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Aci Castello Amarcord

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Caro sindaco

Caro sindaco

Potrei raccontare Aci Castello in tanti modi, sfruttando una immaginazione, la mia, che a mettersi a correre, non ci mette niente. Ma, a volte, la vita ti mette davanti delle occasioni talmente perfette che, ti mettessi di buzzo buono con la fantasia, non riusciresti a replicarle. Perché i viaggi attraverso le curve della memoria possono costruirsi a tavolino, ma niente sarà come compierli quando è il caso a fornirtene l'occasione. Così, in un caldissimo pomeriggio di metà luglio, mentre mi recavo in piazza per la consueta "vasca" preserale, richiamato dal vociare proveniente dall'oratorio San Mauro mi sono fermato in prossimità del portone d'ingresso. Qui ho incontrato il mio amico Marcello, compagno di pallavolo per una intera vita, tra Volley Club e Pallavolo Aci Castello. Dentro si stava svolgendo l'appuntamento conclusivo del Grest estivo. Tantissimi bambini, divisi in squadre, o semplicemente raggruppati per attività, e i genitori a scattare loro foto dalla tribuna. In realtà non si tratta altro che di un gradone di cemento armato, in quelle ore ancora infuocato dal battere implacabile del sole nelle ore meridiane, appoggiato al muro del palazzo prospiciente. Il fatto è che i genitori, altri non erano che i miei amici d'infanzia e di adolescenza. Ed è stato un attimo. Ad un certo punto è accaduta una cosa, nella mia percezione. Come se un regista fuori campo avesse dato lo Stop!, e tutte le persone lì dentro si fossero improvvisamente paralizzate. Me compreso. Tutti fermi, come statue. Mi sono rivisto bambino, con il pallone sottobraccio, nelle mattine estive. La mia immaginazione ha preso a ricostruire tutta l'intera scena, per come si svolgeva. Dunque, prima mi fermavo a far colazione nel Bar Viscuso, gestito dal Cavaliere Sebastiano e da suo figlio Nino. Tra la pasticceria aperta nel 1935 proprio di fronte alla chiesa di San Mauro e il chiosco gestito in piazza dai primi anni '60 fino alla fine degli anni '80, hanno segnato una pietra miliare della pasticceria catanese. La vera ricetta delle paste di mandorla è custodita negli appunti scritti a penna dal Cavaliere,

la piazza, l’oratorio e i mitici anni novanta

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di Luigi Pulvirenti

simbolo di una identità che ha attraversato una guerra per giungere a noi bambini praticamente intatta. Una volta che vi entrai con mio padre, lo vedevo ridere sotto i baffi bianchi. «Cavaliere, perché ride», gli chiese mio padre. «Santo, te lo ricordi quando durante la guerra mi rubavate le caramelle di carrubba?». «Certo, Cavaliere». «I vostri figli me le hanno tornate tutte, a iris e panzerotti», e giù a ridere tutti e tre. E, appunto, dopo il classico panzerotto consumato di corsa, eccomi che corro dentro insieme a Meme, Alfio, Salvo, Lele, Turi, Carlo, Giuseppe, Antonio, Nino, Diego, Massimo, Christian, Fabrizio, Filippo, Maurizio, Francesco, Ciccio, Alessio, Sergio, Mauro, Ninni, Concetto e tutti gli altri che sto dimenticando.

E NOI RIPRENDEVAMO LA NOSTRA PARTITA, SOGNANDO CHI DI ESSERE VAN BASTEN, CHI MARADONA, CHI MATTHEUS, CHI CIPRIANI. ED ERAVAMO SOLO BAMBINI DI UN PAESE, AI MIEI OCCHI, IERI COME OGGI, MERAVIGLIOSO

Facciamo la conta e cominciamo interminabili sfide da porta a porta, poi a mischia tedesca, poi cinque contro cinque: si arriva a quattro gol, chi perde esce. Accaldati, stremati, usciamo di corsa e sempre di corsa percorriamo tutta la via Marconi per poi prendere le scale del pozzo e, da lì, subito all'ingresso del Lido Aci Castello, per arrestare la nostra corsa con un tuffo in acqua, e facciamo a chi arriva primo allo Scoglitto. C'era tutto un mondo che girava intorno e sotto le assi del Lido. I percorsi per entrare scavalcando senza farsi vedere da don Alfio, il gestore,oppure l'arrivo via mare, dopo aver lasciato gli abiti sulla Praca e aver attraversato a nuoto lo stretto braccio di mare che li separa. E se non volevi arrivare a nuoto bastava fare il percorso sugli spuntoni di roccia lavica, passando oltre la brevissima galleria che attraversa lo scoglio dei tuffi e da lì per le piscinette di acqua salata si arrivava all'ultima fila di cabine. Conoscevamo a memoria il percorso da fare, i passi precisi da compiere e dove poggiare i piedi ed eri davvero bravo solo se riuscivi a compiere il percorso netto senza mai aiutarti con le mani per mantenere l'equilibrio. L'ultimo passo era per arrivare sullo scoglio di fianco alla scala, dove erano appoggiate alcune delle travi portanti, da lì eri finalmente dentro il Lido. Le file in attesa ai videogiochi, alle docce, aspettare il proprio turno per gettarsi dal trampolino e le gare di tuffi dallo scoglio romano; le gare di pallanuoto da scoglio a scoglio, impersonando i protagonisti di Italia '90: tu 'Nkono, io Higuita, lui Goigoechea. Quella volta che unimmo insieme i nostri canotti con le cime creando una specie di buffo mostro anfibio con il quale volevamo addirittura arrivare all'Isola, naufragando poco dopo lo Scoglitto. E quando arrivava la stagione delle mareggiate, tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, tutti allo scoglio delle correnti a prendere le onde in faccia; qualche volta capitava di essere sbalzati indietro praticamente fin sotto il Lido, incoscienti e sprezzanti del pericolo mentre le nostre mamme urlavano dalla piattaforma che se non morivamo da soli ci avrebbero pensato loro appena usciti dall'acqua. A proposito: quando si usciva dall'acqua? Le mattine erano un unico, lungo bagno, intervallato sporadicamente da brevi pause per vedere come procedesse la solita mano di tressette tra le due squadre composte da Piero Puglia e il Cicchitto, da un lato, Carlo Russo e mio zio Mauro il Portorico, dall'altro. Il sabato e la domenica mio padre e Giovanni Catalano ormeggiavano i motoscafi lì davanti e noi li prendevamo d'assalto, e nei giorni più fortunati ci scappava pure un giro verso la grotta del Principe o la Timpa. Il pomeriggio il panorama del lido si trasformava: finito il pranzo, quando ad un certo punto porta mangiare, borse frigo, in alcuni casi persino barbecue per un arrusti e mangia volante, sparivano

per tornare dentro cabine che parevano la borsa di Mary Poppins, dappertutto era un fiorire di tavoli e panni verdi per giocare a scala quaranta, carioca, pinnacola, con intorno signore disinteressate al mare e concentrate, più che sulle proprie carte, su quelle della vicina. E le mangiate: Ah, le mangiate. Soprattutto quella di Ferragosto. Enormi tavolate, quelle dell'ultima fila e della mitica fila 46-51 che si contendevano il primo posto per lunghezza e varietà di pietanze. Pasta al forno, cotolette, caponatina, parmigiana, melone, come se non ci fosse un domani. Alle 18 e 30 tutti a fare la Bagnaculo-Barracche con la parmigiana ancora nello stomaco e ancora oggi mi chiedo come non ci sia mai venuta una congestione. La prima settimana di settembre un filo di tristezza ci prendeva. Più che per l'inizio imminente della scuola, per la fine di quella lunga parentesi nelle nostre vite che era l'estate al lido. Ascoltavamo L'estate sta finendo e Summer on a solitary beach, cominciavano le preparazioni atletiche estive della Saturnia e dello Sporting club, il torneo estivo di calcetto e quello misto di pallavolo erano ormai un ricordo. Eppure a confortarti c'era una cosa: sapevi che, tutto questo, l'anno dopo si sarebbe ripetuto nella stessa identica maniera. Con le stesse persone, le stesse discussioni per i gazebo occupati dalle sdraio alle nove del mattino, per gli sconfinamenti negli spazi di pertinenza delle altre cabine. Una monotonia rassicurante, di quelle che nei paesi portano tutti a conoscere tutti e a sentirsi un po' parenti di tutti. A riconoscersi come gruppo e a starci bene dentro, fissando nei ricordi quelle immagini come fossero una foto, allo stesso tempo perfettamente messa a fuoco e perfettamente mossa, ogni istante a ricordarti, come dice quella canzone, che il tempo ci sfugge ma il segno del tempo rimane. Poi è cambiata l'inquadratura. Non più d'estate, ma nei pomeriggi di primavera, consumando le scarpe buone comprate per qualche ricorrenza dando calci all'inseparabile pallone, con il risultato che finivano distrutte a furia di cercare di imprimere traiettorie impossibili al Super Santos. Fino a quando, intorno alle diciannove e trenta, arrivava padre Sinatra e ci convinceva ad andare a casa, prima che arrivassero i nostri genitori con metodi più forti. Un altro flashback e mi sono ritrovato durante le vacanze di Natale. Quando si giocava per fasce orarie: prima quelli che frequentavano le scuole medie, poi le superiori, e infine i più grandi, e noi si sapeva che arrivato l'orario bisognava lasciare il campo, senza fare troppe storie. Poi il pomeriggio, ci si trasferiva tutti a casa di qualcuno, o presso la cosiddetta Santa Sede (la vecchia sede sociale della Saturnia), per interminabili mani di baccarat, e quante risate sul "Dire, che il banco chiama", quante volte ad invocare "Cista! Cista!" e l'esplosione quando usciva davvero. Erano gli anni della grandi compagnie, delle scampagnate fuori porta per Santo Stefano o per Pasquetta, stretti in cinque dentro una Fiat Uno, una 127 o una Y10, in tasca pochi soldi che tanto, il divertimento, non dipendeva da quelli. Poi ho sentito un suono. Come uno schioccar di dita, o forse un battito sordo delle mani. Ho chiuso gli occhi e, quando li ho riaperti, mi sono trovato durante la finale Boppers - Lido Aci Castello del 1986, ultimo atto del torneo estivo di calcio (perché, quello dell'oratorio, non era calcetto. Era calcio, ma in modo del tutto originale, e non replicabile) organizzato dallo Sporting Club. La gente stipata tutta intorno ad assistere alla partita che tra due squadre che incarnavano, in modo diverso, l'appartenenza paesana, quel misto di goliardia, umorismo, ironia, sfottò tra persone cresciute insieme a rincorrersi tra vicoli e vanedde. E poi in una qualunque partita del torneo misto di pallavolo sei contro sei, organizzato dalla Saturnia, con le settimane di preparazione precedenti per formare le squadre, disegnare le magliette (e ognuno di noi voleva che quelle della propria squadra fossero le più belle) per poi sfinirci dentro il campo. Che nessuno ci stava a perdere, e ci si mandava anche a quel paese, da un lato all'altro della rete, ma poi la sera si andava tutti da Saro, in piazza, al Tubo o ai Cessi per mangiare una pizza insieme, oppure un panino al Luna Blu. La Saturnia, mamma mia. Qualche volta racconterò cosa è stata per noi, castellesi, e quanti ricordi sono rimasti chiusi dentro la palestra della scuola media Verga. Ma questa è un'altra storia. Poi Marcello deve avermi detto qualcosa ed io ho ripreso contatto con la realtà. Il tutto è durato meno di un attimo. Il me stesso bambino di trenta anni prima è rientrato dentro questo corpo da quarantenne ancora non proprio consapevole di esserlo. I bambini del Grest giocavano, gli animatori cercavano di mantenere un minimo di ordine in quella bolgia festosa, i genitori continuavano a scattare foto. Ed io ho pensato che ai miei tempi non c'era il Grest, era tutto un po' più spontaneo, ma va benissimo lo stesso. Perché ieri ho riscoperto il mio oratorio come un luogo vivo, pulsante, pieno di chiasso, voci, gioia, esattamente come capitava trenta anni fa. Con tanti bambini che saranno l'Aci Castello di domani, quando noi saremo adulti e, magari, diventeremo come quel signore che abitava al primo piano del palazzo in piazzetta Maiorana, quando per la trentesima volta il pallone finiva sul suo balcone, usciva fuori - a metà tra l'arrabbiato e il giocoso - e, imitando il gesto del coltello, diceva: «Ve lo taglio, questo pallone». Poi, abbozzando un sorriso, ce lo tornava. E noi riprendevamo la nostra partita, sognando chi di essere Van Basten, chi Maradona, chi Mattheus, chi Cipriani. Ed eravamo solo bambini di un paese, ai miei occhi, ieri come oggi, meraviglioso. Il luogo perfetto in cui vivere. Aci Castello.

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