Gennaio-Febbraio 2015

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Mensile di informazione, politica e cultura dell’Associazione Luciana Fittaioli - Anno VII - nn. 1-2 - gennaio-febbraio 2015 - distribuzione gratuita

“Siamo ancora nella fase primaria del socialismo e ci resteremo ancora a lungo�


我们要的是实实在在、没有水分的速度,是民生改善、就业比较充分的速度,是劳 动生产率同步提高、经济活力增强、结构调整有成效的速度,是经济发展质量和效 益得到提高又不会带来后遗症的速度。 党的十八届三中全会的一个重大突破,就是市场要在资源配置中起决定性作用。要 素配置更要通过市场,同时要更好发挥政府作用。政府不是退出、不作为,而是政 府和市场各就其位。 过去讲“有理走遍天下”,现在有理的也到处找人。这从另一角度说明,老百姓要办点 事多么不易,不打点打点,不融通融通,不意思意思,就办不成事!这种现象一定 要扭转过来! 要深入开展法制宣传教育,在全社会弘扬社会主义法治精神,引导全体人民遵守法 律、有问题依靠法律来解决,形成守法光荣的良好氛围。 推进国家治理体系和治理能力现代化,就是要适应时代变化,既改革不适应实践发 展要求的体制机制、法律法规,又不断构建新的体制机制、法律法规,使各方面制 度更加科学、更加完善,实现党、国家、社会各项事务治理制度化、规范化、程序 化。 要坚持党的领导、人民当家作主、依法治国有机统一,把党的领导贯彻到依法治国 全过程。各级党组织必须坚持在宪法和法律范围内活动。各级领导干部要带头依法 办事,带头遵守法律。 习近平 In copertina Xi Jinping, Segretario Generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Repubblica Popolare Cinese, nella tipica divisa, senza gradi né decorazioni, di Comandante Supremo dell’Esercito Popolare di Liberazione. La citazione riprende un passo del Preambolo della Costituzione Cinese. Sopra il manifesto del “Sogno Cinese”


La “Perla Nera”

In un film di alcuni anni fa un personaggio chiedeva a Woody Allen: “Ma chi credi di essere, Dio?”. Allen rispondeva: “Beh, a qualche modello dovevo pure ispirarmi”. Oltre 30 anni fa venne pubblicata in Italia una rivista genericamente (in senso positivo) culturale, che ebbe un successo, anche internazionale, straordinario, tale da restare, pur dopo la fine di quell’esperienza, nella storia editoriale. La rivista si chiamava “FMR” dalle iniziali del suo ideatore/editore, Franco Maria Ricci. Pronunciate in francese quelle tre iniziali suonavano come “éphèmère”, tradotto in italiano: “effimero”. Ma effimero, allora, non aveva affatto un significato negativo, al contrario, rappresentava un’aspirazione, per così dire, “nobile”, contro la piattezza del consumismo materialista che aveva drogato l’intero modo di pensare e vivere dell’occidente. C’era stato il ’68 e, in qualche modo, una eredità l’aveva lasciata proprio in quella sinistra storica che a lungo non lo aveva capito e scioccamente osteggiato. A Roma, sotto la guida delle prime due “illuminate” giunte comuniste di Argan e Petroselli, era letteralmente esplosa l’ “Estate Romana” di Renato Nicolini, soprannominato l’assessore (alla cultura) dell’effimero. Nessuna “parentela”, ovviamente, tra l’editore di FMR e il Partito di Berlinguer, ma sicuramente l’egemonia culturale che allora quel partito esercitava ancora sull’intero mondo delle arti e delle scienze italiane ha influenzato anche quella scelta editoriale di alta qualità. Torniamo alla “ispirazione divina” di Woody Allen per dare conto, con la dovuta autoironia, della scelta che Piazza del Grano fa, con questo primo numero del 2015, di cambiare completamente la propria veste grafica, con l’ambizione di offrire un “prodotto” migliore, rigorosamente in piena continuità e coerenza con l’ispirazione marxista-leninista data dall’editore. Un giornale, una rivista nel nostro caso, è uno strumento di straordinaria importanza per la diffusione della conoscenza che è il presupposto di quella consapevolezza di sé e del mondo che sola può portare al cambiamento e al miglioramento. Un giornale, come detto, è anche un “prodotto”, un bene materiale di uso e godimento che quindi deve avere anche qualità estetiche, oltre che funzionali e di contenuto, che ne rendano piacevole la visione e la lettura. Ispirandoci alla “Perla Nera”, alla quale dedichiamo un contributo nell’ultimo inserto (più avanti commentiamo la scelta dell’episodio ricordato), abbiamo deciso di trasformare radicalmente la grafica del mensile, che diventerà bimensile (per ragioni oggettive di limitatezza dell’impegno interamente volontario dei collaboratori), ma con ben 84 pagine, copertina e rilegatura a filo. Un piccolo libro che consentirà di sviluppare più argomenti e dare loro maggiore spazio. Ma ancora cambierà, come vedrete sfogliando questo primo esperimento (lo miglioreremo senz’altro in seguito), l’impostazione grafica degli articoli, aperti su pagine doppie affiancate, con grandi titoli e grandi e (speriamo e ci impegniamo a farlo) migliori immagini. Due note per concludere questa breve presentazione. Vogliamo ricordare, e ci piace farlo costantemente, che per i comunisti marxisti-leninisti la bellezza, e perfino l’ “effimero”, è un diritto di tutti e non un privilegio per pochi. La miseria, la povertà, la sciatteria sono disgrazie che non aprono le porte del cielo, ma mostrano (nelle giuste misure) l’inferno terreno. Carta lucida e di qualità, cura dell’immagine e abbondanza, non sono manifestazioni di “sfarzo” delle quali, con ipocrita modestia, vergognarsi. Se possibili, cioè sostenibili (e questo limite ci induce a ridurre il numero delle uscite bimensili e delle copie che scendono a 2.000), sono, come detto, un diritto del quale “appropriarsi” ora e in questo tempo e mondo, che è l’unico che realmente esiste. Se la nuova veste della rivista vi farà e vi darà piacere, allora ne avremo ancora di più noi che la stiamo creando giorno dopo giorno da sette anni. Grazie. L’ultima nota la dedichiamo al tributo alla nostra ispiratrice FMR. Tra i tanti argomenti trattati da quella rivista nei numerosi anni di pubblicazione abbiamo scelto il servizio sul “Foro Mussolini”. Il titolo, che abbiamo tratto proprio dai testi della rivista, lo leggerete a pagina 77. In un momento di rigurgito di macismo fascista, purtroppo anche in Italia e non solo nei paesi devastati dell’oriente europeo, vogliamo ricordare che, come sempre, dietro le più ossessive manifestazioni di intransigenza (sia essa religiosa, ideologica o culturale), si celano in verità gravi problematiche di repressione psichiatrica non risolte. Buona lettura. (SR)

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Editoriale Io non sono Charlie di Sandro Ridolfi

pagina 6

Unione Europea Il nulla di fatto del semestre italiano di Giacomo Bertini

pagina 8

Contro-Finanziaria 2015 Una proposta contro le politiche sbagliate a cura della Redazione pagina 12 Approvato il job act di Renzi Ennesimo cambio delle regole di Loretta Ottaviani

pagina 16

La “bella scuola” siamo noi Critica al documento del Governo di Ivano Spano

pagina 20

La fase primaria del socialismo cinese Il libro di Xi Jinping di Sandro Ridolfi

pagina 24

La repressione del popolo kurdo Le ragioni della guerriglia di residtenza di Daniela Perfetti

pagina 28

Due storie di lotte operaie Portella della Ginestra e Naracauli di Giovanni Parentignoti

pagina 32

L’antiumanesimo capitalista La sociologia a fondamento dell’antiumanesimo di Alberto Donati pagina 36 Stalin: lezioni di leninismo Il materialismo dialettico a cura della redazione

pagina 42

Redazione: via Benedetto Cairoli 30 - 06034 Foligno - E-mail redazionepiazzadelgrano@yahoo.it - Sito internet: www.piazzadelgrano.org - Autorizzazione: tribunale di Perugia n. 29/2009 - Editore: Sandro Ridolfi - Direttore Responsabile: Maria Carolina Terzi - Sito: Andrea Tofi - Stampa: Del Gallo Editori Spoleto - Chiuso: 15 gennaio 2015 Tiratura: 2.000 copie - Periodico dell’Associazione “Luciana Fittaioli”


S ommario del mese di gennaio-febbraio 2015 Le lingue degli “altri” Favole per bambini in lingue originali a cura della Redazione

pagina 48

Giovani a confronto Nuovi migranti e neolaureata in cerca di Giacomo Bertini e Penelope Gruppo 11

pagina 52

Vecchie e nuove superfici Ferite, segni e tatuaggi di Sara Mirti

pagina 56

Riconoscete la LIS! Il teatro sordo in Italia di Dario Pasquarella

pagina 60

Luigia Rosato, detta Ginetta Intervista alla fondatrice del teatro sordo di Dario Pasquarella

pagina 64

Venga a prendere il caffè da noi Uomini confusi e infelici di Catia Marani

pagina 68

Racconto d’Inverno Cara Figlia di Chiara Mancuso

pagina 72

Omaggio alla “Perla Nera” Il Foro Mussolini a cura della Redazione

pagina 76

QR code al sito internet della rivista


di Sandro Ridolfi Questo articolo, idealmente identificato come “editoriale”, avrebbe voluto essere dedicato alla così detta “questione morale” così tanto sbandierata in occasione degli ultimi eventi giudiziari che hanno diffusamente colpito la politica nazionale, con lo scopo di rimarcare, ricorrendo alle testuali storiche dichiarazioni di Berlinguer (citato assolutamente a sproposito), la netta distinzione tra “illegalità penale” e “indegnità morale”, categoria etica, questa seconda, assai più ampia della

prima. Eventi recentissimi inducono chi scrive a modificare, al limite dell’invio in tipografia del numero, l’argomento dell’editoriale, rinviando (ma non dimenticando) la questione morale ad un prossimo numero, perché tanto questa questione, nella nostra società capitalista vocata al dio del denaro, non perderà mai di attualità. Il nuovo argomento è nel titolo; con una doverosa, per quanto ovvia, precisazione pregiudiziale: quanto verrà di seguito esposto è opinione personale di chi scrive, che se ne

assume le responsabilità, senza coinvolgimento di chiunque altro abbia partecipato, in assoluta libertà di pensiero e di scritto, alla composizione di questo numero, come dei precedenti e dei successivi. “Non sono Charlie” vuol dire che non intendo associarmi alla retorica ipocrita e scenografica della difesa delle grandi libertà di espressione del così detto “mondo libero” (cioè dell’occidente capitalistico) che nulla o almeno ben poco hanno a che fare con gli eventi drammatici di Parigi


Io non sono “Charlie” Adiamo per ordine. La strage di Parigi è un fatto oggettivamente gravissimo; ma non lo è di più o di meno di quelle che ogni giorno, magari proprio oggi e domani ancora, continuano ad essere perpetrate in numerose parti del mondo, in scuole, mercati, moschee, tempi e altri luoghi di concentrazione popolare e persino interi villaggi e comunità. Il mondo, sino ai nostri più prossimi confini di terra o di mare, è in guerra e, dunque, non ci deve stupire se, di quando in quando, la nostra dorata bolla di pace viene penetrata e contaminata. Non ci deve stupire, non vuole dire però che non ci deve preoccupare e preoccupare tanto; anzi proprio queste penetrazioni di violenza devono farci alzare il livello di attenzione, ma anzitutto quello di comprensione. L’Africa centrale è in fiamme tra malaria, ebola e guerre tribali e religiose; lo è la costa nord africana, con diversa intensità ma analoga pericolosità, dall’Algeria all’Egitto passando per la dissoluzione della nazione libica; l’Iraq, devastato dall’invasione USA, è in mano a milizie religiose che superano i confini della Siria e minacciano quelli della Turchia; gli alleati atlantici hanno abbandonato in fuga un Afghanistan sempre più in mano a fondamentalisti che si finanziano con una produzione di oppio oramai in scala industriale; nello stesso oriente europeo sono in corso, o comunque latenti, guerre civili fondamentalmente di miseria e depressione; mentre il ricco o attraente occidente non solo non è più ricco (almeno quanto diceva o pensava di essere), ma respinge in mare decine di migliaia di disperati in fuga da guerre e miseria. Cosa c’entra la strage di Parigi con il diritto di satira e la libertà di stampa in via generale? Potremmo dire: nulla. I terroristi (sul termine ci torneremo) che hanno massacrato la redazione del giornale satirico non hanno inteso colpire questi diritti, ma il cuore (o un cuore) di quell’occidente che per loro, nelle loro terre di

vita o provenienza, si presenta con il volto dei droni e dei missili teleguidati che bombardano e colpiscono da lontano indiscriminatamente. Siamo del tutto incolpevoli? E poi, o meglio, qual è la risposta? Una crociata ideologica contro l’intransigenza di una religione con la quale si identifica grossolanamente e malamente una pluralità quanto mai diversa di popoli? Che le religioni siano il “male” della storia dell’umanità (tutte le religioni e per prime quelle monoteiste che professano e impongono l’ “Unico Dio”) è un dato di fatto incontestabile. Che le religioni, spinte alle versioni estreme del fondamentalismo e dell’intolleranza, siano l’ultima spiaggia delle disperazioni della miseria e dell’ignoranza è, parimenti, un dato storico acquisito e oggi, in vaste aree del mondo, quanto mai attuale. Ma non è il fondamentalismo religioso (in questo caso quello musulmano, ma nella sua storia bimillenaria la chiesa cattolica è stata persino peggiore) ad avere aggredito le libertà occidentali; bensì, semmai, è stata proprio la negazione di fatto (per guerre e miseria) di quelle stesse libertà nei paesi di provenienza di quei terroristi ad averli spinti a quel gesto assurdo, bestiale e sicuramente inutile e controproducente per i loro stessi interessi. Sorge allora un dubbio: chi sono, o meglio, chi “manovra” questi terroristi e a vantaggio di chi, e per quale obiettivo che non sia quello – scusate l’avverbio e l’aggettivo – davvero banale della minaccia al diritto di satira e di stampa? Gli USA nella loro legislazione definiscono terrorismo "attività che coinvolgono violenza intese a intimidire o coercire una popolazione civile, per influenzare la politica di un governo tramite l'intimidazione o la coercizione, o per modificare la condotta di un governo tramite la distruzione di massa, l'assassinio o il rapimento”. La storia, e basterà fare riferimento alla nostra storia più recente delle “stragi di Stato” da Piazza Fontana

all’omicidio Moro, ci ha insegnato che nel mondo c’è un solo grande terrorista, ed è colui che, dopo avere seminato il terrore fomentando e cavalcando senza scrupoli miserie e disperazioni, assume di avere la forza di dominarlo e riportare la “sua” pace, alle “sue” condizioni e al “suo “prezzo”. Ognuno tragga le proprie conclusioni. Ed ecco la risposta dell’occidente: lo spostamento di una portaerei francese nel golfo persico per aumentare i bombardamenti da lontano, non considerando che il solo costo di quell’operazione di spostamento navale sarebbe sufficiente a costruire un ospedale o una scuola. Così si cede alle fobie xenofobe, razziste e fasciste dei Le Pen francesi e dei Salvini di casa nostra, si cede alla logica deteriore del terrorismo, del nemico che minaccia la “nostre” frontiere e le “nostre” libertà. Guerra di religione o di cultura? No, guerra economica di dominio e sfruttamento! Ultima nota davvero “editoriale”. Le così dette vignette satiriche pubblicate dal giornale parigino, che le aveva riprese da un giornaletto di estrema destra nazista olandese (o danese), erano davvero volgari e non meritevoli di essere pubblicate e questo a prescindere dal soggetto rappresentato e dall’offesa che quella squallida pubblicazione avrebbe recato a tanti, giustamente o ingiustamente, credenti. Questo non vuol dire assolutamente la “pena di morte” (siamo contrari persino all’ergastolo perché la pena deve essere rieducazione e non vendetta) e dunque non c’è giustificazione di alcun genere per quel fatto bestiale; ma resta un dubbio tra stupidità e provocazione. Di certo non alzerò la mia matita perché altre vignette volgari, offensive e stupidamente provocatorie vengano pubblicate, ovunque e da chiunque. Nel suo piccolo, ritengo che questa rivista sia un esempio di assoluto rigore ideologico e incondizionata libertà di espressione, ma, nello stesso tempo, di rispetto e di eleganza; i comunisti sono contrari alla volgarità (e alla stupidità).

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Unione Europea

una presidenza italiana i Oggi siamo inondati di informazioni sull’Unione europea. A volte le notizie contengono enormi errori: i diversi organi vengono confusi tra loro o non si ha idea di quali siano le loro funzioni. Ciò spesso accade perché gli stessi giornalisti conoscono poco e male il soggetto di cui parlano, di conseguenza, anche chi legge le notizie è indotto a divulgare informazioni sbagliate. Ma nel contesto in cui viviamo, ovvero l’Europa, l’ignoranza non è ammessa, perché è proprio nell’Unione che vengono prese le decisioni politico-economiche che più incidono sul nostro quotidiano. Men che meno è possibile non conoscere gli ultimi eventi che hanno visto l’Italia assoluta protagonista sulla scena europea a partire dallo scorso mese di luglio, in quanto al vertice della presidenza del Consiglio dell'Unione europea. Ma cos’è questa carica, quali sono i suoi poteri, quando e come nasce?

di Giacomo Bertini

Creazione ed evoluzione La presidenza del Consiglio dell’Unione europea trova le sue origini nel Consiglio della Comunità economica europea, nato con i trattati di Roma del 1957. La sua presidenza da sempre ha funzionato a rotazione dei suoi membri con turni semestrali, ma il Trattato di Amsterdam entrato in vigore nel 1999, ha apportato sostanziose modifiche, cambiando tale ordine che si basava su una rotazione alfabetica, in una rotazione decisa dal Consiglio all’unanimità. Tuttavia l’evoluzione più significativa è stata determinata dai progressivi allargamenti della Comunità europea prima e dell’Unione europea poi. Se i sei stati fondatori (Italia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania) possedevano un semestre di presidenza ogni tre anni, con l’allargamento a ventisette unità del 2007, lo svolgimento della rotazione completa avrebbe richiesto

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più di un decennio, con il rischio di un’eccessiva frammentazione del lavoro della presidenza. Per questo motivo nel 2007 è stato introdotto il sistema delle presidenze a trio, per cui tre presidenze di turno consecutive convergono su un programma comune di un anno e mezzo. Ciò consente maggiore continuità nei lavori per il perseguimento delle priorità prestabilite e favorisce una trasmissione di esperienze e capacità amministrative, utile specialmente per aiutare gli Stati di nuova adesione che si trovano ad esercitare compiti di presidenza per la prima volta. Il Trattato di Lisbona ha poi apportato ulteriori novità. Innanzitutto ha separato nettamente la presidenza del Consiglio dell’Unione europea dalla presidenza del Consiglio europeo, infatti fino al 2009 lo Stato membro che deteneva la prima carica occupava anche la seconda, inoltre è stata creata la carica di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, oggi in capo all’ex Ministro degli esteri italiano, Federica Mogherini.

Funzioni e poteri Il compito principale del Paese che presiede la presidenza del Consiglio dell’Unione europea è quello di coordinare i lavori del Consiglio, agendo come mediatore neutrale, al fine di promuovere le decisioni legislative, le iniziative politiche e negoziando compromessi tra gli Stati membri. Tali risultati vengono raggiunti attraverso la pianificazione delle sessioni del Consiglio e delle riunioni dei suoi organi preparatori. Va sottolineato come detenere la presidenza di turno del Consiglio costituisce una grande opportunità per gli Stati, che possono affermare o accrescere la propria influenza e il proprio prestigio e possono agire sull’agenda politica dell’Unione europea. Ovviamente ricoprire la presidenza costituisce anche un rischio quando non si è in grado di svolgere l’incarico, a causa dell’incapacità politica o di inesperienza o scarsa preparazione diplomatica.


n “chiaro-scuro” Il caso Italia Prendendo in esame il caso Italia, il nostro Paese ha guidato i lavori del Consiglio dell’Unione europea già undici volte dal 1957. L’esordio fu nel luglio 1959, quando a palazzo Chigi sedeva Antonio Segni. Amintore Fanfani, nel 1962, Aldo Moro, nel 1965, sono i Capi di governo dei semestri italiani nel primo decennio della storia dell’Ue. Il 1 luglio 1968 il governo di Giovanni Leone assume la guida del semestre di presidenza, lo stesso giorno in cui per i sei Paesi fondatori entra in vigore l’Unione doganale. Dallo scorso primo luglio fino al 31 dicembre 2014, l'Italia è stata nuo-

vamente a capo della presidenza del Consiglio dell'Unione europea. All’inizio dell’estate 2014, tra gli addetti ai lavori che circolavano nei palazzi del potere europei era grande l’attesa per il programma che avrebbe presentato il Governo italiano guidato da Matteo Renzi in vista dell’imminente incarico di presidenza, ma altrettanto grande era l’ansia visto il suo vistoso ritardo nell’essere presentato. Quando poi finalmente è giunto, esso poneva come punti base la crescita economica e occupazionale, maggiori spazi di libertà e sicurezza per un pieno esercizio dei diritti di cittadinanza e un ruolo più forte dell’Europa nel mondo.

Manifestazione contro il Vertice europeo sul Lavoro Torino 17 ottobre 2014

È giusto ricordare come la presidenza dell’Italia è coincisa con un momento non facile per l’intera Unione a causa dei lunghi tempi che ha chiesto la formazione della nuova Commissione europea a seguito delle elezioni dello scorso maggio. Questo fattore, inevitabilmente ha rallentato i lavori italiani. A ciò occorre aggiungere la burrascosa situazione internazionale in cui l’Unione europea è chiamata ad operare. Tuttavia, per valutare i risultati raggiunti dalla presidenza italiana di turno al Consiglio dell’Unione europea, bisogna guardare alle aspettative suscitate, quindi ai punti del programma del semestre italiano.


Un’Europa per il lavoro e la crescita economica La presidenza dell’attuale governo italiano si è impegnata a fare della crescita e dell’occupazione una costante delle politiche europee e a definire un quadro economico che incoraggiasse le riforme strutturali negli Stati membri. Proprio al fine di trovare la miracolosa ricetta contro la crescente disoccupazione europea è stata convocata una conferenza informale tenutasi a Milano lo scorso 8 ottobre. Tale evento ha avuto una risonanza mediatica molto elevata, purtroppo non sono conseguiti adeguati risultati. Di fatto la conferenza informale sui temi del lavoro e della crescita tra i Capi di Stato e di Governo e i rispettivi Ministri del lavoro, come previsto da molti, non ha prodotto nessun risultato significativo, infatti già diversi giornali avevano predetto come il terzo vertice europeo non sarebbe stato diverso da quelli che lo avevano preceduto a Berlino e Parigi: tante parole, impegni vaghi e poi solo silenzio. La conferenza, inizialmente doveva tenersi nel mese di luglio a Torino, ma problemi di sicurezza e un’agenda troppo scarna hanno portato al suo rinvio. Successivamente, Matteo Renzi propose di organizzare tale summit ad ottobre, ponendosi come obiettivi il rilancio degli investimenti, la crescita e discutere di occupazione, ma la proposta renziana fu bocciata il 30 agosto durante il vertice di Bruxelles sulle nomine europee. Infatti fu fatto notare come fosse inutile organizzare un mega summit, poi passato a conferenza informale, prima dell’insediamento del nuovo presidente della Commissione, che è avvenuto il primo novembre. L’insistenza del governo italiano di programmare questa conferenza nel mese di ottobre coincideva con quello che stava avvenendo in casa nostra, e cioè la discussione sul Jobs act. Di fatto, la proposta di Renzi era dettata soprattutto dal desiderio di poter annunciare proprio durante il summit sull’occupazione alla presenza dei più importanti politici europei, l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento italiano del Jobs Act, fortemente voluto dal suo esecutivo. L’annuncio dell’approvazione

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del Jobs Act aveva una valenza importante in sede europea perché il messaggio che il Governo italiano intendeva riproporre ai partner europei attraverso la legge sul lavoro era quello della flessibilità, ovvero essere elastici nell’interpretazione del Patto di Stabilità con chi fa riforme strutturali. Tale evento, che nella fase di presentazione era mostrato da intenzioni nobili, si è verificato essere solamente un’occasione per mettere in mostra l’interesse di un solo Paese a discapito dell’intera collettività. Per di più, la pubblicità messa in atto da coloro che avrebbero dovuto prendere misure adeguate per combattere la disoccupazione, un problema che affligge non solo l’Italia ma bensì tutto il vecchio continente, sarebbe stata lecita ed elegante solo se fosse stato raggiunto un vero risultato.

Un’Europa più vicina ai cittadini: uno spazio di democrazia, diritti e libertà Uno dei principi che muove il programma italiano è la trasparenza, in risposta a chi chiede un’Europa più vicine alle esigenze dei cittadini. Tale principio è stato messo in campo dalla presidenza italiana, chiedendo di desecretare il mandato negoziale, che vede coinvolti Stati Uniti ed Europa nel partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti, noto anche come Ttip. La Commissione europea, anche grazie alle pressioni della presidenza di turno italiana, ha accettato di “declassificarlo” e metterlo a disposizione di tutti, così da rendere un po’ più trasparente un negoziato che prevede centinaia di incontri riservati e sul quale i cittadini non sono minimamene informati. Dato che l’obiettivo di questo accordo è quello di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti, l’Italia sta cercando di chia-

rire un punto molto contestato di questa trattativa, che riguarda i prodotti alimentari. Inoltre la presidenza italiana si è impegnata a lavorare per lo sviluppo di un’autentica solidarietà a livello europeo, promuovendo anche una politica migratoria europea. Di conferenze e incontri che avevano come tema centrale l’immigrazione se ne sono svolte molte, ma di risultati tangibile sulla nostra vita reale ce ne sono stati ben pochi, ma sulle vite degli “altri” qualcosa è cambiato. Da Mare Nostrum siamo passati a Triton, una missione di pattugliamento dei confini europei che non si spingerà oltre le 30 miglia, al contrario di Mare Nostrum, un’azione di ricerca e soccorso che operava in tutto il canale di Sicilia, fin quasi alle coste libiche. Con Triton i barconi saranno lasciati al loro destino e ad affondare non saranno solo i rifugiati, ma bensì tutta l’Unione europea.


Cambiare marcia alla politica estera dell’Europa Nel testo del programma si leggeva «l’Italia sosterrà un’azione esterna dell’Unione che sia credibile, coerente e dotata degli strumenti necessari per affrontare le sfide globali e regionali. Il Mediterraneo è uno spazio vitale per l’Europa». Tuttavia non si può proprio affermare che l’Europa durante il semestre di presidenza italiana abbia cambiato marcia. L’ Italia può ritenersi soddisfatta di aver ottenuto la nomina della Mogherini ad Alto rappresentante, ma ciò non ci rende di certo il centro della politica estera europea. La nomina della Mogherini è stata fatta passare, almeno sulle testate giornalistiche nazionali, come una vittoria della diplomazia del Governo Renzi. L’ Italia ostinandosi a sostenere la Mogherini per la carica di Alto Rappresentante, aveva già in partenza rinunciato alla poltrona di

Commissario alle politiche agricole, incarico di prestigio, ma soprattutto che agisce in un settore in cui confluiscono ingenti e preziosi finanziamenti europei. Per di più, il nostro governo non ha neanche preso in considerazione la possibilità di assumere la carica di Commissario alle politiche d’immigrazione, che oggi è nelle mani di un greco. Tuttavia, da quando la Mogherini ha iniziato il suo mandato, sta cercando di mettere al centro del dibattito il mar Mediterraneo, una richiesta avanzata anche della presidenza italiana. In particolare, ha preso in esame due questioni che riguardano direttamente i paesi che sono bagnati dal mar Mediterraneo. La bollente situazione in Libia, sconvolta da guerre interetniche, e l’altra questione che sta portando avanti è quella del riconoscimento dello Stato Palestinese. In Europa, diversi Stati hanno riconosciuto formalmente e non lo Stato di Palestina, ed anche il Parlamento europeo ha approvato ad ampia

maggioranza una risoluzione sottoscritta da quasi tutti i gruppi che sostiene in linea di principio il riconoscimento dello Stato della Palestina sulla base dei confini del 1967, appoggia la soluzione a due Stati con Gerusalemme capitale ed esorta la ripresa dei colloqui di pace. Al momento uno dei Paesi che non sembra troppo interessato alla discussione di tale tematica è proprio il nostro governo, anche se ricropriamo una carica come quella di guida della politica estera che spinge verso tale questione. D’altronde, andiamo sempre in controtendenza quando ci sono importanti questioni da dibattere. Renzi a luglio, assumendo per sei mesi la presidenza di turno dell’Unione aveva promesso che «l’Italia sarà la guida dell’Europa». Così non è stato. Questo semestre, avrebbe dovuto e potuto rilanciare l’Italia a livello europeo facendola guida di un percorso di rinascita. Purtroppo, seppur non è stato un fallimento, avremmo potuto sfruttare meglio questa occasione.

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Sul grande bluff della riduzione delle tasse (imposte!) propagandato dal Governo Renzi abbiamo già scritto nei numeri precedenti, così come, ricorrendo a un documento redatto dai più qualificati economisti europei, abbiamo esposto le critiche radicali alle politiche economiche (in realtà esclusivamente valutarie) dell’Unione Europea che non riescono manifestamente a dare risposte concrete alla crisi strutturale del nostro sistema economico capitalista occidentale. Il Governo italiano, per quel poco (o nulla) che conta nello scenario globalizzato quanto meno europeo, ma anche la egemone Banca Centrale Europea del “mitico” Draghi, continuano ottusamente nelle loro politiche improvvisate, contingenti e senza alcuna speranza di incidenza sulla profonda realtà strutturale di questa nostra crisi. L’incapacità dei nostri politici nazionali e europei viene costantemente mascherata dietro altisonanti algoritmi finanziari esposti con vocabolario anglosassone volutamente non comprensibile. Ma il popolo (i cittadini, i lavoratori) non è “bue” e può ben comprendere i termini sostanziali della crisi capitalista. Pubblichiamo, perciò, di seguito un progetto di finanziaria 2015 redatto da validi economisti indipendenti che fanno capo al sito www.sbilanciamoci che vi invitiamo a visitare per i tanti interventi interessanti e anche per la lettura, per chi ne avesse voglia, del documento intero del quale abbiamo estratto alcune parti di più immediata lettura. (SR)

Contr

Premessa

Introduzione

Quella che attanaglia l'Italia e l'Europa è una crisi di rappresentanza sociale: non siamo tutti sulla stessa barca, c'è chi (ben rappresentato) naviga in prima classe e chi (la maggioranza) è già in acqua e rischia di annegare. Sbilanciamoci! propone una manovra che sceglie da che parte stare. Sul piano delle entrate gli assi portanti sono due: 1) un fisco più equo. Si sceglie non di aumentare, ma di redistribuire il prelievo fiscale dai poveri ai ricchi, dai redditi da lavoro e di impresa ai patrimoni e alle rendite; 2) tagli alla spesa pubblica tossica. Si opta per un riorientamento e una riqualificazione della spesa pubblica tagliando le spese militari, il sostegno all'istruzione, alla ricerca, alla sanità private e le grandi opere Sul piano delle uscite gli assi portanti sono tre: 1) intervento pubblico in economia. È alla base di un Piano per lavorare e produrre per il benessere sociale. Riqualificazione del trasporto pubblico locale, stabilizzazione del personale paramedico precario, assunzione di figure professionali stabili per combattere gli abbandoni scolastici, messa in sicurezza del nostro territorio, investimenti nella ricerca pubblica, nell'istruzione e nella tutela del patrimonio culturale potrebbero creare migliaia di posti di lavoro; 2) lotta alle diseguaglianze sociali. Un sistema di welfare universalistico richiede un maggiore investimento nei fondi sociali, nel sistema per l'infanzia pubblico e, soprattutto, l'introduzione di una misura di reddito minimo garantito. 3) buona spesa pubblica. È quella che investe nell'edilizia popolare pubblica, nella tutela dei beni comuni, in un Piano energetico lungimirante, nella preservazione del nostro patrimonio naturale, nel Servizio Civile Universale e nell'Aiuto pubblico allo Sviluppo e nell'economia solidale, a partire dalla destinazione di spazi o aree dismesse di proprietà pubblica o abbandonate dal privato. La democrazia è la prima vittima dell'Europa monetaria inchinata ai poteri forti. La contromanovra è un esercizio di democrazia dal basso. Potrebbe aiutarci a non affogare.

La Legge di Stabilità 2015 continua a proporre una diagnosi sbagliata della crisi e, di conseguenza, una strategia sbagliata per uscirne. Presentata come una legge espansiva, non si discosta nemmeno quest’anno dai parametri dettati dai Trattati europei, fissa al 2,6% il deficit per il 2015, posticipa al 2017 il raggiungimento del pareggio di bilancio non per scelta ma per costrizione. E a nulla vale che i principali indicatori economici segnalino in modo evidente il fallimento delle risposte neoliberiste offerte alla crisi: il Pil stimato allo -0,4% nel 2014, il debito al 136,4%, la disoccupazione al 12,6% a settembre 2014, quella giovanile al 42,9%. Innanzitutto manca una visione strategica pubblica del modello economico e industriale italiano. La parola d’ordine del Governo è quella di intervenire il meno possibile in campo economico, proseguendo nel programma disastroso di privatizzazioni (pari allo 0,7% del Pil programmato per il 2015 per un valore di 11,5 miliardi di euro), favorendo l’abbassamento del costo e dei diritti sul lavoro e continuando a fare regali fiscali alle imprese. Né è prevista una norma che disincentivi il licenziamento di quei lavoratori che potranno essere assunti a tempo indeterminato nel 2015 con sgravi contributivi nei primi tre anni di lavoro. Uno dei dogmi proposti come indiscutibili è (ancora) “Tagliare le tasse”: uno slogan indubbiamente popolare. Salvo dimenticare di spiegare che esso comporta anche la decurtazione di servizi collettivi fondamentali per i cittadini e che il taglio da 4,2 miliardi di trasferimenti agli enti locali provocherà inevitabilmente l’aumento delle tasse locali. Il cambio di verso delle politiche di austerità imposte dall’agenda europea è vero e falso nello stesso tempo. È vero perché il Governo ha scelto di portare le previsioni di deficit per il 2014 al 3% e per il 2015 al 2,6. È falso perché non implica una reale inversione di rotta prevedendo, come propone Sbilanciamoci!, con una campagna appena avviata insieme ad altri (www.colpareggiociperdi.org), l’abolizione dell’obbligo di pareggio di bilancio previsto in Costituzione. Semplicemente: il Governo rinvia il raggiungimento del pareggio di bilancio al 2017 non potendo fare altrimenti.

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ro-Finanziaria 2015

Nella Legge di Stabilità non c’è traccia di interventi seri per ridurre la forbice delle diseguaglianze. Gli 80 euro in busta paga continuano a escludere pensionati e disoccupati, mentre gli stanziamenti per i fondi sociali sono del tutto inadeguati. Si prosegue con la politica della beneficienza (bonus bebè, carta acquisti ordinaria e sperimentale) rinunciando anche quest’anno all’introduzione di uno strumento universalistico di sostegno al reddito e all’ampliamento del sistema di servizi sociali pubblici, peraltro fortemente sperequato tra il Nord e il Sud del paese. La copertura delle 150 mila assunzioni di docenti precari annunciate nelle Linee guida de “La Buona Scuola” è tutt’altro che sicura (ad oggi previsti 3,5 miliardi in tre anni), mancano risorse per il funzionamento ordinario delle scuole pubbliche, ma 471,9 milioni di euro sono previsti per finanziare quelle private. Per le imprese che investono in ricerca e sviluppo il Governo ripropone crediti di imposta senza optare invece per investimenti nella ricerca pubblica e nell’università. Per gli interventi contro il dissesto idrogeologico, nonostante gli annunci che seguono come sempre i disastri come quelli di Genova, sono previsti 190 milioni di euro aggiuntivi sul 2015: il 9,7% di quei due miliardi l’anno che servirebbero se davvero si volesse affrontare il problema. Restano invece gli investimenti nelle grandi opere (più di 3,2 miliardi previsti ad oggi nella Legge di Stabilità) i cui costi e tempi sono incerti

e insostenibili dal punto di vista economico-finanziario, sociale e ambientale. Si dimentica che la crisi economico-finanziaria non è stata provocata dalla mala gestione della finanza pubblica, ma dalle cattive speculazioni della finanza privata: nessuna traccia di quell’estensione della tassa sulle transazioni finanziarie ad azioni, obbligazioni e derivati che contribuirebbe a ridurre le speculazioni finanziarie. Politiche diverse sarebbero possibili: Sbilanciamoci! lo dimostra anche quest’anno con la sua contromanovra di 27 miliardi che, come sempre, chiude in pareggio. Non condividiamo le scelte del Governo ma come ogni anno vogliamo mostrare che, anche a saldi invariati, politiche nettamente differenti sarebbero possibili. Basterebbe cambiare le priorità delle scelte economico-finanziarie, ricordando che la qualità dello sviluppo non si misura solo a suon di punti di Pil e che sono ormai molte le esperienze economiche alternative che praticano dal basso un diverso modello di sviluppo sociale, economico e sostenibile, rispettoso dei bisogni delle persone e delle comunità locali – lo “Sviluppo Locale Economico Sostenibile”. La contromanovra 2015 di Sbilanciamoci! propone di porre fine (davvero) alle politiche di austerità abolendo innanzitutto l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione e chiedendo al Governo di promuovere in Europa l’abbandono delle politiche adottate sino ad oggi.

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Le riforme strutturali: le ricette sbagliate dell’Europa L’Europa in crisi

L’Europa si trova in una crisi che sembra non avere fine. La stessa parola crisi, che rimanda a un fenomeno di rottura e di breve periodo, è ormai inadeguata a descrivere quello che appare come un cambiamento strutturale dell’economia e della società: anni di recessione, aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, il rischio concreto di un collasso dell’euro e dello stesso progetto di Unione Europea. Se l’insieme del vecchio continente appare in grande difficoltà, i problemi maggiori sono nei paesi del Sud. Secondo le istituzioni europee, il motivo è semplice: nel passato tali paesi avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità, in particolare per quanto riguarda la spesa pubblica: troppo welfare, pensioni elevate, inefficienza e corruzione, con conseguenti deficit ed eccesso di debito. Oggi non c’è alternativa ai piani di austerità: tagliare la spesa pubblica per rimettere a posto i bilanci e diminuire debito e deficit. Nella stessa direzione, le imprese devono diventare più competitive, in modo da esportare di più e contribuire così a un miglioramento dei conti pubblici. Ancora, sia per diminuire la spesa e il debito, sia per espandere l’economia, occorre accelerare con le privatizzazioni: mettere sul mercato sia gli immobili sia le imprese sotto controllo o a partecipazione statale per fare cassa e per sfruttare la maggiore efficienza economica del privato. Tagli alle spese pubbliche, piani di austerità, competitività per rilanciare l’export, privatizzazioni. È questa la ricetta proposta, o meglio imposta dalla Troika – Commissione Europea, Banca Centrale Europea (Bce) e Fondo Monetario Internazionale (Fmi) – che guida le decisioni di politica economica in Europa, soprattutto nei paesi del Sud del continente, accusati di rallentare l’economia rispetto a un Nord guidato dalla Germania, esempio di alta produttività, surplus commerciale trainato dall’export, conti pubblici sotto controllo. L’obiettivo è quindi quello di seguire il modello tedesco, e ancora prima di evitare che ci sia un’Europa a doppia velocità, in cui i paesi della periferia si trovano con economie sempre più deboli e squilibri sempre più forti, ponendo a rischio la moneta unica se non l’intero progetto dell’Unione Europea. In questa direzione si possono inquadrare le richieste, o per lo meno le pressioni europee, per quelle riforme strutturali che portino l’Italia a una maggiore produttività e competitività, partendo quindi da una riforma del lavoro. Riguardo le finanze pubbliche, con la legge costituzionale 1/2012 l’Italia ha inserito il principio del pareggio di bilancio in Costituzione. Una decisione che va addirittura oltre le richieste europee contenute nel Fiscal Compact e in altri trattati, che non obbligavano i paesi a modificare la propria carta costituzionale. Fatto sta che con questa decisione, come con la discussione sul Jobs Act e con diverse altre misure, il Governo italiano sembra sposare in pieno l’approccio e la visione europea.

È colpa delle finanze pubbliche?

Cerchiamo di capire quanto tale visione sia fondata e

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quanto la soluzione possa essere efficace, a partire dal fatto che alcuni paesi avrebbero i conti fuori controllo a causa di un eccesso di welfare e spesa pubblica. L’Italia è il caso più lampante, con un rapporto tra debito e Pil che ha superato il 130%, a fronte dell’impegno sottoscritto da tutti gli Stati europei di mantenerlo entro il 60% (cosiddetti parametri di Maastricht). È vero che l’Italia ha sempre avuto un debito alto, ma è altrettanto vero che da un valore ben superiore al 120% intorno alla metà degli anni ‘90 il rapporto debito/Pil è costantemente sceso, fino ad arrivare al 105% nel 2008. Di colpo, la tendenza si inverte a cavallo del 2008, con un rapporto che ricomincia a salire. Non solo in Italia, ma in tutti i paesi occidentali, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, l’andamento è analogo: debito/Pil quasi costante per oltre un decennio, poi improvviso aumento dopo il 2008. Un tale andamento non ha nulla a che vedere con un presunto “eccesso di welfare”, o con paesi che “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Il motivo è la crisi della finanza privata, non certo di quella pubblica: lo scoppio della bolla dei subprime e la conseguente recessione, mentre gli Stati devono indebitarsi per salvare le stesse banche responsabili della crisi.

I piani di austerità

Ma dimentichiamoci per un momento che la crisi è stata causata da una gigantesca finanza privata fuori controllo, e non certo dalla finanza pubblica, e ammettiamo che siano gli Stati a dover rimettere a posto i conti pubblici. I piani di austerità funzionano per diminuire il rapporto debito/Pil? Analizziamo questo rapporto. Se si taglia la spesa pubblica, a parità di entrate diminuisce il deficit e quindi tende a migliorare – o per lo meno a peggiorare di meno – il debito pubblico. C’è però una difficoltà: tagliare la spesa pubblica vuole dire meno investimenti, meno denaro per i dipendenti pubblici, meno servizi, ovvero una diminuzione del Pil. Nel rapporto debito/Pil, quindi, da un lato i piani di austerità fanno calare il numeratore, dall’altro però cala anche il denominatore. Bene, secondo gli studi più recenti dello stesso Fmi, membro autorevole della Troika, nella gran parte dei casi tagliando la spesa pubblica il Pil diminuisce più rapidamente del debito. Il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico. Anche senza grandi analisi teoriche, sarebbe probabilmente sufficiente vedere cosa sta succedendo in tutti i paesi che in questi anni hanno dovuto accettare le misure di austerità. Dall’Italia alla Spagna fino alla martoriata Grecia, non solo la disoccupazione è rapidamente aumentata, non solo si sono raggiunti livelli di povertà e di disuguaglianze intollerabili, ma persino il principale obiettivo da raggiungere, ovvero l’aggiustamento dei conti pubblici, si sta risolvendo in un fallimento, e il rapporto tra debito e Pil continua a peggiorare.


Il mantra della competitività

Riassumendo, la diagnosi è completamente sbagliata: il problema non è nella finanza pubblica ma in quella privata. Se anche la diagnosi fosse giusta, la cura sarebbe comunque sbagliata: l’austerità non funziona. Ma allora come è possibile che i decisori europei siano tanto miopi? Il problema non è nell’analisi, ma nella visione economica. Una visione secondo la quale il problema non è nelle disuguaglianze o nel crollo dei consumi e della domanda, ma nella necessità di aumentare e migliorare l’offerta. È la visione liberista e mercantilista che domina il pensiero economico europeo: tagliamo la spesa pubblica, le tasse, i salari e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, in modo da rendere le imprese europee più competitive. Questo porterà da un lato ad attrarre più investimenti, dall’altro a esportare di più, il che successivamente porterà alla crescita del Pil e infine dell’occupazione. Competitività significa vincere la concorrenza internazionale e uscire così dall’attuale stagnazione. Un primo problema è che se tutti adottano la stessa teoria per cui chi esporta di più vince, essendo la Terra di dimensioni finite, o qualcuno trova il modo di esportare su Marte o evidentemente se qualcuno “vince” altri devono “perdere”. Secondo, la stessa questione si ripete su scala europea: gran parte del commercio nell’Unione Europea è tra paesi europei, il che vuol dire che se qualcuno esporta di più, altri devono importare di più o lanciarsi nella stessa gara. Viene meno la stessa idea di “Unione” Europea, sostituita da una “Competizione” Europea in cui ogni paese cerca di superare il vicino. Terzo, ma è l’elemento più preoccupante, questa competizione è di fatto una corsa vince, almeno finché un altro paese non abbassa le leggi a tutela dell’ambiente per produrre a un costo inferiore, finché un altro non si trasforma in un paradiso fiscale pur di attrarre capitali, e via discorrendo. Una corsa verso il fondo in materia sociale, ambientale, fiscale, monetaria. In altri termini, l’intero peso di una crisi causata dal collasso del gigantesco casinò finanziario privato è scaricato su lavoratrici e lavoratori e sulle classi sociali più deboli. I primi pagano sia in termini di smantellamento di diritti e tutele sia in termini di minori stipendi, entrambi sacrificati al Dio della competitività. Le fasce più deboli della popolazione subiscono i tagli e la privatizzazione del welfare, dalla sanità all’istruzione, dalle pensioni ai servizi idrici ad altri ancora, ovvero una diminuzione netta del proprio reddito indiretto. Chi non ha alcuna responsabilità per lo scoppio della crisi, ma anzi ne ha già pagato il prezzo più alto, si trova una volta di più con il cerino in mano.

Due Europe a confronto

Non solo. Taglio dei salari, alta disoccupazione e recessione significa crollo dei consumi e quindi dell’inflazione, il che nella visione della Troika avrebbe anche un effetto positivo: dovrebbe permettere ai paesi più deboli che avrebbero “vissuto al di sopra delle loro possibilità” di ridurre gli squilibri rispetto a quelli più forti. Di fatto tali politiche si sono tradotte in un crollo della domanda interna che non è stato compensato da un aumento delle esportazioni. Diversi Stati sono in deflazione, mentre la caduta del Pil non si arresta, portando a un calo delle entrate fiscali e a un ulteriore peggioramento del rapporto debito/Pil. Un peggioramento che giustifica ulteriori misure di austerità e vincoli sempre più stringenti imposti dall’Europa ai paesi più deboli, in una spirale apparen-

temente senza fine. A questo punto, per fare cassa, gli Stati allo stremo devono svendere beni e terreni demaniali e imprese sotto controllo pubblico: è il trionfo delle privatizzazioni, ovvero dell’ulteriore espansione del mercato e della finanza sui diritti. Al culmine del paradosso la stessa crisi diventa il grimaldello per esasperare la mercificazione e la finanziarizzazione di ogni settore della vita umana, per imporre altri sacrifici, per smantellare i diritti acquisiti in decenni di lotte, ovvero per inasprire ulteriormente l’aumento delle disuguaglianze e le cause che ci hanno trascinato nella crisi stessa. Lanciati verso un muro, ci chiedono di accelerare. I problemi non riguardano più solamente l’Europa del Sud o i paesi cosiddetti della “periferia”. Persino la stessa Germania ha visto un peggioramento dei propri dati economici. Tra i motivi si può menzionare il crollo della domanda in molti paesi europei, con la conseguenza che le merci tedesche non trovano più sbocchi commerciali.

Cambiare rotta

Ci sono almeno due Europe che si confrontano, ma non parliamo di un centro riunito attorno alla Germania e di una periferia in difficoltà. Parliamo di due visioni economiche e sociali incompatibili. La prima fondata sull’austerità, le privatizzazioni e la flessibilità (leggi precarietà e perdita di diritti) nel mondo del lavoro, il tutto nel nome della competitività. La seconda che vede al contrario la necessità di premere l’acceleratore verso un’Europa sociale, fiscale e dei diritti che sappia bilanciare l’Europa dei capitali e finanziaria. Che chiede un piano di investimenti di lungo periodo per la creazione di posti di lavoro in settori chiave per il futuro: la riconversione ecologica dell’economia, la mobilità sostenibile, l’efficienza energetica, la ricerca e la formazione. Per la creazione di un’unione e di una cooperazione tra Stati, non di una competizione esasperata su scala europea e internazionale. Oggi è però la prima visione a essere egemone, non solo nelle forze apertamente liberiste, ma ancora prima in buona parte dei governi e dei partiti che si definiscono progressisti o di centro-sinistra. Ribaltare tale rapporto di forze significa ricostruire l’immaginario della crisi e il linguaggio costruiti in questi anni e oggi dominanti. Occorre mostrare la follia di un tale percorso, e la necessità e l’urgenza di ridisegnare alla base l’architettura e le politiche europee. Il Fmi, nel suo rapporto annuale (World Economic Outlook) segnala la necessità di investimenti pubblici – sotto diversa forma – per rilanciare l’economia tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Persino il Financial Times arriva a definire tali investimenti un “pasto gratuito” (free lunch), visto che per ogni euro di investimenti pubblici se ne genererebbero quasi 3 di ricchezza in uscita. Un aumento del Pil che significa, oltre alle ricadute positive in termini occupazionali, anche una crescita del gettito fiscale che andrebbe in buona parte a ripagare gli stessi investimenti. Il problema è che a un’analisi sempre più condivisa non corrispondono decisioni di politica economica e monetaria, che continuano invece a inseguire il fallimentare mantra della competitività e dell’austerità. Occorre cambiare direzione, non solo a livello economico ma prima ancora culturale. Un lavoro difficile, ma l’unico possibile per salvare l’Unione Europea dal vicolo cieco in cui essa stessa si è infilata.

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di Loretta Ottaviani Premessa La legge delega n. 183/2014, all’art. 1 comma 7 lett. c) stabilisce che l’attività legislativa del Governo dovrà essere ispirata alle seguenti direttive: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento”. Il decreto introduce una specifica disciplina sulle conseguenze per il datore di lavoro nel caso in cui ponga in essere un licenziamento illegittimo; si considera tale il li-

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cenziamento nullo perché discriminatorio, o per altre cause di nullità previste dalla legge, oppure quando risulti accertato dal Giudice che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa. Resta evidente che, laddove in base ad una valutazione di proporzionalità accertata dal Giudice, sia riscontrata la legittimità del licenziamento, nessuna reintegrazione o indennità è dovuta al lavoratore. Inoltre, l’obiettivo del decreto è quello di regolare in modo completo la materia dei licenziamenti – sia economici che disciplinari – per i soggetti assunti a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore del decreto, ponendo quindi una disciplina alternativa all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che per essi non troverà più applicazione. Si tratta, dunque, di una disciplina parallela che si ritiene legittima sul piano Costituzionale e che nel tempo troverà applicazione per la generalità dei lavoratori dipendenti.

Il decreto trova applicazione per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal primo gennaio 2015 e restano, dunque, esclusi i rapporti a tempo determinato. Licenziamenti Il nuovo contratto indeterminato a tutele crescenti prevede che, per i nuovi assunti, cambi definitivamente la disciplina dell’articolo 18. Le imprese che superano la soglia dei 15 dipendenti e che effettuano nuove assunzioni con il contratto indeterminato a tutele crescenti previsto dalla prima delega del Jobs Act, continuano a non applicare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori a tutti gli assunti. Il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti si applica a partire dal primo gennaio 2015: sostituisce per le nuove assunzioni il vecchio tempo indeterminato (che resta inalterato per i contratti in essere)


Jobs act diventa legge:

ennesimo cambio di regole E venne il giorno del Jobs Act. : il Consiglio dei Ministri del 24 dicembre ha approvato il decreto attuativo sul nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, con relative novità in materia di licenziamenti (articolo 18) e ammortizzatori sociali (con formula del “salvo intese”). L’obiettivo, dichiarato nella legge delega 183/2014 (comma 7, lettera b), è: «promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Si apre così la nuova fase, quella più incisiva per le ricadute pratiche, sociali ed economiche, della nuova legge sull’occupazione: trattandosi di un disegno di legge delega, infatti, il succo delle novità arriverà solo di qui in avanti, con i prossimi decreti legislativi in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Nel frattempo è stato attivato un duplice intervento: la defiscalizzazione contributiva inserita nella Legge di Stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato stipulate nel 2015 (che rende questa tipologia contrattuale più appetibile dal punto di vista economico per le imprese) e il decreto attuativo del Jobs Act appena approvato, che introduce il contratto a tutele crescenti.

e prevede sostanzialmente novità in materia di licenziamento, allentando di molto i vincoli dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il diritto al reintegro per il lavoratore ingiustamente licenziato, in pratica, sparisce per tutti i licenziamenti di tipo economico (giustificato motivo oggettivo) e disciplinare (giustificato motivo soggettivo o giusta causa), mentre resta in tutti i casi di licenziamento discriminatorio. Per le imprese sotto i 15 dipendenti continua a non essere previsto il reintegro (tranne che nel caso dei licenziamenti discriminatori). Nelle piccole imprese la misura dell’indennità in caso di licenziamento ingiustificato è dimezzata (quindi è pari a una mensilità per ogni anno di lavoro), e non può comunque superare le sei mensilità. Per queste imprese c’è anche un’altra previsione importante nel decreto: dal primo gennaio 2015, quando superano la soglia dei 15 dipendenti (sopra la quale, come è noto, si applica l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori), effettuando assunzioni a con-

tratto indeterminato a tutele crescenti, le nuove regole sulla disciplina dei licenziamenti continuano a valere anche per i vecchi assunti. In parole semplici, ai vecchi assunti a tempo indeterminato delle imprese sotto i 15 dipendenti che superano questa soglia, si applicano in materia di licenziamento le stesse regole del contratto indeterminato a tutele crescenti, non quelle del “normale” tempo indeterminato. In pratica, il diritto al reintegro resta solo per i licenziamenti discriminatori illegittimi, mentre viene abolito per quelli economici (giustificato motivo oggettivo, come la crisi e la riorganizzazione aziendale) – per i quali la riforma Fornero aveva previsto una sorta di doppio binario (indennizzo economico o reintegro su decisione del giudice), sostituito da un indennizzo economico pari a 2 mensilità per ogni anno di lavoro, con un minimo di 4 e un massimo di 24. Quindi rispetto a quanto previsto dalla Riforma Monti-Fornero, c’è un’ulteriore limitazione del reintegro: in base alla legge 92/2012 an-

che nei licenziamenti per motivi economici (crisi o riorganizzazione aziendale) può essere previsto il reintegro (se considerato insussistente il motivo del licenziamento). Il Jobs Act, invece, abolisce del tutto questa opzione quando vi è un giustificato motivo oggettivo per il licenziamento (ossia quello economico), sostituendolo con un risarcimento che andrà quantificato con il decreto attuativo: oggi l’indennizzo è fino a 24 mensilità, con la riforma si arriverebbe ad un massimo di 36, calcolandone 1,5 per ogni anno di lavoro. Niente opting out, ossia la possibilità per l’azienda (anche davanti a sentenza di reintegro del giudice), di reinserire il dipendente in organico pagando un indennizzo più alto. Anche per i licenziamenti disciplinari viene sostituito il reintegro con un indennizzo, tranne che nel caso in cui l’impresa lasci a casa un dipendente per un fatto insussistente. Le nuove regole si applicano anche ai licenziamenti collettivi, non solo a quelli individuali.

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Assunzioni agevolate Secondo la nuova Legge di Stabilità, per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato decorrenti dal 1 gennaio 2015 e stipulate entro il 31 dicembre 2015, i datori di lavoro, ad esclusione del settore agricolo, sono esonerati dal versamento dei contributi previdenziali INPS, per 36 mesi e fino ad un massimo di 8.060 euro l’anno (esclusi dall’agevolazione premi e contributi INAIL). Il beneficio si applica per nuovi assunti senza contratto stabile da almeno sei mesi. In sintesi: • assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori non occupati con tale contratto nei 6 mesi precedenti, • sgravio del 100%, • Premio INAIL dovuto, • Agevolazioni per assunzioni da gennaio e stipulate entro dicembre 2015. Da gennaio 2015 sono soppresse le agevolazioni contributive della Legge 407/1990, che all’articolo 8 comma 9 prevedeva agevolazioni contributive per i datori di lavoro (imprese, enti pubblici economici, consorzi di imprese e datori iscritti agli albi professionali) che assumevano a tempo indeterminato, anche part-time, lavoratori disoccupati da almeno 24 mesi, sospesi dal lavoro o in CIG. Le agevolazioni (compresa riduzione del premio INAIL) consistevano in una riduzione dei contributi per 36 mesi, pari al 50% per tutti i datori di lavoro; 100% per imprese operanti nel Mezzogiorno e imprese artigiane. In sintesi: • assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori con almeno 24 mesi di disoccupazione, • sgravio del 50% per tutti (100% per imprese del Mezzogiorno e artigiane), • riduzione premio INAIL, • agevolazioni per assunzioni senza limiti temporali, • Se l’azienda ha effettuato licenziamenti per giustificato motivo oggettivo o sospensioni e intende assumere nuovo personale per pari unità, solo se sono trascorsi 6 mesi dalla cessazione dei precedenti rapporti di lavoro. L’esonero spetta ai datori di lavoro a patto che si tratti di nuove assunzioni di lavoratori: • che nei sei mesi precedenti non siano stati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro; • per i quali tale beneficio non sia già stato usufruito in relazione a una precedente assunzione a tempo indeterminato. • L’esonero non può inoltre essere cu-

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mulato con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente. Nessun vincolo invece per quanto riguarda eventuali riduzioni di organici, anche le imprese che lo abbiano fatto negli ultimi anni o mesi potranno accedere all’incentivo. Ogni mese l’INPS consegnerà al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nonché al Ministero dell’Economia e delle Finanze, un report contenente il monitoraggio del numero dei contratti incentivati attivati e il calcolo delle conseguenti minori entrate contributive. Ma il jobs act porterà nuova occupazione? La domanda è sempre la stessa e ricorre insistentemente. Dopo avere analizzato le prime disposizioni attuative dare una risposta decisa e definitiva continua ad essere difficile, se non impossibile. Di certo c'è che siamo al quarto intervento riformatore in poco più di due anni in un settore nel quale più che regole lavoristiche serve il terreno su cui innestare l'occupazione, che, per essere rilanciata, necessita di affiancare alle buone norme, sostanziali e corposi interventi sull'economia. D'altronde, è dal lavoro autonomo che nasce quello subordinato e non viceversa. Dalla legge Fornero di luglio 2012, passando per quella firmata Giovannini prima e Poletti poi, si arriva al Jobs Act ma non cambiano i presupposti di base. Le piccole-medie imprese assumono nuovi dipendenti solo dopo avere acquisito nuovo lavoro e non viceversa. Quindi i livelli occupazionali stagneranno fin quando l’economia stenterà e non si potrà parlare di nuovi occupati se l'applicazione del contratto a tutele crescenti - che potrebbe risultare economicamente più conveniente di co.co.pro e lavoro a termine - porterà alla stabilizzazione di queste figure di lavoratori già occupati, in quanto non potranno essere considerati nuovi posti di lavoro, perché non riguarderanno gli attuali disoccupati. C’è pure da dire che, sempre il contratto a tutele crescenti, è quasi più conveniente del contratto di apprendistato; situazione che può determinare il definitivo accantonamento di quello che per lungo tempo è stato il vero, se non l'unico, strumento in mano ai giovani per entrare nel mondo del lavoro. Istituto già indebolito e

depotenziato dai variopinti livelli decisionali del nostro Paese. Si delinea cosi un sistema sempre più incentrato sul rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che va nella direzione opposta delle esigenze di chi l'occupazione la crea. E il sistema si conferma bloccato su queste posizioni se si pensa anche alla vicenda del coinvolgimento nella schiera dei destinatari della norma dei lavoratori pubblici, che, secondo diritto, sono ricompresi, ma che il volere politico sembra volere escludere. Segnale questo in controtendenza con la necessità che la Pubblica Amministrazione sia più produttiva e meno costosa. Si perde cosi l'occasione di dare alle nuove generazioni un segnale che va nella direzione dell'etica e dell'efficienza, caratteristiche che invece si rinvengono nel positivo riequilibrio della prevista dimensione dell'indennizzo. Per rispondere positivamente all'interrogativo iniziale si dovranno dunque attendere i tanto auspicati interventi a sostegno dell'economia, preparandoci per ora ad assistere alla mera stabilizzazione di lavoratori già occupati. Con il costo del lavoro che continua ad essere elevatissimo ed insostenibile per le aziende, onere non ridotto dai benefici del contratto a tutele crescenti vista la gravissima abolizione della legge 407/90.


Una norma soppressa con troppa fretta e i cui effetti negativi si ripercuoteranno ben presto sui livelli occupazionali, che necessitano di condizioni strutturali completamente diverse per essere innalzati, onde evitare il triste rituale di rapporti di lavoro agevolati che cessano con il venir meno delle agevolazioni.Già in prima analisi è evidente uno squilibrio di base tra i due interventi normativi: il nuovo sgravio è applicabile, salvo proroghe, soltanto alle assunzioni che saranno effettuate nell’anno 2015, mentre la L. 407/90 esiste da quasi 25 anni e rimane una delle agevolazioni più richieste ed utilizzate dalle aziende che decidono di avviare un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. L’esonero previsto dalla nuova Legge di Stabilità, nonostante risulti maggiormente accessibile quanto a requisiti di accesso e condizioni di adesione, risulta penalizzante per il datore in particolari fattispecie per via dell’importo massimo concedibile, pari a € 8.060 annui, dell’esclusione dallo sgravio dei contributi INAIL e della possibilità per il lavoratore di essere assunto con l’agevolazione una volta soltanto. Appare evidente che, al di là dell’arco temporale di applicazione limitato ad un solo anno solare, il nuovo sgravio no ha, in alcuni casi, tutto l’impatto positivo di quanto appaia a prima vista. A tal proposito va rilevato che all’aumentare della retribuzione corrisposta al lavoratore, la nuova agevolazione soffre sempre di più la previsione di un tetto massimo di fruibilità.

Legge 407 del 29/12/1990 All’art. 8, la legge 407 stabilisce che il dipendente può essere assunto usufruendo della stessa normativa qualora (si tenga conto delle modifiche subite dallo stesso articolo a seguito della L. 92/12): - risulti disoccupato da almeno ventiquattro mesi; - risulti in Cassa Integrazione da almeno ventiquattro mesi; - risulti sospeso da lavoro da almeno ventiquattro mesi. Il datore di lavoro, può assumere usufruendo dei benefici della normativa qualora: - assuma il lavoratore con contratto tempo indeterminato, che può essere sia part time (con un orario lavorativo fino a 20 ore settimanali) sia full time (per legge fino a 40 ore settimanali); - non abbia effettuato negli ultimi sei mesi licenziamenti o sospensioni di lavoro nei confronti di dipendenti in forza nella propria azienda. L'accesso agli sgravi contributivi previsti dalla norma è invece ammesso nel caso in cui, nei precedenti sei all’assunzione del nuovo lavoratore beneficiario, il datore abbia licenziato dipendenti per giusta causa o per mancato superamento di un periodo di prova. Nel caso in cui sussista ciascuno dei suddetti requisiti, l’azienda usufruirà degli sgravi contributivi nella misura del: - 50% per un periodo di 36 mesi (per ogni tipo di azienda); - 100% per un periodo di 36 mesi (aziende artigiane); - 100% per un periodo di 36 mesi (aziende di qualunque tipo purchè operanti nel Mezzogiorno).

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La “buona” scuola Riflessioni, un po' contro corrente, dopo l'edizione del documento “La buona scuola” a firma del Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi e del Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Stefania Giannini

di Ivano Spano Il documento “La buona scuola” si apre annunciando che non vuol essere l'ennesima riforma della scuola. Di fatto, con le sue 130 pagine, è l'ennesima riforma più uno. Una riforma non dichiarata che sembra far scomparire, dietro un presunto efficientismo, la scuola stessa. E', poi, questo l'imperativo categorico del modello neo-liberista dominante che affianca alla politica di deregolamentazione (la mano leggera dello Stato), le liberalizzazioni e la privatizzazione (anche della scuola pubblica). Chi si aspettava, aldilà dei problemi amministrativi e di gestione, una necessaria e ineludibile ri' evidente, al contrario, il ruolo E che l'educazione e la scuola giocano nel processo di costruzione so-

ciale del soggetto. In particolare, in questo compito concorrono i presupposti generali di ogni pedagogia alla base dei processi educativi e di sviluppo degli apprendimenti. Non si può non richiamare, al riguardo, il presupposto già affermato dal pedagogista Howard Gadner (Educare al comprendere) che afferma come “non è possibile istruire se prima non si è provveduto o non si provvede alla costruzione dell’identità”. In questa direzione, anche il pedagogista Raffaele Mantegazza nel suo lavoro “La fine dell’educazione” afferma come “sia evidente che alle spalle dell’educazione, dietro la scelta di educare ci sia la questione della soggettività”. Non si tratta i avere soggetti da formare, ovvero de-formare, incasellare, costringere, ma, letteralmente, di costruire nuovi soggetti all’interno dei dispositivi educativi. L’attività del Maestro, dell’Insegnante è, quindi, una attività “antropogenetica”, di costruzione del soggetto (che è pur anche lui, il Maestro, l’In-

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flessione sui processi educativi e formativi, su educazione e scuola, di fronte alle notevoli e significative trasformazioni della realtà sociale, economica e culturale, non è rimasto solamente deluso ma, credo, pesantemente sconfortato dal depauperamento sociale e culturale in atto, questo sì agito intenzionalmente per la “costruzione” di sudditi fedeli e globalizzati (un po' scuola, un po' fabbrica). Della realtà dell'infanzia, dell'adolescenza e dei giovani nulla si dice, appunto, a evitare che qualcuno si accorga che della costruzione sociale del soggetto e della sua identità poco ci importa se non l'obiettivo di produrre copie conformi ai poteri e ai saperi (presunti) ma dominanti.

segnante) e in questo risiede la sua autonomia. La scuola, altresì, nasce e trova la sua ragione d'essere, la sua funzione sociale, in quei valori generali di cui si sostanzia l'intera realtà sociale. Sono questi, per noi, i principi ispiratori la Costituzione del nostro Stato, principi fondanti le basi di e per una nuova società. Sono questi i principi di eguaglianza, di solidarietà, di libertà come libertà di tutti i regimi dello spirito, di giustizia, di democrazia, di cittadinanza responsabile dove il “pieno sviluppo della persona umana” si esplicita nella partecipazione attiva alla definizione e gestione del governo della cosa pubblica della “res publica”. Per questo, è fondamentale il ruolo della scuola, del rapporto scuola/società, un rapporto tra sistemi che possiamo definire “aperti”, cioè capaci di scambiare, stabilmente, energia, pensieri, analisi, riflessioni, organizzazione, competenze...e materia, strumenti, prodotti, luoghi fisici, risorse, risultati della ricerca... L’educazione è, quindi, pur sempre legata a un progetto sociale ma se ne differenzia, se ne autonomizza, nel

momento in cui, come altre istanze di mediazione (famiglia, istituzioni) crea un suo proprio dominio all’interno del quale le regole e i desideri della società vengono setacciati, riconcettualizzati, attraversati criticamente. Nel 1970, Mario Lodi, questo maestro esemplare, nel suo lavoro “Il Paese sbagliato” affermava: “la scuola deve attivare la promozione di una didattica basata su attività motivate dall'interesse invece che dal voto, sulla collaborazione al posto della competizione, sul recupero invece che sulla selezione, sull'atteggiamento critico invece che la ricerca passiva, sulla norma che parte dal basso come esigenza comunitaria invece che sull'imposizione della disciplina”. Nel 2008, Giuseppe O. Longo, professore universitario, già direttore del SISSA Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, al Convegno promosso dalla Fondazione Magna Carta e dalla Fondazione Internazionale Giovanni Paolo II per il Magistero Sociale della Chiesa, afferma: “Tutto è cambiato e, per un sorta di legge coevolutiva, deve cambiare anche la scuola: ma come? Non lo sappiamo.


Molti degli ammodernamenti introdotti negli ultimi decenni sotto la spinta di un pedagogismo disorientato e velleitario si sono dimostrati deleteri: l'insiemistica invece delle tabelline, per cui gli scolari non hanno capito nulla degli insiemi e in compenso non sanno fare i conti; la soppressione dell'apprendimento a memoria, che ha privato i discenti (e taluni docenti) di un prezioso serbatoio lessicale; le fumosità verbali delle valutazioni, che si vorrebbero 'oggettive' e sono soltanto esercizi di sofistica; la 'didattica' teorica, che ha trasformato gli insegnanti in cavie e 'passacarte' dei pedagogisti; l'attribuzione dei fallimenti individuali alla 'responsabilità del sistema scolastico'; il rigoglioso imperversare di certi scienziati, veri acrobati del vuoto pneumatico che, infiltrandosi nei programmi ministeriali, hanno contribuiti al trionfo regresso delle conoscenze e delle abilità di utilità quotidiana; la pedissequa adozione delle 'nuove tecnologie'...Gli strumenti tecnologici sono usati con disinvoltura, specie dai più giovani, ma questa confidente manipolazione si accompagna a una profonda 'incomprensione' del mondo tecnologico; quasi tutti usano mezzi, sistemi e dispositivi di cui non conoscono affatto il funzionamento intimo, né vogliono conoscerlo, adottando così un atteggiamento di tipo 'ma-

gico'. La conoscenza tecnica è scesa di livello, dalla zona della consapevolezza cosciente e tendenzialmente razionale a una zona analoga a quella dell'inconsapevolezza dei meccanismi corporei. Ciò avviene nel quadro di una profonda mutazione della cultura e della conoscenza...Per questo, con riferimento alla scuola, è fondamentale che nella relazione tra docente e discente, si apra il canale della 'collaborazione empatica', dell'interesse affettivo e umano, della relazione personale, canale che è sempre bi-direzionali, anche quando il discente tace: per quel canale passano poi tutte le informazioni, tutti i dati, tutte le emozioni. Se quel canale non si apre, non passa nulla. Ed è un canale che non si apre per effetto di circolari o disposizioni burocratiche e amministrative”. u questa base, sempre il Professor Sclusione Giuseppe O. Longo, verso la condella sua relazione al Conve-

gno citato, afferma: “Allora, per tornare alla scuola, ci dobbiamo porre la seguente domanda: che cosa vogliamo che diventino i nostri figli? Vogliamo che sappiano interagire bene con le macchine? Vogliamo che sappiano interagire bene con gli altri? Vogliamo che facciano l'una e l'altra cosa? E poi non dobbiamo chiederci solo che cosa vogliamo noi, ma anche

che cosa vogliono loro, altrimenti si rischia di cadere in un discutibile paternalismo autoritario. Capire o immaginare che cosa sia meglio per un altro non è facile. Tuttavia qualche responsabilità gli educatori se la devono assumere. Per esempio debbono chiedersi quanto sia da incoraggiare la tendenza al distacco (anzi alla contrapposizione) tra uomo e natura, che porta a considerare l'ambiente come un territorio da sfruttare o depredare. Non si dovrebbe piuttosto insistere su un'educazione agli aspetti sistemici, all'appezzamento della 'complessità', della flessibilità omeostatica e della diversità che individui i limiti (e i rischi) della semplificazione e del riduzionismo scientifici? Se viviamo in un mondo segnato dall'incertezza, non dovremmo anche insegnare ad affrontare le situazioni incerte senza la supponenza di chi vuol tutto ricondurre a modelli deterministici? Le nuove conquiste del pensiero e la nascita di concetti nuovi potrebbero e dovrebbero trovar posto nella scuola: potrebbero davvero contribuire a quella svolta culturale e quella rivoluzione etica dell'agire umano che da decenni si invoca come unico antidoto all'aggressività e alla spoliazione dell'ambiente” e all'impoverimento della cultura e delle esperienze umane.

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a scuola, quindi, ha come compito educativo e didattico quello di forL nire agli studenti gli strumenti a per

una analisi critica della realtà, compreso la coscienza del significato del concetto stesso di critica. Critica, quindi, non come contestazione di ciò con cui non si è d'accordo ma, come affermato magistralmente dal sociologo Theodor W. Adorno, costante adeguamento del concetto, della concezione della realtà, al dato stesso, alla realtà vista come costruzione dinamica e non statica, determinata, immodificabile. Per questo Adorno tesse una eguaglianza straordinaria che porta, tendenzialmente, a identificare la “critica” con la “scienza” intesa come costante ricerca di nuovi significati della realtà (M. Horkheimer, T.W. Adorno, Lezioni di sociologia). Per questo, difficilmente gli studenti potranno costruire da soli questi strumenti, difficilmente saranno in grado di capire i meccanismi della realtà, della realtà sociale, economica, politica e culturale. Dice sempre Mario Lodi che la conoscenza, la libertà, la democrazia non si imparano se non si vivono subito tra i banchi della scuola. Anche il grande pedagogista John Dewey (Democrazia ed educazione) oltre a sottolineare la necessità dell'analisi, delle capacità di critica, richiama con forza la “capacità di agire socialmente anziché inculcare nei giovani l'idea che l'obiettivo è quello di rafforzare le loro capacità per promuovere il loro successo personale, mentre la scuola deve agire affinché gli individui possano unirsi tra loro e organizzarsi intelligentemente contro la povertà, la miseria, l'ignoranza, la crudeltà, il basso livello estetico e morale”. In questa direzione la scuola deve essere una “comunità di vita educante” che si apre ai rapporti con il mondo esterno, eticamente anti-autoritaria perché fondata sulla comprensione, sul dialogo, sulla collaborazione cooperativa, così come teorizzato dal pedagogista Célestin Freinet (Nascita di una pedagogia popolare). Una scuola, quindi, socialmente aperta perché costruita su una vasta rete di rapporti con l'ambiente. Una scuola dove lo studente potrà maturarsi nel contesto di una comunità che dalla scuola si estende alla famiglia e all'ambiente sociale, educando e insegnando. Ma, allora, quale è il presupposto che lega, che salda l'educare all'insegnare? Come già detto, citando il pensiero di grandi pedagogisti, questo legame ri-

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siede nella costruzione sociale del soggetto, ossia ossia nel permettere al soggetto, grazie alla scuola e alla comunità educante, di essere protagonista nella costruzione della sua identità. Ma, allora, che cosa vogliamo che sia l'insegnamento educativo se non quello che basandosi sulla costruzione della identità e autonomia dei soggetti in formazione, li conduce ad acquisire quel diritto fondamentale all'esercizio della piena cittadinanza, una cittadinanza attiva che li veda partecipi e attori di processi in cui divenire individuale e trasformazioni sociali possano coincidere. a qui, non possono non emergeD re alcune necessarie riflessioni atte a ricostruire il senso della stessa

didattica. Nel contesto dei rapporti scuola/società, individuo/gruppo sociale emergono come obiettivi significativi dei processi di apprendimento scolastico il cogliere il senso delle conoscenze e lo sviluppare capacità di apprendere ad apprendere (deuteroapprendimento). Sono questi gli obiettivi fondanti una educazione e una istruzione che possano servire a ognuno di noi e all'intera società. Ma, nella scuola di oggi, l'attività didattica sembra perdere il suo significato fondante. Si è, di fatto, passati dal come si fa scuola al come si valuta il fare scuola, da una valutazione della didattica a una didattica per la valutazione, valutazione che ha come presupposto la convinzione (di fatto supposta) che le conoscenze possano essere oggettivate, quantificate. Questa didattica costruita ad arte rispetto ai criteri definiti/imposti per la sua valutazione, sembra abbia rimosso quell'orientamento psico-pedagogico-culturale capace di far assumere, nella relazione tra docenti e discenti, una precisa caratteristica riferibile alla impostazione espressa da Lev Wigotskij (Storia delle sviluppo delle funzioni psichiche superiori) con il concetto di "area potenziale di sviluppo" (“o zona prossimale di sviluppo”), capace di porre al centro una concezione del bambino, dello studente come risorsa e di produrre una adeguata ridefinizione del ruolo (educativo) dell’adulto. Vygotskij definisce l' “area potenziale di sviluppo” come distanza tra ciò che il bambino/studente è in grado di fare da solo (livello di sviluppo effettivo) e ciò che riesce a realizzare se seguito da partner più competenti (livello di sviluppo potenziale). Elemento saliente

dell'area è il suo carattere inter-psicologico. Riferendosi al livello di sviluppo potenziale, non vuole indicare un'abilità individuale ma piuttosto il risultato dell'interazione tra soggetti che il processo di apprendimento permette (D. Savio, La disponibilità a mettersi in gioco). Questo, pur presupponendo una interazione educativa, caratterizza il soggetto fin dal primo giorno di vita. E' possibile, quindi, utilizzare proficuamente il concetto di "area potenziale di sviluppo" a tutti i livelli dello sviluppo infantile e adolescenziale stesso. Di fatto, ciò che può fare il bambino/studente, oggi, con l'aiuto dell'adulto lo potrà fare da solo domani (dalla dipendenza all'autonomia, ovvero l' "aiutami a fare da solo" montessoriano). Bruner (Actual minds. PossiJlezzableeromeworlds ) definisce la consapevodell'adulto del valore dell'area

potenziale di sviluppo, come "coscienza vicaria" che sta alla base dell'esercizio del tutoring inteso non come dipendenza totale del bambino/studente dall'adulto ma come insieme dei mezzi con cui si fornisce al partner meno competente un aiuto che gli consente di operare nella risoluzione di un problema secondo un livello superiore alle sue capacità attuali. Wood, Bruner e Ross (The role of tutoring in problem solving) assegnano al processo del tutoring (precisato con il termine scaffolding, impalcatura-sostegno) le seguenti funzioni:


- reclutare il bambino/studente al compito, cioè sollecitare il suo interesse e la sua adesione alle richieste del compito stesso, - ridurre il grado di libertà, cioè semplificare il compito limitando le alternative di possibilità per la sua risoluzione, - mantenere la direzione, cioè la motivazione del bambino/studente a perseguire con costanza l'obiettivo dimostrandogli curiosità e disponibilità e indicandogli il valore dell'obiettivo finale, - sottolineare gli aspetti cruciali del compito, esplicitando le discrepanze tra ciò che il bambino/studente produce e ciò che sarebbe corretto producesse, - controllare le frustrazioni generate dalla non riuscita, - fornire dei modelli da imitare non dimostrando semplicemente la risoluzione del compito ma, piuttosto, riproducendo e completando una soluzione già tentata dal bambino/studente con l'aspettativa che la realizzi in forma più appropriata. Su questa base, già da tempo, importanti pedagogisti italiani (Vertecchi, Frabboni, Maragliano) avevano elaborato un concetto particolarmente significativo di valutazione denominandola “valutazione formativa”. La valutazione formativa è la valutazione che vale cioè è quella valutazione dei risultati dell'insegnamento che, prendendone coscienza, è in grado di retroagire sull'insegnamento stesso al fine di una sua modifica in direzione di strategie di insegnamento e apprendimento per mettere in grado ogni studente di

raggiungere i risultati previsti. Sembra proprio essere questa quella che potremmo definire “la buona scuola”. Quella scuola che, come affermava Célestin Freinet, metta lo studente nella condizione di sentire per primo l'esigenza di non sbagliare, di possedere delle conoscenze di base, certe, di avere la possibilità di esercitarsi fino al raggiungimento di abilità soddisfacenti. Al contrario, la cosiddetta “valutazione oggettiva” che domina nella scuola, - è esterna al processo di costruzione e trasmissione delle conoscenze, - prescinde dalla necessità di un “contratto didattico” tra scuola-insegnante e studente che si basi su: a) il sostegno alla costruzione della identità dello studente, b) il suo sviluppo caratterizzato dalla piena autonomia: un soggetto, quindi, non regolato ma regolativo-normativo, c) la produzione del senso di responsabilità individuale e collettiva. llora, oggi, nell'epoca delle grandi e rapide trasformazioni, delle crisi riA correnti che inducono processi di preca-

rizzazione del soggetto umano aumentando le condizioni sociali di rischio di disagio, nell'epoca della standardizzazione dei linguaggi, delle tecnologie “educative” presunte neutre, del dominio della realtà virtuale che allontana sempre più l'esperienza diretta della realtà per trasporla sul piano della sua rappresentazione mediatica, la scuola, ancor più di ieri e con grande impegno, si deve porre come compiti necessari e urgenti quelli di - seguire i tempi della natura, - permettere a ognuno di riappropriarsi della propria natura di soggetti umaniuniversali ossia capaci di “fare di tutta la realtà la base della propria natura”, - di superare la frattura e la contraddizione drammatica tra “tempi storici” e “tempi biologici”. Una scuola, quindi, della vita: non dell'alta velocità ma della “slow education” al fine che ciò che ha permesso di umanizzare gli uomini nel passato possa continuare a umanizzare gli uomini del futuro. In questo, le nuove tecnologie possono centrare non certamente per tecnicizzare l'insegnamento ma per poter fare ciò che prima non si riusciva a fare o che richiedeva troppa fatica. Allora, come già detto, “non si tratta i avere soggetti da formare, ovvero deformare, incasellare, costringere, ma, letteralmente, di costruire nuovi soggetti all’interno dei dispositivi educativi”.

Su questa base e secondo questi presupposti, la sfida della “buona scuola” e per la buona scuola è sfida per creare le condizioni per la realizzazione e il riconoscimento di ogni soggetto umano. E’, quindi, sfida culturale, sociale e civica, sfide capaci di attivare attitudini a individuare, esplicitare, porre e trattare problemi nonché collegare saperi come insieme delle risposte collettive verso la costituzione di quell’attitudine riflessiva straordinaria che possiamo definire “pensare il pensiero”, rompere costantemente il limiti del pensiero consolidato/stereotipato, per accedere a nuovi significati della realtà e della esperienza. ueste tre sfide sono parimenti esQ senziali e strategiche: - la sfida culturale come necessità di va-

lorizzare l’unicità, la singolarità delle esperienze, - la sfida sociale come visibilità sociale dei diversi soggetti, ricostituzione dei legami sociali, costruzione collettiva dei significati e del senso di appartenenza, appartenenza a un rapporto sociale che cominci a farci esistere. Il problema è quello per cui un’esistenza pienamente singolare può emergere da questa appartenenza comune, - la sfida civica come ri-fondazione, riappropriazione del sentimento pubblico-collettivo, del sentimento del comune destino planetario, della esigenza di universalizzare comuni valori nel rispetto delle possibilità della esistenza della vita, della coscienza di estendere la solidarietà umana. ' per questo che bisogna far sì che E “un'ora di lezione possa cambiare una vita, imprimere al destino un'altra

direzione, sancire per sempre quella che si era solo debolmente già abbozzata. Tutti abbiamo fatto esperienza di quella che può essere un'ora di lezione: visitare un altro luogo, un altro mondo, essere trasportati, catapultati in un altrove, incontrare l'inatteso, la meraviglia, l'inedito. Può avvenire a tutti i livelli previsti dell'apprendimento, dalle scuole primarie fino all'università. La sostanza non cambia. Quando c'è lezione c'è sempre effetto di soggettivazione, effetto-tyche, incontro inatteso con qualcosa che tocca, con un reale che accende e sovverte...Il maestro non solo conduce lungo strade che non si conoscono affatto, ma, soprattutto...muove il desiderio del viaggio. In questo senso la lezione è un incontro che rompe la realtà uguale a se stessa dell'automaton istituzionale” (M. Recalcati, L'ora di lezione. Per una erotica dell'insegnamento).

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Cuba (di Eugenio Finardi, 1978)

Forse è vero che a Cuba non c'è il paradiso che non vorremmo essere in Cina a coltivare riso che sempre più spesso ci si trova a dubitare se in questi anni non abbiamo fatto altro che sognare. E` che viviamo in un momento di riflusso e ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso che tutto quel cantare sul cambiar la situazione non sia stato che un sogno o un'illusione. Ma no, non è un'utopia, non è uno scherzo della fantasia, no, non è una bugia, è solo un gioco dell'economia. E se in questi anni tanti sogni son sfumati, in compenso tanti altri li abbiamo realizzati. C'è chi silenziosamente si è infiltrato dentro al gioco e ogni giorno lentamente lo modifica di un poco. Ed è normale che ci si sia rotti i coglioni di passare la vita in dibattiti e riunioni e che invece si cerchi di trovare nella pratica un sistema per lottare. Ma no, non è un'utopia, non è uno scherzo della fantasia, no, non è una bugia, è solo un gioco dell'economia.

di Sandro Ridolfi Aprire con il testo di una “vecchia” canzone “sessantottina” un inserto dedicato alla Cina, e più precisamente al nuovo corso politico, economico e culturale impresso dalla nuova dirigenza del Partito e dello Stato eletta dal 18° congresso del dicembre 2012, può lasciare perplessi per individuare il collegamento logico tra i due temi. Tre versi della canzone potranno aiutare a comprenderlo: “non vorremmo essere in Cina a coltivare riso”; “non è un’utopia”; “è solo un gioco dell’economia”. Invertiamone l’ordine e leggiamoli in continuità logica nel seguente modo: il sistema sociale e politico, ma anche culturale, del Mondo è dominato dalle leggi dell’economia (la “struttura” marxista); per cambiare il Mondo occorre cambiare le regole dell’economia (un’ideologia non utopica, la ”sovrastruttura” marxista, che viene dominata dall’economia, ma può reagire sulla stessa per cambiarla); ogni cambiamento deve avvenire tenendo conto del contesto nel quale si trova ad operare, non essendo possibi-

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le importare, e parimenti esportare, esperienze e percorsi sviluppati in altri contesti con le caratteristiche, appunto, proprie di quei contesti (il riso del socialismo con le “caratteristiche cinesi” è proprio della Cina, lì è nato e lì deve restare). La storia “maestra di vita” ci insegna, però, che dalle esperienze degli altri (vale tanto per il passato che per il diverso contesto), facendo le opportune estrapolazioni e adattamenti al diverso tempo e contesto, si possono trarre insegnamenti fondamentali, non solo per non ripetere errori, ma anche, in positivo, per trarre spunti, progetti e lezioni. Conoscere, studiare, analizzare ciò che sta succedendo in Cina è di straordinaria importanza per immaginare, estrapolando e adattando quell’esperienza alla nostra realtà, come possiamo concretamente operare nel nostro contesto per uscire da questo interminabile “momento di riflusso” (sono passati quasi 40 anni da quella canzone e la depressione persiste ancora più forte) e trovare “nella pratica un sistema per lottare”, cioè per

cambiare la realtà esistente, perché il comunismo, ci insegna Marx, è “il movimento reale che cambia lo stato di cose presente”. Nell’ultimo mese di dicembre scorso, a bilancio del primo biennio del nuovo corso, è stato pubblicato in Cina, tradotto in numerose lingue straniere, un libro che raccoglie, divisi per capitoli tematici, gli interventi del Segretario Generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Repubblica Popolare Xi Jinping (come detto in seconda copertina, anche Comandante Supremo dell’Esercito di Liberazione Popolare). Del libro sono stati già pubblicati numerosi commenti, alcuni anche di importanti politici occidentali come l’anziano cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Seguendo alcuni di questi approfondimenti proviamo a estrarne alcuni passaggi più significativi per la loro potenziale importanza istruttiva per il percorso di conoscenza ed esperienza che potrebbe aiutarci a uscire dalla palude di depressione e recessione che caratterizza la nostra realtà non solo economica, ma anche politica, morale e culturale.


La fase “primaria” del socialismo cinese

In copertina abbiamo riportato un estratto dal Preambolo della Costituzione della Repubblica Popolare cinese che afferma e chiarisce che in questo momento (arco di tempo oggettivamente non determinabile) la rivoluzione comunista cinese si trova ancora nella fase primaria del socialismo e, aggiunge, questa fase durerà ancora a lungo. Cosa vuol dire questa affermazione? Lo diciamo in pochissime frasi essenziali: il comunismo è la fase finale della rivoluzione proletaria, quando la società, senza più classi, non avrà più bisogno né dello Stato (che si dissolverà, non verrà soppresso, ma si dissolverà come diceva Engels), né del Partito Comunista (che, pure, si scioglierà non avendo più una classe sfruttata da rappresentare e difendere, come ha scritto Mao nel saggio “Sulla Contraddizione” pubblicato nei numeri precedenti di questa rivista). In quella società tutti e ciascuno potranno vivere liberamente le loro vite disponendo di opportunità e di mezzi in misura sufficiente per non dover sottrarre nulla ad altri. Non sarà una società degli “identici” (i cloni ideologizzati come recitava una remota, ma mai morta, propaganda anticomunista), ma degli “uguali” nelle potenzialità e possibilità dello loro infinite diversità. Per raggiungere questo risultato (che sappiamo bene non sarà mai perfetto, ma sempre perfettibile, perché se la perfezione non è umana, lo è la capacità di migliorarsi) occorrerà attraversare una lunga, forse anche lunghissima, fase di costruzione delle condizioni materiali per l’uguaglianza, occorrerà produrre “beni”. Lo abbiamo citato più volte, ma una volta in più non guasta, diceva il Che: “Il socialismo non è una società di beneficienza basata sulla bontà dell’uomo come uomo. E’ una società nella quale si dividono equamente i beni, a condizione di avere beni da dividere;

quindi più produciamo beni, più avanziamo nella costruzione del socialismo”. Come produrre i beni da dividere lo aveva già detto Lenin nel manifesto della NEP - Nuova Politica Economica: “Siate tutti amministratori. Ci saranno imprenditori, concessionari che si arricchiranno sulla pelle dei lavoratori, si arricchiscano pure; ma voi imparate quest’arte difficile e crudele. O noi diamo un fondamento economico allo stato sovietico o perderemo tutte le conquiste della rivoluzione proletaria”. Anni più tardi, in un diverso contesto storico e ambientale, aveva aggiunto Deng Xiaoping: “La superiorità del sistema socialista permette alle forze produttive di crescere a un tasso rapido che ci permetterà di soddisfare gradualmente, con una crescita costante, i bisogni materiali e culturali del nostro popolo. Dobbiamo accelerare la crescita delle nostre forze produttive per il miglioramento materiale e culturale della vita del popolo e per ampliare le sue prospettive.” Scrive oggi Xi Jinping: “Marx ed Engels hanno fatto solo dichiarazioni previsionali in materia di governo di uno Stato socialista; Lenin, il fondatore dell'Unione Sovietica, si occupò principalmente di questioni urgenti di difesa e ricostruzione e morì troppo presto per lasciare un’eredità sulla questione del governo in tempo di pace. Il sistema istituito in Unione Sovietica sotto Stalin e i suoi successori ha fornito una certa esperienza, ma i difetti del sistema alla fine hanno portato al collasso dell'URSS”. Negli ultimi pochi decenni l’economia cinese ha avuto una crescita che ha fatto “tremare la terra”: centinaia di milioni di persone sono state sollevate dalla miseria più abietta a una vita civile e dignitosa. “Ma - aggiunge Xi Jinping - mentre l'economia cinese continua a progredire rapidamente, si aggrava si-

multaneamente la disuguaglianza e cresce la consapevolezza di uguaglianza, democrazia, diritti e degli interessi del popolo, da qui il senso di ingiustizia della gente che diventa sempre più pronunciato. Così il Partito deve fare dell'equità sociale, della giustizia e del benessere delle masse il punto di partenza e l’obiettivo finale. La costruzione del socialismo perderà il suo significato e non potrà essere sostenuta se noi causiamo più disuguaglianza. Mentre lo sviluppo materiale consente ad alcune persone di arricchirsi prima di altre, il Partito può e deve garantire che la torta venga tagliata a fette più grandi quando diventa più grande. Ciò deve iniziare con il garantire l'accesso all'istruzione, al lavoro ben pagato, alla sanità, all’assistenza agli anziani e alla casa. Tutto ciò richiede il sostegno popolare delle masse che sono i creatori di storia. La qualità del governo e dei governanti - conclude Xi Jinping - deve essere definita sulla sua capacità di soddisfare le aspettative popolari in un contesto in cui gli affari globali influenzano e determinano le opinioni e gli atteggiamenti. Pertanto, il livello di successo personale e istituzionale in Cina è deciso dalla misura in cui sono realizzati i vantaggi del socialismo. Per garantire la stabilità del governo da parte del Partito occorre che lo stesso viva tra le masse, condividendone successi e problemi, e che siano perfezionate le procedure giuridiche e amministrative per renderle trasparenti e basate su regole”. Questa conclusione introduce alle due linee fondamentali di azione intraprese dalla nuova dirigenza comunista: la “linea di massa” e la moralizzazione dell’amministrazione. Alla prima si lega la campagna per il rilancio dei valori socialisti; alla seconda il rafforzamento del legale tra il Partito e l’Esercito del Popolo

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La linea di massa Il nome rinvia esplicitamente agli insegnamenti di Mao. Più volte, lo vedremo anche in seguito, Xi Jinping utilizza le parole d’ordine storiche del Presidente Mao, a volte senza citarlo apertamente, a volte, invece, dichiarandone con grande enfasi l’assoluta attualità. Questa nota, ci sia consentito, ha una funzione didascalica per renderci conto di quanto siamo male informati sulla realtà cinese a causa di errate o persino false informazioni che ci provengono da sedicenti esperti analisti sinologi che, messi alla prova dei fatti, hanno dimostrato di non sapere e di non capire nulla, spesso persino travisando la verità. Alla vigilia del 18° Congresso del Partito Comunista cinese che, per scadenza statutaria, avrebbe portato al rinnovo di tutte le principali cariche del Partito e dello Stato (due mandati quinquennali non ripetibili), i sinologi occidentali avevano inneggiato all’arrivo di un nuovo leader (Xi Jinping, da cinque anni Vice Presidente e perciò naturalmente destinato all’ascesa alla presidenza) il quale, vittima lui stesso delle orribili nefandezze della Rivoluzione Culturale di Mao (all’epoca, giovane studente universitario, era stato inviato in una sperduta comune agricola ad allevare maiali), avrebbe dato una forte sterzata liberista (in senso occidentale, ovviamente) alla Cina, rimuovendo persino la stessa effige di Mao dalle banconote. Quegli stessi esperti analisti sinologi oggi soprannominano Xi Jinping il “sosia di Mao” e certamente non solo per l’aspetto fisico! Torniamo alla campagna della “linea di massa” che viene così definita dal Partito Comunista cinese: “La “Linea di massa” si riferisce ad una linea guida che impone ai funzionari del PCC e a tutti i suoi membri di privilegiare gli interessi del popolo e persistere nel rappresentarli e lavorare per loro conto. I membri e i funzionari del PCC, in particolare, devono fare pulizia degli stili di lavoro indesiderabili come il formalismo, la burocrazia, l'edonismo e la stravaganza”. L’obiettivo principale della campagna della “linea di massa” è quello di aumentare i legami tra i membri PCC e la gente. I membri del Partito devono essere critici e autocritici per correggere gli stili di lavoro impropri: "Vincere o perdere il sostegno del popolo - ha affermato XI Jinping è questione che riguarda la sopravvivenza o l'estinzione del PCC, perché il popolo è la linfa vitale del Partito. Il PCC può essere stabile solo se mantie-

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ne una sola mente e condivide benessere e guai con la gente. Servire il popolo, stando con i piedi per terra, in posizione verticale e senza corruzione". Xi Jinping, coerente con lo stile spesso poetico di Mao, ha usato una metafora: "guardare dallo specchio, governare se stessi, fare un bagno e cercare i rimedi." "Guardare dallo specchio" significa che i membri devono fare costante riferimento alla Costituzione del PCC come a uno specchio; "Governare se stessi" significa correggere il proprio comportamento scorretto; "Fare un bagno" richiede ai membri del PCC di mantenere una mente pulita e comportarsi correttamente; "Cercare i rimedi" significa educare o punire coloro che hanno commesso violazioni. In sostanza con la campagna della “Linea di Massa” Xi Jinping ha spinto il Partito a tornare in mezzo al popolo per essere “carne e sangue” con lo stesso. Il primo insegnamento che possiamo trarre è dunque questo: chi governa deve essere parte integrata con il popolo governato, viverne assieme successi e problemi e non dimenticare mai che è per il popolo che governa. I valori socialisti Il rilancio dei valori socialisti è una componente complementare ed essenziale del ritorno del Partito in mezzo al popolo e, nello stesso tempo, del riavvicinamento del popolo agli ideali sociali e morali del comunismo. Se gli ultimi decenni di crescita vertiginosa dell’economia cinese hanno portato, come sopra detto, alla emancipazione dalla povertà più abietta centinaia di milioni di persone, hanno anche indotto l’illusione (perché tale è nella sostanza e noi in occidente l’abbiamo ben vissuta e ne stiamo pagando le conseguenze) di una soluzione puramente economicistica e materiale dei problemi della vita sociale. La ricchezza o quanto meno l’aspettativa di una ricchezza o arricchimento probabile e imminente, coniugata con le grandi trasformazioni sociali e ambientali, ha rischiato di far perdere il senso profondo di umanità di una società degli uomini e tra gli uomini, inducendo derive di individualismo egoista tipico della cultura occidentale nata dalla rivoluzione borghese francese di fine settecento. Con la moralizzazione del Partito Xi Jinping ha lanciato quindi anche una vastissima campagna per il recupero e l’insegnamento dei diversi valori umani del socialismo, confermando l’obiettivo già enunciato dal suo predecessore Hu Jintao della creazione di una socie-

tà “armoniosa”. Quali sono i valori socialisti: “la socialità e la solidarietà, uno sviluppo economico compatibile con l’ambiente, la cooperazione internazionale, il rispetto delle diversità, la convivenza pacifica”; questi sono i valori fondanti del marxismo leninismo. Già dal 2014, ma con un intenso programma quinquennale che interesserà non solo le scuole ma anche tutti i mezzi di comunicazione, Xi Jinping ha lanciato una campagna di ri-educazione alla storia, alla cultura e all’etica marxista leninista non solo dei quadri del Partito, ma anche di tutto il popolo. Ne abbiamo già parlato più diffusamente nell’inserto dedicato al “Sogno cinese” al quale vi rimandiamo per l’eventuale approfondimento. La seconda lezione che possiamo trarre dall’esperienza della attuale prima economia del Mondo è che il “benessere” di una società non è dato solo dalla sua ricchezza materiale assoluta (il PIL), ma dall’equità della distribuzione di tale ricchezza (l’indice Gini), dunque non conta solo “crescere”, ma “come crescere”. La lotta alla corruzione Ogni crescita economica comporta come inevitabile corollario il rischio della corruzione e della diffusione dell’illegalità in genere. Da questo rischio non è certamente andata esente la Cina, neppure nel suo apparato amministrativo e politico del Partito Comunista. Possiamo aggiungere che la corruzione è una malattia genetica del capitalismo che l’ha eredità da ogni forma di società basata sulla coniugazione perversa del potere del denaro con l’interesse privato, laddove l’arricchimento diviene misura e regola del successo al di sopra e a dispetto delle leggi sociali, tanto scritte che morali. Così nella nostra società capitalista occidentale, corruzione, concussione, frode ed evasione, sono bensì violazioni di leggi formali, ma sostanzialmente “minori”, quasi “incidenti” inevitabili del percorso, di per sé legittimo e quasi naturale, per l’obiettivo dell’arricchimento individuale. Sono l’influenza che porta il freddo invernale, fastidiosa o persino dannosa, ma inevitabile e da curare con “cautela e misura”, perché non si può mutare il ritmo delle stagioni. In una diversa società degli uomini basata sui principi di socialità e solidarietà socialista, il pur legittimo interesse individuale (“Si arricchiscano pure” di Lenin) deve sottostare al superiore interesse collettivo e, dunque, può esistere nel rigoroso ambito del rispetto delle regole pubbliche e non individuali.


Ordinary Life, Extraordinary Dream - Una vita ordinaria per un sogno straordinario Xi Jinping in bicicletta con la figlia unica Combattere la piaga della corruzione (raccogliendo in quest’unico termine le diverse forme di concussione, evasione, ecc. sopra dette) è un imperativo del nuovo corso politico cinese che ha già portato alla rimozione di migliaia di funzionari dai più bassi ai massimi livelli dello stesso governo e della segreteria del Partito. La corruzione in Cina è punita con la pena di morte dal lato dei funzionari e/o politici corrotti, ergastolo o minimo venti anni per i corruttori, ed è stata effettivamente già applicata, anche se con la “tecnica” oramai costante del differimento della esecuzione di alcuni anni per consentire di valutare il “ravvedimento” del condannato e mutarne, in tal caso, la pena di morte in ergastolo (esemplare il caso del Ministro delle Ferrovie, Liu Zhijun, condannato a morte tra due anni). Coniugando repressione e prevenzione della corruzione con il principio del radicamento dei governanti tra il popolo dei governati, Xi Jinping ha intrapreso la campagna contro i così detti “funzionari nudi”. Con questo termine vengono individuati quei dirigenti, amministrativi o politici, che hanno la famiglia (o parte della famiglia) all’estero. Anche questo fenomeno è stato reso possibile dall’enorme crescita economica della Cina, che ha consentito a una certa cerchia di “notabili” di disporre di mezzi valutari per inviare mogli o figli all’estero, per viaggiare, studiare o persino vivere. La nuova regola dettata dalla attuale dirigenza cinese è quella della rimozione di tali figure dalle loro funzioni, salvo il rientro in patria dei propri familiari. Due ragioni: una evidentemente “penale”: come hanno potuto accumulare tali mezzi economici

da potersi permettere l’invio all’estero dei propri familiari; la seconda di indubbio maggiore valore politico e morale: chi ricopre cariche o incarichi di livello in qualsiasi apparato dello Stato deve vivere, lui e la propria famiglia, nelle stesse condizioni dei cittadini rappresentati o amministrati. Un semplice esempio: se un funzionario dirige una scuola pubblica, i propri figli debbono frequentare quella scuola come gli altri cittadini; lo stesso vale per un ospedale, un quartiere, un sistema di trasporti e servizi pubblici ecc. Ovvio? Niente affatto, se pensiamo che un recente ex primo ministro e senatore a vita della Repubblica (per non fare nomi: Mario Monti) si vanta di essere docente di una università privata (la Bocconi, di proprietà della Confindustria) che “schifa” le scadenti università pubbliche alle quali mai iscriverebbe i propri figli! Ecco una terza lezione che potremmo trarre dall’esperienza cinese: chi governa ha il dovere di essere il primo fruitore dei servizi prodotti dal proprio governo, qualunque essi siano: scolastici, sanitari, sociali, ecc.; se questi servizi sono uno “schifo”, allora che condivida con i suoi amministrati lo “schifo” e lavori per migliorarli. L’Esercito di Liberazione Popolare L’esercito cinese conserva il nome di Esercito di Liberazione voluto da Mao perché, come lui ha insegnato, fintanto che vi sarà il capitalismo nel Mondo ci sarà bisogno di un esercito di popolo che difenda i diritti dei lavoratori e degli sfruttati di tutto il Mondo. Gli Stati non hanno bisogno di eserciti perché hanno diritto e dovere di vivere in pace nei propri confini fintanto che ve ne sa-

ranno e che il Mondo non diverrà un unico Stato/comunità. E’ il popolo che ha bisogno di restare costantemente in difesa armata contro il rischio dell’aggressione da parte dei propri nemici di classe. Poiché l’Esercito del Popolo è un esercito di classe, la sua guida è la guida della classe: il Partito Comunista. “E’ il Partito che comanda il fucile” ha riaffermato Xi Jinping, come detto comandante supremo dell’esercito, riprendendo testualmente la parola d’ordine di Mao. L’Esercito Popolare di Liberazione cinese, in effetti, non dipende dal governo dello Stato, ma proprio per la sua natura e funzione di difesa di classe, dipende organicamente dal Partito Comunista. Assicurare la fedeltà e la disciplina assoluta dell’esercito alla direzione del Partito Comunista non è solo una necessità strategica interna allo Stato cinese, ma serve a garantire la funzione paradossalmente più politica che militare dell’esercito del popolo in armi. Questo esercito non solo non si rivolgerà mai contro il proprio popolo, com’è la tradizione storica di tutti gli eserciti capitalisti a servizio, appunto, non del popolo ma delle classi dominanti contro quelle dominate, ma non si rivolgerà mai neppure contro altri popoli e sarà dunque fondamentalmente un esercito di pace. Se pensiamo ai nostri fucilieri di marina detenuti in India, affittati a contratto ad uso di imprese e interessi privati, consideriamo all’opposto che la Cina fornisce il più numeroso contingente di caschi blu all’ONU, circa 35mila, applicati in missioni di pace sparse in tutto il Mondo. Sicuramente grazie alla preparazione e alla formazione ideologica del proprio enorme esercito di pace la Cina è riuscita in un arco di tempo straordinariamente breve a realizzare, attraverso la SCO - Shanghai Cooperation Organisation, un sistema militare integrato con gli eserciti della Russia, Uzbekistan, Kazakistan e Tagikistan, ai quali si aggiungeranno già nel 2015 quelli dell’India, Pakistan, Mongolia e Sri Lanka e, in breve prospettiva, anche dell’Iran, Afghanistan e Turchia. Un vastissimo esercito integrato che sarà la garanzia della pace per una regione vasta oltre la metà del Mondo. Ancora una lezione da imparare dall’esperienza cinese: niente più guerre preventive, scudi missilistici, missioni “umanitarie” al fosforo o uranio impoverito, ma integrazione anche tra diversi; la storia, e cioè le capacità di emancipazione dei diversi popoli, farà poi il suo corso, ma saranno lotte di classe e non guerre d’invasione.

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Il Kurdistan è un vasto altopiano situato nella parte settentrionale e nord-orientale della Mesopotamia, che include l'alto bacino dell'Eufrate e del Tigri, il lago di Van e il lago di Urmia e le catene dei monti Zagros e Tauro. Politicamente è diviso fra gli attuali Stati di Turchia (nord-ovest), Iran (sud-est), Iraq (sud) e, in minor misura, Siria (sud-ovest) ed Armenia (nord). Alcune stime contano all'incirca 50 milioni di Curdi residenti in Kurdistan, di cui 15-20 milioni in Turchia. I curdi parlano una propria lingua, appartenente al gruppo iranico della famiglia linguistica indoeuropea. I curdi normalmente sono scolarizzati nella lingua del paese di cui hanno la cittadinanza che spesso non consente o ostacola l'uso del curdo, per cui il bilinguismo è una situazione assolutamente normale La questione territoriale curda risale almeno al Trattato di Sevres del 1920 (che segue le fine dell’Impero Ottomano sancita dal tratato di Londra del 1913) il quale prevedeva ampie tutele per le minoranze nazionali (ar-

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mene e curde) presenti in Turchia e garantiva ai curdi la possibilità di ottenere l'indipendenza all'interno di uno Stato i cui confini sarebbero stati definiti da una commissione della Società delle Nazioni designata ad hoc. Dopo la scoperta del petrolio nelle aree curde e armene il "Padre dei turchi", Mustafa Kemal Pasha (Ataturk) provocò e vinse la Guerra Turca d'Indipendenza (1920-1923), costringendo le ex potenze alleate a tornare al tavolo negoziale. Le parti firmarono un nuovo Trattato a Losanna nel luglio 1923 che cancellava ogni concessione ai curdi, agli armeni e ai greci. Lo storico territorio curdo si trovò diviso fra diversi nuovi stati. Nel 1945 si formò, con l'appoggio dell'Unione Sovietica, in territorio iraniano una repubblica popolare curda, con capitale Mahabad. Con il ritiro delle forze sovietiche, le truppe iraniane riconquistano il territorio, condannando a morte i vertici politici, compreso il Presidente Qazi Muhammad. I Paesi dove oggi risiedono i curdi non sono disposti a rinunciare a parte del

loro territorio e hanno spesso negato l'esistenza di una identità nazionale (e quindi politica) curda. Dietro la definizione geografica si nasconde uno dei luoghi più ricchi di petrolio al mondo, generando intorno ad esso forti interessi economici, tra cui l'invasione americana in Iraq. A seguito delle due guerre del golfo (1990-1991 e 2003) e dell'invasione statunitense in Iraq, la questione dei curdi si inserisce nel quadro delle strategie per il controllo del territorio e delle sue preziose risorse. All'inizio gli Stati Uniti sembravano non ostili all'indipendenza del nord iracheno con capitale a Kirkuk, sperando che passasse sotto la loro "tutela", ma (anche in seguito alle pressioni dell'alleata Turchia) hanno accettato un Iraq federale con la capitale a Baghdad, in cui la regione curda non ha ancora ottenuto le città petrolifere di Kirkuk e di Mossul. La popolazione curda dall'inizio del XX secolo ha subito una politica di discriminazione razziale che non ha esempi in nessun altra parte del mondo, soprattutto nel kurdistan turco.


Kurdistan guerriglia come e perché di Daniela Perfetti Spesso ci si domanda cosa spinge una persona giovane o adulta, uomo o donna, ad unirsi alla guerriglia. Per un Curdo la risposta è quasi ovvia e anche se non condivisa da tutti, è comunque compresa. Noi invece dobbiamo innanzi tutto cercare di capire a fondo la situazione di questo popolo e immedesimarci nella loro realtà. In Turchia ad esempio, ma anche negli altri Stati in cui il Kurdistan è diviso, i Curdi teoricamente hanno gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini, ma non è così. La loro lingua è proibita, ammessa solo a livello familiare (per grande concessione da quando la Turchia vuole entrare in Europa), cioè in pratica considerata come un dialetto che nessuno, in nessuna parte del mondo si sogna di proibire. Fino a qualche anno fa non era raro essere arrestati per parlare curdo in pubblico o ascoltare musica curda. Nel 2003 studenti universitari hanno manifestato per chiedere di poter studiare il curdo "come lingua straniera": sono stati arrestati e poi, non potendo essere trattenuti a lungo, sono stati sospesi per 2 anni, con le gravi conseguenze che si possono immaginare. Poche persone sanno che i Comuni ricevono dallo stato un budget basato su vari parametri tra cui il numero degli abitanti. Quasi tutte le città curde hanno raddoppiato o triplicato il numero degli abitanti in questi ultimi vent'anni per l'afflusso massiccio di profughi interni provenienti, per esempio, da villaggi bombardati, ma questi non vengono considerati cit-

tadini residenti e quindi le città curde ricevono meno fondi rispetto alle altre e spesso i Comuni kurdi non hanno soldi nemmeno per le necessità più urgenti e il degrado è evidente a chiunque. In queste città, prendiamo ad esempio Shirnak, che ha un distretto molto vasto, c'è un medico ogni 10.000 abitanti, e spesso non è nemmeno reperibile, perché costretto a girare da un posto all'altro, con lunghi percorsi in strade di montagna non sempre agevoli. Proprio a Shirnak una associazione Italiana ha allestito un ambulatorio che ora è chiuso perché manca il medico e spesso anche l'infermiere. Ad Hakkari l'ospedale è stato chiuso per anni, la struttura più vicina è a Wan, che dista circa 200 km e 5 ore di viaggio! C'è grande discriminazione sociale ed economica per cui difficilmente un curdo può raggiungere alti livelli sociali e culturali, specialmente se si occupa di politica. L'attuale partito filo-curdo, il BDP (Partito per la pace e la democrazia) ha cambiato sigla numerose volte (DEP, HEP, HADEP, OZDEP, DEHAP, DTP), perché di volta in volta chiuso dalle autorità turche e riaperto con altre sigle. Capi e funzionari del partito, sindaci regolarmente eletti, consiglieri comunali, giornalisti sono stati quasi tutti in carcere per periodi più o meno lunghi, e molti sono costretti a emigrare. Altri prendono il loro posto con una volontà veramente eccezionale di fare sopravvivere un’idea, ma con privazioni personali e collettive altrettanto eccezionali. Quasi ogni

famiglia curda, specialmente nella parte più orientale del paese, distretti di Dersim (ribattezzata Tunceli dai Turchi, come del resto tutte le città curde hanno cambiato nome), Van, Hakkari, Shirnak, ha o ha avuto almeno un membro in carcere, in guerriglia o ucciso: queste famiglie non possono più usufruire della Carta Verde che da diritto all'assistenza sanitaria alle persone più povere, restando così senza il minimo soccorso umanitario. Gli scontri con la polizia sono frequenti sia durante i festeggiamenti del Newroz (capodanno curdo, 21 marzo), che per ogni manifestazione organizzata dai curdi. Altrettanto frequenti sono gli arresti, anche di minorenni, sparizioni, esecuzioni extragiudiziarie. Il trattamento dei minorenni in carcere è davvero indecente e non di rado i giovani subiscono violenze di ogni tipo, tanto che se ne occupa anche Amnesty International, ma i Media europei vergognosamente tacciono come purtroppo hanno taciutosul massacro di Roboski (un villaggio di montagna ai confini con 1'lraq) quando il 28 dicembre 2011 un aereo turco ha bombardato con gas e ucciso 34 persone inermi di cui 19 minorenni. Questi esempi pur sommari e non esaustivi, danno comunque un'idea della situazione e fanno capire perché un giovane possa decidere di lasciare tutto e andare in montagna. La discriminazione sessuale che pesa sulle ragazze e i limiti imposti da tradizioni e religione, sono altra causa di fughe in montagna, per affiancarsi alla guerriglia.

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La vita di guerriglia è una vita molto dura, non tutti quando entrano sanno esattamente quello che li aspetta, non tutti resistono. L'addestramento è di tipo militare, con marce, esercizi, disciplina ferrea Non ci sono normali campi di addestramento in posti appositamente scelti e protetti. Qui si è in montagna tra cime aspre e spesso aride con pareti scoscese e passaggi non agevoli e in inverno c'è molta neve. Inoltre il nemico è sempre in agguato e può spuntare fuori da un momento all'altro o sorvolare con aerei ed elicotteri pronti a bombardare, anche con gas, appena vedono qualcosa muoversi o una postazione. Spesso addestramento e battaglia vanno di pari passo. Il giovane appena arrivato è subito immerso in una realtà diversa, difficile, spesso sconvolgente. Nelle montagne ci sono grotte o cavità naturali che possono essere sfruttate in maniera temporanea, a volte si trovano case abbandonate. Ma più spesso si scavano tunnel sotterranei (che per lo più ricalcano la forma delle abitazioni tradizionali: con corridoio al centro, due o tre camere da un lato e cucina e bagno dall'altro) che sono un rifugio più sicuro per poter dormire, avvolgersi in coperte, quando possibile accendere un fuoco per cucinare e scaldarsi e soprattutto non essere visti. Questi rifugi, costruiti in fretta e con grande fatica quando arriva l'inverno e comincia a cadere la neve, possono cambiare a seconda delle circostanze e delle necessità contingenti. Durante le marce di spostamento il bagaglio deve essere essenziale, il più possibile leggero per non essere impacciati nei movimenti; spesso capita di dormire fuori e le notti sono fredde, per questo i guerriglieri devono essere ben temprati e addestrati a sopportare ogni sorta di difficoltà, intemperie, disagi. Per lavarsi ci sono le sorgenti, le cascate, i vari corsi d'acqua limpidi e puliti, ma certamente freddi e d'inverno gelidi. La sera spesso si usano calderoni messi sul fuoco con dentro la neve in modo che, sciogliendosi, fornisce acqua calda con cui farsi il bagno, etc. Gli uomini riescono a tagliarsi i capelli e farsi la barba ma in genere in inverno la lasciano lunga, forse per mantenere un po' più di calore. Le marce di spostamento o in vista di una battaglia avvengono spesso di notte e… "ci guidano le stelle", come recita la nota canzone. Le camminate in lunga fila si vedo-

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no per lo più nei film o nei calendari. Queste si possono effettuare solo in casi di estrema sicurezza, soprattutto nel sud del Kurdistan (nord Iraq) dove minori sono i rischi di essere visti da ricognizioni turche o almeno sono fuori dalla loro giurisdizione. Lì ci sono vere e proprie basi dove si concentrano molte persone, si costruiscono villaggi militarizzati e si svolgono diverse attività non solo destinate a fini bellici. Ad esempio qualche anno fa i guerriglieri hanno costruito una piccola diga e con un generatore sono riusciti a portare la luce non solo per se stessi, ma anche ai villaggi vicini che ne erano privi. I guerriglieri che operano nel Kurdistan del nord (attuale Turchia) sono per lo più divisi in gruppi non molto numerosi per poter nascondersi e agire più agevolmente guidati da un capo responsabile. Si comincia ad avere responsabilità di quattro persone, poi il numero aumenta progressivamente. Le "nomine" avvengono dall'alto, in stretto ordine gerarchico e non si contestano. I requisiti non sono l'anzianità, ma i meriti ottenuti sul campo, attitudini particolari, destrezza, serietà. Può capitare infatti che un ragazzo giovane, dopo pochi mesi di ingresso in clandestinità, venga scelto come capo di un gruppetto di persone più anziane di lui e venga accettato di buon grado. Le donne, per lo più ragazze, che scelgono di unirsi alla guerriglia mi sembrano ancor più degne di ammirazione perché il loro fisico e il tipo di vita che hanno sempre condotto le rendono meno adatte a sopportare le difficoltà che questo nuovo genere di vita comporta. Ma certamente sono determinate e convinte quanto i maschi. Quando le azioni sono comuni, durante gli spostamenti spesso gli uomini aiutano le donne a portare il bagaglio o danno una mano nei punti più difficili, ma non c'è molta differenza tra quello che fanno uomini e donne; spesso si viene a conoscenza di donne uccise in battaglia o in agguati; comunque fanno vita un po' separata e dormono in posti diversi. L'amore è fortemente scoraggiato, soprattutto i rapporti sessuali in quanto eventuali conseguenze sarebbero ingestibili nella vita di guerriglia. Ma è naturale e inevitabile che nascano storie d'amore, più o meno palesi, più o meno forti e anche molto belle. La guerriglia non è solo lotta armata, è

anche sinonimo di libertà. Può sembrare un controsenso considerando, ad esempio, il tipo di disciplina che vige tra i guerriglieri. Ma è così. Non sempre si combatte e nei lunghi periodi di tregua si svolgono varie attività. Innanzi tutto si parla curdo, nelle sue varie componenti (curmanchi, sorani, zazachi, gorani) e chi non lo sa, lo impara. Si seguono corsi, cosa molto importante vista la scarsa cultura di molte persone che non hanno potuto, e in alcuni casi voluto, andare a scuola. Nelle scuole turche infatti gli studenti fin dalle elementari vengono imbottiti di idee e mentalità turca, la storia viene distorta e addirittura negata (secondo una certa mentalità i Curdi non esistono, sono Turchi della montagna). Insegnamenti di lingua, storia, politica vanno di pari passo. Ma la scuola di guerriglia è una scuola particolare (molto moderna tra l'altro) diversa dalle scuole normali e in cui le lezioni frontali sono ridotte al minimo. Gli "insegnanti" vengono scelti dalla base. Ad esempio, si sceglie un argomento da trattare: due o tre persone indicate, soprattutto in base alle loro competenze specifiche (ci sono anche parecchi laureati) ma non solo, questi si preparano per il tempo necessario e poi espongono l'argomento a cui segue una discussione aperta; ad esempio se due persone parlano tra di loro gli altri ascoltano, imparano, intervengono a loro volta con domande spesso volte a "tirar fuori" dall'interlocutore quello che già ha dentro ma non riesce ad esprimere, oppure attraverso domande mirate riesce a rendersi conto dei propri errori. Un po' il metodo che di usava nell'antica Grecia con Socrate; il tutto avviene democraticamente e con ordine, cosa che sarebbe abbastanza difficile da noi quando tutti parlano insieme e poco si ascoltano gli altri. Tra i guerriglieri si impara ad essere autonomi, a chiedere aiuto solo quando è indispensabile, ma anche ad essere solidali, non solo tra di loro ma con le varie persone con cui vengono in contatto. Si impara e si rafforza il senso di umanità, di giustizia, di lealtà. La loro forza sta soprattutto nella mente, nella convinzione psicologica di lottare per una causa giusta: la libertà e la dignità di un popolo che è il più antico che abita questa terra, anche se questo comporta a volte la necessità di essere duri e inflessibili.


Non credo sia casuale, ma per la mia esperienza personale posso affermare con sicurezza che tra i numerosi curdi che conosco quelli che sono stati in guerriglia sono i più seri e affidabili. Si sente spesso dire che il PKK si finanzia anche con la droga. Questo è del tutto falso. Alcuni curdi, è vero, spacciano o sono corrieri di droga, ma il PKK è fortemente nemico della droga; se qualche gruppo si imbatte nei corrieri, la droga viene sequestrata e bruciata. Il denaro invece viene tenuto, ma questo capita di rado, come rarissimo è il caso di guerriglieri che ne approfittano e sono così fuori dell'organizzazione. Lo stesso atteggiamento hanno i sindaci dei Comuni nei quali la droga comunque passa (dall'Afganistan, dall'Iran la Turchia è un passaggio obbligato); un altro genere di contrabbando (ad es. benzina, generi di prima necessità) è invece tollerato in quanto spesso è l’unica fonte di guadagno per la povera gente. Il principale sostentamento della guerriglia viene dai contributi che volontariamente danno gli emigrati curdi, in proporzione al loro reddito; dai pedaggi che i guerriglieri riscuotono per aiuto prestato nel trasferimento di greggi da un paese all'altro (es. Iran Turchia) che i pastori fanno per vari motivi spesso familiari: questa è una "transazione" che conviene a tutti perché le quote che esigono le autorità di frontiera sono molto più alte. Una cosa molto importante da ricordare, per noi occidentali, è che il PKK o YPG non è un gruppo terroristico, ma un gruppo di RESISTENZA. Se si ha questo chiaro in mente la prospettiva cambia e si possono capire tante cose. Basti un esempio: la maggioranza della popolazione, la quasi totalità nella parte più orientale del paese, appoggia il PKK e vede in Ocalan (detto affettuosamente Apo, “lo zio”) il proprio leader indiscusso che è in isolamento in carcere dal 1999 e dall'estate del 2011 gli è negata qualsiasi visita di avvocati e parenti, cosa che ha suscitato forti reazioni e fa temere fortemente per la sua salute e addirittura per la sua vita. Nel corso di questi ultimi anni, su indicazione dello stesso Ocalan, i guerriglieri hanno proclamato per ben 6 volte il cessate il fuoco unilaterale con l'intenzione e la speranza di poter aprire trattative con lo Stato turco per ottenere il rispetto di alcuni diritti fondamen-

Abdullah Ocalan “Apo”, leader del PKK Partito del Lavoro Kurdo (comunista), consegnato alla Turchia dal governo Dalema (per non dimenticare), sconta l’ergastolo nel carcere-isola di massima sicurezza di Imrali del quale è l’unico detenuto tali: non separatismo dunque, anche se forse (penso io) questo è il sogno nel cassetto di ogni curdo. Non c'è stata alcuna risposta, al contrario la repressione è continuata senza interruzione. La guerriglia è ripresa ogni volta a bassa intensità, ma ora da alcuni mesi è ripresa in maniera massiccia e violenta con gravi perdite da ambedue le parti, ma soprattutto da parte turca e da luglio scorso la guerriglia ha il controllo di alcune zone nel distretto di Hakkari. In guerriglia c'è un ricambio continuo. Quanti sono i guerriglieri non è dato sapere. Forse non lo sanno nemmeno i dirigenti. Le unità sono dislocate in tanti posti diversi, si formano, si sciolgono, si raggruppano in modi e quantità diverse a seconda delle esigenze e delle situazioni contingenti. Molti vengono uccisi, altri feriti in modo grave e devono andarsene (e questi resteranno sempre

guerriglieri "in pectore"). Alcuni non reggono fisicamente o psicologicamente a una vita così dura, altri si stancano o sanno che le loro famiglie hanno bisogno di aiuto e sostentamento e quindi lasciano per trovarsi un lavoro (da emigrati), altri se ne vanno per disaccordi ideologici non accettando più i dettami della nuova dirigenza. Alcuni infine sono rientrati in Turchia e si sono costituiti dopo l'arresto di Ocalan e, interpretando un suo suggerimento, sono tornati a una vita quasi normale dopo aver passato qualche anno in carcere. Molti altri li sostituiscono. Come diceva recentemente il sindaco di una città in cui tutto il consiglio comunale è stato denunciato e destituito: "Non ci abbatteranno mai. Per ognuno di noi che sparisce, cento sono disposti a pendere il suo posto". Questo avviene sia nella vita civile che in montagna.

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Due

“Scrivo perché creo mondi, quelli in cui faccio vivere personaggi e storie che sono dentro me; scrivo perché alienarsi dalla realtà a volte fa bene, perché prima di farsi divorare dall'apatia, dalla rabbia altrui e vivere nelle finzioni reali, preferisco inventarmele le realtà parallele che seppur fatte di fantasie sono più reali della realtà che stiamo vivendo.” Fava (Dedicata) Pippo s’era fermato, aveva parcheggiato; il motore della Renault era caldo fredda era la serata; “siciliani, alzate la testa” la sua penna aveva spesso urlato 5 colpi alla nuca e fu ammazzato; Giacomino ancora pensava, mentre la nipote recitava, ma l’ombra dello stato copriva già ciò che la mafia comandava; imprenditori, già detti cavalieri, corruzione, fondi neri; forse fu passionale, macché... non aveva denari, per coprire la malavita di tutto scrissero i giornali. Onorevole Drago : “chiudiamo le indagini per piacere, perché i cavalieri le loro fabbriche possono trasferire”, l’allor sindaco Munzone non tenne cerimonia, chissà,

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quel Fava forse era morto per infamia. Ma prima o poi lo stronzo viene a galla l’acqua limpida mette in mostra la canaglia; Santapaola mandante, D’Agata e Giammuso l’organizzazione, di Ercolano e Avola l’esecuzione, ma il regista di questa squadra non venne mai trovato o forse... Liggio? Mai condannato! Vent’anni per dar voce al reato 7 anni a testa perché c’è il concordato; Santapaola, Ercolano e Avola, e i cavalieri? I mandatari? Ancora oggi chi sa non parla, puzza ancora di polvere da sparo...la terra! Sibila però il vento sulla madre che un figlio porta in grembo, che sogna, come Pippo, come tutti i genitori, che questa terra maledetta, la mafia faccia fuori.


e storie di lotta operaia di Giovanni Parentignoti

Portella delle Ginestre 1° maggio 1947, Portella delle Ginestre a pochi chilometri da Piana Degli Albanesi in provincia di Palermo, l'Italia festeggia così la nascita della sua era repubblicana, con la prima strage di stato e i primi misteri avvolti in essa; quasi duemila lavoratori si erano riuniti per manifestare contro i latifondi e per l'occupazione delle terre incolte quando diverse raffiche di mitra uccisero 11 persone e ne ferirono 27; subito furono accusati i latifondisti della strage, ma 4 mesi dopo le menzogne ebbero inizio; la colpa ricadde su Turi Giuliano separatista siciliano e si disse che lo stesso, assieme alla sua banda era entrato in conflitto con elementi mafiosi del territorio e per questo vi fu quella rappresaglia; Giuliano dichiarò più volte lo scopo politico della strage e cominciarono a venir fuori nomi come quello di Scelba, allora ministro degli interni che naturalmente smentì il tutto; nel 1950 Giuliano fu ucciso dal suo luogotenente Pisciotta (così riferirono le fonti ufficiali dello stato), lo stesso Pisciotta non poté smentire perché putacaso, morì in carcere avvelenato 4 anni più tardi dopo aver detto che voleva fare i nomi dei veri mandanti della strage; Giuliano aveva riferito come mandanti i nomi dell'allora Onorevole democristiano Mattarella, del Deputato regionale Cusuma-

no, di alcuni monarchici e altri facenti parte della Democrazia Cristiana, ma tesi più vicine ai nostri tempi aprono uno scenario di portata più ampia attribuendo la strage agli interessi dei post-fascisti legati alla X mas, ai servizi segreti americani e ai latifondisti siciliani; in effetti il 1947 era iniziato male con l'omicidio del dirigente comunista Miraglia e del militante Macchiarella e con la vittoria del blocco del popolo alle elezioni regionali, si era scatenata l'ira dei reazionari, della mafia e dei latifondisti. Ricordo che lo stesso capo-mafia Celeste, assieme alla moglie di un truffatore locale avevano detto che chiunque si fosse recato alla manifestazione del 1° maggio non avrebbe avuto di che festeggiare e che sarebbe finita male. Nella storia entra anche la Chiesa che col cardinale Ruffini giustifica la strage dicendo che era logico si finisse così per contrastare l'avanzata del pericolo rosso-comunista e che quindi quei lavoratori, sovversivi, se l'erano cercata; fu lo stesso Ruffini a chiedere a de Gasperi e Scelba di mettere fuorilegge il partito comunista ma l'appello non fu accolto, anche perché i dirigenti democristiani sapevano che così sarebbe stata guerra civile. Nel 1951 il dirigente comunista Montalbano presentò denuncia contro 3 monarchici e contro l'ispettore Messana come correo, ma tutto cadde nel nulla e in clima di pieno compromesso storico tra comunisti e democristiani, negli anni '70, si cominciò a parlare non di attentato prettamente mafioso , ma di strage volta ad orien-

tare la politica siciliana in modo ben preciso, e infatti alle elezioni seguenti il 1947 la Democrazia Cristiana, forte dell'influsso monarchico e ecclesiastico, vinse le elezioni politiche. Quello di Portella delle Ginestre sarà un altro dei tanti misteri che l'Italia seppellirà assieme alla memoria di chi sa e sapeva e ha taciuto, un mistero dove quello che salta fuori è comune a tante altre stranezze accadute nell'Italia libera e democratica, dagli omicidi di Avola e Battipaglia, alle repressioni contro gli operai in varie parti dell'intera Italia, agli attentati e al clima di tensione appositamente creato negli anni 70/80 e agli ultimi eventi come Genova per il G8, la spazzatura a Napoli e tanti altri che non ricordo più; misteri si lo sono, ma in comune hanno tanto: gli apparati istituzionali, i partiti politici, la Chiesa, i servizi segreti, le forze dell'ordine e lo zampino sempre presente degli americani; appare così chiaro che sino a quando lo Stato si reggerà su apparati corrotti e collusi, retti sempre dalle stesse "facce", senza distinzione tra destra e sinistra, senza distinzione tra alte cariche di qualsiasi forza creata per mantenere questo clima di finta democrazia, si accumuleranno ancora altre misteriose scomparse, altre stragi irrisolte che faranno in modo che la vera storia di uno Stato che ha come pilastri la malavita, gli affari loschi e il potere non venga mai fuori...e allora non hanno senso il 25 aprile o il 1° maggio sin quando non saremo davvero liberi di essere!

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Naracauli Uno degli obiettivi da raggiungere è non provare mai vergogna di se stessi, non ergere la compassione a virtù e mai fare in modo che la propria vita diventi proprietà altrui, né ricattabile né merce per il potere. Piccoli diamanti sembravano rilassarsi sul rio Naracauli la notte; il silenzio, la quiete, incorniciavano segni evidenti di un'intensa vita giornaliera; l'aria era satura di voci e colori, fantasmi in attesa della reincarnazione alle prime luci dell'alba; dalle dune di Piscinas, la valle, seguendo un percorso, indice della fatica e del sudore di quel luogo, terminava in cima con punta Tintillonis nelle cui vicinanze sorgeva il villaggio minerario di Ingurtosu. Centro produttivo della miniera di Ingurtosu era Naracauli, grazie anche al fatto che qui sorgevano la lavanderia Brassey e la Pireddu. Nel cantiere Naracauli si erano creati due poli abitativi principali: Pitzinurri, ove in principal modo risiedevano gli operai con le loro famiglie e la stessa Ingurtosu, centro di servizi principale, ove risiedevano invece dirigenti e impiegati preposti a servizi amministrativi inerenti le miniere. Erano giorni duri quelli che segnavano la fine dell'estate del 1904: a Villasimius vi era stato lo sciopero degli

scalpellini, a Sassari dei conciatori e a Montevecchio e Monteponi dei minatori; l'aria era pesante a pochi chilometri da Pitzinurri e Ingurtosu: Buggerru, la "petit Paris" della Sardegna era in fermento; il dirigente della società "des mines de Malfidano di Parigi", un turco di nome Georgiades, aveva fatto ridurre le ore di riposo estivo in miniera da due a una e aveva chiesto di applicare l'orario invernale già dal primo giorno di Settembre, costringendo ancor più alla sofferenza per il caldo i lavoratori già massacrati dai turni previsti; lavoratori che comprendevano donne conciatrici e bambini, ridotti in condizioni di schiavitù per paghe giornaliere che andavano da 0,60 a 1,20 lire, e per gli uomini da 0,80 a 2 lire. Duemila i minatori della zona, novemila gli abitanti nella circoscrizione tra le miniere di Calarina, Blescia e Galena. Felice osservava il cielo ormai buio, aspettando Nico e Benito per recarsi a Buggerru a manifestare insieme agli altri lavoratori.Quella notte del

3 Settembre l'aria sembrava riempirsi di uno strano odore di zolfo e piombo, odore che riempiva il naso e le menti all'interno delle miniere ma che solitamente veniva cancellato dai profumi ruvidi e particolari delle strade degli agglomerati; profumi di serenità e quiete, di famiglia e riposo dopo la fatica; ma quella notte era diversa e più passavano le ore, più zolfo e piombo sembravano addirittura fuoriuscire dai pori della pelle e dai muri delle abitazioni; Renato avrebbe voluto partecipare allo sciopero, ma pochi giorni prima si era sentito male e consultato il medico gli era stata diagnosticata l'anchilostomiasi, un dono molto diffuso tra i minatori, che grazie al fango, all'umidità e alle condizioni estreme di lavoro, si vedevano fecondati da parassiti che, per le ferite sulla pelle, s'insinuavano nelle vene e depositando uova mandavano in giro per tutto il corpo piccoli esseri che si nutrivano del sangue come in un continuo stillicidio, portando l'ammalato alla morte, tra sofferenze e inutili cure.


Felice, Nico e Benito arrivarono a Buggerru alle prime luci dell'alba del 4 Settembre; da subito notarono in piazza movimenti strani e differenti da quelli visti a Monteponi; i lavoratori erano schierati in massa e alle cinque del mattino sembravano come formiche in movimento, mentre la confusione faceva apparire Buggerru come se fossero le ore di affollamento serale, quando tra una passeggiata e una discussione quasi tutti si concedevano un po' di svago. Si avvicinarono chiedendo se ci fossero novità e la risposta fu che lo stesso Giolitti aveva chiesto la fine delle ostilità, ma non schierandosi coi lavoratori, bensì più propenso all'eventuale intervento delle forze dell'ordine. Le ore passavano e quello che si notava era una strana calma e nessun rappresentante né della Società né dello Stato era intervenuto per dialogare o per convincere le persone verso una eventuale contrattazione. D'un tratto uno strano movimento di gente si notò all'ingresso della piazza; il sole rifletteva su qualcosa che non si distingueva, ma non ci volle tanto a capire: un reggimento della fanteria avanzava verso loro e il sole splendeva sulle baionette lucide e ben allineate; si fermarono lì...davanti a loro. La tensione era enorme e più di una volta fu chiesto al gruppo di sciogliersi e tornare ai propri posti di lavoro; si rifiutarono e fu l'inferno! La carica della milizia e la fuga dei lavoratori, mentre vanamente

cercavano di difendersi col lancio di pietre. Esplosero diversi colpi, in parte fuggirono, ma tanti rimasero lì a terra, corpi feriti di uomini, donne e anche bambini e le urla di chi impotente cercava rifugio da quel piombo così differente da quello delle miniere. La carneficina di stato fu compiuta! Felice Littera di 31 anni e Giovanni Montixi di 49 anni erano morti sul colpo, raggiunti dal fuoco autorizzato, Giustino Pittau morì in ospedale, mentre a distanza di un

mese, per le gravi ferite riportate, morì in ospedale Giovanni Pilloni. Finalmente l'indignazione di una parte d'Italia, riuscì ad attirare l'attenzione su quella strage e fu organizzata la prima grande manifestazione nazionale dei lavoratori in Italia. L'orario lavorativo fu ridotto, la paga leggermente aumentata, il sangue che colorò le strade della Sardegna aprì le porte alle prime associazioni sindacali e di settore; era appena iniziata la prima stagione di fuoco della neonata Italia.

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La sociologia a fond ovvero, la sociologia

Nei numeri precedenti si è posto in evidenza come, nel contesto contemporaneo, la diffusione del nichilismo, vale a dire, della cultura dell’antiumanesimo, rinvenga nel sistema capitalistico della produzione la propria fondazione filosofica. Se ne sono, altresì, poste in risalto le conseguenze sul piano economico. Nell’articolo che segue, se ne sottolineano le conseguenze sociologiche, quelle, per altro, più significative. L’indagine viene condotta con riferimento anche alla società statunitense, essendo essa la più avanzata dal punto di vista capitalistico, essendo essa la sede in cui possiamo vedere il nostro futuro prossimo in ragione del processo di adeguamento progressivo degli assetti sociologici indotto dalla globalizzazione

SOMMARIO: 1. La perdita della omogeneità culturale della società: l’individualismo estremo, ovvero, l’absolute individual right. -2. Dalla libertà alla licenza. -3. Il pluralismo, ovvero, la poliarchia. Il transito dalla political diversity alla political division. -4. Il tramonto della democrazia. -5. Il femminismo anarchico (radical feminism). -6. Segue: il versante teologico. -7. Segue: il versante politico. -8. La dissoluzione della famiglia. Premesse metodologiche. -9. La fenomenologia della famiglia a fondamento capitalistico. -10. Segue. -11. Le conseguenze derivanti dalla dissoluzione della famiglia: l’omofilia. -12. Verso la rifondazione del rapporto uomo-donna, come condizione del rinnovamento della società. -13. La riproposizione della “famiglia cristiana”. -14. Considerazioni conclusive: pluralismo e progressiva attuazione dell’assolutismo politico. -15 I prodromi papisti. di Alberto Donati

1. — La perdita della omogeneità culturale della società: l’individualismo estremo, ovvero, l’absolute individual right Il primo dei caratteri che significano la sociologia capitalistica è costituito dall’individualismo, mero pendant della individualità dei redditi e della corrispondente individualità consumistica. L’asserto di J.S. Mill, secondo cui l’intervento dello Stato è giustificato solo allorquando sia diretto ad impedire che l’individuo danneggi gli altri, si è tradotto nella “defense of absolute individual right”, nella difesa, dunque, della assolutezza del diritto alla propria individualità. L’introduzione di questa “Liberty” causa “gravi conseguenze per la politica democratica e per la legittimazione del relativo regime”, poiché essa “è definita, non come una manifestazione della democrazia, ma in opposizione alla democrazia, vale a dire, come una garanzia individuale contro ciò che la maggioranza può volere” (Sandel M. J.). Per questa via, si è provocata la “disobbedienza civile”, si è indotto il transito alla preminenza del bonum singulare sul bonum commune, alla “preminenza dell’individualismo” (rule of individual persons) (M. Rosenfeld). L’affermazione iniziale della Costituzione statunitense “Noi, Popolo degli Stati Uniti” (“We the People

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of United States”) si è tradotta nel “noi, singoli individui” (“we the individuals”). La Supreme Court (Corte Suprema) ha, infatti, legittimato la Liberty soggettivamente intesa, apprestandone, quindi, una tutela disancorata dalle esigenze del bonum commune e della moralità pubblica: “la stessa Suprema Corte ha condotto la nazione lontano dalla libertà moderata richiesta dal bene comune e difesa da generazioni di liberali [...] Cessando di essere la guardiana conservatrice della Costituzione come disegnata dai suoi fondatori, [...] la Corte ha posto come proprio fine la libertà individuale a spese delle necessità morali, sociali e politiche proprie di una società ordinata. Pertanto, il Primo Emendamento [della Costituzione volto a garantire la libertà di coscienza e di parola], originariamente posto a rafforzare e preservare la democrazia, è divenuto il veicolo della sua degradazione e della sua destabilizzazione” (D. Lowenthal). Nella logica dei Fondatori (Founders), la libertà individuale, il soggettivismo, dovevano essere inquadrati nell’etica cristiano-illuministica (non quella cattolica), dovevano garantire l’esistenza e la protezione dei valori collettivi capaci, per questa loro natura, di assicurare l’unità politica (D. Lowenthal). La Corte Suprema, disponendosi al servizio del sistema capitalistico della produzione, ha reciso questa connessione accogliendo le istanze dell’individualismo e del connesso nichilismo (in Italia, vd. Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13).


amento capitalistico, a dell’antiumanesimo


2. ― Dalla libertà alla licenza

4. — Il tramonto della democrazia

Dal punto di vista dei Founders (dei fondatori del costituzionalismo anglo americano) “lo stato di libertà, non è uno stato di licenza” (J. Locke), mentre la liberty introdotta dall’individualismo capitalistico ha contenuti opposti. La rottura risiede, dunque, nel passaggio dalla libertà (Liberty) alla licenza (License), talché il diritto alla libertà di coscienza, il diritto alla libertà di parola, originariamente intesi come baluardo dello Stato (“as a bulwark of the republic”), sono divenuti le cause primarie della sua distruzione (D. Lowenthal; J.R. Stoner jr.). Ciò che può essere ulteriormente espresso rilevando come si sia passati da un umanesimo in cui la volontà è soggetta alla ragione, ad un umanesimo in cui il rapporto tra questi due termini è invertito, talché “la separazione della volontà dalla ragione e la confluenza della libertà con la volontà, sono idonee a rendere la libertà un concetto privo di contenuti, privo di direttive, indeterminato e indipendente dal perseguimento di finalità” (R. Song). Donde l’anarchia e il nichilismo.

La società pluralista, tale in quanto “divisa lungo linee etniche, religiose, linguistiche, culturali o ideologiche”, tale in quanto composta da “gruppi differenti che non condividono gli stessi valori o la stessa concezione di ciò che è bene” (M. Rosenfeld), in quanto, quindi, “società frammentata” (“fragmented society”), ha delegittimata la visione unitaria, non tanto e non solo delle società nazionali, ma, quel che è peggio, della società umana. Il pluralismo ha invalidato il principio maggioritario cui era demandato il compito di applicare i comuni valori costituzionali, ha frustrato “la capacità delle maggioranze di realizzare quegli obiettivi che esse consideravano come preminenti” (M. Rosenfeld). Il principio maggioritario diviene, nel quadro della società individualistica e pluralista, uno strumento di oppressione, uno strumento antidemocratico. Ed infatti, “la stessa democrazia costituzionale può divenire oppressiva” poiché essa “implementa la volontà di maggioranze politiche e obbliga le minoranze a contribuire alla realizzazione di quegli obiettivi voluti dalla maggioranza ma non voluti dalle minoranze”, poiché, dunque, “il rafforzamento dei diritti costituzionali sembra condurre ad un significativa presenza (significant amount) di coercizione” (M. Rosenfeld). Si è, in tal modo, determinata una “constitutional crisis” (“crisi costituzionale”) che “può [essere] descritta come una nuova e antagonistica moralità prevaricante quella precedente” (G. W. Carey). Il pluralismo fa venire meno la coscienza del bonum commune (R.P. Wolff), ovvero, la relega in una dimensione affatto residuale: “il bene pubblico viene trascurato nel conflitto delle parti contrastanti [...] e [...] vengono spesso prese delle misure, non in base a principî di giustizia, o in considerazione dei diritti della minoranza, ma in forza della superiorità numerica della maggioranza interessata e prepotente” (Federalist). Il pluralismo, pertanto, è “fatalmente cieco di fronte ai mali che affliggono l’intero corpo sociale, e come teoria della società esso diverge l’attenzione proprio da quelle re¬visioni sociali radicali che potrebbero essere necessarie per rimediare a quei mali” (R.P. Wolff); il pluralismo postula “la società come un aggregato di comunità umane piuttosto che come una comunità umana in se stessa; ed esclude ugualmente in pratica un interesse per il bene generale della società fa¬vorendo una prassi politica basata sulle pressioni dei grup¬pi d’interesse, in cui non v’è nessun meccanismo per scoprire ed esprimere il bene generale della società” (R.P. Wolff). Lo Stato non è più garante della uguale libertà degli uomini, ma della poliarchia; si è trasformato in uno Stato corporativo: “Come nella società feudale, così anche nella democrazia pluralista il principio guida non è: ‘un uomo - un voto’, ma: ‘ad ogni gruppo legittimo la sua parte’” (R.P. Wolff). La problematica viene, complessivamente, sintetizzata da C. Kukathas in termini che si potrebbero definire drammatici: “che cosa si deve fare se non tutti sono d’accordo con la teoria dominante della giustizia?”; “come possono contesti umani diversi convivere liberamente e pacificamente?”; “come dovrebbe presentarsi una società caratterizzata dalla diversità etica”?; “in base a quali valori ‘noi’ dobbiamo vivere”?; “qual è la solida base di una società libera caratterizzata dalla diversità culturale e dalla lealtà di gruppo? Più in particolare, [...] quanto è doveroso tollerare tali minoranze allorché le loro vie differiscono da quelle della comunità dominante?”; “quale ruolo, se uno ne esiste, deve svolgere lo Stato nello conformazione della identità nazionale; quali valori fondamentali devono guidare le nostre riflessioni in queste materie?”.

3. — Il pluralismo, ovvero, la poliarchia. Il transito dalla political diversity alla political division L’individualismo anarchico è affiancato dal pluralismo, anch’esso tendenzialmente anarchico, dei gruppi di pressione, volti a realizzare la tutela corporativa dei rispettivi interessi. Esso è integrato dalle componenti razziali la cui presenza è stata indotta dal fenomeno della immigrazione, inizialmente motivato dalla necessità di ampliare le produzioni nazionali, ma, nel corso del tempo, tradottosi in una causa destabilizzante l’ordine pubblico in ragione della loro mancata integrazione, vale a dire, in ragione del loro rifiuto dei valori afferenti alle società ospitanti, nonostante che ad essi debbano l’emancipazione dalle condizioni proprie dei rispettivi paesi di origine. Un rifiuto che si coniuga con la conservazione dei propri valori etici e politici, donde il loro conseguente trapianto nelle società ospitanti, donde l’effetto destabilizzante. Per questa via, il sistema capitalistico della produzione ha indotto una configurazione cosmopolita della società. Essa, per altro, non si configura come un melting pot, vale a dire, come un crogiolo in cui le diversità culturali si integrano mediante l’accoglimento di valori sovraordinati e comuni, ma come un “mixing of diverse peoples” (“agglomerato di popoli diversi”) (R. Hardin), una “molteplicità di popoli” (“multiplicity of demoi”) (N. Krisch), una “nazione di nazionalità” (S. P. Huntington), un insieme di “divided societies” (“società divise”) (S. Choudhry), una “fragmented society” (“società frammentata”) (M. Rosenfeld), un liberal archipelago (“libero arcipelago”) (C. Kukathas). La sua teorizzazione è resa, da un lato, dal “decostruttivismo”, i cui protagonisti, i decostruzionisti, promuovono, infatti, “programmi finalizzati a rafforzare lo status e l'influenza dei gruppi subnazionali, raz¬ziali, etnici e culturali. Invitano gli immigrati a mantenere la cultura del paese d'origine, garantiscono loro dei privilegi le¬gali negati agli altri cittadini”, chiedono “a gran voce l'integrazione o la sostituzione della storia nazionale con la storia dei gruppi sub¬nazionali”, relegano in secondo piano la centralità della lingua nazionale e promuovono l'eterogeneità linguistica (S. P. Huntington); dall’altro, dalla “teoria delle sovranità multiple” (“theory of multiple sovereignties”) (W. A. Galston).

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5.— Il femminismo anarchico (radical feminism)

6. — Segue: il versante teologico

Tra gli aspetti che caratterizzano la fenomenologia del pluralismo, assume rilievo anche il movimento femminista. Al riguardo, è bene distinguere tra il femminismo intellettualistico (liberal feminism; socialis feminism) ed il femminismo volontaristico, altrimenti detto “radical feminism”. Il primo, in applicazione del principio illuministico di uguaglianza (Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, 1789, art. 1), è volto a caducare le situazioni di disparità esistenti tra i due sessi, a caducare il rilievo giuridico della diversità sessuale. Il secondo, muovendo dall’affermazione secondo cui solo il “radical feminism is feminism” (C. A. McKinnon), si basa, invece: a) sulla ricusazione della identità femminile (“Ciò che è chiamato ‘femminilità’ è soltanto una situazione di fatto in una data cultura, e non qualcosa di fondato sulla biologia o su una misteriosa essenza femminile”) (M. Daly), sul rifiuto del “gioco della famiglia” (A. Kollantaj), della “schiavitù della maternità” (S. de Beauvoir); b) sulla negazione del ruolo dell’uomo nella fecondazione (S. de Beauvoir); c) sulla negazione della maschilità (“male is a social and political concept, not a biological attribute” - “maschio è un concetto sociologico e politico, non un attributo biologico”) (C. A. McKinnon); d) su una diversa etica della sessualità (“In Aspasia, in Frine, in Lais si afferma la superiorità della donna libera sulla onesta madre di famiglia”) (H. Fisher); e) sulla liberazione dalla “sexual oppression” (M. Daly), dai condizionamenti, quindi, della sessualità poiché su di essi si fonderebbe il “sistema planetario della casta sessuale” (“planetary sexual caste system”), il “sistema dello sfruttamento [della donna] basato sul tale casta” (“exploitative sexual caste system”), la “segregazione giustificata in funzione del ruolo sessuale” (“sex role segregation”) (M. Daly); f) su una liberazione della donna che non va intesa come conquista della libertà sessuale, ma come trascendimento della dimensione sessuale nel contesto di una società rinnovata in cui essa è posta come ininfluente (“overturning the sex role system”) (C. A. McKinnon); g) sulla considerazione del tradizionale rapporto della donna con l’uomo come il prodotto di un ingiustificato dominato di quest’ultimo (B. Friedan); h) sulla revisione della storiografia in ragione dell’affermazione retrospettiva di un primato, o di un comprimariato, politico femminile (V. Mariani); i) sulla riformulazione della cultura in funzione della contribuzione femminista dando, così, luogo ad un “Feminsim in Philosophy”, che si articola, per stare agli aspetti più rilevanti, in “Feminism in metaphysics, in epistemology, in philosophy of science, in political philosophy, in ethics, in history of philosophy” (Fricker M. - Hornsby J.). Sintetizzando, “L’istinto materno non esiste” (E. Badinter). Mentre il femminismo intellettualistico supera le disuguaglianze che, effettivamente, siano fondate sulla diversità sessuale (C. Collange; B. Friedan) ma non mette in discussione la rilevanza della famiglia (salvo a precisare i contenuti dei diritti e dei doveri coniugali), il “radical feminism” assume la diversità femminile, posta come indipendente dalla eterosessualità, come categoria ordinante le relazioni umane, negando il ruolo della famiglia.

Nelle sue manifestazioni più elevate, questo femminismo si dota di una propria fondazione teologica, inducendo, da un lato, la concezione di Dio come ente in divenire (“la teologia [...] femminista si oppone a un Dio autosufficiente, onnisciente e onnipotente, il Totalmente Altro, il Dio esclusivamente trascendente (dai tratti tipicamente ‘potenti’) per il quale noi non siamo che umili creature”) (C. Halkes); dall’altro, l’affermazione della sua femminilità, la sua raffigurazione, quindi, come ente femminile. Da quest’ultimo punto di vista, la teologia tradizionale, presentata come incentrata sulla maschilità di Dio, non sarebbe, infatti, che il prodotto del maschilismo, non sarebbe che la volontà di sopraffazione del maschio sulla donna transustanziata in una rappresentazione metafisica (M. Daly). La prima formulazione (Dio inteso come ente in divenire) consente di non ritenere vincolante la tradizione religiosa caratterizzata dalla subordinazione della donna all'uomo (M. Daly). Soprattutto, permette di considerare come transeunti tutti i valori etici, di affermare conseguentemente la libertà arbitraria. La seconda formulazione autorizza la conclusione secondo cui, se Dio è donna, non tanto si tratta di realizzare la pari opportunità tra i due sessi, quanto piuttosto di dar luogo al predominio della donna sull’uomo. Se Dio è donna, la società appartiene alla donna e la preminenza maschile, la stessa uguaglianza tra donna ed uomo, si porrebbero contro l’ordine divino dell’esistente. La teologia femminista ha condotto alla redazione della “Bibbia delle donne” (Claudiana Editrice) caratterizzata dalla eliminazione di tutti i riferimenti ritenuti maschilisti, da una parola di Dio che è divenuta parola delle donne; alla negazione della “moralità fallica” (“Phallic Morality”) (M. Daly); come già si è detto, alla concezione di Dio come ente in divenire (“God is Be-ing”) (M. Daly) e come ente femminile, a porre, dunque, la sessualità femminile, non animata, non completata, dalla eterosessualità, come la “causa prima” (“The Cause of the Causes”) e la “causa finale” (“the final cause”) dell’esistente (M. Daly), talché, Dio non è più “Colui che è” (Es 3, 14), ma “Colei che è”: “La risposta è: Dio la Madre. Essa dà gratuitamente la vita a tutte le creature senza calcolare di averne nulla in cambio, amandole inclusivamente, dicendo gioiosamente le parole fondamentali dell’affermazio¬ne: ‘È bene che tu esista’” (E. A. Johnson). Non più l’uomo e, per questa via, la donna, ad immagini di Dio (Gn 1, 26), ma soltanto la donna: “Spiritualmente, COLEI CHE È [...] Rivela la natura umana delle donne come imago Dei [immagine di Dio], e rivela che la natura divina è il mistero relazionale della vita che desi¬dera un’esistenza umana liberata per tutte le donne fatte a sua immagine” (E. A. Johnson). Questa visione è sintetizzata dalla seguente preghiera: Benedetta è Colei che parlò e il mondo fu fatto. Sia benedetta. Benedetta è Colei che all’inizio partorì Benedetta è Colei che parla e agisce. Benedetta è Colei che dichiara e adempie. Benedetta è Colei il cui grembo ricopre la terra [...] Benedetta è Colei che vive per sempre, ed esiste eternamente. Benedetta è Colei che redime e salva. Benedetto è il Suo Nome (E. A. Johnson).

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7. — Segue: il versante politico Questo movimento, in quanto basato sulla preminenza della donna, ha anche natura politica (S.M. Schneiders) postulando una proria “Theory of the State” (“teoria dello Stato”) (C.A. McKinnon). E’, ormai, divenuto un leitmotiv quello volto ad evidenziare come nei Parlamenti la rappresentanza femminile non sia uguale a quella maschile. A questo stesso limite sarebbe soggetta tutta la dirigenza pubblica e privata. Non più, dunque, una rappresentanza elettorale, non più la progressione nella carriera per merito, ma in base al sesso. Con specifico riferimento al settore pubblico, “Spetta ora a noi tutte avere la forza di compiere l’ultimo passo e di ‘pretendere’ che le norme elettorali (nazionali, regionali e locali) recepiscano positivamente la ‘nuova Costituzione’” (AICCRE). Il “radical feminism” rifiuta il principio illuministico della uguaglianza dell’uomo e della donna poiché la sua applicazione comporta che la donna debba essere rapportata, non a se stessa, ma all’uomo, che ne diviene così il criterio di misurazione. In tal modo, la inuguaglianza tra uomo e donna si riduce ad una mera distinzione (distinction) invece che rimanere quello che è, vale a dire, una discriminazione: “la distinzione [...] non è una discriminazione ma una differenza” ([the] distinction [...] is not a discrimination but a difference”) (C.A. McKinnon; M.R. Marella). Ed infatti, secondo questo femminismo, la sessualità è potere: “sexuality is a form of power”. Per questo motivo, “maschio è un concetto sociologico e politico” (“male is a social and political concept”) (C.A. McKinnon). Lo Stato moderno è capitalistico (“the State is capitalisti”), vale a dire, “è maschio” (“it is male”) (C.A. McKinnon). Pertanto, quella uguaglianza, proclamata dall’Illuminismo, nega la specificità sessuale della donna, privandola così della propria dimensione politica, del suo diritto di configurare la società a propria immagine e somiglianza, secondo le potenzialità politiche espresse dalla propria sessualità. Di conseguenza, il “radical feminism” si propone la trasformazione della attuale società in una nuova informata al primato della femminilità, in cui la “sorellanza” (“sisterhood”), la “comunità femminile”, si pongono come una “alleanza cosmica” (“as cosmic covenant”). Questa espressione non sta a significare un accordo tra le donne formalizzato e precisamente formulato, ma indica il sentimento che le unisce (M. Daly) nella realizzazione di una osmosi con l’universo, di una armonia cosmica che è tale in quanto superamento della disarmonia che sarebbe stata indotta dalla cultura patriarcale (M. Daly). Conseguentemente, il “radical feminism” si propone come “comunità dell’esodo” (“exodus community”) (M. Daly), come comunità in marcia verso questa nuova dimensione esistenziale. Le istanze del “radical feminism” possono così essere sintetizzate: 1) il rifiuto della femminilità: “la femminilità [...] non è mai esistita”; “Donna non si nasce, lo si diventa” (S. de Beauvoir); “Il femminismo è la teoria; il lesbismo ne è la pratica” (“Feminism is the theory; lesbianism is the practice”), “il lesbismo è una ontolologia” (“lesbianism is an ontology” (C.A. McKinnon, Toward a Femminist Theory of the State, Harvard University Press, 1991, p. 119);

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2) rifiuto del “giogo della famiglia” (A. Kollantaj); 3) il rifiuto dell’uomo nella fecondazione: “le scoperte della partenogenesi hanno portato alcuni scienziati a ridurre il compito del maschio a quello di un semplice agente fisico-chimico. [...] ammesso ciò, si è formulata l’audace ipotesi che il gamete maschile non sia indispensabile alla generazione, che sia al massimo un fermento; verrà forse il giorno in cui la cooperazione dell’uomo alla procreazione si renderà inutile: pare che questo sia il desiderio di moltissime donne” (S. de Beauvoir); 4) il rifiuto della “schiavitù della maternità” (S. de Beauvoir); “Contrariamente a quanto si crede, forse [l’amore materno] non è inciso profondamente nella natura femminile” (E. Badinter E.), donde la qualifica dell’amore per i propri figli come “amore in più” (E. Badinter).

Simone de Beauvoir


Ciò che induce l’esaltazione della menopausa poiché “Allora la donna è liberata dalle schiavitù della femmina [...] coincide con se stessa” (S. de Beauvoir); 5) la negazione di un ruolo maschile nello svolgimento della società (“male power is a myth that makes itself true” - “il potere [la forza] maschile è un mito che rende se stesso vero”) (C.A. McKinnon); 6) fondazione di una cultura femminile, vale a dire, abbandono della cultura dell’umanesimo, della considerazione congiunta dell’uomo e della donna; 7) la militarizzazione della donna a (pretesa) dimostrazione della incapacità dell’uomo a provvedere alla difesa comune; 8) la ripartizione del potere politico e del potere economico in funzione della sessualità femminile; 9) realizzazione di una società informata alla premi-

nenza del potere femminile nei termini del radical feminism; 10) affermazione della femminilità di Dio donde una conseguente vocazione ecumenica; 11) l’eterofobia come valore ordinante l’assetto sociale, poiché “l’eterosessualità [...] istituzionalizza la dominanza sessuale maschile e la sottomissione sessuale femminile” (“heterosexuality [...] institutionalizes male sexual dominance and female sexual submission”), poiché “la sessualità è il fondamento della ineguaglianza della donna rispetto all’uomo” (“sexuality is the linchpin of gender inequality”). (C.A. McKinnon).

(prosegue nel prossimo numero)


Il materialismo dialettico Proseguiamo in questo numero nella pubblicazione dei testi fondamentali del marxismo leninismo, la scienza economica, politica e morale che sta cambiando il Mondo e prefigurerà la futura società degli uguali. Nei numeri precedenti abbiamo pubblicato due testi fondamentali dello sviluppo del pensiero scientifico marxista leninista redatti da Mao: “Sulla Pratica” e “Sulla Contraddizione”. Ora facciamo un “passo indietro” risalendo ai principi fondamentali del materialismo dialettico (in questo numero) e del materialismo storico (nel prossimo) che sono alla base della scienza marxista leninista. Lo facciamo ricorrendo ad un testo scritto da Stalin (I principi del leninismo) di lettura estremamente facile e divulgativa. Stalin, infatti, oltre a essere stato per circa 30 anni alla testa del Partito Comunista e dello Stato sovietico, che ha sconfitto il nazi-fascismo tedesco e italiano (e non solo), è stato anche un notevole studioso e divulgatore del marxismo leninismo, fissando un principio interpretativo fondamentale: il marxismo leninismo è una scienza e come tale è soggetta a continua evoluzione, contraria a qualsisi dogmatismo fideistico. La scienza marxista leninista si evolve necessariamente nel tempo e nel contesto nel quale il movimento comunista si trova a operare. Non esiste un modello unico copiabile o esportabile, ogni realtà deve elaborare, produrre e applicare il proprio modello, facendo applicazione critica, e dunque scientifica, dei principi generali al contesto, di tempo e di luogo, specifico. In tal senso l’attuale vincente modello del comunismo con le “caratteristiche cinesi” del quale parliamo in un precedente inserto. (SR)

di Josif Stalin

Il materialismo dialettico è la concezione del mondo del partito marxista-leninista. Si chiama materialismo dialettico perché il suo modo di considerare i fenomeni della natura, il suo metodo per investigare e per conoscere i fenomeni della natura è dialettico, mentre la sua interpretazione, la sua concezione di questi fenomeni, la sua teoria, è materialistica. Il materialismo storico estende i princìpi del materialismo dialettico allo studio della vita sociale, li applica ai fenomeni della vita sociale, allo studio della società, allo studio della storia della società. Definendo il loro metodo dialettico Marx ed Engels si riferiscono di solito a Hegel, come al filosofo che ha fissato i tratti fondamentali della dialettica. Questo però non vuol dire che la dialettica di Marx e di Engels sia identica a quella di Hegel. In realtà Marx ed Engels hanno preso dalla dialettica di Hegel solo il suo "nucleo razionale", gettando via la corteccia idealistica hegeliana e sviluppando la dialettica, per imprimerle un carattere scientifico moderno. "Il mio metodo dialettico — dice Marx — non solo differisce dal metodo hegeliano nella base, ma ne è diametralmente l'opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli trasforma perfino, sotto il nome di Idea, in un soggetto indipendente, è il demiurgo (il creatore) della realtà, la quale è solo la manifestazione estrinseca dell'Idea. Per me, al contrario, l'elemento ideale non è che l'elemento materiale,

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trasportato e trasposto nel cervello dell'uomo". Definendo il loro materialismo Marx ed Engels si riferiscono di solito a Feuerbach, come al filosofo che ha ristabilito il materialismo. Questo però non vuol dire che il materialismo di Marx e di Engels sia identico a quello di Feuerbach. Marx ed Engels, in realtà, hanno preso dal materialismo di Feuerbach solo il "nucleo essenziale", sviluppandolo in una teoria filosofica scientifica del materialismo e respingendone le sovrapposizioni idealistiche ed eticoreligiose. Dialettica deriva dalla parola greca dialego, che significa conversare, polemizzare. Per dialettica si intendeva, nell'antichità, l'arte di raggiungere la verità, scoprendo le contraddizioni racchiuse nel ragionamento dell'avversario e superandole. Alcuni filosofi dell'antichità ritenevano che la scoperta delle contraddizioni nel pensiero e il confronto delle opposte opinioni fossero il mezzo migliore per scoprire la verità. Questo modo dialettico di pensare, esteso in seguito ai fenomeni della natura, è diventato il metodo dialettico di conoscenza della natura, metodo secondo il quale i fenomeni della natura sono perpetuamente in moto e in trasformazione e lo sviluppo della natura è il risultato dello sviluppo delle contraddizioni nella natura, il risultato dell'azione reciproca delle forze opposte nella natura. Nella sua essenza, la dialettica è diametralmente l'opposto della metafisica.


Il metodo dialettico marxista è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali: a) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera la natura non come un ammasso casuale di oggetti, di fenomeni, staccati gli uni dagli altri, isolali e indipendenti gli uni dagli altri, ma come un tutto coerente unico, nel quale gli oggetti, i fenomeni sono organicamente collegati tra loro, dipendono l'uno dall'altro e si condizionano reciprocamente. Perciò il metodo dialettico ritiene che nessun fenomeno della natura può essere capito se preso a sé, isolatamente, senza legami coi fenomeni che lo circondano, poiché qualsiasi fenomeno, in qualsiasi campo della natura, può diventare un assurdo se lo si considera al di fuori delle condizioni che lo circondano, distaccato da esse; e, al contrario, qualsiasi fenomeno può essere compreso e spiegato se lo si considera nei suoi legami inscindibili coi fenomeni che lo circondano, condizionato dai fenomeni che lo circondano. b) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera la natura non come uno stato di riposo e di immobilità, di stagnazione e di immutabilità, ma come uno stato di movimento e di cambiamento perpetui, di rinnovamento e sviluppo incessanti, dove sempre qualche cosa nasce e si sviluppa, qualche cosa si disgrega e scompare. Perciò il metodo dialettico esige che i fenomeni vengano considerati non solo dal punto di vista dei loro mutui legami e del loro condizionamento reciproco, ma anche dal punto di vista del loro movimento, del loro cambiamento e del loro sviluppo, dal punto di vista del loro sorgere e del loro sparire. Per il metodo dialettico è soprattutto importante non già ciò

che, a un dato momento, sembra stabile ma già comincia a deperire, bensì ciò che nasce e si sviluppa, anche se nel momento dato sembra instabile poiché per il metodo dialettico solo ciò che nasce e si sviluppa è invincibile. "La natura intera - dice Engels - dalle sue particelle infime ai corpi più grandi, dal granellino di sabbia fino al sole, dal protista fino all'uomo, si trova in un processo eterno di nascita e di distruzione, in un flusso incessante, in perpetuo movimento e cambiamento". Perciò, dice Engels, la dialettica "considera le cose e il loro riflesso mentale principalmente nelle loro relazioni reciproche, nel loro concatenamento, nel loro movimento, nel loro sorgere e sparire". c) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera il processo di sviluppo non come un semplice processo di crescenza, nel quale i cambiamenti quantitativi non portano a cambiamenti qualitativi, ma come uno sviluppo che passa da cambiamenti quantitativi insignificanti e latenti a cambiamenti aperti e radicali, a cambiamenti qualitativi, uno sviluppo nel quale i cambiamenti qualitativi non si producono gradualmente ma rapidamente, all'improvviso, a salti da uno stato all'altro, e non si producono a caso ma secondo leggi oggettive, come risultato dell'accumulazione d'impercettibili e graduali cambiamenti quantitativi. Perciò il metodo dialettico ritiene che il processo di sviluppo deve essere compreso non come un movimento circolare, non come ripetizione di ciò che è già avvenuto, ma come movimento progressivo, ascendente, come passaggio dal vecchio stato a un nuovo stato qualitativo, come uno sviluppo dal semplice al complesso, dall'inferiore al superiore.

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"La natura - dice Engels - è la pietra di paragone della dialettica, e le scienze naturali moderne forniscono per questa prova materiali straordinariamente ricchi, che aumentano di giorno in giorno; esse hanno così dimostrato che nella natura, in ultima istanza, tutto si compie in modo dialettico e non metafisico, che essa non si muove in un circolo eternamente identico che si ripete perpetuamente, ma vive una storia reale. A questo proposito occorre innanzitutto ricordare Darwin, che ha inferto un durissimo colpo alla concezione metafisica della natura, dimostrando che l'intero mondo organico come esiste oggi, le piante e gli animali, e quindi anche l'uomo, è il prodotto di un processo di sviluppo che dura da milioni di anni". Caratterizzando lo sviluppo dialettico come il passaggio dai cambiamenti quantitativi a quelli qualitativi, Engels dice: "in fisica... ogni mutamento è un passaggio dalla quantità alla qualità, la conseguenza di un mutamento quantitativo della quantità del movimento di qualsiasi forma, insita nel corpo o a lui trasmessa. Così, per esempio, la temperatura dell'acqua non ha da principio nessuna importanza per il suo stato liquido; ma, aumentando o diminuendo la temperatura dell'acqua, giunge il momento in cui il suo stato di coesione si modifica e l'acqua si trasforma, nel primo caso in vapore, nel secondo caso in ghiaccio... Le cosiddette costanti della fisica [i punti di passaggio da uno stato all'altro] non sono, nella maggior parte dei casi, che punti nodali dove, in un corpo dato, l'aumento o la diminuzione di movimento (cambiamento quantitativo) provoca un cambiamento qualitativo del suo stato, e dove quindi la quantità si trasforma in qualità".E a proposito della chimica Engels prosegue: "La chimica si può definire la scienza dei cambiamenti qualitativi dei corpi che si producono sotto l'influenza di cambiamenti quantitativi nei componenti dei corpi. Hegel stesso già lo sapeva. Si prenda l'ossigeno: se in una molecola si uniscono tre atomi invece di due, come ordinariamente, si ottiene l'ozono, un corpo che si distingue nettamente dall'ossigeno ordinario per il suo odore e per le sue reazioni. Che dire poi delle diverse combinazioni dell'ossigeno con l'azoto o con lo zolfo, ognuna delle quali forma un corpo qualitativamente differente da tutti gli altri corpi?". Infine, criticando Duhring, che copre Hegel di invettive pur appropriandosi sotto mano della sua nota tesi secondo la quale il passaggio dal regno del mondo insensibile a quello della sensazione, dal regno del mondo inorganico a quello della vita organica, è un salto a un nuovo stato, Engels dice: "È questa la linea nodale hegeliana dei rapporti di misura, in cui un aumento o una diminuzione puramente quantitativa provoca, in punti nodali determinati, un salto qualitativo, come per esempio nel caso del riscaldamento o del raffreddamento dell'acqua, nel quale i punti di ebollizione e di congelamento rappresentano i nodi dove si compie - a una pressione normale - il salto verso un nuovo stato di aggregazione, e dove la quantità si trasforma in qualità". d) Contrariamente alla metafisica, la dialettica parte dal principio che gli oggetti e i fenomeni della natura implicano contraddizioni interne, poiché hanno tutti un lato negativo e un lato positivo, un passato e un avvenire, elementi che deperiscono ed elementi che si sviluppano, e che la lotta tra questi opposti, tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che muore e ciò che nasce, tra ciò che deperisce e ciò che si sviluppa, è l'intimo contenuto del processo di sviluppo, il contenuto intimo della trasformazione dei cambiamenti quantitativi in cambiamenti qualitativi. Perciò il metodo dialettico ritiene che il processo di sviluppo

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dall'inferiore al superiore si operi non già attraverso un'armonica evoluzione dei fenomeni, bensì attraverso il manifestarsi delle contraddizioni inerenti agli oggetti, ai fenomeni, attraverso una "lotta" delle tendenze opposte che agiscono sulla base di queste contraddizioni. "La dialettica nel senso proprio della parola - dice Lenin - è lo studio delle contraddizioni nell'essenza stessa delle cose". E più avanti: "Lo sviluppo è la 'lotta degli opposti". Tali, in breve, i tratti fondamentali del metodo dialettico marxista. Non è difficile comprendere di quale immensa importanza sia l'estensione dei princìpi del metodo dialettico allo studio della vita sociale, allo studio della storia della società, di quale immensa importanza sia l'applicazione di questi princìpi alla storia della società, all'attività pratica del partito del proletariato. Se è vero che non vi sono al mondo fenomeni isolati, se tutti i fenomeni sono collegati tra loro e si condizionano a vicenda, è chiaro che ogni regime sociale e ogni movimento sociale, nella storia, devono essere giudicati non dal punto di vista della "giustizia eterna" o di qualsiasi altra idea preconcetta, come fanno non di rado gli storici, ma dal punto di vista delle condizioni che hanno generato quel regime e quel movimento sociale, e con le quali essi sono legati. Il regime schiavistico, nelle condizioni attuali, sarebbe un nonsenso, sarebbe un'assurdità contro natura. Il regime schiavistico, invece, nelle condizioni del regime della comunità primitiva in decomposizione, è un fenomeno perfettamente comprensibile e logico, poiché significa un passo in avanti rispetto al regime della comunità primitiva. Rivendicare la repubblica democratico-borghese sotto lo zarismo e nella società borghese, per esempio nella Russia del 1905, era cosa del tutto comprensibile, giusta, rivoluzionaria, perché la repubblica borghese significava allora un passo in avanti. Ma rivendicare la repubblica democratico-borghese nelle nostre attuali condizioni, nell'URSS, non avrebbe senso, sarebbe controrivoluzionario, perché la repubblica borghese è un passo indietro rispetto alla Repubblica sovietica. Tutto dipende dalle condizioni, dal luogo e dal tempo. È chiaro che, senza questo metodo storico nello studio dei fenomeni sociali, non è possibile che la scienza storica esista e si sviluppi; poiché solo un tale metodo impedisce alla scienza storica dì diventare un caos di contingenze e un cumulo dei più assurdi errori.

Maxim Gorky


Proseguiamo. Se è vero che il mondo è in perpetuo movimento e sviluppo, se è vero che la scomparsa di ciò che è vecchio e la nascita di ciò che è nuovo sono una legge dello sviluppo, è chiaro che non esistono più regimi sociali "immutabili", né "princìpi eterni" di proprietà privata e di sfruttamento, né "idee eterne" di sottomissione dei contadini ai proprietari fondiari e degli operai ai capitalisti. Vuol dire che il regime capitalista può essere sostituito dal regime socialista, nello stesso modo che il regime capitalista ha sostituito, a suo tempo, il regime feudale. Vuol dire che è necessario fondare la propria azione non già sugli strati sociali che non si sviluppano più, ancorché rappresentino in un momento dato la forza predominante, bensì sugli strati che si sviluppano e che hanno davanti a sé l'avvenire, anche se per il momento non rappresentano la forza predominante. Ed è proprio perché il proletariato si stava sviluppando come classe che i marxisti fondarono la loro azione su di esso. E non si sono sbagliati perché, com'è noto, il proletariato, pur essendo allora una forza poco importante è divenuto in seguito una forza storica e politica di prim'ordine. Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, è necessario guardare avanti e non indietro. Proseguiamo. Se è vero che il passaggio dai cambiamenti quantitativi lenti a bruschi e rapidi cambiamenti qualitativi è una legge dello sviluppo, è chiaro che i rivolgimenti rivoluzionari compiuti dalle classi oppresse rappresentano un fenomeno assolutamente naturale e inevitabile. Vuol dire che il passaggio dal capitalismo al socialismo e la liberazione della classe operaia dal giogo capitalistico non possono realizzarsi per mezzo di cambiamenti lenti, a mezzo di riforme, ma solo mediante un cambiamento qualitativo del regime capitalista, mediante la rivoluzione. Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, è necessario essere un rivoluzionario e non un riformista. Proseguiamo. Se è vero che lo sviluppo si compie attraverso il manifestarsi delle contraddizioni interne, attraverso il conflitto delle forze opposte sulla base di queste contraddizioni, conflitto destinato a superarle, è chiaro che la lotta di classe del proletariato è un fenomeno assolutamente naturale e inevitabile. Vuol dire che non bisogna dissimulare le contraddizioni del regime capitalista, ma denunciarle e metterle in evidenza, che non bisogna soffocare la lotta di classe, ma condurla fino in fondo. Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, è necessario condurre una politica proletaria intran-

sigente di classe, e non una politica riformista di armonia tra gli interessi del proletariato e gli interessi della borghesia, e non una politica di conciliazione, di "integrazione" del capitalismo nel socialismo. Così si presenta il metodo dialettico marxista nella sua applicazione alla vita sociale, alla storia della società. A sua volta il materialismo filosofico marxista è, per la sua essenza, esattamente l'opposto dell'idealismo filosofico. Il materialismo filosofico marxista è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali: a) Contrariamente all'idealismo, che considera il mondo come l'incarnazione dell' "idea assoluta", dello "spirito universale", della "coscienza", il materialismo filosofico di Marx parte dal principio che il mondo è, per sua natura, materiale; che i molteplici fenomeni del mondo rappresentano diversi aspetti della materia in movimento; che i mutui legami e il condizionamento reciproco dei fenomeni accertati col metodo dialettico costituiscono le leggi necessarie dello sviluppo della materia in movimento; che il mondo si sviluppa secondo le leggi del movimento della materia e non ha bisogno di nessuno "spirito universale". "La concezione materialistica del mondo - dice Engels - significa semplicemente la comprensione della natura, quale essa è, senza alcuna aggiunta estranea". Riferendosi alla concezione materialistica esposta dal filosofo antico Eraclito, secondo il quale "il mondo è un tutto unico, che non fu creato da alcun dio né da alcun uomo, ma fu, è e sarà una fiamma eternamente vivente, che si avviva e si ammorza secondo leggi determinate", Lenin dice che è un' "eccellente esposizione dei princìpi del materialismo dialettico". b) Contrariamente all'idealismo, il quale asserisce che solo la nostra coscienza ha un'esistenza reale, mentre il mondo materiale, l'essere, la natura esistono solo nella nostra coscienza, nelle nostre sensazioni, rappresentazioni, concetti, il materialismo filosofico marxista parte dal principio che la materia, la natura, l'essere, è una realtà oggettiva, esistente al di fuori e indipendentemente dalla coscienza; che la materia è il dato primo, perché è la fonte delle sensazioni, delle rappresentazioni, della coscienza, mentre la coscienza è il dato secondario, derivato, perché è il riflesso della materia, il riflesso dell'essere; che il pensiero è un prodotto della materia, che ha raggiunto nel suo sviluppo un alto grado di perfezione, che cioè è il prodotto del cervello, che è l'organo del pensiero; che non si può dunque separare il pensiero dalla materia se non si vuol cadere in un errore grossolano. "Il problema supremo di tutta la filosofia - dice Engels - è quello del rapporto del pensiero coll'essere, dello spirito colla natura.I filosofi si sono divisi in due grandi campi secondo il modo in cui rispondevano a tale quesito. I filosofi che affermavano la priorità dello spirito rispetto alla natura... formavano il campo dell'idealismo. Quelli che affermavano la priorità dello spirito rispetto alla natura formavano il campo dell'idealismo. Quelli che affermavano la priorità della natura appartenevano alle diverse scuole del materialismo". E più oltre: "Il mondo materiale, percepibile dai sensi e a cui noi stessi apparteniamo, è il solo mondo reale... La nostra coscienza e il nostro pensiero, per quanto appaiano soprasensibili, sono il prodotto di un organo materiale, corporeo, il cervello... La materia non è un prodotto dello spirito, ma lo spirito stesso non è altro che il più alto prodotto della materia". Riferendosi al problema della materia e del pensiero, Marx dice: "Non si può separare il pensiero dalla materia pensante. Questa materia è il substrato di tutti i cambiamenti che si operano".

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Definendo il materialismo filosofico marxista, Lenin così si esprime: "Il materialismo ammette in generale l'esistenza dell'essere reale oggettivo (la materia), indipendente dalla coscienza, dalle sensazioni, dall'esperienza... La coscienza... è solo il riflesso dell'essere, nel migliore dei casi un riflesso approssimativamente esatto (adeguato, di una precisione ideale)". E ancora: "La materia è ciò che, agendo sui nostri organi dei sensi, produce le sensazioni; la materia è una realtà oggettiva che ci è data nelle sensazioni... La materia, la natura, l'essere, il fisico è il dato primo, mentre lo spirito, la coscienza, la sensazione, lo psichico è il dato secondario ". "Il quadro del mondo è il quadro che mostra come la materia si muova e come 'la materia pensi". "Il cervello è l'organo del pensiero". c) Contrariamente all'idealismo, che contesta la possibilità di conoscere il mondo e le sue leggi, non crede alla validità delle nostre conoscenze, non riconosce la verità oggettiva e considera il mondo pieno di "cose in sé" le quali non potranno mai essere conosciute dalla scienza, il materialismo filosofico marxista parte dal principio che il mondo e le sue leggi sono perfettamente conoscibili, che la nostra conoscenza delle leggi della natura, verificata dall'esperienza, dalla pratica, è una conoscenza valida, che ha il valore di una verità oggettiva; che al mondo non esistono cose inconoscibili ma solo cose ancora ignote, che saranno scoperte e conosciute grazie alla scienza e alla pratica. Criticando la tesi di Kant e degli altri idealisti, per i quali il mondo e le "cose in sé" sarebbero inconoscibili e difendendo la nota tesi materialistica circa la validità delle nostre conoscenze, Engels scrive: "La confutazione più decisiva di questa ubbia filosofica, come del resto di tutte le altre, è data dalla pratica, particolarmente dall'esperimento e dall'industria. Se possiamo dimostrare che la nostra comprensione di un dato fenomeno naturale è giusta, creandolo noi stessi, producendolo dalle sue condizioni e, quel che più conta, facendolo servire ai nostri finì, l'inafferrabile 'cosa in sé' di Kant è finita. Le sostanze chimiche che si formano negli organismi animali e vegetali restarono 'cose in sé' fino a che la chimica organica non si mise a prepararle l'una dopo l'altra; quando ciò avvenne, la 'cosa in sé' si trasformò in una cosa per noi, come per esempio l'alizarina, materia colorante della garanza, che non ricaviamo più dalle radici della garanza coltivata nei campi, ma molto più a buon mercato e in modo più semplice dal catrame di carbone. Il sistema solare di Copernico fu per tre secoli un'ipotesi su cui vi era da scommettere cento, mille, diecimila contro uno ma pur sempre un'ipotesi. Quando però Leverrier, con i dati ottenuti grazie a quel sistema, non solo dimostrò che doveva esistere un altro pianeta ignoto fino a quel tempo, ma calcolò pure in modo esatto il posto occupato da quel pianeta nello spazio celeste, e quando in seguito Galle lo scoprì, il sistema copernicano era provato". Lenin dice: "Il fideismo contemporaneo non ripudia in nessun modo la scienza; ne respinge soltanto le 'pretese eccessive' e cioè la pretesa di scoprire la verità oggettiva. Se esiste una verità oggettiva (come pensano i materialisti), se le scienze della natura, riflettendo il mondo esterno nell'esperienza umana, sono le sole capaci di darci la verità oggettiva, ogni fideismo deve essere respinto in modo assoluto". Tali, in breve, i tratti caratteristici del materialismo filosofico marxista. È facile comprendere di quale immensa importanza sia la estensione dei princìpi del materialismo filosofico allo studio della vita sociale, allo studio della storia della società, di quale enorme importanza sia l'applicazione di questi princìpi alla storia della società, all'attività pratica del partito del proletariato. Se è vero che i legami reciproci tra i fenomeni della natura e il

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loro reciproco condizionamento rappresentano leggi necessarie dello sviluppo della natura, ne deriva che i legami e il condizionamento reciproco tra i fenomeni della vita sociale rappresentano essi pure non delle contingenze, ma delle leggi necessarie dello sviluppo sociale. Vuol dire che la vita sociale, la storia della società, cessa di essere un cumulo di "contingenze", giacché la storia della società si presenta come uno sviluppo della società secondo leggi determinate, e lo studio della storia della società diventa una scienza. Vuol dire che l'attività pratica del partito del proletariato deve fondarsi non già sui lodevoli desideri di "individualità eccezionali", né sulle esigenze della "ragione", della "morale universale", ecc., bensì sulle leggi dello sviluppo della società, sullo studio di queste leggi. Proseguiamo. Se è vero che il mondo è conoscibile e se è vero che la nostra conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura è una conoscenza valida, che ha il valore di una verità oggettiva, ne deriva che la vita sociale e lo sviluppo della società sono pure conoscibili, e che i dati della scienza sulle leggi dello sviluppo della società sono dati validi, che hanno il valore di verità oggettive. Vuol dire che la scienza della storia della società, nonostante tutta la complessità dei fenomeni della vita sociale, può diventare una scienza altrettanto esatta quanto, ad esempio, la biologia, capace di utilizzare le leggi di sviluppo della società per servirsene nella pratica. Vuol dire che, nella sua attività pratica, il partito del proletariato deve richiamarsi, anziché a motivi fortuiti, alle leggi di sviluppo della società e alle conclusioni pratiche che derivano da queste leggi. Vuol dire che il socialismo, da sogno che era d'un migliore avvenire del genere umano, diventa una scienza. Vuol dire che il legame tra la scienza e l'attività pratica, il legame della teoria con la pratica, la loro unità deve diventare la stella che guida la rotta del partito del proletariato. Proseguiamo. Se è vero che la natura, l'essere, il mondo materiale è il dato primo, e la coscienza, il pensiero è il dato secondario, derivato; se è vero che il mondo materiale rappresenta una realtà oggettiva che esiste indipendentemente dalla coscienza degli uomini, e la coscienza è il riflesso di questa realtà oggettiva; ne deriva che la vita materiale della società, il suo essere, è pure il dato primo, mentre la sua vita spirituale è il dato secondario, derivato, che la vita materiale della società è una realtà oggettiva, la quale esiste indipendentemente dalla volontà degli uomini, mentre la vita spirituale della società è un riflesso di questa realtà oggettiva, un riflesso dell'essere. Vuol dire che la fonte della formazione della vita spirituale della società, la fonte dell'origine delle idee sociali, delle concezioni politiche, delle istituzioni politiche, si deve ricercare non già nelle idee, teorie, concezioni, istituzioni politiche stesse, bensì nelle condizioni della vita materiale della società, nell'essere sociale, di cui queste sono il riflesso. Vuol dire che, se nei differenti periodi della storia della società si osservano diverse idee sociali, teorie, istituzioni politiche, se, sotto il regime schiavistico, incontriamo determinate idee sociali, teorie, concezioni e istituzioni politiche, mentre, sotto il feudalesimo, ne incontriamo altre, e altre ancora sotto il regime capitalistico, ciò si spiega non già con la "natura", né con le "proprietà" di tali idee, concezioni, istituzioni politiche, ma con le differenti condizioni della vita materiale della società, nei differenti periodi dello sviluppo sociale. Qual'è l'essere sociale, quali sono le condizioni della vita materiale della società, tali sono le idee, le teorie, le concezioni politiche, le istituzioni politiche della società. A questo proposito Marx dice: "Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza".


Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica e non abbandonarsi a vuote fantasticherie, il partito del proletariato deve fondare la sua azione non sugli astratti "princìpi della ragione umana", ma sulle condizioni concrete della vita materiale della società, forza decisiva dello sviluppo sociale; non sui lodevoli desideri dei "grandi uomini", ma sulle esigenze reali dello sviluppo della vita materiale della società. Il fallimento degli utopisti e, tra di essi, dei populisti, degli anarchici, dei socialisti-rivoluzionari si spiega, fra l'altro, col fatto che essi non riconobbero la funzione primordiale che nello sviluppo della società hanno le condizioni della sua vita materiale e, caduti nell'idealismo, basarono la loro attività pratica non già sulle esigenze dello sviluppo della vita materiale della società, ma, indipendentemente da esse e contro di esse, su "piani ideali" e "progetti universali", staccati dalla vita reale della società. La forza e la vitalità del marxismo-leninismo stanno nel fatto che esso fonda la sua azione pratica proprio sulle esigenze dello sviluppo della vita materiale della società, non staccandosi mai dalla vita reale della società. Dalle parole di Marx non deriva però che le idee e le teorie sociali, le concezioni e le istituzioni politiche non abbiano alcuna importanza nella vita della società, che non esercitino a loro volta un'influenza sull'essere sociale. Abbiamo parlato fin qui soltanto dell'origine delle idee e teorie sociali, delle concezioni e istituzioni politiche, del loro sorgere, abbiamo detto che la vita spirituale della società è il riflesso delle condizioni della sua vita materiale. Ma in quanto alla importanza delle idee e teorie sociali, delle concezioni e istituzioni politiche, in quanto alla loro funzione nella storia, il materialismo storico è ben lontano dal negarle, anzi, sottolinea la funzione e l'importanza considerevoli che esse hanno nella vita e nella storia della società. Vi sono idee e teorie vecchie, che hanno fatto il loro tempo e servono gli interessi delle forze sociali in declino. Vi sono idee e teorie nuove, d'avanguardia, che servono gli interessi delle forze d'avanguardia della società. La loro funzione sta nel fatto che esse agevolano lo sviluppo della società, il suo progresso; esse acquistano inoltre tanto maggiore importanza, quanto più riflettono fedelmente le esigenze dello sviluppo della vita materiale della società. Le idee e le teorie sociali nuove sorgono solo quando lo sviluppo della vita materiale della società pone di fronte alla società compiti nuovi. Ma, sorte che siano, diventano una forza

estremamente importante, che agevola l'adempimento dei nuovi compiti posti dallo sviluppo della vita materiale della società. Ed è proprio allora che si rivela la grandissima importanza della funzione delle nuove idee, delle nuove teorie, delle nuove istituzioni politiche. Certo, se idee e teorie sociali nuove sorgono, ciò avviene appunto perché esse sono necessarie alla società. Suscitate dai nuovi compiti posti dallo sviluppo della vita materiale della società, le idee e le teorie sociali nuove si aprono il cammino, diventano patrimonio delle masse popolari, le mobilitano, le organizzano contro le forze morenti della società, e facilitano in tal modo l'abbattimento di queste forze, che intralciano lo sviluppo della vita materiale della società. Così avviene che le idee e le teorie sociali, le istituzioni politiche suscitate dai compiti urgenti posti dallo sviluppo della vita materiale della società agiscano a loro volta sull'essere sociale, sulla vita materiale della società, creando le condizioni necessarie per condurre a termine la soluzione dei compiti urgenti posti dalla vita materiale della società e per rendere possibile il suo sviluppo. È a questo proposito che Marx dice: "La teoria diventa una forza materiale non appena conquista le masse". Vuol dire che per poter agire sulle condizioni della vita materiale della società e affrettare il loro sviluppo, accelerare il loro miglioramento, il partito del proletariato si deve appoggiare su una teoria sociale, su un'idea sociale che esprima in modo giusto le esigenze dello sviluppo della vita materiale della società e sia capace, perciò, di mettere in movimento le grandi masse popolari, capace di mobilitarle e di organizzarle nel grande esercito del partito del proletariato pronto a spezzare le forze reazionarie e ad aprire la strada alle forze d'avanguardia della società. La forza e la vitalità del marxismo-leninismo stanno nel fatto che esso si appoggia su una teoria d'avanguardia che esprime in modo giusto le esigenze dello sviluppo della vita materiale della società, che esso eleva la teoria all'alto livello che le spetta, e considera suo compito utilizzarne al massimo la forza mobilitante, organizzatrice e trasformatrice. Così il materialismo storico risolve la questione dei rapporti tra l'essere sociale e la coscienza sociale, tra le condizioni di sviluppo della vita materiale e lo sviluppo della vita spirituale. (prosegue nel prossimo numero)

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Le lingue degli “altri”

Abbiamo scritto nella presentazione del nuovo formato della rivista che la nuova impostazione grafica e tipografia, sia estetico-funzionale che quantitativa per numero di pagine, ha anche l’obiettivo di ampliare i temi (rubriche) per introdurre nuovi e ulteriori argomenti e quindi interessi, sensibilità, partecipazioni. Lanciamo quindi questa nuova rubrica dedicata ai tanti non italiani che vivono e lavorano nel nostro territorio, offrendo loro uno spazio di dialogo anche tra di loro utilizzando, appunto, le loro lingue madri da non dimenticare e anzi coltivare come ricchezza del loro apporto anche culturale e non solo lavorativo alla nostra società. Iniziamo, come dire, “d’ufficio” pubblicando alcune favole per bambini in diverse lingue, che siamo risciti a reperire liberamente in internet. Ci scusiamo per eventuali difficoltà di lettura, ma abbiamo dovuto ricorrere all’uso di immagini non disponendo di un software alfabetico che tenesse conto di tutte le particolarità grammaticali della varie lingue. Abbiamo scelto alcune lingue, tra le tantissime che meriterebbero di essere ricordate, ma solo per disponibilità di immagini, senza dunque alcuna preferenza o selezione specifica. Dal prossimo numero ci auguriamo (e lo sollecitiamo fortemente) di disporre di contributi spontanei, su qualsiasi tema a discrezione degli autori. Chiediamo solo di avere una versione di traduzione, che non verrà pubblicata per non togliere spazio ai testi originali, ma per sola necessità di legge. Attendiamo i contributi di tutti all’indirizzo mail della rivista: “redazionepiazzadelgrano@yahoo.it” o a quello diretto dell’editore “avv.ridolfi@piazzabarberini12.it”. Grazie sin d’ora per l’auspicata partecipazione (SR)

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I “giovani” italiani Apriamo una nuova rubrica dedicata ai “giovani” cominciando proprio con il chiedere a loro scusa per l’uso di questo appellativo tanto abusato dall’essere assolutamente poco identificativo, al limite dell’offensività verso una (o anche più, oramai) generazione di italiani (stiamo all’Italia, altrove non è meglio) continuamente evocati al centro di un immaginifico “futuro” , quanto del tutto ignorati nel presente (ma senza presente non c’é fururo). Verrebbe quasi da rimpiangere i “bamboccioni” di un illuminato ministro dell’economia (a proposito che fine a fatto? in naftalina!) che almeno era sincero nel dire (e fare) che delle nuove generazioni non gli importava nulla e l’unica preoccupazione era di proteggere i privilegi acquisiti. Questo è “un Paese per/di vecchi” ma non per età anagrafica (abbiamo un governo di scout e coccinelle) quanto per mentalità, cultura o, anzi, incoltura, pressappochismo e sostanziale nichilismo. Offriamo con questa rubrica ai “giovani” uno spazio per raccontare, raccontarsi e dialogare non solo tra di loro ma anche con i “vecchi” (se non vogliono ascoltare, proviamo a farli leggere). Iniziamo con due “esperienze”: una di chi è andato (per tornare), l’altra di chi resta e cerca di trovare in questa realtà un modo, un luogo, un progetto per esprimersi e realizzarsi. Aspettiamo nuovi contributi per i prossimi numeri

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I nuovi emigranti di Giacomo Bertini

Un’indagine promossa da Ipsos Mori nell’agosto 2014, che ha preso a campione diversi Paesi, ha mostrato come gli italiani siano il popolo più ignorante d’Europa, in quanto “ignorano” la realtà che li circonda. Le persone solitamente non conoscono i reali numeri che si nascondono dietro le notizie, su questioni come, ad esempio l'immigrazione, gli intervistati hanno mostrato di avere una percezione totalmente erronea rispetto al fenomeno reale, un po’ tutti nel vecchio continente credono che ci siano più immigrati e musulmani del reale. In Italia si pensa che il 30% della popolazione sia composta da immigrati, in realtà è il solo 7%, che il 20% siano musulmani, quando sono appena il 4%, che il 48% della popolazione sia composta da over 65, mentre sono il 21% e che i disoccupati rappresentano il 49% mentre sono solo il 12%. Da questa indagine emerge che siamo un popolo di creduloni, sposiamo la

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politica degli allarmismi e la concezione che altre popolazioni ci stanno invadendo. Tutto ciò è dovuto ad una cattiva informazione, la quale è responsabile nell’alterare la realtà. Inoltre, i dati citati dimostrano che gli italiani pensano di vivere in un Paese di forte attrattiva per i migranti, una meta ambita in cui molti vorrebbero vivere. Ma qual è la realtà dei fatti? I dati Istat relativi all’anno 2013, fanno emergere dei numeri inequivocabili. Gli italiani sono diventati sempre più un popolo di emigranti e sempre più numerosi sono gli stranieri che lasciano il Belpaese per tornare a casa loro o trovare opportunità in altri luoghi. Due anni fa gli italiani che hanno lasciato il nostro Paese sono stati in ben 82mila, un tasso di crescita del 20,7% rispetto al 2012. Tale incremento, insieme alla contrazione degli ingressi, 3,5% in meno del 2012, ha prodotto nel 2013 un saldo migratorio negativo per

gli italiani pari a -54mila, quasi il 40% in più di quello del 2012 nel quale il saldo risultò pari a -38mila. Siamo tornati ad essere un popolo di emigranti, un’intera generazione fugge dalla nostra amata terra per trovare “fortuna” ed una via d’uscita a questo vortice di incertezza che sta caratterizzando il nostro tempo, proprio come succedeva molti anni fa. Le mete più ambite dagli italiani che scelgono di trasferirsi sono soprattutto Paesi europei con un mercato del lavoro in crescita e facilmente raggiungibili. Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia sono i primi della lista. Nel loro insieme questi Paesi accolgono oltre la metà dei flussi in uscita. Il 30% degli italiani che decidono di emigrare hanno più di 24 anni e sono in possesso di una laurea. Se cinquant’anni fa ad andare via erano soprattutto contadini con scarsa istruzione e pochi spiccioli in tasca, i nuovi migranti sono “la meglio gioventù”.


i, quale futuro e dove?

tative, esperienze e storie a confronto Quello che emerge è un quadro inquietante. Quei ragazzi, che dovrebbero essere il futuro e il cambiamento della stanca società italiana vanno via, portando tutto il loro bagaglio di conoscenze e sogni in un altro Paese. Ad aggravare la situazione, vi è da considerare tutta quella fascia di persone che non risultano dalle statistiche, ma che ugualmente sono andate via dall’Italia. Io sono tra quelli che sono diventati emigranti. In questi anni di vita lontano dal mio Paese ho conosciuto molti giovani e meno giovani che come me hanno deciso di trasferirsi all’estero. Un futuro opaco ed incerto, la voglia di scoprire, di fare nuove esperienze, ma soprattutto il desiderio di mettersi in gioco, dimostrare le proprie qualità dopo aver visto troppe porte chiudersi in Italia e constato l’impossibilità di mostrare il proprio valore nel proprio Paese, ci hanno spinto di andar via. Mi sono trasferito in Belgio, precisamente a Bruxelles un paio di anni fa. Il Belgio è proprio uno di quei Paesi che maggiormente attrae noi italiani; se, nel secolo scorso erano le miniere a renderlo una meta ambita oggi è il suo ambiente cosmopolita ed economicamente attivo. Secondo l’indagine dell’Istat, gli italiani che si sono trasferiti in Belgio nel 2013 sono 2.429. Essendo un Paese molto piccolo e di conseguenza molto poco popolato, la penetrazione dell’Italia ha raggiunto livelli massimi, dato che proprio la nostra lingua è diventata la quarta lingua informale del Belgio dopo l’arabo, il francese e il fiammingo. Bruxelles è una città variegata che ha poco a che fare con le altre città belghe. Grigia e cupa si è a me mostrata una realtà internazionale e viva, capace di offrire molte opportunità di crescita non solo professionale, ma anche personale grazie soprattutto ad una

popolazione giovane ed in crescita. Capitale europea per eccellenza, Bruxelles è in realtà un melting pot di diverse culture. Arabi, fiamminghi, africani e gente proveniente da tutto il mondo condividono gli stessi spazi permettendomi ogni giorno di fare nuove esperienze e conoscenze culturali e dandomi la speranza di un futuro. Speranza che in Italia si affievoliva sempre di più. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Relazioni Internazionali, ho deciso di mettermi alla prova scegliendo di studiare all’estero. Nel mio caso a dettare la mia scelta è stata la voglia di confrontarmi con ragazzi provenienti da altri Paesi, voler cambiare la mia routine provando qualcosa di nuovo e a me sconosciuto. Temevo che, se avessi continuato il mio percorso di studi nell’Ateneo di Perugia, come avevo fatto nella mia triennale, mi sarei ritrovato a seguire corsi ripetitivi senza poter godere delle conoscenze provenienti da nuovi insegnanti e testi completamente nuovi. Sicuramente questa paura mi ha incentivato a lasciare quello che era per me una realtà conosciuta e accomodante per provarne una a me totalmente ignota e non priva di difficoltà. Il primo approccio con il mondo accademico belga non è stato facile, soprattutto nei primi mesi. Diverse modalità di insegnamento e di studio, hanno richiesto un doppio sforzo da parte mia per colmare le mie lacune, soprattutto linguistiche. E’ stato un primo anno pieno di incertezze e non sempre mi sono sentito all’altezza della situazione che io stesso avevo scelto. A distanza di un anno, mi ritengo soddisfatto e contento della mia scelta. Mi sento in continua maturazione e di avere acquisito capacità e conoscenze, che restando in Italia non avrei potuto acquisire.

Tuttavia, pur vivendo all’estero non dimentico da dove sono venuto, e a differenza di molti connazionali che ho conosciuto in terre straniere che denigrano e a volte maledicono il nostro Paese, io continuo ad essere fiero delle mie origini, anche perché sono gli anni di formazione che ho ricevuto in Italia che mi hanno reso possibile costruirmi una vita a Bruxelles. Sicuramente, avrei preferito crearmi un futuro nel luogo in cui sono cresciuto, ma la paura di non poter realizzare me stesso e i miei sogni è stata più forte di qualsiasi malinconia. Non escludo che un giorno faccia ritorno in Italia, ma come tanti altri ragazzi che hanno intrapreso il mio stesso percorso, sarà necessario che da Paese per vecchi si trasformi in un Paese per giovani, magari anche con il mio aiuto. Infatti viaggiare, acquisire conoscenze che il nostro territorio altrimenti non ci permetterebbe, far nostri nuovi valori e arricchirci di nuove esperienze, potrebbero essere la chiave che ci permetterà di trasformare e migliorare l’Italia. In un mondo globalizzato non si può più parlare di nazioni e conoscere solo una lingua, oppure rimanere all’oscuro di ciò che avviene nel resto del mondo, è questo ciò che ho appreso andando via ed è questo ciò che vorrei che comprendessero tutti coloro che decidono di restare. L’Italia non è una realtà isolata ma fa parte di un mondo. Importare il meglio che ci offrono le altre nazioni, estirpare quegli atteggiamenti culturali italici che hanno senz’altro contribuito all’attuale decadenza sociale, politica ed economica del nostro Paese, e coltivare tutti quei valori positivi che rendono l’Italia unica e meravigliosa nel suo genere, possono renderci nuovamente un luogo da cui non si vuole scappare, ma in cui si vuole fortemente restare e tornare.

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Dal diario di una neol di Penelope Gruppo 11

15 novembre 2014 Il Vaffa-day Non è stata la suoneria del telefonino questa mattina a costringermi ad aprire gli occhi. Non è stata la fretta di dover prendere il treno per Perugia a buttarmi giù dal letto. E’ stato uno strano languore allo stomaco. Poi mi sono accorta che non è più mattina, ma è quasi mezzogiorno. Forse non è solo felicità è anche fame. Prendo in mano lo smartphon che tengo anche di notte sul cuscino, che sento già “sveglio” da qualche ora. Una montagna di messaggi su Facebook e su WhatsApp mi hanno tenuta impegnata sul letto ancora per una buona mezz’ora. Le “amicizie” si sono scatenate, ma nulla di originale solo banale cazzeggio, come solito: “Congratulazioni!” – “Buongiorno Dottoressa!” – “Ce l’hai fatta! Beata te! Che effetto fa sentirsi libere! fra sei mesi ti raggiungo!” – “Non hai preso 110 e lode, ma chi se ne frega? L’importante è essere liberi dalla schiavitù!”. Poi dopo una lunghissima serie di esaltanti rallegramenti ecco materializzarsi gli scassapagliari: “Vedrai che ti stancherai presto di stare senza far nulla!” – “Benvenuta fra noi disoccupati!” – “Da neolaureata a neodisoccupata, il passo è breve” – “Con la laurea non ti vogliono neppure a fare la lavapiatti” - “Brava, in Italia avevamo bisogno di una disoccupata in più”. Spengo e resto ancora un po’ nel letto, intenta a guardare il soffitto. Ripenso a quando mi sono iscritta all’Università, all’ora non sapevo ancora ciò che avrei voluto fare nella vita. I miei genitori ci tenevano troppo a quel pezzo di carta filigranata. La loro unica figlia che odiava la scuola e da piccolina diceva che voleva fare la casalinga, finalmente ieri mattina alle 10,30 ha realizzato il loro sogno: una laurea in Economia! Non mi sono mai fatta grandi illusioni. So che non sarà facile, ma dopo questi anni di sacrificio voglio finalmente decidere solo per me. Quattro metri per quattro. Sedici metri quadrati di soffitto bianco, bianco come un grande foglio. Sento che vorrei sollevarmi in aria, raggiungerlo per rispondere ai crepuscolari sfigati che hanno gettato ombre sul mio meraviglioso risveglio scrivendoci un bel Vaff... grande, ma molto più grande di quello che potrei scrivere qui.

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2 dicembre 2014 Calma, che fretta! Quest’anno l’inverno sembra che non abbia intenzione di arrivare. Fuori le temperature sono primaverili, ed in casa accalorati dibattiti su ciò che è meglio per una neolaureata in economia rendono a volte il clima domestico addirittura incandescente. Per evitare discussioni parlo poco, soprattutto con mia madre, la più efficiente e pragmatica della famiglia, ma spesso incline a calpestare il diritto altrui di far bene o di sbagliare facendo di testa propria. L’altro giorno l’ho sentita che parlottava con mio padre di quel posto di lavoro in banca, che un loro conoscente si era proposto di aiutarmi a trovare e che io ho gentilmente rifiutato non senza dovermi di questo più volte giustificare, dato che ogni tre per due torna su questo argomento. - “ Ma cosa vorresti fare? Lottare contro i mulini a vento? Credi, per una donna un lavoro così sarebbe una manna dal cielo. In un momento come questo quando avere un lavoro qualsiasi è di per sé una fortuna. Se in futuro decidessi di fare un figlio questo lavoro ti permetterebbe di chiedere un part-time, di poter salvaguardare gli interessi della tua famiglia, senza correre il rischio di venire licenziata a causa di una gravidanza. Lavorare in banca ti darebbe l’opportunità di avere tutto garantito!. -“ Non ho studiato fino a 26 anni per passare metà della mia vita dietro ad uno sportello di banca a contare banconote, non è quello che voglio per me”. Mi sono fatta due conti e un anno solare è composto da circa 52 settimane che moltiplicate per 36, la media di ore lavorate settimanalmente, diventano 1.872, che a loro volta moltiplicate per 44, gli anni che mi toccherà lavorare, significherebbe trasformare 82.288 ore della mia vita in ore di sofferenza. Penso che se lo accettassi passivamente sarebbe folle!. – “Verrà il giorno che ti mangerai il gomito...” .Quasi urlando le dico: – Basta, non voglio sentire altro. – Ma niente, non molla e continua adesso rivolta verso mio padre, come se io non ci fossi, la voce di gola fra il preoccupato e l’adirato: -“Va bene in banca no, ma allora si desse da fare a cercare altrove, a me sembra che è andata in letargo. Qui non farà la vita della scansafatiche in attesa che qualcuno bussi a casa per portarle il lavoro che vuole lei”. Mio padre cerca di riportare la calma: -” Dai tempo al tempo! sono solo quindici giorni che si è laureata. Calma, che fretta! E’ stata sempre una organizzata nelle sue cose. Stiamo un attimo a vedere!”. In questa casa mi manca l’aria, ho messo la tuta e sono andata fare una corsetta, non ne posso più.


laureata 10 dicembre 2014 “Choosy” Sapere già cosa si vuole dalla vita è il primo passo per arrivare ad averlo. Voglio lavorare sfruttando la mia laurea nel modo che sento più consono alle mie aspirazioni e restare vicina ai miei cari, per condividerne il futuro; voglio lavorare come un uomo ma al tempo stesso avere una famiglia e allevare i miei figli come una donna. Tutto troppo poco realistico. Per non perdermi in questo sogno, senza rinunciarvi subito, mi sono concessa qualche mese per realizzarlo, al massimo sei. Una come me la Fornero la definirebbe una choosy (schizzinosa). I miei genitori, amici e parenti una povera illusa. Staremo a vedere e tanto per cominciare, dopo il disorientamento iniziale, sono andata in edicola e dopo aver consultato le bacheche ho deciso di investire un euro e dieci centesimi acquistando un quotidiano locale che sbandiera posti di lavoro offerti negli enti locali: “ Sanità umbra, 62 posti per vari profili”. Ma all’interno nessuno dei profili purtroppo combaciava col mio. E di seguito: tirocini per laureati a Londra; Valtur ha bisogno di animatori da impiegare nei villaggi; borse di studio da 12mila euro in Giappone... No, nulla che minimamente poteva avvicinarsi alla figura professionale che vorrei ricoprire: consulenza nella gestione del personale aziendale. Continuo a scorrere i titoli e mi preoccupa un po’ leggere che nella maggioranza dei casi le aziende umbre chiedono di sentirsi disposti a trasferirsi all’estero o in altre regioni italiane. Mi fa sorridere invece quando leggo che si pretende dai neolaureati anni di esperienza lavorativa. Barcollo ma non crollo e mi documento nei siti che danno i consigli migliori su come compilare il proprio curriculum. Il c.v., sia nella grafica di presentazione che nei suoi contenuti dovrà rispecchiare il carattere del suo autore e, in massimo due pagine, esporre l'obiettivo professionale e i risultati raggiunti. Per attirare l'attenzione del selezionatore è importante che il contenuto del c.v. sia scritto con i seguenti accorgimenti: chiarezza espositiva, capacità di sintesi e fluidità. Bene, scarico il modello europeo e lo compilo attenendomi alle su citate istruzioni. Aggiungo la mia foto formato tessera e vai a tutte le agenzie interinali della zona! Domani mattina mi alzo presto e mi presento al Centro per l’impiego. Si è fatto tardi, devo andare al corso individuale di Inglese per perfezionare la lingua. Sono una “choosy” che raccoglie la sfida.

19 dicembre 2014 Il primo colloquio Alle 12,00 ho fatto il mio primo colloquio di lavoro per una azienda con sede legale a Milano e che opera anche nel nostro territorio. Cercano un consulente risorse umane ed io cerco loro. Non ci spero ma devo crederci, altrimenti come posso pretendere di averli convinti che sono proprio io la persona di cui hanno bisogno? Stamani quindi forte del mio motto, “il mio tempo è adesso, la vita non aspetta!”, mi sono preparata per vincere. Giacca nera e camicetta celeste polveve, un po’ di trucco ma senza esagerare, sulle labbra niente rossetto, solo un velo di burro cacao per esibire un sorriso radioso. Le agenzie interinali dopo i colloqui conoscitivi mi hanno detto che, una bella ragazza come me con un c.v ottimo, non dovrebbe avere difficoltà a trovare un lavoro nonostante la crisi. Ma io non voglio un lavoro, voglio quel tipo di lavoro! Speriamo bene. Ho messo in pratica i consigli rilasciati da alcuni siti sul modo di affrontare le quattro domande decisive, quelle che il selezionatore non potrà fare a meno di rivolgere all’esaminato: alla prima - “mi parli un po’ di sé” – non ho divagato troppo parlando di hobbies e abitudini ma ho risposto prontamente e in modo conciso sul tipo di carriera che voglio intraprendere -; alla numero due “perché vorrebbe lavorare qui?” – non ho parlato di aspettative di tipo economico ma ho fatto intendere che sono veramente e sinceramente interessata a quel tipo di lavoro; alla terza “Qual è il suo punto debole ?” – sincerità nell’ammettere di avere qualche piccolo difettuccio, senza inventare né esagerare, è controproducente; quarta e ultima “Come si vede negli anni futuri?” – Sull’ambizione, me lo sento, sono caduta lì. Mi spiego, dopo aver rassicurato il selezionatore sul fatto che non è mia intenzione metter su famiglia nei prossimi anni, sono sicura di essere scivolata sulle distanze. -“E’ disposta a lavorare anche all’estero o a trasferirsi dalla sua regione per avere questo lavoro?”- “ Scusi – dico io – la domanda non mi sembra molto pertinente dato che chiedete di ricoprire il posto vacante nella vostra sede in Umbria” – “Lei mi risponda lo stesso. Voglio sapere quanto è disposta a fare per la carriera” – “Sono disposta a spostarmi periodicamente quando l’esigenza lavorativa lo richiede, ma non sono intenzionata a lasciare la mia regione.” – Concisa, sincera e decisa. Contento? Altrimenti fanculo, io non voglio migrare!

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Vecchie ferite, s

di Sara Mirti

Nike di Peonio, (circa 420 a. C.), Museo Archeologico di Olimpia, Grecia.

[...] Quelli che amano giocano ad afferrare l'acqua, a tatuare il fumo, a non andarsene. Giocano al lungo, triste gioco dell'amore. Nessuno si può rassegnare. Dicono che nessuno si può rassegnare. Quelli che amano si vergognano di qualsiasi conformismo. Vuoti, ma vuoti da una costola all'altra, la morte li corrode dietro gli occhi, e loro camminano, piangono fino all'alba dove treni e galli si salutano dolorosamente. [...] (Jaime Sabines)

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Da un certo punto di vista, la “superficialità” è una delle piaghe che tormentano il nostro tempo...tuttavia, non è poi così sbagliato fermarsi alla superficie delle cose. La nostra superficie è la nostra prima e più estesa interfaccia verso il mondo che ci circonda. Tutto può fermarsi sulla nostra superficie: l’amore, il dolore, il lusso, la povertà, libri, riviste, sguardi, movimenti, risate, messaggi diretti a noi oppure che ci hanno colpito per caso, impressioni tattili o visive; il vero problema è che, se non riusciamo in qualche modo ad incamerare, a fare nostre tutte le informazioni e le emozioni che normalmente appoggiamo sulla nostra superficie, queste rischiano di scivolare via, di andare perdute ad ogni nostro minimo sussulto. Come fare, dunque, ad ancorare l’enorme mole di oggetti, reali o immaginari, che si depositano in superficie durante tutta la nostra vita? Forse chiamandoli per nome, cercando di mantenerne la memoria? O forse disegnandone i confini, assegnandogli un posto preciso che non sarà mai di nessun altro oggetto? Forse trasformando i significati che siamo riusciti a codificare in altrettanti significanti, in segni e simboli che sappiano rievocare la presenza di qualcosa o di qualcuno, dandogli forma e sensazioni, dandogli, insomma, nuovamente vita? Magari riuscissimo a restituire un significato e un significante, una forma e un contenuto, ad ogni semplice impressione che ci raggiunge. Ugualmente tutto ciò che è sotto la nostra superficie dovrebbe sempre essere libero di venire fuori, perché più utile fuori che dentro, come nel caso delle nostre paure o dei brutti ricordi che, portati all’esterno, possono servire come difesa, o perché all’esterno la nostra superficie sembra sempre troppo esposta, troppo vuota di vita.


e nuove superfici: egni e tatuaggi Ma come fare a portare fuori almeno una parte della nostra interiorità? Magari si potessero vedere i pensieri e le emozioni di ciascuno al primo sguardo, magari fosse possibile utilizzare la superficie come uno schermo selettivo, perché è proprio su quello schermo che si svolge la battaglia per la definizione della propria identità e dell’appartenenza al genere umano. Una delle soluzioni che il genere umano ha escogitato fin dall’inizio della sua storia, è quella di lasciare dei segni: sulle pareti rocciose, più tardi su altri supporti, e, naturalmente, anche sulla propria pelle. La pelle è parte integrante della nostra identità, della nostra cultura e della nostra psiche. Essa non si limita a contenerci, a delineare le nostre forme, a sostenere e a difendere l’integrità delle nostre strutture interne e di tutto il nostro essere, la pelle ci distingue dagli altri per colore, odore, reazione ai raggi del sole, al freddo o al caldo. Non dobbiamo comunque dimenticare che ciò che D. Anzieu ha definito l’Io-pelle” inizia a formarsi quando l’embrione umano è allo stato di gastrula, a partire dallo stesso foglietto embrionale da cui hanno origine il sistema nervoso e gli organi di senso; e forse è per questo che ogni pelle racchiude in sé propri ragionamenti, che ogni pelle è attraversata da identità diverse: ciascuno ha i propri pensieri e le proprie emozioni, così come ha la propria pelle, unica, irripetibile, e soprattutto, a differenza dei pensieri e di alcune emozioni, difficilmente addomesticabile. La nostra pelle ha già diversi strati e propri rilievi, le creste cutanee, che per l’estrema variabilità di comportamento e disposizione vengono normalmente utilizzare per identificare gli individui (attraverso le impronte digitali). Colore, odore, reattività al caldo e al freddo, sottili rilievi paralleli tra loro presenti sulla superficie libera (si veda

http://www.treccani.it/enciclopedia/cute/): a quanto pare la nostra pelle è tutt’altro che una “tabula rasa”. Ma torniamo al concetto d’involucro: esso fa parte integrante della nostra sostanza; ogni analisi, ogni percorso di conoscenza deve necessariamente partire dalla superficie. Per esempio, il nostro cervello altro non è che la parte superiore e anteriore del nostro encefalo; e la corteccia (termine entrato in uso nell’Anatomia già a partire dal 1907), che letteralmente significa “scorza”, indica

proprio la materia esterna che ricopre la sostanza bianca. “Eccoci”, dice D. Anzieu, “di fronte a un paradosso: il centro è posto in periferia”. Ma si tratta di un fenomeno abbastanza universale: ogni scorza vegetale e ogni membrana animale, fatto salvo eccezioni, contempla un doppio strato, uno più protettivo e uno più interno. “Torniamo all’embrione: l’ectoderma forma sia la pelle (inclusi gli organi di senso) che il cervello. Il cervello, superficie sensibile protetta dalla scatola cranica, è in contatto permanente


Statua in bronzo della Principessa e sacerdotessa egiziana Takushit, con geroglifici in argento, XXV Dinastia (Museo Archeologico nazionale di Atene). con tale pelle e i suoi organi, epiderma sensibile protetto dall’ispessimento e dall’indurimento dei suoi strati più superficiali. Il cervello e la pelle sono entità di superficie, con la superficie interna (in rapporto al corpo nel suo insieme) o corteccia che è in rapporto col mondo esterno grazie alla mediazione della superficie esterna o pelle; ciascuna delle due scorze comporta almeno due strati, uno protettivo, più esterno, l’altro, sotto al precedente o ai suoi orifizi, in grado di raccogliere le informazioni, di filtrare gli scambi” (D. Anzieu, “L’Io-pelle”, int. R. Tagliacozzo, trad. e cur. A. Verdolin, Borla, Roma, 2005 pp. 20-21). A differenza di quanto accade per il nostro cervello, nel caso della no-

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stra pelle sta a noi scegliere di volta in volta il suo ruolo: essa più essere una semplice protezione, oppure una finestra che si affaccia direttamente sui nostri sentimenti. Naturalmente però, se vogliamo che interno ed esterno comunichino tra loro, è necessario aprire dei canali, segnare dei punti di accesso controllato: è necessario quindi che la nostra pelle venga graffiata, incisa e ri-significata. “Inevitabilmente le incisioni sulla pelle chiamano in causa ciò che definiamo bellezza, cosa intendiamo per nudità. Linda Nochlin, storica dell’arte e femminista, sostiene: «Mi piace qualsiasi nudo che non sia classico, ogni corpo nudo che non sembri come il Davide di Michelangelo o l’Apol-

lo del Belvedere. Per me, come per il poeta e critico Baudelaire nel XIX secolo, il nudo classico è morto, e inevitabilmente. Cosa è vivo? Il non convenzionale [...]» (cit. in Buszek 2006, p. 1; cfr. anche Nochlin 2003). [...] La scelta d’incidere le carni afferma con forza una visione anticlassica del corpo, una presa di posizione nei confronti della percezione e della rappresentazione della bellezza fondata sullo splendore di una pelle fresca e nuda. E ciò appare ancora un gesto più irruento e irrevocabile se viene scalfito e compromesso il corpo femminile” (A. Castellani, “Storia sociale dei tatuaggi”, Donzelli, Roma 2014, pp. 3, 10). In realtà la bellezza priva di ogni segno e di ogni memoria è soltanto un inganno, una finzione: la maschera copre dei tratti per esaltare la vera natura di chi l’indossa o per salvaguardarla dal personaggio che si vuole rappresentare, mentre il trucco, si sa, inganna col pretesto di essere sincero, modifica l’esterno e l’interno di chi ne abusa. Il tatuaggio è lo specchio fedele della realtà personale o sociale di chi se ne riveste. E’ un vestito che però mostra ed esalta una nudità ancora più umana, che nulla ha più di animale: nei secoli i tatuaggi hanno contribuito a stabilire con un semplice colpo d’occhio chi fosse la persona libera e chi lo schiavo o il galeotto, chi fosse il nemico, il diverso, lo straniero, chi fosse il capo e chi lo sciamano, quale status avesse una donna, quale estetica e quali credenze sull’aldilà avesse un determinato popolo Agli inizi dell’Ottocento per un maori il moko, tatuaggio simmetrico che segue in spirali doppie le linee del viso, disegnato su un documento poteva rappresentare la propria firma ufficiale; un vero e proprio doppio. Quei segni rappresentavano la faccia e quindi l’identità di un maori. Per fare un altro esempio, il tatuaggio del mento praticato dagli apache-mohave serviva a garantire il riconoscimento da parte degli antenati durante il passaggio all’aldilà. Anche in Italia di fine Ottocento i tatuaggi erano molto diffusi, soprattutto in Lombardia, in Piemonte e nelle Marche, e soprattutto tra i pellegrini devoti alla Madonna di Loreto: venivano incise soprattutto frasi legate alla Madonna, a Gesù, a San Francesco, strumenti legati alla Passione o all’Arcangelo Gabriele. Al santuario d Loreto, durante la Natività, i pellegrini si facevano fare appositi tatuaggi, utilizzando un cliché dipinto, degli aghi finissimi e degli stracci imbevuti d’inchiostro azzurro.


Secondo Lombroso i cocchieri di Messina usavano tatuarsi perché affiliati alla mafia; in Veneto invece si tatuavano i carrettieri. I lavoratori dei campi marchigiani sfoggiavamo molti tatuaggi: croci, croci piantate in un globo, stelle, soli e lune, frasi come “eterno, incancellabile non ti scordar di me” (citando una canzone), cuori trafitti, ecc. “La cosa” all’epoca pareva “così naturale ed [...] così comune” che le persone non sentivano alcun bisogno nemeno di parlarne...era un comportamento accettato, in qualche modo naturale (Pigorini Beri 1994, p. 291). Ci si tatuava sull’avambraccio, ma i marnai lo facevano anche sul petto e i minatori di Carrara sulle dita (tatuaggi a forma di anello); mentre l’abitudine di tatuarsi sull’avambraccio e sulle mani al già citato santuario di Loreto, probabilmente deriva dalle posizioni delle stigmate di San Francesco (che avrebbe predetto la traslazione della Casa della Madonna). Nonostante l’avvento dell’Antropologia Criminale, l’arte del tatuaggio importata da luoghi “selvaggi” o lontani, prende piede in Europa e negli USA. Si tratta di spettacolarizzazione, di elementi rottura, ma anche di libertà d’espressione: un disegno inciso nella carne non può essere cancellato e, se da una parte viene letto come un marchio infamante, la prova dell’impossibilità di qualsiasi redenzione, un disgraziato deturpamento, dall’altra è innegabile, a mio avviso, che tali segni finiscano per restituire una voce, un’appartenenza e un’identità a chi ne è stato privato. Ancora oggi, ci racconta D. Le Breton, tra i primi malesseri di cui soffrono i carcerati ci sono inspiegabili dermatiti dovute alla reclusione e all’isolamento, alla perdita di un ruolo attivo all’interno della società. Si può immaginare dunque che una pelle tatuata sia più protetta, libera, dialogante: nessuno potrà sedare un urlo inciso sulla pelle, nessuno potrà negare l’identità dell’uomo o della donna che abbia su di sé dei tatuaggi. Quale genitore non vorrebbe poter leggere la complessità che si nasconde dentro ogni figlio a occhio nudo? Chi non vorrebbe poter leggere l’identità, l’indole delle persone con le quali condividiamo il lavoro e la vita? Quando ci si trova davanti a delle persone molto tatuate questo è semplice: in fondo basta leggere sulla loro pelle. Non serve nemmeno avere senso dell’osservazione o capacità empatiche. Essere semplicemente se stessi, al primo colpo d’occhio: esiste un modo migliore per eludere ogni forma d’incomunicabili-

tà? Eppure i tatuaggi spaventano ancora. Hanno percorso tutta la nostra storia, hanno attraversato tecniche di realizzazione e mode tra le più diverse e a volte crudeli, e naturalmente hanno segnato il nostro immaginario, eppure la potente carica magica che attraversa qualsiasi segno, nel caso dei moderni tatuaggi sembra essersi affievolita. Il corpo parla e veicola attraverso di sé più informazioni di qualsiasi altro supporto. Il corpo diventa non solo arte, ma anche luogo violabile e attraversabile da altre dimensioni spaziali e temporali; le avanguardie artistiche e il punk ce l’hanno insegnato oltre ogni ragionevole dubbio. Se ciò che chiamiamo anima può espandersi

fino ai confini della nostra immaginazione, perché non potrebbero farlo anche i corpi? I tatuaggi non travalicano i confini dell’umano, non sono artificialità...sono piuttosto i segni che la nostra umanità è passata per il nostro corpo, per la nostra vita. Sembrano dirci: questa vita è stata vissuta da un’immaginazione umana, guai a chi ne ignorasse e ne offendesse l’umanità. Se i nostri corpi non avessero un significato, cosa li distinguerebbe da quelli perfetti e modellabili delle statue? Quale forma vorremmo che ci sopravvivesse? Quale parte sarebbe in grado di racchiuderci per intero? Il cervello? Il cuore? La nostra pelle? Il nostro nome?

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Riconoscete la LIS! “I sordi esistono!”

Nella folla tutti camminano ignari. La folla diminuisce. Tutti fanno finta di niente. Sotto la lente attenta della ricerca genetica vengono scartate le parti difettose. Nella folla tutti camminano ignari. La folla diminuisce. Tutti fanno finta di niente. Nessuno vorrebbe un figlio difettoso. Nella folla tutti camminano ignari. Un po’ alla volta la folla continua a diminuire. Tutti fanno finta di niente. La lente attenta della ricerca scopre il gene dell’identità sorda. Via, via! Possibile? Nella folla tutti camminano ignari. La folla diminuisce. Tutti fanno finta di niente. Nessuno vorrebbe un figlio sordo. BASTA! Nel mondo i sordi esistono: DIRITTI PER I SORDI! Io esisto: guardatemi! Io vivo la mia quotidianità, ne sono capace. Io lavoro, ne sono capace. Io posso avere una carriera, ne sono capace. I sordi sono capaci di fare qualsiasi cosa. I sordi hanno tutto il diritto di esistere.

di Dario Pasquarella Tutti abbiamo il diritto di usare liberamente la LIS L’Italia ha ratificato la Convenzione dell’ONU che la obbligherebbe a riconoscere la LIS come lingua, eppure non l’ha ancora messa in pratica. Perché? I motivi sono diversi, ma non dimentichiamoci che non ci sarà mai vera possibilità di scelta senza un vero riconoscimento.

La comunità sorda

(tratto dalla tesi di Dario Pasquarella. Si ringrazia Elisa Conti per la traduzione). I Sordi e Lingua dei Segni Italiana (LIS)

La comunità udente utilizza la lingua vocale (la voce) che viaggia attraverso un canale acustico-vocale, la comunità sorda, invece, utilizza la lingua dei segni italiana, la LIS, che viaggia attraverso un canale visivogestuale: i segni. La lingua dei segni è

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una vera e propria lingua, con una sintassi e una grammatica tipica, ed è utilizzata da una comunità segnante composta da sordi e udenti. Per quanto riguarda le persone sorde, esistono due tipologie, due stili di vita: sordi oralisti e sordi segnanti; sono quest’ultimi che comunicano e si esprimono attraverso LA LINGUA DEI SEGNI ITALIANA. Si delinea così un profilo d’identità e di cultura fondamentale per l’individuo sordo e per la sua comunità d’appartenenza. A questi due grandi gruppi se ne aggiunge un terzo: alcuni sordi infatti utilizzano una tecnica di comunicazione bimodale, utilizzando i segni e mantenendo contemporaneamente la struttura e l’ordine della frase così come appare in italiano. Riassumendo: chi è oralista non utilizza i segni ma la lingua vocale, usa molto la lettura labiale, facendo estrema attenzione a mantenere il focus diretto delle labbra; chi utilizza un metodo bimodale fa riferimento

alla lettura labiale, ed utilizza l’ordine grammaticale dell’ italiano con un supporto segnico: Es: Il gatto mangia: Il - articolo non facente parte della lingua dei segni viene evidenziato attraverso la dattilologia; gatto – seguirà il segno di gatto specificando il genere ed il numero; infine il verbo mangia verrà prodotto con il segno di mangiare specificando con il labiale la desinenza finale della terza persona singolare; e infine c’è chi utilizza esclusivamente la Lingua dei Segni Italiana, una lingua che viaggia sui canali integri, visivo e gestuale, della persona sorda, ovvero gli occhi e le mani; la LIS è la lingua naturale delle persone sorde. Nella LIS le espressioni facciali hanno valenze sintattiche, il corpo è come un asse del tempo: esso può esprimere concetti ed esperienze che avvengono nel presente, oppure relative al passato, o in proiezione del futuro, definibili attraverso spostamenti grandi o piccoli, in avanti o indietro. Nella forma integra, la linguaha una sua costruzione sintattica di Soggetto - complemento Oggetto - Verbo, ovvero SOV. La lingua dei segni è costituita da segni che hanno significato proprio.


Una Realtà Linguistica: la Lingua dei Segni

“I sordi esistono!” - GMS - Rap/canzone LIS - Dario Pasquarella: Arte&Mani. Immagine estratta da: https://www.youtube.com/watch?v=suUWC3E14SM E’ interessante vedere un bambino sordo inserito nel proprio contesto familiare, contesto in cui questa lingua può essere valorizzata oppure esclusa. Una famiglia composta da persone sorde segnanti, ovviamente, darà valore alla LIS e sceglierà una scuola integrata, o una scuola pubblica, ma richiedendo l’assistente alla comunicazione e l’educatore sordo. Una famiglia composta da persone udenti con un unico figlio sordo, invece, per lo più tenderà ad escludere la LIS per immergere il bambino in una realtà prettamente udente, svalorizzando e oscurando la sua identità. Purtroppo, per ignoranza o per paura, generalmente si tende a nascondere le differenze invece che valorizzarle, perdendo così di vista l’identità e il rispetto umano: in caso di figli sordi, la lingua dei segni è il primo valore che si deve rispettare. Infine ci sono famiglie che possono decidere di inviare i propri figli lontano, come nel mio caso, in Istituti, laddove vi sia un programma strutturato che copra ogni aspetto della giornata di un bambino, dal risveglio alla cura della persona, allo studio. Analizzando i contesti logo-

pedici, terapeutici, ci sono metodi, come il bimodale oppure l’italiano segnato esatto, che avranno lo scopo d’indirizzare il bambino verso l’italiano, la lingua parlata. Vorrei riportare degli esempi di frasi specificando la grammatica e la sintassi. Lingua Italiana: il bicchiere sta sopra il tavolo. Italiano Segnato (IS): bicchiere sopra tavolo. Italiano Segnato Esatto (ISE): il bicchiere sta sopra il tavolo. Lingua dei segni italiana (LIS): Tavolo bicchiere sopra. Esistono poche scuole sul territorio nazionale che usano un modello di educazione bilingue italiano/LIS e che coinvolgono non solo alunni sordi ma soprattutto udenti, offrendo pari opportunità sul piano formativo scolastico: il Circolo didattico di Cossato, in provincia di Biella, il Circolo didattico 173° presso lo storico Istituto Statale per Sordi di Roma in via Nomentana, l’Istituto Comprensivo Filippo Smaldone, Via Tor De Schiavi, 404 Roma, ecc. Il concetto di cultura sorda delinea contenuti cognitivi, espressivi affettivi; il ritmo, il valore, i linguaggi, i simboli; i segni sono modelli, e tecniche di comportamento della mente e del corpo.

Riguardo agli studi effettuati sulla comunità sorda e sulla lingua dei segni, le ricerche si sono incentrate da sempre su argomenti specifici quali l’apprendimento, l’importanza della lingua madre, ecc. Thomas Gallaudet è stato il fondatore dell'Università Gallaudet per sordi, la più antica al mondo, istituita nel 1864 a Washington, ed ancora oggi unico ateneo in cui tutte le lezioni sono svolte da docenti segnanti e i programmi sono specificatamente pensati per studenti sordi e per udenti segnanti; punto di riferimento per la comunità sorda internazionale e per gli studi sulle lingue dei segni. La ricerca sulla lingua dei segni in Italia invece è iniziata piuttosto tardi (fine anni ‘70), e proprio a questo si deve il fatto che molti abbiano stentato a riconoscere nella LIS una lingua vera e propria, confondendo spesso i segni con i più comuni gesti. In realtà il linguaggio mimico gestuale (LMG) non dà importanza a configurazioni e spazi neutri, ma a movimenti globali del corpo che rievocano un vero e proprio mimo. Vorrei concludere con un esempio ironico. Immaginate un autobus o un tram nell’ora di punta, affollato e nonostante ciò due persone segnanti al suo interno riescono ugualmente a comunicare: limitando e rimpicciolendo il loro spazio neutro comunque manterranno la loro chiarezza semantica, rispettando i parametri della LIS. Ora immaginate la stessa scena, con gli stessi sordi segnanti, ma questa volta immaginateli mentre si esprimono con una lingua mimica, con un mimo, con delle azioni in cui frasi e contenuti vengono proiettati attraverso movimenti ampi, goffi e imprecisi, “svalutanti”. In quest’ultimo caso non si parlerà più di lingua dei segni, ma di mimica gestuale. Eppure ancora oggi, nel 2013, i nostri diritti di cittadini italiani segnanti non sono ancora riconosciuti, perché lo Stato italiano non ha ancora riconosciuto la LIS come vera e propria lingua; mentre in altri paesi (si pensi a Cina, Perù, Australia, Francia, Inghilterra, USA, paesi dell’Africa, ecc.) questo riconoscimento doveroso è già avvenuto da tempo, e anche l’ONU ha preso posizione in merito.

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Parlando di ricerca in tale ambito, non si può non ricordare che il precursore fu William Stokoe, uno studioso americano. Alla fine degli anni‘70 si aggiunsero a questo lavoro molto influente le due ricerche di Klima e Bellugi. Mentre fu solo nel 1979, un anno importantissimo, che nel CNR, Centro di ricerca di Neuroscienze, di Roma un gruppo di ricercatori sordi ed udenti capitanato da Virginia Volterra, grande linguista e ricercatrice nell’ambito delle neuroscienze, condusse delle ricerche sulla LIS sia sul piano lessicale che su quello grammaticale e sintattico. Da tali studi emerse che la lingua dei segni italiana è composta da 5 parametri di formazione: a) il luogo il preciso spazio dove viene eseguito il segno sul corpo o nello spazio neutro; b) la configurazione forma specifica della mano o di entrambe; c) l’orientamento caratteristica che

da precisione alla configurazione; d) il movimento l’andamento e la direzione del segno e) le componenti non manuali l’espressione del viso, il topic, e labializzazioni sintattiche. Ciascuna comunità dei sordi ha creato e sviluppato una sua lingua dei segni con caratteristiche proprie, legata alla particolare cultura in cui viene usata. Non esiste una lingua dei segni universale, ma tante lingue dei segni. Per ogni lingua dei segni, infatti, esiste una lingua vocale. LIS → Italiana ASL → Americana / Inglese LSF → Francese LSE → Spagnolo BSL → Inghilterra Inglese Inoltre le lingue dei segni hanno grammatica e sintassi proprie: Lingua italiana: Io vado al cinema LIS: Io cinema andare Una lingua viva è, per sua stessa natura, in continua evoluzione: ita-

liano: giuoco- gioco; LIS: un esempio è il segno di “telefono”; inizialmente il segno possedeva un’iconicità calzante: il vecchio telefono a ruota, fisso, da parete. Poi, in base ai processi tecnologici, il telefono subì modifiche e trasformazioni, fino a diventare un cordless o un telefonino. La lingua dei segni italiana è parte integrante dell’identità sorda. Un esempio evidente: acqua in bocca (udente); mani in tasca (sordo). Nella cultura sorda si usa il segno-nome per identificare le persone: la persona udente utilizza il nome, mentre la persona sorda utilizza il segno nome che mette in evidenza una particolare caratteristica del nome o del cognome, un dettaglio fisico o una particolarità inerente il proprio lavoro. Ci sono inoltre segni-nomi “storici”, relativi a cognomi tramandati da generazioni. La comunità dei sordi, in netta minoranza nel mondo udente, si è fatta strada portando sempre avanti il proprio valore e quello di questa grande lingua che è la lingua dei segni italiana, con una consapevolezza e uno stile di vita che la stessa comunità sorda ha contribuito a creare. Attraverso la propria percezione visiva è possibile conoscere ed evidenziare diversi aspetti della vita e competenze diverse; ne è prova il fatto che man mano, nella comunità sorda, hanno preso piede forme di poesia, di teatro, di danza, di musica in LIS, e poi ancora canzoni e barzellette (sempre in LIS), sottolineando così un aspetto percettivo ed emozionale che si differenzia dal contesto udente. Ecco un esempio: In prossimità della morte dei tre protagonisti, un cieco, un paraplegico e un sordo, a ciascuno di loro viene fatta questa domanda:“Cosa porterai con te nel viaggio per l’aldilà?” Il cieco risponde: “Il bastone, senza di esso non potrei scoprire nuovi luoghi...” Il paraplegico: “Io porterò con me la mia sedia a rotelle e con essa potrò raggiungere tutti quei luoghi. che le mie gambe da sole non possono raggiungere”. Il sordo: “Beh, io porterò con me l’interprete LIS udente, a forza AH!!” Questo senso dell’umorismo è una delle caratteristiche della comunità sorda segnante.


Così come gli udenti raccontano, creano, parlano, usando suoni ed espressioni e modi di dire, ugualmente noi sordi abbiamo il nostro modo di esprimerci, la nostra cultura che comprende uno humour visivo. Nella cultura sorda c’è anche un alfabeto di base, la dattilologia. Tutti noi abbiamo utilizzato almeno una volta quell’alfabeto bizzarro, infatti si tratta di una prima versione storica dell’alfabeto visivo e gestuale, utilizzato anche dagli udenti per gioco, per copiare nei compiti in classe e soprattutto per suggerire. Poi, con il tempo, la dattilologia ha avuto delle modifiche, sottolineando un’esigenza pratica più inerente ad una valenza grammaticale. Ormai non si può più ignorare la realtà della LIS, la sua utilità comunicativa tanto per i sordi quanto per gli udenti.

Servizi

In Italia i cosiddetti “servizi” dedicati alle varie forme di accessibilità stanno lentamente aumentando, ed evolvendo, grazie anche alle nuove tecnologie, ma la verità è che manca ancora molto, troppo da fare e che, in alcuni casi, si sta addirittura tornando indietro rispetto alle conquiste fatte soltanto qualche anno fa. La chiusura delle scuole speciali e il conseguente inserimento dei bambini “disabili” nella scuola pubblica ha coinciso con un cambiamento epocale e con la nascita di una nuova figura professionale: l’assistente alla comunicazione. All’inizio tale ruolo era ricoperto soltanto da udenti che comunque disponevano di molte ore. Adesso invece si è compresa l’importanza della presenza, esclusiva o in affiancamento, di un assistente alla comunicazione sordo (un tempo chiamato “educatore”), indispensabile per aiutare il bambino sordo a costruirsi una propria identità, ma, nonostante ciò, le ore a disposizione sono via via diminuite, fino a diventare quasi un terzo delle ore di partenza: decisamente insufficienti, da qualsiasi punto di vista si voglia guardare la situazione. Infatti le ore effettive di un assistente alla comunicazione aumentano fisiologicamente se in una stessa classe vi sono più ragazzi sordi; viceversa rimangono invariate se vi è un solo ragazzo sordo in classe. Questo significa che i giovani sordi si sentono in qualche modo “forzati” a seguire le scelte scolastiche della maggioranza dei sordi…chi è che vorrebbe trovarsi da solo a tentare, per esempio, gli studi

di Liceo Scientifico? Questo implica una potenziale esclusione delle persone sorde dai servizi presenti sul proprio territorio di nascita. Data la necessità oggettiva di stare insieme ad altri sordi e sommare così le proprie risorse, forse dovrebbero essere i comuni a prendersi una responsabilità di coordinamento: potrebbero indirizzare le famiglie verso le scuole più vicine in cui vi siano già altri sordi. In questo senso si sente forte l’assenza di una gestione diretta, di un fare rete da parte dei diversi Comuni. Inoltre, all’Università c’è sì un interprete, ma ci sono Maria Beatrice D’Aversa, presidente del Grupcomunque dei limiti lepo SILIS-ONLUS. Immagine estratta da: gati, come sempre, alhttps://www.facebook.com/daversa.betty?fref=ts l’esiguità delle ore a diwww.grupposilis.it sposizione e della conseguente impossibilità da parte di uno questo ci vengono in aiuto: è possibistudente sordo di vedersi coperte tutte le infatti contattare gli interpreti le ore necessarie; per esempio, le attivi- tramite video-conferenza, attravertà extra, i laboratori, ecc. ne rimango- so i computer in dotazione agli uffici no puntualmente esclusi. Data l’esigui- pubblici, o attraverso i tablet o i più tà delle ore a disposizione bisognerà al- moderni cellulari; potrebbe addiritlora fare delle scelte. Il risultato sarà tura diventare un servizio già instalsempre un minore afflusso d’informa- lato all’interno degli apparecchi di zioni proprio laddove invece ne servi- ultima generazione, pronto per esserebbero di più, laddove sarebbe fonda- re usato da chiunque in qualsiasi mentale avere anche una vera e pro- circostanza. Questa opportunità, se pria mediazione culturale. Se a questo ben utilizzata, rappresenterebbe si aggiunge il fatto che il bandi delle una risorsa, non soltanto perché i varie scuole o istituti escono sempre in costi, potenzialmente, sarebbero miritardo e che, quindi, gli assistenti alla nori, ma anche perché questo percomunicazione o gli interpreti vengono metterebbe una maggiore flessibilità chiamati ad anno scolastico già inizia- e facilità di gestione della comunicato, si può immaginare quale disparità zione in ogni ambito. Tuttavia, in sivi sia, nella prassi, tra la formazione di tuazioni più complesse, come in un una persona udente e di una sorda. I tribunale, all’ospedale, ad un convesordi hanno tutto il diritto di ricevere gno, ad un seminario, nelle scuole, un’istruzione di qualità che proceda in all’università, o durante le funzioni parallelo a quella degli udenti. Dov’è il religiose, non si potrà mai prescindediritto di uguaglianza dei cittadini, re dalla presenza fisica di una persosancito dalla Costituzione, se ai bam- na, di un interprete in carne e ossa. bini e ai ragazzi sordi finiscono per ar- Provate solo per un momento a non rivare informazioni in quantità e qua- sentire, a non percepire nulla dallità minori rispetto agli udenti? Anche l’esterno, prendendo forza solo dai la programmazione RAI sottotitolata nostri occhi, dalla nostra capacità in italiano è scarsa..ma d’altra parte la visiva, selezionando dettagli di un nostra televisione ha parso già da tem- mondo nuovo a voi “sconosciuto”, ma ricco di elementi particolari mai po la sua antica funzione formativa. I pochi “servizi ponte” attivati sono osservati prima, prendendo consacomunque, gioco forza, legati all’ita- pevolezza del corpo e del suo linliano, viceversa una piena accessibi- guaggio...la buona notizia è che esilità è garantita soltanto da un inter- ste anche la LIS: da ora in poi avrete prete LIS. Le nuove tecnologie in un modo in più per comunicare!

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Intervista a Luigia Rosato, det fondatrice del Teatro Sordo


ta Ginetta, in Italia Ginetta è sorda, figlia di genitori udenti. E’ stata membro del Dipartimento Arte Cultura Teatro e tempo Libero, sede Centro ENS di Roma. E una dei fondatori del Gruppo SILIS. Ha organizzato il convegno “La Televisione per i sordi – pag. 777”. Nel 2003, con il Gruppo SILIS, ha organizzato a Roma il convegno “I miei occhi ti ascoltano, le mie mani ti parlano”. Dal 1997 al 2006 ha realizzato i video-testi per docenti e studenti del Metodo VISTA. Ha partecipato a diversi congressi, workshop nazionali ed internazionali, nonché ad alcune conferenze in qualità di relatrice. E’ stata consulente LIS nel film di Liliani Cavani: “Dove siete? Io sono qui!”. «Sono nata in Puglia ma sono cresciuta a Torino nel collegio per sordi Assarotti, un tempo gestito da suore, con degli abiti un po’ bizzarri che ora non hanno più. Sono stata molto fortunata: sono state loro le mie prime maestre, appassionate di teatro, pittura, arte, astronomia e libri di vario genere. Oltre a spiegarmi materie come l’italiano e la matematica, la loro intenzione era quella di trasmettermi la “vera cultura”. Un giorno, aprendo l’armadio insieme alla suora maestra, vidi tanti libri... non sapevo a cosa servissero, cosa trattassero, e la suora mi spiegò che erano racconti di vicende varie, narrazioni. Allora provai a leggere un libro ma non avevo piacere nel farlo, a quel punto la suora prese il libro ed iniziò a leggerlo avendo una lettura dinamica, spostandosi col corpo, rendendomi il più possibile una visualizzazione del libro, come in un cinema una completa visione, e ne fui affascinata. Ogni giorno ci dedicammo al libro per cinque minuti e così il mio interesse aumentò di giorno in giorno. Ogni domenica nel collegio vi era il cinema, poi il lunedì la suora mi domandava che film avessi visto e io le raccontavo i contenuti. Mi domandava se fosse

Il mio incontro con Ginetta è avvenuto nel 2004. Ad unirci è stata la passione per il teatro: ho recitato e collaborato con lei per molti anni. Quello che segue è un estratto da una serie di video-interviste effettuate in occasione della stesura della mia tesi di laurea. Esse costituiscono un archivio prezioso: la mia speranza è infatti quella che inizi a sedimentarsi una memoria (video) a cui le giovani generazioni di sordi possano avere accesso per costruire la propria identità, conservando la consapevolezza della propria storia culturale. Il valore di Ginetta come persona, come interprete, come regista e, soprattutto, come iniziatrice del Teatro Sordo è tale da rendere urgente e necessario un articolo che la racconti. La nuova forma di teatro da lei introdotta per la prima volta in Italia, quel teatro sordo che invece negli altri paesi già esisteva da un po’, è tuttora vivissima e in continua evoluzione. A noi che abbiamo seguito le sue orme, non resta che rivolgerle, ancora una volta, la nostra più affettuosa gratitudine. Dario Pasquarella stata una bella visione o se il film mi avesse colpito. Mi chiedeva degli attori, ma più film vedevo e più i dubbi mi inondavano! Vedevo nei film diversi attori che avevano, per esempio, il ruolo prima di un padre, poi di altri, ecc.; la suora mi spiegò che gli attori potevano avere ruoli differenti pur essendo sempre la stessa persona. La maestra mi spiegò che per alcuni libri vi erano i rispettivi film, ma vedendoli con attenzione notai che la trama corrispondeva sì al libro letto, ma che mancava di tante parti, a ciò la suora mi spiegò che non potevano mantenere l’estensione del libro, altrimenti un film così poteva arrivare a 10 ore! Il libro può avere una scrittura libera ed espansiva, mentre il cinema deve effettuare dei tagli e seguire dei montaggi. Da lì capii l’importanza e la differenza di registro usato dal cinema. Mi piaceva molto il cinema, poi, crescendo, un giorno trovai un giornale e sfogliandolo vidi un articolo sul teatro: vi erano le battute elencate con una disposizione e una scrittura differente, allora chiamai subito la suora chiedendole che tipo di articolo fosse e la suora mi spiegò che si trattava di teatro. Ogni personaggio aveva la sua battuta, così iniziammo anche noi a leggerle una per volta; ricordo ancora il nome della commedia “I due fantasmi(ni)”. Capii da allora l’importanza dei dialoghi e in me si accese la consapevolezza e il piacere per il teatro. [...] Nel collegio di Torino dove sono cresciuta [...] proprio nella sala molto grande dove facevamo di solito la ricreazione, vicino al giardino, non potendo uscire per il freddo, in inverno, ci incontravamo lì, il suolo a terra era cementato, inventavo con altri bambini ruoli differenti e non avendo le scenografie, prendevo il gesso e disegnavo a terra delle case con delle porte, delle strade per creare un vero spazio scenico, dove potevamo muoverci e seguire una trama. Poi

mettevamo delle sedie per ricreare la platea. Ci incontravamo spesso, quando la suora che aveva la passione per il teatro scoprì il nostro “rituale”, ne rimase sbalordita e noi le facemmo vedere il nostro teatro per cinque dieci minuti. Ci aiutò a sviluppare la trama seguendo già le nostre dinamiche, a sviluppare un vero copione, noi in questo eravamo ancora un po’ asinelle, la suora ci aiutava a sviluppare il dialogo chiedendoci le nostre dinamiche e battute. A prove concluse, invitava persone esterne al collegio per venirci a vedere. Da lì iniziai con il teatro, tanto tempo fa. Il teatro per me, ma penso anche per la mia famiglia, è stato molto importante. Ricordo che nel 1950, con esattezza nel 1954, ci fu la diffusione della televisione, nel ’60 la sorella di mia madre, mia zia, comprò la televisione e potevamo finalmente guardarla con molto entusiasmo. La programmazione era molto scarsa. Nella mattinata non vi erano trasmissioni televisive, nel pomeriggio invece iniziava prima un programma per ragazzi di circa un’ora, poi alle 18,30 una piccola parte dedicata allo sport di trenta minuti, poi il vuoto, per poi arrivare alle 20.30 in cui veniva trasmessa una brevissimo telegiornale, ed infine per due ore e nella maggior parte di questi “vuoti” tra una trasmissione e l’altra, si potevano vedere spettacoli teatrali ai quali io e mia zia assistevamo sempre. Una volta non esistevano i sottotitoli e mi sforzavo di comprendere il labiale dei personaggi, mi aiutava molto mia zia, era il nostro rituale, era il nostro appuntamento fisso. Oggi trasmissioni sul teatro non ce ne sono, e se sono in programmazione, purtroppo l’orario è oltre la mezzanotte; all’epoca invece vi erano molte trasmissioni teatrali molto interessanti, e proprio grazie a ciò ho potuto capire e comprendere sempre di più anche la lettura labiale imparando così sempre di più.

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Ora che ci sono i sottotitoli, non mi cimento più nella lettura labiale, forse per pigrizia, ma con i sottotitoli almeno ho la sicurezza dei contenuti e dei messaggi, che prima, forse, non erano del tutto veritieri, chissà. Finii la scuola e in quell’anno, nel 1963, mi trasferii a Roma perché solo qui vi era la scuola media per sordi (Fabriani, che in quel periodo si trovava in zona Montesacro). I professori erano bravi ma non vi erano spiegazioni né di arte, né di cinema o pittura e così il mio interesse svanì, si spense. Si studiava il francese o lo spagnolo, pure il latino, ma nulla di arte. Fino a non che non vidi per la prima volta uno spettacolo dove vi erano attori sordi segnanti in American Sign Lauguage (ASL) con gli interpreti che traducevano. Lì mi ricordai dell’insegnamento della mia maestra sull’arte, come se tutti questi ricordi si fossero risvegliati e avessero ripreso vita in me! Poi vi furono le ricerche del Cnr, la ricerca scientifica che prendeva sempre più piede, l’esperienza del viaggio in America e gli studi di Elena Radutzky. Quando sono arrivata a Roma, essendo appassionata di calcio, facevo avanti e dietro tra Ostia dove si svolgevano i miei allenamenti di calcio femminile (a quell’epoca era-

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vamo dei “pionieri”), e Boccea (dove ero ospite), mentre in via Sannio, a S. Giovanni, frequentavo la scuola superiore (Istituto statale d’Arte – indirizzo arredamento); poi ho iniziato (nel 1969) la Scuola Statale d’Arte di Roma (indirizzo scenografia) a Via Ripetta. Ma non ho potuto terminare a causa dei movimenti studenteschi degli anni 70’. Dopo, nel 1971, ho trovato impiego in una Banca che ora non esiste più; si chiamava I.C.C.R.I. (Istituto Credito delle Casse di Risparmio Italiane) a Via San Basilio; vi sono rimasta fino al 2005. Ora questa banca è stata trasformata in albergo di 5 stelle di proprietà dei Boscolo. Soltanto successivamente è iniziata la mia avventura con Laboratorio Zero. Nel 1974, al teatro Sistina, di Roma, il Comune aveva organizzato una manifestazione teatrale internazionale. Insieme ad amici andai a questo festival dal titolo Città di Roma; tra le compagnie teatrali udenti che partecipavano, vi era anche una compagnia teatrale di sordi della Gallaudet D.C. University di Washington, che si presentava con una commedia, L’eredità (non ricordo il nome dell’autore) in cui gli attori segnavano in ASL (American Sign Language). La compagnia utilizzava un duplice canale di comunicazione con attori e interpreti. L’intero

spettacolo era accessibile ad una platea di sordi e udenti che potevano goderne nelle rispettive lingue, in American Sign Lauguage e in Italiano. Vidi per la prima volta uno spettacolo dove vi erano attori sordi segnanti in American Sign Lauguage con gli interpreti che traducevano. L’attore sordo veniva seguito ed affiancato da un udente che traduceva sul palco, mantenendo la stessa posizione e gli stessi costumi degli attori sordi. Nell’ambito di quello stesso Festival, nel monologo di Anton Checov, dal titolo “Sul danno del tabacco”, vi era invece una traduzione simultanea. L’impatto fu notevole e di grande formazione. Da lì a breve il momento della nascita della compagnia teatrale romana era imminente. Per me la letteratura è una passione, quando leggo la mia fantasia vola e mi sembra di poter viaggiare e incontrare tanti personaggi diversi. Cerco di spronare altri sordi alla lettura ma non ho risposta. Allora ho pensato che il teatro potesse essere come un libro aperto. Come un modo per dire: non ti piace leggere? Allora guarda! Perché anche il teatro, come i libri, racconta. E’ anche un modo, per dare un po’ di cultura al pubblico, per accrescere la cultura del pubblico. Questo era il mio pensiero quando ho iniziato, poi con il tempo il mio obiettivo è diventato proprio il teatro, grazie agli insegnamenti della suora che è stata mia maestra. Lei era di origine nobile, era cresciuta a Venezia e mi ha insegnato tantissimo di teatro, cinema, letteratura, pittura. Forse c’era già qualcosa in me, ma lei ha saputo curare questa mia passione e accrescerla. Io, Lucilla Masi e Luisella Zuccotti iniziammo ad organizzare un progetto per creare un’idea che a breve ci avrebbe portate alla nascita della compagnia sorda. Iniziammo a cercare appassionati o quantomeno aspiranti attori, ma nessun uomo era disponibile, presi com’erano dal calcio, oppure sdegnosamente convinti che si trattasse di un’attività adatta a sole donne. Cercai quindi una soluzione, fino a quando non trovai un copione adatto a un gruppo di sole donne: “La casa di Bernarda Alba”. Iniziammo i lavori ma serviva un regista. Io non avevo mai avuto questo ruolo, ma ebbi la fortuna di incontrare una persona che mi aiutò, Cufaro Tonino. Il luogo d’incontro era alla sede dell’ ENS a via Gregorio VII. Dopo il primo spettacolo che ebbe successo, mi chiesero di fare altri spettacoli ed io accettai, e man mano che la mia esperienza cresceva i miei spettacoli aumentavano.


Non ho mai pensato di essere una regista, il mio incarico di attrice era già importante, ma ci fu un evento che segnò il passaggio a regista. Infatti durante la mia collaborazione con questo regista udente, egli, stranamente, voleva mettere in scena uno spettacolo di quattro ore, ma durante una trasferta a Frosinone io ripresi in mano il tutto e diminuii lo spettacolo tagliando parti del copione, fino a quando lo spettacolo non risultò di due ore. Il regista udente, che osservava lo spettacolo in platea, dapprima si infuriò perché avevo tolto parti del copione e perché non lo avevo avvertito, ma poi mi disse che ero pronta ad assumere il ruolo di regista. Il mio operato e il copione funzionavano, e così mi disse di continuare da sola. Vedeva in me delle capacità e potevo continuare il mio percorso. Dunque iniziai la mia avventura, ma io non potevo occuparmi delle musiche e dei rumori e questo è stato un problema. Così dovetti lavorare con una persona udente, e solo la fiducia che nutrivo nei confronti di questa persona ha potuto in qualche modo rassicurarmi. E così è stato finora, c’è stata fiducia, e anche ultimamente alcuni udenti hanno manifestato il loro interesse per una collaborazione, e io vorrei che i sordi si rendessero conto che è una possibilità vera, che si può raggiungere una cultura di pari livello. La mia pas-

sione per il teatro non si è mai spenta, continua, ma le energie non sono più quelle di una volta. Ho imparato come programmare, come strutturare uno spettacolo e questo grazie alla mia esperienza di trentacinque anni. Ora vedo che il mondo del teatro, il mio mondo, non ha una spinta né incoraggiamenti da parte di nessuno; almeno qui in Italia non c’è, invece in altri paesi dell’Europa quali Francia, Russia, Norvegia vengono investite grandi risorse, viene dato un forte supporto. Spero in una rinascita, in un cambiamento culturale, perché per me è fondamentale, oltre ad essere molto bella, la conoscenza della cultura e dell’arte: apre le coscienze, raffina la lingua dei segni; perché se il tetro non esistesse, la comunicazione, fuori di qui, la nostra segnatura quotidiana, non conoscerebbe la raffinatezza della lingua dei segni utilizzata a teatro, quella costruzione della frase, quella segnatura pulita che è fondamentale, che, almeno per me, è così importante. Non mi lascio influenzare da altri segnati. Adesso vedo che si segna e si parla tranquillamente. Io avevo promesso alla suora che avrei parlato e che non avrei segnato. Questo dal ‘63 fino al ’70. Poi tutto è cambiato: ora serve riscoprire le potenzialità della nostra lingua dei segni. Vedremo in avanti cosa accadrà! Io continuo a sperare.»

Dopo ben 30 anni dalla fondazione di questa Compagnia Teatrale, la prima tra le compagnie teatrali formate da persone sorde, abbiamo un documento, un libro, all’interno del quale cu si può trovare tutto quello che c’è che sapere sul Laboratorio Zero, dalle sue nascita ad oggi: “Laboratorio Zero 1977-2008”, a cura di Ginetta Rosato, Edizioni Kappa. L’opera di Ginetta Rosato le è valsa nel tempo alcuni premi: essi rappresentano altrettante tappe nella crescita del Teatro Sordo. Per questo è fondamentale che se ne mantenga memoria, per non dimenticare mai la strada fatta per arrivare fin qui. Premi: - 4° Festival Nazionale Teatrale del Sordo 2003, premio primo commedia “Il Cilindro” di Eduardo De Filippo - Premio Speciale C. Fornassini per il Migliore percorso didattico (2003/04) . - Riconoscimento in occasione del 76° Anniversario di Fondazione E.N.S. (2008) . - Riconoscimento da “Sostieni le mie mani” Leonardo da Vinci (2009). -Ministero Istruzione Universitaria e Ricerca (2011). - VI° Festival Nazionale Teatrale del Sordo 2013,, secondo premio per la commedia “Tredici a Tavola”, di MarcGilbert Sauvajon. - VI° Festival Nazionale Teatrale del Sordo 2013, Migliore Regista.


Venga a prendere il caffè da me E’ compito della padrona di casa servire il caffè. Deve essere servito sempre in salotto. Anche dopo un pranzo, l’ospite si fa accomodare in salotto e con il vassoio si serve dalla caffettiera. Se si usano le cialde o la macchina del caffè, si può già portare versato nelle tazzine. La padrona di casa a quel punto, dovrebbe chiedere all’ospite:” quanto zucchero? Gradisce un po’ di latte o panna?”. In caso di risposta affermativa sarà lei stessa ad aggiungere quanto chiesto e poi a porgere la tazzina che deve poggiare sul piattino, con il manico rivolto a destra ed il cucchiaino sullo stesso lato. La leggenda narra che Elena, quando era ancora moglie di Re Menelao, già allora non mancava di servirlo agli ospiti.

Confuso e infelice di Catia Marani Andrea è un bel tipo sulla quarantina, castano, con la barba di qualche giorno che gli conferisce un’aria di finto trasandato. Sposato e da qualche anno separato. Quando una donna incrocia il suo sguardo pensa che è uno di quelli a cui le donne non mancano di sicuro. Ed invece si svela come il personaggio di una delle tante novelle pirandelliane il cui filo conduttore è la grande solitudine dovuta alla mancanza di un amore a causa della grande difficoltà di sentirsi capiti, perchè quello che è considerato “valore” per l’uno non lo è per l’altra; Andrea è un uomo solo, solo con se stesso, che vive la mancanza di una donna che crede nell’amore come un peso troppo grande da sopportare. Solo, perché lui per primo non crede più che una donna possa innamorarsi di lui e viceversa. C: Andrea, in questo momento sei single? A: Non lo so. C: Scusa, ma è una strana risposta per una domanda tanto semplice, non credi? A: Per rispondere dovrei chiedere prima alla lei con cui mi vedo regolarmente ogni fine settimana. C: Posso chiederti di spiegarti meglio, ora mi hai incuriosito... A: Sono separato da dieci anni e ormai divorziato, ma da quattro ho una relazione sentimentale con una ragazza, ragazza si fa per dire dato che ha quarantadue anni. Ci vediamo soltanto nel fine settimana. Dal lunedì al venerdì lei vive in un’altra città, dove lavora, ha la sua casa e le sue amiche.

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Poi il sabato, quasi sempre è lei a raggiungermi, viviamo due giorni a casa mia. Stiamo abbastanza bene insieme quando ci vediamo, ma senza nessun “impegno”. C: “impegno” inteso come? A: Come progetto, non abbiamo un progetto comune. Una volta le avevo fatto intendere che avremmo potuto provare a vivere insieme e smettere di fare i pendolari, ma non mi sono visto buttare le braccia al collo. Neanche un attimo di emozione, anzi in poche parole mi ha fatto capire che una convivenza avrebbe potuto diventare una minaccia per il nostro rapporto. ”Non posso condividere tutto con te, ho bisogno di mantenere per me alcuni spazi”. Proprio il mese passato, si è assentata perchè si è organizzata con la sua amica per trascorrere qualche giorno di relax in una località sciistica, senza chiedermi neppure se volevo andare anch’io. E’ una specie di rito tutto al femminile che facevano già prima che ci mettessimo insieme e rinunciarci le sarebbe dispiaciuto troppo. Dice che non c’è nulla di male, ma io non l’ho mai fatto per rispetto nei suoi confronti. Non pianifico mai nulla senza aver sentito prima anche lei. C: Quindi tu vorresti condividere tutto con lei e ti infastidisce la sua indipendenza? A: Premetto che ho rinunciato a capire le donne sin dai ai tempi del mio matrimonio quando mia moglie mi tradiva e, anche dopo che aveva ammesso di non amarmi più, pretendeva che continuassimo a stare insieme come se nulla fosse successo perché c’erano di mezzo due bambini e non riteneva giusto sfasciare la famiglia separandoci (ma a questo doveva pensarci prima di fare cazzate....).


Oggi le capisco ancora meno: un amico comune ci presenta alle cinque del pomeriggio e senza sapere quasi nulla l’uno dell’altra, la sera stessa eravamo a letto insieme a casa sua. A distanza di quattro anni nel nostro rapporto non si è aggiunto niente. Fra noi questa è l’unica intimità. Mangiamo insieme solo se andiamo al ristorante, lei non sa cucinare e non le interessa imparare ( ma mangia volentieri a casa se preparo io). Non mi ha mai chiesto di conoscere i miei figli. Non di rado mi ha rimproverato di non avere idee su come trascorrere i nostri fine settimana, ma ogni volta che propongo qualcosa da fare storce il naso: al cinema le dà fastidio stare seduta al buio, nei musei c’è aria viziata, visitare nuove città è stancante, frequentare i mei è da mammoni... e così via. A volte vorrei aprirle la testa per vedere cosa c’è dentro. Altre volte è dolcissima. Un delirio. C: Scusa, nonostante due figli hai lasciato tua moglie seppure per una giusta causa, perché non lasci anche lei se ti sembra di portare avanti una relazione troppo complicata? A: Ho provato a interrompere il rapporto ma ho sofferto molto a starle lontano. Non mi interessava un’altra. Tanto le donne sono tutte uguali: isteriche, lunatiche e un po’ mignotte, scusami, naturalmente non ho chiamato in causa le presenti... C: Mamma mia, sei peggio di uno che è stato morso da una vipera! Ma i rapporti con la tua ex come sono? A: Apparentemente civili, ma sotto sotto pessimi. Sono sicuro che lavora di nascosto per mettermi in cattiva luce agli occhi dei miei figli. Sento che li stò perdendo per colpa sua. (Ora ha gli occhi lucidi, non intendo quindi insistere sull’argomento).

C: Quale tratto del carattere in una donna apprezzi più di tutti? A: La dolcezza e l’onestà. C: Preferiresti avere al tuo fianco una compagna bella e un po’ freddina o una non attraente ma molto dolce? A: Posso scegliere di stare da solo? C: Faresti l’amore con una donna solo per attrazione fisica? A: No, quello è fare sesso. Per fare l’amore devo innamorarmi o credere di esserlo. C: Sei innamorato in questo momento? A: Non sò, quando non c’è mi manca, ma mi imbarazza mettere a nudo i miei sentimenti. C: C’è un errore che non rifaresti con le donne? A: Credo che non mi separerei più. Se fossi rimasto con la mia ex ora i miei figli avrebbero una famiglia ed io avrei potuto fare i fatti miei restando a casa con loro. C: Che tipo di uomo sei con la tua donna? A: In generale credo di essere un uomo per bene con chiunque, sono uno che in certi valori ci crede, ma ora come ora non so più se l’onestà nella vita e nei rapporti sentimentali premia. C: Allora è meglio simulare in amore? A: E’ sbagliatissimo, eppure le donne sono maestre in questo. Guarda, non lo dico io, lo dice la scienza che noi per propensione biologica, grazie al testosterone, siamo più sinceri. C: Esiste una donna di cui ti fidi? A: Certamente si, mia madre. C: Scusa, zucchero, latte o panna? A: Zucchero, tre grazie, mi piace dolce, anzi, dolcissimo.

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Espiazione

Il caldo, il comodo, il cibo Emerenziano Paronzini, impiegato al Ministero delle Finanze ed invalido di guerra, viene trasferito a Luino in qualità di vice-capoufficio. Si dimostra da subito intransigente sul lavoro, soprattutto con i raccomandati con poca voglia di lavorare, ma al tempo stesso non riuscendo a trattenere la sua lubrica personalità, applicando i principi dello scrittore Paolo Mantegazza, arriva per comodo a sposare una delle tre ricche, brutte e zitelle, sorelle Tettamanzi, che le avrebbe potuto garantire, alla sua attempata età, anche caldo e cibo. Di ritorno dal viaggio di nozze non perde tempo e inizia a sollazzarsi pure con le altre due sorelle, le quali avevano perso la speranza di trovare un marito. La situazione

perdura felicemente fin quando intento ad accontentare giornalmente sia le tre sorelle che la cameriera, (per la serie un po’ per ciascuna non fa male a nessuna), viene colto da ictus e finisce in carrozzella, muto, servito e riverito. La commedia cinematografica “Venga a prendere il caffè da noi” (1970), diretta da Alberto Lattuada, è tratta dal romanzo di Piero Chiara, la”Spartizione”. E’ ambientata in un paese di provincia, (da nord a sud avrebbe potuto trovarsi ovunque), che nel film viene identifica con quella varesina. Il regista descrive scanzonatamente le miserie e le ipocrisie di una società specchio deformante delle relazioni umane complesse e con-

Dedicata a Lui Dolce Rompi – di Adriano Celentano (1987) Starmene tranquillo solo in casa mia senza quello spillo del tuo sguardo che mi spia cosa c’è di meglio del disordine cosa c’è di meglio che mangiare quel che c’è e abbondar con l’aglio anche se non vuoi cara dolce rompi tanto non ci sei. Cosa c’è di meglio di un caffè anche se lo zucchero non c’è anche senza te, anche senza te. E se il prezzo della libertà è di stare soli ci si stà soli anche se penso ancora a te. Ho telefonato a un amico o due ma eran sorvegliati e li ho sentiti sulle sue giorni di sbadigli notti di TV forse stavo meglio proprio quando c’eri tu tanto tu sei quella che non sbaglia mai cara dolce rompi torna appena puoi. Cosa c’è di meglio di un caffè di una notte sveglio accanto a te solo accanto a te solo accanto a te me lo avevi detto te di una notte sveglio accanto a te solo accanto a te solo accanto a te me lo avevi detto e lo scordai tu sei quella che non sbaglia mai che non sbaglia mai, che non sbaglia mai che non sbaglia mai, che non sbaglia mai Cara dolce rompi dolce rompi cara.

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fuse di un’interno famigliare. Il menage matrimoniale, e non solo, che Emerenziano imbastisce, potrebbe sembrare lontano anni luce dalla realtà di oggi, ma appare sicuramente lo stesso nascostamente sognato dai nostri uomini, compagni e mariti, a tutt’ora desiderosi di garantirsi il caldo, il comodo ed il cibo. Uomini che non si ritrovano più in una società oggi gestita anche dalle donne, insoddisfatte del loro ruolo, sempre di corsa e non più disponibili solo a dare ma spesso a chiedere la collaborazione dei loro compagni, trasformando ai loro occhi il rapporto di coppia in qualcosa di freddo e scomodo.


Facciamolo fare a loro Che cosa facciamo quando ci troviamo a parlare insieme fra donne? Quasi sempre sparliamo di loro: “Mio marito è buono, è bravo, è sensibile ma in casa è un peso morto.” Ora però facciamo un po’ di autocritica ammettendo che in parte è anche vero che pretendiamo che le cose vengano fatte a modo nostro, soprattutto se si tratta di faccende domestiche. Non ci accontentiamo che la spesa sia stata fatta, pretendiamo di trovare in frigo quella marca di jogurt, o che le fette di petto di pollo siano non più alte di 0,50 cm. altrimenti comincia a montarci il nervoso. Così facendo annulliamo qualsiasi cenno di buona volontà incoraggiandoli a pensare che è meglio restare all’angolo a guardare noi che ci trasciniamo 20-30 chili di carrello pieno, dal supermercato alla macchina dopo essere uscite trafelate dal lavoro, per poi tornare a casa col pensiero che quella “roba” bisogna scaricarla fino in cucina e cucinarla. Che siamo delle accentratrici lo dice anche l’Istat: il 76% del lavoro domestico lo facciamo noi. Eppure non di rado scopriamo che anche un uomo può fare certe cose come o anche meglio di noi: spesso vengo invitata a casa di

una coppia di amici che con piacere organizzano cene. L’80% di quello che servono è preparato da lui ed è sempre tutto squisito. Durante la cena non di rado ci dà consigli su come rendere il cibo più gustoso. L’altra sera ha servito delle bistecche di collo di maiale che aveva precedentemente messo a marinare per una intera giornata con tutte le specie di erbette che vi vengono in mente, olio, vino, sale, aglio, abbondante pepe e buccia di limone grattugiata. Dopo averle tolte dalla marinatura le aveva panate passandole prima sulla farina, poi sull’uovo e ancora sul pangrattato. In una teglia ricoperta da un foglio di carta da forno aveva steso le bistecche dopo averne intaccato i bordi per evitare che si arricciassero e prima di cuocerle in forno a 250° C per circa 20 minuti, le aveva irrorate con la marinatura e insaporite di nuovo con olio, sale e pepe. Un piatto buonissimo e neppure costoso. Un elogio a Giampaolo, bravo a cucinare che non si considera un martire o un eroe! Ah, dimenticavo, c’è pure il segreto: vanno preparate poco prima di metterle al forno, altrimenti perdono la loro croccantezza.

Mode & Modi: Uffa che Barba! La barba è uno dei caratteri secondari maschili, che segna il passaggio dall’adolescenza alla maturità. Tanti gli uomini giovani e meno giovani che hanno scelto di seguire la moda di farsi crescere la barba. Oggi è segno di virilità e seduzione, anche se contrasta con la tendenza di molti a radersi il petto. Aggiustare la barba, richiede molta più pazienza e metodo rispetto alla rasatura totale, che sembra impegni i nostri uomini in media cinque mesi della loro vita! Molti sono coloro che pensano, a torto, che la barba incolta sia più comod. Sì, perché la crescita casuale della barba non viene più contemplata dagli uomini attenti al look. Mantenere la propria barba richiede cura costante e l’utilizzo di diverse strumentazioni. Lasciare la barba lunga non fa quindi risparmiare tempo, e probabilmente chi in questo momento fa questa scelta lo fa per seguire l’ultimo dettame imposto dalla moda maschile. Numerosi sono i modi di dire che si ispirano alla barba: “Alla barba di...” significa compiere un’azione a dispetto di...; “fare la barba agli asini” significa fare una cosa stupida e inutile”; “Servire di barba e capelli”, farla pagare a qualcuno; “Farla in barba”, contravvenire ad una regola con astuzia; “stare in barba di micio”, trovarsi in una situazione comoda: “Prender Pietro per la barba”, negare l’evidenza; “Non vè barba di santo”, quando una situazione difficile è senza soluzione; infine, “Far venire la barba”, si dice di una situazione noiosa o di una conversazione troppo lunga, oppure per riferirsi ad una persona troppo assillante. Se un uomo non la tagliasse mai, potrebbe raggiungere quasi 9 metri di lunghezza. Esiste anche una fobia per la barba e si chiama pogonofobia. Sembra in chi ne soffre, che la barba, susciti ingiustificatamente diffidenza e paura. Durante l'era antica vi era l'usanza, come a Sparta, di obbligare i codardi a far crescere la barba in un solo lato del viso, in modo che fosse facile distinguerli anche a distanza. Chissà perché, le buone usanze si perdono sempre nella notte dei tempi.

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Lettera d’Inverno di Chiara Mancuso

Mia cara figlia, Il dolore è una strana malattia, che si attacca sulla pelle come aghi di ghiaccio soffiati dal vento... È questa casa fredda, dove condivido i miei digiuni con i miei silenziosi pianti. Ecco una lacrima fugge via senza rumore, come un candido fiocco di neve, mentre cammino a testa bassa in mezzo ad una folla che non mi vede: sola, eppure in tanta festosa compagnia, osservo le luci che illuminano le vetrine e le finestre delle case, in un bagliore intermittente, davanti al quale tu ti perdevi per ore, sotto un incanto fatto di lustrini e filastrocche di cui non ho più memoria. Un altro fiocco si poggia sulla mia fronte, e mentre tiro giù il mio cappuccio, tutta la gente intorno a me è già fuggita via, al riparo dal freddo: il silenzio copre ogni cosa, con il suo velo ghiacciato, copre anche me, poggiandosi sulla mia pelle come i baci di un frettoloso amante distratto. I rami neri e spogli degli alberi sono dita nodose che sembrano implorare il cielo, che muto sof-

fia la sua malinconia. Un mendicante cieco si trascina sulla neve, chiamando qualcuno che non risponde, lasciando tintinnare le sue monete, quasi come per farsi compagnia, perso nell'ombra di chi non lo vede. Il dolore, amore mio, è una donna che cammina in mezzo ad un bosco di ghiaccio, è lo stridore del fuoco che consuma i ceppi neri, è un calice di lacrime amare che sorseggio piano in questa notte troppo fredda che non mi lascia dormire, è una coperta troppo corta e ruvida che mi graffia la pelle della faccia e mi lascia scoperti i piedi, è un mantello lacero che non ripara più dal vento, è una mano fredda, che, sola, cerca conforto in una tasca bucata. È una lama che gelida ti trapassa il petto, è una valigia che non riesci a portare e che trascini con i piedi, con la paura che ti si possa aprire per strada e vomitare tutto il suo contenuto lì, in mezzo all'incrocio, dove qualcuno potrebbe vedere e calpestare quelle cianfrusaglie che ti porti dietro: il maglione vecchio e bucato di cui non ti vuoi disfare, i calzoni rammendati, perfino la

tua maglietta portafortuna, ormai stretta e scolorita... Quante volte l'ho rammendata nelle sere d'inverno davanti ai tuoi occhi lucidi pieni di sole e di speranze, da sembrare che i sogni non avessero bisogno della notte per cominciare a vivere. Il profumo della cannella e dell'arancia riscaldava la stanza e le tue gote erano rosse, mentre sorseggiavi la tua tisana preferita: riecheggia ancora la tua voce in queste fredde ore, mentre stringo la tua vecchia maglia; le tue impronte sono ancora sui vetri e non ho avuto il coraggio di cancellare quel piccolo cuore che avevi disegnato di nascosto, prima che ti rimproverassi. Ma, adesso, tu dormi, come le principesse delle favole che ti raccontavo da bambina, dormi, fra la vita e il cielo, dormi, in questo sonno che ti porta lontano da me, lontano dal giorno: chissà se sogni in questa tua notte pallida e muta, come il gelo che brucia i fiori ancora in boccio? Chissà quali mondi fantastici ti accolgono adesso? Sono come quelli che disegnavi in fretta nelle tue fughe dal mondo?

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Ed ecco, il dolore, questo dolore che mi soffoca nel petto mentre ti guardo, il dolore è vedere i tuoi occhi chiusi, le tue gote pallide; il dolore è ascoltare il tuo silenzio, scandito solo dal tuo respiro lento, simile ad un sospiro sospeso nell'aria. Stringo le tue mani fredde, cercando di scaldarti, o di scaldare me stessa: dalla finestra si vede ancora la neve cadere più in fretta. Svegliati amore mio, e andrai

ancora a gettarti sulla neve ed io ancora ti chiederò di coprirti meglio, di non prendere freddo. Svegliati, il giorno non può chiamarsi più giorno se non sarai tu ad illuminarlo con il tuo sorriso, svegliati, perché non ci sarà più la luna in cielo, finché i tuoi occhi non si perderanno ancora a contare tutte le stelle, svegliati, perché finché tu dormirai, questo inverno non riuscirà a passare... Svegliati, perché finché dormi-

rai non ci sarà canto d'uccelli, ne' musica nelle piazze; i ruscelli non scorreranno più, congelati nella stessa forma in cui li hai lasciati. Io sarò qui, ad accogliere i tuoi pianti e i tuoi sorrisi; io sono qui, stringo le tue paure fragili e tengo a bada i mostri che si aggirano nel buio. Io sono qui, dove mi hai lasciata. Un bacio sulla fronte ed un bacio sul cuore.

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Foro Mussolini “orgia di culo fascista” Nel settembre 1984 FMR dedicò parte di un numero della rivista allo Stadio dei Marmi di Roma, il Foro Mussolini, realizzato nel 1932 interamente in marmo di Carrara con 60 statue inviate dalle 60 Province italiane. Sul piano plastico fu una innvazione radicale e del tutto imprevedibile per il contrasto con la storica delicatezza, quasi effeminatezza, delle statue greco-romane, ma anche michelangiolesche, completamente scalzate da figure maschili decisamente “nordiche”. Ma quel che più colpì allora e che lascia ancora oggi, come dire, perplessi, fu l’audacia dei nudi maschili perfettamente delineati nelle loro “dotazioni anatomiche”. Così scriveva l’editoriale attribuito a Franco Maria Ricci:

“Mussolini, interprete per parte sua di una pubblica e focosa eterosessualità, ha legato il nome a un monumento che sembra realizzare, in chiave gigantesca, un sogno gay. Persino la nostra epoca permissiva rimane interdetta di fronte a "tutto quel culo fascista", come lo chiama con bella franchezza Arbasino, e ci appare comprensibile che nel dopoguerra, in circostanze storicamente non ancora accertate, si sia tentato di moralizzarlo con foglie di fico e mutande.”


Anni e anni addietro, un giovane urbanista, oggi commendatore, che aveva passato la sua infanzia in Svizzera durante la guerra, amava rammentare: "si andava spesso al consolato italiano solo per vedere i manifesti di propaganda del Foro Mussolini, perchÊ - capite? - tutto quel culo fascista mostrato cosÏ sfacciatamente dava l'idea che la cara patria fosse diventata, in certe cose e in nostra assenza, un paese (come dire?) molto audace e molto strano� Alberto Arbasino




Una virilitĂ , a ben riflettere, troppo ostentata e quindi anche sospetta. E' vero che gli ignudi maschi di marmo e di bronzo attiravano gli sguardi maliziosamente ammirati delle Giovani Italiane, ma probabilmente esorcizzavano anche le frustrazioni e le impotenze di tanti anonimi e gracili fascisti, e accontentavano le preferenze estetiche di qualche gerarca dai gusti particolari. Carlo Cresti


Il Palazzo delle Nove Perfezioni


Due poesie di Mao Zedong Lunga Marcia L’Armata Rossa non teme la fatica di una lunga marcia; per loro mille montagne, diecimila fiumi, sono nulla; per loro le Cinque Montagne non sono che piccole onde e i picchi montani del Wumeng soltanto palle di fango. Calde sono le rupi immense bagnate dal Fiume Sabbia d’Oro, fredde le ferree catene che il fiume Tatu attraversano. Le eterne nevi del Minshan li rendono più felici: l’Armata le ha valicate, ed ogni viso sorride..

沁园春 《雪 》 北国 风 光, 千里 冰 封, 万里 雪 飘。 望长城 内外 , 惟馀 莽 莽; 大河 上 下, 顿失 滔 滔。 山舞 银 蛇, 原驰 蜡 象, 欲与天公 试比 高 。 须 晴 日, 看红妆 素裹 , 分外 妖 娆。 江山如 此 多娇 , 引无数英 雄 竟折 腰。 惜秦皇 汉武 , 略输 文 采; 唐宗 宋 祖, 稍逊 风 骚。 一代 天 骄, 成吉 思 汉, 只识弯弓 射大 雕 。 俱往 矣, 数风流 人物 , 还看 今 朝。

七 律 《 长征 》 红 军 不 怕 远征 难 , 万 水 千 山 只等 闲 。 五 岭 逶 迤 腾巨 浪 , 乌 蒙 磅 礴 走泥 丸 。 金 沙 水 拍 云崖 暖 , 大 渡 桥 横 铁索 寒 。 更 喜 岷 山 千里 雪 , 三 军 过 后 尽开 颜 。

Neve E’ in questo il paesaggio delle terre del Nord: centinaia di leghe strette nella morsa del ghiaccio, migliaia di leghe sotto la neve roteante. Ai due lati della Grande Muraglia È tutto immenso quello che vedete. dalla sorgente alla foce del grande fiume gelida è l’impetuosa corrente, ghiacciata. Le montagne scivolano via come serpenti d’argento gli antipiani ondeggiano come bianchi elefanti di cera; sembra che col cielo vogliano gareggiare in altezza. Ma basta un giorno di sole, e un drappo purpureo gettato sopra il bianco susciterà nuovi, più dolci incanti. Son tanti gli eroi che si sono inchinati, in omaggio, davanti alla grande bellezza di questa natura; ma quali eroi, ahimé! – Chin Shin Huang e Wu Ti erano uomini di ben scarsa cultura; e molto mancavano di talento letterario i primi imperatori delle stirpi Tang e Sung. Genghis Kan, l’adorato Figlio del Cielo, sapeva solo tendere il suo arco contro le aquile dorate. Ora tutti sono passati, lontani nel tempo; per trovare uomini veramente grandi, di nobile cuore, noi dobbiamo cercare nel nostro tempo presente.


黃鶴樓 茫茫九派流中國 沉沉一線穿南北. 煙雨莽蒼蒼 龜蛇銷大江 黃鶴知何去? 剩有遊人處. 把酒酹滔滔 心潮逐浪高! Torre della gialla gru Sconfinate le nove acque corrono tutta la Cina l’Affondo di una sola linea perfora il paese da sud a nord. E fumi, poi piogge, e erbacce, rigogliose e cineree e verdi monti della tartaruga e del serpente fusi nel grande fiume. Sai che la gialla gru sen’è andata? Quel che rimane è un posto per turisti getto una coppa di vino che schiuma nel fiume Anche il mio cuore si solleva con la sua onda! (Mao Zedong)


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