla. Un mattino, camminando, all’improvviso, vide per caso su un portone esposta un’insegna, su cui spiccava, in bella evidenza, la scritta in rosso “Camera del Lavoro”. C’erano degli uomini che discutevano animatamente tra di loro di assegni, di cantieri, di lavoro, di commissioni. Dicevano che l’indomani sarebbero andati tutti in delegazione ad incontrare il Sindaco. Trovò il segretario che gestiva quello spazio, Donato Pace che, appena lo vide sull’uscio della sede, lo invitò ad entrare. Era stato aperto un cantiere della Previdenza Sociale e, nella “Camera del Lavoro” si parlava di quell’evento con grande trasporto e animazione. Chiese se ci fosse qualcosa da fare per i giovani. Gli fu risposto che forse c’era questa possibilità ma che era necessario lottare, così qualcosa sarebbe potuto di certo venir fuori. Questo il primo impatto, con la Camera del Lavoro, un luogo che allora era in verità piuttosto un intreccio, sia Partito che Camera del Lavoro. Era necessario restare sempre uniti, questo la prima cosa che gli fu spiegata, per avere il lavoro, per affermare quel diritto. Lottare e restare sempre uniti: la prima lezione ed i primi insegnamenti di cui si sarebbe sempre ricordato! Iniziò così, per caso e all’improvviso, il suo inserimento in quella inedita realtà, una dimensione per lui del tutto nuova e sconosciuta, di cui prima non conosceva affatto l’esistenza. La sede sindacale divenne in breve il punto naturale di raccolta e di coagulo, in cui ci si intratteneva fino alla sera tardi. Ci si riuniva, si discuteva, ci si confrontava, ci si iniziava a organizzare, scambiandosi le informazioni di cui si disponeva. Il segno di un fervore e di una gran voglia di agire per costruire qualcosa di concreto, mettendosi alle spalle, definitivamente, il ricordo degli anni bui precedenti. Trascorse così del tempo, frequentando quella sede. Iniziò, poco per volta, a capire molte cose, crebbe la sua coscienza con la consapevolezza. Era allora poco più che un ragazzino, ma già pieno di voglia di fare, di grande fervore e di entusiasmo. Coi suoi compagni formarono finalmente un direttivo. Li andò a trovare Pietro Valenza, napoletano, futuro Senatore del PCI, che era anche Segretario della Federazione di Potenza. C’era anche Donato Scutari, di Potenza, originario di Costantino Albanese, a sua volta futuro Senatore. Fu lui a proporre ad Antonio di impegnarsi a dare una mano nell’organizzazione dei lavoratori del posto, considerando che era della zona e che la conosceva bene. Un indiscutibile vantaggio. Gli fu spiegato che gli avrebbero assegnato 8 comuni. Si sarebbe trattato di mettere insieme un po’ di forze, così come era già stato fatto a Forenza, estendendo anche altrove l’esperienza già sperimentata nel suo paese con successo. Bisognava iniziare a costruire la FIGC, l’organizzazione di partito dei giovani. Antonio non si fece ripetere l’invito e per 3-4 mesi si mise a lavorare intensamente, come un funzionario, con un piccolo contributo di 20.000 Lire al mese, girando in lungo e in largo, dalla mattina alla sera, per quei comuni con una bicicletta. Oltre che Forenza, gli venne assegnata la responsabilità di insediamento e di rafforzamento del radicamento dell’organizzazione per i comuni di Banzi, Acerenza, Genzana di Lucania, Palazzo San Gervasio, Maschito, Tolve, Pietragalla, Cancellara, Oppido Lucano, tutta quella zona dell’alto Bradano. Si rivolgeva agli anziani, che lo incoraggiavano, dicendo che bisognava avere fiducia, e che da una cosa nasce sempre una nuova cosa. Parole di speranza nel futuro, l’antica saggezza contadina. Frattanto si era diffusa la notizia di quanto si era iniziato a fare a Forenza, del locale già molto frequentato che aggregava più persone, del loro ritrovo dove venivano organizzate feste di ballo 17


assai partecipate. Con una colletta avevano acquistato un giradischi e un po’di musica diveniva l’occasione per trascorrere le ore stando insieme. Bastava, come si vede, in quel tempo molto poco per rafforzare i legami di amicizia e di solidarietà tra i figli del popolo di allora. La sede della Camera del Lavoro di Forenza era composta da 4 stanze, gremite in ogni occasione in cui si organizzava l’ascolto della musica o una festa di ballo. Era un punto di riferimento e di ritrovo che, poco per volta, iniziò ad aggregare sempre di più vecchi e giovani, persone di ogni età. Oltre che a ballare si giocava a carte. Si discuteva delle questioni generali nazionali e di quelle di più stretto interesse locale, si passava il tempo libero insieme, semplicemente, con serenità e con passione. Un punto di vitalità in una comunità di circa 6.000 anime che iniziava a ripartire.19Nella sede del Sindacato ben presto si recò anche un calzolaio a riparare le scarpe. Antonio lo aveva persuaso abbastanza facilmente che- unendosi a loro- ben presto avrebbe potuto avere più clienti, bastava avere l’accortezza di abbassare un poco i prezzi. Sede e luce non le avrebbe pagate e perciò alla fine la scelta gli sarebbe convenuta. Stesso ragionamento fu fatto col barbiere. Si iniziava a costruire un qualcosa d’importante, un punto di coagulo contro la solitudine e la disperazione che metteva insieme le persone. Poco per volta nasceva una vera Casa del Popolo. Correndo col pensiero ancora oltre, già pensava che, in tempi relativamente brevi, si sarebbe potuto acquistare un locale anche un po’ più ampio. Intanto continuava, con la sua bicicletta, a girare paese per paese. La realtà del suo paese, e della Lucania, come pure della gran parte di tutto il Mezzogiorno, era a quel tempo assai povera e arretrata. Condizioni di vita assai incerte ed umilianti, frutto di una struttura in larga parte ancora semifeudale di quella società, immobile e silente, di una storia pregressa e di una concezione profondamente radicata e fissa, ibernata e immobile da secoli. Una condizione che, nella coscienza di Antonio, non andava però considerata come destinata a durare eternamente e inevitabile. Per trasformare la realtà si è battuto e si batte ancora oggi al suo paese, mantenendo lo stesso impegno e la passione profusa nei primi anni ’50 insieme ai suoi compagni di partito e sindacato più vicini con cui ha condiviso lotte ed amarezze, sconfitte con vittorie e che, almeno alcuni, intende, in questa occasione, quale atto dovuto, ricordare: Donato Brienza, Antonio Miniscalchi, Rocco Mazza, Luigi Carlone, Salvatore Carlone. La sua è del resto una storia da inserire in una più grande trama complessiva.

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Da quegli anni in avanti la popolazione di Forenza ha iniziato a decrescere in maniera particolarmente rilevante. Nel 1971 raggiungeva ormai a stento i 3.500 abitanti, ben 2.500 persone in meno rispetto al censimento del 1951. Gli abitanti sono poi diminuiti ulteriormente. Oggi il comune conta circa 2.500 anime. L’emigrazione ha inciso in maniera enorme.

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L’OCCUPAZIONE DELLE TERRE NEL MEZZOGIORNO Come si già accennato, il tema della terra ha sempre rappresentato una delle questioni di maggiore rilievo che, a ondate successive, ha caratterizzato la specificità della questione meridionale, sintomo palese del grande crogiuolo di distorsioni e di contraddizioni che, da tempo immemorabile, ha caratterizzato la specificità dello sviluppo, con i gravi ritardi che, su questo piano, si sono accumulati. Questione antica ed irrisolta, quella agraria, che è andata periodicamente a riproporsi in tempi più recenti. Durante il periodo fascista, la condizione di vita dei contadini e dei braccianti meridionali, con le loro famiglie, era progressivamente e gravemente peggiorata. La zootecnia era entrata in una condizione di profonda crisi, i prezzi del bestiame erano crollati. La tassa di famiglia, il dazio sul vino e sulla macellazione del bestiame avevano dato un ulteriore colpo di maglio alle già misere condizioni dei lavoratori della terra, al punto da innescare nelle popolazioni un forte malcontento. Si era venuta a creare una situazione gonfia di odio e di rancore dei contadini contro i rappresentanti del vecchio blocco agrario, i proprietari assenteisti e i loro privilegi intollerabili. Già verso la fine del secondo conflitto erano iniziati, in Calabria, i primi moti e movimenti di occupazione delle terre nelle zone silane e nel marchesato di Crotone.20 Lo stesso iniziava ad avvenire in Campania, in specie nell’Irpinia, con la sollevazione popolare di Calitri, dove veniva addirittura proclamata una “ repubblica” contadina, con gravi atti di violenza rivolti contro i proprietari terrieri. Altre manifestazioni si ebbero poi, tra ottobre e dicembre del 1943, nel Vallo di Diano, a Caggiano e a Montesano sulla Marcellana. Anche qui non mancarono episodi di violenza contro i rappresentanti del vecchio sistema di potere economico e politico. In verità la repressione di questi movimenti fu spietata. A Montesano vennero uccisi 8 manifestanti, con decine di feriti ed arrestati. A Sanza , nel Cilento meridionale, il 16 ottobre 1943, un vecchio contadino antifascista, Tommaso Torciari, venne prelevato dalla sua casa da una folla festante di più di 300 persone e poi portato in corteo ad insediarsi al municipio come neocommissario eletto per acclamazione. Alla testa della manifestazione le bandiere rosse. A Sanza si ebbe addirittura il tentativo di costruire un’esperienza di governo autonoma, indipendente, libertaria, protesa a realizzare una società di liberi ed eguali.21 Fu avviata in tal senso, in maniera organizzata, la lavorazione dei terreni demaniali incolti, si impedì l’accaparramento delle derrate alimentari, si organizzò una squadra di operai per lavori di pubblica utilità. Un’esperienza che si protrarrà fino al 20 novembre dello stesso anno quando i carabinieri irromperanno nel Municipio traendo in arresto il vecchio contadino e trenta suoi seguaci accusati di “associazione a delinquere e partecipazione a banda armata”.22 Il moto si sviluppò in sostanza, con grande incisività e virulenza, in gran parte delle regioni del Mezzogiorno. In Puglia si ebbero rivolte in provincia di Lecce, Bari, Taranto, in particolare tra il dicembre del 1943 ed il febbraio del 1944. In Sicilia, nel 1944, ci fu un largo ed incisivo movimento popolare che fu oggetto di una feroce repressione, con un lungo elenco di vittime. A Regalbuto, in provincia di Enna, il 27 maggio venne ucciso Santi Milisenna, segretario della Federazione comunista di Enna, caduto nel corso di tumulti scoppiati in occasione di un raduno separatista. Ad Agosto a Casteldaccia, in provincia di Palermo, cadde Andrea Raia, organizzatore comunista del comitato di controllo dei granai del popolo. A Settembre, a Villalba, nel regno del mafioso Calogero Vizzini, durante un comizio del segretario regionale Girolamo Li Causi, i mafiosi lanciarono bombe a mano sulla folla. Li Causi fu ferito ad un ginocchio. Il 19 ottobre a Palermo, nel corso di una manifestazione contro il carovita, i soldati spararono sulla folla. Il bilancio della repressione fu davvero tremendo: 19 morti e 150 feriti. 20

Ormai è assai ampia, copiosa e dettagliata la bibliografia disponibile sul tema. Tra i lavori di maggior pregio sui movimenti nelle campagne del secondo dopoguerra è il caso di segnalare per la sua compiutezza e precisione, tra i vari, almeno il volume di R. Stefanelli, Lotte agrarie e modello di sviluppo 1947-1967, De Donato Editore, Bari 1975. 21 In Sintesi storia di Sanza, Sito Comune di Sanza, nota prof. Felice Fusco 22 Ubaldo Baldi, Lavoro e Mezzogiorno : L’occupazione delle terre, ( una pagina di storia che non va dimenticata)

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Sempre in Sicilia, a Comiso, in provincia di Ragusa, scontri ancora più gravi, con 19 morti tra i rivoltosi e 15 tra i militari.23 Più in generale, nei 45 giorni susseguenti al 27 luglio del 1943, si ebbero globalmente, nelle campagne meridionali, ben 93 morti, 536 feriti, 2276 arrestati.24 Si trattò in genere, in quella prima fase, di lotte in larga misura spontanee, non ancora dirette e coordinate a pieno, in maniera organizzata, dalle formazioni di sinistra e, in specie, dal Partito Comunista. Già iniziava comunque, a quel tempo, a configurarsi un quadro più sicuro e nelle rivendicazioni più preciso, atto a porre il problema del miglioramento della condizione contadina nella sua più ampia, compiuta e sostanziale accezione. A tal proposito, ad esempio, è utile ricordare come uno dei leader della sinistra socialista del tempo, Luigi Cacciatore, in un discorso dell’agosto del 1946, sostenesse che “…abbiamo bisogno che il contadino diventi uomo nel senso completo della parola…non solo campi sul suolo dove sudare, ma che abbia una casa, una cultura, una coscienza…”25 Fausto Gullo, avvocato calabrese e Ministro dell’Agricoltura nel primo governo Badoglio, aveva emanato una serie di decreti, dal maggio del 1944 all’aprile del 1945, fortemente ispirati a ragioni di maggiore giustizia sociale, incentrate sul recupero delle terre incolte e volte a incentivare la costituzione di cooperative agricole di lavoratori della terra. Egli puntava ad ottenere, coi suoi decreti, la concessione di dette terre incolte o insufficientemente coltivate. Il riferimento era rivolto alle terre del grande latifondo e non alle forme di agricoltura più avanzata. In effetti, quei decreti finirono per costituire uno straordinario stimolo simbolico nel determinare le grandi lotte sociali per la terra che da allora in avanti si svilupparono con ulteriore, straordinaria intensità. I decreti intendevano porre precisi limiti, vincoli ed obblighi per la proprietà terriera privata assenteista ed imponevano l’avvio di una grande trasformazione strutturale della realtà del latifondo, da troppo tempo ibernata, immobile e stagnante. Un tentativo che si scontrò con un’accanita e feroce, sanguinosa opposizione e resistenza delle forze reazionarie più retrive e che assunse una esplicita, odiosa, simbolica espressione nella giornata del 1 maggio del 1947 con la strage attuata dai mafiosi di Salvatore Giuliano contro un’adunata festosa di contadini inermi.26 La Sicilia, nello scenari complessivo del Meridione d’Italia, metteva in rilievo una specificità ancora più marcata, in relazione al ruolo della mafia scesa in quel frangente decisamente in campo, nei modi e nelle forme più spietate, feroci e sanguinose contro il movimento di riforma. La mafia, coi suoi sicari armati, agiva in via diretta per mantenere intatti gli antichi, secolari privilegi. In Calabria, Puglia, Basilicata innumerevoli furono le lotte e le manifestazioni contadine, risolte di frequente col ricorso alla più brutale, selvaggia repressione. Fausto Gullo, più avanti, verrà sostituito come ministro dell’agricoltura, da Mario Segni, organicamente legato alla DC ed il tentativo di attuare la riforma in maniera più profonda e radicale ne risulterà piuttosto affievolito.27 Il 15 dicembre 1947 si era svolto ad Eboli il Primo Congresso Regionale della “Costituente della Terra”, cui avevano partecipato i maggiori dirigenti della sinistra italiana, da G. Amendola ad Emilio Sereni, Pietro Grifone, Luigi Cacciatore. In quella circostanza era stato Abdon Alinovi a presentare al consesso la relazione introduttiva in cui si avanzava l’idea di voler lanciare una nuova stagione di lotte popolari per la terra, con l’occupazione delle terre incolte e abbandonate nelle campagne del salernitano, con l’obiettivo esplicito di realizzare una vera Riforma Agraria.28 A Cosenza, nell’autunno del 1948, si era svolto il Congresso dei “Comitati per la terra”. A Modena,

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http://www.centroimpastato.it/publ/online/movimento_contadino.php3 In Einaudi “ Storia d’Italia, la storia politica e sociale”, pag.2335, vol 4***, Einaudi, 1976 (controlla) 25 G.Cacciatore, La sinistra socialista nel dopoguerra, pag.172, Dedalo libri, 1979, Bari; In Ubaldo Baldi, cit. 26 L’assalto mafioso a Portella della Ginestra causerà 11 morti e 63 feriti. 27 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Piccola Biblioteca Einaudi, pp140 e seg; 28 Abdon Alinovi, nato ad Eboli, in provincia di Salerno, è stato uno degli animatori della lotta per le terre nella provincia di Salerno. Si iscrive al PCI nel 1944 e più avanti sarà consigliere regionale e deputato del partito nella VII, VIII, IX e X legislatura. E’ stato membro del Comitato Centrale del PCI ed è autore di scritti ed articoli sulla questione meridionale. Dal 1983 al 1987 è stato Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. 24

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nell’Assise Nazionale, si era insistito sull’attuazione dell’art.44 della Costituzione che …” Fissa un limite alla estensione della proprietà terriera privata attraverso obblighi e vincoli precisi”. Nel periodo 1946-1948 i movimenti per la riforma agraria si volsero soprattutto verso il tentativo di garantire l’attuazione piena dei decreti Gullo. Sorsero 1200 cooperative, con 250000 aderenti che ottennero 165.000 ettari di terre. Ne uscirono rafforzati leghe, organizzazioni sindacali, partiti di sinistra.29 Il grande moto per l’occupazione delle terre si era riproposto poi nel periodo 1948-1950.30 Nell’autunno del 1948 si ebbero molte assemblee destinate a confluire nell’Assemblea Nazionale di Modena che avrebbe dovuto costituire un ulteriore slancio nella fase di mobilitazione generale del movimento di riscossa popolare per la terra. In realtà la risposta del governo fu particolarmente violenta, in specie in Calabria, dove erano scesi in lotta decine di migliaia di contadini delle province di Cosenza e Catanzaro. In quella regione si verificarono, in seguito all’occupazione delle terre del feudo “Fragalà” i gravissimi fatti di Melissa.31 La polizia di Scelba, sparando, lasciò sul terreno 3 morti e 15 feriti.32 Un fatto di una violenza e di una gravità inaudite che indussero la Cgil a proclamare, il 31 ottobre 1949, lo sciopero generale.33 Il 3 dicembre del 1949 si tenne a Salerno, nel cinema “Augusteo” “ L’Assise della Rinascita della Campania e della Basilicata” con Luigi Longo, Giorgio Amendola, Emilio Sereni, Luigi Cacciatore. A Chiusura dell’evento fu proiettato in prima mondiale il film di Luchino Visconti “La terra Trema”. La legge di riforma, ispirata alla legge Sila, sarà promulgata il 21 ottobre 1950 e fu detta “Legge Stralcio” in quanto anticipava una legge più completa che invece non ci fu. Essa sanciva la fine del ciclo di lotta per l’occupazione delle terre. La legge non fissava limiti precisi e permanenti alla proprietà terriera; i meccanismi di scorporo erano ancora estremamente vaghi e complicati ed offrivano il fianco all’evasione dagli obblighi a molti proprietari. Inoltre le terre scorporate dovevano essere pagate a prezzi troppo esosi e ciò finiva per indebolire l’efficacia dell’investimento per l’assegnatario. Poi l’eccesso di discriminazioni e di favoritismi che praticheranno i dirigenti degli Enti di riforma, strettamente legati alla DC, senza controllo alcuno da parte del Parlamento, finiranno per svuotare il tentativo di trasformazione strutturale della condizione dell’agricoltura meridionale, con risultati limitati e quasi sempre aggirabili da parte degli agrari. Infine il progressivo impoverimento delle zone rurali più interne al mezzogiorno, con lo smantellamento del gracile tessuto industriale circostante, indurrà all’incremento del grande fenomeno migratorio che finirà per svuotare le campagne dal 1946 al 1971 globalmente di oltre 7 milioni di contadini e 29

P. Ginsborg, cit, pag 139; Nel 1950 di quasi 2 milioni di ettari di terreni richiesti vennero assegnati alle cooperative contadine solo 250.000 ettari di terreni incolti. Tra il 1945 ed il 1952 persero la vita nelle grandi lotte per la terra 84 lavoratori agricoli, il grosso dei quali contadini meridionali. 31 A Melissa, in provincia di Catanzaro, il 30 ottobre 1949, le forze dell’ordine spararono sui contadini che coltivavano il Fondo Fragalà, terreno lasciato incolto dal marchese Berlingieri. Nell’eccidio perderanno la vita Giovanni Zito, Francesco Nigro, Angelina Mauro. Il feudo, dopo la promulgazione della legge sulle terre incolte, era stato concesso un anno prima alla cooperativa “La Proletaria”. Il proprietario usava il fondo come pascolo. I contadini che ne avevano chiesto l’uso e che vi stavano lavorando in quote stabilite dalla cooperativa furono aggrediti con colpi di arma da fuoco e con le bombe. 32 Una toccante testimonianza dei fatti di Melissa è riportata nel volume “Il diritto alla terra”, di G.Mottura e U. Ursetta, Feltrinelli, Milano, 1981, pp201 e seguenti. Particolarmente commovente la testimonianza di G. Nigro, presente ai fatti e che assistette alla morte di suo fratello Francesco, colpito mortalmente alle spalle. “ Io cominciai a gridare dalla disperazione, dicendo che non ci avevano uccisi in guerra e che ora ci uccidevano a casa nostra”. 33 Sergio Dragone, cronista de “Il giornale della Calabria” in un dettagliato reportage, riassume la tragica giornata della strage di Melissa del 29 ottobre 1949. I contadini, radunati al centro “ Fragalà”, a cui i dirigenti della “Federterra” avevano chiesto di accogliere i poliziotti, ove fossero apparsi, con battimani e grida di “ evviva”, vennero fatti oggetto prima di lacrimogeni, poi di colpi di pistola e mitragliatrice. La Cgil parteciperà ai funerali delle vittime con una delegazione nazionale guidata da Luigi Cacciatore che poi scriverà un appassionato pezzo su “L’Avanti” in cui sarà rappresentato lo stato di estrema povertà dei contadini di Melissa. In Ubaldo Baldi, cit; 30

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lavoratori della terra. Gli aiuti limitati alle cooperative sorte dal movimento contadino per la terra, il grumo di difficoltà pressoché insormontabili, per la limitatezza delle risorse disponibili, all’attuazione di un salto di qualità in grado di garantire una maggiore produttività e qualità delle nuove aziende contadine appena nate, la scarsità di reddito ricavabile dalla lavorazione delle terre renderanno infruttuoso il tentativo di attuare, dentro il mezzogiorno, una differente condizione di vita e di lavoro delle grandi masse contadine. Esse, a un certo punto, non individueranno un’altra strada se non quella dell’abbandono massiccio delle terre e dell’emigrazione di massa verso il centro nord dell’Italia, verso i paesi più ricchi ed economicamente più evoluti dell’Europa. La via per stroncare, in via definitiva, la forza impetuosa del grande movimento contadino. In ogni caso, più avanti, alla fine degli anni ’40 e nei primi anni’50, in quella che può essere indicata come la seconda ondata di lotte per la terra, si era manifestata una maggiore capacità, di analisi e di proposta. La lotta si sviluppò, in sostanza, tenendo insieme e più intrecciati tra di loro, i temi di natura locale con quelli di rilievo più ampio e generale, che andavano a spaziare dalla rivendicazione del possesso della terra fino alle lotta per la pace, il pane ed il lavoro. Un grande movimento, forse più avanti nel tempo mai più replicato con la stessa incisività e ampiezza, che saldò le ragioni delle classi subalterne, condannate da secoli ad una vita marginale, ad un bisogno di conquista di una maggiore giustizia e libertà. Alla necessità della realizzazione di un progresso in grado di dare pratica attuazione, finalmente, ai principi sanciti nel dettato costituzionale, nella carta che aveva visto la luce nella stesura della Costituzione del 1947.

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LOTTA PER LA TERRA IN BASILICATA,

In Provincia di Potenza, intorno a Forenza Verso la metà e quasi fino alla fine degli anni 40, anche in Basilicata si era iniziato a sviluppare un potente movimento popolare per l’occupazione delle terre. I contadini avevano occupato ettari ed ettari di terreni di proprietà dei grandi latifondisti assenteisti, terre molto spesso non coltivate ed anzi lasciate in una vergognosa e pressoché totale condizione di abbandono. Lotte, assai aspre che, alla fine, consentirono di assegnare ai contadini diversi ettari di terreni. La lotta al latifondo fu una battaglia, di grande rilievo nazionale, che mise in risalto una situazione inedita, di dinamismo dentro la società meridionale, da troppo tempo ferma e anchilosata e che concorse a produrre una forte avanzata democratica ed economica nelle condizioni di vita e di lavoro delle campagne. In Basilicata furono invasi ed occupati da masse contadine povere i grandi latifondi, come quello del feudo Berlingieri a Policoro, 600 ettari di terreni di oliveti o come l’azienda Turati, di proprietà di un imprenditore piemontese, nell’agro di Tricarico. Furono interessate ed investite dal grande moto contadino e bracciantile entrambe le province lucane, di Potenza e di Matera, e il movimento si sviluppò a macchia d’olio, dando luogo anche a fatti segnati da una brutale e violenta repressione. Alla fine del decennio, nel novembre 1949, il fatto tra tutti più eclatante, destinato ad avere un grande risalto nazionale. Nel corso della lotta per l’occupazione delle terre del demanio comunale di Montescaglioso, dove i contadini avevano invaso ed occupato, lavorandole, le aziende Tarantino, Strada, Miani, Galante, Lacava, si verificò un fatto gravissimo e sanguinoso. L’occupazione aveva riguardato un’area di alcune migliaia di ettari di terreno. Tutto sembrava procedere in maniera pacifica e normale quando, l’8 dicembre 1949, la polizia intervenne per porre fine all’occupazione cercando di fare allontanare i contadini con la forza. Essa però si trovò di fronte ad una forte ed inattesa resistenza, ad una tenace ed ostinata volontà : i lavoratori della terra erano intenzionati a restare nei fondi e a coltivarli. L’intero paese- di conseguenza- venne posto in stato d’assedio. Fu interrotta la fornitura di energia elettrica e, nella notte tra il 13 ed il 14 dicembre, vennero arrestati i principali dirigenti del movimento contadino. I manifestanti, raccoltisi immediatamente in piazza, reclamarono a gran voce la liberazione dei loro compagni fermati e si prepararono a rioccupare immediatamente i fondi. La polizia intervenne, con estrema pesantezza. Furono sparate raffiche di mitra che procurarono la morte di due braccianti : Giuseppe Novello e Michele Oliva.34 Eppure la lotta di popolo non fu spenta dalla dura repressione ed anzi si espanse ancora oltre, a macchia d’olio, diffondendosi come un fiume in piena dal materano al melfese al potentino, a Lavello, Venosa, Rionero, Maschito, Ruoti, Muro, Atella. La dura repressione non piegò il grande movimento di riscatto che s’era messo in moto e che più avanti concorrerà, in maniera decisiva, a realizzare le prime leggi stralcio della riforma agraria. Già l’Assise per la Rinascita della Lucania, tenutasi a Matera il 3 ed il 4 dicembre 1949, alla presenza di dirigenti di primo piano del PCI, principale animatore della lotta per l’occupazione delle terre, come Giancarlo Pajetta, Francesco Cerabona, Michele Bianco, aveva messo in evidenza come il movimento fosse cresciuto enormemente e si fosse allargato ulteriormente, interessando e coinvolgendo migliaia e migliaia di

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Utile la lettura del volume Campagne e movimento contadino nel mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi, AA.VV, Ed. de Donato, Bari, 1979. Le stragi di contadini più eclatanti di quella fase si avranno a Melissa, Montescaglioso, Torremaggine, in Puglia.

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lavoratori della terra e come necessitasse di uno sbocco politico immediato e conseguente35. Si tratterà di una grande fase di lotta che si protrarrà fin oltre i primi anni 50.36 Anche nel territorio di Antonio Sileo, nella provincia di Potenza, intorno al suo paese, vennero occupate dai contadini le terre intorno a Palazzo San Gervasio, tutte aree pianeggianti, nei Comuni di Spinazzola, Genzano, Pazzi, Acerenza, Venosa, Melfi, nella pianura. Erano terre comunali, 400 ettari di terreni, metà occupate da grossi agrari, metà di boschi. I contadini arrivarono lì con centinaia di muli, aratri, ed ognuno tracciava una sua striscia sul terreno. Enormi distese di bosco, con alberi di querce e cerri. Boschi che purtroppo più volte nel tempo saranno bruciati. Vennero centinaia di camionette. Zio Luigi, il vice Segretario della Cgil, vista la situazione, chiamò Antonio chiedendogli di andare con la bicicletta ad avvisare i contadini di ciò che stava succedendo. Lo poteva fare, era ancora un ragazzo, non avrebbero fatto caso al suo passaggio. Così sgomberarono i terreni e lo scontro fu evitato per un filo anche se poche notti dopo la polizia irruppe in una decina di case contadine traendo in arresto 14-15 persone per un mese.

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L’Assise per la rinascita della Lucania, tenutasi a Matera, con la relazione introduttiva di Michele Bianco, si svolse in contemporaneità con le altre conferenze regionali di Salerno, per la Campania, relazione di Giorgio Amendola, di Crotone per la Calabria, relazione di Mario Alicata, di Bari, relazione di Francesco De Martino L’Assemblea Nazionale dei comitati della terra, tenutasi a Modena il 20 e 21 febbraio 1949, aveva dato inizio alla grande campagna di massa che si svilupperà nei mesi conclusivi del 1949. Le Assise vennero preparate con centinaia di assemblee :454 in Campania, 120 in Lucania, 270 in Calabria. Per una rigorosa ricostruzione della fase si veda il saggio di Giorgio Amendola, Il balzo nel Mezzogiorno-1943-1953, apparso sul quaderno n.5 della rivista Critica Marxista, anno 1972, in cui viene presentata un’analisi assai accurata ed una rigorosa ricostruzione delle motivazioni alla base di queste iniziative. La fase, di autentica epopea delle grandi lotte contadine, trova una sua compiuta conclusione nell’Assemblea del Popolo Meridionale, a Bari, il 19 maggio 1951. 36 Nino Calice, Il PCI nella storia di Basilicata , Edizioni Osanna Venosa, pp.124-127;

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VIA MEDINA Togliatti, giunto in Italia nel 1944, aveva dato, con la Svolta di Salerno, una spinta poderosa ed un indirizzo decisivo alla lotta contro l’occupante nazista ed i fascisti collaborazionisti. Aveva auspicato, con grande risolutezza, la creazione di un ampio fronte antifascista, dai monarchici ai comunisti, che si sarebbe dovuto battere, anche con le armi, per la completa e definitiva liberazione del paese. La pregiudiziale antimonarchica, sollecitata da un variegato fronte antifascista, in specie ma non solo dalle forze unificate intorno al Partito d’Azione, non andava sollevata in quel momento essendo, di per sé, ragione di conflitto e divisione. Un elemento, in quella circostanza, del tutto fuorviante e negativo. Il problema sarebbe stato affrontato più avanti, a tempo debito, con un referendum popolare che, una volta liberato il paese, avrebbe dovuto consentire ai cittadini italiani di scegliere l’alternativa tra Monarchia e Repubblica. Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in cui gli italiani venivano chiamati ad esprimersi sulla scelta tra Repubblica e Monarchia, rappresentò un passaggio importante e delicato nella storia del paese. Prevalse la Repubblica, ma il voto evidenziò l’esistenza di una profonda divisione, che si esplicitava platealmente nella netta diversità di orientamenti tra il Centro Nord ed il Mezzogionro. Al settentrione, significativamente segnato dall’esperienza della lotta armata di liberazione nazionale contro il nazifascismo, netta fu l’affermazione della Repubblica. Nel Mezzogiorno, di converso, prevalse nettamente, un poco ovunque, la Monarchia, in specie nelle grandi e medie città. E’ il caso di ricordare che, a un anno dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, il 25 giugno del 1946, erano iniziati i lavori per la Costituente. Nel referendum aveva quindi prevalso la Repubblica, con una percentuale di consensi in verità molto più elevata nel centro-nord che nel mezzogiorno.37 In questo contesto d’insieme il Vulture rappresentò un’anomalia in quanto, a differenza di ciò che era avvenuto altrove un poco ovunque, nel complesso, in quella parte della Basilicata prevalse la Repubblica, ed a stragrande maggioranza, con una percentuale di voti tra le più alte d’Italia.38 L’area si qualificava come un’isola repubblicana all’interno di un più ampio contesto generale di ben altro orientamento. Esistevano in Basilicata alcune limitate aree territoriali, con la presenza attiva di gruppi di antica tradizione di sinistra, “nuclei rossi”, di operai, braccianti, intellettuali, d’originaria emanazione socialista. Ben altra situazione ed un’anomalia rispetto a ciò che era avvenuto, contemporaneamente, in larga parte del resto della Basilicata e dell’intero Mezzogiorno ed in città, come Napoli o Salerno, dove la Monarchia aveva invece prevalso nettamente. Una ragione, di non scarsa rilevanza, che avrebbe reso necessario ed anzi indispensabile l’avvio della sperimentazione di una politica, non settaria, ma di disponibilità e di apertura al confronto ed alla collaborazione con altri gruppi e formazioni di differente ispirazione. La linea su cui, in sostanza, finì per definirsi la specificità dell’azione, culturale e politica della sinistra nel mezzogiorno.

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Il referendum istituzionale vedrà la partecipazione al voto di 24.947.187 votanti, l’89% degli aventi diritto. Prevarrà la Repubblica, con 12.718.641 voti, il 53% dei voti validi contro i 10.718.502, il 45% del totale raccolti dalla Monarchia. Al Nord prevarrà in maniera ampia la Repubblica, col 66,2% dei voti, al contrario al Sud sarà la Monarchia ad affermarsi nettamente col 66,2%. Più in particolare in Campania la Monarchia raggiungerà il 70% dei voti, in Basilicata si attesterà tra il 55 ed il 60%. 38 Nel mezzogiorno d’Italia, dopo l’Abruzzo, sarà di gran lunga la Basilicata la regione in cui la Repubblica raccoglierà la massa più consistente di consensi, in media del 40,6%. Nella provincia di Matera la media provinciale perverrà al 42,5%, in 6 comuni, dei 28 dell’intera provincia, la Repubblica otterrà più del 50%. Nella Provincia di Potenza, la Repubblica perverrà percentualmente al 39,5%, in 11 dei 98 comuni del potentino la repubblica supererà il 50%. Dati riportati nel saggio di Giorgio Amendola, Il balzo nel mezzogiorno ( 1943-1953), quaderno n.4, Critica marxista, 1972.

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Nel 1946, all’indomani del referendum istituzionale, l’Italia non è più monarchica, ma a Napoli, in larghissima maggioranza, la popolazione è rimasta comunque dalla parte del Re. Nel giorno della proclamazione dei risultati favorevoli alla Repubblica, i monarchici decidono di assaltare la Federazione del PCI, allora in Via Medina. Sotto la sede comunista si raduna una grande folla, di migliaia e migliaia di persone. L’obiettivo è quello di strappare la bandiera tricolore appena esposta, la prima senza il simbolo sabaudo su sfondo bianco. Siamo all’11 Giugno del 1946. Una giornata drammatica che si concluderà con un bagno di sangue. Perderanno la vita 9 persone, tutti giovanissimi, diversi ragazzi tra i 12 ed i 14 anni. I feriti saranno una cinquantina. Anche il filosofo Biagio De Giovanni, allora giovanissimo e più avanti diventato per una lunga fase autorevole dirigente del PCI, è tra i manifestanti e assisterà, attonito, al drammatico evolversi dei fatti. Le vittime sono tutte di parte monarchica, cadute sotto i colpi delle raffiche di mitragliatrice partite dalle autoblindo della polizia. Il giovane marinaio di leva Mario Fioretti cade perché colpito da colpi esplosi dall’interno della sede della Federazione dopo che si era arrampicato al secondo piano del fabbricato con l’intento di strappare la bandiera tricolore esposta alla finestra. La scala appoggiata alla parete del palazzo è spinta in giù dagli assediati. Giorgio Amendola, in questa circostanza, verrà arrestato, ma subito rilasciato dalla polizia alleata. I monarchici lo indicano come il principale responsabile della strage per la ragione che “ avrebbe ordinato alla polizia di sparare sul popolo”.39 Ben presto però, dopo il referendum del 1946 e la vittoria della Repubblica, l’epoca dell’unità e della concordia nazionale cedeva il passo allo scontro ed alla contrapposizione frontale ed il paese si spaccava in due. Era evidente come incidesse, in maniera decisiva, lo scontro che si profilava a livello internazionale tra le grandi potenze vincitrici della guerra contro il nazismo ed il fascismo. Tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra da una parte e l’Unione Sovietica dall’altra. Il mondo si presentava già diviso in due distinte sfere d’influenza ed i riflessi di quella contrapposizione avrebbero finito per riversarsi, in maniera profonda e devastante, all’interno di ogni singola nazione dell’Europa. L’Italia era, in quello scenario tumultuoso, un paese per così dire di confine, tra Est ed Ovest, tra Oriente ed Occidente, e lo scontro in Italia apparve da subito particolarmente acuto ed aspro in quanto- pur rientrando il paese nella sfera d’influenza occidentale- tuttavia vedeva al proprio interno la presenza attiva, estesa e combattiva di grandi formazioni popolari di sinistra, ed in specie del PCI, destinato a diventare, in breve, la più grande formazione comunista di tutto l’Occidente. Il PCI, d’altra parte, aveva da tempo conquistato sul campo, battendosi senza risparmio e in ogni modo contro il fascismo, durante il ventennio, nella clandestinità e poi nel corso della lunga guerra di liberazione nazionale, un grande prestigio ed una forte autorevolezza in una larga parte del mondo del lavoro, tra gli operai del Nord e in mezzo ai contadini, anche del Mezzogiorno. Il PCI era stata la forza che si era opposta, con più risolutezza, al fascismo ed al nazismo occupante. Fu grazie all’azione di Togliatti che si potè dare vita ad una grande alleanza e ad un grande movimento politico sociale che riuscì a mettere insieme PCI, DC, PSI, Partito d’Azione, repubblicani, un fronte di resistenza e di opposizione estremamente ampio e variegato capace di coinvolgere gli stessi monarchici, ormai in rotta di collisione col regime. Ed era riuscito a sviluppare, in particolare grazie all’originale e prezioso lavoro di direzione di Togliatti, una forte capacità di egemonia e di influenza anche su larghi strati di intellettuali, di forze del pensiero e dell’ingegno decisive per lo sviluppo di una nuova democrazia, più ampia, più compiuta e sostanziale. Un clima, di grande fervore e di speranza nelle concrete possibilità di cambiamento delle condizioni di vita del Paese e dello stesso Mezzogiorno.

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L’episodio è citato nel volume di Marco De Marco, L’altra metà della storia : spunti e riflessioni su Napoli da Lauro a Bassolino, prefazione di G. Galasso, Guida Editore, pp 29/31

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In verità, dopo il viaggio in America di De Gasperi del 1947, il capo del governo aveva ottenuto una serie di rassicurazioni dal Governo USA sulla prossima, imminente corresponsione all’Italia di consistenti aiuti finanziari per la sua ricostruzione economica, sociale, industriale. Gli aiuti promessi erano però rigidamente vincolati all’impegno politico di mettere fuori gioco dal governo della politica italiana il PCI, cosa che poi effettivamente avvenne con l’estromissione dei comunisti dal governo che nascerà il 31 Maggio 1947. E’ da allora che verrà assunta la decisione di escludere comunisti e socialisti dalla compagine governativa e che si aprirà una lunga ed aspra fase di scontro, politico e sociale, che si protrarrà nel tempo, con l’elemento costante dei comunisti all’opposizione.

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LA COSTITUZIONE Nel dicembre del 1947 l’Assemblea Costituente approvava, a grandissima maggioranza, con 453 voti a favore e solo 62 contrari, il testo della Costituzione. A questa conclusione si era pervenuti dopo un lavoro particolarmente lungo e laborioso, con ben 170 sedute di discussione. Il 27 dicembre il testo finale veniva firmato dal capo dello Stato Enrico De Nicola. Presidente dell’Assemblea Costituente era il comunista Umberto Terracini e capo del governo Alcide De Gasperi. La Costituzione entrerà in vigore, a pieno titolo, a partire dal 1 gennaio 1948. I contenuti della Carta Costituzionale, per come erano stati formulati e per i grandi principi che vi erano indicati, non intendevano limitarsi - evidentemente- alla mera fotografia della realtà esistente. Indicavano piuttosto un percorso da seguire, progetti, da realizzazione in progressione, di un nuovo Stato, di un tipo di convivenza tra i cittadini che, per mezzo dell’attuazione delle sue distinte norme per tappe successive, dovevano essere assunte quali parametri di riferimento generale e come programmi di azione politica conforme. Le formulazioni e le dizioni in essa contenute indicavano principi e precisi obiettivi da realizzare nel prossimo avvenire, per raggiungere i quali si trattava di attuare la mobilitazione consapevole della coscienza popolare. La Costituzione guardava avanti e richiedeva l’attiva partecipazione di ogni cittadino alla costruzione del nuovo e diverso tipo di società che s’intendeva realizzare. Voleva suscitare energie vive, positive, consapevoli, offrire orizzonti nuovi, non certo il perpetrarsi di una condizione di staticità, morta e passiva. Coscienze entro le quali agisse ed operasse il senso della Polis, della costruzione della polis nuova, moderna, più avanzata. La sua efficacia pratica sarebbe dipesa dal diffuso, decisivo sostegno unitario e popolare della pubblica opinione. La cosa tra tutte più importante, era perciò,innanzi tutto, quella di farla conoscere ovunque nei suoi essenziali contenuti. Senza conoscenza, tentare di attuarla, nei modi e nelle forme che sarebbero stati necessari, sarebbe risultata un’utopia. Era un impianto d’insieme i cui diversi punti erano interconnessi strettamente tra di loro, così da dare vita ad una struttura complessivamente coerente e assai compatta. In essa i concetti essenziali, di libertà e di democrazia, venivano esaltati. Le idee essenziali della Carta, i suoi principi, dovevano entrare nel cuore e nella mente, nel senso comune e nella cultura di tutto il popolo italiano. Un impianto, che affidava la possibilità della propria realizzazione all’esercizio virtuoso di una politica che, nel concreto, agisse ed operasse in maniera alta, nobile, ambiziosa con uno sguardo rivolto al futuro con speranza. La direzione di marcia, che s’iniziava ad intraprendere, doveva essere sicura, l’idea di una società giusta la cui realizzazione avrebbe all’occorrenza comportato, nell’immediato, anche sacrifici, che il futuro avrebbe poi ricompensato. E non ci si poteva pertanto abbandonare all’illusione che il tutto si potesse realizzare per inerzia, senza la messa in moto di lotte e di conflitti. Non si trattava di prendere passivamente atto della realtà per ciò che allora era, in modo neutro, né sottovalutare i rapporti di forza in quel tempo storico esistenti, quanto piuttosto agire ed impegnarsi per cambiarli alla radice. L’anima della Costituzione doveva vivere nel mezzo dei conflitti sociali, rimuovere le origini delle diseguaglianze, le cause e le ragioni. La sua vitalità non poteva esplicitarsi con la quiete, quanto piuttosto col decisivo elemento dell’azione. In sostanza, il suo humus naturale doveva affermarsi per mezzo della quotidiana partecipazione popolare alle vicende collettive del paese. I partiti politici dovevano garantire ed organizzare la cosciente partecipazione del popolo. Non è causale il fatto che, nel periodo in cui si riuscirà a determinare un elevato ed appassionato livello di partecipazione alla vita pubblica, in genere cresceranno le conquiste civili e democratiche. Nelle fasi di abbandono, o di sfilacciamento ed abulia dell’impegno civile, si registrerà un maggiore arretramento ed una sostanziale decadenza. Considerazione, in tutta l’evidenza, ancora ai tempi d’oggi completamente valida. L’impianto di quella legge, per i suoi contenuti di un valore per davvero straordinario, entrerà in vigore, a tutti gli effetti, il 1 gennaio 1948. La carta costituzionale conteneva 28


indubbiamente un complesso di innovazioni assai avanzate, di enorme rilievo per gli espliciti richiami ai contenuti di eguaglianza, libertà, solidarietà, civiltà nel loro genere assolutamente unici. Con essi si poneva in rilievo il salto di qualità che il nuovo Stato avrebbe realizzato dopo la parentesi dello Stato liberale e l’aberrante avventura del ventennio fascista. La Costituzione non era comunque, di per sé, norma giuridica siglata in via definitiva, ma comportava, per il complesso di disposizioni in essa contenute, altrettante più specifiche leggi di attuazione. Era cioè solo l’inizio di un processo, in cui erano necessari ed anzi indispensabili ulteriori passaggi successivi. In realtà, il 7 febbraio 1948, una sentenza delle sezioni riunite della Corte di Cassazione finiva per depotenziarne e diluirne ampiamente l’effettiva applicazione. In quella sentenza veniva introdotta una tripartizione tra le diverse norme costituzionali, tra norme precettive ad applicazione immediata, norme precettive ad applicazione differita, che per dispiegare la loro forza normativa avrebbero richiesto l’intervento attuativo del legislatore, prima del quale non potevano esplicare alcun effetto cogente o abrogativo, e norme direttive, o meramente programmatiche, che si distinguevano da quelle precedenti in quanto lasciavano al legislatore una discrezionalità quasi esclusiva per la loro attuazione.40 Più avanti, ai tempi del “Centrismo” e nel clima della “guerra fredda”, questa sentenza finirà purtroppo per essere frequentemente utilizzata dai governi che si succederanno per rinviare e violare, sistematicamente, la corretta attuazione dei principi costituzionali. La sua sostanza innovativa ne risulterà svuotata né i vari governi che si succederanno ne garantiranno in maniera coerente ed integrale l’attuazione. Più che il diritto al lavoro, garantito come principio a tutti i cittadini e sancito solennemente nel primo articolo della Carta, verrà praticata una dura repressione contro i lavoratori e le forze democratiche che, insieme ai Sindacati, lottando contro le ingiustizie, si battono per la realizzazione concreta della Costituzione nel suo insieme. Continueranno a restare così ancora in vigore, per troppo tempo ancora, norme e codici fascisti, in specie il “Testo Unico di Pubblica sicurezza” del 1931, i cui articoli saranno utilizzati, in modo ampio, dal Ministero dell’Interno, per reprimere scioperi e manifestazioni di protesta. Solo nel 1956 entrerà in funzione la Corte Costituzionale, che avvierà l’abrogazione e la revisione delle norme più odiose e più apertamente anticostituzionali. Tra esse, quelle riferite alla realizzazione di un’effettiva parità tra i sessi, alla pienezza dei diritti politici e civili delle donne. Molto lenta sarà altresì l’evoluzione delle modifiche alle leggi che regolavano il rapporto tra i coniugi arrivando con grande fatica, solo nel 1975, ad un diritto di famiglia più giusto ed equilibrato degno di un paese civile. E’ il caso, a tal proposito, di ricordare che, fino al 1963, le donne continueranno ad essere escluse dalla possibilità di accesso alla Magistratura ed alle altre alte cariche pubbliche. Nel 1961 la Corte Costituzionale aveva confermato che era reato l’adulterio compiuto dalla donna che come tale andava perseguito. Cosa che non valeva, alla stessa maniera, per l’uomo. Una legislazione più equilibrata in proposito, nel senso della definizione di eguaglianza di valutazione tra entrambi i coniugi, si realizzerà ben più avanti, nel 1968, con un diverso pronunciamento della Corte.

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Il dettaglio di tale spiegazione trovasi in S.Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna, 2004, pp.41 e ss

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LE ELEZIONI DEL 18 APRILE 1948 Nel giugno del 1947 il Generale George Marshall, segretario di Stato americano, aveva proposto la realizzazione di un consistente piano di aiuti economici all’Europa per la Ricostruzione. Il progetto prevedeva lo stanziamento di 14 miliardi di dollari in 4 anni- in larga parte a titolo gratuito o per mezzo di prestiti a condizioni molto vantaggiose- per l’acquisto di generi alimentari, macchinari, materie prime. L’utilizzo degli aiuti era condizionato, nel senso che esso sarebbe stato attivato a patto e a condizione che il governo italiano operasse in funzione esplicitamente anti socialcomunista. Un condizionamento, questo, che agì in maniera pesante in occasione della campagna elettorale dell’Aprile del 1948- “ Il Pane che mangi è fatto al 50% da farina americana”, lo slogan martellante che si sentirà ovunque nel paese durante la consultazione elettorale. Marshall dichiarò personalmente che gli aiuti sarebbero stati sospesi nel caso di una vittoria social comunista alle elezioni.41 Sarà l’antefatto che più avanti, nel marzo del 1949, condurrà il paese all’adesione alla Nato (North Atlantic Treaty Organization), nonostante la netta opposizione esercitata dalle forze di sinistra. Si sarebbe stabilita, da allora in poi, l’egemonia americana sull’Europa Occidentale, suffragata da accordi militari. L’intesa comprendeva, in un’unica alleanza, i principali paesi occidentali del tempo, Canada, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Norvegia, Lussenburgo, Danimarca, Islanda, Portogallo, Grecia, Turchia e, più avanti, la repubblica Federale Tedesca. Alla luce dei fatti ed in relazione al tempo ormai trascorso che consente una riflessione più pacata ed oggettiva, sembra indiscutibile la duttilità e lungimiranza di Palmiro Togliatti, senza alcun dubbio un grande leader ed un politico di particolare intelligenza e acume. Anzitutto per il fatto di avere escluso l’ipotesi di trasferire all’Italia, in maniera rigida, meccanica e passiva, il modello sovietico delle modalità della rivoluzione e della presa violenta del potere. Poi per avere individuato una strada originale, non scissa ma profondamente legata alle specificità della storia nazionale, che non escludeva, ma anzi che auspicava, la realizzazione di un socialismo fondato sul pluralismo e sul pluripartitismo, sulla libertà civile, di stampa, associazione e religione. Togliatti auspicava la creazione di una società in cui la democrazia si sarebbe espansa in maniera sempre più ampia e progressiva proprio grazie alla sollecitazione ed alla più ampia ed attiva organizzazione della partecipazione popolare ai vari passaggi cruciali della storia del Paese. Inoltre, e forse è questa tra tutte una delle ragioni di maggiore rilievo e più importanti, per aver evitato brusche accelerazioni dello scontro che avrebbero potuto prevedere, per la realizzazione di un nuovo Stato proletario, finanche il ricorso alla lotta armata. In tal senso è evidente come egli sfuggì più volte, anche ma non solo in occasione dell’attentato di cui fu fatto oggetto, a semplificazioni e scorciatoie di tipo greco, alla tragica vicenda conclusasi non a caso in maniera sanguinosa e negativa per le forze combattenti d’ispirazione comunista.42 La lungimiranza ed il realismo politico dimostrati nel modo di interpretare quel passaggio delicato della storia politica italiana saranno compresa sempre di più e meglio col trascorrere del tempo. Non c’era alcuna efficace alternativa a quella lucidamente elaborata con “La via italiana al Socialismo”.

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Nota su Pietro Nenni In Grecia, tra il 1946 ed il 1949, scoppiò una violenta guerra civile che vide contrapposti il governo monarchico greco, massicciamente sostenuto dall’esercito inglese e dagli USA, e l’ELAS ( Esercito democratico greco), a larga egemonia comunista e coadiuvato dai partigiani jugoslavi, che aveva dato luogo ad un governo clandestino alternativo guidato da Markos Vafiadis. I monarchici controllavano Atene e le altre principali città greche, il DSE il restante 70% del territorio. I comunisti furono sconfitti ed in gran parte massacrati. Solo nel Peloponneso vennero uccisi 20.000 combattenti comunisti con il totale annientamento della III Divisione. Nella dura repressione, oltre alle stragi compiute dalle forze anglo- americane, si distinse il generale monarchico Alexander Papagos. Pesò molto la rottura che si era consumata, nel fronte comunista internazionale, tra Tito e Stalin, che comportò la drastica riduzione degli aiuti militari ai comunisti greci. La guerra civile comportò complessivamente oltre 80.000 morti, tantissimi feriti, innumerevoli profughi. Sulla vicenda illuminante il film La Recita, di Theo Anghelopulos. 42

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Ora, dopo la breve fase di collaborazione tra le diverse forze antifasciste, la nuova frattura dal livello internazionale si trasferiva pesantemente nella realtà nazionale. Togliatti, dopo la rottura voluta dalla DC, non era più ministro di grazia e giustizia. IL PCI fuori dalla compagine governativa. Frattanto si avvicinava, a tappe forzate, nel 1948, la data delle elezioni politiche che, il 18 Aprile, vide frontalmente e duramente contrapposte le forze raccolte intorno al Fronte Popolare e della DC. Nella competizione elettorale entravano in campo,direttamente e prepotentemente, la gerarchia ecclesiastica e la Chiesa, in tutte le sue articolazioni, nazionali e locali, fortemente spalleggiate dai comitati civici di Gedda. Il mondo cattolico percepiva nel PCI il proprio nemico mortale ed il Vaticano avviava la sua crociata integralista in un clima di odio rissoso e lacerante. La tensione ed il livello di scontro tra fronti contrapposti appariva fortissimo e, per conseguire la vittoria, venne messo in campo ogni possibile strumento. Esplicative al proposito la serie di manifesti e radiogiornali che dipingevano a forti tinte la sinistra, i socialisti e i comunisti, come mera espressione dei senza dio, fautori di violenza cieca e pronti, in caso di vittoria, all’esercizio di ogni vessazione. Quel clima avrà le sue ripercussioni ovunque, anche, come vedremo, nel piccolo centro di Forenza. La scadenza elettorale era d’altronde oggettivamente assai importante: L’Italia era politicamente e per collocazione geografica il primo crocevia tra i due grandi blocchi di forze antagoniste che, dall’indomani della fine della guerra, avevano iniziato a fronteggiarsi duramente ed in maniera alternativa e contrapposta. Si è già ricordato come gli USA avessero più volte esplicitamente dichiarato di essere pronti a intervenire, all’occorrenza, anche direttamente in maniera militare, in caso di vittoria del PCI e del Fronte Popolare in Italia. Lo schieramento di sinistra era in realtà assai ottimista e molto fiducioso nell’esito della campagna elettorale. I comizi del Fronte radunavano una massa imponente di persone, in specie ma non solo operai e contadini. Una valutazione sbilanciata e non realistica che la cruda durezza del reale mostrerà poi gravemente errata. I toni dei leader dei due schieramenti erano stati, nel corso di tutta la campagna elettorale, particolarmente forti ed aggressivi. De Gasperi aveva parlato di Togliatti e del “suo piede forcuto”. Togliatti aveva replicato che si sarebbe fatto “chiodare le scarpe” per colpire De Gasperi in quella parte del corpo che non vede il sole. Lo avrebbe cacciato così, per sempre, in via definitiva, dalla guida del paese. Il Fronte Popolare aveva nel suo simbolo la testa di Garibaldi. In un recente convegno organizzato dall’Associazione “Agorà” all’Università di Fisciano ( Salerno) Ciriaco De Mita ha lucidamente commentato come lo scontro fu allora particolarmente aspro ed ha confermato come la frontale contrapposizione che si determinò prefigurò addirittura l’ipotesi del ricorso alla guerra civile nel caso di vittoria comunista. La pace, si diceva da più parti, sarebbe stata in quel caso seriamente in pericolo. La pace che tra tutti i beni è il più prezioso. Da ragazzo il nonno aveva un giorno spiegato al giovane Ciriaco come con la guerra si perdeva tutto. E che pertanto bisognava sempre battersi per mantenere il bene supremo e superiore della pace, condizione essenziale e decisiva di progresso per ogni comunità di cittadini.43 A proposito poi della situazione politica del 1948 e dell’aspro scontro che si verificò, lo stesso relatore ha sostenuto la tesi secondo cui “ Nel 1948 lo scontro era vero, vissuto con fanatismo. Nessuna campagna elettorale è stata più vissuta con quella partecipazione emozionale e quella straordinaria intensità. “Ero studente autodidatta,” ricorda De Mita, “… mi preparavo agli esami di licenza liceale, smisi di studiare per le elezioni, ma recuperai dopo : avevo il dovere di studiare più che la necessità. Allora c’erano i costituzionalisti, non i politologi. Quella legislatura ebbe comunque il merito di porre le premesse 43

Il ripudio della guerra come strumento per risolvere eventuali controversie insorte tra distinti Stati è espresso nell’articolo 11 della Costituzione Italiana.

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per l’integrazione europea, attraverso l’opera entusiasmante di De Gasperi, intelligente nello scegliere persone capaci e non per appartenenza. Oggi la selezione è dall’alto e ciò è negativo, mentre la crescita è dialettica”44 In conclusione, nell’aspro scontro la DC conseguì una grande vittoria, riuscendo ad ottenere ben 12 milioni e 700.000 voti, il 48,7 % dell’elettorato, nel mentre il Fronte Popolare raccoglieva solo il 30% dei consensi. Fu la grande, indiscussa vittoria di Alcide De Gasperi che rinsaldò la presenza dell’Italia nel blocco occidentale e l’alleanza organica col governo americano. Einaudi venne eletto Presidente della Repubblica e l’8 maggio De Gasperi ricevette l’incarico di formare il governo. Il PCI chiese di invalidare le elezioni a causa delle grandi pressioni che il fronte opposto con la Chiesa aveva esercitato in maniera coercitiva contro la libertà degli elettori, una posizione, in verità, di mera propaganda che non poteva portare ad alcun valido e conseguente risultato. In quei frangenti si era registrato un violento attacco a Togliatti da parte del PSDI di Saragat, l’antefatto della scissione socialdemocratica nel campo socialista che indebolirà ulteriormente il sistema di alleanze del Fronte Popolare.45 L’Unione Sovietica, il grande paese dei Soviet, proprio nel 1948, accentuando a propria volta l’assetto autoritario e la forte coercizione sulle nazioni del “Patto di Varsavia”, avrebbe portato a compimento il colpo di Stato in Cecoslovacchia. Era, in ordine di tempo, l’ultimo atto brutale dello stalinismo, configuratosi sempre più quale strumento di governo duro, vessatorio ed oppressivo. Il clima di terrore che era stato instaurato nel paese e che veniva praticato dalla direzione del Partito, col braccio operativo della polizia segreta, aveva addirittura indotto, in molti casi, a liquidare quei comunisti dei paesi alleati non inclini a perseguire passivamente una linea in toto coerente coi dettati del Cremlino.46 Una storia, tragica e terribile, che in conclusione finirà per oscurare, in maniera pesante, l’indubbio prestigio che l’Urss aveva conseguito nella definitiva sconfitta del nazismo, nella salvezza dell’Europa e del mondo dalla schiavitù.

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Il Corriere del Mezzogiorno, 6 giugno 2012 La scissione di Palazzo Barberini avverrà l’11 gennaio 1947. Alla base di tale decisione, che avrà come maggiore protagonista Giuseppe Saragat, è il dissenso che si registra nelle file del PSI a proposito del rapporto con L’Unione Sovietica, ritenuto troppo subalterno e, di conseguenza, col PCI schierato allora senza incertezze dalla parte dei sovietici. Bersaglio principale del conflitto interno ai socialisti è il segretario Pietro Nenni che invece ha auspicato il patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti lasciando prefigurare la possibilità di procedere all’unificazione delle due formazioni in un unico partito dei lavoratori. Saragat nel gennaio 1947 abbandonerà il Psiup per fondare il PSLI ( partito socialista dei lavoratori italiani), unirà poi le sue forze a quelle del PSU di Giuseppe Romita, dando vita al PSDI ( Partito social democratico italiano). Da allora in poi questa formazione si avvicinerà sempre di più alla DC, collaborando a lungo nei governi a guida democristiana. Di converso, i socialisti di Nenni si batteranno insieme ai comunisti all’interno del Fronte Democratico Popolare nelle elezioni del 18 aprile 1948. La presa di distanza dai comunisti avverrà solo nel 1956, in seguito alle rivelazioni del rapporto Kruscev, a latere del XX Congresso del PCUS e dei fatti d’Ungheria. 46 Arthur London, comunista cecoslovacco sottosegretario al ministero degli esteri, pubblicherà il libro autobiografico La Confessione,Editore Gallimar, Paris, 1968. In esso, in maniera estremamente cruda, si narra del suo arresto, avvenuto nel 1951, a seguito dell’accusa, completamente falsa ed inventata, di cospirazione contro lo Stato. In verità essa è stata costruita a fronte del tentativo di avviare una politica più autonoma rispetto all’Urss. London, imputato insieme a Rudolf Slansky ed altri 13 dirigenti comunisti cechi, sarà sottoposto a torture in seguito alle quali confesserà colpe inesistenti. Condannato all’ergastolo, verrà riabilitato e scarcerato all’indomani della morte di Stalin. Dal libro è tratto l’omonimo film di Costa Gravas, magistralmente interpretato da Yves Montand e Simone Signoret. Uno dei più terribili atti di accusa contro lo stalinismo. 45

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14 LUGLIO 1948: L’ ATTENTATO Il 1948 è in ogni caso un passaggio di svolta fondamentale nella storia italiana : è infatti l’anno della Costituente e delle prime elezioni libere dell’Italia Repubblicana dopo il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale, ma è anche quello in cui l’Italia giunge ad un passo dalla guerra civile dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. La mattina del 14 luglio il Segretario Generale del PCI è gravemente ferito dai colpi di pistola sparati da un giovane studente siciliano, Antonio Pallante. L’attentatore era partito da Randazzo, il suo paese in provincia di Catania, per recarsi a Roma. Si trattava di uno studente fuori corso che nella campagna elettorale aveva parteggiato per il movimento de “L’Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini. Per il viaggio a Roma aveva raccolto 9.000 lire. Da quanto poi si potè ricostruire, sembra che portasse con sé una pistola, la stessa che userà per sparare contro Togliatti. A Roma era andato a Via del Macao, per poi recarsi, sempre la mattina, da lì direttamente in via Botteghe Oscure. Aveva intenzione di parlare personalmente con Togliatti. Si era sentito rispondere che non era possibile, dati i numerosi, contemporanei impegni del capo comunista. Il giovane non aveva desistito dal suo piano e si era recato direttamente al Parlamento. Era il 14 Luglio 1948, alla Camera era in corso una concitata discussione sui modi più idonei di finanziamento per la carta dei giornali. Alle 11,45 Togliatti, accompagnato da Nilde Iotti, era uscito dalla Camera dei deputati da una porta secondaria. Pallante lo aveva riconosciuto e gli aveva sparato contro 4 colpi a bruciapelo. Tre erano andati a segno. Togliatti, ferito gravemente, veniva soccorso ed immediatamente trasportato al Policlinico per essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico. La situazione era apparsa subito assai grave. L’organo ufficiale del PCI, “L’Unità”, usciva con un’edizione straordinaria denunciando l’attentato come conseguenza del clima di odio diffuso da tempo, indiscriminatamente e a piene mani, ed informando che “Il Migliore” era prossimo alla morte. Il giornale ricostruiva il clima di odio e di rancore sordo da cui era scaturito il gravissimo atto di aggressione. Il paese si mobilitò contemporaneamente in molte piazze. Roma fu subito nel caos! Migliaia e migliaia di persone! Ovunque c’era aria di rivolta! La notizia dell’attentato si diffuse in un baleno per tutto il paese e mosse alla rivolta il popolo di sinistra, con molte ripercussioni in varie città della Penisola. La Cgil proclamava lo Sciopero Generale. Il moto spontaneo sembrava il prodromo dell’insurrezione popolare generale! Per due giorni uno stato d’ansia febbrile e generalizzata percorse dal Nord al Sud tutta la nazione. Si temette seriamente per le sorti della giovane democrazia italiana. Il chirurgo Valdoni alle 15 si preparava all’intervento. Le condizioni del ferito sempre assai gravi. I manifestanti si erano armati di pistole, fucili, bombe a mano. Alle 15,30 il PCI chiedeva ufficialmente a De Gasperi le dimissioni del Governo. Bruciava l’Italia intera! Ovunque in piazza un oceano di gente, a Milano, Bologna,Genova, Torino. A Napoli si ebbero due morti negli scontri tra manifestanti e polizia. I partigiani al Nord si erano armati ed erano di nuovo in campo. Il rischio di un autentico bagno di sangue purtroppo era reale. La rivolta si espandeva a macchia d’olio, dal Nord al Sud. Sull’Amiata si combattè per due giorni di fila per la conquista della centrale telefonica. Controllando quella postazione, si poteva spaccare il paese in due. Lì due poliziotti furono uccisi dai manifestanti. A Venezia la RAI veniva devastata. Ad Arezzo si ebbe l’assalto al carcere con la liberazione dei detenuti. Alle 17, dopo tre ore di intervento, Valdoni posava sul comodino tre proiettili estratti dal corpo di Togliatti. L’intervento aveva avuto per fortuna esito positivo, ma le condizioni del dirigente comunista continuavano ad apparire critiche. A Torino gli operai avevano occupato gli uffici di Valletta. Le fabbriche in sciopero, la produzione fermata, bloccati treni e mezzi pubblici. 33


La tensione nel paese era ovunque altissima, l’equilibrio instabile, pronto a precipitare in maniera rovinosa. E’ in quel contesto che, la sera del 14 luglio, giungeva una notizia assolutamente sorprendente ed inattesa. Al Tour di Francia, Bobet era in vantaggio di 21 minuti su Bartali. Il 15 luglio il ciclista toscano, con una vittoria per dimensioni imprevedibile, superava il francese aggiudicandosi il giro di Francia. Per una volta era lui, e non Fausto Coppi, l’uomo solo al comando. Nella vulgata popolare, in quei giorni convulsi all’eccezionale episodio sportivo si attribuirà il merito di aver concorso, in maniera decisiva, a fare progressivamente decantare la grande tensione accumulata. Era un evento che, obiettivamente, dopo le tante lacerazioni, sembrava riuscire, per un momento almeno, a unificare finalmente gli italiani. In effetti, da quel momento in poi, la tensione iniziò progressivamente ad attenuarsi. Il 15 luglio le forze parlamentari di opposizione avevano messo duramente sotto accusa Scelba, ministro degli interni che, in quei giorni, aveva mobilitato una forza imponente, di 200.000 uomini, per garantire, con ogni mezzo, l’ordine pubblico. In realtà in quei frangenti la Direzione del PCI si era spesa all’unanimità per evitare che la situazione imboccasse la strada rovinosa del non ritorno. Lo sciopero generale avrebbe dovuto avere, per la direzione comunista, la durata di 24 ore. La protesta, anche dura, andava bene. Tuttavia non bisognava credere che fosse giunta in quel frangente l’ora per scatenare l’assalto finale armato per la conquista del potere. D’altronde lo stesso Togliatti, appena fu in grado di riprendere coscienza, informato di ciò che stava succedendo nel paese, con sangue freddo sorprendente ed una lucidità eccezionale, aveva chiesto - con un filo di voce- dal letto di ospedale- di mantenere i nervi saldi ed invitato gli scioperanti “ a non perdere la calma, a non fare fesserie”. La situazione poteva degenerare, trasformarsi in un immenso bagno di sangue rovinoso. Mario Scelba reagì in quei giorni convulsi accentuando l’atteggiamento di durezza e spinse per il trasferire tutto il potere ai militari. Decisivo risulterà, in quei frangenti, l’appello di Giuseppe Di Vittorio ai lavoratori perché tornassero nei ranghi. Il 16 luglio la rivolta sembrò in larga parte placata. Il 19 luglio Togliatti, finalmente fuori pericolo, rivolto ai lavoratori e agli attivisti, rassicurò il paese sulle proprie condizioni di salute e promise che, appena possibile, sarebbe tornato al suo consueto posto di lavoro. La guerra civile era per fortuna scongiurata…! Quelle giornate comunque furono drammatiche, il punto più alto della crisi nazionale e della Repubblica dei tempi più recenti. Il bilancio finale risultò assai grave : 30 morti, 800 feriti, 7.000 arresti, processi e condanne per molti anni di carcere. Pallante, contro la tesi del complotto, dichiarò di avere agito da solo, di propria iniziativa. Al processo, intentato contro di lui, verrà condannato a 13 anni in prima istanza, poi a 7 ed infine vedrà ridotta in Cassazione a soli 4 anni la sua pena. Più avanti verrà riabilitato pienamente e con la giustizia non avrà più alcun problema. All’indomani del tragico attentato a Togliatti, molteplici furono le prese di posizione pubbliche che si manifestarono un po’ in tutte le sedi del dibattito politico. Intervenne tra gli altri Sandro Pertini, più avanti destinato a diventare Presidente della Repubblica Italiana che su “Rinascita”, la rivista teorica dei comunisti italiani, scrisse di proprio pugno e di getto un pezzo intriso di sdegno e passione civile assai profondi.47 In esso riconosceva a Togliatti un ruolo rilevante ed anzi decisivo nella lotta per il ripristino della libertà e della democrazia in Italia, messe tragicamente a repentaglio dall’avventura fascista e dall’occupazione del suolo nazionale da parte delle sanguinarie orde naziste. Dava atto altresì alla sua capacità di ragionare fuori da ogni ristretto e gretto spirito di parte così da riunire, in un unico fronte compatto, le forze antifasciste nazionali. Insisteva inoltre sul fatto che era del tutto condivisibile l’opzione del “ Migliore” nel costituire, dopo la caduta del fascismo, un governo di cui facessero parte tutte le formazioni antifasciste. Riconosceva infine il suo ruolo 47

Sandro Pertini, L’attentato del 14 Luglio- Le origini e i responsabili, In “Quaderni di Rinascita”, n.4, Trenta anni di vita e lotte del PCI, Istituto Poligrafico, Roma 1949 ; pp.223-224;

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insostituibile nel cercare di svelenire, al massimo possibile, il clima d’odio che si era instaurato nel paese e che aveva per lungo tempo imprigionato gli italiani. Togliatti, in qualità di Ministro di Grazia e Giustizia, era giunto finanche a firmare un atto di clemenza volto a realizzare la pacificazione nel popolo italiano. A fronte di una tale responsabilità si era invece reagito con una campagna quotidiana, di odio dissennato, incentrata perfino sulla insistente richiesta della messa fuori legge del Partito che, per il ripristino della libertà, nella lotta armata, aveva versato il sangue di migliaia dei suoi figli per un futuro più giusto per tutti i cittadini, per un destino migliore dell’infelice nazione. Un atto ed un comportamento che avevano ridato alla Patria orgoglio e dignità, risparmiandole l’umiliazione meritata che invece, nell’immediato secondo dopoguerra, aveva subito la Germania. Invece, dai vari organi di stampa asserviti al regime democristiano, aggiungeva Pertini, si era insistito, in maniera ossessiva, sul fatto che Togliatti andava considerato alla stregua di un nemico mortale della nazione, sul fatto che “Il Partito Comunista è fuori legge e che Togliatti e i comunisti debbono essere messi al muro”. Simili concetti erano stati esposti su “L’Umanità”, il giornale di Saragat, vice presidente del Consiglio del IV e V Governo De Gasperi. Con questa campagna d’odio dissennata contro i “fuorilegge” tutto diventava lecito ed ammesso. Chi avesse commesso un atto simile poi poteva essere certo di non ricevere la dovuta pena. “ Ed allora, Onorevole Porzio, contro i fuorilegge tutto è lecito! Ed allora ecco che ci sono dei fanatici, dei criminali, degli esaltati che pensano di ben meritare se colpiscono i fuorilegge”. Atto gravissimo che “ chi lo ha consumato era consapevole di compiere…perché non avrebbe ricevuto punizione, ma forse il plauso”. Pertini concludeva “ Comunque, onorevole vice presidente, non ci interessa costui: egli non è che un esecutore materiale del delitto. La responsabilità morale di questo delitto ricade, per noi, sul governo”. Il futuro Presidente infine ricordava come in passato, di fronte all’avanzata fascista ed all’imminente pericolo della dittatura, si era commesso l’errore di restare fermi, passivi, in fatale attesa degli eventi. Errore che non si sarebbe più ripetuto. “La vita per sé stessa nulla conta, ma conta l’idea che la illumina”. L’idea della libertà, da difendere ad ogni costo, rinsaldando ancora di più ed oltre l’unità delle sinistre e di tutte le forze di progresso sinceramente schierate in difesa della democrazia. Antonio Sileo ricorda con estrema nitidezza l’insieme delle sensazioni e delle emozioni che il grave episodio causò nella coscienza dei militanti e del paese. Nitida la sua lettura e l’interpretazione di quel fatto: Togliatti era stato colpito per aver lottato in difesa della classe operaia italiana, per aver lottato contro le tante menzogne che i poteri forti, con la stampa asservita, diffondeva, in via quotidiana, contro il movimento dei lavoratori, per bloccare l’avanzata democratica del mondo del lavoro, per interrompere i successi e le avanzate che con le lotte si erano andati a realizzare. Mettendo violentemente a rischio la sua vita si voleva far tacere per sempre una voce autorevole che si batteva per l’emancipazione e per la libertà. Un atto nefando che, per fortuna, non giunse ad un definitivo, conclusivo epilogo luttuoso.

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IL DECENNIO 1940-1950, ALCUNE OSSERVAZIONI All’inizio della guerra era cresciuta la produzione industriale per il cui finanziamento il governo aveva fatto ricorso ad un aumento delle imposte ed alla collocazione forzata dei titoli di stato. L’industria degli armamenti era rimasta però debole e la sua produzione appariva inadeguata per le esigenze delle forze armate. La difficoltà di approvvigionamento delle materie prime ed il dissesto delle reti di trasporto, dovuto ai ripetuti bombardamenti delle forze alleate, incideva ulteriormente sulla produzione che diminuiva ancora maggiormente. Il paese, diventato teatro di guerra, vede decrescere, insieme alla produzione industriale quella agricola. La disoccupazione censita riguarda 2 milioni di persone e si accende l’inflazione. I prezzi, già raddoppiati nel periodo tra il 1938 ed il 1943, negli ultimi due anni di guerra crescono a dismisura. Una delle ragioni fondamentali di ciò è dovuta all’uso dell’emissione di Amlire, la moneta dei militari alleati, usate per pagare stipendi ed acquisto di beni e servizi. I prezzi aumentano di ben 20 volte. Alla fine del conflitto la forbice di inflazione e disoccupazione rappresenta l’elemento di difficoltà più stridente che attanaglia l’insieme del paese, che appare piegato anche a causa delle grandi distruzioni subite da impianti industriali, ferrovie, strade, civili abitazioni. Meccanico e siderurgico i settori più colpiti, entrambi decisivi per l’avvio della ricostruzione. La mancanza di combustibile e di materie prime è l’ulteriore ostacolo nell’avvio del processo di ripresa dell’economia. Per bloccare la fiammata inflazionistica si ricorre alla secca riduzione della spesa pubblica e si cerca di rendere più agevole il ricorso al credito da parte delle imprese che cercano di riavviare la propria attività. Il movimento sindacale, per dare il proprio contributo alla rinascita, accetta la tregua salariale. Eppure ciò non risulterà fattore sufficiente a fermare l’inflazione. Nell’agosto 1947 Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia, attua una decisione drastica incentrata sulla restrizione del credito e sulla svalutazione monetaria, cercando di ottenere in tal modo la riduzione dei prezzi, l’aumento delle esportazioni, la riduzione delle importazioni, il rientro dei capitali dall’estero. La manovra restrittiva produce un forte aumento della disoccupazione che, alla fine del decennio, intorno al 1948, si attesta al 20% della forza lavoro complessiva. La depressione economica si protrarrà fino al 1950, quando, in seguito alla guerra di Corea ed alla ripresa internazionale che ne deriverà, la produzione tornerà finalmente ai livelli di anteguerra.

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LA CASSA DEL MEZZOGIORNO Il movimento dell’occupazione delle terre era stato originato dall’esistenza di un situazione di particolare debolezza strutturale della condizione di vita dell’intera regione Basilicata di quegli anni. La regione viveva una condizione di estrema povertà, ben superiore a quella del resto del paese ed anche peggiore di quanto accadeva nelle altre aree dello stesso Mezzogiorno. Migliaia di contadini, edili, braccianti furono i protagonisti principali della lotta per il riscatto di quelle terre e dell’insieme di quelle comunità. In verità, in Basilicata, come in genere in tutto il mezzogiorno, la strategia di sviluppo impostata agli inizi degli anni 50 avrà alcuni effetti positivi indiscutibili. Saranno infatti realizzate opere pubbliche e infrastrutture, la Cassa del Mezzogiorno effettuerà vari interventi di bonifica e costruirà acquedotti, aumenterà la stessa produttività globale nell’agricoltura. In genere, il benessere sociale iniziava ad aumentare. Si riduceva l’analfabetismo e finalmente cominciava a decrescere l’entità della mortalità infantile. Eppure era ancora netto il divario rispetto alle aree più evolute del paese, forte la distanza civile, economica, produttiva, di qualità dello sviluppo rispetto al resto della società italiana. Nel 1953 “L’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia”48 faceva rilevare come ben il 57% delle famiglie lucane versasse in una condizione di assoluta miseria ( rispetto all’11% della media italiana); il reddito medio per abitante era poco più della metà del reddito nazionale; il 64% delle famiglie lucane non poteva accedere al consumo della carne; la mortalità infantile, nonostante i miglioramenti non irrilevanti conseguiti, raggiungeva ancora il 120 per 1000; la durata media della vita a stento arrivava a 42 anni. Inoltre, particolarmente riprovevole appariva la condizione di crisi delle abitazioni, con un indice di affollamento delle case elevatissimo. Spesso nelle campagne quelle rudimentali abitazioni erano fatte di sole frasche e fango. In ogni caso è quello il periodo in cui s’inizieranno a svuotare i sassi di Matera e si darà una sistemazione abitativa più civile a chi aveva vissuto lì fino ad allora.49 Nel 1950, comunque, il varo della Cassa del Mezzogiorno e la sua strumentazione operativa consentiranno la realizzazione di una serie di opere straordinarie di pubblico interesse per il Mezzogiorno d’Italia. Si prevedevano, allo scopo, forti investimenti mirati, di 1280 miliardi di lire, dei quali i primi 1.000 miliardi avrebbero dovuto essere erogati nei primi dieci anni e che in sostanza sarebbero stati utilizzati per avviare la progressiva riduzione del gap negativo che quella parte del paese aveva accumulato nei decenni passati rispetto al Centro- Nord. Nella fase iniziale la prima, corposa trance di finanziamenti sarebbero stati destinati soprattutto alle bonifiche ed alla costruzione delle infrastrutture essenziali. Strade, acquedotti, ferrovie, fognature di cui il Sud era drammaticamente carente.50 All’inizio, l’attenzione del legislatore si concentrò essenzialmente nei settori dell’agricoltura, della viabilità, dei servizi. La costruzione di una condizione di miglioramento ambientale avrebbe dovuto favorire l’altro aspetto fondamentale e decisivo d’intervento rivolto alla creazione di una forte spinta ad un grande processo di industrializzazione, questione messa meglio a fuoco nel 1957 da cui poi deriverà l’esperimento della politica dei “Poli di sviluppo”. Si sarebbe proceduto all’individuazione di una serie di centri urbani dell’Italia Meridionale in cui sarebbero stati concentrati investimenti industriali, pubblici e privati, atti a garantire la riscrittura di una realtà e di un’identità economico- sociale fino ad allora a 48

Gaetano Ambrico- Rocco Mazzarone, Monografia su Grassano, in Nino Calice, op. cit. pp.116-117; I Sassi di Matera 50 Più nel dettaglio, si prevedeva la spesa di 50 miliardi per opere di sistemazione montana; 440 miliardi per opere di bonifica e irrigazione; 280 per opere di trasformazione agraria; la spesa di 90 miliardi per opere stradali; 110 per acquedotti e fognature; 30 per opere di interesse turistico. Il totale degli investimenti previsti arrivava in tal modo a 1000 miliardi; Il dato viene richiamato nel volume di Luca Bussotti, Storia politica ed analisi sociologica, Rubbettino Editore, 2003 49

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larga prevalenza agraria e contadina. Non è il caso di seguire nel dettaglio, in questa circostanza, il grande confronto e lo scontro che si manifestò allora, tra forze di governo e opposizione, sulla bontà degli interventi programmati. E’ opportuno ad ogni modo ricordare che poi, nel 1957, sarà varata la legge 634, che prevedeva la creazione di un sistema di incentivi di tipo finanziario, quali contributo a fondo perduto e mutui a tasso agevolato. Aveva iniziato a quel punto a definirsi, sebbene in via embrionale, una nuova e diversa idea dello sviluppo che lasciava intravedere la possibilità dell’industrializzazione anche per lo stesso Mezzogiorno e per la Basilicata. Era il nuovo impianto di un diverso meridionalismo, di cui era principale ispiratore Pasquale Saraceno, che individuava per la mano pubblica un ruolo di promozione d’interventi finanziari mirati e l’obbligava, tra l’altro, alla localizzazione del 40% dei propri investimenti generali, anche dei grandi gruppi privati, proprio nel Mezzogiorno del Paese. Sembrava dovesse finalmente iniziare a prevalere una linea di una programmazione generale d’interventi atta a privilegiare, contro ogni segmentazione e particolarismo, l’importanza da attribuire all’interesse generale. La prefigurazione di ciò che sarebbe più avanti diventata la politica di promozione di alcuni, definiti, poli di sviluppo industriale. Comunque, anche per questa strada, agli inizi degli anni ‘50, venne impiantato un meccanismo di crescita dall’alto che avrebbe potuto avere, a consuntivo, più fortuna. In genere aumentò l’occupazione, crebbe il benessere, si elevò il livello di reddito medio delle famiglie. Persisteva tuttavia il vizio d’origine dell’operazione, ovvero il fatto che in sostanza si trattò di un trasferimento di parti di funzioni produttive il cui cervello direttivo restava saldamente concentrato al Nord. E ciò non consentiva l’attecchire in loco di forme di sviluppo auto propulsivo conseguibili soltanto grazie ad una nuova e diversa impostazione di politica economica nazionale. Così s’ipotecò, in partenza e in negativo, l’ambizioso tentativo messo in moto. In ogni caso, dagli anni ’60 in poi si tentò di correggere quell’impostazione e di inserire gli interventi straordinari per il mezzogiorno all’interno di un organico piano economico più ampio. I risultati furono abbastanza incoraggianti e positivi fino a quando la crisi petrolifera del 1973-1974 mise in evidenza una situazione di generale difficoltà che iniziò ad abbattersi sul sistema industriale italiano. La legge sarà prorogata fino al 1984, con la legge n.64 del 1986, che trasferiva all’intervento ordinario l’esecuzione della quasi totalità delle infrastrutture. La Cassa veniva sostituita dalla Agenzia per la promozione dello sviluppo nel Mezzogiorno, col compito di incentivare l’iniziativa privata. Ad ogni modo la ristrutturazione delle imprese che poi si rese necessaria, che ne derivò di conseguenza e per necessità, più che riorganizzare e ripensare l’organizzazione e la riqualificazione del sistema industriale meridionale nel suo insieme, condusse puntualmente al suo sostanziale sacrificio. Aziende manifatturiere giovani, sorte come sfida all’arretratezza di sviluppo che aveva a lungo segnato il Meridione, finirono per chiudere, in pressoché tutti i settori, l’una dopo l’altra, in una successione spaventosa. Un’agonia che si trascinò a lungo ma il cui esito finale era indubitabilmente da troppo tempo scritto. Né si affermò, in maniera alternativa, un tipo di sviluppo differente, incentrato sulla bontà e la qualità dell’imprenditoria locale, che non solo non riuscì ad affermarsi e ad emergere in maniera autonoma e virtuosa ma che anzi apparirà sempre di più come del tutto assente, subalterna, residuale. Essa non riuscirà a dare vita, tranne che in rarissime occasioni, a nuove imprese, competitive e d’avanguardia, in grado di reggere ed agire operosamente ed in maniera vincente nel libero mercato. In particolare fallirà, in maniera per davvero drammatica, la politica pubblica, incentrata sul sistema delle Partecipazioni Statali che progressivamente abbandoneranno, del tutto e irreversibilmente, il Meridione. Una grande occasione drammaticamente e colpevolmente sprecata.51 51

L’intervento della Cassa del Mezzogiorno è obiettivamente emblematico dei numerosi tentativi messi in essere, dall’unità d’Italia in avanti, per ridurre le grandi differenze esistenti tra il Sud ed il centro nord del paese. Una situazione rimasta in sostanza invariata e che appare, per la scarsità dei risultati conseguiti, in stridente contrasto con ciò che è accaduto in Germania, in un paese che -come il nostro- ha realizzato tardi la propria unificazione. Esso tuttavia,

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AL CONGRESSO DELLA FIGC- L’INCONTRO CON BERLINGUER Nel 1952 Antonio si era iscritto alla Figc, l’organizzazione dei giovani comunisti, e da quel momento in poi il suo impegno era diventato costante e quotidiano. Prendeva contatto coi giovani, faceva propaganda, organizzava le adesioni, partecipava alle manifestazioni dei giovani e del partito. Per alcuni anni sarebbe stato il segretario locale dell’organizzazione giovanile, prima di trasferire nel partito il proprio impegno. Un periodo molto intenso ed al contempo assai bello e appassionante. Tra le tante circostanze, una delle situazioni che il protagonista della nostra storia ha più piacere di ricordare è quella in cui venne organizzato, a Salerno, il primo Congresso dei giovani della FGCI, la grande assise a cui partecipò Enrico Berlinguer, al Teatro Verdi, nel 1954. Un’occasione in cui Antonio si trovò a dover rappresentare ufficialmente la delegazione di Potenza. Il Segretario, Vito Filiguello, di Lavello, disse che non se la sentiva di intervenire parlando pubblicamente nel Congresso. Così, per evitare che mancasse la voce della sua provincia, accettò di sostituirlo e di parlare al suo posto. Prese pochi appunti e fece con sicurezza e di getto il suo intervento. Non ebbe grandi difficoltà, parlò semplicemente, con grande naturalezza. Si stupii quasi del modo in cui gli venivano fuori, senza sforzo, le idee ed i pensieri. Conosceva in verità abbastanza bene la zona e la provincia ed i principali problemi in essa concentrati, perciò non c’era alcuna cosa da inventare. Doveva solo limitarsi a rappresentare la realtà della sua terra, con il fardello di povertà ed allo stesso tempo di grandi speranze e aspirazioni irrealizzate. Alla fine, dopo che ebbe terminato il suo intervento, Berlinguer si alzò dalla presidenza, lo salutò e lo abbracciò affettuosamente. Rimase assai colpito dalla naturalezza e dall’immediatezza del modo di fare di quel giovane. Un ricordo che conserva dentro di se in tutta nitidezza ancora oggi. Il dirigente comunista gli regalò un paio di trombe, lo riempì di fogli di propaganda, ma soprattutto era fiero per le trombe che avrebbe adoperato per le assemblee ed i comizi. Le trombe le ha con se ancora oggi e le conserva gelosamente, con orgoglio, come una reliquia. Gli abitanti di Forenza e del circondario, quando sentirono l’auto che girava per il paese con le trombe, restarono davvero stupefatti. Stavano facendo proprio un buon lavoro, cosa che immediatamente procurò le ovvie opposizioni e le aspre resistenze degli avversari tutti, dai proprietari agrari ai democristiani, fino agli uomini di Chiesa più retrivi. Era l’epoca delle grandi passioni, della continuazione di una fase di grandi lotte popolari per il riscatto economico e civile del mezzogiorno, ma anche il tempo in cui s’intensificavano forti contrapposizioni e potenti resistenze al cambiamento. Ed anche il periodo in cui la frontale contrapposizione che andava a definirsi, causava molteplici ed arbitrarie discriminazioni e congiure, come quella in cui venne coinvolto un giovane socialista lucano, sindaco del Comune di Tricarico, Rocco Scotellaro, diventato noto poeta e scrittore, più avanti conosciuto in tutta l’Italia intera.52 Il clima della coesione e della collaborazione tra le grandi forze popolari e democratiche della Nazione, all’inizio comunemente e concordemente impegnate nell’azione per la ricostruzione e la rinascita del paese, era purtroppo durato soltanto per una brevissima stagione. Ora era solo un lontano, pallido ricordo. A Forenza il gruppo più ristretto, molto coeso e attivo, era formato da una decina di giovani. Il dal 1989 ad oggi, in poco più di 20 anni, è riuscito ad avvicinare in maniera sensibilissima, fin quasi ad azzerarle, le distanze fino a quel momento esistenti tra l’ovest e l’est, le parti in cui il territorio tedesco era stato diviso all’indomani della fine della seconda guerra mondiale. 52 Rocco Scotellaro, socialista, nel 1946, a soli 23 anni, era diventato Sindaco del comune di Tricarico. Noto poeta e scrittore di talento, autore di opere come Contadini del Sud e L’uva puttanella, col suo impegno, politico e letterario, e le sue denuncie sulla condizione di estrema durezza e povertà dei contadini lucani, ha concorso in maniera importante a porre la questione al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. Accusato ingiustamente di concussione, truffa, associazione a delinquere, sarà arrestato e costretto a scontare, nel 1950, 45 giorni di carcere. Sarà scagionato a formula piena. Morirà improvvisamente, d’infarto, il 15 dicembre 1953. Aveva solo 30 anni.

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grande attivismo che si metteva in campo, profuso senza risparmio, con intelligenza e generosità, aveva iniziato a generare sospetti e forti opposizioni di quelle forze ostili di per sé ad ogni incisivo cambiamento. Gruppi, retrivi ed aggressivi, reazionari, arroccati agli antichi, secolari privilegi di ceto e di casta che s’intendeva difendere ad oltranza. Essi li ritenevano eterni ed inscalfibili! Iniziavano a far circolare inviti, ammonimenti, intimidazioni sottili, con l’andare del tempo sempre più espliciti e diretti. S’intendeva in tal modo dissuadere dal continuare ad agire ed operare nell’interesse collettivo degli oppressi. Tutto doveva rimanere come era sempre stato, sulla falsariga di quanto era stato sostenuto nel “Gattopardo”.53Un’opera di pressione dissuasiva, sempre più marcata e sistematica, che li avrebbe indotti ad essere più avveduti e più guardinghi. La sera, tornando a casa, non facevano mai la stessa strada, per evitare aggressioni, rappresaglie e ritorsioni di ogni tipo. Antonio restava nella sede fino a tardi, e con la luce accesa. Chi non gradiva tutto quel frenetico attivismo, sapendo che restava da solo fino a tardi, magari per scrivere, con la cultura dell’autodidatta, un documento o un volantino, poteva approfittare della situazione per tendergli un agguato. Le minacce, esplicite o velate, avevano iniziato a circolare e a moltiplicarsi, di giorno in giorno sempre più. La Chiesa ed il Prete poi non ne parliamo. Era il tempo della scomunica contro i comunisti, decisa da Pio XII.

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Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Collana economica Feltrinelli, febbraio 1963. Il romanzo è ancora oggi la più esplicita ed acuta denuncia di un tempo perennemente pietrificato e immobile del mezzogiorno d’Italia, la plastica esplicitazione delle tendenze a mantenere, nella sostanza, al di là dei mutamenti che formalmente si realizzano, per sempre perennemente inalterati i rapporti tra le distinte classi sociali ed i consueti meccanismi di potere.

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LA RIFLESSIONE SUL DECENNIO 1943-1953 Un’accurata e più approfondita riflessione su quella fase, di grande rilievo per l’intera storia del mezzogiorno e dell’insieme del paese, venne prodotta dal partito Comunista italiano ben più avanti nel tempo e proposta solo nel 1972, sulla rivista teorica del Partito “Critica Marxista”. In essa veniva pubblicato un importante e circostanziato saggio di Giorgio Amendola, “ Il balzo nel Mezzogiorno 1943-1953”, che è parso utile richiamare, in questa occasione, in quanto senza dubbio si tentava un’enucleazione rigorosa dei meriti e dei limiti di quella grande stagione di lotte civili e di passioni che vennero dispiegate per cambiare il destino di quell’area del paese. Un contributo, di rilievo, che favorisce l’individuazione ed una migliore comprensione di quelli che saranno, da quel momento in poi, alcuni dei punti centrali e dirimenti su cui si innesterà la nuova strategia del meridionalismo democratico. Nel saggio l’autore tra l’altro proponeva una circostanziata analisi ed una ricostruzione storica delle principali dinamiche e dei maggiori snodi vissuti dal mezzogiorno d’Italia nella sua storia più recente e del ruolo svolto, in quel contesto, dalle forze democratiche e di sinistra, andando in verità a ritroso, fin dai principi del secolo agli anni ’60. Non è evidentemente il caso di riprendere, nella sua interezza, l’intero corpo del ragionamento ma tuttavia, per il rilievo dell’insieme delle questioni che venivano affrontate, sembra ancora oggi, per più aspetti, meritevole di un’attenta riflessione. Amendola indagava sul complesso delle ragioni di fondo della sostanziale, strutturale, storica debolezza del movimento operaio nel mezzogiorno, dei suoi gravi limiti d’analisi, dei ritardi nella corretta comprensione delle specificità della questione meridionale per come essa si era andata a prefigurare, progressivamente nello scorrere del tempo, dell’insieme di ragioni che avevano concorso a determinare, in questa ampia zona del paese, per lungo tempo, una sostanziale ininfluenza ed una subalternità delle forze organizzate del movimento operaio. Un ‘analisi che, per più versi, mi sembra conservi un intatto valore di assoluta attualità. Amendola si soffermava certo acutamente sul ruolo di freno e negativo a lungo esercitato dalle vecchie classi dirigenti, nazionali e meridionali, sulla loro enorme storica responsabilità nell’aver costituito una resistenza e un freno alle possibilità alternative d’avanzata del mondo del lavoro ed in specie delle masse contadine, alla loro consueta e disinvolta propensione al trasformismo, all’assenza d’ancoraggio ad alcun valido principio legato ad una visione incentrata sull’interesse generale, al periodico riposizionamento disinvolto assunto a causa dell’intransigente volontà di difesa delle proprie posizioni di puro privilegio, all’uso sistematico della corruzione. E tuttavia non risparmiava rilievi e osservazioni, critiche ed autocritiche, ai limiti con cui si era, contemporaneamente evidenziata, nel concreto, l’azione e la funzione esercitata in loco dalle forze democratiche. Chiusure, settarismi, incapacità nel dar vita, con la dovuta urgenza, ad un’efficiente organizzazione in grado di esaltare l’autonomia delle masse contadine con la messa in rilievo della specificità della loro condizione. Masse i cui problemi non erano stati pienamente, correttamente e costantemente assunte, per le loro effettive esigenze, dalle forze organizzate del movimento operaio del nord. A partire, evidentemente, innanzitutto dal tema più importante, quello della terra e della centralità della questione agraria con tutto ciò che di conseguenza avrebbe dovuto comportare. Le masse contadine meridionali, a partire dalla prima guerra mondiale, avevano pagato il prezzo più elevato, di morte e di sangue, tra tutti gli strati e le classi della società italiana. Esse avevano atteso invano 41


che, da parte dello Stato, venisse onorato, alla fine del conflitto, l’impegno solennemente assunto quando i contadini erano stati inviati su, nelle trincee, e trasformati in carne da macello. Dopo il ventennio triste e durissimo della dittatura, era iniziato l’avvento di una nuova storia, l’inizio dell’organizzazione e dello sviluppo, nelle campagne meridionali, a partire dall’immediato, secondo dopoguerra, di uno straordinario movimento popolare diretto dal fronte Democratico per l’occupazione e per l’assegnazione delle terre incolte ai contadini. S’era registrato, in seguito a quella spinta poderosa, un primo avanzamento nella legislazione, era stato scalfito l’antico potere del padronato agrario assenteista. E tuttavia il processo avviato non aveva scavato, a sufficienza e a fondo nella realtà concreta delle cose, né era riuscito a modificare, nella sua essenza e nella sua specifica struttura, il segno prevalente dell’antica qualità dello sviluppo. E non erano stati capovolti, in modo decisivo, gli antichi disequilibri, di forza e di potere. Il Fronte Democratico nel Mezzogiorno aveva esercitato, indubbiamente, un ruolo di rilievo, esplicitando una rilevante capacità unitaria, di collante, esercitata dalle sinistre unite. S’era altresì manifestata una capacità di apertura, di dialogo e di contaminazione con altre componenti, sociali e culturali, espressione delle energie più moderne ed avanzate dell’intellettualità locale, d’antica ispirazione liberale e democratica, a loro volta decisiva per l’organizzazione e la direzione del grande movimento per la terra. La capacità di stringere una più ampia rete di alleanze e convergenza popolare intorno a quelle lotte, per imporre una qualità delle riforme più avanzate aveva indubbiamente consentito di raggiungere importanti avanzamenti e tuttavia, in quel percorso, s’erano evidenziati, contemporaneamente e progressivamente, vari limiti gravi, svariati ritardi ed incertezze. Era emerso innanzi tutto, a un certo punto, un giudizio divaricato, tra socialisti e comunisti, sulla specificità delle forme e delle funzioni assunte dal capitalismo italiano, in specie ma non solo a fronte nel varo dell’Intervento Straordinario della Cassa del Mezzogiorno, deciso all’inizio degli anni ’50. Amendola riteneva un grave errore l’apertura di credito al Governo, in relazione alla prefigurazione dell’azione della Cassa, di per sé giudicata come avanzata e positiva, sintomo del nuovo, positivo, innovatore dinamismo del capitalismo nazionale. Un giudizio che per altre forze, sociali ed intellettuali, stava ad indicare, di per sé, l’avvio di una nuova fase, di avanzata e di sviluppo, dell’economia meridionale e nazionale in grado di conseguire, a tappe accelerate, il naturale e progressivo superamento dell’insieme degli antichi ritardi e delle arretratezze accumulati nella specificità della storia del paese. Valutava al contempo un errore non aver rivendicato, con energia, ai comunisti ed all’azione determinata del fronte Democratico, il merito di aver costretto il governo democristiano a prefigurare la necessità di un primo, mirato, piano d’interventi, dello Stato Nazionale in quella direzione. Era merito delle inchieste e delle denunce, promosse ed effettuate dalle sinistre unite nel Mezzogiorno, l’aver costretto Alcide De Gasperi ad effettuare il viaggio in Calabria, dalla cui esperienza lo statista era tornato particolarmente scosso e da cui aveva tratto poi la decisione di procedere, con rapidità,al varo, in poche settimane, dei primi progetti d’intervento. Il Fronte però, tranne che in rare e sporadiche eccezioni, non aveva continuato nell’accurata analisi delle mutazioni strutturali che erano sopraggiunte, nel corso del tempo, nell’assetto e nella composizione sociale che si era andata progressivamente a definire, con la contemporanea scomposizione del vecchio assetto e la prefigurazione di una condizione economico sociale decisamente nuova. La progressiva ascesa di una diffusa componente di piccola borghesia urbana, delle professioni e dei mestieri, avrebbe dovuto indurre ad un ripensamento dell’antico schema di alleanze, a fronte del fatto che la nuova composizione forniva a questo nuovo ceto, emerso sulla scena, un ruolo diverso e di rilievo ben maggiore a fronte del progressivo svuotamento delle classi sociali intorno a cui s’erano strutturate politiche ed azioni negli anni antecedenti Inoltre, era stata dedicata una scarsa attenzione al tema, decisivo, del fornire più impulso e aiuto alla nascita, all’organizzazione ed al consolidamento delle cooperative di lavoro, in specie e soprattutto, nel settore agrario.

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Infine, non era proseguita l’azione sistematica per rafforzare, con l’ aggiornamento dell’analisi, l’assetto organizzativo del fronte, strutturandolo in maniera più solida e duratura. E non si era insistito a sufficienza sull’illusorietà di considerare ciò che accadeva come l’esempio esplicativo della capacità del capitalismo nazionale di esercitare, ancora e più di prima, un ruolo moderno, trainante e progressivo in grado di risolvere, in via definitiva, il grumo di ritardi e di contraddizioni accumulate nella specificità dello sviluppo. Una contraddizione che, invece, non avrebbe mai potuto ricomporsi se non per mezzo di una diversa impostazione, di un differente piano generale di una nuova politica economica nazionale. A giudizio di Amendola, era stata senza dubbio negativa la divisione progressivamente esplicitata tra le forze, fino ad allora unite, dei comunisti e dei socialisti, un conflitto che, iniziato con la scissione di Palazzo Barberini, era poi progressivamente e platealmente esploso ai primi anni ’60, a fronte del varo della stagione dell’apertura del governo ai socialisti e dell’inizio della fase del centro sinistra organico. Amendola non finirà mai di insistere sulla imprescindibile necessità di riaprire un canale di dialogo, di apertura, di ascolto e di collaborazione innanzi tutto tra le diverse forze della sinistra storica, partendo da lì per ritessere una trama, ancora più ampia e più diffusa, un nuovo schieramento in grado di rilanciare, con incisività, una nuova stagione di lotte e di alleanze unitarie dentro al Mezzogiorno, indispensabile prodromo al raggiungimento di un’effettiva unità della nazione.

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L’ITALIA TRA GLI ANNI ’50 e ‘60 Il decennio tra il 1950 ed il 1960 è quello in cui matura una profonda e strutturale, decisiva trasformazione del paese che cambia radicalmente la sua conformazione economico-sociale. La mutazione, da paese agrario a paese industriale, con ciò che nei consegue, si realizza con una rapidità ed una profondità tale neppure lontanamente comparabile a quanto si è registrato nei decenni antecedenti, dal tempo dell’unità in poi, e determina una nuova identità della nazione che, da quel momento in poi e per una lunga fase ancora, può essere di sicuro annoverata tra gli Stati più avanzati e progrediti dell’Europa e del mondo nel suo insieme. E’ in particolare negli anni conclusivi del decennio che si realizza la face di più marcata mutazione. Gli anni tra il 1951 ed il 1958 sono quelli del “ miracolo economico”, gli anni in cui il prodotto nazionale lordo cresce, in termini reali, ad un tasso annuo del 5,3% e raggiunge, nel 1959, un ulteriore salto di qualità pervenendo al 6,6%. Nel 1960 l’aumento si assesta sul 6,3% nel mentre il picco si raggiunge nel 1961, quando la crescita arriverà, addirittura, all’8,3%. Il reddito pro capite, negli stessi anni, raddoppia. La crescita della produzione industriale sfiora il 10%. Di converso la produzione, in agricoltura, cresce soltanto del 3%. Questo settore, ai principi degli anni ‘50, è quello che ancora raggruppa il maggior numero di addetti; alla fine dello stesso decennio è invece l’industria in testa alla statistica, seguita dal settore terziario. Nella composizione del prodotto l’agricoltura, che nel 1951 ne rappresentava il 23,5%, nel 1963 è scesa al 15,7%, nel mentre, di converso, l’industria sale dal 33,7% al 43,8%. Il terziario vede crescere la quantità di occupazione, seppure il suo apporto al prodotto del settore privato si contrae dal 42,8 al 40,5%. La disoccupazione diminuisce, dal 10,3 del 1950 al 3% del 1961. Un livello che poi in percentuale non verrà più raggiunto. Si è a un passo dalla piena occupazione. Non si registrano, in quel periodo, significative fiammate inflazionistiche. I prezzi all’ingrosso restano in sostanza stazionari ed anzi calano fino al 1961, i prezzi al consumo crescono in sette anni, dal1953 al 1960, del 15%. Comunque, la crescita del reddito pro capite è superiore a quello dei consumi. L’Italia appare sempre più integrata nell’economia mondiale. Gli investimenti aumentano in modo rilevante, le esportazioni passano dal 6,1% del PIL nel 1952 al 15,2% nel 1963. I prodotti italiani raggiungono un forte livello di competitività sui mercati internazionali grazie all’ammodernamento tecnologico ed al basso costo del lavoro, con salari ben più bassi della media europea.54

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Le note ed i vari riferimenti statistici sono ricavati da ISTAT, tavole statistiche storiche, 1861-1975, Roma 1976.

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IL 5 MARZO 1953 MUORE GIUSEPPE STALIN Antonio, come moltissimi lavoratori in Italia, in Europa e in tutto il mondo, visse la sua morte come una grandissima tragedia, un lutto nazionale e mondiale ed un dolore profondo e inconsolabile. Moriva il capo dell’antifascismo internazionale, l’uomo che aveva salvato il suo paese, l’Europa e il mondo intero da un destino di schiavitù che a un certo punto era apparso ineluttabile. L’uomo che aveva schiacciato Hitler e la feroce belva nazista.L’esito conclusivo, l’epilogo favorevole dell’immane conflitto bellico che aveva insanguinato a lungo il mondo ed in particolare il vecchio continente era stato a lungo tutt’altro che scontato. La marcia di conquista dell’esercito tedesco era sembrata in effetti inarrestabile. Le forze naziste erano passate, senza scontrarsi con decisive resistenze, da un territorio all’altro, conquistando l’una dopo l’altra gran parte delle vecchie nazioni dell’Europa. Grandi paesi, come la Francia, oggetto di aggressione nei primi mesi del 1940, erano stati rapidamente piegati ed occupati dalla spietata forza militare del nemico. Nel 1941 la belva nazista, ebbra dei grandi successi conseguiti, aveva poi rivolto la propria sfida distruttiva verso il grande paese dei Soviet, in cui nel 1917 aveva vinto per la prima volta nella storia la grande rivoluzione proletaria. Un nemico, implacabile e mortale, che andava schiacciato per sempre ed ad ogni costo. L’ultimo ostacolo che si contrapponeva alla definitiva vittoria del nazismo. Come è noto, durante tutta la prima fase della guerra scatenata contro l’Unione Sovietica enormi erano state le vittorie e le conquiste territoriali conseguite dai tedeschi. Ed era più volte apparsa la sensazione che la grande nazione slava fosse ad un passo dalla sua definitiva e irreparabile disfatta. L’esercito tedesco, penetrato profondamente con le sue armate nel territorio russo, aveva poi deciso di scatenare, intorno alla città di Stalingrado, l’ultima offensiva decisiva. Il pieno controllo dell’immenso paese avrebbe consentito di poter disporre di ulteriori, immense riserve materiali che avrebbero reso l’esercito nazista invincibile in ogni, ulteriore, eventuale scenario di guerra ed aggressione dentro al mondo. L’Unione Sovietica, pur sottoposta ad un attacco di una ferocia spaventosa e pur subendo atti di atrocità e di sterminio inenarrabili, aveva resistito facendo appello a tutte le energie riposte nell’anima profonda della storia del proprio popolo e delle sue millenarie tradizioni.55 Stalin aveva imperiosamente comandato di resistere ad ogni costo a Stalingrado e la città, distrutta e martoriata, non era venuta meno ed aveva anzi risposto con infinito, estremo orgoglio e con straordinario coraggio a quell’appello. L’offensiva era stata infine bloccata, le armate naziste circondate, l’esercito invasore in grande misura sterminato, immensa la fila dei 55

L’Unione Sovietica pagò, con 23.000.000 di vittime civili e militari, il prezzo più alto tra tutti i paesi belligeranti, scrivendo innumerevoli pagine epiche di storia nella sua strenua resistenza all’invasore. Leningrado, 4.500.000 abitanti, importante porto marino sul Mar Baltico, nella parte nord occidentale della Russia, la seconda città del paese dopo Mosca, che dal 1991 ha riassunto l’antico nome di San Pietroburgo, fu sottoposta ad un durissimo assedio che, iniziato l’8 settembre del 1941, si concluderà solo il 27 agosto del 1944, nel corso dell’inarrestabile controffensiva dell’armata rossa. Nella città, stremata dall’assedio, il 9 agosto 1942, fu suonata la sinfonia n.7 di Dimitrij Shostakovic, “Leningrado”, un sublime inno alla pace e all’armonia. L’assedio della città, da solo, causò globalmente circa 1.500.000 morti, tra civili e militari.

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combattenti tedeschi fatti prigionieri.56 I superstiti di quell’enorme armata erano state poi inseguiti per tutta l’Europa intera, fin dentro al cuore più profondo di Berlino. La bandiera rossa vittoriosa era stata issata dai combattenti dell’Armata Rossa sopra il Reichstag. La morsa mortale, che aveva a lungo tenuto attanagliato il mondo in una ferrea stretta, iniziava finalmente a mollare la sua presa. L’umanità iniziava a fuoriuscire dall’incubo immane che l’aveva attanagliata. Stalin divenne, nell’immaginario collettivo, l’esempio simbolico più alto di quella resistenza e di quella controffensiva vittoriosa. A lui, a Stalin, all’ “uomo d’acciaio”, guardavano con un affetto estremo e con la più profonda ammirazione i proletari di ogni parte del mondo, dall’Europa all’Asia. Stalin appariva allora il grande padre della libertà. Un sentimento di amore e di ammirazione sconfinata per lo statista e il capo militare che aveva schiacciato la testa del serpente. Ben presto, si pensava, ciò che quell’uomo era riuscito a realizzare nel suo grande paese, posto a scavalco tra Oriente ed Occidente, sarebbe di sicuro poi accaduto in tante altre parti della terra, ovunque, ad iniziare da ogni angolo della vecchia Europa. I lavoratori avrebbero finalmente potuto prendere il potere! Un alone di leggenda sembrava circondare il personaggio e l’URSS, il suo paese che aveva iniziato a crescere in una maniera straordinaria. Aveva occupato, con le proprie armate, gran parte del centro della vecchia parte orientale dell’Europa. Ben presto avrebbe tracimato nel suo corso e il resto dell’Europa avrebbe visto realizzarsi la nuova condizione di potere. Era la suggestione che sembrava unificare fede e speranza in un nuovo mondo, finalmente liberato da ogni insopportabile angheria. Cresceva a dismisura, con rapidità, l’enorme paese dei Soviet ed appariva ormai pressoché della stessa forza e consistenza dell’altro grande gigante, gli USA. Nelle mani delle due grandi potenze era ormai saldamente concentrato il potere e il destino del futuro del mondo nel suo insieme. La morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, distese sui proletari di ogni parte del mondo un velo di dolore inconsolabile. Gli uomini e le donne del grande, sterminato esercito mondiale del proletariato, con il cuore in lutto, seguivano con l’anima il feretro dell’uomo che aveva determinato l’accelerata, repentina svolta nella storia di tutta l’umanità. In Italia Pietro Nenni e Palmiro Togliatti guidavano le delegazioni socialista e comunista ai solenni funerali del dittatore sovietico. Tra le tante manifestazioni di suffragio quella di Roma, al cinema Valle, dove si radunò una grande folla commossa di lavoratori e cittadini della capitale. In omaggio alla sua figura i lavoratori aderenti alla Cgil, in segno di lutto, sospendevano il lavoro per venti minuti. Solo alcuni anni dopo, nel 1956, il mito che aveva circondato l’eroica figura del georgiano, dopo le rivelazioni sconvolgenti di Kruscev, nel corso del XX Congresso del Pcus, avrebbe iniziato miseramente a sgretolarsi.57

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La grande battaglia di Stalingrado, rinominata Volgodrad dal 1961, ebbe inizio nell’estate del 1942 e si protrasse fino al 2 febbraio 1943. Essa vide scontrarsi le armate tedesche con quelle sovietiche per il controllo della regione tra il Don e il Volga. Lo scontro si concluse con l’accerchiamento ed il totale l’annientamento della VI armata germanica e delle forze a lei alleate, rimaste circondate, che erano state impiegate nell’area meridionale, militarmente strategica, del fronte orientale. Si trattò della prima, grande sconfitta della Germania nazista, da cui prese le mosse l’avanzata sovietica lungo l’Europa che si sarebbe completata, due anni dopo, con la conquista del Reichstag di Berlino. Alla guida dell’esercito tedesco era il generale Paulus, il maresciallo Zukov il comandante in capo delle forze sovietiche. 57 Il “ Rapporto segreto” di Kruscev, con la stroncante e spietata denuncia del “culto della personalità” e delle numerosissime “violazioni della legalità socialista”, verrà presentato nel corso di una seduta a porte chiuse per soli delegati. All’estero, in occidente, il testo perverrà in maniera clandestina ed avrà un’enorme eco sulla stampa.

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LA LEGGE TRUFFA Il 1953 sarà l’anno di uno scontro fortissimo conseguente al tentativo, da parte del partito di maggioranza relativa, la Dc, di realizzare una modifica alla legge elettorale. Tale progetto prevedeva di fare approvare una legge che assicurasse un forte premio di maggioranza al partito o alla coalizione che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei voti alle elezioni che in tal modo si sarebbe assicurato i due terzi dei seggi. La proposta venne immediatamente definita “ legge truffa” dall’opposizione e diede luogo ad una durissima battaglia parlamentare in cu si fece ricorso anche all’arma dell’ostruzionismo. La maggioranza, di contro, si impegnò allo spasimo per pervenire all’approvazione del provvedimento nei tempi più rapidi possibili. I partiti di governo apparentati non riescono però a raggiungere il 50,01% dei voti necessari e così non scatta il premio di maggioranza. De Gasperi, all’indomani della sconfitta, dopo oltre 7 anni, lascia la guida del governo e dello schieramento centrista che entra in una profonda crisi. La nuova legislatura che si apre è contrassegnata da forti elementi di instabilità dei governi che si succedono a quello di De Gasperi, a partire da quello guidato da Giuseppe Pella che resiste in carica solo 4 mesi. I socialisti frattanto non hanno abbandonato in via definitiva la politica di dialogo e collaborazione coi comunisti ma, dal Congresso di gennaio in avanti, iniziano a prefigurare, con Nenni, una diversa linea politica, quella dell’alternativa socialista e, dopo le elezioni, cominciano a ritessere i contatti col partito di Saragat.58

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Il XXX Congresso del PSI si tenne a Milano tra l’8 e l’11 gennaio del 1953 e fu quello in cui iniziò a definirsi la linea dell “alternativa socialista”. Nell’occasione, veniva confermata una sorta di neutralismo ed equidistanza in tema di politica internazionale ed assunta la decisione di presentare, in vista delle prossime elezioni politiche, liste di partito autonome in tutte le circoscrizioni elettorali. Era l’inizio di una progressiva presa di distanza dai comunisti che si realizzerà, in maniera più decisa, negli anni a venire e che finirà per sfociare, più avanti, nella collaborazione organica dei socialisti con la Dc in occasione del primo governo di centro sinistra del 1963. Alla guida del partito, oltre a Nenni c’è, in qualità di vice segretario, Rodolfo Morandi

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“NON PUOI BATTEZZARE” L’ANATEMA CONTRO I SENZA DIO Nello stesso anno, nel 1953, ad Antonio era accaduto un fatto particolarmente increscioso e sconveniente, un’offesa che ritenne in verità davvero molto grave e che ricorda ancora oggi, allo stesso modo come se il fatto fosse accaduto ieri. Gli era stato chiesto di battezzare una nipote, la figlia di una sua cugina, Filomena Civiello. Gli sembrava una cosa bella, un atto di amore e di amicizia tra parenti. Invece non aveva valutato l’odio che da parte della Chiesa e delle sue gerarchie era stato copiosamente disseminato a piene mani contro chi aveva chiaramente dichiarato di avere scelto di essere comunista. C’era la scomunica, che impediva la possibilità ai comunisti di distribuire i sacramenti.59 Era allora segretario comunista della Figc e membro di una famiglia sempre unita. Per la nascita dei bambini allora non si andava in ospedale. Si chiamava a casa l’ostetrica. A Forenza l’ostetrica era proprio la moglie del Sindaco. Il medico era il dottor Domenico Lapenna. Era già tutto pronto per la cerimonia e lui si era naturalmente preparato all’occasione quando gli venne detto che non avrebbe potuto in alcun modo battezzare. Lo vietavano le disposizioni della Chiesa. Sentì profondamente quell’oltraggio nella carne, gli sembrò un’offesa all’umanità in quanto tale. Preso dall’ira, decise di farla pagare al prete. In ogni casa della Basilicata, a quel tempo, c’erano dei grandi silos di canne con il grano per la farina con cui fare il pane o la pasta fatta in casa. In quello stesso silos il padre di Antonio da tempo nascondeva una pistola. Infuriato si recò d’istinto a cercarla. Era proprio arrabbiato e voleva fargliela pagare al prete. Ebbe per fortuna la freddezza di passare prima dalla caserma dei carabinieri e di parlare col maresciallo, informandolo dell’onta che sentiva di aver subito ingiustamente. Disse che era intenzionato a farla pagare cara al prete. Il Maresciallo, Ricco Alfonso, lo invitò a stare attento ed a non fare fesserie. Fatto è che era troppo infuriato e qualcosa in ogni modo la doveva fare. A quel tempo erano in voga rituali per così dire un po’ particolari per rispondere alle offese. Ad Avigliano, ad esempio, era consuetudine ricorrere all’uso del coltello a serramanico, il coltello con la lama a scatto, per ripagare un’offesa ricevuta. Lui invece prese la pistola, con quella si recò in sacrestia. Affrontò il prete duramente e gli chiese di essere cancellato dalla lista di quanti erano considerati cristiani. Non poteva battezzare, quindi non era un cristiano come gli altri! Il parroco gli rispose che ciò era impossibile, la sua pretesa era fuori di ogni regola, ci sarebbe voluta l’autorizzazione del Vescovo! Bella motivazione questa! Formalmente era un cristiano, in pratica non poteva darne dimostrazione! 59

Pio XII, il 1 Luglio 1949, con Decreto del Sant’Uffizio, decretava la scomunica di iscritti e simpatizzanti del PCI, giudicati “apostati”. Coloro che professavano “…la dottrina del comunismo materialista ed anticristiano e la diffondono non possono distribuire i sacramenti ovvero l’eucarestia e vengono separati dalla comunità ecclesiale”.

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E per quale motivo poi? Soltanto perché aveva convinzioni di sinistra! Nonostante la grande arrabbiatura, per sua fortuna anche in quella circostanza riuscì alla fine a contenersi senza ricorrere ad alcun gesto estremo. Comprò una candela e la consegnò al prete. Avrebbe dovuto utilizzarla durante la funzione del battesimo. Una grande candela che gli costò 300 lire di quei tempi, tutta la cifra che gli era stata consegnata da suo padre per partecipare alla funzione. Poi l’ha voluta indietro ed è durata ancora tanto, ma tanto tempo, forse per 6 o 7 anni, da usare però solo per fare luce. Sua nipote Filomena ancora oggi vive ed abita a Forenza. Nel paese c’è una gran bella chiesa.

NUOVE ABITUDINI, USI, COSTUMI Nel gennaio del 1954 l’Italia povera e contadina assisteva stupefatta al presentarsi di un fenomeno nuovo e inedito che avrebbe, da lì in poi, concorso a plasmare ed a modificare, in maniera quotidiana, profonda e decisiva consuetudini, usi, linguaggi, costumi, culture della popolazione. Iniziavano ad essere trasmessi i primi programmi televisivi in bianco e nero. Da più parti si guardò a questo inedito fenomeno con un misto di sorpresa e di preoccupazione. La Chiesa cattolica si mostrò subito particolarmente scettica e guardinga, preoccupata che si potessero diffondere ed affermare nel paese comportamenti segnati da fatuità, edonismo, materialismo anticristiano. Il nuovo strumento di comunicazione e diffusione di notizie, comportamenti, abitudini, riti, costumi, rendeva di per sé più arduo continuare a mantenere, in maniera esclusiva, in un unico centro, il potere di controllo spirituale e morale sulla popolazione. Si era in ogni caso alla vigilia del grande boom economico che avrebbe sconvolto la società italiana evidenziando una crescita esponenziale straordinaria dei consumi. Ai primi anni 50 solo l’8% delle abitazioni possedeva elettricità, acqua, servizi interni, bagni nelle abitazioni. Dieci anni dopo questa percentuale salirà al 30%. Nel 1958 solo una famiglia su dieci possedeva un televisore, nel mentre nel 1960 il rapporto salirà ad una su cinque, fino ad arrivare poi, nel 1965, ad una su due. La stessa cosa per gli altri elettrodomestici essenziali, come i frigoriferi e poi per le lavatrici. Le strade avevano iniziato allora a popolarsi di auto di piccola dimensione, meno di due milioni nel 1960, 5.500.000 nel 1965.60 L’oggetto simbolo, tra tutti più esplicativo della fase di grande trasformazione in atto nella società italiana, l’immagine sintetica del grande “boom economico” che in maniera plastica e simbolica seppe rappresentare la trasformazione del paese negli anni 60 è senza dubbio l’automobile. Il mercato veniva invaso da milioni e milioni di automobili. Le autovetture, 3 milioni nel 1962, arriveranno ad essere addirittura 21 milioni nel 1985. La dimostrazione palese del carattere “selvaggio” della prima motorizzazione italiana diretta, in larghissima parte, dalla Fiat e dalla famiglia Agnelli, emblema più significativo e potente del capitalismo italiano.61 60

Guido Crainz, L’Italia Repubblicana, Collana XX Secolo, Giunti Editore 2005, p.38 In realtà il tumultuoso sviluppo che si mette in movimento avviene in maniera disordinata e convulsa. Oltre all’aumento dei consumi cui ci si è riferiti, inizia a realizzarsi una profonda trasformazione dell’assetto urbano. Sorgono, in specie nelle grandi città e nella capitale, nuovi, grandi quartieri. Un mare di cemento invade il territorio, quasi sempre aggredendo e sconvolgendo, in maniera selvaggia e senza alcuna regola, l’ambiente preesistente. Poche le voci che si levano contro l’aggressione al territorio. E’ il caso di ricordare l’opposizione, dura, proposta da “Il Mondo” e da “ L’Espresso”. Fortissima la polemica de “Il Mondo” contro gli speculatori del cemento, i “ palazzinari” che si arricchiscono a dismisura, in spregio di ogni regola vigente. I convegni degli “ Amici del Mondo” attaccano altresì lo strapotere delle “Baronie elettriche”che, col loro assoluto monopolio, dominano il settore oltre a sostenere al necessità di una scuola migliore e aperta a tutti e a polemizzare contro le tendenze della Chiesa a interferire, in maniera pesante, su più aspetti delle scelte dello Stato laico. 61

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E’ iniziato altresì ad invertirsi il rapporto tra agricoltura ed industria, con una progressiva, drastica riduzione del numero dei lavoratori nelle campagne. Nel 1954 gli occupati in agricoltura erano 8 milioni, diventeranno 5 milioni nel 1964, per ridursi a 1 milione e mezzo nel 1995. Si verificano enormi spostamenti di popolazione: dal 1951 al 1970 i movimenti di cittadini da un comune all’altro saranno 25 milioni; 10 milioni di italiani si muoveranno da una regione all’altra. Dal 1958 al 1963 oltre un milione di meridionali si trasferiscono ogni anno per motivi di lavoro al Centro Nord.62 A lungo costretti a vivere in case malsane, simili a tuguri, spesso discriminati ed a fatica sopportati da cittadini del loro stesso paese. E comunque è potente l’avvio di una trasformazione economica e sociale che incide, in profondità, anche sul piano dei costumi. Mutano radicalmente modi di vivere e di lavorare, di consumare, di produrre. Il reddito medio raddoppia e il reddito pro capite ha un andamento eguale. Il tasso di crescita annuo supera in media il 6%. L’agricoltura perde, come si è visto, milioni e milioni di braccia ma, contemporaneamente, si modifica in modo radicale, con l’introduzione di ampi processi di meccanizzazione. Aumenta l’emigrazione all’estero. Contemporaneamente, l’Italia si copre di una rete sempre più fitta di autostrade. In specie sarà importantissima l’Autostrada del Sole, inaugurata nel 1958 e destinata a far crescere, in modo straordinario, il traffico di merci e di persone, come nella storia d’Italia prima non si era mai verificato. Autostrade che, nella più triste delle circostanze, favoriranno l’esodo forzato di milioni di cittadini costretti ad emigrare. Nel 1954 erano andati all’estero 250.000 italiani, dal 1960 al 1962 emigrano, in media 380.000 italiani all’anno. Il “Miracolo italiano”, per quanto portentoso, avviene tuttavia grazie all’utilizzo di un’enorme disponibilità di manodopera a basso costo. Salari bassi, condizioni di lavoro disumane nei posti di lavoro e specie sulle catene di montaggio, assenze di diritti normativi, una mistura di condizioni negative e insopportabili destinata ad un certo punto, alla fine del decennio ad esplodere in maniera clamorosa nelle lotte del 1968 e nella stagione dell’ “Autunno Caldo”.

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Alla fine degli anni’60, solo per citare le aree del triangolo industriale, si trasferiscono 845.000 persone nella provincia di Milano, 642.000 in provincia di Torino, 132.000 nella provincia di Genova. Anche Roma diviene una delle città privilegiate dai flussi migratori. In questo caso si registreranno trasferimenti per 623.000 persone. Si tratta però di un esodo “intellettuale”, nel senso che ci si muove in direzione della capitale per attività legate a posti statali e della pubblica amministrazione. Settori di attività che, proprio in quegli anni, verranno in genere gonfiati a dismisura.

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UN VIOLENTO SCHIAFFO SUL VISO Si era ormai alla vigilia delle elezioni amministrative. Nelle elezioni del 1955, c’era ancora Pietro Valenza, si impegnò molto per presentare la lista comunista. Dovevano fare la lista, i vecchi erano perplessi sull’ipotesi di presentazione dei giovani in lista, ma Valenza si impose. Venne inserito anche Antonio e, con sua grande soddisfazione ed anche con sorpresa, risultò il terzo tra gli eletti. Da quel momento in poi la sua vita iniziò a cambiare, in maniera radicale. Cominciò ad incontrare un sacco di gente. Era sempre al Comune, tante le persone che cercavano un aiuto, un lavoro, per sé o per i figli. Una notte, era sul tardi ed ancora non era rientrato a casa. Al Comune la luce era accesa, c’erano, col Sindaco, il prete ed il collocatore. Erano circa le due e mezzo di notte. Entrò nella stanza dove erano riuniti e, usando l’ironia, dicendo che non li voleva disturbare, li invitò a continuare nelle cose che stavano facendo. La sera precedente aveva convocato alla Camera del lavoro 150 lavoratori che avrebbero dovuto essere impiegati in lavori di sfollamento del bosco. Quale era il problema : se in precedenza non fossero state già selezionate le persone presso il Sindacato per l’avvio al lavoro forse si sarebbe potuto anche fare finta di niente, ma ormai le cose erano state fatte e concordate. C’erano padri di famiglia, con 4 o 5 persone a carico, che avevano assoluto bisogno di lavorare. Se fossero stati delusi si sarebbero di sicuro risentiti e ribellati. Sarebbe stato lui che si era esposto in prima persona a farne le spese, diventando il bersaglio della loro rabbia. Con questi problemi ed a fronte del bisogno e delle necessità non si può di certo scherzare!!! La mattina si recò all’Ufficio di Collocamento e subito affrontò il collocatore a muso duro “ Cosa stavate facendo ieri sera…?” Gli chiese in maniera ferma e decisa. “Che fine avete deciso di far fare ai lavoratori che sono già stati chiamati e che aspettano di iniziare a lavorare ? “. Di rimando “ Chi sei tu?” gli fu risposto in malo modo. Antonio li incalzava “ Che bisogno avevate di riunirvi di nascosto a quell’ora di notte per fare gli avviamenti numerici?”. “ Avete deciso di fare lavorare solo chi fa comodo a voi, al prete, al Sindaco? In questo modo mettete la guerra nella Camera del Lavoro e ci costringete ad ammazzarci tra di noi!”. In risposta a quelle sue parole si sentì raggiungere da un violento schiaffo al volto. Rispose d’istinto e afferrò il collocatore con tutte le sue forze. Appena fuori alla porta c’era una scalinata con 12-14 gradini. Nella foga della colluttazione lo spinse verso le scale e l’altro cadde giù, ruzzolando per tutti quei gradini. A piedi arrivò speditamente alla galleria di San Nicola, camminò per 14-15 ore. Il suo timore era quello di essere arrestato. La casa di sua zia era proprio lì vicino, vi trovò rifugio. Là mangiava e dormiva. Rimase chiuso dentro quel posto per tre giorni, senza mai uscire fuori. Il padre lo cercava, non sapendo quanto era successo e s’interrogava sul perché non si avesse alcuna sua notizia. Dopo tre giorni si presentò suo cugino che, informato su quanto era accaduto, per tranquillizzare i familiari, si recò a Forenza sopra un mulo. 51


Trovò madre e padre in preda alla disperazione. Lo avevano cercato ovunque, dappertutto, senza trovarlo da nessuna parte. Eppure avevano fatto ad uno ad uno quei sentieri, a quel tempo del tutto privi di strade asfaltate e polverosi. Suo cugino li rassicurò, spiegando che Antonio si trovava a casa loro e che non c’era alcun motivo di preoccupazione. Così, dopo quei giorni, ritornò finalmente a casa riprendendo normalmente la sua vita. Il collocatore, Luigi Orofino, per fortuna, aveva deciso di non sporgere denuncia. Questo episodio si verificò tra il febbraio ed il marzo del 1956, poco prima di partire per il servizio militare.

IL PROCESSO PER CAUSATA RISSA Per Antonio era arrivato il periodo della chiamata alla leva militare. In verità, più o meno in quei frangenti o un poco prima, avendo valutato positivamente l’impegno profuso nell’incarico che gli avevano assegnato, il Partito aveva manifestato l’intenzione di inviarlo alla sua scuola quadri. Avevano la volontà di investire sulla sua formazione in proiezione futura. Cosa che però non si verificò a causa della secca opposizione dei suoi genitori. In casa non c’erano soldi e anzi troppe le necessità da fronteggiare. Non ci si poteva privare di un aiuto vicino ed ogni braccia era indispensabile. E’ stata quella per Antonio un’occasione persa, una cosa di cui si è spesso rammaricato. Forse il corso della sua esistenza futura sarebbe stato completamente diverso. Avrebbe preso altre strade e fatto altre esperienze. Un vero peccato! Partì per Bari, al CAR, e si fermò in quella città per 40 giorni. Poi fu trasferito in Friuli, a Latisana. Siamo nel 1956, l’anno della crisi d’Ungheria con l’invasione dell’Unione Sovietica e quello della crisi di Suez. Erano sempre in allerta col battaglione in quanto si era diffusa la voce di doversi tenere pronti. Potevano essere inviati, insieme ad altre due divisioni militari, proprio a Suez, in quell’area di crisi. Fu proprio allora che, mentre svolgeva il servizio militare, nel periodo intorno al giugno-luglio 1956, venne convocato in tribunale come imputato in un processo per una presunta rissa che si era svolta nella sede della Cgil di Forenza parecchio tempo prima. Gli si contestava di aver trasformato la sede in un luogo in cui si praticava il gioco d’azzardo. Lo si accusava, in sostanza, di traviare i giovani, portandoli sulla cattiva strada. In verità era accaduto che una sera, diverso tempo prima, sotto l’ispirazione di alcuni notabili locali della Democrazia Cristiana, due personaggi, due fratelli, avevano fatto incursione nella sede iniziando a provocare e a minacciare. Una provocazione bella e buona, orchestrata a freddo, fatta per bloccare la capacità di aggregare energie e forze contrarie al modo di gestire il potere nel paese. Notabili DC, in combutta col prete Don Domenico, non vedevano di buon occhio l’ attività di quel gruppo di giovani e volevano impedirla e stroncarla in ogni modo, definitivamente. Come è già stato ricordato, fino a quel momento, a quello cioè dell’avvio della loro attività, il potere locale era sempre stato interamente e strettamente nelle mani di un ristretto gruppo di proprietari agrari. Le famiglie Natale, Panni, Briola e pochi altri ancora decidevano ogni cosa, a proprio piacimento. Si trattava di notabili che si riunivano di frequente in un circolo dove facevano e disfacevano ogni cosa per come volevano e senza opposizione alcuna. Stabilivano le condizioni di esistenza e di lavoro delle persone del luogo.63 Prendevano a lavorare nei loro fondi solo le persone di loro gradimento. 63

Una lobby che voleva ad ogni costo dettare legge nel paese.

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Era cosa normale che un padre di famiglia, senza alcuna colpa, da un momento all’altro si trovasse licenziato a loro discrezione. Sceglievano chi avviare, distribuendo con assoluto arbitrio i sì e i no. Guai a chi faceva una qualsiasi osservazione o resistenza non gradita. Spesso ci si sentiva rivolgere la solita espressione “ Domani tu non vieni”. E sembrava che non si potesse porre alcuna resistenza a questo andazzo prepotente e primitivo. In quegli anni però, poco per volta, chi aveva deciso di non volere accettare per sempre quell’umiliante situazione aveva iniziato ad organizzarsi. Stava nascendo una forza giovane, sufficientemente coesa, robusta ed agguerrita. Allora si lavorava senza orario. Le uniche lancette erano quelle del sole che sorgeva all’alba dentro al cielo e che al tramonto poi si ritirava. Si lavorava per tutte quelle ore, in via continuativa. Più che lavoratori si era come schiavi. Ad ogni modo il tentativo di provocazione in Cgil fu respinto e i due infiltrati vennero cacciati fuori dalla sede in malo modo. Furono denunciati, Antonio e alcuni suoi compagni, e così si dovette presentare in tribunale. Il processo si sarebbe tenuto a Palazzo San Gervasio, un comune a circa 20 km. da Forenza, sede della Pretura. Venne informato della data dell’udienza e scese giù da Latisana. Nel caso specifico non valse il blocco delle licenze che era entrato in vigore proprio a causa della crisi del Canale di Suez. Tentarono in ogni modo di farli condannare spacciando la tesi che i due provocatori fossero iscritti dell’organizzazione, divenuti vittime di un’aggressione senza motivo e proditoria. Tentarono di mettere insieme testimonianze false e perfino di condizionare il segretario di allora della Cgil. Si volevano sbarazzare in tutti i modi di ogni scocciatore. In realtà fu piuttosto semplice smontare l’accusa costruita soltanto su un fragile castello di menzogne. Fu facile dimostrare, facendo prendere visione al giudice dei tagliandi-matrice degli iscritti di quello stesso anno e degli anni precedenti che i due non avevano mai fatto parte dell’organizzazione. Sceso a Bologna dal treno, si era diretto verso Sud, direzione Potenza. Giunto nel capoluogo della città lucana, si era immediatamente diretto alla sede del Partito. Era in divisa ma non era consentito, come militare, frequentare sedi di partito. Ad ogni modo informò i dirigenti della cosa, del fatto che si sarebbe tenuto il processo e gli fu garantito che sarebbe stato difeso dall’avvocato Ignazio Petrone, di Potenza, a cui in genere ci si rivolgeva per casi come quello. Emanuele e Carmine Argenza, questi i nomi dei due fratelli accusatori, vennero smentiti facilmente dalla cruda e indiscutibile verità dei fatti. In verità Antonio aveva avvertito anche il Partito nazionale, scrivendo direttamente a Togliatti ed ebbe l’impressione che si fosse intervenuti anche sulla Federazione di Potenza per garantire la difesa a tutti loro. In realtà aveva scritto spesso anche in precedenza, denunciando il fatto che nell’esercito per chi era di sinistra c’era il rischio della persecuzione e della più odiosa discriminazione. Sotto le armi leggeva ogni giorno l’Unità, poi la nascondeva. Alle sue lettere hanno sempre risposto dal Partito, da Roma. E sempre gli ha risposto, più avanti, la segreteria di Berlinguer. C’era un legame, più stretto di quanto accade oggi, tra direzione nazionale del Partito e militanti delle diverse zone di periferia. Peccato,dice con rimpianto Antonio, che ha perduto quelle lettere e non le abbia più. Più in generale, nel periodo militare non ebbe da registrare discriminazione alcuna. L’accusa cadde e venne così prosciolto pienamente, per non aver commesso il fatto. Al processo si erano presentati anche i suoi familiari con la fidanzata Pasqualina, che poi diventerà sua moglie. Concluso il dibattimento, doveva fare ritorno al corpo, immediatamente. I suoi familiari, al ritorno, presero il treno insieme a lui. Volevano accompagnarlo, almeno per un breve tratto di strada. Lui però, giunto a Venosa, decise di fermarsi e scese dal treno con la fidanzata. Si trattenne a Venosa per una notte ancora, prima di ripartire. A Venosa, proprio dentro al Castello, c’era anche la sede del Partito e vi si recò immediatamente. Nel ritorno perse la coincidenza a Mestre. Per giustificare il suo ritardo al rientro al corpo chiese alla polizia di apporgli il timbro sul biglietto. L’ottenne ma per la sua mancanza venne rinchiuso in cella e costretto a dormire sopra un tavolaccio. Tutto sommato però alla fine se la cavò bene, senza eccessivi danni. Faceva l’attendente del maggiore. Forse anche questo valse a fargli avere una punizione tutto sommato relativamente mite. Poco prima di partire militare, si era sposato, il 5 53


maggio del 1955. Allora si usava fare in questo modo. Chi era sposato aveva il diritto di vedersi ridotto il periodo della leva militare, con una riduzione da 18 a 12 mesi. Nel caso di Antonio il suo fermo durò solo 6 mesi, dal 17 luglio al 22 dicembre 1956. Il 5 luglio 1957 ricevette il telegramma di congedo definitivo.

L’ENORME NEVICATA Aveva appena concluso il periodo della leva e ritornò a Forenza, in un inverno rigido e freddo, proprio difficile da dimenticare. Nella fase finale dell’inverno del 1956, ci fu un’enorme nevicata. La neve, caduta copiosa in tutto il circondario, ricopriva ogni cosa, il manto bianco arrivava a 5/6 metri d’altezza. Non finiva mai di nevicare, tutto era fermo. Gli anziani non ricordavano di aver mai visto in precedenza nulla di simile nella loro vita. Quando il tempo iniziò a migliorare, ciascuno cominciò a darsi da fare in qualche modo. Si scavava e si cercava di spazzare via i cumuli di neve dalle strade. Lo spettacolo dell’area tutto intorno era per davvero desolante. Bisognava fare un po’ di spazio. La neve iniziava a consolidarsi e a trasformarsi in ghiaccio. Il Sindaco, arrivato al Comune, distribuì 1.000 buoni da 300 lire. Buoni che vennero affidati ad Antonio per la distribuzione. Ci si metteva in fila per ritirare il buono e per iniziare immediatamente a lavorare. Erano fondi ordinari del Comune. Allora c’erano 4.000 ettari di bosco ed in quell’area abitavano intorno alle 100 famiglie. Si erano costruite casette di legno. Si trattava per lo più di allevatori che avevano animali, capre, pecore, maiali. Dopo la nevicata, Antonio fece un accurato censimento del bestiame. Solo nel bosco c’erano 32.000 capi di bestiame. Al giorno d’oggi invece non ce ne saranno più di 500. A quel tempo il Comune aveva 12 milioni di Lire in cassa. Abbastanza danaro. Il Sindaco, dopo il momento più intenso della nevicata, si trovò tutto il Comune gremito di persone. C’era una grande agitazione, la gente non sapeva cosa fare. Si diresse verso la casa comunale e vide il Comune tutto pieno di acqua che scendeva copiosamente giù. La prima priorità era quella di liberare immediatamente il Comune. 1000 lire ad operaio per 5 ore di lavoro per togliere la neve. C’erano persone davvero bisognose, gente che aveva proprio fame! E intorno recriminazioni e proteste di ogni tipo! Una situazione che sembrava incontrollabile! C’era chi accusava il Sindaco di avere tentato di imbrogliare sul prezzo della manodopera e che invece bisognava dare ascolto a quel ragazzo, sì proprio a quel ragazzo, Antonio, che diceva la verità, promettendo che l’impegno profuso nel liberare le strade del paese dalla neve sarebbe stato poi ricompensato in modo giusto. C’era una grande confusione e l’assenza di direzione o di coordinamento. Antonio si affacciò al balcone e chiese con decisione a tutti i convenuti di iniziare a darsi da fare per liberare il Comune dall’acqua e dalla neve gelata. Bisognava iniziare subito, senza perdere tempo, mettendo da parte ogni tentennamento ed incertezza. Innanzi tutto c’era da affermare- su ogni cosa- l’interesse generale, la difesa della popolazione. Bisognava salvare il paese dal disastro! Diverse zone d’intorno erano completamente isolate e, persistendo questa situazione, entro tre giorni non si sarebbe potuto più trovare niente, né pane, né pasta, né sale. 54


Le strade di collegamento andavano perciò liberate subito, immediatamente. Bisognava rimuovere la neve ed il ghiaccio dalle strade per raggiungere Maschito, Venosa, gli altri comuni più vicini. Bisognava recarsi alle proprie case, a prendere le pale. Ad Avigliano c’era l’uso di fare grandi cesti di vimini, un’usanza assai remota e antica, vimini intrecciati particolarmente solidi e robusti. Sarebbero potuti risultare utili per raccogliere la neve. La neve che dalle strade interne doveva essere spazzata via e portata al più presto senza indugio sul corso principale. Se invece fosse proseguita quella situazione di emergenza senza fare nulla, in tre giorni si sarebbe rischiato seriamente di dover contare tanti morti. Arrivarono 300 persone. Ogni 10, senza capisquadra, un metro per ciascuno. Intorno era diventato tutto ghiaccio. Rimuovere il ghiaccio con la neve in verità era un problema. Si trattava di spaccare il ghiaccio e trasformarlo in grandi blocchi, poi si doveva accompagnare i blocchi, spingendoli in avanti senza scivolare. Così numerosi volontari si misero all’opera immediatamente e riuscirono a raggiungere Maschito. Era difficile realizzare quanto ci si proponeva ma, con l’impegno di tutti, ci riuscirono. Divisero le forze in due gruppi : 150 impiegati a liberare il paese, 150 fuori il paese. Nelle campagne, fuori del bosco, c’erano 100 e più famiglie, abitanti dei vigneti, con le loro casette e gli animali. Tutti bloccati, isolati ma- un poco per volta- si riuscì a liberare pure questi. I giovani erano stati impiegati nelle aree più lontane dal centro urbano. I più anziani invece nel paese. I giovani col compito di liberare le strade esterne al paese e le campagne. A Forenza, come avveniva ed avviene ancora oggi anche ad Avigliano, c’erano varie cantine dove si cucinava il baccalà. Furono attivate tutte per sfamare la popolazione. Era stata proprio una nevicata enorme, pazzesca, di una dimensione tale che non ne ricordavano di eguale neppure i più anziani. Appena finito, al ritorno, chi aveva lavorato trovava immediatamente i propri soldi. Antonio aveva ricevuto l’incarico della distribuzione del danaro. Per guadagnare 1000 lire era allora necessario lavorare per tre giorni di fila. Si recò dal sindaco per informarlo che il lavoro era stato correttamente completato. I soldi erano finiti, ne erano rimasti proprio pochi. Aveva preparato un dettagliato rendiconto delle spese sostenute, giorno per giorno. Non aveva trattenuto per se assolutamente nulla. Può giurarlo ancora oggi. A casa c’era bisogno di tutto, non avevano né grandi proprietà nè alcuna azienda. Il Sindaco, con sua grande sorpresa, iniziò ad imprecare contro di lui, lo ricoprì di insulti, accusandolo di avere sperperato tutti i soldi. Era un pezzo d’ uomo di due metri circa. Aveva mani enormi, simili a delle clave, e gli diede uno schiaffo così forte e violento che lo ricorda ancora. Lui che cercava di spiegare che i soldi erano serviti a pagare gli operai, che si era fatto un bel lavoro, il paese era stato completamente sgombrato dalla neve, le strade ripristinate e le persone soccorse dopo essere rimaste isolate per più giorni. Avevano impedito che si verificasse una tragedia! Barcollò, si girò su sé stesso fin quasi a cadere in terra e d’istinto, d’impulso e per reazione a quel violento atto di aggressione e d’ingiustizia, quasi senza saperlo si trovò ad afferrare una sedia di legno, solida e robusta, non come quelle plastificate che si fanno oggi e, con quella, lo colpì alla testa con tutta la forza e la rabbia che sentiva dentro. L’altro oscillò e cadde giù tutto d’un peso. Corse subito via. Doveva di nuovo riparare a San Nicola. Questa volta l’aveva fatta proprio grossa…! Una volta ancora tre, quattro, cinque giorni fuori casa. Ora per lui non ci sarebbe stata più pace per davvero. L’inverno del 1956 fu in Basilicata davvero molto duro e segnato, in altre zone, da accadimenti anche assai più gravi, drammatici e dolorosi. Un poco ovunque, assieme al freddo, si soffriva per una condizione di grande povertà. Il livello di precarietà delle masse bracciantili e contadine davvero molto forte. Una situazione che diede luogo a nuovi sussulti e lotte bracciantili, come a Venosa dove, nel corso di uno “sciopero a rovescio”, ancora una volta intervenne la polizia, facendo ricorso all’uso delle armi. Lo scontro tra braccianti e polizia lasciò sul selciato, senza vita, quel 13 gennaio del 1956, il giovane bracciante Rocco Girasole e causò il ferimento di 5 lavoratori. I braccianti si erano mobilitati per ripulire dal fango Via Roma che ne era stata invasa. Reclamavano l’attivazione dei finanziamenti previsti per l’effettuazione di simili lavori, finanziamenti previsti e tuttavia fermi da mesi e non mobilitati. 55


I braccianti, dopo essere rimasti oggetto del grave intervento della polizia, subirono il processo. Si ebbero arresti, nel centro storico di Venosa, 27 braccianti vennero imputati ed al processo si ebbero 12 condanne. I manifestanti, assolti in parte dalle accuse, furono condannati a complessivi 19 anni di reclusione.

L’IMPATTO CON TORINO Maturò allora, in seguito a quell’avvenimento, la decisione di abbandonare Forenza e di andare a vivere altrove, emigrando a Torino. Si era nel 1957 ed Antonio prese la decisione di lasciare il suo paese, per Torino. Aveva soltanto un indirizzo vago, un paesano che aveva frequentato la Camera del lavoro e che poi era andato a Grugliasco, in provincia di Torino. Si trattava di lasciarsi dietro di sè ogni legame familiare, abitudini di vita radicate, per affrontare un mondo nuovo e sconosciuto, carico di incognite. Sarebbe entrato in relazione con gente nuova, uscendo dalle precedenti consuetudini, prendendo contatto con una realtà del tutto nuova. Era in procinto di seguire la strada già imboccata da centinaia di migliaia, che poi diventeranno milioni di persone che, prima di lui, avevano effettuato quella scelta. Si apprestava ad affrontare quell’avventura anche con la speranza di conquistare per sè stesso una maggiore dignità ed al contempo per essere di aiuto alla famiglia, costretta ad una condizione finanziaria a quei tempi per davvero dura. Dentro di sé sperava che il suo atto avrebbe alla fine consentito ai propri cari di conseguire un migliore e più accettabile livello di esistenza. Aveva visto altre persone emigrare e poi ritornare al suo paese. Ricordava come l’emigrato rientrato nel paese non era più lo stesso uomo che era stato prima. Il duro tirocinio lo aveva in larga parte trasformato, sembrava aver raccolto dall’esperienza fatta una più ricca e vivace conoscenza della vita in quanto tale. L’emigrazione temprava il carattere e consentiva di raggiungere una diversa, più elevata e sicura coscienza di sé stesso e dei suoi diritti. La gente, rimasta a Forenza, ne era assai colpita e sorpresa al tempo stesso. Per molti di loro il mondo si apriva e si chiudeva dentro i confini limitati di quel posto in cui, come i loro antenati, erano nati e da cui non si erano mai mossi. Cosa si poteva trovare al di là di quel mondo ed oltre quel recinto? L’emigrato che tornava non sembrava più, di certo, soltanto il provinciale che era stato un tempo. Aveva accumulato, seppure in condizioni certamente dure e aspre, una sensibilità inedita, del mondo e delle cose. Aveva iniziato ad affinare una coscienza nuova, democratica nella dura competizione del lavoro. Ormai provava una repulsione per la cappa feudale ed oppressiva che scandiva le cose e il tempo al suo paese. Se aveva racimolato anche una modesta fortuna, ora pensava di mettere la propria energia e l’esperienza fatta altrove a disposizione della sua terra, per trasformare in meglio le proprie condizioni materiali di partenza. Si trattava, in ogni caso, di una riflessione ancora solo embrionale, abbozzata per grandi, nebulosi tratti generali. Più avanti vide le cose con l’occhio un po’ più attento e con uno sguardo ben più approfondito. In quel momento invece gli sembrava di portarsi nell’anima molte diverse e contrastanti sensazioni. Forse la più intensa era quella dell’incognita, dell’incertezza, mista a un senso di vuoto indefinito. Eppure era ormai certo di essere obbligato a seguire a tutti i costi quella strada, convinto che al distacco non ci fosse alcuna alternativa. Era giovane, pronto a cimentarsi con tutto, qualsiasi lavoro sarebbe andato bene. Non sapeva allora, neppure per approssimazione, cosa si sarebbe trovato a fronteggiare e alla fine cosa avrebbe fatto. Altri suoi paesani, gli spiegavano, 56


avevano trovato ogni genere di occupazione: c’era chi era diventato venditore ambulante, chi aveva fatto il barbiere, chi addirittura il suonatore di violino, il lustrascarpe, chi l’artigiano o il commerciante e chi, in larga maggioranza, era diventato un operaio. Ognuno cercava fortuna a modo suo, in un diverso posto, nuovo e sconosciuto, assai lontano dal piccolo borgo in cui era nato. In quel tempo non poteva fare alcuna previsione sul futuro, non sapeva proprio se un giorno sarebbe tornato ancora alla sua terra. Decise così di andare a trovare suo cugino Andrea, il suo unico contatto. Arrivò, dopo un lunghissimo viaggio, intorno alle dieci di sera. Non c’era nemmeno un pullman per giungere alla frazione Tedesco. Da Torino c’era sì un tram per Grugliasco, ma per giungere alla frazione invece niente. Mangiò solo un panino. Non c’era modo di arrivare al luogo che cercava. Un signore a cui aveva chiesto informazioni gentilmente gli indicò la strada. Bisognava camminare diritto, senza svoltare, per 7/8/10 Km, e si arrivava a quel paesino, un aggregato di pochissime case sparse. Chiese di Andrea, gli fu detto che lo si conosceva, era una persona di buon umore e che scherzava sempre. Quella sera era passato di là e se ne era andato un poco brillo. Avrebbero cercato comunque di trovarlo. Chiese di sapere dove si sarebbe potuto mangiare qualcosa e intanto, in un baleno giunse Andrea. Entrambi di buon umore, cenarono e bevvero insieme il vino. Si erano fatte già le dieci di sera, forse più tardi. La cena l’aveva voluta pagare un signore seduto in un angolo del bar. Lo ringraziarono e incominciarono a parlare con lui delle più varie cose. Visto che Antonio era meridionale, quel signore gli domandò cosa fosse venuto a fare lì. Rispose che aveva intenzione di fermarsi alcuni giorni col suo parente/amico e di guardarsi attorno per vedere se trovava un qualsiasi lavoro per guadagnare qualcosa e vivere. Il nuovo conoscente gli chiese se poteva essere interessato ad andare a lavorare insieme a lui. Era un maresciallo dei carabinieri ed abitava a Grugliasco. Un maresciallo in verità piuttosto originale. La mattina presto usciva con la divisa, ritornava a casa intorno a mezzogiorno ed indossava vestiti da lavoro. Conciato a quel modo, sembrava quasi un boscaiolo, da adibire al taglio della legna, alla rimozione del fieno. Intorno alla sua casa c’era un recinto coi cavalli, con altre varie bestie. Lo invitò a casa sua e, appena giunti, informò subito la moglie che aveva finalmente trovato il garzone che cercava. Era lì con lui, un cugino dell’amico Andrea. La mamma e la figlia gli prepararono subito un letto per dormire e il primo giorno lo lasciarono restare lì tranquillo. Il giorno seguente gli misero davanti 40 mucche da mungere. La famiglia era composta dai genitori e da due figlie. Dopo l’iniziale, naturale impaccio nel prendere confidenza con un lavoro che non aveva mai fatto prima, in breve riuscì nella pratica di mungere le mucche, con la loro stessa velocità e abilità. Dopo un mese ebbe il primo stipendio, 70.000 lire, una cifra che prima non aveva mai immaginato di vedere. Telefonò alla madre, dicendole che aveva trovato un impiego in una latteria. Coi primi soldi acquistò una bicicletta. Vedeva ogni tanto i pullman che andavano a Torino ( stava in periferia, in una campagna diversa da quelle della Basilicata). Una mattina le due ragazze, con grandi stivali, vennero a chiamarlo dicendogli che avrebbero dovuto lavorare per ripulire il pozzo. Antonio aveva sempre pensato che, per tale compito, bastasse ricoprire l’area con la calce. Si trattava invece di un pozzo nero da cui si doveva estrarre il letame con i secchi, a mano. Comprese subito di non essere capace di reggere un simile lavoro ed anzi totale era la sua incompatibilità con quel tipo di vita di campagna. Decise di lasciare tutto, di andare via. Iniziò a girare intorno con la bicicletta, alla ricerca di una nuova occupazione. Girava per i cantieri, domandando se avessero bisogno di qualche manovale. In genere non si scontrava 57


mai con un rifiuto secco, quanto piuttosto gli veniva rivolto l’invito, formalmente cordiale, a ripassare qualche giorno dopo, magari perché si era assunto qualcuno appena poco prima. Era difficile, vedeva intorno a sè lo spazio che brulicava di lavoro e di attività le più svariate. Si era nel 1957. Allora c’erano già tante cooperative nell’area torinese. Per se stesso riusciva a trovare solo alcuni piccoli e saltuari lavoretti, un giorno qui, un giorno là, che gli consentivano di sbarcare il lunario in qualche modo. Si sentiva un nomade. Ebbe modo di conoscere per caso una persona che preparava il pane e che poi lo portava in giro per la vendita. L’uomo gli propose di lavorare con lui, facendo i giri di consegna ai suoi clienti. E di impegnarsi a procurarne di ulteriori. L’approccio a quella nuova attività fu positivo. In breve coi risparmi riuscì a comprare un piccolo furgone. Faceva il rappresentante e distribuiva il pane per i negozi. Nei vari itinerari iniziò ad incontrare tanti meridionali.

Torino e la sua provincia cominciavano ad accogliere in quegli anni una grande massa di uomini del sud, provenienti dalle più diverse regioni, Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, Sardegna ed in procinto di essere immessi nel circuito produttivo della grande azienda industriale, della Fiat, ma anche in tante altre aziende, di diversi settori industriali o dell’indotto. Poco per volta si impratichii sempre di più di quel lavoro e maturò l’idea di mettere in piedi un’attività in proprio. Ben presto riuscì ad avere con sè addirittura 8 operai, lavoranti con lui a tempo pieno. 8 mesi erano stati sufficienti ad individuare un posto dove fare il pane, a mettere in funzione i forni, partendo a pieno ritmo. Aveva conosciuto diversi panettieri da cui aveva appreso ogni segreto del mestiere e tante cose su quello specifico lavoro. Andò avanti così, tre anni e più, finchè non gli accadde un incidente. Due operai che lavoravano con lui si sposarono nello stesso mese. Per sostituirli, senza rallentare il ritmo produttivo, Antonio lavorava notte e giorno, senza tregua. Quella era l’ultima domenica in cui avrebbe dovuto impegnarsi intensamente, almeno uno dei due sarebbe tornato al lavoro il giorno dopo. A trecento metri di distanza da casa sua, mentre guidava, perse il controllo del furgone. Era stanchissimo, non aveva quasi dormito per i ritmi di lavoro a cui si era sottoposto in quel periodo. Un improvviso colpo di sonno e non capì più nulla! Finì per scontrarsi frontalmente con un tram che procedeva in senso opposto al suo. Prese male la curva e il tram lo investì in pieno, trascinandolo con sè per una decina di metri prima di frenare. Concluse la sua corsa contro un albero, il furgone distrutto, completamente privo di sensi, tramortito. A Torino era giunto nel maggio del 1956. Anche per lui, come per la quasi totalità dei meridionali, l’inserimento nella nuova realtà era stato assai difficile. I primi anni per davvero terribili! I meridionali vivevano molto, ma molto male! Venivano nella grande città segnata dal marchio della Fiat da tutte le regioni del Mezzogiorno d’Italia, lucani, napoletani, pugliesi, calabresi, siciliani. Quante volte Antonio si è sentito dire “ Napoli: Mangiasapun!” Era difficilissimo trovare un alloggio. I proprietari non affittavano ai meridionali! Si potevano trovare al massimo soltanto le soffitte! Senza alcun dubbio si viveva meglio all’estero, ad esempio in Germania, piuttosto che a Torino. Eppure erano della stessa nazione, tutti italiani, almeno a parole e sulla carta! E’ spiacevole dirlo, ma si avvertiva allora in giro un clima ostile, come impregnato di pregiudizi e di uno squallido razzismo. E poi si era discriminati in vari modi, si faceva finta, ad esempio, di non capire nulla di ciò che dicevano gli immigrati. Molti di loro, in realtà, sapevano parlare soltanto il proprio dialetto. In verità, i progetti futuri di Antonio per Torino erano stati all’inizio ben diversi da ciò che poi invece si concretizzò. Come la grande maggioranza di coloro che si recavano a Torino, la vera speranza era quella di impiegarsi alla Fiat, nell’industria più grande e prestigiosa d’Italia. Un lavoro 58


che gli avrebbe garantito per tutta la vita il suo futuro, una prospettiva che cercò di concretizzare, appena gliene venne offerta l’opportunità, in ogni modo. Si trovava ormai a Torino già da alcuni anni ed aveva trascorso il tempo impegnandosi in vari lavori. Con la famiglia aveva iniziato a cambiare più volte abitazione, dal primo alloggio, di fortuna, con una sola stanza, al terzo piano di Piazza Statuto, in fitto presso una famiglia originaria di palazzo San Gervasio, da cui si era poi trasferito in Via Brescia, in Corso Giulio Cesare, lungo la via che portava nella direzione di Milano e poi, più avanti, quando la famiglia era ormai aumentata, prima in Via Cuneo, nella prima abitazione un poco più decente, con due camerette ed i servizi posti nell’interno e per finire a Settimo Torinese, quando immaginava che ormai la sua esistenza si era strutturata saldamente in via definitiva. Aveva già conosciuto persone come Michele Moretti, di Rionero, che lavorava all’Inps, una persona con cui finì ben presto per stringere amicizia e per condividere, politicamente, un tratto di strada insieme. Aveva trovato a quel tempo lavoro presso un’impresa edile, a Torino città, dove lavorava il geometra Ravarelli. Costui aveva preso un lavoro a Mongrevo. Si trattava di ristrutturare una villa del dottor Michele Giardinelli, primario di ostetricia presso le “ Molinette” di Torino. Un dottore che poi sarà il padrino di suo figlio Salvatore. Aveva lavorato nell’impresa edile per più di un anno, poi a Torino l’impresa non aveva più continuato, trovando altre occasioni di lavoro solo a Como. Bisognava, se si voleva continuare con l’impresa, trasferirsi a Como tutta la settimana, per tornare a Torino soltanto la domenica. Cosa che Antonio, per bisogno, accetterà di fare. Abitava allora con la famiglia a Via Cuneo e Salvatore aveva solo 8-9 mesi. Un giorno, siamo nel periodo 1966-1967, per caso, mentre si trovava sul balcone di casa, sentì un vicino che si rivolgeva alla moglie usando espressioni e frasi in dialetto lucano. Si trattava di un altro compaesano, di Banzi, con cui, pur essendo suo vicino, non aveva mai scambiato alcuna frase e della cui esistenza non si era mai accorto fino a quel momento. Era un operaio e lavorava alla Fiat, il posto di lavoro a quel tempo a Torino più agognato. Dopo che furono entrati abbastanza in confidenza, Antonio gli chiese cosa c’era da fare per andare a lavorare nella città dell’automobile. L’altro lo informò che si doveva presentare anzitutto la domanda di richiesta di assunzione e si offrì di accompagnarlo a fare i colloqui necessari. Comunque, per presentare la domanda, lo accompagnò alla sede della DC, in Piazza Crispi. Naturalmente, quando fosse stato chiamato al colloquio tramite telegramma, da parte della Fiat, presumibilmente entro una settimana, per non perdere l’occasione, avrebbe dovuto assolutamente presentarsi. Si recò anche presso l’autorità ecclesiastica, alla sede del Vescovo, lasciando anche lì l’identica domanda di assunzione. In entrambi i casi si sentì rivolgere alcune domande tipo, innanzi tutto se era sposato e se frequentava partiti politici o sindacati e quali. Data la situazione e considerando la sua necessità di lavorare, Antonio aveva risposto negando di aderire a qualsiasi formazione. Era una persona tranquilla, voleva soltanto lavorare. Non si poteva, in quegli anni e in quelle contingenze, eccedere con l’esposizione pubblica dei propri sentimenti, dei pensieri, degli ideali in cui credeva. L’amico lo aveva informato a tempo e bene di come dovesse fare. Per presentarsi al colloquio il giorno stabilito, doveva per forza chiedere un permesso, questione in vberità difficile da ottenere, se non per casi gravi. Una volta ricevuta la lettera di convocazione, subito chiamò i suoi chiedendo di inviargli, con la massima urgenza ed in giornata, un telegramma in cui doveva essere scritto che era urgente la sua presenza giù, al paese, in quanto la madre stava molto male. La sua richiesta venne esaudita immediatamente. Col telegramma si presentò al geometra Ravarelli, chiedendo il permesso che non gli potè essere negato, causa la gravità della situazione che si rappresentava. Il giorno del colloquio uscì di casa e prese il tram, con fare guardingo, come di nascosto. Alla Fiat, al colloquio, come era avvenuto in precedenza nelle altre sedi, gli vennero fatte le identiche domande, e ancora si insistette sulle sue abitudini e sulle frequentazioni. Gli avrebbero risposto in poco tempo, poteva esserne sicuro. La risposta arrivò, con un altro telegramma, in cui lo si informava che, per quella volta, la sua richiesta non poteva essere 59


accolta positivamente. Antonio in verità ne fu stupito, molto. Sorpreso, chiese al vicino il perché di quella risposta negativa. E comprese il perché di quella cosa. Era accaduto che un giorno, mentre tornava a casa, si era fermato vicino alla sezione del Pci per leggere un manifesto a lutto in cui si esprimeva il cordoglio del partito per la morte di un operaio delle ferriere, accaduta in seguito a un incidente sul lavoro. Evidentemente Antonio si era fermato e aveva letto il manifesto e in quello stesso istante era stato notato da qualcuno che aveva informato della cosa la direzione Fiat. Probabilmente si era trattato di qualche portiere particolarmente zelante e premuroso che, a domanda, aveva girato quella informazione disinvoltamente. Questa la spiegazione che gli venne data dall’amico. Tesi in verità, per quel tempo, piuttosto veritiera. E’ nota infatti l’estrema attenzione dell’azienda ed anzi la particolare diffidenza che la induceva a utilizzare ogni possibile sistema informativo per sindacare i dipendenti, sia quelli già in forza, sia coloro che potevano trovarsi in procinto d’iniziare la loro attività sotto l’impresa. Lo spionaggio industriale, dagli anni 50 in poi era particolarmente odioso e soffocante. Ogni possibile sistema di controllo dell’impresa verso il lavoratore veniva messo in moto. Una vicenda odiosa, certamente, che però valse a far maturare nella coscienza di Antonio una profonda convinzione, da cui non si sarebbe più mai distaccato. Non avrebbe più svolto un lavoro alle dipendenze di qualcuno. Da quel momento in poi avrebbe cercato d’impegnarsi solo in attività di lavoro autonomo, avrebbe lavorato da solo, qualunque cosa da quel momento in poi avrebbe fatto. Sarebbe stato il solo imprenditore di sé stesso. Si è ricordato l’episodio particolarmente odioso ed esplicativo del clima che allora si viveva. In verità la città di Torino, come le maggiori città del Nord, inizierà a cambiare poco per volta solo dopo il 1960. Nel quinquennio 1960-1965 comincerà un clima nuovo, anche in seguito alle varie lotte operaie che si svilupperanno. Un passaggio, assai significativo di quella fase, sarà rappresentato, senza dubbio, dai fatti di Piazza Statuto, dai gravi scontri che si verificheranno nella capitale piemontese in seguito al grave clima di divisione che purtroppo si verificò tra i Sindacati nel corso della battaglia per il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici.

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L’INSEGNAMENTO DI GIUSEPPE DI VITTORIO Uno dei riferimenti più autorevoli ed importanti per Antonio Sileo, nel corso della sua lunga militanza, è stato, senza dubbio, Giuseppe Di Vittorio. Era il segretario generale della Cgil nella fase in cui Antonio, ancora molto giovane, iniziava la sua esperienza di attivista e militante, del Partito e del Sindacato. Dopo la sua scomparsa, della vicenda politica ed umana di quel sindacalista prestigioso è capitato ad Antonio di leggere molte altre cose sopra i libri. Crede fermamente che è stato, insieme, un grande dirigente sindacale e un grande uomo, di una statura nazionale e mondiale. Capo e costruttore del sindacato. Aveva affetto per i lavoratori, agiva ed operava sempre con passione. Faceva le cose con il cuore, perciò si stabiliva con lui un’immediata e intensa sintonia. E’ stato senz’altro il più grande dirigente della storia del Sindacato italiano. Ha dato voce a chi non aveva alcuna voce ed è stato anche un grande educatore. Uno straordinario riferimento, etico e politico, per i lavoratori. Antonio ricorda ancora bene le parole, che gli sono rimaste infisse nella mente, che Di Vittorio pronunciò il 1945 in occasione del Congresso provinciale del PCI a Bari, in preparazione del Congresso nazionale 64: “ Il comunista …deve ricordarsi sempre del suo dovere di essere modello di moralità a tutti gli altri lavoratori”…ed è necessario che “ egli trovi il modo di aiutare il compagno o il semplice lavoratore che si trovi in condizioni peggiori degli altri, che sia oggetto di una disgrazia, che sia in particolari condizioni di miseria, di fame o disagi”65 Per il vecchio militante del Sindacato e del Partito, Di Vittorio è stata la più grande ed incisiva espressione del movimento sindacale, così come Togliatti è stato il maggiore dei dirigenti della storia del Partito. Un grande ed autentico genio della politica. Non c’era da sorprendersi del carisma che lo circondava. L’affetto e la stima che i lavoratori provavano per lui non era per nulla esagerato! Da lontano il mito del grande dirigente lo aveva affascinato e conquistato. Antonio ricorda, come in sogno, la grande tristezza che si diffuse all’indomani della sua scomparsa.

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Il V Congresso nazionale del PCI si terrà a Roma dal 23 Dicembre 1945 al 7 gennaio 1946 AIG, PCI, Federazione di Bari, Verbali del Congresso Provinciale, 19-21 ottobre 1945, in Luca Bussotti, Studi sul Mezzogiorno repubblicano: storia politica ed analisi sociologica”, Rubbettino, 203, p.81 65

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Era il Novembre 1957, un triste inverno. Antonio era già a Torino e a Lecco si spegneva Giuseppe Di Vittorio. Nel profilo che ne traccia, con rimpianto, Antonio c’è concentrato il grande affetto per lui provato da tutto il mondo del lavoro. Di Vittorio era un uomo del popolo, un bracciante autodidatta che rappresentò mirabilmente, col personale esempio di coerenza profuso senza risparmio nel corso di tutta la sua vita, l’impetuoso impulso all’emancipazione degli operai del Nord e del proletariato contadino e bracciantile meridionale. La sua vita era stata per più aspetti leggendaria. Giovanissimo aveva combattuto nella guerra civile che si sarebbe protratta dal 1936 al 1939, coi volontari antifascisti giunti in Spagna da ogni parte d’Europa e del Mondo, in difesa del legittimo potere della Repubblica mortalmente aggredita e minacciata dalla sollevazione militare del generale Franco. Dopo l’adesione al Partito Comunista Italiano ne era rapidamente diventato, con Togliatti, Amendola, Longo e Terracini, uno dei capi più prestigiosi ed autorevoli. L’esistenza del grande dirigente sindacale attraverserà aspri scontri sociali e traversie passando per innumerevoli disastri ed illusioni, e finirà per intrecciarsi, pienamente, con la vicenda storica, politica e culturale più complessiva del suo Paese e del suo popolo. Di Giuseppe Di Vittorio ha letto e approfondito l’opera e il pensiero e ritiene di non sbagliare sostenendo che il capo del Sindacato ha sempre inteso perseguire, nella sua lunga azione di dirigente del movimento sindacale italiano, un preciso filo conduttore essenziale ricercando, con estrema tenacia, il costante intreccio tra la strenua difesa degli interessi del mondo del lavoro con quelli più ampi e generali della Nazione, non facendo mai prevalere l’unilateralità dei primi sui secondi. Giungerà addirittura a prospettare la disponibilità alla rinuncia ad una quota di aumenti salariali in cambio di più ampi diritti per il complesso del popolo italiano. E la proposta era stata accolta con ampio consenso dai lavoratori. Migliorare le insostenibili condizioni materiali nelle quali si era venuta a trovare, subito dopo la tragica guerra perduta, una larga parte della società nazionale e, in specie, il Mezzogiorno d’Italia, ampliare la conoscenza e la cultura delle grandi masse lavoratrici analfabete o semianalfabete della società nazionale di quel tempo, i suoi obiettivi principali e prioritari. Anche in Basilicata, in una terra apparsa condannata da secoli, come per sempre, ad un destino fatalmente disastroso, la sua lezione ed il suo esempio rifulgevano, dando più forza, ragioni, energie al grande movimento di riscossa che s’era messo in moto. L’estensione capillare della conoscenza e del sapere, fin nelle pieghe più profonde delle masse operaie, bracciantili, contadine, era nella sua visione la condizione decisiva per fondare una nuova società, elemento essenziale per rafforzare le basi di massa della Democrazia Italiana. Ed in Basilicata il problema tra tutti più importante era proprio quello di favorire la crescita del sapere e della conoscenza, il grado di civiltà delle masse contadine analfabete costrette all’assoluta marginalità, ad un ruolo completamente subalterno rispetto alla forza degli antichi poteri già costituiti. Il nuovo Stato sarebbe stato saldo ed indistruttibile solo se costantemente innervato dall’attiva e consapevole partecipazione della grande maggioranza dei cittadini. Di Vittorio sollecitava la vigile attenzione delle masse popolari, anche e soprattutto le più umili, alle vicende della cosa pubblica, lottava contro ogni passività e indifferenza. Il destino i lavoratori dovevano costruirselo con le proprie mani! Lo Stato Nazionale, fino a quel momento, era apparso per troppo lungo tempo altro da sé alle classi lavoratrici ed anzi spesso ad esse decisamente e frontalmente ostile.

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Ora era invece finalmente giunto il momento di avviarne l’intrinseca mutazione, condizionarne la riorganizzazione nel senso di un progressivo ampliamento delle sue basi democratiche di massa. La difesa e l’ampliamento dei diritti primari di cittadinanza, per tutti gli italiani, al di là del censo di provenienza i suoi obiettivi. La Costituzione Repubblicana doveva significare l’avvio della creazione di una democrazia, “di tipo nuovo”, che avrebbe potuto di per sè respingere qualsiasi tentazione e suggestione involutiva, di segno conservatore o reazionario. In questo contesto, un’attenzione per davvero particolare doveva essere rivolta al Mezzogiorno, con l’infinito suo crogiuolo di problemi. Il Sindacato doveva svolgere un ruolo insostituibile, d’educatore permanente alla democrazia ed alla libertà, insegnando a praticare la tolleranza ed il rispetto verso gli altri, sollecitando e non eludendo il confronto tra le diverse idee e posizioni in campo. Doveva rivolgere il massimo della sua attenzione ai semplici, considerati, finalmente ed a tutti gli effetti, cittadini dello Stato, portatori di legittimi diritti ed esigenze, mai più entità passive e subalterne. Di Vittorio aveva affinato la sua straordinaria e naturale sensibilità umana anche grazie alla lettura di testi quali “La Città del Sole” di Campanella ed i “Promessi sposi” del Manzoni, testi importanti in cui aveva ritrovato concetti semplici, ed al contempo profondi, che esprimevano ciò in cui credeva: l’idea della necessità di battersi per edificare una nuova società, più libera ed eguale, il rispetto e la considerazione per i più umili, l’obbligo di agire per restituire ad essi finalmente la dignità ed i diritti negati. Concetti limpidi e cristallini che anche in Antonio accesero come una luce, procurandogli un nuovo supplemento di coscienza che, negli anni a venire, costituiranno il riferimento costante e l’ispirazione dei modi del suo agire. La vita del grande dirigente sindacale era di per sé uno straordinario esempio e una lezione! L’esperienza disastrosa della Grande Guerra, la cruda e diretta conoscenza della violenza della dittatura fascista, la lotta mortale scatenata dal padronato agrario contro i braccianti, la grande prova della militanza antifascista nello scontro feroce e senza quartiere tra dittatura e libertà, avevano concorso a temprare il carattere e le convinzioni dell’uomo. Nella spietata lotta per la sconfitta del nazismo e del fascismo italiano, Giuseppe Di Vittorio aveva sempre teso a riunire, insieme, pensiero ed azione e a coniugare, progressivamente, la razionale ed ottimistica speranza di un futuro migliore per il popolo con la paziente ricerca di un nuovo e più ampio collegamento, solidale, con tutti i lavoratori d’Europa e del Mondo. Di Vittorio fu uno dei primi dirigenti della sinistra italiana a comprendere in pieno l’importanza, decisiva, dell’unità come valore in sé e criticò -più volte- gli elementi, degenerativi, che iniziavano ad apparire evidenti nella concreta esperienza pratica del socialismo reale. Antonio perciò non si è mai sorpreso nel constatare che nella sua visione dei modi e delle forme di sviluppo originale della democrazia italiana, nell’impegno profuso senza tregua per la realizzazione del socialismo, per Di Vittorio i valori della democrazia andavano esplicitati ed intrecciati con le garanzie di libertà, per tutti, al di là ed oltre le convinzioni politiche, culturali, religiose. Di Vittorio aveva respinto con fermezza l’idea di un sindacato di regime, obbligatorio, ed aveva anzi puntato alla messa in crisi del “modello” di un’organizzazione ridotta a mero esecutore delle direttive del Partito politico, subalterna cinghia di trasmissione del potere o dei poteri economici o politici. Nettamente contrario, al contempo, ad una visione corporativa del Sindacato, relegata alla dimensione, esclusiva, della rappresentanza degli immediati interessi economico-pratici dei lavoratori iscritti ed associati. Il grande fronte del lavoro dipendente e dei disoccupati meridionali doveva invece costantemente armonizzarsi con gli interessi generali della Nazione cui, se necessario, andava anzi sacrificato ogni 63


eccesso di rivendicazionismo di parte, di gruppo, di ceto. Anche in Basilicata e nella sua piccola realtà ogni iniziativa di lotta, per aver successo e condurre a risultati, non poteva prescindere dalla necessità di costruire il massimo di consensi della parte più ampia ed estesa della popolazione intorno alle ragioni delle lotte sostenute da braccianti e contadini. In ogni caso le lotte sostenute ed i successi realizzati non si sarebbero mai potuti conseguire se il fronte di lotta non fosse stato unito. L’unità era lo strumento più efficace e decisivo per combattere ogni posizione settaria, lo spontaneismo irrazionale, gli angusti localismi, le incontrollate rabbie anarchicheggianti, le spinte corporative che – già a quel tempo- allignavano nel Sindacato. Ed era la diga insormontabile per bloccare e sconfiggere, fin dal suo sorgere, qualsiasi tendenza proiettata a far riemergere, nella società italiana, processi regressivi, autoritari e reazionari. Le Camere del Lavoro dovevano operare, in maniera tangibile, per esprimere la solidarietà tra i lavoratori dei diversi settori decidendo, a livello confederale, le strategie generali a cui le singole categorie, nel loro pratico agire quotidiano, avrebbero dovuto disciplinatamente attenersi. Bisognava costruire, in coerenza dell’insegnamento di Gramsci, il progressivo consolidamento dell’alleanza tra popolazione rurale del Sud e proletariato industriale del Nord. Nel 1949, nel “Piano del Lavoro” erano stati limpidamente esplicitati e riassunti, in modo chiaro e sintetico, gli elementi essenziali di quelle convinzioni.66 Con esso s’intendevano affrontare i nodi irrisolti di una democrazia e di un’economia ancora fragile e anomala, esposte ad equilibri internazionali incerti e problematici, così come le questioni di lungo periodo ancora aperte, come quella del mezzogiorno. L’Italia continuava a soffrire una gravissima crisi politica, economica, civile, morale. Il Piano fu una proposta autonoma della Confederazione, sia dal versante economico che politico, costruita col concorso decisivo di molti economisti e di studiosi, che ebbe un formidabile significato culturale ma anche, purtroppo, un impatto politico piuttosto limitato. Le forze politiche della maggioranza centrista, infatti, mantennero un atteggiamento prevenuto ed evasivo, rifiutando in sostanza il confronto di merito con la Cgil. Eppure le proposte in esso contenute erano guidate da considerazioni assolutamente pertinenti. Il nemico mortale da battere era la reazione. La disoccupazione e l’arretratezza del Sud, la rimozione delle sue strutturali cause oggettive, costituivano il banco di prova primario e decisivo per le forze di progresso. Affrontare e portare a soluzione l’annosa questione meridionale, tendere al progressivo superamento delle contraddizioni e delle diversità nella crescita e nella qualità dello sviluppo che avevano penalizzato fortemente quella parte decisiva del paese, il punto imprescindibile- per realizzare un più armonico salto di qualità da cui avrebbe tratto vantaggio tutta la Nazione nel suo insieme. Il movimento dei lavoratori, ponendo la questione della Rinascita del Mezzogiorno al centro della propria ricerca teorica, dell’azione e dell’organizzazione della mobilitazione democratica, in specie negli anni seguenti alla conclusione del secondo conflitto mondiale, avrebbe dovuto dimostrare di riuscire a esercitare, pienamente e con coerenza, una funzione dirigente autenticamente nazionale. La motivata rinuncia alla richiesta di ulteriori, forti aumenti salariali per gli occupati, possibile veicolo d’incremento d’inflazione, era condizionata al fatto che, in cambio, iniziasse ad essere aggredita e sconfitta la dolorosa piaga della disoccupazione, in specie nel Mezzogiorno. Un’ispirazione-ancora oggi- di stretta e stringente attualità. Il segno distintivo della funzione della solidarietà, idea forza essenziale intorno a cui era nata e si era consolidata l’organizzazione confederale, la Cgil. Bisognava superare qualsiasi visione protestatoria, ogni primitivismo 66

Nel corso del 1950, Di Vittorio presentava- a nome della Cgil- il “Piano del Lavoro”, in cui si proponeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il lancio di un vasto programma di opere pubbliche e di edilizia popolare, la costituzione di un ente nazionale per l’irrigazione e la bonifica delle terre. Con questa proposta il Sindacato si proponeva come forza sociale nazionale in grado di parlare a tutto il paese e di tenere insieme, uniti, gli occupati ed i disoccupati, gli operai del Nord ed i braccianti delle campagne del Sud.

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anarchico per sostituire alla funzione, non nazionale, delle “classi dirigenti e dominanti” chedall’Unità in avanti- tanto danno e rovina avevano arrecato al Paese, un’alternativa di vera solidarietà.67 La realtà locale, in cui si svolgeva l’esistenza e l’impegno civile di Antonio, manifestava, nella sua specificità, integralmente tutti gli elementi d’ingiustizie e distorsioni deteriori contro cui era giusto e indispensabile opporsi e ribellarsi. Andava incrinato e battuto, con la lotta, il deleterio intreccio di poteri causa di quelle arretratezze, dell’intollerabile grumo d’ingiustizie accumulate. Andava prodotta una rottura radicale con una miope gestione che, dal suo sorgere e fino a quel momento, aveva sempre spregiudicatamente e violentemente piegato lo Stato agli interessi di classi, ceti e gruppi potenti che ne avevano prepotentemente occupato pressoché tutti i gangli vitali. Antonio individuava chiaramente tali forze nel mondo dei proprietari più retrivi, delle componenti più arretrate e reazionarie del partito democristiano e della chiesa, arroccati in difesa degli antichi privilegi e indisponibili all’avvio di un qualsiasi più giusto e sano processo di riforma. L’Italia dell’immediato secondo dopoguerra, distrutta e disperata, ridotta ad un cumulo di macerie materiali e morali, doveva rinascere, risollevandosi come Nazione. Nessuno all’infuori della classe lavoratrice poteva esercitare questa funzione con identico prestigio ed autorevolezza. Essa sola, infatti, nel corso della deflagrazione bellica aveva difeso dal saccheggio e dalla distruzione risorse e patrimonio economico, artistico, materiale, produttivo del Paese svolgendo, a fronte dell’assoluto vuoto di potere che si era determinato con la fuga del Re e della Monarchia, un’insostituibile funzione di supplenza, di direzione, politica e morale. Andava contestualmente contrastata l’emersione di un nuovo e dogmatico integralismo reazionario e clericale. Antonio coglieva a pieno gli elementi di speranza e le straordinarie aperture insiti nel messaggio di Di Vittorio. Il grande “Piano del Lavoro” fu, per quest’insieme di ragioni, un’operazione di enorme rilevanza etica, politica, morale. Le numerose lotte che ha promosso e a cui ha partecipato Antonio nel proprio territorio hanno sempre proposto la questione del lavoro. In tal senso aveva ben compreso come il tentativo di Di Vittorio era rivolto a suscitare nelle classi lavoratrici e nel popolo, nei disoccupati e tra i ceti produttivi, nel mondo della cultura e tra gli intellettuali, le condizioni per uno scatto d’orgoglio per risorgere attingendo alle risorse ed ai valori dell’impegno, dell’ottimismo, della solidarietà. Certo Antonio Sileo non è da annoverare tra i critici di Di Vittorio che avevano trovato il modo di irridere a questa impostazione banalizzandone, con sufficienza e con saccenteria, l’essenzialità, la semplicità e la granitica forza dei contenuti, non dimostrando altro se non la propria persistente miopia, l’assenza assoluta di qualsiasi visione nazionale. Di Vittorio rimase per sempre, fino alla fine, persona semplice, dotata di straordinaria umanità, cui erano estranee supponenze, arroganze ed arroccamenti settari d’ogni tipo nell’esercizio della funzione, pur rilevante, di direzione di un movimento di milioni di lavoratori che era stato chiamato a ricoprire. Per Antonio un ulteriore, straordinario insegnamento questo. La realizzazione dell’unità, di sostanza e sulle cose, è percorso sempre assai complesso, tortuoso, faticoso. In tal senso non era affatto interessato al raggiungimento di alcuna forma di unità burocratica e formale, perciò fittizia. La cruda consapevolezza dei danni prodotti dalle insormontabili divisioni che si erano consumate nei precedenti decenni tra le diverse articolazioni culturali, politiche e religiose del mondo del lavoro, i drammi e le tragedie ne erano derivati, a partire dall’avvento della dittatura fascista, lo inducevano a sottolineare, di continuo, il valore immenso ed insostituibile dell’unità. In ogni passaggio essenziale delle lotte che si è trovato a sostenere, di conseguenza, Antonio si è sempre confrontato e rapportato col pensiero degli altri, dei lavoratori, dei suoi concittadini. Si deve sempre fare le cose, sbagliando o indovinando, insieme agli altri! Andava fatto ogni sforzo per prevenire 67

I concetti di “direzione e di dominio” appaiono a proposito della questione dell’egemonia nell’elaborazione dei “Quaderni dal carcere” di Antonio Gramsci.

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possibili lacerazioni, che avrebbero finito per risultare insanabili per le prospettive del mondo del lavoro. Rispetto all’intransigente difesa dell’unità - ciascuno doveva rinunciare, se necessario, ad una quota delle proprie convinzioni, alla strenua difesa dell’interesse suo “particulare”, delle proprie orgogliose peculiarità. Ciò non poteva però significare eludere o sbiadire i caratteri ed i valori originari, distintivi e peculiari, del movimento dei lavoratori, né era accettabile l’idea di snaturare la sua storia. L’autonomia del Sindacato dal sistema istituzionale, dai governi, dal padronato, da tutti i partiti, compreso il suo, cui aveva aderito negli anni “di ferro e di fuoco”, nel pieno di una delle fasi più feroci della guerra di classe era valore insostituibile e primario. Negli anni’50 l’integralismo comportava di frequente l’emarginazione e l’isolamento del dissenso. Le scomuniche non erano materia di esclusiva pertinenza delle autorità ecclesiali. La tendenza alla messa al bando degli eretici esercitava anzi una notevole suggestione nelle stesse fila del movimento operaio democratico e di sinistra. Giuseppe Di Vittorio fu coerente, cercò di difendere con tenacia ed energia i suoi valori e le proprie convinzioni anche quando ciò gli risultò politicamente assai rischioso. Clamoroso il suo pubblico distinguo, contro la posizione ufficiale di Togliatti e della Direzione del Partito, il 30 Ottobre 1956, all’indomani dei tragici fatti di Polonia e d’Ungheria. In quella occasione il leader sindacale manifestò, in maniera assolutamente chiara ed esplicita, il profondo dissenso dalla linea assunta, a larga maggioranza, dalla Direzione del Partito. E fu isolato dalla quasi totalità del gruppo dirigente. Posizioni solo più tardi attenuate e corrette, almeno in parte, in occasione dell’VIII Congresso del PCI. Nella visione di Giuseppe Di Vittorio uno Stato che reprime, col ricorso alla violenza armata, le richieste degli operai e dei lavoratori di migliori salari e di maggiore libertà non è uno Stato né democratico né socialista. In Italia, come in Polonia ed Ungheria, nel conflitto esploso tra Partito e Stato da una parte e movimento operaio dall’altra, si schiererà al fianco dei lavoratori, difendendone l’insostituibile funzione storica progressiva. Anticiperà di molto le posizioni che, più avanti, rispetto alla nuova tragedia della Primavera di Praga e della dura repressione che da parte sovietica ne conseguirà, nel 1968, tante altre forze democratiche e socialiste dell’Occidente a loro volta assumeranno. Giuseppe Di Vittorio si è battuto in tutta la sua esistenza per la realizzazione degli obiettivi di progresso e libertà, per l’emancipazione dei lavoratori, per tutto il popolo, per l’insieme della Nazione. Merita perciò di essere ricordato, oltre l’inesorabile ed impietoso scorrere del tempo, ancora nell’attualità dell’oggi e nella particolare circostanza di questa narrazione, per ciò che per davvero è stato, un grande dirigente sindacale, un uomo semplice del popolo, un grande italiano. Un riferimento permanente straordinario, una lezione di vita ed una guida per Antonio, e per tanti militanti come lui, nel mezzogiorno e nell’Italia intera, costruttori della nuova democrazia repubblicana.

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1960 A GENOVA Alla fine del giugno 1960 a Genova si erano succedute numerose manifestazioni di cittadini per protestare contro la decisione di convocare, in quella città, il Congresso Nazionale del MSI.68 L’atto era stato ritenuto un autentico oltraggio alla città già insignita di medaglia d’oro della Resistenza per la strenua lotta sostenuta contro il nazifascismo. Il 30 giugno una possente manifestazione popolare, cui avevano partecipato oltre 100.000 persone, conclusa presso il Sacrario dei caduti della Resistenza, era stata selvaggiamente aggredita e repressa dalle forze dell’ordine. Gli scontri tra manifestanti e polizia, violentissimi, si erano protratti per ore ed ore. Analoghe manifestazione, anch’esse attaccate dalla polizia, si erano succedute in altre città italiane come Torino e più avanti, il 6 luglio, a Roma dove una manifestazione, regolarmente convocata, era stata caricata dai carabinieri in Porta San Paolo. La più grave azione repressiva era avvenuta però a Reggio Emilia, dove il 7 luglio la polizia aveva sparato su una grande manifestazione antifascista uccidendo 5 lavoratori.69 All’indomani di questi fatti gravissimi la CGIL indice uno sciopero generale cui però non aderiranno la CISL e la UIL. La protesta aveva investito ormai il governo nel suo insieme ed in essa erano state convogliate più ragioni di disagio e malessere sociale. Alcuni deputati, riuniti in Parlamento, avevano chiesto al governo, in modo risoluto, di relazionare su quanto era avvenuto a Genova e di sospendere i lavori in corso in attesa dell’informativa. Alessandro Natta aveva denunciato, in quella circostanza, l’incomprensibile, arbitraria e proditoria aggressione effettuata dalla polizia e ne aveva contestato il disegno, a suo avviso del tutto preordinato. D’altronde quanto era accaduto poteva essere del tutto 68

L’MSI, il partito d’ispirazione fascista, era stato fondato in Italia nel dicembre 1946. Cadono, sotto i colpi sparati dalla polizia, il diciannovenne Ovidio Franchi, i ventunenni Lauro Farioli ed Emilio Reverberi, in ventenne Afro Tondelli, il quarantenne Marino Serri. Una strage operaia di dimensioni simili s’era avuta anche un decennio prima, a Modena, il 9 gennaio 1950, dopo un corteo di protesta contro la serrata delle Fonderie Riunite. L’intervento della polizia, che aveva fatto ricorso all’uso delle armi, aveva causato la morte di 6 lavoratori ed il ferimento di oltre 50 persone. 69

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prevedibile considerando le dichiarazioni del Prefetto e del Questore genovese già alcuni giorni prima della manifestazione. Aveva poi stigmatizzato duramente il fatto che a presiedere il Congresso era stato chiamato un Prefetto della Repubblica Sociale di Salò, responsabile della deportazione nei lager nazisti di migliaia di cittadini e di lavoratori genovesi. ( NOME) Natta, nel suo intervento, aveva ritenuto che sarebbe stato doveroso, in questa situazione, sospendere i lavori del Parlamento, così che la Camera potesse essere informata dei gravi incidenti che erano accaduti. Il dirigente comunista insisteva ancora sul fatto che a Genova si era dato luogo ad un ampio ed unitario movimento, d’ispirazione antifascista e popolare, che aveva visto la partecipazione di studenti, lavoratori e cittadini senza alcuna distinzione se non quella dell’antifascismo e della difesa dei valori della Repubblica democratica italiana, della Costituzione, la carta fondante ed ideale di valori e di riferimento per tutti gli italiani. Natta poi aveva continuato il suo intervento esprimendo sdegno e disappunto sul fatto che le autorità di governo, di fronte al grande sdegno popolare, non avessero speso, come invece auspicato, parole di condanna contro la scelta del MSI che equivaleva ad un’autentica provocazione contro i sentimenti di tutto il popolo italiano. Al sacrario della Resistenza si erano recati ben 100.000 cittadini genovesi, confermando la richiesta di non svolgere il congresso neofascista. Una manifestazione, unitaria e composta, fatta oggetto di intollerabile, gratuita aggressione da parte della polizia. Natta aveva concluso il suo intervento dichiarandosi orgoglioso del fatto che “la formidabile protesta sia avvenuta a Genova, dalla città che per prima, nel 1945, ha vinto, piegato ed umiliato i nazisti, noi siamo fieri che da Genova sia venuta questa ripresa folgorante dell’antifascismo, e questa affermazione dei suoi valori di democrazia e di libertà”.70 All’indomani di questi gravi fatti e delle manifestazioni, che avevano comunque impedito che a Genova si celebrasse il Congresso dell’MSI, ma in particolare all’indomani della strage di Reggio Emilia e della proclamazione dello Sciopero Generale che ne era seguito l’8 luglio 1960, il Governo Tambroni, duramente contestato nel parlamento e nel paese, investito da un’ondata di impopolarità straordinaria, era stato costretto alle dimissioni.71 Il tempo del centrismo e della spregiudicata apertura della DC alle forze della destra estrema appariva a quel punto per sempre tramontato. Iniziavano a delinearsi nuovi equilibri politici che più avanti porteranno all’apertura della fase del Centro Sinistra, con l’organico ingresso dei socialisti nell’area di governo.72 Una svolta, inedita ed importante, per i risvolti che- su più piani- ne deriveranno nella storia generale del paese.73 In verità in quegli anni, e per tutto quel decennio, si manifestò un’accelerazione ed un’intensificazione sorprendente del grande scontro sociale che opponeva operai e lavoratori salariati al grande padronato. Iniziarono a moltiplicarsi le occasioni in cui si scendeva in piazza, sulla scia di quanto già successo in tutto il decennio precedente e veniva lanciata la rivendicazione, 70

Intervento di Alessandro Natta nella seduta alla Camera del 30 giugno 1960, in “A.Natta, discorsi parlamentari 19481988”, Camera dei deputati, I, pp. 294/295; 71 Anche l’8 Luglio, in concomitanza dello Sciopero Generale, sono da registrare purtroppo nuovi interventi armati della polizia che causano una vittima a Catania e 3 morti a Palermo. 72 Il passaggio di fase è comunque laborioso e preparato con vari incontri e convegni che vedranno impegnati il meglio dell’intelligenza politica democristiana. E’ il caso di ricordare almeno i vari Convegni organizzati dalla DC e tenutisi a San Pellegrino ( Bergamo), dal 1961 al 1963 e che vedranno tra gli altri autorevoli relatori come Pasquale Saraceno ed Achille Ardigò. Si inizia ad indagare in maniera più profonda le varie trasformazioni economico-sociali da qualche tempo in atto nella società italiana ed i modi più opportuni per iniziare a farvi fronte. Tra l’altro si profila la necessità di un intervento pubblico di “ pianificazione economica”in grado di avviare le modificazioni necessarie delle gravi differenze sociali e territoriali esistenti nel paese. 73 Il primo governo di centro-sinistra, diretto da Amintore Fanfani, nasceva nel febbraio 1962 e comprendeva la Dc, il PRI di Ugo La Malfa, il PSDI. Il PSI assicurava il proprio appoggio esterno. Il Governo Fanfani durerà fino alle elezioni politiche della primavera 1963. E’ il “centro-sinistra di programma” che approverà la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’istituzione della scuola media unica e obbligatoria. Il 4 Dicembre 1963 nascerà il primo governo di “centro sinistra organico”, con la diretta partecipazione del PSI. Ne sarà a capo Aldo Moro.

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semplice ed essenziale, della lotta per il lavoro e per il pane. In verità qualcosa di profondo iniziava a muoversi nel ventre più profondo della società italiana, alla vigilia di una grande e profonda trasformazione economica e sociale. Iniziava a delinearsi un radicale cambiamento nei modi e nelle forme di produzione e si accelerava il processo di una epidermica trasformazione della società in larga prevalenza agraria a società ad alto impianto industriale. Era in atto l’avvio di una profonda rivoluzione, oltre che nell’economia anche nei costumi, destinata ad esplodere, in maniera clamorosa, alla fine di quell’indimenticabile decennio, negli anni 1968-1969. Un periodo, assai intenso e tumultuoso, che avrebbe visto l’ingresso protagonista sulla scena di grandi masse popolari di operai e di studenti. In quei primi anni sessanta, comunque,si moltiplicarono le manifestazioni di piazza, in specie ma non solo nelle grandi città. A Roma, nella capitale, cortei di senzatetto, di disoccupati e genitori che reclamavano il diritto allo studio e scuole qualificate per i propri figli, aperte a tutti, al di là del ceto sociale di provenienza. Cortei che si trasformavano in fiumi in piena quando veniva annunciato il comizio di Palmiro Togliatti in Piazza San Giovanni. In quelle occasioni enorme era il bagno di folla che invadeva le strade della capitale, col popolo che fuoriusciva con decine e decine di migliaia di persone dai quartieri popolari e dalle periferie della città. Cortei, chiassosi e allegri, con tante bandiere e con i manifestanti a issare centinaia di cartelli che prendevano di mira, con graffiante ironia, i simboli del potere dominante, i democristiani “ forchettoni” sempre più simili ai personaggi di Grosz. In parallelo erano scesi in campo, in modo sempre più diretto e attivo, gli uomini di ingegno e di cultura più acuti ed avanzati che avevano iniziato a cimentarsi, sul piano delle idee e dei valori, nella durissima lotta col potere. Una grandissima stagione, di lotte e di avanzate, che giunse ad ottenere enormi consensi e risultati nei campi decisivi del cinema e della letteratura, ma non solo. Anni in cui aspro continuava lo scontro, oltre che col potere democristiano, anche con le più alte gerarchie della Chiesa Cattolica, arroccate in un atteggiamento di chiusura, retrivo e reazionario, incline di frequente all’esercizio dogmatico della scomunica e alla censura. Una società che iniziava ad evolversi verso forme di vita, di cultura, di comportamenti più laici ed evoluti, finiva per scontrarsi con una realtà troppo profondamente in crisi, intrisa di pregiudizi e ossificata. Nel cinema molteplici furono gli esempi d’intransigenza ottusa e intollerabile, pronta a distribuire a discrezione i torti e le ragioni. S’interveniva, con posizioni di frequente assai secche e stroncanti, nel giudizio di merito dell’opera, pronti non di rado all’immediata abiura.74

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Molto prima dell’avvento della televisione era stato il cinema, già a partire dall’immediato, secondo dopoguerra, a concorrere a disegnare un nuovo modo di vedere la realtà e a richiamare i cittadini alla necessità dell’impegno attivo, unica condizione per incidere profondamente in essa. La stagione del “ neorealismo”, con la cruda rappresentazione delle condizioni di vita della popolazione, aveva svolto un ruolo importantissimo nel porre la questione sociale al centro dell’attenzione pubblica. Il “ neorealismo italiano” rappresentò il punto di produzione culturale più elevato del tempo nella cinematografia mondiale e influenzò, in maniera decisiva, la stessa letteratura. Rifiuto assoluto della retorica tradizionale, esposizione dell’Italia reale nella sua miseria cruda e nella sua arretratezza, questa l’essenza di opere come Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Roberto Rossellini; di Ladri di biciclette (1948) e Umberto D, di Vittorio De Sica; di La Terra trema di Luchino Visconti, di Riso Amaro (1949) di Giuseppe De Santis, di Il cammino della speranza ( 1950) di Pietro Germi e tante altre opere che vennero più volte duramente criticate dalla direzione della DC e dalla Chiesa in quanto inclini a presentare un’immagine pubblica, per nulla edificante, ed anzi per lo più deteriorata, dell’Italia del tempo.

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TORINO, LA BATTAGLIA DI PIAZZA STATUTO Nel corso del luglio 1962, nel corso della battaglia per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei lavoratori metalmeccanici, si verificarono scontri violentissimi tra operai e forze dell’ordine. La lotta contrattuale era apparsa subito durissima per l’intransigenza dimostrata dalla Fiat e da Valletta che facevano fortissime resistenze nell’accettare la piattaforma rivendicativa dei sindacati che prevedeva, oltre che aumenti salariali, nuovi avanzamenti sul piano dei diritti normativi, per un controllo dei ritmi di produzione, per conseguire una condizione di maggiore libertà in fabbrica e, più in generale, di maggiore controllo sull’organizzazione del lavoro. All’esterno dei cancelli della Fiat e delle altre fabbriche metal meccaniche, anche dell’indotto, erano stati organizzati duri picchettaggi contro i crumiri, le entrate delle aziende bloccate, si erano già avuti i primi scontri. Alcuni dirigenti della grande azienda torinese erano stati anche picchiati. La Fiat si era mossa per sbloccare il contenzioso in atto tentando di trasferirlo e di risolverlo a livello aziendale. Nella mattinata del 7 luglio 1962 iniziò a spandersi la voce che la direzione aveva siglato un accordo separato con la UIL e con la SIDA, il “ sindacato giallo” di stretta osservanza padronale, così da dividere e piegare il fronte della lotta. Nel pomeriggio una gran massa di operai, di 6.000-7.000 persone, si dirigevano in corteo in Piazza Statuto per protestare vivacemente contro la UIL. Interveniva la polizia ed iniziava da quel momento un durissimo scontro con i manifestanti. La protesta, avviata dalla massa operaia nella quale molti erano i giovani, in larga parte meridionali, più che placarsi, si diffondeva ed aumentava. La polizia effettuava violente cariche con le jeep, faceva ricorso all’uso di gas lacrimogeni, picchiava i manifestanti coi calci dei fucili. Gli scioperanti reagivano con fitti lanci di pietre e sampietrini ed erigendo barricate. La piazza con tutte le strade adiacenti si trasformarono in un grande campo di battaglia. Lo scontro si protrarrà per 3 giorni interi, il 7, l’8 e il 9 luglio. Il secondo giorno Torino somigliava ad una città assediata, quasi in stato di guerra. Da Corso Francia a Porta 70


Susa sembrava di stare in un assedio, con militari schierati e tante camionette. Il centro della città veniva militarmente presidiato e solo alla fine dei tre giorni la rivolta verrà repressa. Il bilancio conclusivo degli scontri sarà impressionante :1251 manifestanti fermati, 90 arrestati e processati per direttissima, centinaia di persone denunciate, 169 agenti di polizia feriti, imprecisato il numero di feriti, comunque alto, tra i manifestanti. Giancarlo Pajetta e Sergio Garavini cercheranno di svolgere funzioni di pacieri, invano. Pajetta stesso sarà ferito ad una gamba. Il giornale socialdemocratico “Umanità Nova” qualificherà come teppisti i lavoratori che hanno dato vita alla durissima protesta. In verità, sotto la sede della UIL, oltre che gli aderenti a Fiom e Fim, che avevano proclamato lo sciopero, si erano radunati anche molti operai iscritti alla stessa UIL per rimarcare il proprio disaccordo per l’intesa separata.75 In relazione a questi fatti, si può a ragione sostenere che la lotta di quei giorni, con gli scontri che ne erano derivati, rappresentò la ripresa dell’iniziativa operaia a Torino, rimessa in movimento dopo un lungo tempo di torpore e di apatia, che durava dal 1955, all’indomani della fase in cui si era verificata la grave sconfitta della FIOM nelle elezioni per il rinnovo delle commissioni interne.76 Più in generale, dopo Genova, con i fatti di Piazza Statuto di Torino, si era di fronte ad un passaggio importante nella ripresa dell’iniziativa di lotta sindacale che poi si esplicherà, in tutta la sua più ampia portata, negli anni che verranno, nel corso della metà e, soprattutto, della fine degli anni ’60, il periodo dell’avvio della stagione dei consigli e dell’autunno caldo. Antonio Sileo, in quella circostanza, si era a sua volta trovato nei pressi dei luoghi degli scontri dove si era recato un poco per curiosità, ma anche per solidarietà con le ragioni della protesta. Era andato in Piazza statuto così come si trovava, col camice di salumiere di colore bianco. Aveva fermato il motocarro col quale faceva i propri giri a Porta Susa. Si era trovato in quella zona, con Corso Francia e Corso Inghilterra tutte chiuse, con ogni strada d’accesso in Piazza Statuto circondata dai mezzi della polizia. Sarà tra i fermati, pur non avendo effettuato, personalmente, alcun atto di ostilità verso le forze dell’ordine. Verrà fermato, caricato su una camionetta, con tanti altri compressi come sardine dentro al cellulare, condotto in caserma e interrogato, insieme ad una gran massa di fermati. Tra i fermati tanti giovani operai meridionali. Trascorrerà la notte alla caserma “ Veneria”, alle “Casermette”, gettato a terra assieme a tutti gli altri, dentro ai garage che per accogliere i fermati erano stati fatti sgomberare dai carri armati, costretti a dormire lì, come animali, in terra macchie di nafta ovunque. Trascorrerà lì la notte, in una condizione di carenza igienica totale, in quei locali privi di servizi. Aveva spiegato di essersi trovato lì per caso, come si poteva desumere dal camice bianco che portava addosso. Non conosceva nessuno degli scioperanti! Per fortuna, riuscì a convincerli ed a venire rilasciato il giorno dopo. La Federazione del Partito si trovava allora in Corso Francia. Per le famiglie degli operai fermati venne organizzata una colletta tra tutti i lavoratori che, anche in quell’occasione, diedero una grande prova di solidarietà. Antonio aveva il suo negozio alimentare in Corso Unione Sovietica. Fu lì che lo andò a trovare Giancarlo Pajetta. Si erano conosciuti a Potenza, nella Figc. Pajetta era venuto varie volte in Basilicata. Aveva fatto diversi comizi a cui anche Antonio aveva sempre preso parte. Uno fatto a 75

Una ricostruzione, sufficientemente accurata ed oggettiva di questa vicenda, si può trovare nel volume di Dario Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto: Torino, luglio 1962, Milano, Feltrinelli 1979. 76 Nelle elezioni per il rinnovo della commissione interna alla Fiat, avvenute nel marzo del 1955,si registrò la grave sconfitta della Fiom Cgil che, fino ad allora, era sempre risultata di gran lunga il maggiore sindacato, raggiungendo alle elezioni costantemente la maggioranza assoluta, a volte addirittura il 65% dei voti. Nelle elezioni del 1955, invece, la Fiom raccolse solo il 36%, nel mentre la Cisl e la Uil ebbero, rispettivamente, il 41% ed il 23%. La sconfitta causò, per un lungo periodo, la marginalizzazione della Cgil nella grande impresa torinese. Si consideri altresì che, sempre alla Fiat, negli anni ’50, per la precisione tra il 1949 ed il 1953, erano stati licenziati, per rappresaglia antisindacale, 30 membri di commissione interna iscritti all’organizzazione.

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Melfi, particolarmente bello e appassionato. Non era semplice per un meridionale neppure avere la residenza nella città sabauda. C’era da dimostrare che vi era stato un rapporto di lavoro per 6 mesi di fila in via continuativa con lo stesso datore di lavoro. Altrimenti si era un abusivo, come un clandestino! Un irregolare! Pajetta gli disse di andare alla sezione A. Gramsci e di iniziare a seguirlo quando si recava in posti frequentati da lavoratori meridionali. Lo poteva fare, lo avrebbero visto come uno di loro, comprendeva la loro lingua, anzi il loro specifico dialetto. Poco per volta, un passo dietro l’altro, con l’impegno di tutti, si è riusciti nell’impresa di cambiare quel clima di ostilità antecedente. La vera, definitiva svolta avverrà col movimento del 1968 e poi con l’autunno caldo del 1969. Il Sindacato, a quel tempo, aveva la sua sede a Piazza Solferino. Alla direzione dell’organizzazione c’era Sergio Garavini. Antonio però, in quel periodo, frequentava molto di più il Partito, la sezione del PCI di Torino.77 Una grande forza organizzata in cui gli stessi meridionali si erano inseriti molto bene. Celebrarono il Primo Congresso di Sezione, con un rappresentante per ogni regione del mezzogiorno. Si invitavano, con frequenza e periodicità, i responsabili delle varie zone o province meridionali che venivano a Torino per fare conferenze dentro la sede della Cgil. Da Foggia, da Melfi, da Venosa. Si era come una grande famiglia in cui ci si aiutava reciprocamente. Si organizzavano feste con la musica, si celebravano i battesimi, ci si faceva carico dei problemi dei compagni. Se qualcuno, per mancanza di danaro, aveva difficoltà ad organizzare una cerimonia per un figlio o un nipote, scattava la solidarietà di tutti gli altri. La sezione veniva messa a disposizione, un sicuro ritrovo e d’intesa si dividevano le spese. Era anche quello un modo per stare insieme e per continuare a sentirsi un poco a casa propria! La sezione ebbe diversi attivisti, i più capaci almeno una ventina! Peccato per come andrà a finire quella storia!

1964 I FUNERALI DI TOGLIATTI I funerali di Togliatti si svolgono a Roma, in Piazza San Giovanni, e vi partecipano oltre un milione di persone. Sono presenti alla cerimonia funebre tutti i leader del movimento e dei partiti comunisti del mondo. E’ Luigi Longo che, nel corso dell’orazione funebre, annuncia l’imminente pubblicazione degli appunti stesi da Togliatti in vista dei colloqui previsti coi dirigenti sovietici, il “ Memoriale di Jalta” in cui il capo dei comunisti italiani preannuncia la revisione dei principi guida nei rapporti tra i partiti comunisti e formula ampie e motivate critiche ai regimi socialisti. In essi tra l’altro si sosterrà la tesi della specificità delle modalità di costruzione del socialismo nei singoli paesi. E’ la prefigurazione della “Via italiana al socialismo”, ovvero della concezione secondo cui la costruzione della nuova società per cui si battono le forze di progresso in Italia non può prescindere dall’affermazione del pluralismo, dello stretto rapporto e del legame con la storia nazionale e le sue originalità, del pluripartitismo, della tolleranza religiosa, della garanzia delle libertà, di pensiero, di stampa, di elaborazione e ricerca culturale. Come già si è ricordato, dopo il suo rientro in Italia nel marzo del 1944, con la “ Svolta di Salerno”, in cui veniva ad essere privilegiato l’accordo tra i partiti antifascisti nella lotta di liberazione contro l’occupante rispetto alle controversie sulla questione istituzionale, si riuscì a superare l’empasse che paralizzava la vita politica nel regno del Sud. Il compito più urgente della nuova fase che si apriva era quello di costituire un nuovo governo a carattere transitorio ma forte ed autorevole per l’adesione ad esso dei grandi partiti di massa. In relazione a tale impostazione, Togliatti era entrato nel II Governo Badoglio come Ministro senza portafogli, insieme ad altre figure prestigiose come Benedetto Croce. Dopo la liberazione conseguita, si era impegnato alacremente nel dare vita al 77

Di quegli anni trascorsi a Torino, frequentando come attivista la sezione del PCI, Antonio ricorda con particolare affetto i suoi compagni, i più stretti, con cui strinse solidi rapporti di amicizia e con i quali ha spesso continuato a mantenere cordiali relazioni. Li ricorda tutti, in particolare : Rocco Rascano; Rocco Soldo; Antonio Berardi.

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“Partito Nuovo”, un partito che, superando i limiti del massimalismo e del ribellismo, diventasse un grande partito di massa, fortemente ancorato alla realtà sociale del paese e ai suoi problemi. Un partito che doveva trasformarsi, da “ partito di quadri” in “ partito di massa”, in una formazione cioè in grado di aggregare e di mobilitare grandi masse di uomini, di donne, lavoratori, giovani, intellettuali.78 Al nuovo partito Togliatti offriva come prospettiva e punto di riferimento le conquiste realizzate nei paesi socialisti, a suo giudizio esplicativo esempio di una loro evidente superiorità, politica ed ideale, rispetto al modello occidentale capitalista. Una posizione che sosterrà con determinazione e fermezza e che modificherà solo più avanti, dopo il 1956, ovvero dopo la cruda denuncia dei metodi staliniani emersi nel corso del XX Congresso del PCUS con il “Rapporto Segreto” di Nikita Kruscev. Da allora in avanti Togliatti ripartirà con l’elaborazione della “Via Italiana al socialismo” che, partendo dalla peculiarità della situazione del paese, finiva per indicare la necessità di dar vita ad un altro modello di costruzione della nuova società, del tutto diverso da quello sovietico. Nel corso dell’VIII Congresso Nazionale del PCI, che si tenne a poca distanza dal XX Congresso del PCUS e dall’invasione sovietica dell’Ungheria, Togliatti aveva rilanciato la sua strategia politica, delle vie nazionali, individuando nella Costituzione e nella sua attuazione lo strumento indispensabile per realizzare la trasformazione socialista del paese. Aveva sostenuto altresì il concetto che non potessero più esistere uno “ Stato guida” ed un “ Partito guida”, la premessa al “ policentrismo”, ovvero la legittimità dell’esistenza di una molteplicità di centri diversi all’interno del movimento comunista internazionale. Prime evidenti aperture e novità che consentiranno a Togliatti di continuare a mantenere ancora saldamente nelle mani la direzione del Partito sebbene non vadano sottaciuti e sottovalutati gli atti, di esplicito dissenso rispetto alle posizioni ufficiali, ritenute ancora troppo timide e diplomatiche e che indurranno all’abbandono, nel 1956, dirigenti di rilievo come Antonio Giolitti e non pochi intellettuali che avevano manifestato un esplicito distinguo. In particolare, essi pretendevano una discussione più libera, senza reti protettive, e nei suoi esiti non preconfezionata, una più esplicita condanna dell’invasione sovietica dell’Ungheria, il pieno riconoscimento delle libertà democratiche come valore in sè assoluto e inalienabile, una più marcata autonomia del PCI dagli altri partiti comunisti. Togliatti manteneva il legame con l’URSS e tuttavia introduceva evidenti distinguo e sottolineature. Una posizione, che verrà precisata ancora meglio ed in maniera più netta, in un documento della direzione nazionale del Partito del novembre 1961 in cui si affermerà chiaramente come lo stalinismo avesse ostacolato lo sviluppo della società sovietica e come la “destalinizzazione” non potesse solo limitarsi alla denuncia degli errori di Stalin. I comunisti, in questa occasione, effettuavano un’autocritica evidente rispetto al rapporto, sostanzialmente acritico, che avevano mantenuto fino ad allora con lo stalinismo e, in relazione alle modalità di funzionamento della vita interna, se da un lato ribadivano l’inammissibilità della formazione di correnti o frazioni, dall’altro sostenevano il valore del libero confronto delle opinioni e, all’occorrenza, anche dell’esplicita manifestazione del dissenso. In precedenza, nel febbraio del 1960, a Roma, si era tenuto il IX Congresso del PCI. Un passaggio importante per la messa a fuoco di importanti punti di programma della maggiore formazione politica della sinistra italiana. Tra i vari punti, nel documento conclusivo approvato alla fine dei lavori, veniva sostenuta la linea della distensione nei rapporti internazionali e si individuava nella creazione delle regioni, nel ripristino delle libertà politiche e sindacali nelle fabbriche, nella nazionalizzazione dell’energia elettrica, nella riforma della scuola, nel sostegno all’occupazione i punti maggiormente qualificanti del programma di una nuova maggioranza politica, alla quale il Partito sarebbe stato disponibile a fornire il proprio appoggio. E’ il congresso in cui la responsabilità dell’organizzazione passerà da Giorgio Amendola ad Enrico Berlinguer. In questo contesto, una delle questioni di maggiore rilievo, affrontata in maniera più accurata nel corso del X Congresso del Partito Comunista, che si terrà a Roma nei primi giorni di dicembre del 1962, sarà la questione religiosa ed il rapporto coi cattolici. A tal proposito, nella risoluzione finale 78

Queste tesi, approvate dal consiglio nazionale del partito, saranno rese pubbliche tramite un’intervista a Togliatti apparsa su “L’Unità” il 2 aprile 1944. E’ il passaggio politico decisivo noto come “La svolta di Salerno”.

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verrà sostenuta la tesi secondo cui il movimento operaio non solo rispetta i diritti religiosi, ma intende impostare su nuove basi il rapporto “ con le masse cattoliche e le loro organizzazioni”. Nel Congresso, che riconfermerà Togliatti segretario, Luigi Longo è indicato come vice segretario, nel mentre entrerà nella segreteria Enrico Berlinguer. Il testamento politico di Togliatti è la sistematizzazione dell’elaborazione teorica e dell’evoluzione creativa dell’insieme delle scelte politiche effettuate nei decenni precedenti, dal tempo della lotta di opposizione senza quartiere al nazifascismo a quello della lotta per la Costituzione. In Italia, a suo giudizio, andava realizzata una democrazia nuova e progressiva, mai in precedenza conosciuta, innervata dalla costante e consapevole partecipazione del popolo alle vicende della vita pubblica. Una partecipazione indispensabile per realizzare, nel campo dei diritti primari e del miglioramento della concreta condizione di vita dei lavoratori, riforme di struttura sempre più profonde ed avanzate. Un processo di mutazione genetica della nazione in grado di trasformarla in un esempio di società più libera ed eguale.

1968-1969, il BIENNIO IRRIPETIBILE Alla fine degli anni ’60 si erano iniziate a realizzare alcune conquiste assai importanti, a partire dalla diffusione dell’accesso delle varie classi sociali all’istruzione ed alla scuola pubblica che aveva iniziato a perdere la propria fisionomia elitaria antecedente. La scuola dell’obbligo inglobava ormai, nel proprio seno, anche i figli delle classi contadine ed operaie storicamente subalterne. Si moltiplicavano, oltre alla tradizionali scuole di formazione professionale, i Licei, ad orientamento classico e scientifico. E fu proprio nelle scuole che iniziò a sedimentare, dapprima timidamente, poi in maniera sempre più chiara e stringente, un elemento di critica radicale all’inizio ancora confuso, ma destinato ben presto a chiarirsi e dilatarsi, che esaltava alcune evidenti discrasie della società italiana con la sua organizzazione tradizionalmente e rigidamente strutturata in definite gerarchie. Il 68 rappresenterà la conclusione di una fase e la contemporanea apertura di una situazione decisamente nuova, il momento della traumatica rottura degli equilibri antecedenti con lo svilupparsi di tensioni e radicalismi tali che incideranno fin nel profondo nella struttura e nella mentalità delle società contemporanee. Fulcro essenziale di quella novità sarà rappresentato dall’idea di fondo di ampliare e sviluppare i concetti di democrazia e di libertà, individuali e collettivi. Una rivolta, nella mentalità e nei costumi, che avrebbe ridato nuova linfa al concetto di piena affermazione dell’autonomia dell’individuo. L’idea di libertà per come in precedenza era stata immaginata, l’affermazione del diritto e della legittimità della persona a decidere da sè i percorsi della propria vita individuale, sociale, sessuale. E l’idea dell’esigenza, insopprimibile, dell’avvento di una nuova società, più libera ed eguale, pur attraverso un sentiero accidentato e carico di errori ed esagerazioni, si sarebbe fatta strada con una rapidità in origine del tutto imprevedibile. 74


Si era agli albori della “contestazione” e dell’impetuoso procedere di una furia iconoclasta che, procedendo con inusitata asprezza, prendeva di mira, senza risparmiare niente, l’insieme delle gerarchie e dei poteri dominanti che si erano andati a strutturare nei campi più svariati, dalla politica alle Istituzioni, ai monopoli della finanza e dell’economia. Un’opposizione che finì per riversarsi finanche contro le più prestigiose ed eminenti espressioni della cultura nazionale di quel tempo79. Il clima d’insieme della società locale appariva adesso in ogni caso intriso di suggestioni molteplici, d’una nuova e pervasiva carica antiautoritaria e di liberazione che traeva linfa ed alimento dal moltiplicarsi dei conflitti, aspri, che attraversavano la società nazionale e lo scenario d’insieme di quel mondo inquieto. Fatto è che il movimento, con le molteplici tendenze in esso concentrate, si mosse in quella fase ricercando,come d’istinto, un collegamento, immediato e diretto, con la “classe”, intendendo contemporaneamente sottrarsi, già in origine, al rischio di un confronto ingessato, di una contaminazione e di una feconda relazione con le rappresentanze ufficiali dei partiti politici della sinistra storica. Più in generale, sembrò prevalere un approccio di natura cosmopolita piuttosto che un ancoraggio limitato alla parzialità della dimensione nazionale.80 In Italia, in Europa, nel Mondo montava un movimento nuovo che non avrebbe lasciato indenne alcuna articolazione dell’organizzazione della società nelle sue sfaccettature più svariate, compresa la stessa Chiesa cattolica. Essa Istituzione non a caso finirà per essere a sua volta investita frontalmente dalla crisi, dal vento del rinnovamento ed impegnata in tante sue espressioni periferiche nel riaffermare la forza e la pregnanza dell’autenticità della propria ispirazione originaria incentrata sull’urgenza di ridare ruolo,funzione,centralità, speranza al “popolo di Dio”. La Chiesa romana, superando pratiche consunte ed antiquate, dogmatiche e inalterabili certezze, avrebbe a sua volta dovuto rinnovarsi alla radice mischiandosi con profonda intensità alla vita pratica in tal modo favorendo, col proprio esempio positivo, la conquista di una nuova dignità col riconoscimento agli ultimi di diritti fino allora negati. E ciò darà luogo a tensioni, fermenti e contrapposizioni mai prima neppure immaginati. Una questione questa che, per ovvie e comprensibili ragioni, meriterebbe di per sé un’accurata e approfondita indagine.81 “Operai e studenti uniti nella lotta” il nuovo, coinvolgente e mobilitante rito,la parola d’ordine gridata nelle strade e nei cortei delle città italiane, la lotta senza quartiere all’ideologia borghese l’altro, essenziale cardine della ricerca di una strada nuova. La protesta prendeva di mira un’organizzazione scolastica apparsa anchilosata ed antiquata, sclerotizzata, avulsa dalle vere esigenze del mondo contemporaneo e dai gravi problemi che in esso si agitavano. Un corpo separato, impermeabile ad ogni sollecitazione al cambiamento. Veniva in sostanza contestato un impianto della scuola autoritario, eccessivamente “cattedratico”, inutilmente “nozionistico”, l’assenza di osmosi e di dialogo tra docenti e studenti, sempre più stridente il contrasto tra istituzioni e società. Nei collettivi venivano affrontati gli argomenti più svariati inerenti le vicende nazionali ed internazionali del mondo contemporaneo.82 Le lotte popolari, di braccianti, operai e 79

Non venne risparmiata così neppure un’autentica icona della letteratura come Alberto Moravia che, reduce da un viaggio in Cina, recatosi alla facoltà di lettere per solidarizzare con gli studenti romani all’indomani dei gravi scontri avvenuti il 1 marzo 1968 a Valle Giulia, intorno alla facoltà di Architettura, veniva fatto oggetto di dure contestazioni e di sarcasmi per aver sostenuto la necessità di approfondire meglio le questioni evitando di guardare in maniera dogmatica e ideologica ai processi inediti, originali e tumultuosi che, con la rivoluzione culturale, erano stati messi in moto in quel lontano oriente assunto quale icona. 80 Un modo nuovo d’interpretare la necessità di una diretta ed incisiva funzione nella storia favorito dalla diffusione di testi innovativi, come quello di Herbert Marcuse, L’uomo ad una dimensione, o quello, ancora più stridente, d’ispirazione terzomondista, di Franz Fanon, I Dannati della terra. 81 La spinta ad un profondo e indifferibile rinnovamento della Chiesa favorì la nascita e l’ampia diffusione dei coordinamenti delle comunità di base, la crescita di peso, di prestigio e di incidenza delle Acli e di quelle componenti più avanzate e innovatrici del sindacalismo cattolico e della stessa CISL. 82 Nel corso dell’anno scolastico, in genere, non venivano affrontate le questioni inerenti la storia del Novecento e la contemporaneità. Iniziò allora un confronto fitto, intenso, appassionato per tentare di analizzare e di comprendere più a fondo alcuni temi di portata strategica e di più ampio rilievo, quali i problemi della guerra e della pace. Si cominciò ad

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contadini erano riprese, in quella fase, nelle fabbriche del Nord ed in alcune aree delle campagne meridionali e finivano di frequente per sfociare in aspri conflitti di piazza conclusi, non di rado, in maniera tragica e sanguinosa. Braccianti morti ad Avola nel dicembre 196883, più avanti, nell’aprile del 1969, l’esplosione dei moti di Battipaglia, con morti e decine di feriti, apparvero l’espressione più tragica e convulsa del profondo malessere che aveva iniziato a serpeggiare in ogni articolato ganglio della società italiana. L’invasione sovietica della Cecoslovacchia e l’ampia opposizione e resistenza sociale che anche in quel paese si era palesata con clamore confermava l’esistenza di un esteso bisogno di profonde riforme e di maggiore libertà. Un forte sentimento, di liberazione, che aveva ormai investito i vari continenti della terra, insieme l’oriente e l’occidente, il nord e il sud del Mondo. A Praga, in Piazza San Venceslao, per protesta contro l‘occupazione militare sovietica, si diede fuoco un giovane studente, Jan Palach,dopo aver cosparso il proprio corpo di benzina. Il 25 gennaio 1969 a Praga si tennero i funerali a cui parteciparono oltre un milione di persone. Molteplici e contraddittori segnali di un conflitto che aveva iniziato a snodarsi ovunque con veemenza, dopo la relativa inerzia delle fasi precedenti, e che non appariva immediatamente componibile se non attraverso il perseguimento di un nuovo e più avanzato equilibrio di poteri tra le diverse classi allora frontalmente contrapposte. Un elemento, questo, destinato a pesare, in maniera decisa, sul senso e l’indirizzo dei cambiamenti della politica e finanche sulla formazione e la fisionomia della nuova classe dirigente nei decenni che seguirono.

indagare il ruolo delle due superpotenze, degli USA e dell’URSS; la funzione del colonialismo e dell’imperialismo. Crebbe la coscienza del pericolo mortale di un conflitto con il ricorso all’uso delle armi nucleari nell’epoca della “guerra fredda”. 83 Ad Avola, in provincia di Siracusa, il 2 dicembre 1968, nel corso di una manifestazione bracciantile, la polizia intervenne indiscriminatamente, sparando centinaia di proiettili sui lavoratori. Rimasero uccisi sul selciato Angelo Sigona, 25 anni, di Cassibile, e Giuseppe Scibilia, 47 anni, di Avola. Molti i feriti, una decina gravi. Al comando delle forze dell’ordine era il vice questore Camperisi. La vertenza, in atto da oltre tre settimane, mirava a superare la differenza di salario, “le gabbie” esistenti tra le diverse aree regionali. Un bracciante che lavorava nella cosiddetta “area a” riceveva un salario giornaliero di 3.480 lire, chi, come la provincia di Siracusa, era invece collocato nell’ “area b” percepiva la retribuzione giornaliera di 3.110 lire. I fatti di Avola produssero nel paese un’emozione enorme. L’accordo per il superamento delle differenze salariali tra distinte aree fu di lì a poco siglato dai sindacati confederali nazionali. Si era alla vigilia del varo del governo di centro-sinistra Rumor-Nenni.

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UN MONDO NUOVO IN TUMULTUOSO MOVIMENTO La più ampia circolazione di notizie e informazioni consentiva l’apertura di una finestra sul mondo con l’avvio di una fuoriuscita dalle anguste dimensioni, locali e circoscritte, in cui fino ad allora aveva continuato a scorrere il tempo di vita e di lavoro delle generazioni antecedenti. L’accesso ad un grado d’istruzione più elevato e, di conseguenza, ad una più ampia conoscenza del mondo, permetteva di contestare, a fondo, l’idea di un percorso della propria vita individuale già in precedenza, rigidamente, in larga misura prefissato. Antonio aveva ben compreso l’importanza decisiva della cultura e della conoscenza. Una persona, priva della capacità di leggere criticamente la realtà, vedeva già in partenza ipotecato in negativo il suo futuro. Con questa consapevolezza e con la coriacea forza di tale convinzione, non aveva alcun dubbio sul fatto che i suoi figli dovessero studiare. Il loro destino avrebbero dovuto conquistarlo con le proprie mani, con l’impegno e l’abnegazione sempre necessarie per conseguire soddisfacenti risultati. E avrebbe dovuto essere di certo migliore di quello che aveva avuto lui! La conoscenza e la cultura erano i fattori decisivi per sottrarsi ai condizionamenti potenti del potere, per vivere una vita in quanto tale ben più degna di essere vissuta. Sembrarono sul punto di crollare le antiche e indiscutibili certezze, i dogmi profusi a piene mani su un presunto e inalterabile assetto dei poteri e delle gerarchie, proposti ai giovani, nella famiglia e nella società. Germinava la rivolta, l’opposizione dei figli contro i padri. La scuola, apparsa negli anni antecedenti un elemento di mera conservazione ostativo ai cambiamenti, incapace di produrre adeguate innovazioni grazie a un più fecondo collegamento con le moderne esigenze della vita, corpo separato ed impermeabile a qualsivoglia attiva mutazione, apparve il nervo, più vulnerabile e scoperto, di un’organizzazione sociale bisognevole di urgenti, profonde e indifferibili riforme strutturali. La scuola e chi la dirigeva, tranne sporadiche eccezioni, non colse 77


ciò che stava maturando nella società, la prorompente carica d’un bisogno e di un desiderio nuovo, di libertà e giustizia,l’insopprimibile esigenza di una svolta profonda e radicale. Entrava in crisi l’equilibrio di poteri che aveva segnato le stagioni precedenti. La classe politica dirigente, diffusamente intesa, di contrasto, si ritrasse ed anzi sembrò piegarsi su sé stessa. La tregua recentemente concordata, tra capitale e lavoro,non reggeva più e la faglia, che cominciava ad aprirsi, avrebbe di lì a poco prodotto una deflagrazione diffusa e prorompente. Nel Maggio del 1968 in Europa fu la Francia l’epicentro della grande rivolta, operaia e studentesca.84 Il rimbalzo delle vicende francesi si trasferì, poi, in altri grandi paesi come la Germania e la stessa Italia. In precedenza, già in alcune delle principali Università degli USA la contestazione era apparsa in maniera rumorosa. Inoltre si verificò l’estendersi delle lotte di liberazione nazionale contro le potenze coloniali sfociate, di frequente, in lotta di popolo armata contro le potenze imperiali. In un tale contesto la guerra del Vietnam finì per acquisire la dimensione più carica fra tutte di simbolica valenza, fattore ideale d’identità e straordinaria suggestione per la creazione di un nuovo orientamento politico tra le grandi masse giovanili del vecchio e del nuovo Continente.85 Il Presidente Ho Chi Min sembrava fisicamente esprimere, nell’esile figura e nella fascinosa serenità che trasferiva dal drammatico scenario di morte e distruzione che inesorabilmente violava quel paese, il simbolo,concentrato, di milioni di persone in marcia inarrestabile verso la libertà. L’effige, condensata ed in nuce, del Nuovo Mondo che andava costruito. Straordinario apparve il fatto che un piccolo paese, scarso di mezzi e tuttavia armato di uno straordinario orgoglio nazionale, avesse deciso di ergersi in piedi combattendo per la propria indipendenza prima contro il dominio coloniale francese e poi contro gli USA, la più grande potenza imperiale del Pianeta. L’effetto simbolico fu il più potente collante per le nuove generazioni in movimento, per la ricollocazione, ideale e culturale, di milioni di giovani, in ogni parte della terra. Ho Chi Min, Che Guevara, Mao Tse Tung e la rivoluzione culturale cinese, le guerre contro il dominio coloniale in Africa, nel Congo, in Guinea, in Angola, apparvero le scansioni, distinte e convergenti, dell’unica pellicola del grande film di quel mondo inquieto in movimento. Nel mondo occidentale le Università divennero il cuore pulsante della contestazione. Berkeley, Francoforte in Germania, l’Università di Nanterre e la Sorbona di Parigi videro l’impegno di un nucleo di intellettuali inquieti e coraggiosi come Foucault, Toureine, Mallet, Morin. Da quel versante del pensiero iniziava a prodursi una critica, pungente ed affinata, ai processi di burocratizzazione delle forme più brutali e ingiuste del potere, all’ovest come all’est. Herbert Marcuse, Max Horkeymer, Theodor W. Adorno, Bertrand Russell, Jean Paul Sartre e Albert Camus, giovani dirigenti del movimento studentesco quali Rudi Dutschke e Daniel Cohn Bendit, divennero leaders di riferimento per masse giovanili sterminate alla ricerca di nuovi riferimenti, di diverse, originali e suggestive identità. I successi delle lotte di liberazione nazionale sembravano dimostrare nel concreto la praticabilità di una strada, diversa ed alternativa, allo stanco e consumato, distante e inefficace parlamentarismo dei consunti sistemi politici al tempo dominanti. Nel senso comune apparivano ormai svuotate di valore, e inefficaci, le sedi della pratica di una 84

La contestazione, partita dalle Università di Nanterre e dalla Sorbona di Parigi, nel suo tumultuoso procedere, aveva finito per incrociarsi con le lotte e le proteste esplose nei più grandi complessi industriali del Paese. Grandi manifestazioni di popolo, con centinaia di migliaia di manifestanti, sembravano sancire una nuova unità di classe tra studenti ed operai. Una protesta, particolarmente aspra ed estesa, che sarà più avanti circoscritta e repressa dal poderoso ritorno sulla scena del Generale Charles De Gaulle. 85 Nel Vietnam, il 16 marzo 1968, durante la presidenza di Johnson, a cui il 5 Novembre 1968 succederà Richard Nixon, era stato compiuto l’orrendo massacro di My Lay, il caso fino ad allora più eclatante di genocidio di donne, vecchi e bambini perpetrato nella penisola indocinese. Un’identica emozione suscitarono le foto pubblicate in America dalla rivista LIFE il 3 settembre 1969. Esse mostravano le crudeli atrocità commesse dai soldati americani nel villaggio vietnamita di Song My. Le immagini fecero rapidamente il giro dell’America e del Mondo, procurando un orrore e un’emozione profondi per la carneficina praticata senza alcuna ragione, del tutto inutile da un punto di vista squisitamente militare. Crebbe a dismisura la solidarietà per i combattenti vietnamiti, nel mentre il governo americano vide accentuarsi il proprio isolamento.

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democrazia formale ormai incapace di scalfire, alle radici, il grumo concentrato di ingiustizie ed orrori di cui era disseminata la vita dei diversi Stati Nazionali. Nacque un nuovo mito, in Italia. Quello della “Resistenza tradita”. La lotta di liberazione nazionale, che tanto sangue era costata, lungi dall’aver prodotto l’agognata giustizia e libertà, aveva piuttosto comportato il reiterarsi di disuguaglianze ed ingiustizie, antiche e devastanti. I padri erano rei e responsabili di tale situazione.In Italia fu il Partito Comunista, la forza che aveva illusoriamente optato per l’avanzata parlamentare, democratica e pacifica al socialismo, e che aveva in tal senso compromesso l’idea, palingenetica, della rottura rivoluzionaria e della liberazione dell’uomo da troppo tempo attesa, a divenire oggetto di critica frontale. Un’analisi asciutta, schematica e stroncante, che non concedeva appello alla principale forza politica organizzata del movimento operaio. Nel movimento, magmatico e complesso, si miscelavano molteplici elementi, distinti e variegati, forti contraddizioni, un indistinto condensato di anarchismo ed antiautoritarismo, una confusa tensione progressiva. E tuttavia s’evidenziava un vuoto da colmare. Nell’indistinto magma convivevano distinte posizioni, da quella anarchica a quella operaista fino all’altra che, richiamando la rigorosa, letterale e dogmatica lettura dei testi leninisti, sembrava porsi l’immediato obiettivo del passaggio dalla spontaneità all’organizzazione. In una tale visione fu posto all’ordine del giorno il problema di creare un nuovo e diverso partito della rivoluzione, rigidamente strutturato per interne ed ordinate gerarchie,duramente polemico verso le rappresentanze ufficiali delle forze politiche della sinistra storica. In questo contesto si glissavano del tutto tematiche e problemi, come quello della centralità della persona o della difesa e della tutela dell’ambiente, che si sarebbe iniziato ad affrontare ben più avanti, solo un decennio dopo. L’insieme delle forze politiche, incluse quelle di sinistra, apparve per più versi impreparato a fronteggiare l’inedita ed imprevista situazione. Comunque, in quella stagione aumentò a dismisura, come mai forse in passato, il desiderio divorante di conoscenza e di una cultura non filtrata, la lettura di libri e di riviste. Numerosi fogli e riviste videro la luce, strumenti che sollecitavano l’esercizio di una nuova critica, aumentò la propensione e l’attenzione per ogni manifestazione di cultura d’avanguardia. Il 1968 introdusse nei fatti una secca scomposizione, ed anzi una netta frattura, nel percorso di trasmissione della cultura tra le generazioni. L’immenso patrimonio costituito dalla grande cultura borghese, in larga parte sconosciuto, appariva come un concentrato di nozionismo inutile e dannoso,un qualcosa di cui ci si dovesse sbrigativamente liberare. Serviva una cultura completamente nuova! Veniva di conseguenza avvertita come distante e vacua, priva di senso e di valore, la ricerca, l’impostazione storiografica proposta da tempo dalla sinistra storica, di ancoraggio all’idea di “nazione” ed ogni riferimento, giudicato retorico, nel solco delle tradizioni risorgimentali, veniva spesso, disinvoltamente ed arbitrariamente, confuso con posizioni che apparivano d’ispirazione nazionalista e che pertanto, in quanto tali, andavano decisamente espulse. Si palesava una esplicita alterità ed un’assoluta distanza dall’idea di “Patria” e di “Stato Nazionale”. Un legame d’analisi teorica più intenso veniva piuttosto ricercato nel riferimento al concetto di “Classe” inteso in una dilatazione internazionale che appariva decisiva per la definizione di una vincente strategia d’azione. In quel frangente il Partito Comunista Italiano esplicitò al proprio interno due diverse posizioni e distinti orientamenti. Intervenendo su “Rinascita”, la rivista teorica del Partito, Amendola86 parlò del concreto pericolo della riedizione di un “nuovo sovversivismo” e

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Il 28 giugno 1968, sempre su “Rinascita”, aveva sostenuto che “il modo di esprimere comprensione per il travaglio dei giovani non è quello delle facili civetterie. Occorre porsi, invece, sul piano della responsabilità. V’è un atteggiamento molto diffuso tra gli anziani, che vuole apparire di larga apertura:commettano pure i giovani i loro errori, lasciamoli fare, ci penserà l’esperienza a correggerli…il faut que jeunesse s’amuse, poi metteranno la testa a posto, penseranno alla carriera…”. Per Amendola il problema studentesco era un problema nuovo, determinato dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Il sistema capitalista aveva bisogno, per la propria sopravvivenza, di un numero crescente di intellettuali che avrebbe tentato di legare sempre più a sé assicurando loro condizioni particolarmente

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del pericolo di un “fascismo rosso”, nel mentre invece Longo apparve più problematicamente aperto alla discussione ed al confronto ed anzi sembrò sollecitarlo87. La scelta di campo appariva in ogni caso definita. La nuova generazione, apparsa all’orizzonte, non si sarebbe più confusa nell’indistinto magma dei vecchi simulacri del retrogrado potere borghese occidentale. L’Oriente era il nuovo orizzonte alternativo da esplorare e da assumere a modello. La radicalità, l’assenza di zone “grigie” e problematicità, impediva di dispiegare lo sguardo, con critica attenzione, verso l’altro grande gigante del mondo, il sistema socialista, che aveva nell’URSS il proprio principale e più ingombrante referente. L’utopia dogmatica circa la realizzabilità di una società nuova, di uomini liberi ed eguali, finiva di conseguenza per mischiarsi con gravi errori, parzialità, ideologismi giustificanti finanche orrori e aberrazioni88. Oltre che Mao Tse Tung, finiva in tal modo per esaltarsi addirittura Stalin e una sua presunta “funzione progressiva” esercitata nella storia, la palingenesi della dittatura proletaria quale magico antidoto, risolutivo e finale, ad ogni persistente prevaricazione ed ingiustizia che continuavano a sussistere nel mondo. Una visione delle cose, sostanzialmente manichea, che -di per sé- sembrava escludere la possibilità di eventuali distinzioni ed intermedie sfumature. In tal modo, evidentemente, pur sollevando in superficie critiche ed obiezioni alla “politica imperiale” del grande colosso comunista, non potevano essere colti ed anzi venivano negati i segni premonitori di una crisi profonda che, poco più di due decenni dopo, avrebbe investito alla radice l’URSS e, più complessivamente, l’insieme dei paesi satelliti gravitanti nella sua diretta sfera d’influenza. Non esisteva neppure la vaga consapevolezza del lento avanzare e strutturarsi di una crisi politica, economica e sociale acutissima che, più avanti, avrebbe prodotto la disgregazione e la fine dei regimi del “socialismo reale”. Uno sgretolamento di sistema che darà avvio ad un potente e massiccio processo migratorio, dall’Europa dell’Est verso i maggiori paesi dell’Europa Occidentale, che avrebbe investito in pieno la stessa Italia. Crebbe il protagonismo di massa nelle scuole e nelle fabbriche, fu messa in crisi la prassi, consueta, della delega ad altri sulla legittimità delle decisioni. Ciascuno si sentì, per una breve stagione, protagonista delle proprie scelte, del proprio destino personale ed insieme parte attiva della costruzione di un futuro collettivo. Il privato finì per confondersi col pubblico, fin quasi ad annullarsi. Contestazione e rifiuto radicale unico antidoto alla passiva e subalterna integrazione. L’idea di una democrazia di massa, diretta e alternativa, sembrava l’unica modalità in grado di fare assumere solidi orientamenti e decisioni condivise. Le sedi formali della democrazia rappresentativa vissute come luoghi sempre più asfittici e privi di autorevolezza, ormai svuotati di effettivi poteri e di funzioni valide ed efficaci. Dal caos prodotto a piene mani sarebbe emersa, come d’incanto, la nuova società. La fase vede altresì la nascita e sviluppo dei gruppi extra parlamentari proliferati a sinistra del PCI, nati all’indomani delle lotte promosse alla fine degli anni ‘60 dal movimento studentesco,un periodo che volse in breve al termine, in sostanza a causa dell’incapacità di far convergere quelle diverse formazioni verso un solo ed unificante progetto, politico ed organizzativo, che ne avrebbe potuto garantire ancora per qualche tempo la tenuta. I tentativi, rari in verità, di ampliare radicamento e consenso ricorrendo alla partecipazione alle elezioni, naufragarono miseramente. La scelta di partecipazione alle elezioni di alcune di queste organizzazioni extraparlamentari si rivelò infatti un vero fallimento. Iniziò la crisi e l’interno sgretolamento dei gruppi le cui componenti giovanili finirono per orientarsi, in larga prevalenza, verso gli approdi più sicuri delle grandi favorevoli di vita e di lavoro. Essi invece esprimevano un bisogno profondo di autonomia e libertà, che quel modello di produzione e di sviluppo non poteva garantire. In ciò la vera ragione dell’acuta contraddizione venuta in emersione. 87 In quegli anni, e per diverso tempo ancora, la guida del Paese è nelle mani della D.C che, forte di un consenso consistente, darà vita con Leone e Rumor, alternativamente, a governi di coalizione insieme al PSI ed al PRI o a governi monocolore. Nel 1972 l’indirizzo del governo Andreotti- Malagodi sarà invece decisamente più orientato verso destra. 88 Testi e testimonianze non presi in considerazione, cita almeno Solgenitzin e Sakarov, oltre che Karlo Stejner

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formazioni della sinistra storica, i comunisti ed i socialisti. Fu questo lo sbocco conclusivo della fase breve e intensa degli “eroici furori” giovanilisti. Soltanto sparute minoranze rigettarono la strada dell’ “entrismo” optando, in genere, per due distinti orientamenti:chi circoscrisse nel tempo quel tipo di esperienza militante riprendendo la via della normalità, ritagliandosi nuovi spazi nello studio e nella ricerca di fecondi sbocchi professionali nei più disparati campi delle umane attività. Un manipolo, ristretto, rifiutò invece una tale prospettiva e scomparve finendo per eclissarsi nelle nebbie. Frange assai limitate e circoscritte, di scarsa consistenza, che avevano deciso di imbracciare nuove strade, rischiose, avventuriste, senza ritorno alcuno. Il passaggio alla clandestinità e l’approdo alla lotta armata attraverso l’adesione al Partito Comunista Combattente. Troppo lunga e dolorosa è stata nel nostro paese la stagione sanguinosa del terrorismo e numerose le vittime che hanno costellato strade e piazze delle città italiane. Fatto è che il paese visse una stagione in cui ben altro che scontata fu la capacità di far fronte a questo gravissimo pericolo, inedito per la democrazia italiana, senza che fossero messe mortalmente a repentaglio solidità e tenuta dello Stato democratico. Solo la costruzione e la messa in campo di un ampio, esteso, determinato e compatto movimento di massa, di un fronte unitario, garantito dall’azione convergente e coordinata delle forze politiche e sociali democratiche, consentì l’isolamento e la messa in crisi di una tale “strategia”, il suo isolamento, la sua conseguente sconfitta sostanziale. L’obiettivo strategico e simbolico che si intendeva perseguire : l’attacco mirato che puntava a scompaginare “il cuore dello Stato imperialista” per fortuna alla fine fu sventato. La violenza verbale, gli echi dell’Autunno caldo appena giunto a conclusione, i disordini che si moltiplicavano, le università e le scuole sostanzialmente bloccate nelle loro funzioni educative e pedagogiche, lo scontro di frequente artificialmente esasperato, la comparsa dei primi episodi di terrorismo politico che prendeva di mira, in prevalenza, dirigenti industriali, magistrati e giornalisti, non risultò indifferente alla modificazione degli orientamenti dell’opinione pubblica in senso più marcatamente conservatore e moderato. In relazione a quegli anni, Antonio è portato ad avanzare un’osservazione sintetica ed essenziale, di segno generale, che è conseguente ai primi insegnamenti ricevuti:ritiene molto negativa ed anzi sciagurata la costante propensione della sinistra italiana a separarsi e dividersi sempre al proprio interno. Se c’è un problema aperto sul tappeto, bisogna che lo si discuta, che lo si approfondisca, con tutta l’accuratezza necessaria. Ci si può anche scontrare, è sempre legittimo avere opinioni anche diverse, ma il punto essenziale è quello di non rinunciare mai, in alcun modo, di volta in volta, alla paziente ricerca di una sintesi unitaria conclusiva. Dopo il confronto, anche appassionato, da esperire e sviluppare al proprio interno, la strada va ripresa e si procede insieme. Abbiamo la responsabilità di ricordare sempre il grande patrimonio che è stato costruito, con tante lotte, con tanti sacrifici, anche con tanto sangue versato dal tempo in cui il movimento è nato. Dovremmo ricordare sempre il grande tributo pagato per la giustizia e per la libertà e conservare, difendendo sempre, con ogni possibile energia, il patrimonio che ci è stato affidato! Antonio, pur possedendo una personalità sanguigna e appassionata, ha sempre rifiutato l’idea del ricorso alla violenza come modalità consentita nella lotta politica. Per lui ha sempre avuto valore il confronto esclusivo sul piano delle idee, la discussione che andava sviluppata tra i lavoratori, la capacità di confrontarsi e persuadere gli altri grazie alla forza delle idee, il rispetto dell’altro e delle posizioni assunte in buona fede. In sostanza, il ricorso alla lotta a viso aperto per affermare un’idea forza di maggiore eguaglianza, giustizia, libertà. Un impegno, questo, da perseguire con tenacia e convinzione, un giorno dopo l’altro, sempre. Sapeva bene che ricorrono alla violenza cieca, colpendo nel mucchio indiscriminatamente, solo coloro che temono il libero confronto delle idee, le forze retrive e reazionarie pronte a qualsiasi avventurismo pur di mantenere inalterati gli antichi e odiosi equilibri di potere. La lotta per la libertà si può sviluppare solo sul limpido terreno della democrazia. Perciò ha sempre rifiutato la violenza, l’idea dell’assassinio. Per lui è valso e vale innanzi tutto l’uomo e la sua vita. Il sangue di innocenti, versato ingiustamente, inquina la società, 81


non libera il paese. E poi, in genere, è già accaduto nel passato che il clima di paura finisce per favorire sempre, in genere, le forze più retrive e reazionarie, non certo le forze di progresso. E’ nel 1972 che, non a caso, dopo i successi elettorali della sinistra negli anni appena antecedenti, si verificò la svolta a destra del Paese. Il 1972 nacque il governo di centro-destra Andreotti-Malagodi, prodromo ad un diverso orientamento che iniziava a maturare nella pubblica opinione. La “maggioranza silenziosa” divenne il convitato di pietra che operava per il ripristino delle condizioni di ordine e distensione antecedente alla stagione delle grandi lotte studentesche ed operaie della fine degli anni 60. Un vento di restaurazione attraversò allora in lungo e in largo la nazione. La linea dell’avanzata progressiva s’iniziava ad incrinare e la situazione nel suo complesso regrediva.

A TORINO, NELLA SEZIONE MERIDIONALE DEL PARTITO Un’altra storia. Le strade di Torino in quegli anni brulicavano di operai meridionali. A Porta Palazzo c’era sempre un grande concentramento di persone. Allora quanti pugliesi, calabresi, lucani, sardi, siciliani…! Che netta differenza rispetto ad oggi in cui invece è pieno di immigrati di colore. A Torino Antonio aveva iniziato a frequentare Giancarlo Pajetta. Aveva inoltre conosciuto Rocco Lascano, che tuttora vive a Torino, un compagno con cui strinse una forte amicizia. Avevano discusso dell’opportunità di aprire la sezione meridionale del Partito. Dopo che ebbero convenuto con tale necessità, iniziarono a impegnarsi per realizzare il progetto che avevano pensato. Procedettero e, vinto l’iniziale scetticismo, riuscirono a inaugurare la diciottesima sezione del Partito Comunista, la Sezione “Antonio Gramsci”, in Corso “ Regina Margherita”, che subito divenne un importante punto di aggregazione e di coagulo per molti operai meridionali. Ben presto si sparse la voce dell’apertura della Sezione a Torino città. In pochi mesi iniziò ad affluire un fiume di persone. Si era tra il 1968 ed il1970. Crearono un piccolo bar, in un locale pulito, accogliente e confortevole. Un salone, un cortile gremito di operai. Gli dava una mano Monetti, di Rionero, che lavorava all’INPS. Ben presto misero su anche alcune cooperative di lavoro. Giancarlo Pajetta chiamava spesso Antonio per andare con lui nei cantieri dove lavoravano tanti meridionali. Antonio capiva la lingua, comprendeva il dialetto, e così poteva svolgere per il Partito una funzione di collante e di collegamento particolarmente utile. La sua vita si svolgeva intervallata tra il negozio e la sezione, 82


poi tutto il resto del giorno in giro a fare proselitismo e propaganda. Avevano messo su, in tempo relativamente breve, una forza piuttosto consistente. La voce della sezione si espandeva in molte direzioni. Tante le iniziative promosse e realizzate di cui erano orgogliosi. Ogni sera in giro, coi compagni, per diffondere la voce e le proposte del Partito. Anche più avanti, negli anni seguenti, è rimasto sempre in contatto e in buoni rapporto coi suoi compagni di sezione di allora.

LE INCOMPRENSIONI COL PARTITO A TORINO A Torino avevano a quel tempo iniziato a costruire qualcosa di importante, puntando sull’aggregazione dei lavoratori meridionali e, poco per volta, erano diventati una forza ed un riferimento di una qualche consistenza. Un punto di ancoraggio per tanti altri lavoratori meridionali immigrati e non solo per loro. Al punto che era maturata l’idea di dare un contributo diretto nelle liste del Partito nell’ imminente campagna elettorale amministrativa. (ANNO) Parlarono coi responsabili della Federazione che a loro volta convennero sull’opportunità finendo per sostenere che era giusto dar loro la possibilità di partecipare direttamente e di competere. Poi, senza che si fosse discussa pubblicamente e ufficialmente nelle sedi naturali la questione, Antonio e i suoi compagni si trovarono di fronte ad un inatteso, repentino, sorprendente voltafaccia. La Federazione aveva deciso diversamente, escludendo dalle liste tutti gli attivisti meridionali che, per questa decisione incomprensibile, si sentirono profondamente offesi. Una brutta storia, che a ripensarci adesso ancora lo addolora. Si sentivano traditi e presi in giro al punto che, di comune intesa coi compagni della 18 sezione, decisero di prendere le distanze e allontanarsi. La pensavano e ancora oggi politicamente continuano a pensarla allo stesso modo, ma l’amarezza che in quell’occasione era stata loro inflitta, senza ragione, gli pesa dentro al cuore ancora oggi. In realtà, a pensarci bene, una ragione per quel comportamento forse c’era. L’eventualità della presenza in lista di un nuovo gruppo, coeso e combattivo, poteva costituire, di per sé, motivo sufficiente per mettere 83


in discussione e magari far saltare l’elezione di altri candidati piemontesi su cui aveva puntato il partito di Torino e ciò, evidentemente, i torinesi non lo potevano accettare. Così si consumò il distacco e la rottura. Antonio Sileo non ha mai accettato di cambiare bandiera e posizione, né ha dato il proprio voto a persone, candidate in altre liste, di altri schieramenti, con cui pure aveva un buon rapporto personale. Ancora oggi gli risulta oscuro comprendere come fossero venuti a conoscenza del freddo che era calato tra lui e i suoi compagni col Partito torinese. Non poteva mai tradire il simbolo e le idee per cui fino ad allora aveva sempre tenacemente combattuto. Il Partito ed il Sindacato sono stati e sono per lui come una fede! Non era un trasformista, né un voltagabbana. Quale insegnamento avrebbe dato ai figli ai quali aveva sempre cercato d’insegnare il valore di una stretta di mano e di una parola data? L’amico che, contando sopra il suo rancore, gli aveva chiesto il voto alla lista socialdemocratica per cui si era candidato, non trovò nella sezione neppure un solo voto di preferenza alla sua lista. Antonio non avrebbe mai potuto stare male nell’anima per 5 anni, continuamente tormentato dai rimorsi. Gli chiese di comprenderlo. Sarebbero rimasti sempre amici ma le sue convinzioni politiche non le avrebbe potuto assolutamente barattare, per nessuna cosa al mondo. Se le avesse tradite si sarebbe vergognato per sempre di sè stesso.

FINE ANNI 60 E PRIMI ANNI 70: LE LOTTE OPERAIE La conquista del contratto nazionale di categoria per singoli settori, il raggiungimento di una maggiore eguaglianza, il conseguimento di nuovi diritti del mondo del lavoro, che in precedenza non erano mai stati conosciuti, saranno i primi obiettivi perseguiti e progressivamente raggiunti con lo sviluppo delle grandi agitazioni operaie. Inoltre iniziò a venir messa in discussione la prerogativa dell’impresa circa l’insindacabilità delle forme, rigide e tradizionali, dell’organizzazione del lavoro, avanzò la richiesta del diritto all’assemblea retribuita, anche con la partecipazione di dirigenti sindacali esterni, e dell’organizzazione della rappresentanza dei lavoratori eletta democraticamente in fabbrica. Si apriva la grande stagione dei Consigli di fabbrica, che avrebbero di lì a poco sostituito le vecchie Commissioni Interne. Riprendeva prestigio il Sindacato, fino a quel momento ancora piegato dalla grave sconfitta subita alla FIAT nel cuore dell’aspro scontro degli anni 50. Era in sostanza cominciata un’azione contro l’autoritarismo e l’organizzazione tayloristica del lavoro e per l’apertura di una nuova stagione di diritti del mondo del lavoro. E’ proprio dagli inizi

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degli anni ‘60 e poi per tutti gli anni ’70 che può essere in effetti individuata la fase, complessa ed intensa, rivolta ad una diversa definizione degli equilibri di forza e di potere nell’impresa italiana.89 La discrezionalità aziendale venne messa in crisi anzitutto sul tema dell’attribuzione del salario:s’incrinò la prassi, divenuta consueta, della corresponsione dei superminimi contrattati individualmente tra impresa e singolo lavoratore e delle elargizioni unilaterali dei datori di lavoro, sostituita con la corresponsione di salari collettivi di produttività o con i premi di produzione annui, integrativi agli incrementi contrattuali definiti a livello nazionale. Il settore metalmeccanico, a partire dalla Fiat, divenne la punta di diamante del movimento sindacale italiano. S’aprì, dopo il periodo delle differenziazioni salariali territoriali, delle gabbie, una lunga fase contrattuale per conseguire condizioni normative e salariali uniformi valide, contemporaneamente, in tutta la penisola. E si conquistò il diritto alla vertenza aziendale, con la ricerca di intese integrative, migliorative degli accordi raggiunti dalla contrattazione nazionale. Fu quella la stagione, indice della specificità del sindacalismo italiano, di apertura d’una azione che non limitava ed esauriva la propria attenzione al terreno, seppur primario, della fabbrica, ma che, più di ciò che era successo in passato, si mostrava attenta alle vicende generali del paese e al suo destino. La lotta per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori si combinò, così, con forme d’avanzamento e di progresso della condizione di civiltà del complesso della società nazionale. Un tale processo veniva di fatto favorito in quanto, nel ventre della società, alla fine degli anni ‘60 si era messo in moto, dopo la relativa stasi degli anni ‘50, un meccanismo economico dinamico e virtuoso. Con la crescita dei consumi era stato riscritto il profilo d’una società in profonda mutazione. Da una struttura economico-sociale a larga prevalenza agraria si era avviata, a tappe accelerate, la trasformazione dell’Italia in un moderno ed avanzato Paese industriale, in una potenza economica di primario rilievo nello scenario europeo e mondiale. Il quadro politico ne risulterà sensibilmente trasformato. La sinistra, nelle sue principali componenti storiche, quella socialista e comunista, si era però divisa, posizionandosi in maniera divergente: i socialisti al governo, i comunisti all’opposizione90. E’ fin troppo nota la discussione, aspra ed appassionata, per più aspetti anche lacerante, sull’esperienza dei governi di centro-sinistra. Un elemento d’indubbia novità fu, in un tale scenario, il ricco dibattito sviluppato sul ruolo dello Stato nell’economia, sulla funzione delle aziende a Partecipazione Statale per lo sviluppo del Paese e, specialmente, del Mezzogiorno:si assistette, in sostanza, al manifestarsi di due distinte e contrapposte posizioni, una favorevole, l’altra

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Si realizzano, allora, primi elementi di contrattazione per una nuova classificazione della forza lavoro:nel comparto tessile, ad esempio, le categorie saranno ridotte da otto a cinque, e verranno introdotte prime forme di avvicinamento salariale per settori similari, in special modo per il laniero e il cotoniero. Fu quello il tempo in cui vennero realizzati consistenti cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, col passaggio dal cottimo individuale e, quindi, dall’eccesso di parcellizzazione produttiva, al lavoro di gruppo, con attività sulle “isole”ed aree di produzione, con una nuova ed inedita concezione produttiva che affermò il principio di forme organizzative più aggreganti del lavoro operaio. Si consolidò ,poi, il diritto all’informazione preventiva sui programmi e gli indirizzi generali dell’impresa, si realizzarono nuove forme di controllo e di contrattazione dal basso dell’attività produttiva, fu posto un limite all’unilateralità dell’impresa nella definizione delle scelte aziendali e degli orientamenti strategici che l’impresa intendeva perseguire. Iniziarono, di conseguenza, ad entrare in crisi le annose gerarchie che fino a quel periodo avevano operato senza controlli o condizionamenti veri. 90

In precedenza era stato l’Istituto Gramsci ad organizzare un importante confronto tra diversi studiosi ed economisti sull’identità e le prospettive del capitalismo nazionale. A Roma dal 23 al 25 marzo del 1962 si era tenuto il pubblico convegno sulle : “ Tendenze del capitalismo italiano ”in cui erano state presentate le impegnative relazioni di Antonio Pesenti, Vincenzo Vitello, Bruno Trentin e Giorgio Amendola. Erano state esplicitate difformità di vedute sulle ulteriori possibilità espansive del sistema o sui caratteri dell’inevitabile crisi che necessariamente ne avrebbe incrinato la tenuta. Gli Atti verranno raccolti in una specifica pubblicazione, con lo stesso titolo del Convegno, curata dagli Editori Riuniti, Roma 1962. L’Istituto, il 14 ed il 15 marzo 1963, aveva poi organizzato il Convegno : “Programmazione Economica e rinnovamento democratico”, altro passaggio di rilievo circa l’evoluzione delle dinamiche politiche che si erano messe in movimento.

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decisamente contraria.91 Esempio illuminante ed esemplificativo era stato il punto di vista esplicitato a tal proposito da Francesco Compagna92che aveva visto con estremo favore l’azione per localizzare nel Mezzogiorno parti consistenti della grande industria di base”93. A ciò dovevano essere indotti anzitutto i grandi gruppi, pubblici e privati, che avrebbero in tal modo trovato forti convenienze da una diversa collocazione produttiva che, da un lato, ricomponesse lo sviluppo produttivo squilibrato prodottosi tra le diverse regioni italiane, dall’altro, realizzasse l’azione, non oltre differibile, di decongestionamento delle aree industriali del triangolo industriale del Nord . Le posizioni di Compagna erano l’esplicita dimostrazione del clima di ottimismo e di speranza circa i destini futuri del Paese e, in specie, del Mezzogiorno d’Italia. In questa visione, andava accelerata la realizzazione delle infrastrutture primarie ed il rafforzamento delle vie di comunicazione, degli assi viari, delle ferrovie e delle autostrade, in maniera tale che tutto lo sforzo straordinario dello Stato, in termini di investimenti per lo sviluppo industriale, non fosse reso vano dalle forti diseconomie esterne all’impresa e dall’arretratezza del territorio, negativi condizionamenti all’ambizioso progetto. Questa idea di sviluppo, virtuoso e progressivo, sembrava non tenere nel giusto conto l’elemento, che si dimostrerà invece decisivo, del ruolo e della funzione che, in questo processo dinamico, erano disposte a svolgere le classi politiche dirigenti meridionali, né dell’ispirazione che guidava le grandi imprese del Nord. Di certo esistevano forze in grado di sintonizzarsi con la novità di questa situazione, d’interpretarla in maniera creativa e intenzionate a far prevalere l’interesse generale su quello angusto di ceto, di gruppo, di appartenenza, uomini determinati e capaci di porsi quale depositari intransigenti d’un progetto ambizioso che, materializzandosi, per la sua indiscutibile efficacia sociale avrebbe concorso ad invertire la storia di assenteismo e di degrado, la“cultura” deviata che col tempo era attecchita in queste aree al punto da sembrare inscalfibile94. Questa tensione non poteva certo esaurirsi nei confini, angusti e limitati, della fabbrica ma avrebbe dovuto estendere lo sguardo alla società circostante, dove erano da conquistare e dilatare spazi più ampi di democrazia. Coniugare i due piani significava porsi il problema d’incidere sul terreno dello Stato e della sua organizzazione estendendo, in maniera diffusa ed organizzata, forme stabili ed attive di partecipazione alla vita democratica della Nazione. Intenzioni che, negli anni a venire, non si dimostreranno sufficienti a determinare l’attecchire di un rinnovato, radicato e robusto spirito pubblico così che, di frequente, i fattori di coesione che si tenterà di perseguire col concorso delle forze d’avanguardia più avvertite operanti nella realtà meridionale finiranno per sfilacciarsi non riuscendo ad incidere, nel reale, se non in maniera assai parziale. In ogni caso il conflitto, già da tempo in gestazione ed alimentato dal diffuso grado d’ingiustizie sopportato in prevalenza dal mondo del lavoro, si era in breve tempo esplicitato in tutta la sua portata costituendo, per una volta ancora, il fulcro su cui andranno a strutturarsi nuovi rapporti politici e di potere nel Paese.

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Furono favorevoli, in prima istanza, uomini d’estrazione liberale, in prevalenza legati al potente insegnamento di Benedetto Croce, raccolti intorno a riviste quali “Nord e Sud”. Essi ritenevano necessario, obbligato ed indifferibile l’intervento diretto dello Stato nell’economia e proponevano di concentrarsi, prioritariamente, sulla realizzazione d’un processo diffuso d’industrializzazione, una strada obbligata per il Mezzogiorno d’Italia. La loro opinione era che, con l’immissione in circuito di robuste quantità di capitali, si sarebbe potuto recuperare l’antico ritardo cui dal tempo dell’unificazione nazionale era stata di fatto condannata quella parte del Paese. 92 Francesco Compagna,“La Questione Meridionale”, Garzanti 1963. Un’edizione più recente è stata pubblicata nel marzo 1992, a cura delle Edizioni Osanna Venosa, con un’introduzione di Giuseppe Tiranna. 93 Pag.138,op.cit,edizione 1992. 94 Guido Dorso, La Rivoluzione Meridionale, Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia, Piero Gobetti Editore, Torino 1925.

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IL DECENNIO 1960-1970 : ALCUNE OSSERVAZIONI Nei primi tre anni del decennio “il miracolo economico italiano” raggiunge il suo picco più elevato. Notevole è l’incremento del reddito nazionale, crescono prezzi e salari che non restano stabili, così come invece era accaduto nel decennio precedente. I conti con l’estero cominciano ad essere sbilanciati e a non essere più in equilibrio. Si è quasi raggiunta una condizione di piena occupazione e gli operai evidenziano, in specie nel periodo 1959-1962, una ben più incisiva forza di contrattazione. E’ il periodo in cui si conquistano consistenti aumenti salariali. Dal 1962 però comincia a evidenziarsi una crescita dell’inflazione e si altera il rapporto tra esportazioni e importazioni, segnando un progressivo disavanzo. Le autorità monetarie, a causa della preoccupante congiuntura, adottano scelte politiche di riduzione del credito da cui deriveranno due anni di recessione, con caduta degli investimenti, della produzione, dell’occupazione. La crisi investe anzitutto l’industria che vede una secca caduta degli investimenti, che nel 1965 risultano ridotti del

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35% rispetto al 1963, nel mentre l’occupazione cala del 4%.95 La recessione non colpisce i diversi settori nella stessa misura. Alcuni importanti segmenti produttivi, che producono per l’esportazione, come la chimica, la petrolchimica, le fibre continuano ad espandersi, nel mentre altri, dai mezzi di trasporto alla metallurgia riducono il volume degli affari. Più colpiti i settori, come quello alimentare e quello tessile, che producono, in larga prevalenza, per il mercato interno. La crisi rafforza il “dualismo” che si era evidenziato negli anni del miracolo economico riducendo le imprese minori in una condizione di forte sofferenza, nel mentre favorisce i processi di più forte concentrazione industriale. Solo tra il 1966 ed il 1968 la produttività riprende a crescere più rapidamente dei salari, ma con un ritmo di sviluppo più lento del passato. La ripresa è perciò limitata e passeggera. Le nuove massicce emigrazioni, dal sud al nord, portano i maggiori centri industriali delle aree settentrionali sull’orlo del collasso, soprattutto a causa di un’insufficiente dotazione di servizi e abitazioni. Da questa situazione, di disagio sociale assai marcato, prenderà il via la stagione delle lotte sindacali, in specie del 1969, che produrranno importanti risultati. Si otterranno considerevoli aumenti salariali, che finiranno per riallineare finalmente le retribuzioni italiane a quelle dei paesi più avanzati dell’Europa. Il presentarsi di nuove tensioni inflazionistiche e l’aggravarsi del bilancio negativo dei conti con l’estero induce però il governo e le autorità monetarie al ritorno ad una politica restrittiva. Il nuovo decennio vedrà una lunga stagione di stagnazione economica e di forte conflittualità sociale. Le forze in campo si sfideranno duramente per sopraffarsi reciprocamente e per affermare ciascuna una propria egemonia.

IL MEZZOGIORNO D’ITALIA, LE RIVOLTE: APRILE 1969, BATTIPAGLIA La storia, antica e più recente, del nostro mezzogiorno, da tempo immemorabile, è sempre stata punteggiata da un ciclico alternarsi di lunghi periodi di stasi e di torpore, di apparente subalternità passiva delle masse popolari, periodicamente interrotti dall’improvviso e incontrollato esplodere di una rabbia feroce e incontrollata. Un dato esplicativo, questo, della specificità e della delicatezza estrema di una situazione di criticità sociale che, da troppo tempo, si trascina senza soluzione. L’acutezza dei problemi che in varie circostanze si sono evidenziati, a causa della grave crisi occupazionale, in termini di salvaguardia dell’ordine pubblico e della civile convivenza, dovrebbero indurre, sempre, i governi che di volta in volta si succedono alla giuda del paese, a trattare i problemi annosi che persistono in quest’area col massimo di attenzione, evitando ogni arbitraria e 95

ISTAT, tavole statistiche storiche 1861-1975, Roma, 1976.

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miope sottovalutazione della questione che rischia di minare i rapporti di civile convivenza. Sempre le esplosioni di violenza sono state il sintomo, scomposto e più plateale, di un disagio sociale profondissimo, per lo più generato, sempre, dalla grande mancanza di lavoro. Da questa constatazione elementare è derivata la scelta, che viene riproposta in queste pagine, di una rivisitazione e di un richiamo ad alcune vicende ed alle situazioni, simbolicamente esplicative, di quanto si è verificato in ciclica scansione. Vicende importanti, che hanno segnato la storia di queste terre, anche in tempi a noi relativamente più vicini. Come è stato in precedenza ricordato, nell’immediato secondo dopoguerra nella Piana del Sele, come in larga parte del Mezzogiorno d’Italia, si era sviluppata una grande e massiccia iniziativa di lotta, protagonisti i contadini senza terra, per l’occupazione e la divisione delle terre incolte, in specie demaniali.96 Fu il periodo della grande speranza di un radicale cambiamento negli indirizzi dell’economia e nella direzione politica del paese. Alla testa di questi movimenti si erano posti il Partito Comunista Italiano e la CGIL.97 Tuttavia, questa epoca storica di lotta economica e politica d’enorme significato generale, finirà per concludersi col raggiungimento di risultati largamente inferiori alle attese suscitate. In quella stessa area, verso la fine degli anni ‘60, in alcuni importanti centri della Piana, come Battipaglia, si evidenziò un rapporto, ormai lacerato e consunto, tra il Partito e le masse e, contemporaneamente, tutti i limiti del Sindacato. Il tessuto sociale connettivo e democratico parve liquefarsi rivelandosi pressoché inesistente. Ci furono, a Battipaglia, morti e feriti98.

La notizia dei gravi moti, con le strade e la ferrovia bloccate, l’incendio del Municipio, le barricate, l’intervento della polizia, i morti, non poteva non avere conseguenze all’interno del Sindacato Confederale. La situazione apparve subito molto preoccupante. Luciano Lama, allora Segretario Generale della CGIL, intervenne in maniera assai determinata: d’intesa con Rinaldo Scheda ed Aldo Giunti99, convocò Giuliano Baiocchi e lo inviò a Salerno, con l’incarico di lavorare al ripristino di una situazione di normalità. Baiocchi inizierà immediatamente, col gruppo dei dirigenti della Camera del Lavoro, a prendere contatti con la Cisl e la Uil: per sbloccare la situazione, venne proclamato lo Sciopero Generale. La rabbia popolare, incontrollabile, non fece differenze: nel corso della manifestazione sindacale il palco fu incendiato. Si trattò di un impatto, aspro e drammatico, con una realtà del Mezzogiorno, pesantemente segnata dalla gravità della situazione economica e sociale e dell’acutezza dell’emergenza occupazione. L’inizio degli anni ’70, di converso, sembrò 96

A proposito delle lotte per l’occupazione delle terre incolte e la piena attuazione della riforma agraria, in particolare in provincia di Salerno, è illuminante la lettura del volume di Giuseppe Lanocita, Il latifondo delle masserie, prefazione di Augusto Placanica, Edizioni Arti Grafiche Boccia,Giugno 2000 97 Nell’immediato secondo dopoguerra era nato il Movimento di Rinascita del Mezzogiorno, che aveva avuto tra i principali animatori Giorgio Amendola, Mario Alicata, Francesco De Martino. Tra le proprie priorità d’azione, la centralità della questione agraria e la necessità della rottura del latifondo, baluardo delle classi conservatrici del Mezzogiorno. Abdon Alinovi, Pietro Grifone, Silvano Levrero, Piero Memmi,Giovanni Perrotta, Gaetano Di Marino, Michele Rossi, Feliciano Granati furono tra i principali dirigenti impegnati, insieme a Lanocita, sul fronte della lotta per la riforma agraria in Provincia di Salerno ed in specie nella Piana del Sele. L’ossatura essenziale della futuro gruppo dirigente del PCI e della CGIL. A livello nazionale il maggior esperto della questione agraria e contadina era Emilio Sereni, autore de Il Capitalismo nelle campagne e de La questione agraria nella rinascita meridionale, nel mentre Pietro Grifone, altro acuto studioso della questione agraria, è stato autore de“Il capitale finanziario”. 98 La rivolta di Battipaglia esplose, in maniera incontrollata, il 9 aprile 1969, a seguito della notizia della chiusura della manifattura tabacchi e dello zuccherificio. Anche in questo caso la polizia fece ricorso alle armi da fuoco. Morirono Raffaele Citro, un operaio tipografo di 19 anni, e Teresa Ricciardi, insegnante della scuola media di Eboli, colpita al petto mentre si affacciava alla finestra di casa. I moti che si verificarono nelle ore successive produssero centinaia di feriti tra manifestanti e forze dell’ordine. Venne incendiato il municipio, fu invasa e devastata la stazione ferroviaria, assediati il commissariato e la caserma dei carabinieri. La protesta non apparve in alcun modo contenibile ed inascoltati restarono, ancora per giorni e giorni, i richiami alla calma dei partiti e delle organizzazioni sindacali, a loro volta travolti dalla furia della protesta popolare. 99 A quel tempo responsabile d’organizzazione della Cgil.

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configurarsi come uno straordinario periodo di protagonismo operaio e sindacale.Si apriva una nuova stagione, di ricche e originali esperienze sindacali, costellata dalle grandi assemblee operaie.100 Migliaia di operai e di operaie, dai braccianti ai lavoratori tessili e dell’abbigliamento, dai lavoratori del pubblico impiego ai metalmeccanici, ai chimici ed agli edili, concorsero, da protagonisti, alla definizione delle piattaforme rivendicative. In ogni caso, i gravissimi fatti di Battipaglia impedirono o almeno rallentarono il rischio che, di lì a poco, nella Piana del Sele, si verificassero altre chiusure di aziende tabacchine. Il 1969 si conclude con la tragedia della strage alla Banca dell’Agricoltura, a Milano, in Piazza Fontana. Una bomba collocata in una cartella piazzata al centro del salone affollato di clienti esplose, alle 16,37 del 12 dicembre, provocando la morte di 16 persone ed il ferimento di altre 90. Contemporaneamente, un altro ordigno scoppiò a Roma, alla Banca Nazionale del Lavoro in Via Veneto, ferendo 16 persone. S’accentuò l’incertezza ed il clima di paura nel Paese. E’ l’accelerazione di quella che sarà definita “la strategia della tensione”, costellata negli anni a venire da molte altre azioni delittuose per le quali troppo spesso non verranno individuati né esecutori né mandanti. La grande avanzata operaia, politica e sindacale, veniva selvaggiamente interrotta e bloccata dalla “ strategia della tensione”. Un’ondata di terrore sarà riversato, a ondate successive, colpendo alla cieca, sul corpo del paese. L’attentato alla Banca dell’agricoltura di Milano sarà più avanti seguito dagli attentati ai treni, a partire dall’Italicus a Bologna, da bombe a Brescia, esplose in Piazza della Loggia, da tanti ulteriori episodi di indiscriminata violenza eversiva che avevano l’unico obiettivo di fermare l’avanzata del movimento dei lavoratori. Una fase, particolarmente delicata della storia politica e civile del paese, nella quale la stessa democrazia apparirà a un certo punto seriamente in pericolo. I responsabili di quelle stragi ed i loro mandanti sono rimasti in molti casi impuniti. Tempi duri e difficili anche quelli dei primi anni 70. Un paese che stava da tempo vivendo sulla pelle il mutamento della congiuntura, l’aprirsi della crisi che iniziava a mettere in ginocchio l’economia della Nazione. Ed una nazione colpita duramente, come si è visto, dall’ondata di violenza e terrorismo che gli si era abbattuta addosso all’improvviso. Pier Paolo Pasolini, nel culmine della fase della strategia della tensione, parlerà coi suoi versi, in maniera profetica, delle cause e dell’origine delle responsabilità di ciò che sta accadendo:101 Lo so. Io so il nome dei responsabili di quello che viene chiamato golpe ( e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974 (….) Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali, a giovani neofascisti, anzi neonazisti.(…) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace102 100

La lotta più importante fu quella per la conquista dello Statuto dei diritti dei lavoratori. E’ allora che venne strappato il diritto all’assemblea retribuita nei posti di lavoro.

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RITORNO A FORENZA Avevano dovuto chiamare i pompieri per estrarlo dal furgone. Era stato obbligato a trascorrere alcuni giorni in ospedale dove era giunto in stato d’incoscienza. Aveva perso completamente conoscenza e, quando si era risvegliato, non era riuscito a spiegarsi la ragione per cui si trovava proprio lì. Non sapeva chi era venuto in suo soccorso, né chi lo avesse condotto in ospedale. Per fortuna non aveva contratto debiti. La sua prima preoccupazione era stata quella di pagare immediatamente i suoi operai. A Forenza c’era un suo zio che era entrato in conflitto, per motivi di interesse, con sua madre e suo padre. Aveva ricevuto una lettera da un suo parente, Emanuele, lo stesso di cui poi avrebbe dovuto battezzare la figlia, in cui lo si informava dei contrasti insorti e che lo invitava a tornare, per evitare il rischio che il padre un giorno potesse combinare una qualche 102

P.P.Pasolini, Che cos’è questo golpe, Corriere della Sera, 14 Novembre 1974.

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fesseria, trovandosi nei guai. Tra l’altro Emanuele gli aveva addirittura raccontato che un giorno, nel corso di un litigio furibondo, lo zio aveva tirato la zappa contro sua madre. Si era allarmato ed aveva iniziato a valutare seriamente l’idea di ritornare. Poi, come chiarirà più avanti, a Torino erano accadute cose che non gli erano piaciute e si era iniziato a sfilacciare il rapporto, apparso fino ad allora inossidabile, coi compagni del Partito. Era molto legato alla madre, conosceva i suoi grandi sacrifici per portare avanti la baracca. Non ci pensò molto più del dovuto, vendette il suo locale e così tornò a Forenza. Aveva l’idea di installare, una volta a casa, un forno moderno, di quelli che non s’erano mai visti al suo paese. Aveva bisogno dell’autorizzazione, della licenza del Sindaco. A quel tempo disponeva di circa 20 milioni, parliamo del 1970. Soldi sufficienti a comprare il terreno e a mettere su l’attività del forno. Il Sindaco gli aveva dato una licenza, che però non era regolare e in quanto tale non utilizzabile. Quando aveva consegnato alla Camera di Commercio le carte per la registrazione, l’ingegnere Rosco, di Potenza, un vecchio compagno, gli aveva detto che era assai contento della sua decisione. Avrebbe provveduto lui stesso a fargli il progetto, gratuitamente, apprezzando il fatto che Antonio investisse i propri risparmi nel comune. Solo che non si poteva procedere. Il pezzo di carta che gli era stato consegnato era completamente privo di valore. Il Sindaco, in effetti, aveva dato autorizzazioni ad aprire forni a destra e a manca, a chiunque e in ogni direzione. Tutti a Forenza allora erano diventati sulla carta, all’improvviso, fornai qualificati. Autorizzazioni in verità tutte rilasciate a cuor leggero, soltanto per clientelismo spiccio, tutti pezzi di carta senza alcun valore. Si scontrò col Sindaco, che lo aveva preso in giro. Decise perciò che era giunto il momento di ritornare ad impegnarsi in politica, all’impegno diretto. A Torino si era fermato circa 15 anni, dal 1957 al 1970. Era riuscito ad ambientarsi abbastanza bene in quella realtà per lui completamente nuova. L’inizio, come già si è detto, era stato difficile, poi nel nuovo contesto si era integrato abbastanza bene. Quasi non lo prendevano più per un meridionale. Aveva il forno, che aveva iniziato a funzionare a pieno ritmo. Aveva cercato, per qualche tempo ancora, di continuare a stare lì, fino a che si era persuaso di non poter più proseguire oltre. Il suo rapporto col contesto ambientale si stava d’altronde decisamente sfilacciando. Vendette il forno ed acquistò un negozio alimentare. Ciò accadde appena dopo l’incidente. Stava in Corso Unione Sovietica, nei pressi dello Stadio della Juventus. Frattanto, nel 1968-1969, era esploso l’autunno caldo. Antonio rientrò a Forenza nel 1970. Aveva atteso con pazienza la fine della scuola dei ragazzi, poi se ne era tornato, insieme a tutti loro. Salvatore faceva la prima media, gli altri erano tutti piccoli. Dal distacco non ebbero per fortuna a subire alcun trauma. Il rapporto col Partito di Torino, come si è detto in precedenza, si era lacerato in forma irreversibile. Chiuse perciò in via definitiva con quella situazione, ma mai, ha più volte ripetuto in seguito per non dare luogo ad alcun equivoco, con l’idea! Voleva aprire la nuova attività nel suo paese, ma nel suo destino stava scritto che si sarebbe imbattuto ben presto in altri problemi e nuove opposizioni. Avrebbe dovuto sostenere nuovi scontri.

IL MEZZOGIORNO D’ITALIA : LE RIVOLTE 1970-1972, REGGIO CALABRIA Alla fine degli anni 60 iniziava ad esaurirsi lo straordinario balzo in avanti dell’economia italiana che aveva dato luogo al grande “boom economico” e che aveva concorso a ridisegnare, in maniera completamente diversa, la struttura economica e sociale del paese. Dopo un fase di avanzata che sembrava inarrestabile, che aveva riposizionato il ruolo e la funzione del Sindacato in maniera sempre più centrale e decisiva nella vita del paese, la situazione iniziava ad avvitarsi su sé stessa e a regredire in maniera preoccupante, nel mentre all’orizzonte stava per profilarsi il vento della grave crisi energetica del 1972. Una fase, di conquiste civili e di battaglie vittoriose, che avevano 92


consentito la conquista di rapporti di forza più avanzati a vantaggio delle forze del lavoro, nei posti di lavoro e nella società nel suo complesso, con risultati di rilievo sul terreno degli aumenti salariali e dei diritti normativi e contrattuali sembrava arrestarsi e inaridirsi all’improvviso. Il ruolo delle forze del lavoro, indispensabile per la democrazia italiana, imprescindibile per il riscatto del Meridione, veniva all’improvviso posto violentemente in discussione. Da più parti si assisteva, increduli, all’esplosione di un improvviso e violento furore popolare distruttivo, rivolto contro tutto e contro tutti. Saltava il ruolo di mediazione e di rappresentanza proprio della politica, veniva rapidamente eliminata ogni funzione connettiva. Il centro dell’esplosione della rabbia popolare, che assunse ben presto le forme e i toni propri alle storiche rivolte simili a quelle passate della Vandea francese, finì per concentrarsi nell’area di Reggio Calabria. Una città che si sentì scippata della funzione e del ruolo di capitale della Regione Calabria che in quei frangenti si era deciso di assegnare a Catanzaro. A Cosenza, l’altra provincia della stessa Regione, veniva attribuita in quel periodo la sede dell’Università. Decisioni, quelle assunte dal governo nazionale, ed in specie dal partito democristiano, in quel contesto temporale dominante, che non vennero adeguatamente e politicamente filtrate né democraticamente veicolate dall’insieme delle forze politiche locali. Si determinò una forte frustrazione che degenerò ben presto in gravi moti di piazza, violenti e incontrollati. Il Sindaco democristiano Pietro Battaglia, il 5 luglio 1970, in un pubblico comizio tenuto davanti ad una grande folla di cittadini accorsi ad ascoltarlo, denunciò il presunto tradimento di Reggio, ferita nei suoi diritti e nella sua dignità dalla scelta di Catanzaro come capoluogo del nuovo Ente Regione e di Cosenza come Sede dell’Università. Come è noto, ben presto l’indignazione fu raccolta, diretta, strumentalizzata e rivolta in senso violentemente antidemocratico dalle forze dell’eversione più estrema e radicale, dalla destra neofascista più violenta, dalla stessa criminalità, dando luogo ad una delle più lunghe e drammatiche rivolte urbane della storia d’Italia.103 I moti di Reggio esplosero, come è noto, su base sostanzialmente localistica, campanilistica, corporativa, ma va altresì osservato come essi riuscirono ad attecchire, con estrema rapidità, nel corpo più profondo della società, fino agli strati popolari più emarginati ed umili, in quanto il contesto ambientale d’insieme si era da troppo tempo deteriorato regredendo. La città aveva vissuto, nel ventennio 1950-1970 uno sviluppo distorto che aveva ruotato, in larga parte, intorno all’edilizia. Esso era dipeso, in ingente misura, dal flusso di danaro pubblico veicolato dallo Stato centrale e garantito, nella sua distribuzione, spesso discrezionale, dall’apparato politico locale collegato al principale partito di governo. La rivolta di Reggio Calabria fu susseguente a quella di Battipaglia dell’aprile 1969 e di Aquila del 1970, a loro volta esplose in maniera violenta e incontrollata in aree geograficamente collocate dentro al Mezzogiorno. Situazioni tutte in cui, in genere, finiva per saltare un qualsivoglia tessuto connettivo ed ogni capacità di mediazione. Si evidenziava una grave situazione di crisi, sfilacciamento e di lacerazione nel complesso rapporto tra Istituzioni, parti politiche e sociali, masse popolari. Il tratto eversivo della rivolta reggina sembrava ancora più segnatamente eversivo, per la forte caratterizzazione di destra che lo contraddistingueva, per la durata della ribellione, per il localismo più marcato. Difficile sarà la messa in moto di un processo di ricomposizione delle gravi fratture che si erano andate a evidenziare e decisivo a un certo punto apparirà la scelta dell’intervento diretto e organizzato delle forze del lavoro, ed in specie delle grandi organizzazioni sindacali dei metalmeccanici che, intorno alla parola d’ordine “ Nord e Sud 103

La rivolta di Reggio Calabria, infatti, si protrasse per un periodo lunghissimo, dal luglio del 1970 al febbraio del 1971, prima che il grande concentrato di rabbia e di passioni accumulate almeno in larga parte si placasse. Ulteriori sussulti ribellistici si verificheranno, a scatti intermittenti, anche più avanti nel tempo, fino al 1972. I moti di Reggio Calabria causeranno la morte di 6 persone, innumerevoli feriti, trenta giorni di Sciopero Generale, 26 attacchi dinamitardi, 34 blocchi ferroviari, 13 assalti alla Prefettura, 8 assalti alla Questura, 300 arresti, 450 persone denunciate. Massiccio l’intervento delle forze dell’ordine e di corpi speciali dell’Esercito, come i Paracadutisti della “Folgore”, della “Nembo” e dei Fucilieri di Cesena ( Convegno Nazionale Cgil sul Mezzogiorno, Salerno 13 e 14 Settembre 2012, Relazione di Edmondo Montali.

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uniti nella lotta” si proporranno attivamente in quella sfida con una grande manifestazione nazionale, che si terrà nell’ottobre 1972. Un segno, netto e preciso, della determinazione a comprendere più a fondo i motivi alla base del gravissimo disagio che si è evidenziato. I Sindacati Confederali si muoveranno con fermezza, cercando di individuare le strade più idonee ed efficaci per costruire risposte concrete, non contingenti e occasionali, ai veri motivi del disagio violentemente esploso ed alla drammatica domanda di lavoro. Dovevano essere avanzate, con estrema urgenza e con sollecitudine, idee, realistiche ed incisive, in grado di porre all’ordine del giorno i nodi irrinunciabili dello sviluppo e della democrazia ed individuate le modalità d’azione capaci di consentire l’individuazione di obiettivi raggiungibili. La disponibilità di nuovi investimenti produttivi, con la creazione di nuove infrastrutture, condizioni indispensabili ed atti indifferibili capaci di iniziare a fornire al territorio funzioni e servizi da troppo tempo vanamente attesi. Come si ricorderà, a Reggio Calabria era stata promessa la creazione di una fabbrica di 4.000 operai, l’Omeca, che in realtà ne occuperà soltanto 400. Il Sindacato Confederale, che pure aveva appena dato vita alle grandi lotte del 1968-1969 si mostrava con una fisionomia duale, una specie di Giano Bifronte, assai forte e combattivo al Centro-Nord, ancora piuttosto debole nell’Italia Meridionale. Al Sud del paese appariva ancora prevalente la forza dei lavoratori della terra, dei braccianti, dei “ cinquantunisti”, ovvero di coloro che avevano diritto ad un sussidio di sussistenza dopo aver lavorato, nel corso di un anno intero, almeno 51 giornate. Le strutture di assistenza del Sindacato al Sud erano piuttosto forti e organizzate, meno incisive e radicate nel mondo del lavoro le categorie. Il Sindacato uscito dal dopo “ autunno caldo” sembrava piuttosto impreparato e, soprattutto, diviso al proprio interno tra le diverse Confederazioni. C’era chi voleva l’unità organica e chi vi si opponeva. I tentativi unitari di Fim e Fiom venivano di frequente sconfessati, Trentin e Carniti saranno i dirigenti che più si batteranno per la creazione della Federazione Unitaria dei Metalmeccanici, un Sindacato che non puntava a chiudersi in sè stesso ma che intendeva battersi su basi non corporative, per proporre qualcosa che servisse a produrre un’azione in grado di accelerare il processo di unificazione del Paese. Nacque allora e si diffuse la parola d’ordine:” Nord e sud Uniti nella lotta”. La grande manifestazione sindacale di Reggio Calabria fu preceduta da una conferenza e dal lancio di un’idea propositiva di forte impatto generale che consisteva in un nuovo grande piano del lavoro. Tra l’altro prevedeva la richiesta d’interventi, in Calabria, per l’edilizia e per l’agricoltura e in specie per i braccianti, Proposta avanzata dalla Cgil ma respinta da Cisl e Uil di categoria. La Conferenza non venne indetta unitariamente dalle Confederazioni. Durò tre giorni e fu articolata così:Il primo giorno si ebbe una serie di incontri coi Partiti e si tenne un confronto cogli studenti e le loro rappresentanze. Durante il confronto con le forze politiche, Ingrao incentrò il suo intervento sulla necessità della piena autonomia del Sindacato. Proprio in quella circostanza fu avanzata la proposta di realizzare nuovi indirizzi colturali nell’agricoltura. Era necessario creare nel settore una filiera che garantisse la fine di ogni sfruttamento per i lavoratori della terra. Tra costoro c’erano ad esempio i “gelsominieri” in genere privi di qualsiasi diritto sindacale. Fu inoltre sviluppato un confronto, sufficientemente approfondito, sulla questione essenziale delle PP SS e sul ruolo che esse avrebbero potuto ricoprire all’interno di una politica di sviluppo delle aree calabresi e meridionali. Erano state promesse, invece di un pennacchio, tante ciminiere. Più nello specifico, per l’area di Reggio, sarebbe stato costruito il Centro Siderurgico di Gioia Tauro. Il sistema delle Partecipazioni Statali non si sarebbe configurato come un insieme di cattedrali nel deserto ma si sarebbe strutturato attraverso un tessuto di piccole e medie imprese, diffuso sul territorio in maniera capillare. La rivolta di Reggio Calabria avrebbe concorso a imporre un cambiamento alle precedenti strategie dei grandi gruppi industriali. Sarebbe stato evitato il raddoppio degli investimenti a Torino-Rivalta, indirizzandone al Sud una quota consistente. Inoltre una serie di infrastrutture primarie avrebbero dovuto realizzarsi sopra il versante ionio. Questo, in sostanza, lo schema tracciato da condurre a rapida realizzazione. Dopo la Conferenza la 94


Manifestazione. Per contrastare l’azione del movimento sindacale si ricorse alla violenza. Si organizzarono attentati ed esplosero bombe contro i treni diretti a Reggio Calabria. Nella città, lungo i rettifili delle strade sostavano gruppi di neo fascisti che provocavano il corteo. Fino all’ultimo momento si rimase in dubbio se fosse il caso di fare la manifestazione col corteo o se optare per una scelta più parziale che limitasse le possibili tensioni. L’incertezza fu vinta dagli operai dell’Omeca, che si posero con decisione alla testa del corteo, consentendo in tal modo che la manifestazione iniziasse. Il carattere stesso dell’iniziativa di lotta cambiò in corso d’opera rispetto a quanto era stato previsto in precedenza. La manifestazione prevedeva solo due interventi, quello del rappresentante degli edili e le conclusioni di Pierre Carniti. Invece divenne un’altra cosa, un comizio continuo in cui sopra al palco si susseguivano diversi, moltissimi oratori, delle realtà tra loro più diverse. Frattanto si iniziava a sbarcare dalle navi, i manifestanti invadevano la piazza. Un bagno di folla straordinario! La popolazione reggina rimaneva in realtà piuttosto fredda, distante, per tanti versi ostile. Il Sindacato manifestò allora coraggio e determinazione e fu anche in grado di avanzare proposte pertinenti. Col distacco dell’oggi, se un limite può essere oggettivamente rilevato, esso consistette nell’assenza di proposte su alcuni punti dirimenti, di notevole rilievo. Mancò, ad esempio, nella piattaforma, qualsiasi richiamo alle questioni del credito ed alla sua importanza decisiva, specie nel Mezzogiorno. Quel mondo sembrava del tutto lontano e ininfluente. E ciò era sbagliato! Il Sindacato aveva per così dire, nel periodo 1969-1972 un eccesso di forza e di capacità contrattuale e di mobilitazione. Si pensò la si potesse utilizzare al meglio per spingere la situazione più in avanti, nel senso di un diffuso, ulteriore miglioramento delle condizioni salariali. Il Sindacato, soggetto che aveva sempre favorito tutti i fattori di coesione, non riuscì a spendersi a pieno e in tutte le direzioni sulle questioni d’interesse strutturale più ampio e generale. Si fecero importanti battaglie, senza dubbio, ma tuttavia, su questo piano, la continuità della lotta si protrasse nel tempo in maniera limitata.104 I moti di Reggio Calabria, vicende critiche e dolorose della storia più recente del Sindacato Confederale e del Paese intero, rappresentano un periodo complesso, non ancora studiato e analizzato a fondo, in tutte le sue conseguenze e implicazioni. Si tratta di drammatici episodi, anche torbidi, che hanno avuto un loro trascinamento fino ad oggi. Nel 1970 erano state istituite le Regioni, decisione che avrebbe dovuto risultare decisiva soprattutto per il Mezzogiorno. Si individuarono allora le città sedi dei capoluoghi di regione, senza problemi o turbative, a parte quanto accadde in Abruzzo ed in Calabria. Il Governo Rumor diede luogo, in Calabria, ad una decisione discutibile, l’individuazione di Catanzaro, in verità già capitale amministrativa da 250 anni, come sede della Regione. La rappresentanza politica di Cosenza poi, vicina a Catanzaro, non facilitò la scelta che si finì per attuare. La protesta, come è stato ricordato, crebbe e si estese a macchia d’olio, con forti accentuazioni di tipo localistico. Reggio Calabria lamentò il fatto che ciò che si andava a realizzare senza alcun dubbio comportava una frattura nel precedente sistema di potere. Reggio subiva una corposa, diretta lesione di interessi. All’inizio la rivolta venne guidata dal notabilato locale ( Sindaco DC, Presidente della Provincia), dagli stessi rappresentanti della Chiesa. Poi si propagò e fuoriuscì da quello specifico circuito. Se ne impadronì e la diresse soprattutto Ciccio Franco, esponente locale della destra neo fascista e si trasformò in un’autentica avventura a sfondo reazionario. Due anni continui di rivolta eversiva, con 7 morti e moltissimi feriti. La sinistra visse in quei frangenti una condizione di grave difficoltà. PCI e Cgil apparvero assai timidi ed incerti nell’avocare a sé la direzione della protesta dandole modalità, obiettivi e sbocchi democraticamente e realisticamente realizzabili. Meno cauta fu la locale Cisl. Dietro il notabilato agì senz’altro la mano della criminalità organizzata. L’antistato si mise in movimento, favorendo crescita e capacità di presa della N’drangheta. La mediazione conclusiva cui si perverrà, dopo la grande 104

Osservazioni di Giorgio Benvenuto in occasione del recente convegno della Cgil sul Mezzogiorno, Salerno settembre 2012;

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manifestazione sindacale, fu quella di prevedere per Catanzaro la sede del Governo Regionale, per Reggio la sede di Regione, per Cosenza l’Università. Il contro piano di Emilio Colombo. Durante l’avvio della manifestazione, sulle navi, si discuteva sull’opportunità di mettere in mostra il tricolore o la bandiera rossa. Per la prima ipotesi i vecchi compagni, per la seconda i giovani. Avevano ragione i primi. La lotta per il lavoro al Sud doveva riguardare tutti, e non aveva senso rimarcare in quella battaglia alcun rigido senso di parte e di appartenenza. La città, come si è ricordato, era in larga parte ostile ai sindacati e al movimento democratico. Bar e negozi tutti chiusi, non si trovava l’acqua. Vennero usati, in maniera cinica e spregiudicata, finanche i bambini per lanciare le pietre sul corteo. Seppure in modo lento, iniziava comunque, da quel giorno in poi, una decisa e progressiva inversione di tendenza.105 All’indomani della strage di Piazza Fontana e negli anni 1970-1972 la democrazia italiana apparve seriamente in pericolo. Il sistema politico fragile ed incerto nel fronteggiare le emergenze. Certo il Sindacato non poteva supplire da solo a quelle assenze, ma tuttavia Cgil-Cisl- Uil diedero, proprio a fronte dei fatti di Reggio Calabria, un’importante prova di forza, di tenuta, di misura e di responsabilità, cose di cui il paese aveva un gran bisogno. Aiutò la Cgil a creare le premesse per il discorso che poi svilupperà in maniera più organica e compiuta nell’VIII Congresso di Bari del luglio 1973, che avrebbe assunto la decisione dell’incompatibilità tra cariche sindacali e politiche e, soprattutto, avviato il processo di adesione alla Confederazione Europea dei sindacati.

S’ARRESTA L’AVANZATA OPERAIA L’INVERSIONE DEL CICLO ECONOMICO, LA CRISI Ai principi degli anni 70 il grande boom economico che aveva lasciato immaginare la percorribilità e la realizzabilità dell’obiettivo della piena occupazione, con la soluzione di alcune delle più 105

Intervento di Guglielmo Epifani, Convegno Cgil sul Mezzogiorno, Salerno settembre 2012;

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stridenti ed acute discrasie nel tasso di sviluppo, a partire dall’irrisolta, cronica questione meridionale, s’era ormai interrotto giungendo al capolinea. I margini di agibilità per una più equa redistribuzione del reddito cominciavano ad assottigliarsi. Nelle dinamiche dello sviluppo economico, iniziava una fase di stagnazione e regressione, si apriva il periodo del riflusso e della ritirata. I sogni di una rapida, nuova e rigenerante palingenesi della società nazionale cominciavano ad infrangersi. In Basilicata si verificò una drastica riduzione degli investimenti pubblici, dal 40 al 27%, aumentò la disoccupazione, riprese, in maniera assai massiccia il grande processo migratorio.106 Nel 1971 era stata sospesa la convertibilità del dollaro, nel 1973 si registrò la prima crisi petrolifera, nel 1979, la seconda. Dal 1975 in avanti, la curva dell’economia divenne discendente e la crescita del PIL si dimezzò. Si ridussero i margini di manovra per gli interventi degli ammortizzatori sociali e per la spesa pubblica. Non si era di fronte ad una recessione ma ad una crisi seria nelle prospettive dello sviluppo. Dall’obiettivo del raggiungimento della piena occupazione, si passò alla disoccupazione strutturale, sempre aggiratesi attorno al 10%, a prevalente valenza giovanile e femminile, e sempre concentrata, in larga parte, nel Mezzogiorno. Ne derivarono scelte che diedero vita a modelli di diffusa precarietà nel mercato del lavoro, il lavoro in nero iniziò a crescere in maniera esponenziale. Ulteriore elemento, di novità peggiorativa della situazione, divenne la questione inedita, mai affrontata in passato, dell’invecchiamento della popolazione. Il Sindacato, uno dei maggiori soggetti organizzati in campo, mostrò i limiti della sua forza strategica ed iniziò a manifestare palesi difficoltà d’azione sul terreno delle grandi questioni sociali, ridimensionando il ruolo e la funzione di autorevole forza sociale che, insieme, faceva vertenze nei luoghi di lavoro ponendosi, al contempo, obiettivi generali di riforma, quali la conquista della piena occupazione, la tutela della salute, il diritto all’istruzione. Il Sindacato non riusciva più ad agire in relazione ad una visione progettuale d’insieme generale, sostenuta, quando era il caso, dall’organizzazione e dalla direzione del conflitto. Finiva per limitarsi a rappresentare, quasi esclusivamente, una complessa articolazione di interessi solo di una parte dei lavoratori occupati. Troppo spesso la linea, il progetto, la strategia divennero, di conseguenza, indefinite. O, pur avendo valide intuizioni, ad esse non si riuscì a dare pratica attuazione. In proposito, divenne dirimente il nodo della vertenzialità territoriale, sostanzialmente liquidata. Mancò una linea organica, costruita intorno all’idea forza dell’unità tra i sindacati. Ciò favoriva, di converso, la nascita, la crescita, la capillare diffusione del sindacalismo autonomo e corporativo, in specie ma non solo nei settori dei servizi. Il Sindacato mediava con la controparte e, continuamente, al proprio interno con le varie anime, le “componenti”, in un esercizio che, in genere, ormai avveniva sul terreno puntualmente definito ed imposto dalle controparti. In sostanza, non venne colto a tempo ciò che iniziava a mutare nella società, l’accelerazione del processo tecnologico ed insieme l’avanzata di un nuovo e potente modello “culturale” individualistico ed accentuatamente competitivo, che iniziava a distorcere i comportamenti passati prevalenti né l’articolazione, sempre più complessa, degli interessi che il particolare tipo di sviluppo che iniziava a determinarsi aveva messo in movimento. Il salario divenne così la cartina di tornasole più evidente della perdita della capacità di contrattazione del sindacato. Fatto salvo il limitato involucro del contratto collettivo nazionale, si produsse, nei fatti, attraverso l’estrema diversificazione dei contratti integrativi, quasi un sistema di nuove gabbie salariali, tra settori ed all’interno dei singoli settori.107 Iniziava, in sostanza, una fase regressiva.

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A tal proposito, solo nel 1970, da Melfi 1000 persone si trasferirono in altre aree del paese. Entrambi i dati sono rilevati da “La nostra storia”, La Gazzetta del Mezzogiorno. it 107 E’utile al proposito ricordare come l’ultima ricerca sui salari in Italia sarà quella di Pierre Carniti, ai primi anni ‘80. Poi, pressoché nulla. In precedenza uno dei più accurati tentativi di analisi e d’interpretazione delle trasformazioni avvenute nell’interna composizione dei diversi gruppi economico-sociali del Paese era stato il prezioso Saggio sulle classi sociali, di Paolo Sylos Labini, apparso nel 1974 e poi ripubblicato da Laterza nel 1988. In esso, tra varie ed acute osservazioni, era stato in particolare messo a fuoco il dato costituito dal fortissimo incremento delle classi medie, ed in

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Importanti riforme istituzionali, come quella che istituiva le Regioni, economiche, per l’intervento dello Stato nell’economia e per la movimentazione di risorse verso il Mezzogiorno, e sociali, come quella per la possibilità di ricorso alla cassa integrazione guadagni, per la diffusione del sistema pensionistico pubblico, per la realizzazione dei contenuti sanciti dallo Statuto dei Diritti dei lavoratori, non a caso sono il frutto dell’azione sindacale degli anni precedenti e della positività del ciclo economico. Gli anni di cui si sta parlando furono invece quelli del tentativo, in verità assai spesso vano e disperato, di strenua difesa di ogni fortezza e casamatta violentemente investita dalla crisi.

IL SUD, L’ILLUSIONE DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE Iniziarono a contrarsi, con il calo dell’occupazione, di conseguenza i salari ed i consumi. S’accentuò la forbice del ricatto e del condizionamento sul mondo del lavoro. S’iniziò a prefigurare la possibilità di un diverso sviluppo economico e produttivo, incentrato sulla piccola e media impresa e sulla sua flessibilità. Essa avrebbe potuto svilupparsi anche in considerazione dell’aiuto specie il sensibile incremento della piccola borghesia impiegatizia e commerciale, la cui composizione numerica era passata da meno di un milione su 16 milioni di occupati al principio del XX Secolo ad oltre 5 milioni su 19 milioni di occupati ai primi anni 70. Un fattore che, negli anni a venire, si sarebbe ulteriormente espanso divenendo economicamente e politicamente sempre più rilevante e decisivo.

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fornito dalle scelte del governo che, per favorire il volume delle esportazioni, iniziava a intervenire con periodiche pratiche di svalutazione della lira. Il fatto che le piccole imprese, spesso a conduzione familiare, potessero essere aiutate, con la progettazione e con adeguati e tempestivi finanziamenti, era la garanzia di una loro possibile espansione. Esse avrebbero potuto reggere e durare a lungo nel tempo, determinando la nascita ed il consolidamento di un diffuso ed avanzato sistema locale, di piccole e medie imprese, simile a quello nato nel frattempo nelle aree più dinamiche del centro Nord. A tal proposito c’è da considerare un elemento di evidente discrasia e divaricazione tra la situazione del Centro Nord e quella dell’Italia Meridionale. Qui la base sociale della popolazione era, in prevalenza, ancora contadina. Dopo la grande epopea delle lotte per l’occupazione e la distribuzione delle terre incolte ai contadini, realizzatesi, in verità, in dimensioni ben più ridotte e limitate rispetto a quanto auspicato dalle leggi di riforma Gullo, era iniziato il massiccio processo migratorio, che aveva portato, al Nord Italia e all’estero, milioni di lavoratori meridionali che contribuiranno in maniera decisiva al grande sviluppo del Nord del paese, della Germania, della Francia, della Svizzera, determinando contestualmente un massiccio impoverimento della forza lavoro e lo svuotamento di tanti comuni meridionali. In quei centri spesso restavano soltanto vecchi, donne e bambini. Un processo, di una tale profondità ed estensione, che invece non si registrò nel Centro Nord, dove, piuttosto, la tradizionale famiglia contadina finì per trasformarsi in piccola impresa industriale. Di frequente, ai lavoratori impegnati per una vita nel lavoro di fabbrica, più che i soldi della liquidazione vennero ceduti i macchinari, che consentirono di avviare in proprio le nuove attività. Il processo divenne così diffuso ed esteso che, dopo una prima fase, tra i piccoli produttori del centro e del nord si rafforzò una mentalità,cooperativistica e consortile, che li portò a cimentarsi con problemi nuovi, a partire dall’individuazione delle più efficaci modalità per reggere nel sistema competitivo e della concorrenza di mercato. Essi ampliarono i propri orizzonti, e crebbero accentuando la propria professionalità, innovando nei materiali e nelle tecniche di lavorazione, affinarono le proprie competenze. Le imprese a cui diedero vita, favorite nella loro capacità di commercializzazione all’estero dai ripetuti interventi governativi di svalutazione della lira, si configurarono, in genere, come nucleo a conduzione essenzialmente familiare. Un’idea che, col procedere degli eventi, sembrò prendere nel suo pensiero ulteriore forza. Essa infatti avrà un innegabile successo, in prevalenza nell’area del Nord Est, ma non si affermerà nelle stesse modalità ovunque nel paese. In realtà, un tale disegno non si realizzerà nel Mezzogiorno, in buona sostanza a causa di una condizione ambientale sfavorevole, per l’arretratezza delle infrastrutture e l’inesistenza di un moderno ed avanzato sistema di servizi qualificati alle imprese. L’inadeguatezza della Pubblica Amministrazione e la sua persistente gelatinosità ne vanificherà il timido tentativo abbozzato.

IL MEZZOGIORNO D’ITALIA IN RIVOLTA MAGGIO 1974: EBOLI Il Mezzogiorno d’Italia, dalla fine degli anni ’60 e per buona parte degli anni’70, vide l’esplosione di numerosi episodi di rabbia popolare incontrollata. Dopo i fatti di Battipaglia, Reggio Calabria, l’Aquila, nel 1974 la protesta di massa scoppiò ad Eboli. Essa fu, questa volta, originata dalla 99


mancata conferma del piano di investimenti della Fiat ad Eboli grazie al quale si sarebbe dovuta realizzare una fabbrica d’auto per circa 3.000 posti di lavoro. La crisi petrolifera del 1972 aveva indotto la Fiat a rivedere il proprio progetto originario ed ad orientarsi verso una maggiore produzione di autobus: un aggiustamento di linea che ora puntava all’incremento del trasporto pubblico, con la secca riduzione della produzione di auto prevista in precedenza. Una delibera Cipi del maggio del 1974 informò che l’investimento immaginato per Eboli sarebbe stato invece dirottato a Grottaminarda, in Provincia di Avellino. Per l’area di Eboli, in sostituzione, non fu proposto nulla. La situazione divenne, allora, improvvisamente incandescente e, di nuovo, rapidamente esplosiva. Sull’autostrada Napoli Reggio Calabria, proprio nel tratto di Eboli, vennero erette barricate, col metodo già ripetutamente sperimentato fin dagli anni’40 e ‘50 dalle lotte bracciantili, e per vari giorni furono completamente bloccate le vie di comunicazione tra il Nord ed il Sud del paese. De Mita era allora Ministro dell’Industria ed in particolare contro di lui si rivolse la rabbia della gente. In questa circostanza, però, diversamente da quanto era accaduto in precedenza a Battipaglia, il Sindacato ed il Partito Comunista non furono colti impreparati: i Sindacati riuscirono anzi a controllare e incanalare democraticamente la protesta, impedendo che essa assumesse caratteri eversivi e reazionari. D’altra parte, la Fiat aveva operato la scelta di investire ad Eboli anche in seguito all’azione del sindacato nazionale dei metalmeccanici rivolta a realizzare investimenti dei grandi gruppi nelle aree meridionali: il sindacato unitario dei metalmeccanici poteva, perciò, giocare una carta di coerenza e vantare un prestigio indiscutibile. Lo sciopero generale evidenziò l’esistenza di un movimento di grande ampiezza “condotto con civiltà e con senso democratico, diretto dal sindacato con l’appoggio dei Partiti Democratici e che si è sviluppato evitando incidenti e scontri”108. La lotta, poi, non assunse il carattere di una guerra di campanile. Essa non era contro Avellino quanto piuttosto contro il modo clientelare e disinvolto di fare politica industriale e d’individuare le scelte di sviluppo nelle aree meridionali. Il grande sciopero generale, cui parteciparono oltre 30.000 persone, fatte confluire da tutta la Regione, pose fine alla rivolta dopo che il governo si impegnò ufficialmente ad assicurare investimenti complessivi equivalenti ai posti di lavoro promessi dalla Fiat. All’epoca era in atto uno scontro politico imperniato su diverse concezioni dello sviluppo, uno scontro che, naturalmente, coinvolgeva le diverse formazioni politiche impegnate sul territorio ed in particolare la principale forza di governo del tempo,la Democrazia Cristiana, che vedeva al proprio interno varie linee scontrarsi tra di loro. Piccoli, Ministro delle Partecipazioni Statali, invitato ad Eboli da Scarlato, aveva appena esaltato, in un pubblico discorso, la decisione di localizzare ad Eboli l’impianto Fiat sostenendo che tale atto era il più efficace esempio della “incisiva politica meridionalistica” del governo. De Mita, più avanti, arriverà ad accusare Scarlato di essere stato l’ispiratore della rivolta di Eboli. In verità, si era consumato, sullo sfondo, un aspro scontro politico, tutto interno alla Democrazia Cristiana. Il vero contrasto era con De Mita che aveva spinto, in maniera pressante, per favorire la localizzazione degli insediamenti industriali nell’area di Avellino. La Piana del Sele presentava tutte le condizioni oggettive per un rapido ed efficace sviluppo in grado di garantire il riequilibrio tra le diverse aree della regione alleggerendo il congestionamento dell’area metropolitana di Napoli. Poteva inoltre vantare la naturale collocazione a ridosso di Salerno,della costiera amalfitana e del Cilento, tutti territori a naturale vocazione turistica, l’antica e naturale tradizione agricola, con produzioni molto apprezzate all’estero, la dorsale autostradale che la collegava facilmente alla Lucania ed alla Puglia, con la Basentana e, a Sud, con la SalernoReggio Calabria. Apparivano realistici i progetti per costruire nella Piana del Sele un aeroporto e l’interporto, ed anche per una diversa collocazione del porto commerciale di Salerno. La Fiat aveva d’altra parte già esplicitato il proprio orientamento a costruire uno stabilimento, l’Iveco: il gruppo 108

Dichiarazione di Claudio Milite, allora Segretario della Camera del Lavoro di Salerno.

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torinese studiò il territorio e convenne sull’opportunità di individuare Eboli come area di insediamento. Un progetto realistico che poteva essere realizzato senza grandi difficoltà. In una riunione al CIPI prevalsero, invece, spinte d’altro segno. La Fiat cambiò il proprio orientamento a favore di Grottaminarda, ad onta di quelle che sembravano le ragioni di buon senso. Scattò allora il moto popolare di disapprovazione. Esso si orientò verso la classe politica salernitana, verso Scarlato che sembrava rappresentarlo. Scarlato denunciò pubblicamente quanto era accaduto e sostenne che la protesta era del tutto giusta. Essa avrebbe dovuto essere forte, decisa ed unitaria, pur mantenendosi sempre nei limiti della lotta democratica. Respinse con durezza le critiche rivoltegli da Mariano Rumor che lo aveva accusato di “coprire un movimento eversivo”. Ci furono blocchi della linea ferroviaria e dell’autostrada, manifestazioni di piazza. Pietro Ingrao definì quello di Eboli l’ultimo moto popolare del Mezzogiorno. Poi il Governo si impegnò a compensare l’investimento Fiat perduto con una serie di stabilimenti della SIR di Rovelli. Alla popolazione parve una felice soluzione e suonarono addirittura le campane a festa per annunciare la fine dell’occupazione dell’autostrada ed il raggiungimento del risultato sperato: 3.000 posti di lavoro. Obiettivo che poi, in realtà, a finale consuntivo, risultò vanificato totalmente.109 In quel tempo fu assai forte l’attenzione per la politica dei poli di sviluppo industriali, volta a realizzare, in più punti del Mezzogiorno d’Italia, un’occupazione industriale vera, frutto di uno sviluppo economico virtuoso, non eternamente subordinato ed assistito dall’esterno. Iniziavano, però, proprio in quegli anni, a scomparire le grandi iniziative di gruppi industriali provenienti dal Nord: ottenuti i terreni per insediare le fabbriche e, soprattutto, i significativi aiuti finanziari, i gruppi imprenditoriali del Nord fecero vivere le fabbriche collocate nel sud del paese per un tempo limitato, fissato dalla durata dei vincoli posti dalle istituzioni per acquisire gli incentivi, dai tempi di redditività degli investimenti e dalla loro capacità di produrre i profitti attesi; poi, progressivamente e cinicamente, le consegnarono ad una morte precoce. Negli anni ’80, il processo di diffusa deindustrializzazione, ormai innestato, subì una forte e repentina accelerazione.

BISOGNAVA PURE FAR QUALCOSA Antonio, nella sua esistenza, ha avuto la possibilità di vivere molteplici esperienze, dai lavori più diversi all’impegno politico e sociale. Di estrazione contadina, è stato impegnato fin da giovanissimo prima nel Partito Comunista, fin dal periodo intercorso tra il 1950 ed il 1954. Un 109

Sulla vicenda può essere utile consultare Piero Lucia, Nel Labirinto della Storia perduta, Guida Editore, Napoli, Dicembre 2006.

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impegno, a quel tempo, in verità sia nel partito che nel sindacato. E’ stato segretario della sezione del Pci di Forenza dal 1954 al 1956. ( VERIFICA E CONFRONTA CON PRIMA) E’ emigrato a Torino nel 1957. Nella città sabauda, dopo aver svolto svariati lavori precari e occasionali, ha dapprima aperto un negozio alimentare, che a un certo punto ha venduto per aprire un forno. Avrebbe voluto continuare con questa attività una volta tornato al suo paese ma non gli fu possibile, a causa dell’ostracismo degli amministratori locali. Per una serie di ragioni, prima fra tutte il clima di preconcetta ostilità in cui si era imbattuto nella comunità al suo ritorno, aveva deciso di riprendere il proprio attivo impegno in politica. Si era candidato alle elezioni del 1970, andate in verità piuttosto male per la formazione per cui s’era schierato. Era uno dei candidati nella lista del Pci, guidata da Giuseppe Margiotta, responsabile della sezione del partito a Forenza che, all’indomani dello spoglio, risulterà l’unico tra gli eletti della lista. Svanito il progetto di avviare anche a Forenza l’attività di un forno, s’era girato intorno per vedere cosa potesse fare. Il lavoro non c’era, si trattava d’inventarselo. Esistevano allora alcune scuole rurali, a Piro Sorbo e Contrada Iaccio, due frazioni. I bambini che abitavano là, in quelle zone di campagna, non avevano trasporti pubblici che, collegandoli al paese, gli consentissero di frequentare la scuola con assiduità. Era una battaglia da fare, in cui si sarebbe potuto anche spendere il partito. Antonio iniziò a sostenere, con determinazione e massima decisione, che quei bimbi avevano lo stesso diritto dei loro coetanei del paese a frequentare la scuola. Si mise a studiare la questione e constatò che c’era un contributo specifico, che veniva erogato dalla Regione Basilicata e dalla stessa Provincia di Potenza, per il diritto allo studio. Forenza aveva allora più di 70 alunni. Antonio persuase le madri dei bambini a recarsi alla Regione. Erano una trentina, le madri dei ragazzi provenienti dalle frazioni rurali di Forenza. In quella sede venne evidenziata la situazione di Forenza e la Regione inviò un’ispezione per verificare l’esattezza delle informazioni ricevute. Si potè facilmente constatare che si trattava di informazione veritiera. Così, dal 1972, è stato stanziato il contributo per pagare i mezzi di trasporto necessari a consentire l’attuazione del diritto allo studio. Sono stati acquistati, in quell’anno, 4 pulmini e si è creata un’attività lavorativa che è durata a lungo nel paese. 4 pulmini con 4 autisti, Michele Volpe, Antonio Merollo, Rocco Caivano, Antonio Sileo. Oggi il servizio esiste ancora, anche se i pulmini sono soltanto 2. Una battaglia vinta, nonostante l’ostracismo del Sindaco di allora, Antonio Rendine. In verità questa fu una questione gravida di future conseguenze. L’Amministrazione comunale finirà infatti per cadere proprio per il fatto che non si erano risolti i vari disservizi nel paese. La maggioranza si sfaldò, ma l’obiettivo, di trasportare i bambini dalle aree rurali nel paese, consentendo loro di frequentare la scuola, fu infine realizzato. Iniziò a fare il noleggiatore, non aveva ancora la licenza, era un abusivo. Tuttavia iniziò a trasportare, raccogliendo per il servizio un contributo di 2000 lire al mese per bambino, in media 71-72 persone al giorno. Riuscì a fare in modo che il comune avesse il contributo per quel servizio che in parte garantì lui di persona. Il servizio si attuò, nonostante le resistenze e gli ostracismi. Antonio ha fatto infine, dal 1977 al 1994, fino al momento di andare in pensione, servizio di vigilanza notturna, funzione che è stata istituita in zona per 20 comuni circa. Varie esperienze, quindi, ed un impegno sociale che è continuato, sempre dalla stessa parte della barricata. Ha mantenuto la promessa che si era fatto tanto tempo prima, non avrebbe mai cercato più un qualsiasi lavoro che lo obbligasse ad essere dipendente di qualcuno!

LA DISCRIMINAZIONE CHE NON SCOMPARE C’è ancora oggi, nelle piccole realtà come Fiorenza, forse in maniera anche più accentuata rispetto ai grandi e ai medi centri urbani, un clima di contrapposizione tra avversari politici che sconfina quasi nell’odio. Si viene considerati nemici, non interlocutori! Un situazione che si è perpetrata con 102


continuità nel tempo. A questo proposito, Antonio ricorda un altro episodio, avvenuto non molto tempo dopo il suo rientro a Forenza, nel pieno degli anni ’70, esplicativo del clima d’odio profuso a quel tempo a piene mani. Aveva finalmente preso la licenza di trasporto, come noleggiatore. Si sistemava una situazione di lavoro che in precedenza, per qualche tempo, era rimasta incerta. Veniva perciò chiamato di frequente per accompagnare ed a fare da guida alle comitive in gita. Spesso le stesse suore gli si rivolgevano per il trasporto. Erano andati spesso fuori, anche a San Michele sul Gargano o a San Giovanni Rotondo, da Padre Pio. Più spesso però faceva servizio per i comuni della Basilicata. A Rifreddo, dove c’è un’altra bella chiesa, spesso durante le scampagnate si mangiava all’aperto. Facevano colazione senza alcun problema tutti quanti insieme. Fino ad allora le religiose avevano sempre voluto che mangiasse con loro fino a quando, un bel giorno, la Superiora non si accorse che, nel corso di una pausa, si era messo sotto un albero a leggere, come sua abitudine “L’Unità”. La cosa era stata subito notata e perciò lo tennero fuori dal pranzo collettivo. Gli venne detto di andare al ristorante e di prendere tutto ciò che avesse voluto. Il conto, poi, lo avrebbero pagato loro. Un comportamento, discriminatorio e ignobile, davvero platealmente esplicativo dell’odio che continuava a circolare allora verso i “senza Dio”. In verità l’atto, dopo un po’ di tempo, suscitò una supplementare riflessione ed un sussulto di maggiore ragionevolezza tra il resto delle suore che, comprendendo come fosse esagerato e profondamente sbagliato quell’atteggiamento, fecero presente alla Superiora il serio rischio che, alla prima circostanza, Antonio ne avrebbe parlato, denunciando l’accaduto in pubblico, magari anche nel corso di un pubblico comizio. Così, dopo un po’ di tempo, vide le religiose venirgli incontro, a lui che stava solo, in fila, come in corteo. Portavano da mangiare ogni ben di Dio, marciavano quasi in processione. Allestirono sotto l’albero proprio una tavolata principesca. Allora a Rifreddo c’era una grande base logistica addestrativa militare frequentata da molti ufficiali, provenienti per lo più da Roma. Le suore fecero le foto di ricordo e si fermarono in quel posto fino al tardo pomeriggio. Si stava facendo buio e si doveva tornare indietro. Si stavano già dirigendo al suo furgone. Prese a bordo tutte, ma non la superiora. Lei avrebbe dovuto, per la sua azione, tornare indietro a piedi! Di certo Antonio non l’avrebbe fatta mai più salire sopra il mezzo! E se avesse avuto qualche problema se la poteva cavare anche chiamando un pubblico taxi! Ad Antonio, in verità, è sempre interessata la stima delle persone semplici. Fin dall’inizio della sua scelta di campo, aveva messo nel conto il fatto di dover combattere contro la prepotenza e l’odio di chi deteneva le leve del potere! E per questa ragione ha dovuto non di rado pagare prezzi anche assai cari! Col nuovo Sindaco si sarebbe aperta una fortissima tensione che si sarebbe riversata poi, per ritorsione, anche sulla sua famiglia, non di rado fatta oggetto di discriminazioni e marginalizzazioni.( PERCHE’, COME, QUANDO) Eppure, anche in questo clima di odio, contrapposizioni e ritorsioni, ha potuto avere belle soddisfazioni. Il tempo, alla fine, è sempre galantuomo e, se ci si comporta correttamente ed in maniera limpida ed onesta, ti ripaga. Nelle elezioni dei genitori, per il Consiglio d’Istituto per le scuole, si presentò risultando eletto più volte, per oltre dieci anni. Ciò voleva dire che raccoglieva la fiducia piena di chi aveva potuto verificare la qualità dell’impegno, il disinteresse personale, la passione che metteva sempre nelle cose, la coerenza tra ciò che diceva ed il modo conseguente in cui poi, di conseguenza, agiva. La popolazione di Fiorenza tutto sommato si fidava di lui. Concentrandosi sui problemi, riusciva a raccogliere il consenso anche di chi, rispetto a lui, aveva una diversa o addirittura opposta opinione politica e visione delle cose. Negli anni 70 aveva già ripreso l’impegno politico attivo nel Partito al suo paese. Si era ricandidato nel 1975 alle elezioni comunali. Gli avversari, pur di batterlo, avevano presentato 4-5 liste alternative. Anche nell’ambiente scolastico di quella piccola realtà chi aveva il potere nelle mani cercava in ogni modo di praticare discriminazioni in modo goffo, utilizzando ogni e qualsiasi mezzo, anche quelli più spregevoli. I libri, ad esempio, erano dati a discrezione per avere in cambio dei servizi, anche domestici. Il prete, il Preside, pensavano di potere agire in questo modo, senza alcun ritegno, in maniera discriminatoria ed arrogante, fuori da ogni regola o criterio oggettivo di giustizia. Riuscì ad 103


interrompere questa strana ed arbitraria prassi, facendo in modo che i libri in dotazione all’istituto fossero presi dalla biblioteca e distribuiti, senza discriminazione, solo per aiutare la formazione dei giovani del paese, senza alcuna scelta o preclusione preventive. Nel 1975 fu eletto nelle liste di minoranza. Una delle battaglie, di libertà e civiltà, per cui si è speso. D’altronde in quegli anni, seppure in maniera ben diversa da ciò che era accaduto in precedenza, continuava su più piani il confronto e lo scontro nel paese per la laicizzazione dello Stato e per l’ampliamento dei diritti civili, di libertà, di cittadinanza. E per le forze laiche e di sinistra, il vento sembrava favorevole. Basti pensare in proposito, seppure solo per inciso, che in quei frangenti, intorno alla metà degli anni ’70, e in specie nel 1974-1975, si verificarono ulteriori, importanti ed inedite novità, rivolte a segnare la storia culturale, gli usi ed i costumi tradizionali del paese nel suo insieme. Un elemento, di assoluto rilievo, destinato a riplasmare la società contemporanea, fu rappresentato in quegli anni dal ruolo, nuovo e protagonista, assunto dal movimento delle donne nella battaglia per i diritti civili e l’ampliamento delle tradizionali libertà. E’ quello infatti il tempo in cui nacque e si sviluppò, in maniera ampia e coinvolgente, un movimento nuovo e originale, in quelle forme mai conosciuto prima, quello femminile e femminista, che iniziò a battersi per l’affermazione di maggiori diritti, sul piano della parità e dell’emancipazione. E’ l’inizio della messa in crisi di un modello sociale, consolidato e antico, da sempre ritenuto inscalfibile, che relegava le donne a ruoli rigidamente definiti e in sostanza strutturalmente subalterni all’uomo. I ruoli della riproduzione e della cura dei figli, la vita da consumarsi nell’esclusivo e circoscritto orizzonte domestico. La Basilicata vedeva al proprio interno, forse in maniera ancora più accentuata, pienamente applicata una tale, immutabile e statica visione. La messa in crisi di una tale concezione aveva ricevuto una spallata, di forte intensità, già al finire degli anni 60. E’ però negli anni 70 che essa si esplicita in tutta la sua dirompente portata conflittuale. La battaglia, vittoriosa, sul diritto al divorzio, della legittimità del ricorso all’aborto in alcune, determinate circostanze, condotta con estrema determinazione contro le forze politiche più oscurantiste ed arretrate, segnò di per sé una nuova rottura e la definizione di un diverso e più avanzato equilibrio di genere.110 Si verificarono di certo eccessi ed estremismi, che finirono per depotenziare, almeno in parte, l’elemento di feconda novità determinato dall’esplodere di un nuovo protagonismo femminile. Si ebbero perciò avanzate ed insieme regressioni. La strada, comunque, finalmente dopo tanto tempo iniziava ad essere tracciata. La contraddizione, emersa con clamore, non sarà più ricomposta col ritorno ad antiche ed usurate consuetudini. La nuova situazioneculturale e di costume- che ne scaturirà, finirà per permeare, fin nel profondo, la società che non potrà più prescindere dagli elementi di prorompente innovazione messi in moto dal movimento femminile e femminista di quegli anni. Una prima, importante vittoria delle forze di sinistra e democratiche, propedeutica al grande successo elettorale delle elezioni regionali del 1975. Le elezioni amministrative del 1975 videro un grande balzo in avanti del Partito comunista italiano ed una contrazione della capacità di consenso e di egemonia della Democrazia Cristiana.111 Battaglie che il protagonista della nostra storia ha combattuto con forte tensione ideale e con passione, nel sindacato e dentro al partito. Antonio ha infatti sempre mantenuto uno stretto rapporto col Sindacato. Come già detto, in realtà, a quel tempo, soprattutto nella fase iniziale del suo impegno politico e sociale, non esistevano grandi differenze tra il Sindacato ed il Partito. Antonio aprì anche la sede dell’Alleanza dei Contadini, così come aveva già fatto per il Partito e per la 110

Partecipata ed avvincente fu la battaglia del referendum del 12 Maggio 1974 sull’abrogazione del divorzio. I NO prevalsero con il 59,3% dei voti validi contro il 40,7% che si era schierato per il SI. 111 Alle regionali del 1975 il PCI, a livello nazionale, balzò dal 27,9% del 1970 al 33,4%, passando da 200 a 247 seggi e conquistò la direzione delle più grandi città d’Italia, al Nord, al Centro, al Sud e straordinario fu il successo di Napoli, dove per la prima volta verrà insediata una giunta rossa. La DC arretrò sensibilmente, dal 37,8% del 1970 al 35,3% del 1975, da 287 a 277 seggi. Il PSI avanzò dal 10,4% al 12%, e da 67 a 82 seggi. Un buon successo ebbe anche, a destra, il MSI,dal 5,9 al 6,4%, ottenendo 40 seggi nel mentre erano 34 nel 1970.

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Camera del Lavoro. Aveva creato, insieme ad un gruppo di anziani, anche la sede dello SPI. Iniziarono a fare pratiche di assistenza assicurando una serie di servizi essenziali ai cittadini. Così riuscivano a incrementare il consenso intorno al Sindacato che, con il contributo degli iscritti,è riuscito e riesce ancora oggi ad autofinanziarsi. Oggi purtroppo come Partito non esiste quasi più nulla, invece la Camera del Lavoro raccoglie ancora oltre 300 iscritti e continua in maniera quotidiana, specie grazie ad Antonio, la propria attività. Almeno in tutte le occasioni in cui ancora lo regge la salute. Antonio, spesso, pressoché ogni giorno, con le chiavi in dotazione, apre e poi alla fine chiude la porta della sede collocata in una zona centrale del paese. C’è anche una buona organizzazione dello SPI. Vi si reca il bracciante, il muratore, l’operaio. Tutti chiedono qualcosa, purtroppo però in genere non vogliono impegnarsi a loro volta, in via diretta, nel dare un contributo personale. Non c’è più lo spirito di un tempo, quello degli anni ’50 e ’60, tempi in verità ben più difficili di oggi. Nessuno vuol più fare niente per niente.

MILITANTE DEL PARTITO E DELLA CGIL Antonio ha sempre mantenuto, si diceva, uno strettissimo legame col Partito e con la Cgil. Certo ormai già da qualche tempo per più ragioni stava iniziando , nel partito, una qualche incisiva 105


mutazione, una profonda trasformazione involutiva. Probabilmente anche, in parte, un suo snaturamento progressivo, in concomitanza con l’avvicinarsi dei comunisti italiani all’area di governo. L’avvio di un’omologazione, almeno parziale e relativa, una caduta dell’autonomia, dell’esercizio dell’azione collettiva e della criticità, una perdita delle proprie radici più feconde e di una distintiva, peculiare identità. Antonio è perplesso su questi cambiamenti e spesso è portato a criticarli fermamente. Rilievi, si badi, in verità tutt’altro che infondati, una deriva che continua a riguardare ancora oggi l’insieme dei partiti ridotti, sempre più spesso, a puri comitati elettorali, strutture che appaiono di frequente soltanto burocratiche, e che troppo spesso sembrano avere rinunciato a svolgere una funzione, quotidiana e permanente, di educazione civile e democratica. Un’involuzione cui, però, non si può dare la risposta - in qualche modo aristocraticadell’appartarsi, della testimonianza sterile di una propria estraneità, con la denuncia etico morale, spesso nella sostanza ininfluente. E’ ciò che ancora oggi, contro lo scetticismo diffuso a piene mani, continua a sostenere con il suo esempio Antonio. La politica si muove secondo le rigorose leggi della fisica. Ogni spazio che viene lasciato vuoto è coperto da altri, immediatamente. Se ci si allontana e ci si estranea dal contesto che è storicamente dato, la riforma della politica, necessaria ed anzi indifferibile, la capacità d’incidere nella realtà concreta con l’impegno coerente e collettivo diventa più difficile ed incerta. Non c’è ancora un luogo che può sostituire integralmente ed efficacemente l’azione, il ruolo e la funzione essenziale dei partiti, né dei Sindacati dei lavoratori. Strumenti - ancora oggi- decisivi per lo sviluppo della democrazia, in grado di costituire un argine al pericolo di disgregazione che è sempre in agguato ed impedire l’involuzione e l’ulteriore deriva del paese e dell’Europa intera. Bisogna cercare di resistere, insieme agli altri, nei punti e nelle situazioni in cui si sta, ovunque ci si trovi. Per questo lascia sorpresi ed ammirati il fatto che, dovendo ormai affrontare anche seri problemi personali di salute, Antonio continui a restare al proprio posto, a reggere e a lottare con la sua incrollabile passione, con una costanza ed una tenacia estrema. La stessa tenacia della sua dura terra. E che continui a spiegare, magari troppo spesso invano, eppure con profonda convinzione, che deve contare l’impegno volontario per fare qualche cosa di effettivamente utile, qualcosa che sia capace di reggere nel tempo e che possa risultare insegnamento valido per chi poi viene dopo. Invece, dice con un qualche disappunto, spesso risulta al tempo d’oggi inutile spiegare che da questo impegno sociale non si ricava niente, al massimo qualche rimborso di benzina per le spese sostenute. Soldi in tasca non se ne fanno seguendo questa strada. Se ci si impegna non devi mai cercare nulla. Se c’è qualcuno che vuol dare un piccolo contributo, volontariamente, per l’impegno profuso va bene. Ciò deve avvenire in maniera del tutto naturale, per l’attività e l’impegno che hai dato, in maniera spontanea e disinteressata. E invece gli si risponde che, senza certe contropartite, non è il caso di impegnarsi. Ancora adesso Antonio crede invece fermamente che ci si debba attivare per passione, senza alcun calcolo preventivo personale, così una soddisfazione che si riceve è per davvero vera. Non si può fare come il prete che ritiene che nel rapporto tra le persone di una comunità ci si debba comportare come se si trattasse di barattare sempre qualche cosa. E poi le situazioni odiose, i sotterfugi, gli avvertimenti più o meno sussurrati, gli inviti melliflui a dire di cosa si ha bisogno e che si è pronti a ricompensare con qualcosa soltanto chi la smette di impegnarsi disinteressatamente in quell’ambiente è proprio qualcosa di squallido ed odioso. Per sua fortuna ha mantenuto una coerenza, la sua linearità ed il proprio orgoglio intatto. Ha fatto la scelta di affrontare sempre i problemi e le difficoltà che la vita continuamente ti propone mantenendo saldamente intatte le sue idee e le proprie convinzioni più profonde, i suoi principi, i suoi punti di vista, i suoi valori. Non ama i voltagabbana, chi cambia bandiera al primo vento. Ne ha visti tanti nella sua esistenza. Tanti ne vede ancora oggi! Ha cercato di trasferire ai figli e ai nipoti questa sua concezione di valori, la sua visione del mondo e delle cose. Ha sempre continuato a trasmettere l’idea di non approfittarsi di nessuno, di essere onesti mantenendo sempre gli impegni che si assumono. La zona lucana, in particolare l’area più a contatto con la Puglia, ha alle spalle una grande tradizione di battaglie e lotte popolari. Nelle zone più interne, anche per un obiettivo e più marcato isolamento, ogni cosa è 106


sempre stata certamente più difficile. Ha inciso nelle coscienze l’egemonia retriva della Chiesa. Il Vulture era da tempo una zona politicamente palpitante e c’era alle spalle una storia antica, in specie ma non solo nelle fasi susseguenti l’unificazione regia del paese, anche di potenti ribellioni.112 Antonio, nella sua lunga storia di militante ed attivista del Partito e del Sindacato, ha avuto la possibilità di fare tanti incontri ed ha conosciuto moltissime persone. Racconta con sufficiente precisione fatti e vicende che nel tempo si sono succeduti. Il ricordo di alcune di queste persone è rimasto è rimasto in lui particolarmente intatto. Nino Calice è stata una bella figura, grande oratore, autore di libri, capace e combattivo. Colto e determinato. Un rappresentante di rilievo di tutto il Partito meridionale. Antonio ci tiene a ricordare di lui un solo, indimenticabile episodio, accaduto il 23 Novembre 1970. Sempre su una lotta per il lavoro. In quegli anni, elemento costante ed ossessivo, il problema centrale era ancora e sempre quello del lavoro. Le grandi difficoltà e l’assenza di occasioni di lavoro aveva indotto gli abitanti di Forenza, insieme al Sindacato, a proclamare uno sciopero generale nel paese, una protesta aspra e dura, uno sciopero ad oltranza, che non si sarebbe fermato prima di pervenire a un qualche sicuro risultato. Una lotta andata avanti giorno e notte, con moltissime persone in piazza, radunate nei pressi del Comune, intorno a grandi fuochi. Il Comune e chi ci stava dentro in quell’occasione appariva come fisicamente sequestrato da quell’esplosione di sdegno e di rabbia popolare. La Sala del Consiglio gremita in ogni dove, nessuno si muoveva. A un certo punto, nei pressi del Comune, era giunto Nino Calice, insieme ai rappresentanti sindacali dei braccianti. Tutti lì, come un sol uomo. Antonio, che dirigeva la protesta, pretendeva che il Prefetto venisse di persona lì, a Forenza, per esaminare la grave situazione del paese e per capire chi lo aveva ridotto in quello stato. All’epoca erano disponibili fondi consistenti, che dovevano essere usati esclusivamente per il paese e che invece erano stati arbitrariamente distratti in altre direzioni. Piuttosto che dare il lavoro alla gente che ne aveva bisogno, il Sindaco rappresentava una situazione del paese del tutto falsa ed edulcorata. Nelle lettere inviate periodicamente al Prefetto sembrava che il posto fosse abitato da tutti cittadini benestanti, per cui non c’era alcun bisogno di distribuire il danaro disponibile per avviare al lavoro le persone ed in specie i padri di famiglia. Fondi che c’erano e che, come si è detto, venivano utilizzati in altre direzioni, non quelle socialmente necessarie. Lo sciopero ad oltranza durava ormai già da 4 giorni. Il Prefetto si era rivolto ad un tenente dei carabinieri della Compagnia di Venosa chiedendo di interloquire con Antonio e con gli altri capi del movimento, in quanto gli era stato riferito chi erano i principali animatori dello sciopero. Il tenente portò la richiesta del Prefetto. Gli venne chiesto di formare una commissione che doveva svolgere funzione di delegazione e riferire, a nome degli scioperanti, direttamente a lui, a Potenza. Il Prefetto fece presente la sua massima disponibilità ad affrontare la questione ed a risolverla. Accettò la richiesta, precisando però che lo sciopero sarebbe in ogni caso andato avanti. Allo sciopero in corso serviva un concreto risultato, e ad ogni costo. Nel mentre scendeva giù dal Comune mettendo insieme la delegazione, con dentro le donne e gli uomini più combattivi, e cercava al contempo di tranquillizzare sul fatto che era già un primo risultato l’avere ottenuto l’incontro col Prefetto e che, dopo l’incontro, avrebbero informato i cittadini in lotta di ogni decisione assunta, Antonio si sentì afferrare all’improvviso, da dietro, per il collo. Intorno all’adunata erano arrivati circa 400 carabinieri, duecento dei quali in divisa, molti dai comuni limitrofi. Le camionette a 20 metri. In un attimo si era sentito circondato. La situazione stava diventando piuttosto seria. C’erano, nei pressi 112

A quanto in proposito di brigantaggio è già stato detto in precedenza, va aggiunto il fatto che fu proprio il Vulture l’epicentro della rivolta, comandante in capo Carmine Donatello Crocco, di Rionero, e suo luogotenente Ninco Nanco, di Avigliano. Diversi proprietari terrieri e notabili vennero brutalmente assassinati. L’insurrezione fu domata con ferocia dall’esercito sabaudo, prima dal generale Cialdini, poi, soprattutto, dal generale Alfonso La Marmora, Prefetto e comandante generale delle truppe trasferite nell’Italia Meridionale. Per la repressione vennero impiegati fino a 105.000 soldati, i 2/3 di tutti gli effettivi. La Marmora, tracciando il bilancio della repressione, dirà che solo tra il marzo del 1861 ed il febbraio del 1863 erano stati fucilati ed uccisi 7151 briganti. Altre fonti, come Wikipedia, riferendosi alla durata di tutta la campagna, parlano di 8964 fucilati e di 10.604 feriti.

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della loro adunata, Calice e Di Bari. Ora spettava a loro fare qualcosa, darsi da fare perché la situazione non degenerasse. I militari domandavano al maresciallo dove lo dovessero portare, in basso, al carcere di Melfi o in alto, nella caserma del paese. Alla fine lo condussero in caserma dove, in un attimo, finirono per accorrere tutti i manifestanti. Tutto il paese, circa 4.000 persone. Alla loro testa Nino Calice e Savino Di Bari. La situazione si stava ingarbugliando. Pretesero che lo riportassero lì dove lo avevano fermato, nei pressi del Comune. Lui, rivolto ai suoi compagni, ad insistere nel restare calmi. Il giorno dopo in Prefettura, a Potenza. Il Prefetto Boncristiano, insediato da 4 mesi, lo fece sedere al suo fianco. Chiese la cartella di Fiorenza ed iniziò ad esaminarla attentamente. Si rivolse al Sindaco del Paese ponendogli la domanda di come mai non si fossero movimentati i fondi, consistenti, previsti per Forenza. Perché aveva assicurato che la situazione non aveva alcun bisogno di danaro, che tutto era tranquillo nel mentre invece nella popolazione c’era tutta quella tensione? Perché le donne e gli uomini erano così tesi ed irritati? Perché queste informazioni false? E come era stato possibile votare per due volte un Sindaco simile? E come era stato possibile dare credito a una persona così inetta? Per quella sua irresponsabilità sarebbe bastata una scintilla e si sarebbe sparso il sangue. Poi il Prefetto aveva aggiunto che sarebbe intervenuto lui personalmente per fare subito qualcosa, ma che lo avrebbe fatto solo per chi era per davvero bisognoso, non per altri. Antonio ebbe in quei giorni la grande soddisfazione di ascoltare il Prefetto che si complimentava con lui per il fatto di avere accettato di venire a Potenza e per l’impegno dimostrato nel mantenere la protesta nei limiti delle norme, della civiltà, della legalità, senza che degenerasse. Il Prefetto si impegnò a sua volta a fare quanto in suo potere per dare un sollievo alla situazione. Nei boschi di Forenza, in occasione del taglio degli alberi, il 5% del ricavato è depositato presso la Camera di Commercio. Questa la decisione che fu assunta, che anche in futuro sarebbe valsa sempre. A latere del comune c’è una grande distesa di 20 Km. di bosco e tutto fitto. I soldi accantonati si possono prendere solo per fronteggiare calamità naturali ed atmosferiche, per cose gravi.113 A Forenza spettava un aiuto finanziario consistente, 500 milioni li dette direttamente la Prefettura. Forenza, prima di questi fatti, non era quasi considerata nella Regione Basilicata. Adesso è una realtà che esiste ed ha la stessa dignità delle altre zone! Ogni anno, per questo obiettivo, dal 1970 ad oggi, è stato complessivamente impegnato oltre 1 miliardo di lire. 200 milioni annui per la pulizia del bosco, finanziati direttamente dalla Regione per il Comune, e vincolati. Un finanziamento fisso e ricorrente. Il frutto di quella battaglia di Antonio, dei suoi compagni, del Sindacato e del Partito di cui va orgoglioso ancora oggi. Un altro aspetto e un’ulteriore osservazione da avanzare, di tipo generale, e riferita in specie al mezzogiorno, è quella inerente alla difficoltà a realizzare, nella società meridionale, valide esperienze di lavoro, diverse e alternative, a quelle dell’investimento privato nell’industria o della creazione di nuovi posti di lavoro per mezzo dell’intervento della pubblica amministrazione. Andrebbe approfondita la ricerca del perché, a differenza di ciò che è accaduto al centro nord, nel meridione non abbia mai attecchito a sufficienza la nascita ed il radicamento delle cooperative di lavoro. Può essere a questo proposito solo richiamato il tentativo, promosso direttamente da Antonio nel suo paese, di dare vita ad una cooperativa nel periodo intorno al 1973. La situazione socio economica era, ancora una volta, in quel periodo, piuttosto critica e complessa. Nessun dinamismo nell’economia locale e tutto risultava completamente fermo. L’edilizia bloccata, con tutto ciò che poi ne derivava. Antonio era a quel tempo consigliere di minoranza nel comune e si 113

Agli inizi del secolo, nel marzo 1904, era stata approvata una legge speciale per la Basilicata in cui si decideva di stanziare 20.000.000 di lire del tempo per il rimboschimento, 21.600.000 per i lavori di sistemazione idraulica, 10.000.000 per il consolidamento dei terreni franosi, il risanamento dei centri abitati, la fornitura di acqua potabile. La legge inoltre istituiva una cassa di credito agrario regionale, con sede a Potenza, che stabiliva una serie di riduzioni e di esenzioni di imposte sui terreni, sui fabbricati, sul bestiame. Decideva infine alcune sovvenzioni statali per linee ferroviarie e 16.900.000 di lire per la costruzione di una rete stradale. Le disposizioni verranno periodicamente rifinanziate negli anni a venire ed è a questi provvedimenti che si riferisce Antonio Sileo.

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fece promotore della creazione di una cooperativa di lavoro che avrebbe dovuto realizzare una specifica attività nel campo dell’allevamento. In considerazione della specificità dell’area, era possibile creare una cooperativa di allevamento di lepri, quaglie e fagiani. Una creazione, coerente con le specificità diffusamente presenti nell’ambiente circostante, che avrebbe potuto nel tempo crescere copiosamente e incrementarsi. Una simile esperienza non esisteva in alcun luogo della Basilicata. C’era un qualcosa di simile soltanto in Puglia, intorno a Bari. Ebbene Antonio verificò le strade percorribili per dare solidità a questa idea, approfondì la conoscenza sulla legislazione esistente in relazione alla possibilità di creazione delle cooperative, s’impegnò, coi compagni che in merito avevano adeguate competenze, alla definizione di uno specifico progetto. Coinvolse nel progetto più persone, al punto che ben presto la cooperativa riuscì a nascere e aderirono ad essa, in breve tempo, ben 72 soci. Il progetto, presentato alla Regione, fu discusso e giudicato valido. Venne approvato e finanziato, con una prima trance di 300 milioni di lire. Alla cooperativa, questo forse il dato di maggiore rilievo, avevano aderito anche molti giovani. La strada individuata sembrava quella possibile, realistica ed efficace per consentire ai giovani del luogo di costruirsi un proprio futuro di lavoro in zona. Certo il finanziamento iniziale non era sufficiente a portare a compimento integralmente quanto era stato progettato. Per mettere in atto l’idea, in un modo tale che potesse durare e svilupparsi nel tempo per un lungo periodo, era indispensabile potere usufruire della disponibilità di un grande spazio. E di spazio ce ne era in quantità! Nella zona “ Difesa”, del demanio comunale, c’era la possibilità immediata dell’utilizzo di un’area di oltre 200 ettari di terra che avrebbe potuto essere utilizzata al meglio. Era necessario il parere favorevole della pubblica amministrazione ed una specifica delibera comunale che assegnasse l’utilizzo del terreno individuato per 99 anni alla cooperativa. A giudizio di Antonio, quell’ipotesi non è stata perseguita per come avrebbe dovuto. Anzitutto non si ebbe un incentivo, da parte dell’amministrazione comunale, a proseguire su quella strada con tutta la necessaria determinazione. E furono sollevate varie, spesso arbitrarie osservazioni sul progetto e sulla sua bontà. Tutte questioni che, con l’esplicitazione di una chiara volontà politica, avrebbero potuto essere risolte facilmente. Si mise in moto anzi un’opera di dissuasione sistematica, da parte degli amministratori locali. Il progetto non venne avocato a sé dall’amministrazione né dal Sindaco del comune, Franco Mastrandrea. Cominciò ad essere paventato il rischio concreto del fallimento dell’operazione, della sua sostanziale vacuità ed irrealizzabilità pratica. Si disse addirittura che i soci, con l’andare del tempo, a fronte dell’inevitabile fallimento del tentativo che si voleva attuare, avrebbero contratto debiti consistenti e sempre più elevati e che si sarebbero potuti rovinare. Iniziò la pressione dei genitori dei giovani soci della cooperativa sulla Camera del Lavoro perché la loro adesione venisse ritirata. Il numero delle persone che avevano aderito cominciò progressivamente ad assottigliarsi. Antonio non si dava vinto, cercava di resistere, con la tenacia solita. Sapeva che per mantenere in vita la cooperativa i soci dovevano essere almeno in 9. Solo se fossero diventati inferiori a quel numero la cooperativa sarebbe stata cancellata, d’ufficio. In ogni caso Antonio non si diede per vinto a fronte delle difficoltà che erano iniziate ad apparire. Si recò a Roma, presso la Cassa del Mezzogiorno, per salvare il progetto e la cooperativa. Dall’incontro coi funzionari ebbe un riscontro positivo. Avrebbe dovuto solo essere indicata, con sicurezza, l’area d’interesse della cooperativa. Se la cassa, in 30 giorni, avesse ricevuto un riscontro positivo da parte dell’amministrazione, si sarebbe potuto procedere nella realizzazione del piano, immediatamente. Globalmente, in relazione all’ampiezza del progetto, le risorse necessarie ammontavano globalmente a 4 miliardi di lire, per completare tutti gli interventi in materia di realizzazione di strade, dotazione energetica, recintazione dell’area, costruzione dei recinti per gli animali. Purtroppo, a causa dei vari scetticismi e delle perplessità con cui ci si è scontrati, quella che poteva essere un’occasione importante e positiva d’individuazione di nuove occasioni di lavoro produttive e di sviluppo, attente al contempo alle esigenze di salvaguardia e tutela dell’ambiente, sono alla fine naufragate. Una speranza che poi si è trasformata in amarezza. TORINO, IL TERRORISMO 109


Antonio nel 1970 aveva lasciato Torino, una delle città su cui, negli anni a venire, si sarebbe abbattuto maggiormente, con la sua violenza cieca, il terrorismo, con le numerose stragi d’innocenti che ne sarebbero venute. La lunga, drammatica e sanguinosa stagione del terrorismo in Italia, emersa e sviluppatasi intorno alla fine degli anni ’70, il ricorso indiscriminato e selvaggio all’uso del terrore rischiò di spegnere nel cuore della gente ogni sentimento di pietà umana e cristiana. Sembrava sul punto di prevalere la ferocia, in via definitiva, a seguito della dimostrazione dell’efficienza estrema delle azioni mortali dei gruppi terroristici. In questa pratica, di crudo, indiscriminato orrore, la vittima ignara ed indifesa veniva colpita alle spalle, all’angolo di una strada, dentro a un tram, sull’uscio di una scuola, in mezzo a folle di persone inconsapevoli. L’obiettivo delle bande terroristiche volto a determinare, con questi atti sanguinosi di barbarie, la cruda reazione dello Stato, militarizzato e divenuto più autoritario e coercitivo, pronto all’occorrenza al ricorso a leggi eccezionali. Lo “stato di necessità” avrebbe finito così per conculcare l’insieme dei diritti essenziali, di libertà dei cittadini, facendo regredire a dismisura una democrazia degna di questo nome. Uno Stato, autoritario e militarizzato, può in effetti nascere ed affermarsi solo con il consenso ed il sostegno della popolazione nella sua maggioranza o, in via subordinata, grazie alla sua passività. Nasce a quel punto una situazione completamente nuova, una democrazia solo di nome, formale ed apparente, un involucro vuoto, di vacui richiami ad astratti principi generali, in cui il popolo sovrano finisce per essere espropriato di ogni suo potere, di ogni capacità di condizionamento e d’incidenza nelle vicende quotidiane del reale. La delega, trasferita ai rappresentanti dello Stato militare ed autoritario diventa a quel punto l’unica certezza, la sola verità. Così, bandita la ragione, è solo la durezza a farla da padrona. Invece la pietà, con l’umanità che ciascun essere vivente si porta sempre dentro, non può mai essere abbattuta e scacciata dal proprio cuore in via definitiva. Il rischio dell’incrudimento delle coscienze, in quella convulsa fase della storia, sembrò che si potesse realizzare e che a farla da padrona restasse, da sola, tra i cittadini la paura. Illuminante al proposito può risultare la ricostruzione, richiamata per cenni assai sintetici, del dibattito che a quel tempo si svolse sulla stampa nazionale e la scia di polemiche, conflitti e lacerazioni che ne derivò. Dal maggio al luglio 1977 sui principali organi d’informazione italiani si sviluppò una fitta polemica sul “coraggio” e la “viltà” degli intellettuali. Essa aveva preso origine dalle posizioni assunte da uno dei maggiori poeti italiani, Eugenio Montale, e da Leonardo Sciascia che, con varie argomentazioni, avevano dichiarato di comprendere e condividere a pieno la scelta di diserzione compiuta dalla gran parte dei giudici popolari al processo intentato a Torino contro le Brigate Rosse. Una diserzione motivata non da problemi di principio quanto piuttosto dalla paura fisica di subire rappresaglie. Era stato Giulio Nascimbeni a pubblicare sul “Corriere della Sera” un’intervista a Montale in cui alla domanda “Se fosse stato estratto il suo nome avrebbe accettato di fare il giudice popolare?” Montale aveva risposto “Credo di no. Sono un uomo come gli altri ed avrei avuto paura come gli altri. Una paura giustificata dallo stato attuale delle cose, ma non metafisica né esistenziale”. Un giudice popolare, per Montale, non aveva infatti alcuna garanzia e pertanto “..davanti ad episodi come quello di Torino…dico che non si può chiedere a nessuno di essere un eroe”. E ciò a fronte del fatto che “La sconfitta dello Stato.. è vecchia e viene da lontano… è la conseguenza, estrema, di un deterioramento che appare inaccettabile”. A tale posizione avevano immediatamente replicato Galante Garrone e, soprattutto, Italo Calvino che nell’articolo “Al di là della paura”, pubblicato sempre sul “Corriere della sera”114 aveva sostenuto,con estrema nettezza, di avvertire come un pericolo grave il fatto che “…il nostro massimo poeta .. ci esorti a fare nostra la morale di Don Abbondio”. Il giorno seguente, il 12 Maggio 1977, Leonardo Sciascia rincarò la dose e nel pezzo “Non voglio aiutarli in alcun modo” sostenne, senza alcuna remora, che non avrebbe mai accettato di far parte di una giuria per “..non fare da cariatide a questo crollo o 114

“Il Corriere della sera”, 3 Maggio 1977

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disfacimento (dello Stato) di cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile… C’è una classe di potere che non muta e non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito e contribuire a riconfortarla”. A queste tesi, avvertite come preoccupante spinta alla disgregazione della Nazione, si era opposto con durezza Giorgio Amendola che, in un’intervista a Gianni Corbi pubblicata su “L’Espresso”115 aveva contestato una concezione “aristocratica” della lotta politica di cui aveva trovato eco in un intervento di Norberto Bobbio apparso su “La Stampa”116. Per Amendola il pessimismo estremo sui destini dello Stato democratico equivaleva a“disfattismo”. D’altra parte troppe volte in passato gli intellettuali italiani avevano dato prova di assenza di coraggio civico. “Il coraggio civico non è mai stato una qualità ampiamente diffusa in larghe sfere della cultura italiana…”. Gli intellettuali italiani infatti, già durante il fascismo, avevano dato prova di “Nikodemismo… che consisteva nel rendere sempre il dovuto omaggio a Cesare -cioè al regime- riservando alla propria esclusiva coscienza le intime credenze di libertà”. Alle posizioni di Amendola seguirono reazioni indignate come quella, stupefacente, di Franco Fortini, cui fece seguito una secca replica della redazione de “L’Unità”117 che accusò il dirigente comunista di avere assunto, in quella occasione, l’identico atteggiamento di Scelba contro “il culturame”. Leonardo Sciascia fu poi aspramente redarguito da Edoardo Sanguineti su “L’Unità”118 per essere diventato quasi “una sentinella che diserta”. La polemica si trascinò per qualche tempo divenendo sempre più incandescente. Essa aveva evidenziato una divaricata ed opposta concezione dello Stato. Da un lato chi si spingeva fino al punto estremo, di netta equidistanza, arrivando a coniare la parola d’ordine “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Assioma in apparenza legittimo in quanto le istituzioni italiane, da molto tempo e per troppi aspetti, apparivano irrimediabilmente degradate, un ostacolo alla compiuta realizzazione degli inalienabili diritti di libertà e di giustizia dei cittadini. Del tutto opposta invece la linea di chi orgogliosamente difendeva il carattere, democratico e progressivo, dello Stato democratico, gli elementi di continuità del complesso, seppure incompiuto processo, della sua distintiva formazione, conseguente alla tragica ed esaltante esperienza della guerra di liberazione. In una tale visione, la carta costituzionale rappresentava la concorde ed avanzata sintesi del patto fondante della Repubblica conquistata grazie al sangue versato per la patria dai combattenti antifascisti. Lo Stato democratico andava perciò salvaguardato e difeso, in maniera intransigente e ad ogni costo, da qualsiasi forma di violenza eversiva. Le sue radici andavano ulteriormente irrobustite ed espanse con lo sviluppo e l’estensione della lotta democratica di massa per la realizzazione di più ampi e percettibili elementi di giustizia e libertà. Il pluralismo, una visione dell’agire politico volta al confronto, alla convergenza ed alla collaborazione con altre formazioni e personalità della politica e della cultura, l’attenzione ad ogni nuovo fermento culturale che emergeva nella società italiana, in Europa e nel mondo, la tendenza alla feconda provocazione della discussione, l’assenza di opportunismo, conformismo, la passione, spesso scevra di diplomazia nella battaglia politica, l’intransigenza sui principi, la limpida tensione morale ed una straordinaria capacità di lettura anticipatoria delle tendenze storiche, politiche ed economiche del capitalismo italiano, questi alcuni tratti, cristallini, della biografia politica ed umana di Amendola. L’avere vissuto da protagonista tutti gli snodi essenziali della storia del Novecento, dalla crisi dello Stato Liberale al fascismo ed alla democrazia repubblicana, non lo farà mai indulgere in schematismi esemplificativi, in facili scorciatoie nella dura lotta per la costruzione della democrazia e del socialismo in Italia. Forte e cosciente la convinzione della sussistenza, in Italia, della forza e del robusto potere condizionante dei grandi gruppi monopolistici, economici e finanziari, potenzialmente pronti all’avventura. Prescindere da una realistica analisi dei rapporti di forza avrebbe prodotto un’involuzione rovinosa, il blocco del percorso di avanzata democratica del movimento dei lavoratori, una nuova, probabile, tragica sconfitta. A Giorgio Amendola infatti era 115

“Il Corriere della sera”, 11 maggio 1977 “L’Espresso”, 5 giugno 1977 117 “L’Unità”, 3 giugno 1977 118 “L’Unità” 26 giugno 1977 116

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del tutto chiaro come l’unità della Nazione fosse stata raggiunta, essenzialmente, grazie all’azione, tenace e risoluta, di esigue minoranze, compreso un ristretto manipolo di uomini di tendenze sinceramente democratiche nel mentre invece la stragrande maggioranza delle masse popolari, in specie contadine, aveva accolto i cambiamenti con sostanziale passività e distacco. Una massa, in sostanza, ancora troppo “mobile e incerta”. L’unità del Paese, relativamente recente, ne aveva evidenziato l’adolescente spirito di nazione. L’Italia non aveva mai vissuto, nella sua lunga storia, alcuna grande riforma religiosa e l’ assetto politico e statuale raggiunto non erano la conseguenza di una vera e propria rivoluzione a sfondo sociale. Nell’Italia Meridionale dell’immediato secondo dopoguerra ancora gracilissimo appariva il tessuto connettivo democratico, estremamente fragile l’ossatura organizzativa dei partiti antifascisti, scarsa e quasi del tutto ininfluente la partecipazione delle masse alla vita pubblica. Soltanto la rottura rappresentata dalla guerra di liberazione nazionale aveva posto le inedite premesse per la costituzione di un nuovo Stato, mai in precedenza conosciuto, che avrebbe finalmente potuto garantire l’avvenire al popolo italiano, colmando la distanza tra masse popolari e Stato, tra governanti e governati. Dall’osservatorio privilegiato del Mezzogiorno drammatica era apparsa ad Amendola l’assenza di una classe dirigente autenticamente democratica e riformatrice. I vecchi ceti dell’Italia liberale, e poi fascista, avevano evidenziato l’assoluta incapacità di svolgere una funzione conseguentemente nazionale. Il problema era di lavorare alacremente per creare, innanzitutto nel Mezzogiorno, una nuova ed avanzata classe dirigente, collegata col proletariato industriale del Nord, capace di sviluppare la lotta di massa democratica per migliorare, decisamente, le gravi condizioni economiche, civili, materiali della società meridionale, fino ad allora in larga parte agraria, portando finalmente a compimento l’incompiuto processo risorgimentale. Un impegno cui egli si dedicherà con straordinario entusiasmo ed energia. Illuminante, al proposito, l’esperienza condotta attraverso la rivista “Cronache Meridionali”, la pubblicazione periodica che dirigerà insieme a Francesco De Martino ed a Mario Alicata ed a cui collaboreranno, tra gli altri, Gerardo Chiaromonte e Giorgio Napolitano. Quella di Amendola è una visione originale e dinamica, un’interpretazione, creativa, del concetto di democrazia progressiva, di tipo nuovo, forgiata da Togliatti. Le possibilità di sviluppo democratico della società italiana apparivano realizzabili solo in presenza dell’accordo, su base programmatica, delle forze democratiche, anzitutto tra quelle derivanti dall’originario comune ceppo socialista e dalla loro piena e comune assunzione di responsabilità nelle funzioni di direzione dello Stato. E ciò sarebbe stato possibile superando incrostazioni, riserve, contrapposizioni ideologiche e di parte. Concrete convergenze dovevano inoltre realizzarsi con le forze cattoliche progressive, con le personalità di formazione laica e liberale per dare vita ad un grande, esteso, potente fronte popolare di progresso anzitutto nel Mezzogiorno d’Italia. Tale il senso del paziente lavoro di Amendola nel ritessere una trama di rapporti, politici e personali, con personalità eminenti quali Manlio Rossi Doria, Guido Dorso, con lo stesso Benedetto Croce verso cui pure più volte in passato era stato duramente polemico. Una tale convinzione, con la proposizione di una linea politica incisiva e conseguente, era originata in Amendola dall’approfondito studio della specificità della storia nazionale, dal tortuoso, complesso e accidentato percorso attraverso cui era stata raggiunta l’unità della Nazione, dalla convinzione, piena, della parzialità, in specie sul piano delle riforme istituzionali e sociali, con cui era stato portato a compimento il processo risorgimentale. E ancora non si poteva essere indotti a ritenere che fossero state estinte e prosciugate, per sempre, le radici conservatrici e reazionarie presenti nel substrato più profondo dello Stato Nazione. Pericolosa e fallace, di conseguenza, l’illusione che il Paese fosse ormai indenne, per sempre, dal pericolo di rigurgiti involutivi, reazionari, autoritari. A fronte di una tale cosciente consapevolezza, era perciò indispensabile sollecitare in ogni modo la partecipazione e la responsabilità, civile e politica, dei cittadini e delle loro espressioni organizzate, i Partiti ed i Sindacati innanzi tutto. Esiziale qualsivoglia suggestione di arrogante autosufficienza di parte. Ed il destino e le fortune del Partito non dovevano mai essere disgiunte dal destino e dalle fortune della nazione e dall’assoluto imperativo di rafforzarne l’unità. Per Amendola non vi era alcuna possibilità di avanzata del movimento dei lavoratori se s’indeboliva e sfilacciava il tessuto economico e connettivo del Paese, 112


se non si teneva sotto controllo l’inflazione che falcidiava i redditi fissi, i salari e le pensioni, se non si incrementava la produttività del lavoro, prendendo le distanze dal “facile” rivendicazionismo egualitario, se infine non si elevava la cultura generale della società, incrementandone il livello tecnologico e scientifico, fattori essenziali per la capacità di competizione, generale, del sistema. La lotta all’inflazione e il suo controllo era l’obiettivo primario da conseguire per la difesa della capacità di acquisto del lavoro dipendente. Una priorità su cui incentrare l’azione unitaria delle forze sindacali e del lavoro. Lo Stato nazionale rappresentava, per queste ragioni, l’unica creazione davvero rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano. Certo bisognava ancora lavorare, aggiornare, innovare sintonizzando la legislazione ai tempi nuovi. Di certo però nulla di positivo si poteva costruire se si era disposti ad assistere, inermi, ad azioni miranti a mutare, strutturalmente e definitivamente, le basi stesse dello Stato dopo averlo prima mortalmente indebolito. Era del tutto errato, perciò, combattere lo Stato in quanto tale, considerarlo di per sé come nemico. Nessuna concessione alla demagogia, quindi, e nessuna semplificazione dottrinaria. Il punto era perciò continuare a battersi per una democrazia, nuova e più avanzata, che non dovesse mai prescindere dalla difesa di tutte le libertà, pubbliche e private, incrinando ed eliminando, sempre più in profondità, ogni esagerato privilegio. La Costituzione repubblicana era stata assunta come riferimento, nessuno poteva mai essere autorizzato ad oltrepassare, per interesse di gruppo,ceto o casta, i limiti consentiti dallo spirito delle leggi comunemente concordate. Un impianto concettuale in cui, in tutta evidenza, si rifletteva la lezione del padre, di Giovanni Amendola, il cui nucleo essenziale di pensiero veniva ulteriormente espanso e sviluppato in una visione della storia dinamica e moderna. Posizioni, complesse e spesso impopolari, soprattutto se proposte in una fase storica ancora assai impregnata di acuti elementi di autentica ubriacatura ideologica. Amendola fu propositore anche di idee, anticipatorie ed illuminanti, quale quella del Partito unico della sinistra, spesso osteggiate e combattute all’interno di entrambi i Partiti della sinistra, comunista e socialista. Amendola osteggerà sempre l’idea di un Partito pietrificato nel dogma e perciò inerme nella altera ed orgogliosa rivendicazione della sua “diversità”. Si batterà piuttosto per dar vita ad una forza politica profondamente innervata nella storia della Nazione ed in grado perciò di esercitare, conseguentemente, una incidente azione politica, quotidiana, atta a modificare, a vantaggio della classe operaia e dei lavoratori, i rapporti di forza esistenti tra i distinti ceti sociali del Paese, progressivamente eliminando i contrasti più stridenti e gli odiosi, persistenti privilegi delle forze più retrive del grande padronato industriale, dei monopoli, degli agrari, del capitale finanziario nazionale. Amendola considerava errato immaginare che il processo di trasformazione democratica della società potesse realizzarsi, ovunque ed allo stesso modo, nelle identiche forme in precedenza assunte in Urss con la Rivoluzione di Ottobre o nella Cina Popolare, magari con l’illusione della spallata repentina, prescindendo del tutto dalle radici e dalle specificità economiche, storiche, culturali, religiose delle distinte nazioni. Certo, c’era ancora molto da fare in un paese in cui tanti erano i medici e gli architetti e, contemporaneamente, così pochi gli scienziati, gli ingegneri, gli operai specializzati. Il consumo di carne di una famiglia contadina, in tanta parte dell’Italia meridionale, che per decenni e decenni era stato bassissimo ora però, in pochi anni, si era più che quintuplicato e c’erano più scuole, strade ed ospedali. Tantissimi giovani, prima discriminati per ragioni di ceto, avevano finalmente libero accesso alla cultura ed al sapere. Sintomi, importanti e di rilievo, della crescita del tenore e della qualità di vita della popolazione, anche meridionale. Conquiste che non si sarebbero potute realizzare se in Italia i comunisti avessero optato per una diversa, avventurosa, rovinosa strategia.

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SEQUESTRO ED ASSASSINIO DI ALDO MORO LA SFIDA TERRORISTA AL GRADO PIU’ ELEVATO La stagione del terrorismo è la fase forse più torbida e buia della storia italiana più recente. Il susseguirsi convulso di una serie di attentati a persone innocenti, in cui cadranno magistrati, uomini delle forze dell’ordine, semplici cittadini innocenti, troverà il suo culmine nella drammatica vicenda del sequestro di Aldo Moro nel maggio del 1978. Sembrerà allora vacillare, in via definitiva, l’ossatura dello Stato. La democrazia repubblicana, costruita con tanti sforzi e sacrifici, sembrerà in grave pericolo. Si manifesterà il concreto rischio dell’applicazione di misure draconiane atte a ridimensionare i livelli di libertà costituzionale fino a quel momento garantiti. Molteplici gli appelli ad una compressione dei diritti. Un clima plumbeo e teso, di paura, attanaglia un paese impaurito e incerto, come ormai stretto in una morsa inestricabile. Il 1976 era stato l’anno dell’ulteriore avvicinamento elettorale del Pci alla Dc. E’ quella la stagione della sperimentazione di nuove formule politiche, radicalmente inedite, che sancirono il passaggio al periodo della linea della “solidarietà nazionale”, fortemente sollecitata e voluta da Enrico Berlinguer. Il periodo del “compromesso storico” fu quello in cui la sinistra, politica e sindacale, fece propria l’idea della linea dell’ “austerità” definendo, anche con la conferenza dell’Eur della Cgil di Luciano Lama del febbraio 1978, una posizione in cui divenne centrale il tema della lotta all’inflazione quale essenziale antidoto all’erosione del potere di acquisto delle pensioni e dei salari.119 Una linea, da più parti contestata, che rappresentò forse l’ultima occasione in cui le forze sociali, pur pagando un prezzo sul piano del consenso e della popolarità, optarono con decisione estrema, limpidamente e senza alcuna ambiguità, per l’idea di far prevalere l’interesse generale contro le potenti tendenze, già in atto, protese al proliferare incontrollato dei corporativismi ed al condizionamento di potenti lobby che, negli anni a venire, segneranno, in maniera decisivamente negativa, storia, qualità e caratteri distorti dello sviluppo della società italiana.120 La politica della solidarietà nazionale trovò la sua ragione anche nella decisa scelta di campo assunta in difesa dello Stato democratico proprio dopo il rapimento di Aldo Moro a metà del 1978, il tragico episodio in cui le Brigate Rosse avevano dato una spietata dimostrazione della propria “geometrica potenza”. Si visse una situazione allucinante, il punto più alto di paura e di terrore indiscriminato diffuso in più punti ed alla cieca a piene mani. Gli “ anni di piombo” in cui fu consumata un’autentica guerra. La tragica scoperta del corpo dell’onorevole Aldo Moro, ritrovato dopo 55 giorni di sequestro dentro il bagagliaio della Renault rosso amaranto. Un autentico, inaudito attacco al cuore dello Stato, che rischiò di mettere in ginocchio la peculiare struttura dello Stato democratico sorto all’indomani della lotta antifascista e della costituzione della Repubblica Italiana e rischiò di aprire la via ad una grave involuzione della situazione che avrebbe potuto sfociare nella perdita delle libertà civili e nell’instaurazione di un regime autoritario incentrato su una nuova e dura dittatura. Lo Stato e l’antistato si fronteggiarono 119

Il 12 Aprile 1979 la Segreteria della Federazione CGIL- CISL- UIL, in vista delle elezioni ormai imminenti, richiamava tutti i militanti all’integrale rispetto delle norme statutarie, in specie quelle di non poter utilizzare simboli, sedi, stampa sindacale, strutture della Federazione “a fini di propaganda di partito o di candidato né per promuovere comunque iniziative di carattere elettorale”. Andavano intensificate le iniziative di lotta dei lavoratori sulle questioni ed i contenuti programmatici attinenti i bisogni immediati del mondo del lavoro. La situazione finanziaria, sociale e dell’occupazione, in specie nel Mezzogiorno, appariva assai critica. L’ordine e la legalità democratica minacciati. I Sindacati avrebbero dovuto “gettare sul piatto del dibattito elettorale i reali e drammatici problemi del paese” e, in coerenza con la linea dell’Eur, concentrarsi su occupazione e mezzogiorno. Il sindacato, si sosteneva con orgoglio, grazie a quella linea responsabile, aveva concorso in modo decisivo a tenere sotto controllo l’inflazione riducendo il deficit della bilancia dei pagamenti. Un’azione esercitata nell’interesse di tutto il paese. 120 La “svolta” dell’Eur era stata preannunciata da Luciano Lama nel corso di un’intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari su “ La Repubblica”. In sostanza in essa si annunciava la necessità di pervenire ad una politica rivendicativa di moderazione salariale. I sacrifici dei lavoratori avrebbero dovuto tendere al risanamento delle imprese, così che i profitti recuperati divenissero investimenti produttivi atti a garantire mantenimento ed ampliamento dell’occupazione.

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in una lotta cruda e feroce, come in una sfida mortale. Le Brigate Rosse, il terrorismo nero e quello rosso, il secco contrasto tra la sovversione e la legalità, il panico che si diffondeva dappertutto. L’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta, costituita per lo più da giovani ragazzi, il sangue che scorreva ovunque, centinaia di bossoli rimasti sul terreno, i colpi sparati all’impazzata che avevano fatto strage di vittime inermi ed incolpevoli, lo scenario inquietante che ne risultava, lasciarono nel paese una scia d’emozione e di dolore enorme. Roma, la capitale, sembrava una bomba innescata pronta ad esplodere da un momento all’altro. Le strade pattugliate in ogni direzione dai blocchi delle forze di polizia spalleggiate, in molte circostanze, dall’esercito. Ogni via bloccata e nulla più si muoveva. In quei frangenti, la stessa criminalità organizzata della capitale interruppe quasi per intero le proprie attività. E poi il clima di paura era ulteriormente alimentato dal proliferare di atti irresponsabili, assolutamente gravi e indegni. Telefonate anonime, valige sospette segnalate un poco ovunque, depistaggi col solo scopo di mantenere il paese intero sotto la spietata cappa del terrore. Era stato colpito l’uomo dello Stato al centro dello Stato, una fase di possibile, almeno parziale decantazione dello scontro politico in atto nel paese da decenni, il tentativo di avviare un diverso percorso, di reciproco ascolto e tolleranza, tra forze che fino ad allora si erano duramente combattute, rischiava di naufragare definitivamente. La stagione del terrorismo vide in quel periodo una recrudescenza di violenza senza precedenti. Il paese visse una condizione di caos che rischiò di minare, alla radice, le ragioni della civile convivenza. Un pericolo mortale, che sarà battuto solo grazie alla determinazione ed alla scelta di campo, particolarmente determinata e decisa, del complesso delle forze democratiche.121 Un periodo, denso e drammatico, quasi mai prima conosciuto nella breve storia della repubblica italiana. La sfida, lanciata al cuore dello Stato, ad un certo punto sembrò addirittura destinata a prevalere. Questo rischio tremendo, di acuta regressione, sarà per fortuna scongiurato dalla massiccia ed unitaria scesa in campo di un vastissimo fronte di forze democratiche che riusciranno ad avere ragione di quell’insieme di pulsioni e suggestioni distruttive. Inizieranno ad essere inflitti colpi durissimi alle organizzazioni terroristiche, alle Brigate Rosse innanzi tutto, verranno conseguiti importanti successi nella lotta al terrorismo, anche favoriti dalla promulgazione della legge sui “pentiti” che consentirà di aprire squarci di conoscenza decisivi su un mondo clandestino rimasto a lungo nella sua interna, peculiare organizzazione sconosciuto. La collaborazione di ex terroristi, non più persuasi della correttezza e della legittimità di quell’interpretazione della lotta politica e del ricorso alla pratica della “lotta armata”, finirà per ridimensionare il fenomeno e per ridurlo sempre più, d’ampiezza ed estensione. Decisivo risulterà però, come si diceva, la scesa in campo delle forze democratiche e dell’insieme delle forze del lavoro ben consapevoli del fatto che il ricorso alla violenza cieca e sanguinaria è fattore decisamente ostativo e conflittuale con la lotta democratica e all’ampliamento della democrazia, alla sua applicazione ed estensione sostanziale. Solo la lotta di massa organizzata, come si è più volte dimostrato, può concorrere a spingere in avanti e a fare evolvere la situazione in positivo, verso una condizione di maggiore benessere e di più grande libertà per tutti i cittadini. Una funzione di riferimento particolarmente rilevante in quegli anni fu la Presidenza di Pertini che concorse, col proprio fulgido esempio di limpidezza e di lealtà, ad avvicinare meglio e di più le Istituzioni e i cittadini. In Pertini il paese, nel suo complesso, vide un fermo e determinato punto di riferimento, politico e morale, permanente ed autorevole. Egli contribuì, col proprio esempio, a rendere meno grave, stridente e lacerante il conflitto che da tempo s’era aperto tra Istituzioni e popolo. Eppure la situazione economico-sociale, coi germi disseminati di diffusa violenza prima ricordati, avrebbe potuto favorire un diverso e più incisivo attecchire di 121

Il documento della Segreteria della Federazione CGIL- CISL- UIL del 18 Aprile 1979 in vista delle imminenti consultazioni politiche era al proposito del tutto esplicito. In esso era ribadita “la precisa volontà di essere parte attiva nella lotta contro le forze che hanno scelto la strada della provocazione,della violenza, del terrorismo e che minacciano la libertà di espressione ed il carattere democratico della consultazione democratica”. La Federazione chiamava i lavoratori ad intensificare l’iniziativa e la vigilanza in quanto “l’obiettivo di queste forze, come appare ormai chiaro da troppi lunghi anni di violenza e terrorismo, è meno contingente:esse attaccano la democrazia italiana e, perciò, sono mortali nemici dei lavoratori”

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tali posizioni. La metà e poi la fine degli anni 70 videro infatti l’emersione di primi processi, di crisi industriale, che più avanti condurranno all’avvio delle ristrutturazioni nei grandi gruppi manifatturieri, pubblici e privati, di più antico e recente insediamento.122 La crisi non tendeva in nessun modo a defluire. I prodromi della drammatica situazione che, dai primi anni 80 in poi, condurrà alla scomparsa, pressoché definitiva, dell’assetto produttivo precedente ed al processo di diffusa deindustrializzazione, con la polverizzazione di decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria manifatturiera, in specie nel mezzogiorno, drammatico e conclusivo epilogo del tentativo prodotto con la politica dei “poli di sviluppo”.123 Intorno al 1983, poi, dopo una fase di crescita inflattiva incontrollata, l’inflazione iniziò a diminuire. Il prodotto interno lordo riprese di nuovo ad aumentare a ritmi sostenuti. Nonostante la profonda ristrutturazione della grande impresa, iniziava a delinearsi una realtà nuova, caratterizzata dalla crescita e dalla diffusione dell’industria di piccola e media dimensione che iniziava ad attecchire in specie nel Nord Est del paese. Sarà questa l’essenziale ossatura industriale che sosterrà il grosso della ripresa consentendo ancora, per una fase almeno, di mantenere il paese nell’ambito delle nazioni industriali più virtuose ed avanzate dell’Europa. Nonostante ciò era ancora una volta il Mezzogiorno a dimostrare come fosse tuttavia piuttosto fragile ed ingannevole quel tipo di ripresa dei primi anni 80.

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Le elezioni politiche del 3-4 Giugno 1979 registrarono un’inversione di tendenza, con un blocco dell’avanzata del Partito Comunista ed un suo arretramento rispetto al 20 giugno 1976. La Direzione Nazionale del Partito riconobbe che c’era stata “una sensibile e preoccupante flessione in particolare in alcune regioni meridionali, in alcuni grandi centri urbani soprattutto per quanto concerne gli strati più poveri e diseredati e infine nel voto delle giovani generazioni”. Al Senato, infatti, i comunisti passavano dal 33,8% del 1976 al 31,5% del 1979, da 116 Senatori a 109; La DC, invece, in sostanza manteneva : 38,3% rispetto al 38,9% del 1976, incrementando i senatori da 135 a 138. Il PSI dal 10,2% del 1976 passava al 10,4 del 1979, e da 29 a 32 senatori. Alla Camera il PCI fletteva di ben 4 punti, dal 34,4 % del 1976 al 30,4% del 1979, da 227 deputati a 201; Il più forte arretramento, del 5,8%, si concentrava nel Mezzogiorno. La DC sostanzialmente reggeva mentre il PSI avanzava di poco. 123 La ricostruzione più in dettaglio di tale involuzione è affrontata nel volume di Piero Lucia “Nel Labirinto della Storia Perduta”, Guida Editori, Napoli 2007

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LA DIVISIONE A SINISTRA Seppure solo per inciso, è importante ricordare che in quegli anni la sinistra storica mostrò al proprio interno posizioni assai divaricate. Nel partito socialista, dopo il congresso del Midas del luglio 1976, il Partito Socialista aveva avviato un cambiamento di strategia ed una modifica della propria direzione politica. Il segretario Francesco De Martino perdeva il controllo del partito e di lì a poco si avviava la fase che avrebbe portato, dopo la risoluzione del Comitato Centrale socialista, alla sua sostituzione con Bettino Craxi. Le elezioni del 1976 avevano visto una grande vittoria comunista e la contemporanea forte flessione socialista, i cui consensi si erano attestati sotto la soglia del 10%. Da parte socialista s’iniziava a contestare duramente la strategia di avvicinamento tra democristiani e comunisti e l’impianto della politica del “compromesso storico”, caldeggiata da Enrico Berlinguer già dall’indomani del sanguinoso colpo di stato in Cile di Pinochet, che aveva schiacciato nel sangue il legittimo potere del governo guidato da Salvator Allende. In verità sia la “ Svolta dell’Eur” , propugnata nel 1978 dalla Cgil di Luciano Lama, con cui a fronte della crisi economica in atto ed il contemporaneo insorgere del pericolo terrorista si offriva una sponda al governo, sancendo una posizione di moderazione salariale e la sostanziale accettazione di una “politica dei due tempi”, di risanamento prima e di sviluppo poi, che la politica del “ compromesso storico”, tratteggiata nel 1976, erano destinate a fallire a fronte del frontale attacco delle Brigate Rosse. Con l’avvento di Bettino Craxi alla guida della segreteria del PSI, era iniziata la fase della ricerca di una più marcata caratterizzazione autonomista delle forze socialiste e si accentuava la competizione, a volte particolarmente aspra, tra i due maggiori partiti della sinistra storica italiana. Il PSI era reduce da più d’una sconfitta alle elezioni, a partire da quella del 1968. Con l’accelerazione della svolta politica, incentrata sull’accentuazione del rapporto polemico col Pci e la ricerca di una più marcata autonomia che consentisse ai socialisti margini di manovra più ampi e spregiudicati, si mirava a conquistare una funzione, centrale e imprescindibile, decisiva nella politica italiana. Un ruolo da cui nessun’altra forza politica avrebbe più potuto prescindere. Con la DC si iniziava a stabilire una relazione, insieme, di alleanza e di competizione. La persistente, non rimossa pregiudiziale negativa rispetto all’ipotesi di un eventuale ingresso comunista nell’area di maggioranza e nel governo, sembrava poter consentire alla politica di Craxi di capitalizzare al massimo, a vantaggio dei socialisti italiani, la specifica peculiarità di questa particolare situazione. Una linea che, in sostanza, avrebbe vanificato ogni eventuale, ulteriore tentativo di riavvicinamento organico tra democristiani e comunisti. In sostanza, si cercava di raccogliere da questa impostazione il massimo successo possibile, logorando in maniera progressiva, contemporaneamente, ciò che fino ad allora era il consenso ancora intercettato dalle maggiori forze in campo, la Dc ed il Pci. Una linea politica, di opposizione al “compromesso storico” e di prefigurazione di una diversa prospettiva, quella dell’alternativa socialista, destinata a conseguire, per una fase, innegabili successi, come quelli registrati in occasione delle elezioni del 1983, che avrebbero visto un’importante affermazione del Partito Socialista, prodromo all’affidamento della direzione del Governo a Bettino Craxi.124 In ogni caso, l’obiettivo del segretario socialista di capovolgere, a

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Craxi sarà Presidente del Consiglio dal 4 agosto del 1983 al 17 agosto del 1987. Nelle elezioni del 1983, alla Camera dei Deputati, si registrerà una forte flessione, del 5,37%, della Democrazia Cristiana, attestata sul 32,93%. Il PCI otterrà il 29,89% dei voti, perdendo lo 0,49% dei consensi, nel mentre il PSI raggiungerà l’11,44%, con un incremento dell’1,63%. A destra l’MSI raggiungerà il 6,81%, con una crescita dell’1,55%.

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proprio vantaggio, innanzi tutto i rapporti di forza all’interno dei partiti della sinistra storica, per più ragioni alla fine non si sarebbe realizzato.125 IL DECENNIO 1970-1980, ALCUNE OSSERVAZIONI In conclusione, può risultare utile osservare, in maniera assai sintetica, come il decennio 1970-1980 presenti, dal punto di vista economico, un’inversione di tendenza rispetto al periodo 1960-1970. Il livello della crescita è più lento. L’aumento della produzione industriale è in media del 4%, assai inferiore rispetto a quella degli anni ’60. In generale l’andamento economico è oscillante, non configurandosi più quale fattore in continua, ascendente evoluzione. Il 1971 è un anno di caduta, cui segue una breve fase di miglioramento economico, poi ancora un’interruzione e una decrescita, particolarmente brusca nel 1975. Si registra poi, nel 1976, ancora una timida ripresa, di durata breve, che sfocia più avanti, nel 1977, in un’ulteriore fase di ristagno. Oscillazioni, di ripresa e ristagno, caratterizzano poi il 1978 ed il 1979. Un andamento, come si vede, continuamente incerto, determinato senza dubbio, anche dal ciclico riprodursi di conflitti sociali all’interno di un irrisolto scontro tra classi avverse tese a definire una nuova condizione di equilibrio. C’è inoltre l’altro elemento, fortemente condizionante, della situazione internazionale e dei suoi intrinseci elementi d’incertezza, a partire dall’esplodere della crisi petrolifera, emersa nel corso dei primi anni settanta e poi nel mezzo del decennio, che causerà forti tensioni inflazionistiche all’interno dei singoli paesi industrializzati. Salgono a dismisura, insieme, i prezzi dell’energia e delle materie prime, di conseguenza i costi complessivi del lavoro. Gli imprenditori scaricano sui prezzi i costi degli aumenti salariali. Inoltre iniziano a calare gli investimenti nei settori direttamente produttivi e ciò causa un abbassamento verticale della capacità di competizione delle merci italiane. I ciclici ricorsi alla svalutazione della lira consentono di fronteggiare, in parte, per qualche tempo, la capacità di esportazione. L’aumento dei prezzi delle materie prime di merci d’importazione indispensabili come il petrolio e di vari prodotti alimentari, finiscono però per ricadere, in maniera negativa, sulla bilancia commerciale. Nel periodo tra il 1974 ed il 1980 l’economia italiana è quella che presenta i più elevati livelli di inflazione tra i maggiori paesi europei. Essa arriva addirittura al 20%. Cresce a dismisura il disavanzo pubblico e la disoccupazione. E’ allora che si produce l’avvio di quel disequilibrio strutturale che si trascinerà nel tempo, fino alla contemporaneità dei giorni nostri. Gli aumenti salariali inducono, contemporaneamente, all’aumento della domanda di beni di consumo e di servizi. Lo squilibrio tra domanda ed offerta produce ulteriori fiammate inflazionistiche ed un ulteriore squilibrio dei conti con l’estero. Per contenere l’inflazione, che finisce per falcidiare i salari e le pensioni, si attuano politiche restrittive, calano in maniera secca gli investimenti, la produttività, l’occupazione. Si verifica uno strano connubio tra inflazione e stagnazione, la stagflazione. Alla fine del decennio, nel 1979-1980, si registra la nuova crisi petrolifera che inasprirà la concorrenza internazionale nei vari settori dell’industria manifatturiera a partire da quelli dell’auto. A questo punto si verificherà un forte ricorso, da parte dell’impresa, alla cassa integrazione e l’innovazione tecnologica comincerà ad essere usata per contrarre il numero di posti di lavoro. Il movimento dei lavoratori e le sue organizzazione, da quel momento in poi, è costretto sulla difensiva, per una lunga fase. Lo scontro alla Fiat, con l’occupazione dei 35 giorni, e la

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All’indomani del sequestro Moro, a differenza del PCI, sostenitore dell’intransigente linea della “fermezza”, il PSI si dimostrò disposto ad aprire un canale di possibile trattativa, “per scopi umanitari”, a precise e limitate condizioni. Il momento di più acuto scontro tra comunisti e socialisti si registrò comunque all’indomani del decreto Craxi del 14 febbraio del 1984, che introdusse il taglio di 4 punti percentuali della scala mobile. Il referendum abrogativo della legge, promosso dal solo PCI diretto da Enrico Berlinguer, si terrà più avanti, il 9-10 giugno 1985, e verrà respinto con il 55% dei no.

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sconfitta operaia che ne deriverà, aprono per il Sindacato uno scenario ben più difficile e completamente nuovo.126 23 NOVEMBRE 1980, IL TERREMOTO

Il 23 novembre 1980 due violente scosse sismiche, di magnitudo 6,4 della scala Richter, investirono e sconvolsero una diffusa area dell’appennino meridionale collocato a scavalco della Campania e della Basilicata e causarono danni enormi, con un ingente numero di vittime. Oltre 2.000 morti, 10.000 feriti, circa 350.000 senza tetto, migliaia e migliaia di edifici distrutti, innumerevoli vie di comunicazione rese inservibili, numerosissime attività economiche, industriali, artigianali e commerciali colpite mortalmente o gravemente danneggiate. Il disastro si abbattè in maniera più intensa sulle aree interne, anche se non restarono indenni alla sua furia una serie di centri grandi e medi, seppure interessati in maniera più parziale. Il sisma, in sostanza, colpì territori che erano già stati nel passato piuttosto trascurati dai vari interventi programmati orientati in prevalenza altrove, in altre aree in alcune delle quali, dopo la vicenda dell’intervento straordinario e dell’azione della Cassa per il Mezzogiorno, si era tentato di sperimentare la cosiddetta politica dei “ poli di sviluppo”. L’intenzione, già ricordata, era stata quella di determinare una repentina accelerazione della crescita economica, industriale e sociale in grado di ridurre, a tappe accelerate, il grande divario e la distanza che si erano negli anni accumulati tra il centro nord e il mezzogiorno del Paese. Grande fu l’emozione che il gravissimo ed improvviso evento generò nell’insieme del paese che, dopo l’iniziale sbandamento, si mosse all’unisono e con generosità per garantire una rapida ripresa. Il paese diede prova, in quella circostanza, di una straordinaria abnegazione, traendo dal proprio seno il meglio e mettendo in moto un grande movimento volontario, di dimensione nazionale, in cui si impegnarono in prima fila innanzi tutto migliaia di giovani accorsi in quelle zone dalle più diverse parti del paese. Non era stata in verità quella l’unica circostanza in cui gli italiani avevano fatto ricorso al meglio delle proprie energie, spesso anche supplendo alle deficienze ed alle improvvisazioni delle operazioni di soccorso messe in moto dall’organizzazione dello Stato. Già in precedenza, ad esempio, a Firenze, nell’alluvione del 1966, che aveva travolto la città con l’Arno in piena, si era svolta una straordinaria gara di emulazione positiva per salvare l’enorme patrimonio culturale della città messo pericolosamente a rischio dal fiume di fango che si era scatenato. Nel caso dell’Irpinia e della Basilicata, oltre che l’attivazione dei primi interventi d’emergenza, di sostegno alla popolazione, si puntò a realizzare anche qualcosa di diverso e più ambizioso. Si cercò di accompagnare, alla necessità degli interventi urgenti, la predisposizione di un generale piano di crescita e sviluppo, in grado di fornire una nuova prospettiva capace di coniugare ed intrecciare, insieme, i temi della ricostruzione e dello sviluppo. Fu in tal senso promulgata la legge n.219 del 24 maggio 1981 “ Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo delle aree terremotate” che, oltre a prevedere congrui risarcimenti alle famiglie colpite per la perdita o il danneggiamento della propria abitazione, indicavano un ambizioso programma di ricostruzione industriale, incentrato sulla creazione di una rete di imprese, per lo più piccole e medie, dotate di 126

Ai primi di settembre 1980 la Fiat preannuncia la volontà di licenziare 14.469 operai. Licenziamenti trasformati in cassa integrazione a 0 ore dal 1 ottobre per 24.000, di cui 2.000 impiegati. Lo scontro che ne deriverà sarà durissimo, sfociando nell’occupazione della fabbrica che si protrarrà fino al 16 ottobre. Nella fase conclusiva della vertenza la manifestazione di protesta silenziosa di 40.000 quadri, tecnici ed impiegati dello stabilimento, intenzionati a riprendere il lavoro, spostando l’equilibrio a favore dell’azienda, risulterà decisiva per la conclusione del conflitto. L’intesa, sottoposta a referendum, verrà alla fine approvata. Gli operai in cig non torneranno al proprio posto di lavoro. Una sconfitta che peserà a lungo sul movimento sindacale negli anni che verranno. Enrico Berlinguer, all’inizio dei fatti, si era recato ai cancelli di Mirafiori e, parlando agli operai, aveva sostenuto che, ove i sindacati avessero deciso di ricorrere perfino all’occupazione della fabbrica, il Pci avrebbe sostenuto con tutte le sue forze gli operai.

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efficienti servizi e infrastrutture. Le imprese che avessero investito nelle aree terremotate avrebbero potuto contare su congrui contributi, con la riduzione a zero del rischio d’investimento, ricavando al contempo utili consistenti. D’altra parte lo Stato avrebbe garantito il miglioramento della dotazione infrastrutturale, la manutenzione delle strade danneggiate, la creazione di nuovi assi viari, capaci di lenire l’isolamento antico di quei luoghi, rendendo al contempo più agevole il trasporto delle merci lì prodotte dalle nuove imprese sorte. Già nel 1982, di conseguenza, venivano individuati 20 nuclei di prossima industrializzazione, otto dei quali nella provincia di Potenza, quattro in quella di Salerno, otto in quella di Avellino. In Basilicata, ad ovest di Potenza , venivano indicati i due siti di Balvano e Baragiano, in prossimità del raccordo autostradale con l’A3 Salerno-Reggio Calabria; un terzo nucleo veniva individuato a Isca Pantanelle, localizzato tra l’asse basentano e l’A3, un quarto, quello di Tito, sarebbe stato collocato nelle immediate vicinanze di Potenza. Infine il nucleo di Viggiano, a sud del capoluogo, tra Grumento Nova e la Val D’Agri, quelli di san Nicola di Melfi e Valle di Vitalba nei pressi della Valle dell’Ofanto, di Nerico a nord-ovest di Potenza, a ridosso dei comuni irpini di Conza e di Calitri. In provincia di Salerno, invece, i nuovi nuclei industriali sarebbero sorti a Buccino, Contursi, Palomonte, Oliveto Citra. Nella provincia di Avellino a Conza, Calabritto, Morra De Sanctis, San Mango, Lioni, Nusco, Sant’Angelo. Nasceva il “Progetto di rilancio dell’economia e della società di Basilicata”, che sarà alla base del Piano di sviluppo regionale 1983-1987. Con esso si puntava da un lato a favorire il rafforzamento dell’identità regionale ed il riequilibrio territoriale tra aree interne alla regione, dall’altro, con l’insediamento industriale coniugata ed il rilancio ed il miglioramento dell’assetto agrario, a porre finalmente un freno al grave processo di spopolamento ed emigrazione che aveva concorso a indebolire e sfilacciare gravemente la forza e la consistenza produttiva di tutta la regione nel suo insieme. Nel piano s’intendeva inoltre favorire un più ampio ingresso dei giovani lucani nel mondo del lavoro, migliorando servizi e strutture, sociali e culturali. Si voleva inoltre garantire lo sviluppo di un terziario più qualificato e produttivo, avviando il superamento dell’atavico contrasto tra città, aree costiere e zone rurali dell’interno Sarebbero state sviluppate le nuove tecnologie e la ricerca scientifica, favorita una qualificazione del sistema formativo e d’istruzione. Infine s’intendeva sviluppare un moderno ed aggiornato sistema d’informatizzazione di tutto il circuito produttivo, così da realizzare livelli di competitività e capacità d’internazionalizzazione più elevati. In sostanza, si puntava al migliore utilizzo possibile di tutte le risorse disponibili, anche per mezzo di una distribuzione delle risorse pubbliche, non tramite interventi di settore ma per progetti mirati e definiti : progetto di irrigazione, zootecnico e di difesa del suolo, sperimentazione di nuove tecniche agricole, di insediamento e di sviluppo industriale, turistico, di difesa e sviluppo dell’artigianato, di salvaguardia dei parchi naturali, di potenziamento delle strutture scolastiche e di incremento della loro qualità, di quelle formative e socio sanitarie, di diffusione del terziario avanzato. La bontà di un tale approccio consisteva nell’evitare ogni eccesso di spezzettamento d’intervento e qualsiasi rischio di dissolvere l’efficacia degli interventi previsti polverizzandoli in più rivoli indistinti, distribuendoli così a discrezione, fuori da ogni visione d’insieme progettuale. Una linea che però, a consuntivo, non risulterà attuata. Di frequente, pertanto, anche in Basilicata, più volte, le risorse si andranno a disperdere in mille rivoli, rendendo vano e irrealizzato il progetto d’insieme di sviluppo che si era ipotizzato. In sostanza non sarà mai concretizzato il vero obiettivo che ci si era posto, ovvero quello di garantire l’avvio di una condizione di sviluppo finalmente autonoma ed auto propulsiva. L’economia regionale, ai primi anni 80, crescerà molto meno di quanto s’era auspicato. Seguirà, dal 1983 in avanti, una condizione di sostanziale stagnazione.127 Le aree interessate erano, in genere, zone di elevata qualità ambientale, con una manodopera con scarse tradizioni di conflittualità. Precondizioni, in tutta evidenza, particolarmente favorevoli per un eventuale intervento. Territori fino ad allora piuttosto trascurati dalle scelte politiche d’investimento 127

Viganoni L., op. cit, pp. 17-18;

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produttivo che si erano nel tempo succedute. Il Ministero per gli interventi straordinari avrebbe dovuto agire in stretta sintonia col ministero per i beni culturali. Le Regioni Campania e Basilicata si vedevano attribuire compiti di programmazione, pianificazione territoriale e assistenza tecnica ai comuni ed alle comunità montane cui sarebbe toccata la concreta attuazione della ricostruzione per mezzo dell’erogazione dei contributi alle persone fisiche e giuridiche proprietarie o conduttrici di edifici danneggiati. In conclusione, in quella fase particolarmente difficile e convulsa, il dinamismo cui ci si è riferiti in relazione al centro nord non si verificò invece nel Mezzogiorno d’Italia. Qui, anzi, all’indomani del grande, devastante sisma del 23 Novembre 1980, pur a fronte di straordinari e numerosi episodi di solidarietà cui diede vita nel suo complesso la Nazione, finirono per evidenziarsi molteplici esempi d’inefficienza e corruzione. La legislazione sulla ricostruzione e la movimentazione delle ingenti risorse utilizzate non favorì la messa in moto di un nuovo processo di sviluppo, virtuoso e duraturo, di ripresa e di slancio dell’economia. Le consistenti risorse messe in campo per la ricostruzione spesso prenderanno strade improprie, finendo non di rado per rimpinguare imprese inaffidabili e gruppi criminali, vanificando in buona parte l’efficacia dei progetti di rilancio immaginati. A consuntivo, ben deboli si dimostreranno i risultati in termini di crescita e sviluppo, d’aumento d’occupazione reale e di crescita economica e civile rispetto alle attese e alle speranze generate. Una nuova, straordinaria occasione sprecata, metterà a consuntivo in evidenza l’inchiesta parlamentare che prendeva atto del fatto che degli oltre 50.000 miliardi di lire dell’epoca, investiti nelle aree del cratere, nei territori del Sud colpiti dal disastro, non deriveranno importanti e conseguenti risultati, in specie nel lancio di nuove imprese industriali capaci di ridisegnare la qualità del territorio e di modernizzarlo, avviando una nuova fase, duratura, di crescita e di sviluppo.128 Più in particolare, l’area di Forenza non ebbe a subire per fortuna danni rilevanti. Eppure, a giudizio di Antonio, anche nel suo comune vennero stanziate ed utilizzate risorse di una qualche consistenza, per complessivi 24 miliardi di lire del tempo, per rimodernare e riattare varie abitazioni ed esercizi artigianali e commerciali. Si procedette, in sostanza, anche in questa realtà, a maglie per così dire piuttosto ampie, non sempre in relazione all’esistenza di una ragione oggettiva sufficiente per garantire la legittimità dell’uso di risorse. Varie abitazioni vennero rifatte a nuovo, anche diverse nei pressi della vecchia abitazione di sua madre, in seguito a specifiche segnalazioni degli uffici al merito preposti. Una delle poche case che non è stata rifatta, né che ha potuto valersi di contributo alcuno, è quella di sua madre.

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Inchiesta parlamentare sul terremoto, trova,inserisci!

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LA SCOMPARSA DI ENRICO BERLINGUER Nella nota intervista di Enrico Berlinguer, rilasciata ad Eugenio Scalfari, direttore de “La Repubblica”, il leader comunista aveva evidenziato, lucidamente e con preoccupazione, il progressivo processo di degenerazione dei partiti e della politica italiana. “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela : scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passioni civili zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i rapporti umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune…. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss o un sotto- boss”.129 Colpisce, ormai a diversi anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer, l’estrema lucidità - come profetica- dell’analisi che fotografava, nella sua essenzialità, il procedere montante di gravi fattori degenerativi e distorsivi nella vita politica italiana ed al contempo l’allarme lanciato sulla necessità di ridare dignità e smalto all’insostituibile ruolo dei partiti. Sullo sfondo, il richiamo etico alla necessità di ripristinare una moralità, nella vita pubblica e nei comportamenti, che iniziava ad apparire assai più sfumata ed anzi a perdersi. Il richiamo alla centralità della “questione morale” toccava senza dubbio un nervo scoperto e dolorante, che andava curato con estrema urgenza. Una netta cesura rispetto ai tanti modi di fare “disinvolti” nella gestione del potere e nell’uso spregiudicato delle risorse pubbliche a cui in quegli anni si era stati abituati. Nella visione di Berlinguer, una concezione della politica privata della sua ispirazione etica era una ben misera cosa! Il progresso economico non poteva essere tutto, finiva per risultare ben poca cosa ed anzi essere fattore insufficiente e destabilizzante se non si riusciva a determinare un salto di coscienza ed a formare, contemporaneamente, cittadini responsabili, consapevoli della priorità essenziale dell’interesse pubblico comune. Osservazioni e richiami purtroppo assai sottovalutati ancora a lungo negli anni che verranno, spesso addirittura derisi, che il tempo avrebbe più avanti confermato nella loro cruda ed essenziale validità. Come è noto, su questo piano finirà per sfaldarsi, nel 1992, il sistema politico della Prima Repubblica e le principali forze politiche che ne avevano costituito l’architrave, con tutto ciò che ne sarebbe derivato in termini di perdita di credibilità e di discredito, anche oltre dei confini nazionali, della nostra classe politica dirigente. Le parole ed i richiami, netti ed affilati, ad una concezione ed ad un modo “ alto”, etico, per più aspetti come religioso, di intendere la politica in grado di far sempre prevalere, su ogni angusto interesse particolare, l’interesse generale, sembravano rifulgere in maniera sempre più limpida e chiara in quella sera a Padova, su quel palco dove, nel corso di un comizio elettorale, Enrico Berlinguer iniziava a perdere i sensi e a oscillare. Il malore che lo colpirà, in Piazza della Frutta, il 7 giugno del 1984, alle 21,30, davanti a 5000 militanti comunisti giunti da ogni parte del Veneto, gli 129

“La Repubblica”, 28 Luglio 1981, Intervista del Segretario comunista Enrico Berlinguer al direttore Eugenio Scalfari.

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causerà il coma che in pochi giorni lo condurrà alla morte. Le immagini del comizio venivano riprese da una telecamera e diffuse tramite uno schermo situato alle spalle del leader comunista. Berlinguer aveva parlato normalmente per circa la metà del suo intervento, con sottolineature critiche sull’azione del governo, denunciando i pericoli insiti nella situazione.130 Aveva insistito sull’esistenza di seri rischi per le istituzioni della Repubblica. Poi, all’improvviso, il leader comunista era impallidito in volto. Il tono della sua voce di colpo era calato, la frase iniziata si era interrotta a metà. Nella piazza piombava un terribile, attonito silenzio. Berlinguer si era voltato a prendere un bicchiere d’acqua ed era stato colto da alcuni colpi di tosse. Poi era sopraggiunto un conato di vomito, ma si era ripreso ed aveva continuato. Voleva completare il suo discorso ma iniziava a venir meno, la voce sottile cominciava ad affievolirsi sempre più. Aveva saltato alcuni passaggi della sua riflessione ma era comunque giunto alla fine. Si reggeva in piedi a fatica, poi, sceso dal palco, si era seduto. Vomitava, si portava una mano alla testa, il fazzoletto alla bocca. Poi ha chiuso gli occhi. Il servizio d’ordine che gli era intorno subito capiva che stava molto male. Un esponente della Federazione di Padova annunciava che il comizio era concluso e che Berlinguer aveva preso solo un po’ di freddo e che pertanto non c’era da preoccuparsi. Non c’era niente di grave. Il leader comunista veniva caricato a braccio su un’auto e condotto al suo alloggio, all’Hotel Plaza. Veniva chiamato il medico dell’albergo, che si consultava subito col dottor Lenci, il medico del seguito di Berlinguer. Le sue condizioni apparivano subito molto gravi. Era stato colpito da un ictus cerebrale, veniva ricoverato in ospedale, nella clinica neurologica dell’Ospedale di Padova dove, sottoposto ad una serie di esami, risultava la compromissione dei ventricoli cerebrali. Per bloccare l’emorragia, era necessario sottoporlo immediatamente ad un intervento chirurgico al cervello. L’intervento in un primo momento aveva fatto sperare che tutto si sarebbe risolto al meglio. Il primo bollettino medico in effetti sembrava rassicurante, le condizioni del cuore del paziente venivano definite buone. L’intervento però non era ancora concluso ed anzi la situazione precipitava ed appariva adesso disperata. Nella mattina seguente, arrivava a Padova il Presidente Pertini e si recava in ospedale, ripetendo la visita anche al pomeriggio. Fuori una folla attonita e silenziosa. Alla fine l’annuncio : il segretario comunista aveva finito di vivere! L’enorme massa di popolo che piangente si stringerà intorno alla bara, avvolta nel tricolore e nella bandiera rossa del PCI e che lo accompagnerà, con tante delegazioni straniere giunte a Roma da ogni angolo del mondo nel suo ultimo viaggio sulla terra, è uno straordinario e mai più replicato esempio di straordinario amore e di enorme passione popolare collettiva. Lungo la strada il corteo funebre è costretto a fermarsi molte volte. La folla, assiepata lungo la carreggiata, lancia sul feretro centinaia di rose, garofani, fiori rossi. Decine di migliaia di persone salutano con il pugno chiuso, oppure facendosi il segno della croce, moltissimi non riescono a trattenere le lacrime. Un intero popolo in lutto, una sensazione incredibile di vuoto. Le mura tappezzate di manifesti del PCI e della CGIL con la foto di Enrico. Una folla infinita, forse un milione e mezzo di persone, tantissimi i giovani, mischiati ad uomini e donne dai capelli bianchi e di ogni età. Il colore rosso è ovunque! L’Unità listata a lutto con una grande foto del capo comunista con quella scritta “Addio” che ancora adesso stringe il cuore. Una riedizione, tristissima e aggiornata di un’altra giornata di lutto popolare, il 25 agosto del 1964, in cui un altro capo comunista, Togliatti, finiva per concludere la sua esistenza sulla terra. Colpisce profondamente ancora oggi, nella rivisitazione dei documenti e dei filmati d’epoca, il senso di partecipazione, di profondo dolore, di angoscia e sincera commozione che allora si riversò su quella piazza. Non era scomparso solo il capo di una parte ma un uomo che era visto dal popolo tutto come un limpido, cristallino esempio, di vita, si serietà e di rigore, il figlio emerito che perdeva non solo una parte ma tutta l’Italia intera. Un fulgido esempio, da prendere ad esempio e da imitare.

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In quel periodo è in carica un governo pentapartito costituito da DC, PSI, PSDI,PRI, PLI. Lo guida Bettino Craxi. Polemico il rapporto tra Psi e Pci in quella fase storica.

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I TANTI PROBLEMI DELL’OGGI QUOTIDIANO All’inizio degli anni ’90 si è verificato in Italia un autentico terremoto politico che ha comportato la totale dissoluzione dei principali partiti di governo. La stagione di “tangentopoli” ha sostanzialmente e definitivamente sbriciolato l’ossatura della Prima Repubblica. Si sono dissolti i principali partiti che erano stati per circa un cinquantennio alla direzione del governo del paese. Sono apparsi sulla scena nuovi, inediti soggetti politici che, ancora una volta, hanno risegnato nel profondo caratteristiche e peculiarità dei comportamenti, delle identità, dei valori della nostra società. Il nuovo scenario che ne è scaturito, per tutte le conseguenze di non breve periodo che ne sono derivate, non è immediatamente riassumibile in una riflessione troppo ravvicinata. Anche in questo caso ogni valutazione storiografica risulterà più compiuta e approfondita soltanto col trascorrere di un congruo arco di tempo. Più in generale, in specie dall’inizio del nuovo millennio, ed in particolare negli ultimissimi tempi, a livello globale, si sono ridisegnate nuove gerarchie. Nuove potenze economiche, politiche, militari si sono affacciate con prepotenza sulla scena. In primis, ma non solo, la Cina e l’India che stanno mettendo strutturalmente in discussione gli antichi poteri e le funzioni d’egemonia degli Usa e della vecchia Europa. Il vecchio mondo appare cambiato alla radice. Per l’Europa, ed al suo interno più specificamente per l’Italia, i rischi concreti di un’inarrestabile declino. L’imponente avanzamento scientifico e tecnologico e la straordinaria capacità di crescita e di competizione dei nuovi soggetti apparsi sulla scena non può più essere a lungo fronteggiato con risposte schiacciate sulla dimensione perdente e angusta del singolo paese. All’ordine del giorno il problema di realizzare una nuova Europa, più unita e più coesa, con politiche economiche, fiscali, d’innovazione, industriali, ambientali, sociali di crescita e sviluppo comuni e concordate. La stessa questione che si pone in tema di realizzo di una politica estera comune. Si tratta di un grande problema ancora aperto e in ciò consiste la vera prova da affrontare. Una violenta crisi economica e finanziaria da alcuni anni stringe in una morsa la nazione insieme all’Europa ed al Mondo intero. In Italia e’ fortemente peggiorata la condizione di larga parte della popolazione, del lavoro dipendente e dei pensionati. Il ceto medio si è progressivamente impoverito. Grande è l’incertezza e la paura del futuro. Il Mezzogiorno appare, in questa lunga contingenza negativa, ancora più gracile, debole ed esposto del passato. Ancora una volta la grande, drammatica, irrisolta questione nazionale. E’ facile di conseguenza constatare che, negli anni a venire, per molto tempo ancora, il tema dell’ampliamento della base produttiva e della crescita delle occasioni di lavoro produttivo e non assistito continuerà a costituire l’emergenza principale da aggredire e vincere in Europa ed in Italia. Veicolare ogni sforzo in tale direzione, assegnare a tale, essenziale questione la priorità che senza dubbio merita, spingere in avanti la situazione grazie alla capacità di 124


sviluppare un’adeguata ed aggiornata analisi, con serie proposte di cambio d’indirizzo delle politiche economiche negli anni perseguite. Un’azione da sostenere con la spinta organizzata di un movimento di massa e popolare consapevole. Compiti urgenti questi, non oltre rinviabili. La realizzazione e l’attuazione di un nuovo, grande, aggiornato Piano del Lavoro è stata la parola d’ordine avanzata di recente dalla maggiore organizzazione sindacale del Paese, la Cgil. Un proponimento che non può materializzarsi a prescindere dal punto dirimente della mobilitazione congiunta di consistenti risorse ed investimenti pubblici e privati e dalla capacità, contestuale, d’individuare strumenti atti a garantire, in una nuova ispirazione di maggiore giustizia ed equità nell’esercizio delle azioni e delle scelte di governo, il drenaggio delle indispensabili risorse finanziarie, l’individuazione rigorosa dei punti di spesa pubblica corrente da contrarre, la strumentazione più idonea e necessaria in grado di garantire, in specie al sud, l’ampliamento delle occasioni di lavoro. Il diffuso confronto che è auspicabile possa realizzarsi, tra le diverse forze politiche e sociali, dovrà nei suoi definitivi punti di approdo indicare, col massimo di precisione e di rigore, cosa tagliare e dove, per quali da realizzare. Il rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno ha messo in evidenza una condizione generale anche peggiore rispetto a ciò che poteva essere temuto. Una situazione progressivamente regredita sempre più negli ultimi 10 anni. I dati maggiormente preoccupanti sono quelli dell’occupazione e della sua forte contrazione, con una crescita esponenziale e selvaggia della disoccupazione giovanile e femminile. Tale elemento, mischiato alla recessione in atto ed alla persistenza dell’illegalità, nervi scoperti dello stato generale del paese, appaiono le questioni più acute e gravi, elementi di persistente criticità, di un’autentica, irrisolta emergenza nazionale. Un tema generale questo, non solo territoriale. Desertificazione industriale, tsunami demografico, secca decimazione del PIL, indebolimento del capitale umano. Tra il 2007 ed il 2011, in quattro anni, gli occupati nell’industria in senso stretto si sono ridotti al Sud di oltre 100.000 unità, con un calo percentuale dell’11%, nel mentre al Nord, nello stesso arco di tempo il decremento industriale è stato per intensità della metà, essendosi contratto del 5,5%. Negli ultimi tempi si è invertita la tendenza storica della natalità, da sempre più alta al Sud rispetto al Centro-Nord, divenendo più bassa. L’emigrazione è ripresa in maniera massiccia : dal 2000 al 2010 hanno lasciato il Mezzogiorno per il Nord dell’Italia e dell’Europa 1.400.000 persone, di cui 630.000 in via definitiva. Si tratta in larga maggioranza di giovani (70%), d’età compresa tra i 15 ed i 34 anni. Molti tra loro sono diplomati e laureati. E’ evidente, di conseguenza, come sia avanzato un massiccio impoverimento di risorse umane ed intellettuali. Un’area equivalente ad 1/3 del paese ha ricevuto meno di ¼ della spesa ordinaria pubblica in conto capitale, violando tra l’altro il principio di “addizionalità” rispetto ai contributi straordinari della spesa a finalità strutturale concordata con l’Europa quale condizione necessaria per accedere ai fondi delle politiche di coesione. Nel periodo tra il 2007 ed il 2011 il PIL del Mezzogiorno si è ridotto del 6,1% in termini reali rispetto alla caduta del 4.1% del centro Nord. Se si considerano poi anche le stime del 2012 si perviene ad una caduta del 10%, tornando in tal modo ai livelli di PIL del 1997. Un balzo all’indietro di 15 anni! L’occupazione del Paese nel suo complesso è nazionalmente ancora bassa, solo il 57% in media delle persone in età da lavoro. Il tasso di occupazione appare però seccamente squilibrato: il 63% al Centro Nord contro il 44% del Mezzogiorno. E la percentuale di giovani e donne in questa statistica è per il Sud ancora assai peggiore. Una condizione che pesa paurosamente sul futuro destino del paese nel suo complesso. Al Sud è inoltre crollata la domanda di beni e investimenti, con conseguenti danni anche per l’industria del Nord. Fatte salve limitate eccezioni, e’inoltre cresciuta la condizione di abbandono delle principali infrastrutture, fisiche e virtuali, del Mezzogiorno, dalle strade alle scuole. Il Sud è area assai distante dai baricentri produttivi del Nord del paese e dell’Europa più avanzata e progredita, le sue imprese soffrono di queste carenze logistiche, virtuali e telematiche più delle altre. Si mostra sempre più platealmente miope, maldestra, rovinosa, la politica anti meridionalista perseguita nell’ultimo decennio che ha potentemente concorso a porre in grave sofferenza il nostro paese nel suo insieme. Ormai da troppo tempo è in atto una gravissima 125


crisi economica, finanziaria, sociale, di dimensione mondiale, che rischia di minare le stesse basi della democrazia lacerando, in modo irreversibile, tutti gli elementi di coesione della nostra società. Una crisi, assai pericolosa, da cui si può fuoriuscire in due modi, completamente contrapposti. O accentuando ulteriormente i tanti fattori di ingiustizia e di disparità di condizione, tra i vari strati sociali e tra le diverse realtà territoriali, aumentando ulteriormente e a dismisura contrapposizioni e divisioni già presenti, ovvero avviando a soluzione i troppi problemi annosi che ci portiamo dietro, avvicinando le diverse aree del paese e riducendo la forbice delle marcate differenze esistenti tra i diversi strati della società per reddito, salario, possibilità di accesso ai servizi primari. La crisi intesa, in questo caso, come opportunità, ovvero come unica e irripetibile occasione per l’avvio di una diversa qualità dello sviluppo, più giusta e più virtuosa. Un nuovo progetto, realistico e ambizioso, concreto e realizzabile, innestato sulla bontà di scelte essenziali e valide per tutti, di forte valore generale, favorito dall’attivazione di mirati investimenti, non condizionato più in alcun modo dalle scellerate spinte dei più diversi, famelici gruppi di pressione e dai tanti corporativismi negativi che, nei decenni, hanno concorso a ridurre progressivamente il paese in agonia. E’ questa la grande sfida che ci troviamo innanzi, il cui finale esito è da considerare tutt’altro che scontato. Certo, da tempo s’avvertono i segni del declino ed il paese sembra in questa fase non più capace di eccellere in alcuna particolare disciplina. Si arretra in troppi campi, senza che si realizzino condizioni di vantaggio in altri settori nuovi, moderni ed avanzati. Perdiamo terreno, a vantaggio dei paesi più avanzati dell’Europa e delle nuove realtà emergenti, in specie ma non solo dell’estremo Oriente. Non è il frutto del caso tutto ciò, quanto piuttosto della quantità e qualità di scelte passate, troppe volte sbagliate e negative, che si sono negli anni perseguite. Non siamo riusciti a dare rilievo e forza al grande patrimonio storico, ambientale, culturale che ha reso nei secoli unica nel mondo l’originale identità della nostra grande, bella, irripetibile nazione.

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OGNI GIORNO SI DEVE LOTTARE PER QUALCOSA Come è sbagliato immaginare che le conquiste cui con grandi lotte siamo pervenuti siano destinate a durare per sempre e all’infinito. Ingenuità questa per davvero rovinosa! Ogni cosa va difesa con tenacia sempre, un giorno dopo l’altro e vanno periodicamente prefigurati obiettivi ed orizzonti nuovi. Se viene meno l’impegno e la mobilitazione del mondo del lavoro ogni cosa rischia di deperire e di svanire, in modo inesorabile. E’ il caso di fare tra tutti un solo esempio, ciò che si sta verificando alle poste negli ultimi tempi. A Forenza, ma non si tratta in realtà di un caso esclusivo ed isolato. Ogni giorno il piccolo ufficio postale è gremito di persone, in specie da anziani. In fila di ore per pagare una bolletta o per riscuotere la pensione. Una situazione di vera umiliazione, in specie per gli anziani. Un locale privo di servizi, senza alcun sistema di aereazione. Non ci sono impiegati, si attende il proprio turno per ore ed ore con un numero in mano e molto spesso, giunti all’orario di chiusura, ci si sente candidamente dire di tornare a far la fila all’indomani. Una situazione, per davvero intollerabile, che ha obbligato Antonio ad una nuova battaglia, a una nuova iniziativa di lotta e di mobilitazione per il rispetto dei diritti elementari di cittadinanza dei suoi concittadini. Ha così promosso una raccolta popolare di firme, ne ha già più di 500, ha inviato la petizione in tutte le direzioni, ai carabinieri, al Prefetto, al Sindaco, allo stesso Sindacato. Ha fatto circolare in tutte le direzioni la notizia sulla stampa, sui mezzi d’informazione di tutta la Basilicata. Infine, grazie alla sua tenacia, è riuscito a conseguire un risultato. Davanti all’ufficio postale è stato installato un bancomat, a cui è possibile accedere per riscuotere, senza l’umiliazione delle infinite file, le spettanze. Un piccolo risultato all’apparenza, ma tante piccole cose, insieme, concorrono poi a conseguire sempre più grandi cose! Il popolo, questo è il punto, va educato passo per passo e momento per momento. Senza l’elevamento di una coscienza civile degna di questo nome e senza l’impegno attivo di ciascuno sulle questioni legate all’affermazione di legittimi diritti generali, il futuro è negativamente ipotecato. Ormai Antonio è arrivato agli 80 anni. Ha attraversato in gran parte la sua vita e ormai è finalmente in grado di dare, grazie all’esperienza accumulata, qualche saggio ed utile consiglio. Non gli è stato possibile studiare, per come avrebbe voluto fare. E tuttavia ha sempre cercato, e cerca ancora adesso, di mantenersi il più possibile informato di ciò che accade nel mondo che si muove intorno a lui e nella sua piccola realtà. Crede fermamente che sia essenziale leggere e studiare, non essere mai neutrali e indifferenti rispetto al mondo e verso le cose che vi accadono. Se si rinuncia in partenza ad essere curiosi, a mettere a disposizione degli altri la propria esperienza accumulata, se non ci si impegna a mantenere una visione personale critica su tutto ciò che accade, se ci si pone su un piano di passivo distacco o indifferenza, se in partenza si rinuncia all’altruismo ed alla propria naturale generosità verso il suo prossimo, saranno sempre gli altri a decidere per te il tuo futuro ed a segnare in un preciso modo il tuo destino. Troppe volte in passato l’indifferenza, con la passività, la delega esclusiva ed assoluta ad altri è stata la causa di grandi tragedie e di disastri che si sono riversati sulla comunità della nazione, sulla Lucania e sul 127


nostro mezzogiorno. Non ha futuro un popolo che si sente già vecchio e deprivato di ogni speranza nel futuro. E’ compito di ognuno guardare invece con fiducia a chi ci viene dopo. Puntare sulla straordinaria risorsa rappresentata da tanti giovani, colti ed istruiti del nostro bel paese. Dar loro fiducia e incoraggiarli, spiegargli che il futuro si costruisce già dall’oggi. E che se si è uniti ed in grado di battersi per un senso superiore di giustizia, per migliorare la condizione collettiva, se si lotta con tenacia, contro le più svariate forme di discriminazione e d’ingiustizia, purtroppo ancora oggi presenti, in ogni segmento della società, il futuro non è in alcun modo e per sempre negativamente ipotecato. E chi è più anziano non deve smettere mai di continuare a dare il proprio prezioso contributo, di conoscenza e di esperienza. Da ciò che è accaduto prima si deve ripartire in ogni caso, facendo tesoro degli errori fatti ed evitando che vengano replicati. Fiducia, non pessimismo cieco, è il principale concetto che va ribadito sempre. Incoraggiare le grandi energie presenti, le loro potenzialità, tracciare la strada del futuro è il compito essenziale che ancora nel presente ci si deve dare! Nessun obiettivo è irraggiungibile se c’è l’impegno a perseguirlo con grande serietà, con onestà e tenacia. Antonio dice sempre alle persone con cui parla che oggi si sente sereno, in pace con se stesso. Può tranquillamente ribadire che rifarebbe ogni cosa che in passato ha fatto, le stesse scelte di un tempo, nello stesso campo in cui ha vissuto ed è cresciuto. Avverte sempre vive e palpitanti nell’anima le idee ed i valori per cui ha scelto di consumare la sua vita. Non ha recriminazioni da avanzare, non nutre dentro di se malinconie. Ha creduto e ancora oggi crede, fermamente, nella bontà e nella giustezza delle idealità per cui si è impegnato nel sociale, nel quotidiano rapporto con la sua gente, dal tempo lontano in cui era un fanciullo. Intatta è sempre rimasta dentro di lui l’idea che è sempre giusto battersi per una più ampia e diffusa giustizia, eguaglianza, libertà. Se di tutto ciò è riuscito a persuadere altri, i componenti della sua famiglia innanzi tutto, se alle persone con cui è venuto in relazione è riuscito a infondere, anche col suo esempio personale, una piccola scintilla positiva, ha assolto il compito perseguito nel corso della sua esistenza sulla terra. Perciò è sereno, tranquillo con se stesso, per questa ragione è privo di rimpianti.

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EPILOGO La vita di ogni uomo, in ogni istante, è sempre gravida di rischi e di sorprese. Nessuno può dire mai in anticipo quale sarà la sua evoluzione, nè le direzioni che verranno assunte. Accade di frequente di lasciare, per una serie di ragioni o circostanze, il posto in cui si è nati e da lì poi partire, modificare le proprie coordinate, magari per perdersi nel mondo, alla ricerca di un qualcosa che ancora appare indefinito o per concretizzare un obiettivo che aiuti ad affermare sé e a realizzare, nella concretezza del reale, il grumo di speranze che ci si porta dentro. In genere, entrando in relazione con mondi assai diversi, con altre consuetudini e culture, con diversi usi e costumi, si ampliano i propri confini e gli orizzonti di partenza, si accumulano inedite esperienze che forgiano e irrobustiscono il carattere e che lo affinano. Si affrontano contesti, nuovi e imprevedibili, a cui non avresti mai pensato. A volte, non di rado in verità, si finisce addirittura per snaturare, almeno in parte, ciò che si è stati fino a un momento prima. Di frequente si acquisisce un diverso approccio nei modi di vedere i fatti ed i comportamenti umani, approdando finanche ad una diversa visione del mondo e delle cose. Avviene, per così dire, come una marcata metamorfosi che, in qualche modo, induce una cesura tra quanto sei stato prima e ciò che invece sei diventato adesso. Alessandro Baricco ha di recente opportunamente osservato come, al giorno d’oggi, tutto si percepisce e si conosce in superficie, così, di conseguenza, si ha la sensazione che qualunque cosa appresa in un attimo solo si consumi. Si balza rapidamente e di continuo da un argomento a un altro. Ciò che si acquisisce in quantità dall’immenso magma che ci assedia intorno, spesso finisce poi per diradarsi e perdersi, in capacità di riflessione e di approfondimento. A volte così le idee ed i concetti scompaiono d’incanto. Si svuotano emozioni e sentimenti che dovrebbero invece restare dentro di noi eternamente intatti. Nel caso di Antonio Sileo credo che si possa invece sostenere, con sufficiente forza ed a ragione, che questa persona, entrando in contatto con un mondo ed una società assai diversa, pur tuttavia non smarrisce mai il sicuro ancoraggio alle radici né, soprattutto, alle sue originarie, tenaci e radicate convinzioni. Al senso che si deve dare ai propri atti quotidiani, agli obiettivi che di volta in volta ci si deve porre per spingere in avanti, nel comune interesse, il senso di eguaglianza e di giustizia che ci si porta dentro. Antonio appare sorprendente per la sua semplice, intatta essenzialità! Le azioni che compiamo non sono neutre e asettiche e non è indifferente o vano l’esempio che si fornisce agli altri. Ogni atto compiuto non si perde mai, resiste, in positivo o in negativo, anche al di là del tempo contingente che ci è dato. Un esempio, indotto da ragioni di altruismo, dall’attenzione all’altro considerato come una persona, dotato di diritti e di una propria umanità, un atto generoso, scevro dal condizionamento del gretto particolarismo personale, è quanto può contribuire ad una nuova, rinnovata fiducia nel futuro, il senso di un grande fiume che continua sicuro nel suo corso e che non si prosciuga. In tanti di questi esempi, di gente semplice e operosa, disseminata in ogni borgo del 129


nostro ineguagliabile paese, cogliamo le ragioni più autentiche, più vere e più profonde per ritrovare ogni giorno un nuovo e rinnovato senso ad una scelta del modo di spendere la vita, un vero valore da dare all’esistenza, da non ridurre mai al mero, stanco, passivo e rassegnato conformismo. Una scelta, di parte, che è stata quella giusta, di cui a consuntivo si può essere orgogliosi, che Antonio Sileo ha sempre vissuto in stretta simbiosi e sintonia con la sua gente, col proprio Sindacato e con il suo Partito. Giunti ormai alla conclusione della ricostruzione-solo per grandi linee tratteggiata- necessariamente proceduta a balzi nell’interconnessione con fatti ed episodi rilevanti della nostra recente vicenda nazionale, di questa persona semplice, ma al contempo austera, fiera e combattiva, con dentro l’anima un sentimento antico, eppure sempre attuale, di maggiore e più piena eguaglianza, giustizia e libertà, lo sguardo ed il pensiero si volgono di getto e con naturalezza al territorio ed al contesto d’insieme che è d’intorno a noi. Ampi spazi, dalle molteplici, svariate gradazioni di colori, ricoperti da distese di giallo grano duro, una pluralità di verde affascinante nelle sue diffuse, infinite gradazioni. Ed il silenzio, con l’intensità di una voce fatta di assenza di parole dentro la pace che ti gira intorno e che, come d’incanto, finisce infine puntualmente per catturarti l’anima. Un territorio, nel suo silenzio pur tuttavia così palpitante e vivo, denso di fitti boschi e di montagne, di corsi d’acqua e fiumi, di dolci colline e di distese di pianure rivolte nella direzione, calda e pacata, del tavoliere delle Puglie. Ampi spazi sterminati, privi di barriere, con pochi centri urbani segnati ancora da un palpito di vita, in un contesto in cui non esiste alcuna traccia di sovrappopolazione. Virtuoso il rapporto tra l’uomo e l’ambiente circostante. L’area non è compressa da alcuna congestione abitativa, l’inquinamento dell’aria non si percepisce. E poi ancora i fiumi e i laghi e la bellezza delle vestigia antiche di numerose austere cattedrali, maestosi e imperituri segni di un nobile passato. Quest’area è anche un pregevole e per più versi unico ed esclusivo percorso culturale, segnato dalle tracce di un’epoca che fu. Il tempo glorioso, di un fiero imperatore, del grande Federico II, coi suoi castelli inattaccabili, di Melfi e Lagopesole, un poco più distante, a un solo tiro di schioppo la grande cattedrale di Acerenza, imperiose vestigia sollevate al cielo dal tempo lontano in cui si fronteggiavano in tenzone i veri e grandi poteri di impero e papato apparsi ai loro contemporanei giganti immensi ed infrangibili nel loro abbagliante, apparente e inestinguibile potere. La Basilicata è punteggiata di segni e vestigia di una storia antica, disseminata di chiese e cattedrali, potenziali itinerari, di rara suggestione, che andrebbero conosciuti, compresi e pubblicizzati molto meglio. E ciò lo si può affermare per ogni sua realtà, di piccola, media o grande dimensione. Matera, Melfi, Metaponto, Acerenza, Grumento Nova, Policoro, Aviano e tanti altri i punti di possibile, ulteriore armonioso ed integrato sviluppo di cultura e conoscenza, di storia, ambiente e di natura. A ciò si aggiunga l’ampia vegetazione, dalla fascia montana dell’Appennino Lucano, dell’alto Bacino del Basento, alle Dolomiti Lucane, al Vulture, nell’Alto Agri, nel Bacino del Melandro, nel Lagonegrese e sui rilievi del Pollino, l’area intorno a cui si è in larga parte svolta la storia che abbiamo raccontato, la sua pianura come la Valle dell’Agri, la Valle del Melandro e la Valle di Vitalba, fino alla costa di Metaponto, tra le più suggestive del mare Jonio, fino a Maratea e al golfo di Policastro. E inoltre i tanti specchi d’acqua, i laghi, da quello di Monticchio al Lago di San Giuliano, al Lago del Pertusillo e a quello di Monte Cotugno. L’area è stata da sempre ricca di risorse naturali, per prima l’acqua, che scorre copiosa e che dalle montagne si versa poi abbondante, sui campi e le pianure. L’acqua, la grande ricchezza, che serve e invade lo stesso Tavoliere delle Puglie. Un concentrato, di bellezza ambientale, di beni archeologici e artistici per più versi unici nell’esclusività. A Pietrapertosa ed a Castelmezzano, nel cuore del Parco Naturale di Gallipoli Cognato, si può osservare di frequente il falco pellegrino che spiega le sue ali. Da qualche tempo è possibile osservare questo straordinario spettacolo da oltre 400 metri di altezza, in alto come il falco, sospesi dentro al cielo. In quel posto, in larga parte rimasto ancora selvaggio ed allo stato bravo, di natura, oltre al Falco Pellegrino, si possono individuare anche il Gheppio, lo stesso Nibbio Reale ed anche, con un poco di pazienza, finanche i loro nidi. Lì, in quell’area è stato formato l’unico impianto italiano a forza inerziale, il più grande d’Europa, un esempio straordinario di 130


interazione ambientale. Da un’altura, sospesi in aria e tenuti stretti da un cavo d’acciaio di un Km e mezzo, ci si può dedicare al “Volo dell’Angelo”. Due le linee di volo: quella di San Martino a Pietrapertosa, che raggiunge i 110 Km orari e la linea Paschiere a Castelmezzano dove in volo si toccano i 120 Km orari. Legati ad un’imbracatura, si può volare in mezzo al cielo bleu. A Luglio, Agosto e fino al 16 Settembre l’impianto è aperto tutti i giorni. Nel 2011 sono stati effettuati 11.000 voli, nel 2010 erano stati 8.500. Ad agosto la media è di 200 voli al giorno e solo per prenotazione. Un’originale attrazione aperta tutti. A Pietrapertosa la stazione di lancio è situata quasi nel cuore del paese, a metà della scalinata che conduce al Castello Arabo-Normanno. Ci si lancia nel vuoto, in questo contesto magico e quasi lunare. Scendendo di quota, lo sguardo s’imbatte poi in costoni rocciosi, sistematicamente erosi, ininterrottamente, da milioni di anni dagli agenti atmosferici. La natura si mostra in tutta l’enormità della sua forza, nell’esplosione della sua estrema meraviglia. Gli immensi boschi di Gallipoli Cognato, con le più infinite gradazioni di verde e di colore che si possa immaginare. Boschi di conifere, ultima vivente e magica dimora del regno di tante farfalle non estinte. Il Castello Arabo Normanno è dell’XI Secolo ed è stato restaurato solo di recente. A Pietrapertosa, 1136 abitanti ed oltre 50.000 presenze turistiche all’anno, il Castello si erge a 1088 metri di altezza. Da quell’altura si possono scorgere la Puglia, il Mar Ionio e Taranto col suo porto. Incontrastato, in questo magico habitat naturale, regna il silenzio e si percepisce la netta sensazione di poter finalmente ritornare, in quel contesto, all’assoluta pace con sé stessi. Il silenzio, e il pieno riappropriarsi del desiderio primitivo di un ritrovato e sano rapporto con l’ambiente.131 Naturale è perciò il rilievo che finisce per mettere platealmente in evidenza la discrasia profonda tra la grama realtà e le potenzialità enormi che si potrebbero invece realizzare. Un progetto, virtuoso e condiviso, in grado di mettere in rete e valorizzare a pieno ambiente, territorio, la grande storia pregressa con le sue peculiari tradizioni. Lo sviluppo possibile, incentrato soprattutto ma non solo sull’agricoltura di alta qualità, con l’avvio di un processo produttivo moderno imperniato sull’attuazione di una pluralità di differenti produzioni, basato anzitutto su una lavorazione moderna dei prodotti della terra. Inoltre un modello di trasformazione industriale nuovo, che potrebbe essere incentrato essenzialmente su un agile ed efficiente sistema di piccole e medie imprese, oltre al grande insediamento Fiat di Melfi già in funzione. Un nuovo legame tra Università, ricerca, formazione e impresa potrebbe concorrere a mettere in moto, finalmente, un diverso ed efficiente modello di sviluppo mai fino ad ora conosciuto. Una riflessione, questa, da considerare in una prospettiva più vasta e generale. Si è assistito, in questi ultimi anni, ad un oggettivo arretramento dell’insieme del paese. E’ cresciuto il livello dell’indebitamento dello Stato, nel mentre non si è contemporaneamente razionalizzata e ridotta a sufficienza la spesa pubblica. E’ rimasta statica, ed anzi è diminuita, la produttività nei singoli comparti produttivi e, più in generale, dei sistemi territoriali. Non si è avuto, di converso, l’incremento degli investimenti, e il loro utilizzo selettivo, che invece sarebbero risultati imprescindibili per assicurare il salto di qualità di cui si è detto. Scelte che avrebbero dovuto e dovrebbero a loro volta essere finanziate con le risorse ricavate dalla riduzione della spesa pubblica e da una lotta senza quartiere all’evasione. I tagli lineari e progressivi mettono invece in una condizione di forte difficoltà i comuni e tutto il sistema delle autonomie locali. Servizi primari ed essenziali, sintomo della civiltà di un paese, rischiano di venire progressivamente soppressi o verticalmente ridimensionati. La scarsa disponibilità di risorse finanziarie obbliga quindi nell’immediato, prossimo futuro, ad operare in direzione della rigorosa scelta degli indirizzi e sulla qualità dei modi di spesa in cui intervenire. E appare sempre più indispensabile, nella fase profondamente diversa che viviamo, in quella in cui l’Italia, abbandonando la lira, ha scelto di aderire a una moneta forte, all’Euro, quale condizione necessaria per reggere il confronto della concorrenza con antichi e nuovi competitori assai agguerriti, riuscire a muoversi in relazione a un piano e ad un progetto generale convincente, ampiamente discusso e condiviso, valido ed ambizioso, oltre l’immediatezza delle varie contingenze quotidiane. Appare, in 131

Liliana Bubbico, “Corriere del Mezzogiorno”, 19 luglio 2012. NB: C’è anche cartina geografica disponibile

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questo contesto, indispensabile l’indicazione di poche, precise priorità da garantire, su cui veicolare le scarne risorse disponibili. Investimenti mirati, sulle persone innanzi tutto, in direzione della garanzia di qualificati, aggiornati, moderni sistemi d’istruzione, della ricerca, dell’innovazione, della garanzia del diritto primario alla salute, della tutela e salvaguardia dell’ambiente e della valorizzazione del patrimonio culturale nazionale appaiono le questioni essenziali su cui concentrare l’intervento. Questioni, essenziali e decisive, per il mezzogiorno e per la Basilicata, la cui ripresa e l’inizio di una nuova fase di crescita e sviluppo, su diverse basi, appaiono sempre più autentiche ed ardue sfide per il destino futuro di tutto il paese nel suo insieme. La nostra comunità nazionale, se indotta ad agire in relazione ad un’idea-forza fondata sulla coesione, la collaborazione, la solidarietà tra le persone, sul privilegio da affidare all’interesse generale contro qualsivoglia ostativo particolarismo, se finalmente dotata di una guida politica ed istituzionale autorevole e credibile, potrebbe raggiungere, in un arco di tempo relativamente limitato, obiettivi per davvero ragguardevoli. E si potrebbe in tal modo concorrere, in maniera decisiva, ad aggredire la piaga purulenta e mortale della disoccupazione, troppe volte intesa come ineluttabile destino per il Mezzogiorno d’Italia e in specie per la Lucania, regione tra quelle che più ha pagato e paga le distorsioni ataviche e le scelte dissennate che hanno drammaticamente accentuato lo sviluppo duale del paese. Nulla è impossibile, se i problemi li si affronta a tempo, con decisione, coraggio, determinazione, tenacia, continuità. Certo, in questo contesto, appare urgente e decisiva una valutazione ed un intervento conseguente, diretto dallo Stato Centrale e coordinato coi poteri regionali e locali, in grado di aggredire il nodo dei ritardi che non hanno ancora consentito, al giorno d’oggi, di realizzare le principali, essenziali infrastrutture. Si pensi all’ammodernamento del sistema stradale, ancora per più versi ed in più punti retrivo e rabberciato, un pesante ostacolo alla messa in moto di fattori autenticamente produttivi. Un limite, grave, che accentua ulteriormente i preesistenti fattori di fragilità e marginalità, incrementando ancora oltre i già troppo massicci fattori di abbandono di intere aree dell’interno. In questo ragionamento, è necessario mantenere intatta un’impostazione d’insieme che parta dalla necessità di salvaguardare al meglio, innanzi tutto, l’ossatura portante dell’apparato industriale manifatturiero esistente, tentando al contempo di coniugare, in maniera efficace e virtuosa, l’ambiente e il territorio. L’idea, avanzata di recente, del lancio di un Piano del Lavoro, proposta nazionalmente dalla Cgil, ha la necessità di articolarsi nelle sue distinte specificità a livello regionale. E’ cioè indispensabile muoversi in relazione alla crescita ed alla qualificazione, progressiva e permanente, dei punti produttivi del mezzogiorno e della Basilicata. Un territorio diventa di per sé competitivo se lo è nel suo complesso, ovvero a livello di sistema, e se è in grado, attraendo investimenti, di creare un maggiore e più significativo valore aggiunto, una produttività d’insieme più elevata. Obiettivo che può essere perseguito a condizione che non venga ulteriormente riproposta la stanca situazione già più volte e ripetutamente conosciuta prima, anche nel passato più recente. Ovvero la infinita replica di una storia antica che ha sempre visto le realtà meridionali, ove venivano insediate nuove industrie, prive dell’essenziale componente di autonomia e di mantenimento in loco della propria funzione progettuale e direttiva. Condizione questa la cui assenza ha poi determinato, puntualmente, la verticale caduta delle attività produttive al Sud del paese e la contemporanea centralizzazione delle stesse al Nord, con tutto ciò che ne è immediatamente derivato. Si diceva un contesto ambientale più avanzato, moderno, favorevole, che punti sulla creazione di infrastrutture, materiali e immateriali, a partire dalla capacità di diffusione della banda larga nei posti dove essa non è ancora insediata. La spesa per investimenti ha visto negli anni appena trascorsi l’attivazione di consistenti risorse finanziarie attraverso il meccanismo dei Fondi Comunitari. In Basilicata in verità questo strumento è stato utilizzato in maniera relativamente efficace, meglio di quanto è avvenuto in altre regioni del Mezzogiorno d’Italia. Il punto dirimente è che esso non può comunque sostituire, in toto, gli investimenti ordinari previsti dall’intervento dei vari livelli dell’articolazione dello Stato. E’ accaduto invece che queste risorse si siano progressivamente assottigliate, in maniera verticale e preoccupante. E ciò ipoteca le possibilità del cambiamento a cui ci siamo riferiti che appare urgente, necessario, inevitabile per garantire un salto di qualità nello sviluppo in grado di durare. 132


La Fiat di Melfi impiega, attualmente, 5.000 lavoratori in via diretta e, con l’indotto, produce attività per circa 10.000 lavoratori. 1.000 operai impiegati nello stabilimento lucano hanno lavorato a orario ridotto e per essi si è fatto ricorso alla cassa integrazione132. Proprio in prossimità del natale 2012, il 20 dicembre, nel corso della visita del Presidente Monti alla fabbrica di Melfi, Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha fatto dichiarazioni impegnative preannunciando, per lo stabilimento lucano, un massiccio piano di investimenti per 1 miliardo di euro complessivi. Ciò a fronte del fatto che Melfi dovrebbe diventare l’unico punto al mondo dove si produrrà il piccolo Suv jeep. Sempre nello stesso sito, dal 2014, dovrebbero inoltre essere lanciati due nuovi modelli d’auto: il Mini Suv a marchio jeep e un nuovo Suv a marchio Fiat 500 x. La svolta annunciata non interesserebbe solo lo stabilimento lucano ma anche, in progressione, il resto degli stabilimenti italiani. Al proposito, è anche il caso di ricordare che la Fiat ha preannunciato anche il rilancio dello stabilimento di Grugliasco, in provincia di Torino, con la messa in produzione della “Quattroporte”, la berlina sportiva alfiere del marchio “ Maserati”, un produzione che dovrebbe intercettare la domanda del segmento di mercato medio alto in Asia, in Medio Oriente, in America del Nord. Il Suv Levante poi dovrebbe essere prodotto negli stabilimenti di Grugliasco e Mirafiori, con un ulteriore investimento di un miliardo di euro. Dal 2014 si prevede la vendita di 50.000 vetture all’anno. Inoltre dovrebbe entrare anche in produzione la vettura Suv Levante. In verità, per tornare a Melfi e alla Lucania, l’amministratore delegato ha anche preannunciato il ricorso ad un nuovo, lungo periodo di cassa integrazione necessario per consentire l’avvio degli investimenti e la necessaria ristrutturazione delle linee produttive. Una volta realizzati gli investimenti, incrementando la produttività e la qualità dell’offerta ed accentuando, internazionalmente, la capacità competitiva del gruppo, finirebbero per diradarsi finalmente le nubi sul futuro e si metterebbero finalmente a tacere le preoccupazioni sul rischio di un progressivo disimpegno di Fiat dalla realtà italiana. Non può essere comunque sottaciuto il fatto che purtroppo ancora non esiste un progetto di sviluppo dell’industria automobilistica nazionale a basso impatto ambientale ed il territorio è tuttora, per più aspetti, fortemente dipendente. L’anidrite carbonica per l’acqua è importata dal Canada; il settore agrario, con Barilla e Ferrero, non è inserito in un progetto di sviluppo industriale di qualità complessiva, in un link per l’agricoltura. Invece un’agricoltura di qualità e integrata nelle diverse fasi è fattore assolutamente decisivo. Indicare decise priorità quindi, non una sommatoria indistinta di obiettivi vaghi che rischia di rendere alla fine inefficace l’azione regionale di governo, dispersa in decine di progetti, a volte tra loro contraddittori e antagonisti. Un problema, prioritario e decisivo, è senza dubbio quello energetico. In Basilicata è iniziata una produzione di scavi petroliferi importanti. Vengono estratti in media 110.000 barili attraverso una rete già occupata di 2.100 Kmq. Il contributo già dato dalla Basilicata non può però significare una dilatazione di questi interventi a dismisura ed in maniera incontrollata. Il centro dell’attenzione su tale tema è senza dubbio incentrato sulla Val D’Agri. Negli scavi petroliferi sono già impiegati 450 lavoratori a tempo pieno, circa 2.000 con l’indotto. Ogni ulteriore azione va concordata col territorio, in maniera da evitare in 132

Il gruppo Fiat-Chrysler mantiene in Italia 5 stabilimenti: a Melfi, area di produzione della nuova “Punto” sono attualmente impiegati 5.000 operai. Ad Atessa - Val di Sangro ( Chieti), area di produzione del “Ducato” è concentrato il numero più alto di lavoratori, 6.200. A Mirafiori ( Torino), dove si produce la “ Mito”, sono impiegati 5.000 operai, nel mentre a Cassino ( Frosinone), dove si producono la “Lancia Delta”, l’ “Alfa Romeo Giulietta” e la “Fiat Bravo” lavorano 4.500 operai. Infine a Pomigliano ( Napoli), dove è in produzione la “Nuova Panda”, lavorano ormai solo 2.500 operai. Il progetto di “Fabbrica Italia” è apparso, finora, avviato ad un ridimensionamento progressivo rispetto all’ambizioso progetto iniziale di espansione, a causa della grave crisi di mercato da tempo in atto ed alla drastica contrazione delle vendite che ne è derivata oltre che alla scelta di Fiat di non investire a tempo nel lancio di nuovi e innovativi modelli, graditi ai consumatori, previsti in precedenza nel piano industriale. La Fiat ha finora venduto di meno, perdendo ulteriori quote di mercato, non riuscendo ancora a sfondare, massicciamente, nel mercato americano. Una situazione apparsa peggiore, negli ultimi anni, rispetto ai suoi diretti concorrenti europei, come Volkswagen, che invece si sono mossi investendo sull’innovazione di prodotto. Buona invece la tenuta della Chrysler e del Brasile. L’Italia deve cercare di salvaguardare in ogni modo la sua industria automobilistica. Sarà perciò necessario seguire con la massima attenzione la messa in pratica dei recenti, rilevanti impegni assunti ufficialmente dalla Fiat.

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via preventiva un qualsivoglia lacerante conflitto con l’ambiente e con le popolazioni interessate. Dilatare a dismisura le estrazioni, come propone l’ENI, per pervenire ad oltre 156.000 barili, può apparire a primo impatto francamente esagerato ed eccessivo. Uno sviluppo, ordinato ed armonico, virtuoso e regolato, che ampli le possibilità del territorio, ne veicoli la crescita virtuosa, ne regoli le diverse attività. E’ l’obiettivo a cui si può e si deve tendere. Aiuterà la predisposizione e l’attuazione di un piano territoriale per la realizzazione di un ampio processo di risparmio energetico.133 E’ utile infine ricordare come di recente la Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, in una nota del suo direttore Luca Bianchi, ha annunciato che nelle regioni meridionali potrebbero essere creati, entro il 2013, ben 250.000 nuovi posti di lavoro, di cui 100.000 tra laureati, nel settore dell’industria culturale. Una possibilità enorme, soprattutto considerando il fatto che al Sud , come si ricordava, il tasso di disoccupazione, in specie giovanile e femminile, ha raggiunto un livello per davvero insostenibile. Nonostante il millenario ed ingentissimo patrimonio artistico italiano, che vede un’occupazione nazionale globale nel settore di 1,6 milioni di unità, di essi ben 1.356.000 sono al centro-nord ( circa l’80%). In questo specifico campo, la sola Lombardia impiega 417.000 persone, più dell’insieme dell’Italia meridionale nel suo complesso. Al Sud il settore è purtroppo ancora largamente sottovalutato. Solo 82.000 occupati in Campania, 57.000 in Sardegna, 46.000 in Puglia, 28.000 in Abruzzo, 23.000 in Calabria e solo 8.000 in Basilicata. Fanalino di coda delle regioni meridionali il Molise con 3.900 occupati. Eppure questo è un comparto di rilievo assoluto che, secondo lo Svimez, può dare una spinta eccezionale allo sviluppo del Sud, ricco di un patrimonio culturale assai sottostimato e di un bacino di capitale umano qualificato di giovani e donne, facilmente impiegabili. Le politiche di valorizzazione dell’industria culturale, unite a investimenti integrati in cultura e innovazione, finanziate con risorse nazionali e comunitarie, potrebbero finalmente consentire al Sud di recuperare, in tempi accelerati, il gap di occupazione col centro nord.134 Il Sud è l’area da cui potrà ripartire finalmente tutto. E’ ancora utile infine rilevare che il Rapporto Green Italy 2012, presentato da Unioncamere e dalla Fondazione Symbola, presieduta da Ermete Realacci, ricorda come 360.000 imprese hanno già investito nell’economia verde e programmato per l’anno in corso l’assunzione di 250.000 unità di personale dipendente. Un’eco-tendenza che mira a ricomporre una situazione positiva che lega agricoltura ed efficienza energetica, innovazione e qualità, con un riavvicinamento, virtuoso e progressivo, tra il Centro Nord ed il Sud del paese. Una riflessione ed un auspicio incoraggianti, da considerare con tutta l’attenzione e l’equilibrio necessari e da verificare a fondo per valutare al meglio se da tale impostazione è possibile in tempi relativamente brevi ripartire. Le risorse, che col tempo potranno ai vari livelli essere attivate, dovranno fornire risposte convincenti all’insieme di quesiti e osservazioni appena poste, invertendo una storia ormai antica e secolare fatta troppe volte di attese deluse, di miseria ed abbandono persistente. Già gli antichi greci rispettavano un sistema di pensiero a condizione che quel sistema fosse coerente e se, di conseguenza, un progetto immaginato non restasse tale, nell’esclusiva, astratta dimensione delle idee, ma si puntasse a realizzarlo coerentemente e con determinazione nella pratica. In sostanza, rispettavano la persona se essa viveva in modo confacente a ciò che sosteneva. E se credeva fermamente a ciò che diceva e su cui, poi, coerentemente s’impegnava. Una filosofia di vita in cui pensiero e azione procedono in simbiosi. Impegnarsi, non smettere di lottare mai! 133

Punti essenziali dell’intervento di Alessandro Genovesi, segretario regionale Cgil Basilicata, Convegno sul Mezzogiorno, Salerno 13-14 Settembre 2012; ( Vedi, senti intervento su sito Cgil nazionale) 134 E’ la tesi apparsa su “La Repubblica” del 10 novembre 2012 in un articolo di Giovanni Valentini in cui è ripreso il contenuto del libro di Carlo De Benedetti, Mettersi in gioco, Einaudi, 2012, e quello di Lino Patruno, Ricomincio da Sud, edito Rubettino. In entrambi i casi si liquidano i luoghi comuni e gli stereotipi diffusi negli ultimi anni a piene mani sull’inerzia del Sud e la sua presunta, atavica incapacità alla messa in moto di un positivo ed avanzato circuito di rilancio e sviluppo produttivo di questa area del paese, sempre decisiva, nel bene e nel male, per il destino dell’Italia nel suo insieme.

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Antonio è solito ripetere che bisogna ben comprendere che, di per sé, nessuno ti regala niente e che ogni giorno si deve lottare per qualcosa! Privilegiare il futuro ed il destino di chi ci viene dopo, guardare con fiducia alla nuova gioventù, incoraggiare la voglia di sapere e di vivere un’esistenza ricca, profondere ogni sforzo per non deludere la speranza nel futuro, valorizzare i talenti, incoraggiare l’entusiasmo di cui sono capaci, aiutarli ad affrontare con coraggio, passione e fiducia le inevitabili tensioni, sfide, traversie, continuamente proposte dalla vita, puntare a trarre da ognuno sempre il meglio possibile, questo l’insegnamento, di valore generale, di questa storia semplice, di un compagno ancora oggi per nulla rassegnato ed anzi pienamente intriso delle prime, originarie, incancellabili passioni di una vita.

INDICE PROVVISORIO Prefazione di Postfazione di 2

I.

Antonio Sileo, le passioni di una vita 135


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II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII XLIV XLV XLVI XLVII XLVIII XLIX XLX XLXI XLXII

Basilicata Una regione tra razionalità e magia Forenza In gioventù Balvano, quel disastro dimenticato L’Italia del 1945: inizia un mondo nuovo La Camera del Lavoro L’occupazione delle terre nel mezzogiorno Lotte per la terra in Basilicata Via Medina La Costituzione Le elezioni del 18 Aprile 1948 14 Luglio 1948, l’attentato Il decennio 1940-1950, alcune osservazioni La Cassa del Mezzogiorno Al Congresso della Figc, l’incontro con Enrico Berlinguer La riflessione sul decennio 1943-1953 L’Italia degli anni ‘50 Il 5 Marzo 1953, muore Giuseppe Stalin La legge truffa Non puoi battezzare ! Nuove abitudini, usi, costumi Un violento schiaffo sul viso Il processo per causata rissa L’enorme nevicata L’impatto con Torino L’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio 1960 a Genova Torino, la battaglia di Piazza Statuto I funerali di Togliatti 1968-1969, il biennio irripetibile Un mondo nuovo in tumultuoso movimento A Torino nella sezione meridionale del Partito Le incomprensioni col Partito a Torino Fine anni’60, primi anni’70, le lotte operaie Il Mezzogiorno d’Italia, le rivolte, Aprile 1969, Battipaglia Ritorno a Forenza Il mezzogiorno d’Italia, le rivolte, 1970-1972, Reggio Calabria S’arresta l’avanzata operaia, l’inversione del ciclo economico, la crisi Il sud, l’illusione dell’industrializzazione Il mezzogiorno d’Italia, le rivolte, Maggio 1974, Eboli Eppure bisognava far qualcosa La discriminazione che non scompare Militante del Partito e della Cgil Torino, il terrorismo Sequestro ed omicidio di Aldo Moro La divisione a sinistra Il decennio 1970-1980, alcune osservazioni 23 novembre 1980, il terremoto La scomparsa di Enrico Berlinguer I tanti problemi dell’oggi quotidiano 136


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XLXIII XLXIV

Ogni giorno si deve lottare per qualcosa Epilogo

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