Gennaio 2013

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La Politica che vorrei

Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno V, n. 1 - gennaio 2013 - distribuzione gratuita

“Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere” (Antonio Gramsci) “Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari. Vogliamo farci comprendere dagli operai.” (Karl Marx)


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Sommario del mese di gennaio Ricostruire Foligno: città assegiata o in grande sviluppo? di Lorenzo Battisti

pagina 7

Incompetenti La crisi è finanziaria non economica di Sandro Ridolfi

pagina 11

Sovranità monetaria Banche senza soldi di Danilo Santi

pagina 15

Natale Io credo a Babbo Natale di Sara Mirti

pagina 19

Odio gli indifferenti L’uomo che prese il fulmine a mani nude di redazione

pagina 23

Spazio Autogestito Cosa vogliono gli studenti a cura di Sara Mirti

pagina 27

Povero Teatro, Teatro Povero? Il teatro di piazza di Monticchiello di Antonio Bandini

pagina 31

Il Signoraggio (seconda parte) Speculazioni internet di Jacopo Feliciani

pagina 35

Donne, parliamone L’altra metà del mondo di Catia Marani

pagina 39

Storie di animali e di umana violenza Due racconti brevi di “Sballa”

pagina 43

Redazione: Corso Cavour n. 39 06034 Foligno redazionepiazzadelgrano@yahoo.it

Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 Editore: Sandro Ridolfi Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi Sito Internet:

Andrea Tofi Stampa: GPT Srl Città di Castello Chiuso: 16 dicembre 2012 Tiratura: 3.000 copie Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”


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Editoriale

Il voto si avvicina! Che fare? DI

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LUIGI NAPOLITANO

li eventi politici italiani degli ultimi tempi mi hanno fatto sprofondare in uno stato di apatia che non mi consente di focalizzare ciò che, fino a qualche tempo fa, pensavo sarebbe stato auspicabile per il Paese. Questa condizione mi ha impedito (e mi impedisce) di provare interesse per ciò che dicono i politici, ma anche di tentare di formulare qualsiasi tipo di analisi non solo sulla situazione sociale, politica ed economica che stiamo vivendo ma, perfino, di riuscire a inquadrare singoli problemi che potrebbero costituire argomento su cui sviluppare un’ipotesi di discussione. Un gradevole, come sempre, richiamo alla realtà dell’editore di questo Giornale, che mi consente di divagare dal mondo del mio lavoro e dalle problematiche che, come tutte le altre attività vive in questo momento, mi ha riportato a considerare gli eventi che si succedono fuori del mio stretto contesto personale, e indotto a riordinare le idee, per cercare di fare chiarezza innanzitutto a me stesso al fine di prepararmi al voto che saremo chiamati ad esprimere tra qualche mese. Per affrontare il compito che mi sono posto e tentare di dare una risposta ai mille dubbi che mi assalgono, penso

sia necessario tracciare un excursus dello snodo degli eventi politici dell’ultimo periodo. irca un anno fa si è insediato un Governo definito tecnico, intendendo con tale aggettivo un governo composto di persone fuori del mondo della politica, chiamate ad evitare il fallimento dello Stato-azienda, competenti nelle materie da amministrare, nella regolamentazione della relativa legislazione e dunque capaci di adottare provvedimenti nell’interesse della comunità. Nel caso concreto hanno reso necessaria questa formula che, di fatto, sancisce il fallimento della politica per la mancanza di un qualsiasi progetto sociale, la manifesta incapacità o, peggio, la tutela di interessi legati ai componenti del precedente governo. Governare, infatti, dovrebbe essere un problema politico e il tecnicismo è solo uno degli elementi necessari per attuare un’idea. Ritengo, quindi, che questo periodo, da un punto di vista strettamente politico, costituisca una sorta di sospensione della democrazia rappresentativa e il Governo rappresenti un’oligarchia che ha addossato sulle classi meno protette il peso totale di provvedimenti che hanno avuto sì il merito di evitare il fallimento dello Statoazienda, ma che non hanno prodotto neanche un minimo spiraglio di ripresa. L’effetto positivo

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di questa scelta governativa è che l’uscita di scena dell’ex capo del governo è oramai definitiva, in quanto viene oggi punito quello che fino a ieri è stato il suo punto di forza: l’essere di moda. Moda intesa come stile di vita, come modo di proporsi, come modello da imitare che incarna ciò che ciascuno vorrebbe essere. Auspico che il tramonto politico del personaggio indichi un’inversione di tendenza culturale e sociale. Senza voler essere critico, anche se le ragioni non mancherebbero, bisogna riconoscere che la presenza di una personalità siffatta sulla scena politica e istituzionale ha trovato la sua legittimazione nel consenso elettorale che larga parte dei votanti gli ha tributato negli ultimi venti anni, circostanza questa che ha avuto come diretta conseguenza un degrado culturale e di valori difficilmente recuperabili nel breve periodo e un imbarbarimento del confronto politico, indegno delle curve calcistiche, figurarsi delle sedi parlamentari. La responsabilità va quindi attribuita e proporzionalmente ripartita tra i rappresentanti politici usciti vittoriosi dalle urne e il corpo elettorale che ha scelto di dar loro fiducia. uttavia se i responsabili di questo disastro sono così facilmente individuabili perché non riesco ad ascoltare e dar credito neanche ai politici che

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4 avrebbero dovuto fare opposizione? Forse perché da loro, mi sarei aspettato di sentire parlare di giustizia e dei mille problemi che l’attanagliano, quali le lungaggini dei processi piuttosto che i problemi personali di questo o quel politico e le mille difficoltà di veder affermati i propri diritti, circostanza questa che tiene lontani ipotetici investitori come, se non più, di quelli legati alle lungaggini burocratiche ed ai costi del lavoro, di leggi dignitose in tema di testamento biologico e fecondazione assistita, di rispetto dell’ambiente e del territorio che sembrano assumere importanza solo quando la natura ricorda a tutti che i suoi elementi non possono essere piegati a piacimento. Forse perché avrei voluto sentir parlare di una riforma fiscale che possa creare un modello equo nel pagamento delle tasse, di un progetto per la scuola e l’università che consenta il loro funzionamento in maniera corretta, riattivando quell’interscambio tra classi sociali che nel dopoguerra ha consentito a chi aveva voglia e capacità di migliorare la propria condizione, di un sistema sanitario e di assistenza funzionanti che consentano il primo di dare tranquillità a chi è

Editoriale

malato e il secondo a chi è solo di sentirsi un po’ meno solo e circondato o, almeno sfiorato, da una solidarietà umana, abbandonando modelli sociali che paesi lontani dalla nostra civiltà e dalla nostra cultura sembrano imporci. Forse perché avrei voluto assistere a chiare prese di posizione nei confronti di quei soggetti che, indipendentemente dall’appartenenza politica, nell’esercizio delle loro funzioni di gestione della cosa pubblica hanno sicuramente violato norme non scritte, offendendo la dignità dei cittadini con i loro eccessi e con la loro tracotanza. Forse perché è arrivato il momento di restituire ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti e di affermare, senza bisogno di leggi, che anche la presenza sulla scena politica, come tutte le altre attività, abbia un inizio ed una fine. on dò alcun credito a quei movimenti che si ispirano a leader carismatici o presunti tali, pertanto, è giunto il momento che i partiti, riappropriandosi del ruolo proprio della loro ragion d’essere, si affranchino da logiche che hanno sin qui consentito ai governi di emanare provvedimenti di natura squisitamente ragionieristica, che

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hanno avuto si l’effetto di evitare il fallimento dello Stato, ma che come conseguenza hanno creato una situazione di grave depressione, e non solo economica. Occorre che la politica sappia dare rilevanza a valori quali il merito e la competizione, provocando la rottura di barriere corporative e lo smantellamento di un sistema di malaffare che incombe come una cappa su tutte le attività di riferimento statale. Occorre, per uscire da questo buco nero nel quale sembriamo precipitare sempre più, che siano suscitati coraggio, energie e entusiasmo, che sia ridato un volto alla massa degli elettori e voce alle loro istanze e, soprattutto, che sia data fiducia e una speranza ai giovani la cui unica certezza per il futuro sembra essere la condanna al pagamento dei debiti contratti dalle generazioni che li hanno preceduti. ’ nella convinzione che la precarietà della situazione in cui viviamo non consente di delegare ad altri scelte destinate ad assumere un’importanza di grande rilevanza per il futuro che comincerò ad ascoltare coloro che si candideranno ad amministrare la cosa pubblica per cercare di fare se non la scelta migliore, quella che ritengo meno peggio.

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In capertina la “Scuola di Atene” di Raffaello Sanzio, affresco situato nella Stanza della Segnatura, Palazzi Apostolici, Città del Vaticano. Le figure al centro raffigurano Aristotele (più giovane) e Platone (più anziano) che discutono di etica e politica


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Monito

“Sempre caro mi fu (mi è!) quell’ermo colle”

“Per evitare che la crisi degeneri siamo tutti chiamati a fare dei sacrifici…” (Giorgio Napolitano, 19 luglio 2012) Aggredire gli sprechi della “casta” da certo tempo è come “sparare sulla Croce Rossa”, solo che in questo caso la Croce Rossa non distribuisce aiuti ma se li tiene per sé e, soprattutto, i colpi sono “a salve”. Non c’è politico, nazionale o della più sperduta periferia, che non si spenda “focosamente” in pubblico per denunziare i privilegi dei così detti rappresentanti del popolo e dei club elettorali che li sostengono. Ma nello stesso tempo non c’è politico, o “polichetto” di periferia, che non mostri il retro-faccia di ripresentarsi puro e candido a richiedere (e qui viene il peggio… ottenere!) un nuovo mandato elettorale per non lasciare poltrona e privilegi. Quando un anno fa tutto sembrava perso e maggioranza e opposizione facevano a gara a chi si allontanava di più dalle responsabilità di governo, la casta ha aperto un “ombrello” tanto grande che sembrava un ombrellone, ma che poi si è rivelato, proprio in questi ultimi giorni, un ombrellino da passeggio per di più malconcio e consumato da non reggere affatto la pioggia che è caduta e sta cadendo in abbondanza (e non solo figurativamente, lo sanno bene gli abitanti della Maremma). L’ombrello (-one, -ino) era stato indivi-

duato nell’Alta Carica, nell’Uomo del Colle, il Galantuomo super partes. Ora, a prescindere dal fatto che l’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non ha la caratura ideologica, né un glorioso passato, tale da meritare tanto onore (tutto sommato la sua vicenda politica è quella di un personaggio abbastanza “grigio”, di secondo piano dell’epoca grande Partito Comunista di Pietro Ingrao, Nilde Iotti, Enrico Berlinguer, tanto per citare alcune nomi di vero grande prestigio umano e politico), questo signore proveniva esattamente dalla stessa casta della quale ha conservato, anche nel nuovo “Alto Incarico”, tutti i peggiori vizi. Nella pagina che segue raccontiamo alcuni “numeri” dello sfarzo insensato di beni, personale e mezzi, che circonda una carica istituzionale tutto sommato modesta e di pura vigilanza, così come voluta dai Costituenti che, memori delle tendenze autocratiche della classe politica italiana, hanno voluto scindere in più cariche i diversi poteri del nuovo Stato repubblicano (la nostra Costituzione contempla ben cinque posizioni “apicali” sostanzialmente equivalenti: Parlamento, Governo, Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale e Consi-

glio Superiore della Magistratura). Se oggi coniughiamo il “severo monito” trascritto sotto la foto del Capo dello Stato, con i dati numerici di costi, appannaggi, mezzi e personale elencati nella pagina che segue, di “Alta Carica” resta ben poco e verrebbe da dire che nel proverbiale “fascio” c’è davvero la stessa “erba”. Sia chiaro che con questo articolo non vogliamo cadere anche noi nel becero e populista “grillismo” che predica che con qualche “vaffa…” si possono risolvere i gravissimi problemi della crisi epocale che sta travolgendo il capitalismo occidentale (almeno nella versione che abbiamo sino a oggi conosciuto e che ci aveva illuso - per chi si era fatto illudere! - del miracolo della crescita infinita), vorremo solo guardarci allo specchio e prendere atto che non saranno né “unti del signore” barzellettieri, né contabili bocconiani in loden, né, infine, “vibranti galantuomini”, a guidarci fuori da questo baratro. Solo dal mondo del lavoro, dalla forza e dall’intelligenza dei lavoratori, può rinascere una cultura politica e morale in grado di spazzare via gli sciacalli della ricchezza finanziaria, virtuale e parassitaria, a rimettere l’uomo reale al centro della sua storia. (Sandro Ridolfi)


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Monito

Ma quanto mi costi?

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l funzionamento del Quirinale è costato 228 milioni di euro nel 2010 (624.000 euro al giorno, 26.000 euro l’ora), contro 231 milioni di euro nel 2009 prima che Giorgio Napolitano decidesse di adottare “pesantissimi tagli” alle spese (più che altro limitatisi alla riduzione del personale comandato da altre amministrazioni). La Presidenza della Repubblica Italiana, per svolgere funzioni meramente di controllo, garanzia e rappresentanza (“notarili” se non “cerimoniali”, non certo esecutive come in ogni repubblica presidenziale), dispone di ben 1.807 dipendenti divisi tra: addetti di ruolo alla Presidenza (tra cui 108 appartenenti allo “staff personale” del Presidente, assunti con contratto in scadenza al termine del settennato) e unità del personale militare e delle forze di polizia distaccate per esigenze di sicurezza (tra cui 297 corazzieri). Un organico aumentato del 50% negli ultimi dieci anni e tre volte negli ultimi 20 anni; il cui costo si attesta sui 129 milioni di euro l’anno. l Parco Auto presidenziale conta: una Lancia Thesis limousine; tre Maserati; due Lancia Thesis blindate; una Lancia Thesis di riserva; 2 Lancia Flaminia 335 del 1961 (utilizzate per le sfilate del 2 giugno); 14 auto (una di proprietà e 13 in leasing) a disposizione dei Presidenti emeriti della Repubblica, del segretario generale, del segretario generale onorario e dei 10 consiglieri personali del presidente della Repubblica; 10 ulteriori auto di servizio. na nota particolare merita il capitolo stipendi Nel luglio 2011 il sito del Quirinale ha platealmente annunciato la generosa rinunzia “a termine” (ovvero fino al 2013, alla scadenza del suo mandato) da parte del Presidente all’adeguamento all’indice dei prezzi al consumo del suo appannaggio personale; il “ponderoso sacrificio” quirinalizio consisterà, in concreto, nella rinunzia a 68 euro mensili. Da quando è stato eletto, il Presidente ha già visto aumentare di circa 2.000 euro al mese l’assegno ricevuto e oggi lo stipendio del Capo dello Stato ammonta a circa 20.000 euro lordi al mese (239.182 euro l’anno) e, come se non bastasse, il Presidente cumula anche il vitalizio parlamentare.

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en altri esempi, in realtà, giungono d’oltralpe: - in Francia il Presidente Hollande, dopo appena 10 giorni dalla vittoria alle urne, ha mantenuto la promessa di tagliare del 30% lo stipendio presidenziale, così decurtato di circa 7.000 euro al mese, passando dai 21.300 euro lordi di Nicolas Sarkozy a 14.910 euro (l’uomo più potente di Francia finirà col guadagnare 178.920 euro lordi l’anno; - in Germania il presidente federale percepisce uno stipendio annuo netto di 199.000 euro, disponendo poi d’uno straordinario (78.000 euro nel 2006) per le sole spese di rappresentanza ed interventi di vario tipo; - in Spagna re Juan Carlos, nel luglio 2012, ha deciso di ridurre il proprio stipendio del 7,1%, ovvero di ben 21.000 euro l’anno, portandolo a 272.752 euro annui, e quello di suo figlio, il principe Felipe, di 10.000 euro l’anno, riducendolo a 141.376 euro; - José Alberto Mujica Cordano, detto “Pepe”, è da due anni Capo di Stato in Uruguay ha inaugurato una Presidenza fondata su austerità, umiltà e solidarietà e, pur percependo uno stipendio di 250.000 pesos al mese (circa 10.000 euro) e un’ulteriore pensione da senatore, trattiene per se solo (!) “800 euro”, devolvendo il resto in beneficienza in favore del Fondo “Raúl Sendic” (un’istituzione a sostegno dello sviluppo delle zone più povere del suo Paese), rifiuta di disporre di alcuna scorta a protezione della propria persona, ha chiesto come auto presidenziale una semplice utilitaria, una Chevrolet Corsa (usata solo durante gli in-

contri ufficiali); ha persino aperto le porte della sua residenza ufficiale ai senza tetto, disponendo che una vasta area del Palacio Suarez y Reyes ospiti i più bisognosi! l costo del Quirinale non ha paragoni nel mondo Qualche esempio: a fronte dei 228 milioni del Quirinale la Casa Bianca costa 136 milioni di euro l’anno; l’Eliseo (la Presidenza francese) 112,5 milioni di euro (meno della metà del Quirinale, pur contando il doppio in quanto a poteri attribuiti dalla Costituzione); Buckingham Palace (la Monarchia inglese) 57 milioni (ovvero quattro volte meno il nostro Capo di Stato); per la Presidenza federale tedesca nel 2006 sono stati stanziati solo 19 milioni 354 mila euro. A fronte dei 1.807 collaboratori del nostro Presidente l’imperatore del Giappone dispone di un personale composto da circa 1.000 unità; il presidente francese dispone di 941 dipendenti, di cui 365 militari (la metà dei dipendenti del Quirinale); il re di Spagna di 543 dipendenti; il presidente americano Barak Obama di 466 fra consiglieri, funzionari, impiegati, addetti alla sicurezza ed alla manutenzione, ma anche cuochi, giardinieri, ecc; la regina Elisabetta II d’Inghilterra di circa 300 dipendenti (1/6 dei dipendenti dell’alto Colle romano); il presidente federale tedesco (che, come il nostro, ha compiti di mera rappresentanza e garanzia) di 160 (meno di 1/10 rispetto al Quirinale); il Presidente irlandese (anch’egli svolgenti funzioni simili al nostro) di soli 12 dipendenti.

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Sviluppo

Foligno: città assediata o in grande sviluppo? Intra Tupino e l'acqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, fertile costa d'alto monte pende, onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole; e di retro le piange per grave giogo Nocera con Gualdo. Di questa costa, là dov'ella frange più sua rattezza, nacque al mondo un Sole, come fa questo talvolta di Gange. Però chi d'esso loco fa parole, non dica Ascesi, ché direbbe corto, ma Oriente, se proprio dir vuole. (Dante, Divina Commadia, Paradiso XI)

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Sviluppo

DI LORENZO BATTISTI

Che la città di Foligno sia ormai divenuta un enorme cantiere a cielo aperto è questione ampiamente verificata e documentata, così come sono ormai vistose le proteste dei commercianti e dei residenti del centro storico. O meglio, questo è quanto scrivono i giornali, quanto affermano alcuni esponenti politici e i rappresentanti delle varie categorie, paradossalmente anche quella degli imprenditori. Inevitabile è la tentazione, da parte di tutti, di strumentalizzare politicamente i disagi di tante opere intraprese contemporaneamente, per poi cavalcare il malcontento generale e prestare il fianco a facili distorsioni. Vero è che il cittadino folignate è scaltro, avvezzo ai facili proclami e assuefatto ai soliti urlatori, così non reagisce e attende che le opere si concludano stancamente: i caduti si conteranno, per le ferite non c’è problema. La solita voce fuori dal coro “Piazza del Grano”, in un recente editoriale, ha preso spunto dalla difficile situazione dei lavori di ripavimentazione del centro urbano per riaffermare il “rispetto” dei cittadini, dei loro diritti umani e psicologici, esortando, tuttavia e al contempo, la rinascita di una cultura dell’amministrazione locale e della città/comunità del vivere civile. Interpretando il pensiero dell’Editore sembrerebbe che poco hanno fatto gli abitanti di Foligno per modificare lo stato di cose e contribuire al miglioramento della comunità. Si badi bene, non v’è dubbio alcuno che l’Amministrazione avrebbe potuto gestire la questione “pavimentazioni” assecondando le esigenze di cittadini e commercianti, ma è altrettanto evidente che nessuno si è realmente proposto per promuovere una idea alternativa, nessuno si è preso la briga di studiare il programma lavori e armonizzarlo in relazione agli eventi, festività e quant’altro. L’unico comitato cittadino che sembra aver suscitato qualche interesse e attirato un po’ di attenzione è nato (e morto) per salvare – invano – le

palme di Piazza S. Domenico. In sostanza, una volta distribuiti oneri e onori, non è proprio il caso di perdere ulteriore tempo con il rischio di perdere le occasioni che, per alcuni versi misteriosamente, si stanno proponendo alla Città. Una posta importante dell’attività di spesa delle amministrazioni locali riguarda la disponibilità e la capacità di utilizzare al meglio le risorse da destinare alla conservazione e alla salvaguardia del territorio. La fragilità geologica e ambientale del Paese richiede una particolare sensibilità e una vigilanza che si manifesta con interventi concreti. Ben poco possono fare i Comuni con le proprie risorse, se non appunto vigilare o gestire microinterventi o azioni di emergenza. Più è ampio il territorio più complesso e difficile è il compito delle amministrazioni. Ebbene, se nel resto della Nazione l’edilizia

risulta pressoché ferma, nella città di Foligno vi è un certo fermento, ma in modo del tutto differente dal recente passato, ove le aziende erano impegnate nella ricostruzione post-sisma e nella “inutile” cementificazione delle campagne limitrofe. Foligno si sta ristrutturando, è fortemente impegnata nella ricerca di nuove soluzioni estetiche, energetiche e ambientali degne di una capitale nordeuropea. Del resto è sufficiente fare un giro per le vie del centro e in prossimità dell’antica cerchia muraria per comprendere che vi sono interventi importanti che riguardano palazzi storici, antichi conventi e, perché no, vecchi poli industriali. Sembra, in primis, che sia stata fermata l’espansione del piano regolatore; in tal senso concordiamo sul fatto che non si deve più costruire neanche un centimetro quadrato di terreno agricolo.


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Recuperare

Le aree dove si richiede un pronto intervento dell’Amministrazione 1. L’Area dell’ex Ospedale

Partiamo dal centro storico, dove si attende con sempre più impazienza il completamento dell’area dell’Ex Ospedale di Foligno. La Croce storica è stata completata e meravigliosamente restituita alla collettività per essere destinata ad ospitare una clinica medica. Che cosa si aspetta a ricostruire il resto del quartiere? Perché non si urbanizza l’area con nuove fogne, parcheggi e servizi?

2. L’area dell’Ex Zuccherificio

Con simili intenzioni, infatti, non si riduce l’occupazione, non si blocca l’edilizia, ma la si indirizza verso la ristrutturazione dell’esistente. Negli ultimi 50 anni si è costruito in maniera vergognosa, e ora è il momento di mettere a posto disastri fatti da 50 anni, e il lavoro non è poco. Così facendo si costringerebbero tutti coloro che lavorano nell’edilizia a implementare la loro professionalità per convertire gli scempi del passato e per costruire con metodologie più rispettose dell’ambiente. La riqualificazione dell’esistente è il punto, soprattutto in un territorio come il nostro che non è destinato ad accogliere nuovi insediamenti, ma dove l’esistente è ancora dignitoso e a tratti affascinante, occorre solo rimettere a posto, abbattere le tante costruzioni obsolete e antiestetiche e, soprattutto, ricostruire in maniera più decente. In tale contesto deve

essere rivalutata la questione della riqualificazione del verde urbano che ha un’importanza strepitosa per migliorare la qualità della vita. Parlare del verde urbano, a Foligno, può sembrare ridicolo quando a cinque minuti ci sono, per fortuna, ancora splendidi boschi. Ma ci si è sempre confusi che il “verde” sia qualcosa da costruire, qualche viale alberato, qualche giardinetto, dimenticando invece che il rapporto tra organico e inorganico nelle città deve essere riorganizzato. Occorre percepire a pieno l’importanza dell’uso del verde nelle città. Portando tali principi nel concreto della città di Foligno, vi sono delle macro aree che devono, al più presto, essere oggetto degli interventi auspicati per iniziare un nuovo percorso e un nuovo sviluppo della città nella direzione di favorire la riqualificazione delle aree urbane dismesse.

Al di là delle innumerevoli polemiche che hanno accompagnato il dibattito anche sulle pagine di questo giornale, non può essere accolta che con soddisfazione la demolizione dei vecchi ruderi, la bonifica del sottosuolo e la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria. Chi ancora scrive del rischio di cementificazione dell’area dimentica che essa, per sua natura e da oltre cento anni, è così conformata, con le vasche che contenevano gli acidi interrate intrise di materiali tossici come l’amianto. La realizzazione del parco fluviale è da tutti sottovalutata, quasi fosse un intervento di facciata, perché nessuno ha ancora compreso che vi sarà un grande giardino pubblico sulle sponde del fiume, certamente meglio della strada che ora strozza le mura e l’accesso al Topino

3. L’area dell’Ex Sansificio L’area di proprietà del Consorzio Agrario Provinciale, oggetto di bando pubblico di vendita e acquistata da una società composta da imprenditori folignati, è compresa tra Via Fiamenga e Via Arcamone, fino alla cantina Terre De’Trinci, e comprende al suo interno la struttura dismessa dell’ex sansificio. Nell’ottica di una riqualificazione urbana, quella che sarà la nuova “porta” di Foligno non può essere abbandonata con ruderi post-industriali, ma è evidente che dovrà al più presto essere oggetto di demolizione e riqualificazione.


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Recuperare

Crisi dell’edilizia sistematica nelle società industrializzate? Il settore costruzioni tende a trainare l’economia nelle prime fasi dell’industrializzazione, per poi ridurre progressivamente il proprio peso quando l’economia ha raggiunto un certo grado di maturità. In Italia il punto di svolta sembra essere arrivato a fine anni Sessanta, quando le costruzioni hanno smesso di svolgere il ruolo di traino della crescita economica e la loro importanza economica ha iniziato a declinare. A metà anni Novanta si è però verificata una temporanea inversione di tendenza, con un vero e proprio nuovo boom edilizio, conclusosi a metà anni Duemila con l’arrivo della crisi. Riportiamo brevemente un intervento di Daniele Girardi tratto da edilbox.it. “A partire dagli anni ’70 gli economisti hanno iniziato a interrogarsi circa il ruolo svolto dal settore costruzioni nei processi di sviluppo economico. Per altri settori dell’economia il nesso appare piuttosto chiaro. All’avviarsi del processo di crescita economica il settore agricolo tende a perdere peso, in termini di risorse e occupazione, a favore dell’industria (industrializzazione). Questa a sua volta, nelle economie mature, subisce una fuoriuscita di fattori produttivi, attirati dal comparto dei servizi (terziarizzazione). Accademici come Turin e Strassman, e altri dopo di loro, si chiesero se anche il settore delle costruzioni seguisse un qualche tipo di traiettoria che riflettesse il grado di sviluppo economico di un paese.

In estrema sintesi, sulla base di analisi statistiche cross-section e dopo qualche correzione di rotta, si giunse alla conclusione che il settore delle costruzioni, all’aumentare del reddito pro-capite di un paese (indicatore scelto per misurare il fenomeno della crescita economica), segue una traiettoria ad U rovesciata. Cioè il peso delle costruzioni sull’economia cresce nelle prime fasi dello sviluppo, per poi cominciare a decrescere una volta che l’economia ha raggiunto un certo livello di industrializzazione.

Nei paesi a basso reddito pro-capite le costruzioni tendono, infatti, ad aumentare progressivamente il proprio peso economico.

L’urbanizzazione e la realizzazione delle infrastrutture fondamentali (strade, ferrovie, acquedotti) e degli impianti produttivi sono i processi che trainano le prime fasi della crescita economica. Così il settore delle costruzioni registra tipicamente tassi di crescita maggiori rispetto al resto dell’economia, aumentando il proprio peso relativo. Anche perché è un settore che in questa fase richiede un livello di imprenditorialità meno sofisticato e assorbe una grande quantità di manodopera non qualificata, per cui è particolarmente adatto a trainare la crescita economica in questa fase iniziale.

Tuttavia, una volta che i fenomeni elencati (urbanizzazione, infrastrutturazione, industrializzazione) hanno esaurito la propria spinta, perché ormai giunti a maturità, la dinamica s’inverte. L’investimento in costruzioni comincia a crescere in misura minore rispetto al resto dell’economia, che ormai è trainata dalla crescita della produttività dell’industria e dei servizi. Cosi, nelle economie industrializzate il peso economico del settore costruzioni tende a seguire una traiettoria declinante. Il modello stilizzato è molto semplice e intuitivo. Ma si adatta bene alla realtà italiana? Per misurare il peso del settore costruzioni sull’economia italiana possiamo utilizzare principalmente tre indicatori: il contributo alla formazione di valore aggiunto, la produzione del settore in percentuale sulla produzione nazionale complessiva, e la quota di occupati. Per il tema che stiamo affrontando le prime due misure sembrano le più adatte. La serie storica che ci permette di andare più lontano nel tempo è quella sulla produzione del settore. Per il periodo che va dal 1926 al 2010 abbiamo tre serie Istat, in principio non comparabili tra loro ma che per i nostri scopi possiamo rendere comparabili effettuando un’omogeneizzazione molto rozza. I dati sembrano confermare la validità del modello nel contesto italiano. Se si escludono gli anni della seconda guerra mondiale e i due immediatamente successivi (durante i quali è stata vietata ogni attività di nuova co-

struzione allo scopo di indirizzare le poche risorse disponibili alla ricostruzione), l’importanza economica delle costruzioni è cresciuta costantemente nel periodo dell’industrializzazione, fino a raggiungere un picco nel 1970, per poi iniziare a declinare quando l’economia era ormai industrializzata. Negli anni Cinquanta e Sessanta il peso delle costruzioni sull’economia è cresciuto al crescere del PIL procapite. Nella fase successiva la relazione si è invertita: a partire dagli anni Settanta il peso economico delle costruzioni ha iniziato a scendere mentre il PIL procapite cresceva. È interessante notare come a metà anni Novanta si sia registrata una nuova temporanea inversione del rapporto: durante il boom edilizio di fine anni Novanta-inizio anni Duemila, il peso delle costruzioni sull’economia ha ripreso a crescere al crescere del reddito procapite, segno che le costruzioni stavano di nuovo crescendo a un tasso maggiore rispetto agli altri settori economici. Utilizzando come indicatore del peso delle costruzioni sull’economia il contributo alla formazione di valore aggiunto, il risultato è sostanzialmente analogo, anzi l'"anomalia" del periodo 1996-2006 è ancora più evidente. I dati suggeriscono che il settore costruzioni ha trainato la crescita economica italiana negli anni Cinquanta e Sessanta. A fine anni Sessanta si è raggiunto il punto di svolta: l’economia ha raggiunto un grado di maturità e di capitale fisso edilizio tale da non necessitare più una crescita degli investimenti in costruzioni maggiore della crescita economica. Così, negli anni Settanta e Ottanta la dinamica si è invertita, e gli investimenti in costruzioni si sono stabilizzati mentre il PIL reale continuava a crescere. 
 A metà anni Novanta è però scoppiato un nuovo boom edilizio. Il settore costruzioni ha assunto nuovamente un ruolo di traino della crescita economica. Il nuovo boom delle costruzioni ha però assunto caratteri speculativi ed è sfociato in una crisi da sovraproduzione, che arrivando in concomitanza con la crisi finanziaria globale ha provocato la peggiore crisi del dopoguerra per il settore costruzioni italiano, che nel periodo 2007-2012 è andato peggio del resto dell’economia, tornando a ridurre il proprio peso economico.


Incompetenti

Spread, rating , mercati e debito pubblico La crisi è finanziaria e non economica

DI

SANDRO RIDOLFI

Un anno fa eravamo convinti (e lo siamo ancora!) di essere caduti nelle mani di funzionari del sistema speculativo della finanza mondiale e dell’Opus Dei. Oggi abbiamo anche la certezza documentata di essere finiti nelle mani di incompetenti venditori di fumo. Lo spread cala e l’economia nazionale è salva! Che stupidaggine! A parte che l’economia nazionale non sta calando ma precipitando ben più dello spread, in realtà il primo effetto non è merito dei falsi tecnici, il secondo è invece esattamente colpa loro.

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Incompetenti

Premessa

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o “spread” da circa un paio d’anni viene considerato il termometro della salute dell’economia italiana: 300 “normale”, 400 “febbre”, 500 “morte”. Un anno fa, alla vigilia della resa del governo Berlusconi, la temperatura dello spread aveva superato la febbre alta e si stava avvicinando pericolosamente alla soglia della morte. E’ arrivato il senatore tecnico, la febbre ha smesso di salire, nei mesi successivi ha continuato a oscillare nella scala medio alta, negli ultimi giorni si è avvicinato al normale e promette persino di scendere ancora. Il miracolo di “San Mario” (Monti) si sarebbe realizzato, il sangue si è sciolto (senza offesa per S. Gennaro) e dunque l’economia italiana è salva, o almeno sulla via della guarigione. Cazzate! (scusate sempre l’inglese). Se ci guardiamo at-

Economia reale e finanza virtuale

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ominciamo con l’affermare che la crisi violentissima che stiamo vivendo non è economica, ma finanziaria. Cosa vogliono indicare i due diversi termini? Il termine “economica” individua il sistema della produzione dei beni e dei servizi, cioè il mondo “reale” del lavoro; il termine “finanziaria” individua il diverso mondo della moneta che viaggia al disopra dell’economia reale, tecnicamente necessaria per agevolare lo scambio dei beni (la merce viene venduta in cambio di denaro che servirà per acquistare nuova merce), uno strumento di servizio dunque e non un bene. La degenerazione dell’economia capitalista ha invece trasformato il denaro da mezzo di intermediazione, per così dire “neutro”, in un bene produttivo di ricchezza, ma di una ricchezza non “reale”, bensì “virtuale”. Una fabbrica che aumenta la quantità dei suoi prodotti realizza una crescita della ricchezza reale; una banca che aumenta i propri utili, lucrando interessi sui prestiti, non aggiunge nulla all’economia reale, bensì realizza un aumento di una ricchezza nominale che, se non corrisponde alla ricchezza reale, è puramente virtuale. Facciamo un esempio. Una fabbrica produce 100 paia di scarpe del valore di 1 euro ciascuna, la ricchezza prodotta sarà di 100 euro. Se raddoppia la sua produzione a 200 scarpe la ricchezza salirà proporzionalmente a 200 euro (solo un cenno: questo è il parametro del PIL che indica la ricchezza di una nazione in termini di produzione di beni reali). Se la moneta in circolazione è pari a 100 euro prima dell’aumento della produzione delle scarpe e sale poi

torno, ma potremmo vederlo anche a occhi chiusi, la situazione dell’economia italiana è peggiorata, sempre più grave, al rischio del collasso. Cosa c’entra allora lo spread con l’economia reale? E cosa ha fatto il super tecnico “San Mario” per meritare l’acclamazione di salvatore della Patria? Niente! Peggio, con le sue insensate politiche di rigore, tagli, aumento delle imposte, e altre violenze sulle classi più deboli, sta distruggendo giorno dopo giorno quel che resta del sistema produttivo manifatturiero italiano. Se qualcuno non lo ferma rischia di far fare all’Italia la fine dell’Argentina del 2001 e questa volta non si salvano neppure le banche datrici di lavoro dei governanti tecnici. Ma andiamo per ordine: “popolarizziamo” alcuni termini tecnici, poi proveremo a trarre alcune conclusioni.

a 200, la ricchezza finanziaria è pari a quella reale e la moneta ha esattamente la funzione di agevolare lo scambio del prodotto scarpe con degli altri prodotti di eguale valore . Ma se la moneta in circolazione, per effetto di una speculazione sulle transazioni monetarie di scarpe contro altri beni, sale non da 100 a 200, ma magari a 300, la sua crescita non indica un aumento della ricchezza reale, ma realizza un puro effetto illusorio di una maggiore ricchezza “virtuale”. uando tra i due mondi, reale e virtuale, si produce una differenza, si verifica una compressione dell’economia reale che non riesce più a sostenere il peso della sovrastante finanza virtuale e si giunge a una crisi che, normalmente (logicamente) dovrebbe risolversi con una svalutazione della ricchezza virtuale per riallinearla a quella reale, si “brucia” cioè (come si era soliti sentire nei telegiornali sugli andamenti negativi delle borse) sostanzialmente moneta in eccesso, cioè, in termini di valore, “nulla”. Poiché però, come detto, il denaro da mezzo di pura intermediazione è divenuto bene produttivo di rendita, i proprietari del denaro rifiutano di “bruciarlo” e pretendono che lo stesso continui a rendere i profitti promessi prelevandoli dall’economia reale, alla quale vengono così sottratti i mezzi necessari per gli investimenti e finisce lei per essere “bruciata”. Ancora un esempio. Un usuraio (non diciamo se privato o “istituzionale”) presta denaro a un imprenditore, che ne ha necessità, contro il pagamento di forti interessi che superano le capacità di redditività dell’impresa. L’imprenditore per pagare gli interessi è costretto a sottrarre risorse alla propria impresa, finché non

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ce la fa più e l’impresa muore. Questo è ciò che sta succedendo nel sistema economico dell’intero occidente capitalista. Non è l’economia reale, cioè la capacità del sistema di produrre beni e servizi, che è entrata in crisi; è la finanza che, arrivata a dimensioni “mostruose” sino a 2, 4 o 6 volte al disopra della ricchezza reale (il dato è ancora non confessato nella sua drammatica verità); nel tentativo disperato di salvare se stessa (cioè di mantenere le promesse di rendita fatte ai propri investitori) sta cercando di drenare dall’economia reale tutte le risorse possibili, finendo cosi per strangolarla. Appartiene al notorio, infatti, che le banche, “gonfie” di titoli di ricchezza virtuale, non stanno più prestando soldi alle imprese che ne hanno necessità per sostenersi o investire, al contrario le stanno obbligando a rientrare anche delle esposizioni sino a ieri tranquillamente accordate, così portandole al fallimento o quanto meno al fermo produttivo.

Il debito pubblico

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i afferma (la finanza afferma) che l’origine della crisi è nel debito pubblico; è sbagliato scientificamente e sfacciatamente falso politicamente. Proviamo a chiarire alcuni concetti di base sul debito pubblico. Una nazione svolge diversi compiti (attività) in favore dei propri cittadini; compiti che negli anni sono cresciuti a dismisura e non solo con riferimento all’ampliamento dei servizi alla società, quali l’istruzione, la sanità, ecc., ma anche direttamente funzionali allo sviluppo dell’economia del paese, quali le infrastrutture delle reti di trasporti, energia, ecc.


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cessive, non tanto in termini assoluti dell’importo degli investimenti in relazione al probabile ritorno economico-fiscale, quanto in termini di proiezione di un lunghissimo tempo di ritorno, con ciò ipotecando un futuro di per sé sempre incerto. L’eccesso di spesa pubblica ha avuto, in verità, una ragione (giustificazione) più che plausibile: quella della promessa di una crescita infinita indotta dal “miracolo” della globalizzazione predicato sino a ieri dai “sapienti della finanza, (il commissario europeo Mario Monti in testa). Questa crescita infinita non c’è stata e, come ben sappiamo, la truffa si è svelata, sicché l’indebitamento delle nazioni (tutte) alla fine è risultato squilibrato almeno nel breve-medio tempo. Le nazioni hanno dunque bisogno oggi di ri-finanziare un debito che non riescono a sostenere con un ritorno fiscale inferiore alle attese a causa di una crescita economica insufficiente. Per reperire le risorse finanziarie necessarie le nazioni di rivolgono ai “mercati”; ma per accedervi debbono sottostare a due “tagliole” imposte dalla finanza: lo “spread” e il “rating”.

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Lo spread e il rating

er sostenere tali compiti la nazione attinge al prelievo fiscale, ma quando le necessità aumentano finisce anche con il ricorrere, più o meno come una qualsiasi persona, all’indebitamento. L’indebitamento non è affatto pregiudizialmente sbagliato, e non solo in termini di assicurazione dei diritti ed equità sociale (valori rispetto ai quali una nazione ha il dovere di indebitarsi se necessario), ma anche in termini strettamente economici spiegabili con una semplice equazione: - la nazione si sostiene con il prelievo fiscale che incide sulla ricchezza, sicché tanto maggiore è la ricchezza tanto maggiore potrà essere il prelievo e dunque le risorse disponibili per la spesa pubblica (raccogliamo nel termine “spesa” sia i servizi che gli investimenti); - se l’economia nazionale cresce, anche grazie agli investimenti pubblici nel senso più ampio (dalla scuola che prepara i futuri lavoratori, alla salute ne garantisce l’efficienza anche fisica, alle infrastrutture che consento alle fabbriche di insediarsi e produrre), cresce anche il prelievo fiscale che in tal modo ripaga il debito che, alla fine, non è stato altro che un’anticipazione. l percorso, nella sostanza, non è diverso da quello di un qualsiasi imprenditore privato che, prima s’indebita per realizzare la fabbrica, e poi ripaga il debito con il profitto rinveniente dalla vendita dei prodotti realizzati. Se non si indebitasse prima per realizzare la fabbrica non potrebbe poi produrre e guadagnare. Il debito di una nazione, quindi, non è mai causa di crisi economica perché, anzi, è proprio la spesa pubblica il primo motore della crescita dell’economia di una nazione (occupazione di dipendenti che vanno a comporre la massa dei consumatori dei beni e servizi prodotti dal sistema economico, realizzazione e messa a disposizione di infrastrutture che agevolano la nascita e lo sviluppo delle imprese, ecc.). Le nazioni (tutte, l’Italia non è un’eccezione particolare) si sono indebitate per far crescere i loro paesi sia in termini di stato sociale (diritti della persona), che in termini d’investimenti infrastrutturali funzionali alla crescita economica. Certamente in taluni casi (vedi Grecia, ma anche Spagna e Portogallo, le ultime economie “esplose” grazie all’Unione Europea) l’indebitamento a raggiunto dimensioni ec-

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n termini semplici lo spread è l’indice di affidabilità dei titoli del debito pubblico di una nazione, cioè della sua capacità di trovare prestatori disponibili a finanziarie il suo debito a fronte, ovviamente, del pagamento di interessi. Tanto minore è l’affidabilità della nazione debitrice, tanto maggiore sarà il saggio d’interessi che sarà costretta a pagare ai finanziatori. Lo spread è dunque una unità di misura relativa che indica lo “scarto” tra l’interesse minore che può pagare ai suoi finanziatori la nazione più solida (nel sistema economico europeo oggi è la Germania) e il maggiore interesse che sarà costretta a pagare una nazione meno solida. Parametri convenzionali basati sulle stime di marginalità del prodotto economico di una nazione stabiliscono che un rapporto da 1 a 3 (in centesimi da 100 a 300) è normalmente sostenibile per la nazione meno solida ma economicamente ancora prospera e “vivace” (ad esempio l’Italia), un più alto rapporto da 1 a 5 (100/500) supera le capacità di rimborso di una nazione evidentemente in crisi economica, che

cioè non è più in grado di produrre una marginalità tale da ripagare gli interessi sul prestito. Facciamo un esempio. Una nazione che produce in un anno un PIL di 100 e consuma per la spesa pubblica (servizi e investimenti) 99, volendo affrontare una spesa o un investimento straordinario può assumere un debito rimborsabile in dieci anni: di 9 se l’importo degli interessi imposti dai suoi finanziatori è pari a 1; non più di 5 se l’importo degli interessi è pari a 5. La differenza tra la percentuale di interessi 1 e quella 5 è data dalla valutazione che il prestatore fa circa la probabilità che il prodotto della nazione debitrice raggiunga l’obiettivo di produzione 100 e che quindi la stessa disponga di quel margine dedicato al rimborso decennale del debito con gli interessi. Se la probabilità di raggiungere l’obiettivo è bassa il finanziatore presterà meno capitale e pretenderà un più alto interesse in tal modo riducendo il rischio della mancata restituzione. Quindi se il finanziatore, fidandosi della nazione, ha prestato 9 per riavere il capitale prestato sarà sufficiente che la nazione debitrice raggiunga almeno un risultato di prodotto 99, con l’obiettivo 100 il finanziatore incasserà anche gli interessi; se invece il finanziatore, diffidando della solidità della nazione debitrice, ha prestato solo 5, per il recupero del suo capitale sarà sufficiente che la nazione debitrice raggiunga il prodotto 95, oltre percepirà interessi sino a raddoppiare il prestito capitale in caso di raggiungimento dell’obiettivo 100. er le nazioni la probabilità del raggiungimento di un certo livello di produzione è stimata dalle società di rating (Standard & Poor’s, Moody’s, ecc.) con delle lettere che vanno da AAA (tripla A), che indica una probabilità massima e dunque un rischio minimo, alla C, che evidenzia invece una forte improbabilità e quindi un alto rischio; la lettera D indica l’insolvenza, dunque nessun prestito. Se poi la produzione della nazione debitrice, nonostante le previsioni del rating, non raggiunge l’obiettivo di produzione prefigurato, la stessa non sarà in grado di restituire il prestito e dovrà rinnovarlo sostenendo ulteriori interessi che andranno ad aggiungersi ai precedenti in una spirale a crescere che alla fine supererà ogni aspettativa di recupero e dunque giungerà alla soglia del default.

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questo punto la nazione si troverà davanti a due alternative: o aumentare il prelievo fiscale, o ridurre le sue spese, per recuperare le risorse necessarie per pagare il debito capitale e gli interessi. Tuttavia ambedue le soluzioni daranno il via a una spirale depressiva dell’economia che, non solo non consentirà di sanare il debito, ma rischierà persino di aggravarlo. Sia l’aumento del prelievo fiscale che la riduzione della spesa pubblica, infatti, sono manovre destinate a riflettersi direttamente sull’economia reale che, non solo non riprenderà a crescere, ma anzi subirà un ulteriore effetto depressivo. La caduta dell’economia reale, diminuendo la ricchezza imponibile, riduce in termini assoluti il prelievo fiscale e la nazione si troverà sempre indebitata e più povera e così di seguito a peggiorare. Un esempio: l’aliquota fiscale è un dato percentuale su di un valore assoluto, se una aliquota da 40% sale a 50%, mentre il prodotto scende da 100 a 70 il prelievo fiscale si ridurrà a 35.

I mercati e gli investitori

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l luogo dove reperire le risorse finanziarie per sostenere il debito pubblico sono “i mercati” (si usa un plurale, ma non è chiaro il perché). I “mercati” del denaro non sono un luogo fisico come il termine del tutto impropriamente utilizzato ci indurrebbe a credere (i mercati dove si scambiano le merci e “gira” l’economia reale), si tratta di luoghi virtuali, oramai completamente telematici, dove transitano immaginarie ricchezze, talmente grandi da poter mettere in ginocchio una nazione grande (economicamente) come l’Italia (non dimentichiamo che l’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa e la sesta/settima economia del mondo). Nei mercati operano gli investitori. Anche questo è un termine assolutamente improprio e fuorviante. hi sono infatti gli investitori e cosa cercano? Gli investitori finanziari, che da tempo non hanno più né nome, né identità nazionale, sono prevalentemente grandi fondi finanziari, costituiti con il denaro sottratto ai risparmiatori di tutto il mondo, adescati nella rete del guadagno facile, della rendita senza lavoro, della speculazione. Gli investitori non investono un

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Incompetenti “bel niente”, cioè non intervengono in alcuna operazione dell’economia reale (capitale di rischio in imprese produttive e simili), comprano e vendono titoli di debito, sostanzialmente pubblici (debiti sovrani, cioè emessi dalle nazioni), a volte in frazioni di secondo, spostandosi nei vari Stati del pianeta a seconda del massimo rendimento che ritengono di poter trarre, senza sapere, di più senza neppure preoccuparsi del come, dove e perché. Se vogliamo usare termini più chiari nella nostra lingua corrente potremmo dire che sono degli sciacalli che esercitano istituzionalmente l’usura. Prestano un po’ alla Germania, a basso interesse ma con grande sicurezza del recupero dell’investimento, un po’ all’Italia con un maggiore interesse e un minimo di rischio di perdita, un po’ magari anche all’Argentina, di nuovo sull’orlo di un crack come quello del 2001, a interessi altissimi proporzionati all’alto rischio della perdita. I più scaltri entrano ed escono con grande velocità, qualcuno ogni tanto ci resta dentro e perde qualche pezzo, ma mai quanto ha speculato prima di allora. Cos’è allora, in cosa consiste la “fiducia dei mercati” (dei così detti investitori) in nome della quale tutte le nazioni, Italia “montiana” in testa, stanno massacrando le loro società? Consiste nel promettere (essere credibili nel promettere) ai prestatori che il saggio usurario sarà pagato. La nazione debitrice ipoteca il presente e il futuro dei suoi cittadini e lo offre sull’altare della “credibilità” internazionale per meritare la fiducia degli speculatori.

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(limitiamoci a questo termine così evitiamo querele)

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questo punto possiamo trarre alcune considerazioni conclusive. 1) L’economia “reale” italiana non è (o almeno sino a ieri non era) in crisi; per quanto cialtrone e malconcio a causa della modestia anche culturale della nostra classe imprenditoriale, il sistema produttivo italiano non soffre l’incapacità di produrre beni e servizi, magari non eccellenti, ma ancora validi (la Fiat di Marchionne fa eccezione in negativo, così come l’industria pubblica, cantieristica e meccanica, lo fa in positivo); 2) lo Stato italiano non ha un debito

insostenibile in relazione alle sue dimensioni e capacità produttive, ancorché sia pieno di tutti i vizi dell’inefficienza, della corruzione (ma non più di tutti gli altri paesi capitalisti), dell’illegalità diffusa, tipici di un paese mediterraneo ex (ex?!) democristiano e cattolico; 3) è il sistema finanziario, quello delle banche, nazionali e internazionali, che è entrato in una gravissima crisi perché ha accumulato debiti con i propri investitori che non riuscirà mai a ripagare, non solo il capitale, ma neppure gli interessi; 4) si tratta a questo punto di scegliere: o provare a soddisfare (ma come detto è una “missione impossibile”) il sistema finanziario sottraendo risorse allo stato sociale e all’economia reale (che sono poi intercomunicanti tra di loro: meno spesa, meno consumo, meno produzione), oppure “bruciare” la finta ricchezza virtuale costruita follemente dalla finanza mondiale; 5) il governo tecnico ha scelto questa seconda opzione e ha cominciato a massacrare stato sociale e l’industria, cioè l’economia reale, cercando di spremere tutte le risorse possibili per finanziare le banche e “rassicurare” gli speculatori; questa soluzione è perdente perché tanto più la spesa e dunque l’economia reale scende, tanto meno la nazione sarà in grado di onorare il debito; l’economia muore ma la finanza non si salva. ossiamo dare a questo punto l’ultima risposta: come mai allora lo spread scende? Per una ragione molto semplice, elementare: l’offerta di titoli del debito pubblico scende in assoluto in tutto il mondo, talune nazioni (vedi Grecia, segue l’Argentina, rischiano di seguire la Spagna e il Portogallo) stanno addirittura collassando, la finanza non trova più titoli sui quali speculare e dunque si accontenta (si deve accontentare) di rendimenti sempre più bassi pur di avere qualcosa. Lo spread scende da solo proprio a causa dell’insipienza, incompetenza, inefficienza dei governi tecnici che stanno uccidendo i debitori. L’usuraio ha ucciso il debitore insolvente, ora che ne farà di tutto quel denaro rubato? rofessor Monti, ma dove l’ha presa la laurea in economia, per corrispondenza o all’Università di Tirana come il “Trota”?

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Sovranità

Sovranità monetaria

“Tu banca vuoi lucrare sul prestito di denaro? Prima devi dimostrare di averlo davvero, fisicamente, quel denaro prima di prestarlo. Troppo comodo farselo dare dalla Banca Centrale, che ha come ruolo quello di fabbricalo dal nulla, per poi taglieggiare famiglie, aziende e interi Stati, imponendo interessi esorbitanti”.

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Come eliminare il Debito Pubblico e il Signoraggio Bancario e tornare alla Sovranità Monetaria DI DANILO SANTI

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liminare il debito pubblico in un colpo solo e così dire basta alla Spending Review (revisione dei conti) e ai tagli di bilancio che colpiscono le fasce più deboli della popolazione si può! Voi vi chiederete come sia possibile scardinare questo stato di cose che sembra, al meno a detta di dotti luminari e tecnici, inevitabile. Ebbene sono stati proprio due economisti del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Jaromir Benes e Michael Kumhof e svelarci l'arcano di questa misteriosa crisi che sembra dovuta a un destino inevitabile. Loro hanno chiamato il frutto del loro studio, contenente una proposta rivoluzionaria e 'scandalosa', “The Chicago Plan Revisited”; in sintesi la 'bacchetta magica' consisterebbe nel fare una legge semplice semplice ma che sovvertirebbe l'attuale sistema in cui sono le banche private a creare denaro dal nulla: “Tu banca vuoi lucrare sul prestito di denaro? Prima devi dimostrare di averlo davvero, fisicamente, quel denaro prima di prestarlo. Troppo comodo farselo dare dalla Banca Centrale, che ha come ruolo quello di fabbricalo dal nulla, per poi taglieggiare famiglie, aziende e interi Stati, imponendo interessi esorbitanti”. E' inutile dire che questo dossier irrompe come una bomba sul sistema capitalistico mondiale che sta vivendo una crisi in realtà irreversibile, contrariamente a quello che ci vogliono far credere. Il debito globale è arrivato all'esorbitante somma di 200 trilioni di dollari (200.000 miliardi), mentre il Prodotto Interno Lordo (PIL) del Mondo intero non arriva a 70 trilioni. Tradotto: il debito mondiale è pari al 300% del suo PIL. Di qui la sortita 'eretica' di questi due economisti all'indomani dell'ultimo rapporto del FMI che punta il dito sulle politiche di Austerity mirate a ridurre il debito pubblico, politiche che 'potrebbero' portare alle recessione tutte le economie dei Paesi più svilup-

pati in quanto taglieggiano la capacità di acquisto dei cittadini eliminando così il 'famoso' (una volta) ceto medio. a se questa corsa alla privatizzazione dei servizi pubblici e al loro depauperamento al solo fine di far 'cassa' non servirebbe, almeno a detta di un'importante istituzione quale il FMI, e il problema del Debito Pubblico persisterebbe in quanto in realtà il Debito Privato della finanza mondiale, come lo si può risolvere? Semplice, basta cancellarlo con un click sul computer! “The Chicago Plan Revisited” è una rivisitazione del vecchio “Chicago Plan” elaborato durante la Grande Depressione degli anni '30 dagli economisti Irvin Fischer ed Henry Simons della Chicago University; anche loro si chiedevano come cancellare il Debito Pubblico e come soluzione proposero la sostituzione dell'attuale sistema in cui sono le banche private a creare il denaro, ritornando al vecchissimo sistema nel quale era lo Stato a farlo, cioè a prima che il re inglese Carlo II, nel 1666, mettesse nelle mani private il controllo del denaro disponibile. In soldoni, se i prestatori sono costretti a detenere il 100% delle riserve proprie a garanzia di depositi e prestiti, perdono l'esorbitan-

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te privilegio di creare denaro dal nulla, e la nazione riguadagna il controllo sulla disponibilità di denaro. Guarda caso questa riforma di Carlo II portò in breve tempo ad uno sviluppo economico compulsivo aprendo la strada alla rivoluzione agricola e subito dopo a quella industriale facendo fare al 'mondo occidentale' un balzo economico mai visto; ma ora le cose stanno arrivando alla fine, come sempre succede! In questo studio del FMI i due giovani economisti mettono nero su bianco una verità mai pudicamente svelata e cioè che non è la Banca Centrale a controllare la creazione del denaro ma in realtà sono le banche private, almeno fino al 9597%, e lo fanno attraverso i prestiti, in quanto di questi le banche ne possiedono una minima parte e la restante parte se la fanno prestare da un'altra banca, o dalla Banca Centrale, attraverso un giro perverso di denaro 'nominale' o 'fittizio'. Nel sistema attuale infatti la banca non è obbligata ad avere riserve proprie, se non per una frazione minima di quello che presta; ma in questo modo ad ogni denaro creato dal nulla corrisponde un debito equivalente e in un sistema chiuso quale è quello del Pianeta Terra alla lunga questo produce un aumento esponenziale


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Sovranità del Debito; cioè la ricchezza non viene più redistribuita come in passato ma si arriva ad un punto tale che sono solo in pochi a beneficiarne e sempre di più: per spiegarci meglio, in uno stagno chiuso alla fine sono solo i pesci più grossi a restare in vita, eliminando quelli più piccoli! Ed è per questo che il sistema è arrivato al collasso. La soluzione a questo problema è quindi quella di imporre alle banche di prestare solo cifre coperte da riserve reali in questo modo i prestiti sarebbero interamente finanziati da riserve, ovvero dai guadagni accantonati, e gli istituti di credito non potrebbero più creare nuovi depositi dal nulla. “Generare profitti attraverso i prestiti, senza però disporre realmente di una riserva di denaro, è un privilegio straordinario ed esclusivo, negato agli altri business”, dicono i due economisti. Di fatto la banca centrale verrebbe nazionalizzata, divenendo una branca del Ministero del Tesoro, mentre ora fa capo a banche private; nazionalizzandola l'enorme debito si trasformerebbe in credito e le banche private diventerebbero dei semplici intermediari creando una vera ricchezza; lo Stato si trasformerebbe da 'debitore' a 'creditore'. L'originario “Chicago Plan” non divenne mai legge, benché a caldeggiarlo fossero ben 235 economisti accademici, compresi Milton Friedman e l'inglese James Tobin, padre della Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie, per l'opposizione delle lobby bancarie, le stesse che ora minacciano una durissima resistenza per una proposta che “vorrebbe dire cambiare la natura stessa del capitalismo occidentale”. el picco della Grande Depressione un gruppo di economisti di grido avanzò una proposta di riforma monetaria, che è diventata nota come il "Chicago Plan". Esso prevede la separazione delle funzioni monetarie e di credito del sistema bancario, imponendo un riserva del 100% per i depositi. Irving Fisher (1936) affermò che un piano simile avrebbe avuto i seguenti vantaggi: 1.Miglior controllo di una delle principali fonti di fluttuazioni del ciclo economico, di aumenti improvvisi e di contrazioni del credito bancario e dell'offerta di moneta. 2.Eliminazione delle corse agli sportelli. 3.Drastica riduzione del debi-

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to pubblico (netto). 4.Drastica riduzione del debito privato, dato che la creazione di nuova moneta non richiede la creazione simultanea dei nuovo debito. Nell'Agosto 2012 Jaromir Benes e Michael Kumhof dell'IMF hanno pubblicato l'articolo "The Chicago Plan Revisited", in cui si studiano queste affermazioni, attraverso l'integrazione di un modello completo e attentamente calibrato del sistema bancario. I due autori trovano supporto per tutte e quattro le affermazioni di Fisher. Inoltre, gli utili di uscita si avvicinano al 10 per cento, e l'inflazione nel caso stazionario può scendere a zero senza porre problemi per la conduzione della politica monetaria.

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l concetto di PIL, e anche il modo di calcolarlo, si sono perfezionati nel tempo a partire dalla sua nascita e, nel corso del tempo, il PIL si è guadagnato una posizione di preminenza circa la sua capacità di esprimere o simboleggiare il benessere di una collettività nazionale. Ma non sono state risparmiate al PIL critiche molto dure, anche a partire da un'epoca in cui il concetto non era così noto e dominante. «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende l'inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine


18 del fine settimana ... Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell'equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». (Robert Kennedy - Discorso tenuto il 18 marzo 1968 alla Kansas University) Il PIL tiene conto solamente delle transazioni in denaro, e trascura tutte quelle a titolo gratuito: restano quindi escluse le prestazioni nell'ambito familiare, quelle attuate dal volontariato (si pensi al valore economico del nonprofit) ecc. Il PIL tratta tutte le transazioni come positive, cosicché entrano a farne parte, ad esempio, i danni provocati dai crimini (riciclaggio di denaro), dall'inquinamento, dalle catastrofi naturali. In questo modo il PIL non fa distinzione tra le attività che contribuiscono al benessere e quelle che lo diminuiscono: persino morire, con i servizi connessi ai funerali, fa crescere il PIL. L'idea che il PIL sia un numero relativamente poco significativo è sempre più condivisa. Il dibattito in materia è intenso anche a livello istituzionale. A titolo di esempio, il 19 e 20 novembre 2007 si è tenuta a Bruxelles la conferenza internazionale “Beyond GDP” (“Oltre il PIL”) organizzata dalla Commissione europea, dal Parlamento Europeo, dall'OCSE e dal WWF. La conferenza ha richiamato leader politici, rappresentanti di governo ed esponenti di istituzioni chiave come la

Sovranità Banca Mondiale e le Nazioni unite con l'obiettivo di chiarire quali possano essere gli indicatori più appropriati per misurare il progresso. Sempre a testimoniare la crescente attenzione del mondo politico per il tema, il presidente francese Nicolas Sarkozy nel corso della conferenza stampa di inizio 2008, ha annunciato di aver incaricato due premi Nobel per l'economia, l'americano Joseph Stiglitz e l'indiano Amartya Sen, di riflettere su come cambiare gli indicatori della crescita in Francia. «Bisogna cambiare il nostro strumento di misura della crescita», ha detto Sarkozy, convinto che contabilità nazionale e PIL abbiano «evidenti limiti» che non rispecchiano «la qualità della vita dei francesi». Il tema interessa da anni gli studiosi di diversi ambiti della conoscenza. Recentemente si è sviluppato un intenso dibattito multi-disciplinare sorto in seguito all'evidenza empirica riguardante il diffuso disa-

gio e le sperequazioni esistenti nelle società a reddito avanzato. Il dibattito ha portato alla creazione di numerosi indici di benessere o di crescita alternativi al PIL. Tra i quali l'Indicatore del Progresso Reale: il principale indicatore proposto come alternativa al PIL che tiene conto delle principali critiche poste ad esso, è il Genuine Progress Indicator (GPI), in italiano "indicatore del progresso reale". Il GPI ha come obiettivo la misurazione dell'aumento della qualità della vita (che a volte è in contrasto con la crescita economica, che invece viene misurata dal PIL), e per raggiungere questo obiettivo distingue con pesi differenti tra spese positive (perché aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti stradali). Simile a questo indice esiste un Prodotto interno lordo verde introdotto da alcune province cinesi.


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Io credo a Babbo Natale

“Comunque io a Babbo Natale ci credo...” “Ma certo che Babbo Natale esiste, altrimenti chi è che porta i regali?”


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La bontà (presunta) dei doni DI SARA MIRTI

Naturale che Babbo Natale (così come il Weihnachtsmann tedesco, Christkind - folletto identificato con Gesù Bambino -, San Nicola-Nicolò, Père Noël, Saint Nicholas, Santa Claus e Sinterklaas, Papai Noel - brasiliano -, il cileno Viejo Pasquero - "Vecchio Uomo del Natale" - , Joulupukki - o "Capra di Natale"; siamo in Finlandia -, Jezisek, o "piccolo Gesù" - Repubblica Ceca -, El Niño Jesus della Colombia, Ded Moroz o "Nonno glaciale" russo; oppure Olentzero - figura basca -, Santa Lucia, la Befana, i Re Magi e ogni altro portatore di doni conosciuto o sconosciuto, umano, umanizzato o fantastico…) esiste: chi altri mai potrebbe essere stato a lasciare sotto l'albero tutti quei regali costosi e luccicanti? Non certo dei genitori che per tutto il resto dell'anno si dimostrano morigerati e severi, nemmeno nonni e zii che di certo nulla avrebbero fatto che i soliti mamma e papà non avessero precedentemente autorizzato. Certo, di contorno a tali benefiche figure esistono anche esseri dispettosi, se non diabolici, di condizione servile, inferiore, scuri d'aspetto, tendenzialmente cattivi che accompagnano i nostri buoni e bravi Babbi (sempre bianchi, grassi, investiti di dignità sacerdotale), ma anche questo rovescio della medaglia fa parte del gioco e comunque questi esseri malvagi e brutti non sono potenti al punto da mettere davvero in pericolo la corretta consegna natalizia. Mamma e papà, invece, non sono né troppo buoni né troppo cattivi, non hanno facoltà di mutare d'aspetto, non sanno volare, apparire e scomparire a piacimento, non sanno sorprendere e, soprattutto, di certo non si preoccupano di questo genere di cose. No, no, deve essere stato senz'alto qualcuno di più organizzato a portare tutti quei doni ricevuti negli anni passati, e a portarli anche quest'anno sarà qualcuno avente una casella postale completamente dedicata allo scopo di ricevere richieste per poterle esaudire senza correre il rischio di sbagliare o fraintendere. Oggi come

oggi, poi, si potrebbe senz'altro affermare che Babbo Natale, chiunque e ovunque egli sia, rimanga in contatto con tutti i bimbi del mondo attraverso e-mail, portali, social network e chi più ne ha più ne metta, senza dover chiedere un'autorizzazione preventiva a nessuno, men che meno agli adulti di qualsiasi ordine e grado. Le Poste Italiane quest'anno hanno reso possibile tanto scrivere a Babbo Natale quanto aiutarlo a cercare il suo cappello (indispensabile riparo contro il freddo

quando si distribuiscono doni in piena notte su di una slitta decappottabile) attraverso un gioco su internet. Come avere dei dubbi sull'esistenza di un personaggio così influente e con relazioni internazionali tanto strette? Certo, la maggior parte dei bimbi del mondo lotta contro la malnutrizione, le malattie, la guerra, l'ignoranza…e naturalmente vivono in luoghi in cui non ci sono, o non ci sono più, caselle postali dedicate ai loro desideri, alle loro insicurezze o ai loro capricci.


Natale A differenza dei nostri desideri di potenziali - adulti coscienziosi, i desideri di ragazzi e bambini, nella loro incoscienza, impossibilitati come sono a fare paragoni comprensibili, a conoscere le conseguenze del proprio dispendioso esistere, non sanno distinguere tra il desiderio vitale di più cibo, tra il bisogno di coperte o di un posto per dormire e la voglia irrefrenabile di avvicinare le mani al calore di una luminaria natalizia; non possono sapere che il loro bisogno di sicurezza, che l'euforia mista a un vago senso d'oppressione provata da loro in questi giorni non ha nulla a che vedere con l'angoscia di un bombardamento o con l'improvviso inasprirsi di una carestia. D'altra parte, come potrebbero conoscere la differenza tra malinconia e disperazione? Come potrebbero capire che l'aspetto dei loro coetanei sparsi per il mondo assomiglia davvero a quella di un Bambinello nella cui testa si trovano conficcati, mescolati tra loro, gioie e dolori, preoccupazioni, solitudini, sogni e incubi, speranza e indifferenza, e che se potessimo vedere tutti questi elementi circondare il loro capo li troveremmo in tutto e per tutto simili a un'au-

reola di raggi d'oro? Nella nostra industrializzata, sentimentale, ingegnosa Italia, una persona su tre, così si dice, è a rischio povertà. Senza considerare il fatto, sottolineato dal Revelli, sociologo di fama, che al nord manca, o è molto più rada, una cosiddetta "cultura della povertà" indispensabile per gestire la nuova situazione in atto. Questo, sempre secondo Marco Revelli vuol dire che: "Molti poveri da generazioni sanno come arrangiarsi per non sprofondare. I nuovi poveri non hanno né reti sociali né sanno dove andare a cercare i sussidi pubblici, anche perché tutta la cerchia di amici e conoscenti spesso fa parte dello status sociale che avevano prima che cominciassero i problemi. In un certo senso, sono ancora più poveri dei poveri, al nord più che al sud: dove il reddito medio è più alto è maggiore l’impatto della crisi, per esempio a Torino è più difficile che a Napoli". Forse sì, forse è più difficile cadere dai gradini più alti cercando ugualmente di non farsi troppo male e, parafrasando uno dei tanti canti natalizi, "serena" non "è la notte di gelo": purtroppo a volte non "basta in cielo una stella / a far la sera più bella" e non "basta un canto da

“So che oggi è lunedì e tu presumi che sarà una giornata schifosa, ma secondo le statistiche, ci saranno più di 5000 matrimoni, 10.000 parti, e 42 milioni di abbracci tutto oggi: in tutti gli Stati Uniti. Anche oggi, ci saranno almeno 4 persone che vinceranno alle lotterie svariati milioni di dollari e 600 persone avranno promozioni sul posto di lavoro. Ci saranno anche 600 cani adottati, 35.000 palloncini venduti, e 800.000 Skittles mangiati. Inoltre, il “ti amo” si dirà più di 9 milioni di volte. Quindi, di nuovo, lo so che oggi è lunedì e tu presumi che sarà una giornata schifosa, ma solo sorridi, perché secondo le statistiche, in realtà dovrebbe essere un giorno veramente bello”. (Shultz)

21 nulla / a dondolare una culla"; tuttavia riesce difficile credere che esista una via uguale e al contempo diversa, una via più dura delle altre, un modo troppo diverso per occupare lo stesso gradino sociale - così come risulta difficile credere che non possa esistere una via d'uscita. Lo scambio di doni che nelle forme attuali sembra essere stato "inventato" per promuovere un'alleanza tra noi stessi e il ruolo sociale che in futuro ci consideriamo destinati a ricoprire, in origine è stato mezzo e occasione di alleanze di altro genere. Scambiandoci doni, anche oggi, volendo, potremmo tessere alleanze strategiche con aspetti del nostro "io" ancora sconosciuti, potremmo condividere differenti punti di vista e imparare a conoscere qualsiasi persona "altra da noi" riusciremmo a raggiungere. Potremmo anche far compartecipare la nostra essenza a quella del mondo, proprio attraverso oggetti, azioni, creazioni che portano inscritta in sé la nostra memoria e la nostra storia. Potremmo leggere le storie degli altri e familiarizzare con scenari prima sconosciuti. Continuiamo a pensarci padroni del mondo, eppure non conosciamo nulla del mondo di


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cui dovremmo essere i padroni, i maestri. E, come se non bastasse, al momento di distribuire i doni terreni secondo presunti meriti, non ci prendiamo nemmeno la responsabilità della scelta, attribuendola piuttosto a creature un po' sacre, un po' beneauguranti e un po' malvagie, spesso insopportabili. Io voglio credere a Babbo natale, davvero. Io credo alla bontà che, al di là della facile solidarietà e dell'allegria indotta quasi artificialmente da luci, suoni, sapori, odori o vacanze, alberga nello spirito dei natali presenti passati e futuri, ma non posso credere che Babbo Natale sia una persona così poco intelligente

da voler dare a ragazzi e bambini qualcosa che non gli serve, magari difficile da gestire, che li impegnerà inutilmente e che potrebbe fargli perdere di vista il loro vero posto nel mondo, il loro unico bisogno di una conoscenza quanto più vasta possibile, di un' "alleanza totale" con tutto ciò che si pone nel proprio orizzonte. Basterebbe spiegare a grandi e piccoli che Babbo Natale esiste, ma che si tratta del frutto della fantasia intraprendente degli uomini e che quanto più riusciremo a farlo comportare in maniera saggia, tanto più annienteremo tutti quei diavoletti di aiutanti che, chissà perché, si trascina die-

tro; o forse riusciremo a conoscerli meglio, senza più bisogno di chiamarli "servi" o "scuri", ma solo Pieter, Krampus o, se questi nomi non ci piacciono e a causa del primato della modernità sulle nostre vite, potremmo sempre rinominarli Giovanni, Augusto, Luca, o, perché no?, Teresa, Roberta, ecc. Potremmo dire ai più piccoli che non devono temere le sortite notturne di Babbo Natale all'interno delle loro case, e ai più grandi che non sarebbe male iniziare a dare i nostri stessi nomi ai suoi aiutanti sul campo, augurandoci di riuscire a fare finalmente un lavoro migliore rispetto al vecchio uomo di gelo.

Non si va in cielo Non si va in cielo (2 volte) in pininfarina (2 volte) perché in cielo (2 volte) non c’è la benzina (2 volte) non si va in cielo in pininfarina perché in cielo non c’è la benzina ai aoh! ai aoh oh oh! Non si va in cielo (2 volte) con la vestaglia (2 volte) perché in cielo (2 volte) non si lavora a maglia (2 volte) Non si va in cielo con la vestaglia perché in cielo non si lavora a maglia ai aoh! ai aoh oh oh! Non si va in cielo (2 volte) in pattini a rotelle (2 volte) perché in cielo (2 volte) ci son solo le stelle (2 volte) Non si va in cielo in pattini a rotelle perché in cielo ci son solo le stelle ai aoh! ai aoh oh oh! Non si va in cielo (2 volte) in minigonna (2 volte) perché in cielo (2 volte) ci sta la madonna (2 volte) Non si va in cielo in minigonna perché in cielo ci sta la madonna Se tu vai in cielo (2 volte) prima di me (2 volte) fai un buchino (2 volte) per tirarmi su (2 volte) Se tu vai in cielo prima di me fai un buchino per tirarmi su Se tu vai all’inferno (2 volte) prima di me (2 volte) tappa tutti i buchi (2 volte) ed io non passerò (2 volte) Se tu vai all’inferno prima di me tappa tutti i buchi ed io non passerò Non si va in cielo (2 volte) in bicicletta (2 volte) perché in cielo (2 volte)

si va un po' più in fretta (2 volte) Non si va in cielo in bicicletta perché in cielo si va un po' più in fretta aiaò aiaò aiaò aiaò. Non si va in cielo (2 volte) in aeroplano (2 volte)

perché in cielo (2 volte) si va un po' più a piano (2 volte) Non si va in cielo in aeroplano peché in cielo si va un po' più a piano aiaò aiaò aiaò aiaò. (Canzone tratta da www.filastrocche.it)


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Antonio Gramsci l’uomo che afferrò il fulmine a mani nude

Il Libro è pubblicato per intero,in digitale, nel nostro sito internet all’indirizzo www.piazzadelgrano.org,

Concludendo la propria requisitoria l’accusa del tribunale fascista aveva chiesto una pena che impedisse “a questo cervello di funzionare per venti anni”. Antonio Gramsci è morto il 27 aprile 1937 ucciso dal carcere fascista, ma in quel carcere, in quei dieci anni di difficilissima sopravvivenza “quel cervello” ha funzionato come non mai, lasciando all’intera cultura del pensiero subalterno mondiale una eredità di idee che è ancora oggi difficile apprezzare nella loro interezza, lucidità e persistente attualità.


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Fulmine

Premessa Il Partito “intellettuale organico” delle classi subalterne. La conquista del potere attraverso la conquista dell’ “egemonia” “Le idee – scrive Gramsci - non nascono da altre idee, le filosofie non sono partorite da altre filosofie, esse sono l’espressione rinnovata dello sviluppo storico. Le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma, e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali.” Le idee nascono dallo sviluppo storico del reale, ne sono l’espressione, ma nello stesso tempo hanno il potere di cambiare la storia. Ecco perché le idee non sono figlie di idee, ma nascono da rapporti storici reali. Nel momento in cui il capitalismo è entrato nella fase monopolistica e le grandi masse sulla scena della storia, il problema della sovrastruttura diviene determinante. Prendere il potere significa, innanzitutto, occupare le “casematte dello Stato”, cioè quegli apparati della società civile, come la scuola, i partiti, i sindacati, la stampa, che hanno il compito di inculcare nelle menti delle grandi masse i valori della classe dominante. La supremazia di un gruppo sociale non può attuarsi solo col dominio e con la forza, deve avvalersi degli apparati egemonici della società civile, de-

ve evocare il consenso più ampio. Il potere non è dominio, è egemonia, intesa essenzialmente come capacità di direzione intellettuale e morale. Ogni classe sociale tende a produrre i propri intellettuali organici connessi ai propri bisogni e alla propria mentalità. Le masse dei lavoratori e degli sfruttati debbono dotarsi di una loro guida intellettuale e l’ “intellettuale organico” alle classi subalterne è il partito comunista che, rappresentando la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice, si configura come la sua guida politica, morale e ideale. Per questa sua capacità unificatrice delle istanze popolari e per il suo fermo tendere verso un supremo fine politico, Gramsci denomina il partito comunista “moderno Principe”, con l’avvertenza che, mentre per Machiavelli esso si identifica in un individuo concreto, per i comunisti si tratta di un organismo in cui si concreta la volontà collettiva della classe rivoluzionaria. In un sistema capitalistico organico e globalizzato la strategia rivoluzionaria non può essere frontale, cioè alla “facciata dello Stato”, deve invece dirigersi in

Introduzione L’uomo che ha afferrato il fulmine a mani nude (tratto da un intervento di Mario Tronti alla Camera dei Deputati, 17 aprile 2007)

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o riflettuto a lungo sul perché, pensando ad Antonio Gramsci, scatti in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano. Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento. Dietro c’era la stagione magica che, fra Tre-

cento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. ... Come Machiavelli aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe. Geniale la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. «Il moderno principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organi-

profondità, mediante una “snervante guerra di posizione”, contro le “fortezze” e le “casematte” del nemico, ossia contro l’insieme delle istituzioni della società civile. Si tratta di logorare progressivamente la supremazia di classe della borghesia, conquistando i punti strategici della società civile, e ponendo così le premesse per la conquista del potere e la realizzazione della propria egemonia. La conquista dello Stato borghese deve avvenire dunque dall’interno della società, attraverso una “battaglia delle idee” e sulla base di una prospettiva sociale, economica, politica, intellettuale e morale, che sia in grado di ottenere il consenso delle masse. Il Partito “intellettuale organico” deve ricucire la frattura tra cultura e vita, tra cultura e masse, operata dall’intellettuale tradizionale, membro di una casta separata dal popolonazione, e dunque deve essere portatore di una “cultura nazional-popolare” che rappresenta il cemento del rapporto tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati. Solo se riesce ad ottenere il consenso di tutte masse subalterne e sfruttate, il partito comunista può creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice e diventare classe dirigente e dominante. (Sandro Ridolfi)

smo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali» ... «il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato »: fondare lo Stato, non farsi Stato ... Il problema originalmente comunista di Gramsci - vorrei dire, se questo non disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci - è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito - usa lui questa parola e voglio usarla anch’io del partito-principe è l’organizzazione di una volontà collettiva, «elemento di società complesso», come l’unica forza in grado di contrastare l’avvento della


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Fulmine personalità autoritaria. A questo punto vorrei non dare l’impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. on si può parlare di Gramsci restando neutrali. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: «Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica». Non era un’anima bella. Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’interesse di tutti. Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano. Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più ... quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: «Odio gli indifferenti»: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo»... «All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività». ramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei consigli operai. La vera università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. L’ordine Nuovo, settembre 1920: «L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera». Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte di Gramsci, diceva: «Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multifor-

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me». Non ci sono due Gramsci. L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistico-storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. ui c’è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato, vale per lo Stato nei confronti della società. Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, ideeguida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni: «Il grande politico non può che essere ‘coltissimo’, cioè deve ‘conoscere’ il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non ‘librescamente’, come

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‘erudizione’, ma in modo ‘vivente’, come sostanza concreta di ‘intuizione’ politica ». Tuttavia - aggiungeva - perché in lui diventino sostan za vivente occorrerà apprenderli anche librescamente. Ho sempre pensato che le due culture non sono, come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali, deve esserci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte, è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. È difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l’essere, il sentirsi radicato in questa parte di mondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. a figura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo. Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale e insieme progetti di liberazione politica.

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Odio gli indifferenti Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita

collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremo-

to, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel

tal bene si proponevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.


Spazio autogestito

Pinocchio o Lucignolo?

Scegli per compagni gente migliore di te e paga pure per loro. (da filastrocche.it)

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Spazio autogestito

Chi sono e cosa vogliono gli studenti scesi in piazza A CURA DI SARA MIRTI

I ragazzi che contestano nelle piazze, occupano le scuole, si riuniscono, s'incontrano nelle strade, s'inventano luoghi di ritrovo, si scambiano idee, notizie, consigli, non sono vandali facili alle scritte sui muri, portatori di teste dai pensieri imprevedibili, né tantomeno “terroristi” pronti a creare disordini ad ogni occasione; sono delle forze giovani consapevoli del proprio potenziale, non disposti a perdere il proprio vigore, forze che non vogliono "affievolirsi", "arrendersi" davanti alle cieche istanze di una società "finta" perché non rappresentativa, avulsa dalla realtà, "nemica", che ha deciso scioccamente di sopirne ogni entusiasmo, ogni voglia di lottare e quindi di costruirsi un futuro. Questi ragazzi hanno deciso di opporsi a una classe dirigente priva di timonieri che non sa, non può fissare una rotta. La nostra scuola appare allo sbaraglio: studenti e insegnanti protestano insieme già da tempo, disorientati, stupiti di fronte all'ignoranza di chi non comprende che la scuola, l'istruzione, la cultura sono gli unici ingredienti possibili per una società stabile, strumenti essenziali per formare delle personalità forti e ben delineate, ciascuna con la propria peculiarità; non una massa omogenea, ma tanti individui con uno stesso ideale: studiare per avere un'occupazione , "un posto al sole", per continuare a far fiorire una società migliore, senza inganni, senza servilismo, corruzioni morali o materiali, senza pregiudizi o favoritismi. I giovani contestano perché chiedono certezze per il loro domani (che poi è anche il nostro) chiedono di vedere realizzato il proprio diritto a un lavoro che gli permetta di costruire una famiglia, di entrare nelle fondamenta del proprio mondo co-

me resistenti "mattoni" e non come scricchiolanti assi di legno, o come poveri fili di paglia. Ad essere giovani studenti si rischia di essere etichettati, divisi superficialmente tra "pinocchi", ingenui, indecisi, facili alla menzogna per la troppa paura di essere puniti, e "lucignoli", cattive compagnie in erba, future mine vaganti, tasselli scomodi che in virtù della propria "problematicità" sembrano non aver più diritto a un futuro certo. Invece spesso le compagnie bugiarde e pericolose si trovano altrove, mentre agli studenti resta l'ingrato compito di fare la fine del Grillo parlante. Si vorrebbe che i giovani trattengano il fiato fino a perdere i sensi, che smettano di rumoreggiare, d'infastidire. Eppure, come già detto altre volte, lo Stato è di tutti, buoni cattivi, "morbidi" o "coriacei", e la scuola, naturalmente, deve poter essere messa in grado di fornire agli uni come agli altri le armi necessarie per sopravvivere, per interagire con i propri "pari", con tutti gli altri e con lo Stato stesso. La perdita d'individualità - e quindi la perdita di capacità da parte dei singoli individui di associarsi - a cui ci sta portando l'attuale sistema educativo è palese. La convinzione di essere nati e cresciuti

nel migliore dei mondi possibili, però, s'infrange irrimediabilmente di fronte alla quotidianità. Quella che porta al futuro è una strada dissestata e interrotta in più punti, piena di labirinti e di vicoli ciechi. I ragazzi che oggi ancora riescono a trovare i mezzi culturali per esprimersi e manifestare la propria disillusione domani, se lo stato delle cose non cambia, potrebbero non avere più la forza sufficiente per ritrovarsi. Anche i volti di coloro che si limitano a osservarli da lontano si stanno lentamente mutando in pietre opache, inerti, inespressive, senza più cenno dell'antica umanità. Rischiamo di diventare un popolo di moralmente "vecchi", usurati, fossilizzati in una cronica mancanza di fantasia, senza prospettive di miglioramento ma sazi dello status quo, satolli al solo pensiero che il "danno" non si allarghi, paghi dell'idea - terribile - che niente si muova più, che tutto resti esattamente così com'è, come l'abbiamo fatto diventare. Ci muoviamo a tal punto in bilico tra l'umano esistere e un disumano voler scomparire da rischiare di somigliare sempre di più a quei bambini descritti nel Vangelo di Luca, che giocano spensierati in piazza ma che non


Spazio autogestito sono capaci di ballare se sentono il suono del flauto, né se odono un lamento riescono più a piangere. Privati anche della morte, privilegio di chi una vita l'ha vissuta, rischiamo dunque di scomparire nel nulla come antiche divinità. Non è forse la stessa cosa che rischia di accadere ai giovani neodiplomati, senza abbastanza mezzi né speranze per affrontare l'università ma disposti ad accettare un lavoro qualsiasi, purché sia, se non il migliore, almeno il più sicuro dei posti possibili, anche se estraneo a ogni loro interesse, anche se lontano da casa? Per evitare che queste scintille di vitalità non vadano disperse, non restino inascoltate, nasce quest'inserto dedicato alle testimonianze dirette dei ragazzi, degli studenti impegnati, ancora una volta, nella manifestazioni. A questo scopo riportiamo una breve intervista: la nostra interlocutrice, Fabiana Tofi, è una ragazza che frequenta il primo anno del liceo delle Scienze Umane presso l'Istituto Federico Frezzi della nostra città. La descrizione fatta della situazione scolastica da lei vissuta aiuta a delineare una realtà più grande, probabilmente arriva a inquadrare una generazione, per così dire, "estesa", che comprende studenti di anni di-

“Perché pietà per quell’ombra, perché la scongiuro se scorgo le orme di minuscole ferite sui ginocchi dei ragazzi e, mi rammento, gustavo fra i denti le croste brunite raschiate alle mie cicatrici. Atterrito dal mondo e da se stesso egli fermava contro il ferro la sua tempia. Rispondo che è per pietà per l’avvenire, per il patire interminato che entro tanto splendore uno spavento come una bestia immane dall’azzurro annunziava a quel misero tremante nella felicità che il pianto libera. Da qui lo assito, da qui ora lo consolo.” Franco Fortini, da "Penultime (19841990)".

versi ma tutti ugualmente cresciuti in una scuola almeno già in parte mutilata, in cui già si faticava a ritrovare i fili del proprio ruolo di studenti ma che, nonostante tutto, ha saputo mantenere in chi la frequentava la convinzione incrollabile che un "futuro migliore" si ottenga solo studiando, se possibile fino alla laurea. Esattamente come accaduto ai "grandi", ormai disamorati della politica, anche i giovani studenti hanno sviluppato una sorta di rifiuto totale per l'informazione, per i giornali e per la tv: molto meglio affidarsi ai due "estremi" di internet e della biblioteca. Se proprio non si hanno riferimenti, allora ci si rivolge a un insegnante la cui disciplina in qualche modo "richiami" l'argomento in discussione. L'impressione che se ne ricava è che i ragazzi abbiano imparato a dubitare delle "nozioni" così come delle semplici opinioni: i contatti "tra pari" non sono frequenti e, comunque, dove presenti non sono risolutivi. Ognuno si fida del proprio intuito e della propria curiosità, desideroso di seguire la propria strada, riconoscendo agli altri le stesse necessità ma senza attardarsi a "rincorrere" gli indecisi. Per gli indecisi, per chi non si fida nemmeno di sé, per chi on ha ancora sviluppato il giusto in-

29 tuito l'unica speranza di non perdersi sono ancora, per fortuna, sempre e soltanto i professori. Prima di internet, prima della carta stampata, prima dei telegiornali ci sono ancora "gli adulti". I ragazzi hanno una caratteristica spesso omessa quando vengono descritti: sanno ascoltare, vogliono ascoltare; anche quando non sanno con certezza se ascoltare li aiuterà o meno a capire. A questo punto la vera domanda è: cosa abbiamo fatto ascoltare ai nostri ragazzi? Cosa gli abbiamo raccontato, cosa gli abbiamo consigliato? Quando capiranno esattamente quali sono state le nostre mancanze, come reagiranno? D- Cadono i governi, cambiano i ministri, ma tutto rimane come prima, anzi, si ha quasi l'impressione che la situazione scolastica, sia per chi insegna sia per chi studia, possa collassare su se stessa da un minuto all'altro. Si dice che il problema sia la "buona volontà" di chi ci lavora o la poca adattabilità degli studenti e non la mancanza di politiche adeguate… Ma davvero la scuola rischia di diventare inutile anche agli occhi di chi "ci sta dentro"? R- Di politica a scuola non si parla, se ne è iniziato a parlare per la prima volta in occasione della legge Aprea. Anche se a volte, durante le Assemblee


30 d'Istituto si dà per scontata un bassa partecipazione e magari ci si organizza per vedere un film, gli studenti chiedono sempre di parlare. E' necessario farsi valere, difendere i propri interessi, ma è bene farlo senza litigare. D- Chi litiga con chi? Gli studenti tra loro? I rappresentanti degli studenti tra loro, magari per divisioni politiche? Studenti e professori? R- In genere i motivi di scontro più forte si hanno tra i rappresentanti d'Istituto e la Presidenza; per lo più per questioni legate ai permessi per

Scrivere un curriculum (da "Vista con granello di sabbia") Che cos'e' necessario? E' necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum. A prescindere da quanto si e' vissuto e' bene che il curriculum sia breve. E' d'obbligo concisione e selezione dei fatti. Cambiare paesaggi in indirizzi e malcerti ricordi in date fisse. Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati. Conta di piu' chi ti conosce di chi conosci tu. I viaggi solo se all'estero. L'appartenenza a un che, ma senza perche'. Onorificenze senza motivazione. Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi. Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni. Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. Aggiungi una foto con l'orecchio in vista. E' la sua forma che conta, non cio' che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta. (W. Szymborska)

Spazio autogestito organizzare assemblee o per estendere le "giornate informative" in cui si approfondiscono i temi più disparati, "dalle scienze al cucito", e che per questo sono molto interessanti, costruttivi, nonostante immagino rappresentino per l'Istituto una spesa aggiuntiva. D- Quando avete sentito parlare per la prima volta di occupazione o proteste nella vostra carriera scolastica? R- Fin da subito, ma quest'anno non abbiamo fatto nessuna occupazione, e nemmeno l'anno scorso, però abbiamo partecipato alle proteste insie-

me agli studenti degli altri istituti. D- Quanta partecipazione c'è alle assemblee d'Istituto? Voglio dire, chi vi partecipa? Chi si sente libero d'intervenire e come vengono prese le decisioni? R- Partecipa chiunque sia interessato, tutti posso dire come la pensano, ma non sono molte le decisioni che vengono prese. Manca un approccio più diretto tra studenti, ma col tempo, "crescendo", tutti impareranno a pensare e ad esprimersi diversamente, e, alla fine, a perorare in maniera più efficace le proprie idee.


Povero?

Povero Teatro, Teatro Povero?

“Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori, quel che è nella sua necessità primordiale: il luogo dove la comunità, adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; dove s’apre alla disponibilità più grande, alla vocazione più profonda: il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che, accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni.” (dal manifesto di Fondazione del Piccolo Teatro di Milano, 1947).

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Povero?

Il “Teatro Povero” di Monticchiello DI

ANTONIO BANDINI

Nell’ansia costante di inventare, prefigurare, realizzare in ogni luogo sempre e solo un evento, un festival, una rassegne, un non-Festival, un Festival dei Festival, un Festival di tutto, la nostra comunità umbra ma più in generale nazionale, salvo qualche eccezione, sta perdendo il senso, anche in questo campo, del significato più profondo della nostra storia. L’evoluzione non è impropria, è compatibile con le vicende umane ed è anzi auspicabile sempre. Ma molto spesso quello a cui assistiamo non è evoluzione ma il contrario e forse anzi in alcuni casi anche peggio del contrario. Nel leggere la storia del Teatro Povero di Monticchiello che di seguito trasferiamo e che da oltre 40 anni esiste in quel paese della Toscana, troviamo vocaboli ormai sconosciuti almeno nell’ambito della rappresentazione teatrale, come solidarietà, processo autocritico, collettività, riconoscimento, realizzazione. Il Teatro Povero di Monticchiello ormai famoso a livello internazionale è un modello che dovrebbe essere preso ad esempio anche da qualche amministratore pubblico locale, non tanto per ri-

produrlo, importarlo ma per verificarne le potenzialità e riflettere e confrontare con le proprie scelte, con il proprio “povero”festivalino spesso fatto di nulla, fatto di bruschetta e olio nuovo, un festivalino vestito di qualche musica importata e di qualche brandello di teatrino asettico quando va bene e sempre che qualcuno pensi al teatro. Un modello in fondo semplice quello di Monticchiello ma con radici profonde che ha ottenuto nel 2011 il maggior riconoscimento del Teatro in Italia, il Premio UBU con questa motivazione: “Per il coinvolgimento di un intero paese in un progetto di teatro civile di forte intensità poetica”. Significative le affermazioni di Andrea Cresti, storico regista, drammaturgo del Teatro Povero in occasione della premiazione lo scorso anno a Miliano al Piccolo Teatro: “Abbiamo scelto proprio il teatro per esprimere la forza di un pensiero, la testardaggine con cui ci difendiamo da quel pericolo che è una scomparsa. Scomparsa di un’entità sociale, politica, umana e anche artistica”. A Monticchiello è l’intera comunità del paese che si mette in gioco ogni anno e lavora per un anno alla stesura dell’idea, del soggetto, dei testi per poi la rappresentarla.Un modello semplice alle redici del Teatro e della rappresentazione.

Il testo che segue e racconta le vicende della nascita e dell’evoluzione del Teatro Povero di Monticchiello è tratto da un articolo di Francesca Profili, le immagini sono particolari delle foto di Umberto Bindi, ringraziamo gli autori e il Teatro che ne consente la libera riproduzione

L’esperienza teatrale a Monticchiello sembra essere, fin dal passato, una componente strettamente legata alla vita ed alla storia della comunità, Numerose testimonianze ci parlano di un’attività teatrale molto prima della nascita del Teatro Povero. Le prime rappresentazioni drammatiche sono momenti ricreativi, feste popolari che accompagnano la vita del paese. In seguito il teatro assume per Monticchiello un significato nuovo ed importante: si comprende che questo “rituale” può essere un modo per vincere il rischio dell’isolamento del paese e della disgregazione del suo tessuto sociale. Con la crisi del sistema agricolo che aveva plasmato per secoli il territorio e la sua gente, il borgo e le campagne si spopolano e la comunità rischia di perdere i suoi punti di riferimento e la sua identità culturale […]

L’autodramma Nel 1969 ricorre l’anniversario di un episodio della Resistenza; la vittoria

“sul campo” di una battaglia partigiana ed una mancata strage dei nazisti a Monticchiello e gli abitanti, volendolo rievocare con uno spettacolo, chiedono la collaborazione del giornalista e scrittore Mario Guidotti. Guidotti comprende subito l’entusiasmo, la volontà ed il piacere dei monticchiellesi per il teatro e capisce che l’azione più efficace è l’approfondimento della realtà socio-culturale del paese stesso. Nel luglio del 1969 il giornalista realizza lo spettacolo Quel 6 aprile

del ‘44. L’esperienza teatrale di Monticchiello si lega così al nome di Mario Guidotti dando origine al sodalizio da cui nascerà il concetto di “autodramma” ed il vero “Teatro Povero” […] Si può parlare di “teatro-verità”, “teatrovita” scritto più che da un autore, dagli stessi personaggi, cioè dalla gente di Monticchiello che, recitando se stessa (ed ecco allora l’autodramma), testimonia la propria realtà, presentandosi con le sue autentiche situazioni esistenziali e sociali. […]


Povero?

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Vicende e personaggi del passato vengono rapportati al presente per approfondire la storia attuale e proiettati nel futuro, accostando un frammento storico ad un evento del nostro tempo. La scena, dove è possibile il confronto tra il mondo delle proprie radici e il presente, è il veicolo per vivere più da vicino i propri problemi, è lo stimolo per un ripensamento critico, storico e culturale, è il veicolo che la comunità ha trovato per conoscersi e realizzarsi. Il teatro, in questo caso, svolge dunque una “funzione sociale” che è quella di provocare nella collettività un continuo esame di coscienza, di rinsaldarne le radici mantenendo il contatto con la realtà del momento […]

Nasce la Cooperativa del Teatro Povero Il 1980 è un anno particolarmente significativo per il Teatro Povero poiché segna la nascita della cooperativa. La cooperativa ha il proposito di contribuire alla informazione e alla diffusione della cultura, alla valorizzazione delle risorse storico-ambientali del territorio, ma l’oggetto principale è la produzione, l’allestimento e la rappresentazione di iniziative teatrali e musicali. In questo modo il Teatro Povero di Monticchiello acquista il diritto alla sovvenzione ministeriale, che permette l’acquisto di attrezzature per il miglioramento della scena e della fruibilità. Gli spettacoli infatti cominciano ad evolversi e a divenire sempre più sofisticati […] Sulla piazza di Monticchiello, da ora in poi, non ci sono autori che firmano i testi, non emergono attori protagonisti o mattatori, l’azione scenica assume una dimensione corale.

La Piazza. Lo spettacolo della svolta Il teatro a Monticchiello è nato in piazza, la piazza si trasforma ogni anno in un sorprendente palcoscenico, è la scena ideale per la rappresentazione degli autodrammi. Al di là della sua funzione teatrale la piazza è da sempre il centro di aggregazione civile, di confessione, di decisioni, di autoanalisi. Ed è proprio alla piazza allora che viene dedicato lo spettacolo dell’81, al luogo protagonista della vita comunitaria che, grazie al teatro, ha ritrovato in pieno la sua vitalità, il

suo peculiare significato di luogo di incontro della comunità ed è diventato (o tornato ad essere) il simbolo del borgo, della sua vita sociale e della sua attività teatrale. Il titolo è estremamente preciso. Si vuole dimostrare che cosa ha significato la piazza nel passato e nel presente ed anche che cosa potrà significare nel futuro questo cuore pulsante della comunità borghigiana […] L’idea nasce da una sofferta condizione di saturazione della tematica della famiglia contadina che molti a Monticchiello, considerano esaurita. Nasce così il nuovo Teatro Povero. Fin d’ora, infatti, il mondo contadino era stato rappresentato puntando sugli aspetti più godibili e divertenti. All’interno di ogni spettacolo emergevano figure ricorrenti che incarnavano lo spirito popolare, beffardo ed ironico, dando vita a pittoresche macchiette. Da questo momento invece, l’ottica viene spostata; si cerca di analizzare la famiglia colonica con rigore critico, cercando di recuperare l’aspetto più problematico, magari meno divertente, ma sicuramente più rispondente alla realtà […]

Il collettivo Nell’anno successivo si respira aria di rinnovamento nella Compagnia. Il

gruppo che oramai da più di dieci anni coinvolge l’intero paese nel corso di prolungate e sofferte riunioni che impegnano le serate libere dell’inverno e della primavera, decide di fare a meno di autore e regista […] Da ora in poi la stesura dei testi è affidata ad un gruppo di quattro persone che dopo aver seguito lo stesso procedimento di analisi delle idee, dei concetti e dei problemi dell’assemblea lo sottopongono alla discussione ed alla approvazione della comunità teatrale. Esiste quindi un doppio livello di verifica e di costruzione, uno assembleare e collettivo e l’altro ridotto ad un certo numero di persone. Fra i due livelli permane un reciproco e continuo interscambio di analisi e di suggerimenti. Il teatro ha funzionato dunque da scuola e questo anche per quanto riguarda gli attori. Tra gli interpreti delle ultime generazioni ce ne sono molti che, quando il Teatro Povero prese vita, avevano pochi anni o non erano nati. Agli attori sperimentati delle generazioni più anziane si sono affiancati i giovani. Forse, proprio la funzione del collettivo nella vita quotidiana del paese, l’essere il teatro la continuazione di un rapporto esistenziale profondo e diffuso, ha permesso ad un esperimento così peculiare di sopravvivere e di riprodursi.


34 I nuovi orientamenti Negli spettacoli successivi al 1981 il Teatro Povero sembra aver rinnovato lo stile tradizionale seguendo indicazioni più moderne. La società contadina non viene più recuperata soltanto attraverso macchiette bozzettistiche, ma è analizzata e scrutata criticamente in tutti i suoi aspetti, insistendo molto sul lato filosofico e sociologico del tema […] La nuova regia apporta un duplice registro: quello dell’immediatezza rurale, di un linguaggio e di modi recuperati dal bagaglio espressivo della famiglia contadina e quello, coraggioso e abbastanza insolito per Monticchiello, di una metafora surreale fino a conseguenze da “teatro dell’assurdo” […] Andrea Cresti trasporta nella scena del Teatro Povero il segno del suo poliedrico estro artistico, introducendo nella scena il suo stato d’animo di intellettuale sempre attento alle contraddizioni e ai paradossi che porta con sé il mondo contemporaneo. Anno dopo anno si è dunque eliminata la retorica contadina connotata da proverbi e facili umorismi, raggiungendo una purezza di stile nell’uso del dialetto locale e impadronendosi completamente dei meccanismi interni del teatro.

Quovadimus […] Gli spettacoli degli anni Novanta sono pervasi da questo senso di

Povero? smarrimento che spesso affligge gli uomini in momenti cruciali della loro vita e che sovente li porta ad esiti imprevisti. Il secolo che sta finendo porta con sé inquietudini nuove ed è accompagnato da una lieve paura del domani; aleggia l’imminenza di qualche “strappo” a cui la storia condanna ciclicamente gli uomini. Il passato (il mondo contadino nella sua ultima stagione, nel suo definitivo “strappo”) è quindi lezione severa, è evento simbolico con il quale è difficile misurarsi. Un processo doloroso questo che spinge i più ad ignorare il messaggio problematico che ci viene dal passato, ricoprendo tutti i conflitti sotto il velo dell’indifferenza. […] Altro tema attuale che pone problematiche importanti, la razionalizzazione delle risorse, viene affrontato con Quota 300. Si parte dalla constatazione che al di sotto di certe soglie numeriche non è più giustificata l’erogazione dei servizi essenziali. Il tema della modernità è affrontato direttamente e gli attori portano in scena tutti i dubbi che tormentano le piccole comunità come Monticchiello. Su questo orizzonte estremo si apre dunque l’intermezzo della favola di Campriano, astuto contadino che riesce a vendere ad avidi speziali oggetti “miracolosi”. La lezione di Campriano è subito messa in pratica dagli abitanti della piccola comunità che con l’oggetto “miracoloso”, la trombetta che resuscita i morti, mol-

tiplicheranno a piacimento il numero degli abitanti riuscendo a prendersi gioco dei creduli ministri della modernità ed offrendo al pubblico una conclusione problematica ma che non rinuncia a suggestioni poetiche. La favola è presente anche nello spettacolo del 2000 Quovadimus; a guidare la scena teatrale è infatti un racconto antico della tradizione toscana, la novella di Gianni Stento, giovane sventato che non si sottrae mai a nessuna esperienza ma che non sopravvive alla vista del suo “didietro”, alla parte ignota del suo essere. La favola, anche qui, serve per guardare dal passato il viaggio verso il futuro della comunità. Il tema dell’identità fa da sfondo alla riflessione collettiva: per chi possiede una identità fortemente legata al passato, ai gesti, alle parole, agli ambienti, il viaggio verso il futuro comporta rischi e lacerazioni ad altri ignote. La tentazione è forte, costerà rinunce e sacrifici ma perché tirarsi indietro? Un viaggio nella modernità affrontato con ironia da chi non ha più gli strumenti adatti a leggere i cambiamenti. Nell’anno 2000 Monticchiello racconta insomma nuove ansie, i tormenti e le passioni della gente davanti all’incalzare della modernità, uno stato d’animo comune, un conflitto che appassiona, simbolo di una inquietudine che cresce e che il Teatro Povero ha fatto sua in questi ultimi anni. […]


Speculatori

Il Signoraggio (parte seconda)

Quando e dove nasce tale pratica speculativa? Nasce nei mercati finanziari Usa nella metà degli anni'80 con la diffusione dei computer, della rete internet ad opera di traders il cui scopo è quello di razionalizzare e velocizzare il mercato.

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Speculatori

Parlando ancora di Hft DI JACOPO FELICIANI

La pratica speculativa E' con il Rapporto della Brady Commission che si comincia a intravedere il pericolo ed i facili guadagni che un simile sistema permette... Il Brady Commision Report è il resoconto, che si riferisce alla crisi di borsa del 19 Ottobre 1987 [calo del Dow Jones del 22,6%, il più drammatico dal 1885, sanato con l'intervento congiunto delle banche centrali], redatto dalla Brady Commission - Presidential Task Force on Market Mechanisms - dal nome del Segretario del Tesoro USA, Presidente della commissione, Nicholas Brady. Il rapporto attribuì i motivi della crisi ai sistemi automatici di programme trading combinati con le due strategie di trading -Index arbitrage e Portfolio insurance- provocando un 'ribasso a cascata' nel prezzo dei titoli azionari. La Portfolio Insurance è una strategia di investimento che ha l'obiettivo di garantire un rendimento superiore ad un minimo prefissato e allo stesso tempo di ridurre il rischio comprando titoli (futures e options) quando il prezzo cresce, e vendendoli quando il prezzo diminuisce; mentre l'Index arbitrage è una strategia d'investimento che prevede l'acquisto di titoli future e la vendita simultanea del sottostante, nel caso in cui il differenziale tra il prezzo di queste attività, al netto dei costi di transazione, genera profitto. Un'altra spiegazione è stata che il trading del titolo azionario era sfasato rispetto al trading dei future; un'altra che si verificò una crisi di liquidità, la comunicazione del deficit nella bilancia commerciale Us; quello della supervalutazione delle azioni. La crisi però non generò recessione o conseguenze traumatiche particolari perchè la Fed intervenì per ristabilire la liquidità ante crisi, e con il vantaggio di avere come punto di forza le società non quotate in Borsa che ha sorretto il mercato reale. In fondo era stato sistemato un trend di rialzo del valore inarrestato per ben 5 anni e di circa 250%.

Crisi della New-economy (le nuove tecnologie informatiche e telematiche basate su Internet della seconda metà degli anni '90) L'indice NASDAQ (titoli tecnologici) raggiunge livelli impensati e la fiducia fa investire sulla nuova tecnologia e il mondo finanziario legato alla innovazione in questione tra attività, imprese e investimenti. Si assite ad un beneficio a livello generale nell'Economia tradizionale trascinata dalla Nuova economia: crescita del Pil e dell'occupazione, fino a portare la disoccupazione agli stretti livelli endemici del 4% e assenza di inflazione. Il fenomeno è stato spiegato con il miglioramento della produttività del lavoro permesso dalla rivoluzione tecnologica di Pc ed Internet. Il sistema però si inceppa il 10 marzo 2000 con lo scoppio della bolla speculativa finanziaria della new economy e il crollo improvviso degli indici Nasdaq. In questo caso la crisi non è stata innescata dai sistemi automatici di programme trading, ma da problemi legati alla ingenuità nell'effettuazione di alcuni investimenti nella nuova tecnologia. Però si è indotti a pensare che viceversa, la bolla ha reso possibile lo sviluppo di quei sistemi che hanno lanciato le tecniche Hft. Nel 2001 si ebbe la definitiva assicurazione circa l'adozione degli algos, gli algoritmi che nella specula-

zione finanziaria borsistica avrebbero incoronato i sistemi automatici invece del tradizionale trader, in seguito alla pubblicazione da parte di un team di ricercatori IBM all'International Joint Conference on Artificial Intelligence una versione sperimentale di laboratorio del programma usato nei mercati finanziari MGD (1996) dell'Ibm di Steven Gjerstad & John Dickhaut e la Zip (1996) di HP di Dave Cliff. Oltre alle crisi innescate dalle speculazioni, nel settembre 2004 abbiamo assistito ad una rapida crisi in seguito ad errori di trading dovuti a dei bugs negli algoritmi. Morgan Stanley aveva inoltrato un ordine di 10,8 miliardi invece che di 10,8 milioni. La Crisi dei subprime scoppiata alla fine del 2006 negli Usa riguardava la fine della bolla immobiliare e quella dei prestiti facili (subprime) per l'acquisto degli immobili. I mutui erano stati concessi a dei clienti che non possedevano requisiti adatti alla restituzione del finanziamento. La colpa era di manager senza scrupoli che hanno anteposto i propri profitti a quelli delle banche per cui lavoravano. Questi loschi personaggi, avendo i propri profitti legati al fatturato, hanno comprato per le loro banche derivati (con elevati rendimenti) da loro stessi studiati che contemplavano i rischiosissimi mutui e questo ha prodotto il risultato di penalizzare il socio, l'investitore e il cittadino che dovrà ripagare tali per


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Speculatori dite con le tasse. La responsabilità è da ripartire con le agenzie di rating che avevano dato tripla A alla stessa Lehman (il grande Istituto bancario fallito) e ai meccanismi di controllo che non hanno funzionato. Insomma si sono mandati e tenuti in circolazione titoli tossici per molto tempo. L'innesco dell'espolsione della bolla immobiliare ha causato un enorme crisi che è stata esasperata-mitigata dai supercomputer.Nel febbraio 2009 Ubs sbaglia un ordine di 31 miliardi di dollari che era centomila volte maggiore del desiderato nell'ottica di bugs del sistema degli algoritmi. In una mezz'ora del primo pomeriggio del 6 maggio 2010 l'indice Dow Jones ha perso mille punti per poi recuperarne subito 600; per cui fu denominato 'Flash crack'. La Borsa, già scossa dalle notizie della Crisi del debito europeo e specialmente la possibilità di default greco, era in leggero calo nella mattinata e l'Euro era in calo rispetto al dollaro e Yen verso l'una del pomeriggio. Verso quell'ora il mercato dei titoli iniziò a sperimentare un'enorme volatilità e mancanza di liquidità. Alle ore 02:32 un trader, la Waddell & Reed Financial, eseguì un ordine di vendita di 4,2 miliardi di dollari di un titolo futures che il mercato ha assorbito stranamente nell'interezza in meno di 20 minuti. E' avvenuto che ai supercomputer hft è piaciuta la vendita ed hanno approfittato per speculare al ribasso estendendo a tutto il listino. Quando i superpchanno capito che si era raggiunto il minimo hanno iniziato a ricomprare riportando la perdita dal 10% al 3% della chiusura. Dal 2010 non si hanno avute più crisi così esasperate, ma da allora si è assistito ad un "regolare" aumento della volatilità del mercato con alternanze di rialzi e ribassi del Dow Jones di circa 250 punti. L'intervento della vigilanza della Sec ha introdotto gli "interruttori automatici" alle contrattazioni che scattano se si superano certi livelli di contrattazioni.

Attacco speculativo all'Euro Dopo le difficoltà della Grecia nel 2010, messa in ginocchio dagli attacchi speculativi internazionali e dalla scoperta del trucco ai conti per entrare in Euro, il rifinanziamento da parte del Fmi e dei Paesi Euro, è il turno dell'Italia il 24 giugno, 8 luglio e 9 agosto 2011, date che fanno

piombare listini Mib in enormi ribassi e spread titoli del debito pubblico alle stelle. Le misure di Vegas non servono a placare i mercati anzi esaspera i punti di debolezza, e la speculazione delle Banche d'affari Us prosegue. Gli speculatori avevano messo sotto stress i mercati di Spagna, Irlanda e Portogallo per distogliere l'attenzione al vero centro di interesse, le Banche Italiane uniche ad essere liquide perché con portafogli di impiego molto solidi (in Italia i finanziamenti sono sempre stati concessi sotto enormi garanzie).

scambiati in Piazza Affari e a fronte di un enorme quantitativo di ordini vengono eseguiti solo per l'1%. Se nel 2006, le operazioni Hft in Usa erano il 15% degli scambi, nel 2011 sono il 70% degli scambi complessivi; per i mercati europei è del 50% HFT. Tali negoziazioni aumentano la liquidità dei mercati, ma possono produrre un blackout dei listini, fuorviare i trend del mercato e generare enorme volatilità. Accanto alla vigilanza dei singoli paesi, in Italia ad esempio è effettuata dalla Consob, in Europa abbiamo l'Esma.

Esma - Vigilanza comunitaria sulle Borse

Questo attacco a singoli Paesi della zona Euro mirano alla destabilizzazione della Moneta unica. Concentrarsi su un solo Stato richiede meno risorse e allo stesso tempo innesca effetti a catena visti i collegamenti tra le varie Istituzioni Nazionali e gli Istituti centrali comunitari. Il Governo, malgrado vari tentativi, non riesce a ripiazzare i titoli del debito pubblico in scadenza non venendo aiutato dai Partner europei. Lo spread tra titoli Italiani e tedeschi sale fino a 500 punti... E qui inizierebbe l'attualità che non desidero trattare per evitare polemiche politiche sterili, che spero sarà una seria Storia futura a valutare. Quello che però è interessante sapere è che i mercati finanziari stanno sperimentando una sorta di destabilizzazione pericolosa.

Controlli Gli istituti di vigilanza sono proposti al controllo, ma con i nuovi tipi di sistemi informatici il monitoraggio e la sanzione degli scambi destabilizzanti sono più difficili e inefficaci. In Italia ad esempio, gli scambi Hft pesano per il 50% dei volumi

Le soluzioni proposte sono verifica e riconoscimento dei supercomputer per ordini e movimenti, la controparte e l'intermediario; la possibilità di bloccare in ogni momento, gli operatori che utilizzano impropriamente il mercato. Agenzie di rating sono delle istituzioni private che emettono dei giudizi sulla quotazione dei titoli e dlele monete. Le agenzie di rating più importanti sono lo Standard & Poor's, Moody's e Fitch. Riassumendo, accanto agli agenti di cambio e Sim (Società di Intermediazione Mobiliare) o società di trading che operavano in Borsa, sono sorte le Piattaforme per lo scambio Hft, i computer veloci degli utenti e i Supercomputer fantascientifici di alcuni operatori che dominano le operazioni dei mercati. Sono i market maker, ossia le grandi Banche d'Affari che intromettendosi come negoziatori hft tra i clienti e piattaforme a sapere in anticipo e in automatico le mosse del mercato e quindi anticipare gli affari. Ma perchè le Borse hanno aperto alla rete Hft, alla speculazione ultraveloce? La motivazione è quella di rimanere agganciati e non perdere terreno rispetto agli altri mercati e operatori internazionali.

Piattaforme Hft Il trading veloce per il privato è stato aperto in Italia nel 1999. Un utente privato ha la possibilità per mezzo di un computer, una connessione ad internet, un piccolo capitale da investire ed un conto su un fornitore d'accesso. In Italia le piattaforme per l'Hft sono TLX di Unicredit; HI-TLX di Centrosim; AIM Italia e EXTRAMOT


38 della Borsa Italiana. In Europa , le transazioni Hft hanno inizio nell'agosto 2008, per contrastare il predominio del mercato Usa che sta letteralmente appropriandosi dei mercati finanziari nel suo complesso grazie all'adozione di tecniche di negoziazione ultraveloci. Questa paura di rimanere indietro e non seguire sempre l'esempio di qualche altro, in una perfetta imitazione, fa sempre compiere passi falsi perché al momento opportuno ci trova impreparati per l'inesperienza. In Europa le piattaforme per l'Hft sono: CHI-X Europe; Turquoise; BATS Europa (con la possibilità di investire anche nei dark pools); Millennium [un sistema di scambio in house ad elevata scalabilità, ridotta latency e rapida capacità di risposta e consegna. E' la piattaforma su cui si muove l'LSE -London Stock Exchange- Borsa di Londra. Nel settembre 2009, il London Stock Exchange Group (Italia e Inghilterra) ha acquistato Millennium per 30 mil di dollari Usa da MillenniumIT -società di servizi tecnologici per il settore borsistico con base in Sri Lanka-].NYSE Euronext è il principale mercato borsistico mondiale, un gruppo di mercati borsistici internazionale sorto nel 2007 dalla fusione tra la Borsa di New York NYSE e il gruppo delle borse europee Euronext [la principale borsa valori dell'Europa fusione tra le borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Lisbona e della LIFFE -London International Financial Futures and Options Exchange-] - Nasdaq-Omx Group - Cboe [Chicago Board of Options Exchange] - Bats Global Markets.

Reti telematiche hft Fornitori di accesso -provider- Usa: Direct Edge; BATS; Tradebot System; Tradeworx inc. (che utilizza la Thesys Technologies LLC come affiliato per la tecnologia) società leader nell'hft; Programma Piattaforma Visual Trader.

Borse alternative Piazze finanziarie alternative dette Mtf -Multilateral trading facilities, sono dette anche bacini torbidi o dark pools, piazze finanziarie extra borsistiche, Over the counter (sottobanco), ossia luoghi virtuali dove la compravendita risulta nel completo anonimato. Le borse alternative sono

Speculatori

mercati finanziari che contrattano titoli e valori non regolamentati e trattati dalle borse ufficiali. Sono in grande crescita perchè la loro regolamentazione ha una maggiore flessibilità e gli speculatori possono effettuare operazioni impossibili nelle altre borse tradizionali. Borse alternative europee: Chi-X maggior piattaforma europea con sede a Londra, Turquoise piattaforma di negoziazione creata da Barclays, Deutsche Bank, JP Morgan, Ubs, Goldman Sachs, Citi, Credit Suisse, Bnp Paribas e Société Générale - attualmente fa parte della London stock exchange (Lse), SmartPool piattaforma di BNP Paribas, JPMorgan, NYSE Euronext e HSBC. BATS Europe. Borse alternative Us: Sigma X maggiore dark pool Usa di proprietà Goldman Sachs; piattaforme proprietarie delle Bank of New York Mellon; Barclays, Credit Suisse, Usb, BNP Paribas, Citigroup, Knight, Nomura. Fornitori di liquidità: NYSE Euronext - Level ATS - BIDS Trading Liquidnet. Il Crossing network è un sistema di negoziazione alternativo alle borse tradizionali e alle piattaforme Hft, che incrocia ordini di compravendita di titoli degli utenti nei propri sistemi elettronici, senza inviarli al mercato finanziario e senza renderli pubblici. Il Forex -Foreign Exchange Market è

un mercato finanziario globale dove privati scambiano valute internazionali.

I software per l'Hft I leader mondiali per il trading automatico sono Getco LLC - Infinium Drw - Citadel - Colt leader Europeo KVH Co. Ltd. Giapponese. Il software proprietario di Goldman & Sacs si chiama SLANG (securities language) in linguggio Python/Perl che elabora il database segreto SecDB (securities database). La Morgan Stanley ha dei software di Low latency trading systems scritti in Java. Software commerciali HFT Visual trader, Pro Real Time, Borsa TSM, Insider 3000, Alert Pro, Plus500. Alcuni Hardware commerciali: Myricom DBL 2.0 che gira sotto window e Linux HFT-X in Linux. Accanto alla velocità permessa dagli hardware e dai software, una bassa latenza è permessa dalla vicinanza ai centri in cui si svolgono le attività di trading. Perchè i supercomputer abbiano massima efficacia e rendimento occorre una maggiore volatilità dei mercati finanziari. La Volatilità è l'ampiezza di variazione di prezzo di un titolo in un determinato periodo di tempo. Il Vix è l'indice che misura la volatilità media dei titoli scambiati in un mercato finanziario.


Eva

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Amate e odiate Donne!

“L’altra metà del cielo”, così con questa sintesi perfetta Mao Tze-Tung, usava definire il ruolo della donna. Come un universo a sé stante, che sta attorno alla terra, si mescola alla terra e, contemporaneamente, è lontano, inspiegabile, inconoscibile nelle sue forme, nei suoi limiti, nelle sue risorse. Quello femminile è un universo misterioso e attraente insieme, esaltante e capace di intimorire. Da gennaio, ogni mese, Piazza del Grano offre questo spazio a tutte le donne per rendere più compiuta e consapevole questa definizione. Manda le tue mail a “Parliamone”: pp.zzadelgranodonne@libero.it


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Eva

PARLIAMONE… “L’evoluzione di Eva” DI

CATIA MARANI

“Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: -Questa, finalmente, è carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta.” Da allora sono passati migliaia di anni, e la donna per lunghissimo tempo ha dovuto camminare non al fianco dell’uomo, ma qualche passo indietro, tenuta a debita distanza, senza poter pretendere nessun riconoscimento. Talvolta considerata alla stregua di un animale da fattoria o ancor meno. Già Aristotele scriveva che l’uomo era fatto per comandare, e la donna per obbedire, “perché la donna è come un maschio menomato”. Alle donne per più di mille anni fu tolta, (tranne rare eccezioni), l’opportunità di accedere alle università, dove venivano preparati i giovani uomini che poi avrebbero governato le città. Coloro che cercavano di mettersi al passo con gli uomini studiando, pagava-

no con la vita la loro curiosità e la loro sete di conoscenza, perché venivano accusate di stregoneria. Le porte degli atenei si aprirono a esse intorno alla seconda metà dell’800, quando ormai consapevoli che l’istruzione le avrebbe rese più libere, ma in modo discriminatorio. Solo quelle che appartenevano a famiglie ricche e nobili venivano accettate. Dopo la rivoluzione francese cominciarono a formarsi i primi movimenti femministi. L’uomo, che si era illuso di essere stato l’unico creatore del mondo evoluto, pretese di esercitare su di esso ogni diritto di prelazione a scapito della donna. A un certo punto, pensando che ella poteva essere non solo frustata ma anche sfruttata, la mise al servizio del capitalismo. Fu costretto a chiedere alla donna di adoperarsi fuori dalle mura domestiche, lasciando i campi e le stalle, per lavorare nelle fabbriche. Finalmente le donne, dopo aver conquistato con fatica anche l’indipendenza economica, divennero un modello di forza e di determinazione. Volevano essere padrone di se stesse, senza venire condizionate nelle loro scelte. Dal 1968 i movimenti femministi si fecero più agguerriti, le donne chiedevano di vestire come volevano, di avere, a parità di lavoro, stipendi come

quelli degli uomini. Volevano che le venisse riconosciuta la facoltà di decidere se diventare madri, quale tipo di contraccezione usare o di poter abortire. Oggi noi donne siamo in grado di svolgere qualsiasi attività, anche in ambito lavorativo, tanto che in alcuni casi la femminilizzazione della professione porta maggiori benefici: un’indagine canadese portata a termine dal Canadian Medical Association Journal ha dimostrato che le dottoresse fanno visite più lunghe, sono più interessate ai temi della prevenzione, non trascurano il bene psicologico di chi sta loro di fronte, sono deontologicamente più preparate dei colleghi maschi e sempre più attente e disponibili all’ascolto. Un’empatia con il paziente, che in campo medico è fondamentale esercitare, dove la malattia risulta più grave, dove il bisogno di sostegno e considerazione sono alla base dell’efficacia delle terapie. Con tutto ciò, per la maggior parte di noi, tra lavoro e vita privata, tra produzione e riproduzione, che ci hanno sempre creato tanti problemi, il merito non ci è ancora pienamente riconosciuto dalla mentalità maschilista, tanto che a tutt’oggi, i governi sono costretti ad inserire leggi che assicurino pari opportunità fra uomini e donne. Speriamo che la forte crisi economica e sociale che sta investendo il nostro paese non ci riporti indietro ad un tempo neanche troppo lontano, se pensiamo che in Italia le donne hanno votato per la prima volta il 2 giugno del 1946.


Eva

Le grandi donne della storia Sofia Vasiljevna Kovalevskaja. Fu la prima donna ad essere stata nominata professore di matematica da una università europea. Mosca: Nasce a mosca nel 1850, era la seconda di tre figli in una famiglia appartenente alla piccola nobiltà russa. La sorella maggiore Anjuta le era particolarmente cara. In famiglia la chiamavano Sonja. Ricordi:” In generale, la convinzione di non essere amata nella mia famiglia è come un filo nero che si avvolge attorno a tutti i miei ricordi” Carta da parati: Il caso volle che una delle camere dei bambini fosse tappezzata di fogli su cui vi erano stampate le conferenze sul calcolo differenziale del Prof. Ostrogradskj. “Mi ricordo di me bambina, mentre rimanevo ferma per ore davanti a quel muro misterioso per afferrare almeno qualche passaggio isolato o trovare la sequenza del numero delle pagine”. Anni dopo queste prime letture la aiutarono nello studio sistematico del calcolo differenziale, così almeno scrisse lei stessa.

Matrimonio: Per uscire dalla Russia ed andare a studiare all’estero, non avendo ottenuto il permesso dal padre, fu costretta a contrarre un matrimonio fittizio con Vladimir Onufievic Kovalevskj (Sofia aveva 18 anni). Londra: Dopo la laurea, prima di tornare in Russia soggiornò a Londra per qualche tempo e conobbe Charles Darwin, amico del “marito” paleontologo e, Gorge Eliot. Laurea: In russia non potè sfruttare la sua laurea, per cui nel frattempo il matrimonio divenne reale e nacque una bambina Sofia detta Fufa (1878). “Varie E particolari circostanze mi distolsero da un serio lavoro scientifico: la società stessa e le condizioni sotto le quali si è costrette a vivere”. Vedove: Nel 1881 lasciò il marito e tornò in Europa. Solo dopo che l’uomo nel 1883 si tolse la vita ella potè, non essendo più donna separata ma vedova, ricoprire l’incarico di docente ufficiale all’università di Stoccolma (1884). Influenza: Dopo una vacanza trascorsa con il nuovo compagno, che era anche cugino del marito defunto, si ammalò di influenza e morì a soli quarantuno anni il 10 febbraio del 1891. Da www.enciclopediadelledonne.it

41 In Libreria Consigliati e Sconsigliati dalle donne Acciaio – di Silvia Avallone – Rizzoli. E’ la storia di Anna e Francesca, amiche inseparabili che nei casermoni di Via Stalingrado a Piombino si sono trovate e scelte. Attraverso gli occhi di due ragazzine che diventano grandi, Silvia Avallone ci racconta un’Italia in cerca d’identità e di voce, apre uno squarcio su un’inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più. E lo fa con un romanzo potente, che sorprende e non si dimentica. Lettura consigliata – si >>>>> Cinquanta sfumature di grigio – E. L. James - Mondadori Io non l’ho letto. Milioni di donne si. Dato che quasi tutte lo hanno fatto direi che è inutile qualsiasi notizia o commento sul suo contenuto e il sul suo valore letterario. Sapete già tutto su questo straordinario “ bluff” editoriale. Lettura inutile da sconsigliare! >.... Cinquanta sbavature di Gigio – di Rossella Calabrò – Sperling & Krupfer Se dopo aver letto Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di rosso e Cinquanta sfumature di nero, non siete ancora diventate daltoniche, provate a immaginare che anche il vostro “gigio” con tutti i suoi difetti è molto, ma molto più simpatico di Mr. Grey, e quindi avere la certezza che nelle relazioni migliori ci si deve prima di tutto divertire. Lettura consigliata – si/no >>... Avvincente Una donna – di Sibilla Alerano – Feltrinelli Narrazione della protagonista che ripercorre la sua infanzia vissuta in una famiglia colta e ricca per poi sposare un uomo che non amerà e che farà di tutto per ostacolare la sua emancipazione. Una donna apparentemente fragile, ma che troverà comunque il coraggio di fuggire per ritrovare se stessa e dare corpo ai propri ideali. Lettura consigliata – si >>>>>


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VIII° Edizione del Concorso rivolto alle donne patrocinato dall’INAIL di Perugia “Umbria donne e lavoro; musica e canzoni al femminile” Da alcuni anni ormai l’INAIL ha iniziato un confronto, ricco di esperienze e di contributi diversi, con le donne. Si è avviato così un dibattito che, ad ogni nuova edizione del concorso arricchisce e apporta idee e fa sperare in un impegno sempre maggiore e più consapevole nella lotta delle istituzioni e dei singoli contro il fenomeno degli infortuni, dovuto spesso a violazione di norme di prevenzione, ma anche a comportamenti inadeguati e stili di vita scorretti. L’ottava edizione del Concorso, “Umbria donne e lavoro” , ha scelto quale genere quello musicale.

Per tutte coloro che volessero parteciparvi il bando è reperibile sul sito internet www.donnelavoro.it e su quelli presso la sede Inail della Provincia di Perugia e del Comune di Perugia. Il concorso è aperto a tutte le donne italiane e straniere che hanno compiuto il 14° anno di età. La partecipazione al concorso è gratuita. Le canzoni, o le composizioni per quintetto d’archi, per veicolare l’importanza della sicurezza e della prevenzione sui luoghi di lavoro, dovranno pervenire entro il 1° febbraio 2013. A tutte coloro che vorranno parteciparvi auguriamo buon lavoro!

Benessere al Naturale

Mode & Modi I pantaloni

La Donna Capricorno dal 21.12 al 19.01

Fino ai primi anni del dopo guerra sono stati un capo di abbigliamento adoperato esclusivamente dagli uomini. Poi donne dalle personalità audaci presero ad indossarli. Erano soprattutto donne che amavano lo sport e ne giustificavano l’uso in base all’eccezionalità del loro ruolo. In alcuni casi appannavano l’identità sessuale di chi li adottava, ad esempio, per una delle più eccezionali attrici dei primi del 900, come Marlene Dietrich che da travestimento, riuscì a trasformarlo in un normale indumento. Si dice che Greta Garbo, anche lei affascinata da questo capo di abbigliamento considerato stravagante e da donna troppo emancipata, li comprava direttamente in un negozio per forniture militari. Oggi i pantaloni non devono servire a revocare le conquiste raggiunte, ma a rimarcare le tante sfide da affrontare. Ecco perché, io personalmente, ma sempre più spesso mi capita di raccogliere le lamentele di altre donne, evoco il ritorno dei pantaloni a vita alta: ci concedono di muoverci più liberamente e di essere ugualmente alla moda, ma con un tocco di eleganza, che di sicuro negli ultimi anni avevamo perduto, a causa di quei centimetri di pelle esposti senza buon gusto soprattutto se non si è più delle teen-ager o una taglia 42

Donna calma, riflessiva, analitica e poco incline alle decisioni prese con il cuore. Difficilmente si lascia andare a entusiasmi incontrollati o a spontanee espressioni d’affetto. Segno governato dal rigido Saturno, pianeta che ben descrive il pesante senso del dovere quasi come un riscatto personale. Le relazioni vengono vissute quasi sempre in senso pratico e funzionale, il classico progetto di vita. Grande impegno e concentrazione nelle questioni di lavoro che possono assorbire molte molte energie alla donna capricorno, che tra l’altro difficilmente manca nei doveri di casa. D’altraparte il segno oscilla sempre fra una certa forza, i desideri interiori e il dovere immutabile, la distaccata e concreta rinuncia. Dunque una personalità combattuta che, a tratti deve reprimere le pulsioni più intense e profonde.

Alcuni suggerimenti, spendendo poco, per preparare trattamenti di bellezza da fare in casa, prendendo in prestito gli ingredienti dalla natura. Il prezzemolo ti fa bella. Impacco per occhi gonfi ed occhiaie Fai bollire un bicchiere d’acqua ed aggiungi 25 gr. di prezzemolo fresco. Mantieni in ebollizione per una decina di minuti, poi fai raffreddare il composto. Metti il prezzemolo strizzato dentro ad una garza e applica sugli occhi. Per un effetto migliore puoi mettere la garza in frigorifero per una mezz’ora prima di appoggiarla agli occhi. Capelli sani e lucidi. Fai bollire mezzo litro d’ acqua con 100 gr. di prezzemolo per circa 15 minuti e poi filtra il prezzemolo e usa l’acqua per sciacquare i capelli che risulteranno più lucidi e rinforzati. Il riso per avere una pelle di porcellana. Quando lessate il riso, non gettate l’acqua di cottura, ma dopo averla fatta raffreddare usatela per lavarvi il viso. Mantiene la pelle morbida e liscia, infatti alcune moderne ricerche hanno rivelato che la crusca di riso contiene sostanze altamente idratanti che aiuti a trattenere l’acqua.

Donne Capricorno Giovanna D’arco – Eroina francese (6 gennaio 1412) Marlene Dietrich – Atrice e cantante tedesca (27 dicembre 1901) Francesca Piccinini – Campionessa di pallavolo iataliana (10 gennaio 1979) Senza pretesa scientifica abbiamo riassunto le caratteristiche della donna capricorno, abbiamo giocato con gli astri, perché è sempre divertente contrapporre il teorico all’empirico, il sogno alla realtà.


Inediti

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Storie animali di umana violenza due racconti brevi di “Sballa”

Non è semplice declinare - in maniera altrettanto immaginifica e divertente - la violenza dei ruoli, delle costrizioni sociali, smascherare i “buoni” e i “cattivi” attraverso i gesti, attraverso gli effetti prodotti dalle parole più smielate; l’autore “Sballa”, tuttavia, ci riesce benissimo. Dietro i lupi, le lupe, gli agnelli o le agnelline ci sono le nostre brame, le nostre insicurezze, la ferocia dei nostri fallimenti, l’inevitabilità di alcune sconfitte, la colpa di tutte le altre. Come si è trovata a dire la poetessa Wislawa Szymborska, là dove nasce la fame muore l’innocenza, e anche i più buoni tra i buoni si trovano costretti a mangiare pietanze morte con contorni defunti per far sì che il proprio tenero cuore continui a pompare sangue. La fame rende possibile ogni eventualità e il perdurare della fame moltiplica gli appetiti: sta soltanto a noi far sì che questi ultimi non prendano il sopravvento e che la nostra esistenza non si trasformi in qualcosa di troppo “grottesco” per essere definito umano. (Sara Mirti)


44 IL LUPO E L’AGNELLA Un lupo, anoressico, ma con ideali bulimici atavici, si aggirava depresso nel bosco, nell’attesa vana di antiche transumanze. Ripensando ai pastori di una volta, con gambali di pelle di capra e verghe d’avellano, cercava, in cuor suo, di rimuovere le pesanti verghe e di evocare la pelle di capra che, pur senza carne, era sufficiente a ridestare appetiti e a vincere quello stato anoressico che, in un lupo della società dei consumi, è ancor più indecente. Rifletteva anche sul concetto di carità che era quasi del tutto scomparso dalle tavole assiologiche dell’uomo del nuovo millennio, teso a ben altre tavole, epulone, crapulone, ma anche, e ben gli stava, con tassi di colesterolo piuttosto elevati. Mentre pensava che, in fondo, sarebbe bastato poco per diminuire il colesterolo nell’uomo del nuovo millennio, udì all’orizzonte un belato. Rabbrividì per la gioia. “Una pecora” pensò. In breve tutti i suoi pensieri sulla mancanza di carità dell’uomo contemporaneo scomparvero per far posto a una grande fidu-

Inediti cia nella provvidenza che gli mandava diritta diritta una pecora come terapia per quella maledetta anoressia. Nel frattempo, il belato si faceva sempre più intenso e il lupo, in cuor suo, pensò che appartenesse a una pecorella smarrita che cercava il suo ovile altrettanto smarrito. “Certo” rifletté il lupo tra sé e sé “non dovrebbe avere un gran senso di orientamento questa pecorella smarrita. Che io sappia non ci sono ovili, purtroppo, nel raggio di chilometri e chilometri quadrati, quindi la pecorella è in uno stato di smarrimento totale”. Gli venne in mente che la pecorella stesse attendendo, come lui, con ottimismo, qualche antica transumanza, ma subito rimosse il pensiero poiché l’ultimo passaggio di greggi sui tratturi di Maremma gli fu raccontato da suo bisnonno, un vecchio lupo, morto per un attacco acuto di gotta, dopo l’ultimo passaggio di greggi sui tratturi di Maremma. Intanto la pecorella era arrivata ad un tiro di schioppo, ma il lupo, essendo per sua natura contro le armi, aspettò che gli arrivasse più vicino, se non al-

tro per distinguere se si trattasse di una semplice pecora, di un castrato o di un agnello. Si nascose dietro un cespuglio e non appena la pecorella smarrita gli fu a tiro, con un balzo le fu sopra e le chiese: “Sei una pecora, un castrato o un agnello? Non mi ricordo più come siete fatti voi ovini!” “Sono una povera agnellina” rispose quella che, a tutti gli effetti, sembrava una pecorella smarrita. A quelle parole, il lupo che le era ormai sopra, con un balzo ridiscese a terra e le chiese scusa poiché non aveva nessuna intenzione di che lui con il sesso aveva chiuso e aveva scelto la castità da quando aveva visto la nonna di Cappuccetto Rosso seminuda, dentro al letto. L’ agnellina, disse: “Peccato! Sarebbe un peccato oltretutto, e io voglio continuare ad essere pura come un agnello per non infangare la categoria.” Disse anche che la Pasqua era vicina e che non voleva assolutamente che, a causa di un suo peccato occasionale, l’uomo del nuovo millennio scegliesse magari un tacchino per imbandire la tavola, rinunciando a secoli di consuetudini e di sacrifici.


Inediti Rimase interdetto il lupo davanti a valori tanto consolidati e, dato che la vedeva così perduta, le chiese come mai si trovasse lì, a tanti chilometri dall’ovile dove, probabilmente, il gregge alloggiava con tutti i confort che un ovile moderno può offrire. Le domandò anche se avesse mangiato poiché, dato che la stagione era avanzata, poteva aver trovato qualche difficoltà nel trovare l’erba frescanei prati. “D’erba ne ho trovata molta” rispose l’agnella “e non solo nei prati; trovi sempre qualcuno disposto ad offrirtela e, grazie alla carità, sono sopravvissuta fino ad oggi”. Il lupo, con un pizzico d’invidia, rifletté sul fatto che chi cerca erba la trova sempre, mentre chi cerca carne non la trova mai e, in un sussulto di istinto ancestrale, le fu sopra un’altra volta e le disse: ”Non pensare male, non sei né una pecora, né un castrato,

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né un agnello. Sei una tenera agnellina, mi ti mangio!” L’agnella, vistasi perduta un’altra volta, tentò la carta della disperazione e disse: “Trattiamo! Sposiamoci!” Il lupo, vistosi spiazzato da una proposta tanto indecente, esitò e quasi fu tentato di ridiscendere a terra, poi rifletté sul suo presente di lupo solo e malandato senza nessun calore, mentre, standole sempre sopra, sentiva il caldo della pelle d’agnella che l’invadeva e lo riscaldava. “Si può trattare” rispose. La trattativa proseguì per diversi minuti, mentre il caldo della pelle dell’agnella inondava il lupo che, seppure anoressico, cominciava a riassaporare il piacere della carne. Fu così che il lupo e l’agnella si sposarono. La prima notte trovarono qualche difficoltà perché, da una parte l’agnella lamentava le paure inconsce che la tana del lupo le aveva sempre

evocato, dall’altra il lupo non ce la faceva a rimuovere la fobia della nonna di Cappuccetto Rosso, seminuda, dentro al letto. Poi l’intesa migliorò e il lupo e, soprattutto l’agnella, ebbero dieci gemellini, dieci dei quali erano lupi e dieci dei quali erano agnelli. I dieci lupetti vissero felici e contenti; i dieci agnelli, purtroppo, perirono tutti in età infantile; alcuni dicono che, essendo il padre anoressico, non avevano anticorpi adeguati, altri, malelingue, dicono che morirono di morte naturale, essendo naturale che un lupo mangi gli agnelli. Il lupo e l’agnella vissero felici e contenti fino al giorno in cui l’agnella morì. Alcuni dicono a causa di un’epidemia di afta, altri, malelingue, dicono che morì, come gli agnelli, di morte naturale. Il lupo, rimase solo e sempre più malandato, ma non dimenticò mai l’agnella e la portò sempre nel cuore e nella mente. E visse felice e contento.

forse ancora da svezzare o appena appena svezzato, ma sicuramente con un grande avvenire davanti: fa proprio per me che sono la famosa lupa romana, madre putativa di Romolo e Remo.” Mentre rifletteva sul quel blasone un po’ dimenticato, ma sempre geneti-

camente presente, si avvicinò all’agnello. “Behhh!” fece l’agnello quando si accorse di quella lupa che già presentava chiari segni di salivazione accentuata. E cercò di scappare, ma la lupa, con un balzo felino gli fu sopra e gli disse: “Non temere, non ti sbranerò, anzi… “ E cominciò

LA LUPA E L’AGNELLO Una lupa famelica, ma decisa ad eliminare quell’aggettivo che tanto le procurava dolore, soprattut-to di pancia, incontrò nel bosco un agne L’agnello, vuoi la stanchezza, vuoi quella dolce voce di mamma, che per un figlio, seppure momentaneamente adottivo, è sempre indimenticabile, si addormentò come un ghiro. A questo punto la lupa, per rinnovare il ricordo dei piccoli morsi in testa, che tanto le avevano dato piacere, ai tempi di Romolo e Remo, cominciò a dare morsi in testa all’agnello, prima uno, poi due, poi tre, poi quattro. Arrivò fino a dieci perché oltre non sapeva contare, ma tanto bastò perché il povero agnello fosse quasi del tutto sbranato. Si svegliò quando ormai era quasi del tutto morto. Tentò anche di resuscitare ma, visto com’era ridotto, preferì morire. La lupa, lo guardò teneramente poi, visto che, tra una cosa ed un’altra, era arrivata l’ora di cena, lo mangiò sì, ma non dimenticò mai quell’agnello e, insieme a Romolo, lo portò sempre nel cuore e nella mente. E visse felice e contenta. lo: “Beh” disse “che bell’agnello, è proprio il mio tipo, un po’ piccolino,


46 ad accarezzarlo pudicamente. L’agnello che non si era dimenticato delle carezze di mamma pecora, ebbe un attimo di smarrimento, ma poi, carezza dopo carezza, cominciò a pensare tra sé che l’istinto materno fosse una prerogativa di tutti gli animali, anche di quelli più feroci. “Sono la mamma di Romolo e Remo, sebbene putativa, e se tu vorrai ti educherò fino a farti diventare un nuovo Romolo” gli disse la lupa che ormai sentiva rinascere dentro un gran desiderio di essere di nuovo madre. L’agnello, che aveva origliato un po’ di storia romana dal pastore che, più volte aveva ripetuto al gregge la storia della lupa romana, le chiese come mai voleva farlo diventare come Romolo e non come Remo. La lupa rispose che per una madre i figli sono tutti uguali, ma confessò che la preferenza che aveva per Romolo derivava dal fatto che Remo aveva ripreso più dal padre che era un laziale. Confidenza per confidenza gli disse anche che lei non poteva scordarsi di quando i due gemellini le si attaccavano al seno e succhiavano con tale accanimento che qualche volta lei doveva intervenire an-

Inediti che con metodi bruschi, dando piccoli morsi in testa ai due mocciosi, poiché diglielo uno, diglielo due, aveva capito che, in educazione, è meglio la severità che il dialogo. Osò anche dirle, senza offesa, che il latte di lupa è migliore di quello di pecora e che gli uomini, un tempo, poiché bevano latte di lupa, si facevano chiamare figli della lupa, però solo quando erano bambini. Poi quel tempo passò e anche le lupe si rifiutarono di farsi mungere, vuoi per la gelosia dei lupi, vuoi per una certa prevenzione verso i pastori che non si sa mai come la pensano. A lei, però, quel bambino di nome Romolo le era rimasto nel cuore e, già fin dalla prima volta che l’accostò al capezzolo, capì, con il suo intuito di madre, seppure putativa, che avrebbe fatto carriera nel campo della politica, poiché succhiava succhiava succhiava e non si accontentava mai, tanto è vero che anche una lupa sibilla che viveva in un anfratto nei pressi di Albalonga, vaticinò che sarebbe diventato il primo re di Roma. Ma il suo cruccio più grande era quello che Romolo, dopo che lei lo aveva allattato come se fosse un figlio non putativo, si era scordato completamente di

avere una madre e l’unica volta che aveva provato un minimo di orgoglio fu quando Remo, poco prima di essere ucciso, chiamò il fratello “Fijo de bona lupa, che fai? M’ammazzi?” L’agnello stava lì lì per piangere di fronte a tanto strazio di madre e per consolarla le disse che anche suo fra tello, un agnello grande e grosso, nel pieno della pubertà, aveva chiamato il pastore che l’ammazzava “fijo de bona donna”, anche se lui, essendo ancora piccolo, non aveva capito perché era buona la madre del pastore. “Cose di madri” fece la lupa con un sospiro. “Ma adesso ci sei tu” gli disse, guardandolo teneramente e, se tu vorrai, potrai sostituire il ricordo incancellabile di Romolo nel cuore e nel grembo”. Così dicendo gli porse i capezzoli e l’agnello che non aveva mai smesso di pensare a quelli di mamma pecora fin dal tempo dello svezzamento, vi si attaccò voracemente. La lupa sembrava veramente tornata ai tempi del pastore Faustolo e, presa da un empito di maternità piena, cominciò a cantare la ninna nanna all’agnello. “Ninna nanna, ninna nanna, Romoletto della mamma!”


La Lista

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Comunisti nello spazio!

Nei ritratti: Kil Il-sung, fondtaore delle Repubblica Popolare di Corea, e Kim Jong-il leader deceduto lo scorso anno

Il 12 dicembre scorso la Corea del Nord ha lanciato il suo primo missile spaziale per portare in orbita un satellite metereologico (il secondo in verità, poiché il primo lanciato ad aprile era esploso subito dopo il lancio). Tutto l’occidente è insorto gridando al pericolo nucleare. Solo la Cina ha messo in guardia l’ONU dall’assumere decisioni “inopportune”, e tanto è bastato! E’ stato indubbiamente un grande successo tecnologico, così come ha ammesso lo stesso ente spaziale USA. Un paese così piccolo e povero, isolato da sessanta anni dal resto del mondo (tranne l’amicizia con la confinante Cina) è riuscito in una impresa che ben poche nazioni dell’occidente sviluppato sono oggi in grado di raggiungere da sole. Quale sia stato il prezzo, cioè lo sforzo economico richiesto alla popolazione di quella nazione è difficile stimarlo e forse, giustamente, potrebbe anche essere considerato eccessivo di fronte a esigenze vitali primarie che, almeno da quanto si sa (ma non è mai chiaro chi è che sa e cosa realmente sa), sono ancora molto insoddisfatte. E qui inizia il rituale “tormentone”: regime, dittatura, mancanza di libertà, sfruttamento e via di seguito. Sappiamo troppo poco (e meno ancora ci viene rivelato dalla nostre fonti occidentali realmente informate) della vita economica, politica e sociale della Corea del Nord; ma tanto di basta per giudicarla un lager. Sappiamo molto di più della Corea del Sud, ricca e prospera, dove fiorisce un mercato di organi umani, come ha descritto il recentissimo film “Pietà” di Kim ki-duk vincitore del Leone d’Oro all’ultima mostra del cinema di Venezia. Sia

chiaro che questo non vuol dire che se nel sud vince la barbarie capitalista, nel nord si giustifica un’eventuale diversa barbarie comunista. Quel che non appare possibile accettare è che si possa tranquillamente chiudere gli occhi sui difetti terribili del nostro sistema economico e gratificarci nel condannare ciò che pensiamo che sia il male di altri sistemi diversi e antagonisti al nostro. Questa ottusità è tipica della (non)cultura USA, il cui popolo multietnico e ancor più multi-economico (estremi di ricchezza da primo mondo e povertà da terzo mondo) è rimbecillito dalla convinzione che anche le peggiori nefandezze che esprime quotidianamente la loro società sono “nulla” rispetto ai mostruosi fantasmi del mondo esterno (cioè tutto il resto del mondo che non è territorio o dominio USA). Ci sono indubbiamente mille riflessioni da fare; facciamone una. Se può essere “folle” per un paese povero come si dice la Corea del Nord sperperare così tante risorse in imprese spaziali, come definiremmo la spesa di ben 13 miliardi di euro che il nostro paese sta sostenendo per acquistare dall’estero ben 90 aerei bombardieri quando l’INPS non ce la fa più a pagare casse integrazione da 750 euro al mese e lo Stato a garantire pensioni sociali da 450 euro al mese? E tutto ciò nel settimo paese più ricco del mondo! Qual è il regime, dov’è il lager? (ovviamente per chi deve vivere con quelle miserie). La stampa ci mostra immagini di un popolo coreano in festa per il successo dell’esperimento spaziale. Non sembra che ci siano molte feste in giro per l’Italia di oggi.



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