Educare i bambini alla lingua inglese

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INFANZIA E PRIMARIA: professione insegnante

collana diretta da

Luciano Galliani


Educare i bambini alla lingua inglese

Teoria e pratica dell’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria e dell’infanzia a cura di Matteo Santipolo


Matteo Santipolo (a cura di) EDUCARE I BAMBINI ALLA LINGUA INGLESE ISBN 978-88-8232-994-5 © 2012 - Pensa MultiMedia Editore Via A.M. Caprioli, 8 - 73100 Lecce • tel. 0832.230435 Via C. Cantù, 25 - 25038 Rovato (BS) • tel. 030.5310994 Impaginazione-editing: Carla Pensa Progetto grafico copertina: Donatella De Blasi


“The English language is nobody’s special property. It is the property of the imagination: it is the property of the language itself.” Derek Walcott, in Plimpton G. (ed.), 1988, The Paris Review Interviews. Writers at Work. 2nd Series, London, Penguin.

“Never make fun of someone who speaks broken English. It means they know another language.” H. Jackson Brown, Jr., 1997, The Complete Life’s Little Instruction Book, Nashville TN, Rutledge Hill Press.


Sommario

Elenco delle principali sigle e abbreviazioni impiegate nel volume Introduzione Educare alla lingua inglese oggi Matteo Santipolo Capitolo 1 L’insegnamento delle lingue straniere nella scuola elementare: un profilo storico Paolo E. Balboni Capitolo 2 Insegnamento delle lingue straniere nella scuola primaria: i riferimenti normativi e gli aspetti organizzativi Maria Cecilia Luise Capitolo 3 Neuroscienze e didattica dell’inglese a bambini Michele Daloiso Capitolo 4 Le variabili psico-affettive nell’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria Patrizia Mazzotta Capitolo 5 Lingua e linguaggi: didattica dell’inglese al plurale Paolo Torresan

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Capitolo 6 Il contributo della linguistica acquisizionale nella didattica dell’inglese nella scuola primaria Camilla Bettoni

Capitolo 7 Un portfolio “parlante” per la scuola dell’infanzia Flora Sisti

Capitolo 8 Tecniche didattiche per l’insegnamento dell’inglese nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria Luciana Favaro Capitolo 9 Divertendosi insegnando ed imparando l’inglese Silvia Drago

Capitolo 10 L’intelligenza culturale: una lettura glottodidattica per un approccio multiprospettico alla cultura anglofona Matteo Santipolo Capitolo 11 L’insegnamento della pronuncia Luciano Canepari, Maria Assunta Simionato

Capitolo 12 Storytelling linguistico-acquisizionale: una proposta per favorire l’acquisizione spontanea dell’inglese LS nei bambini Verusca Costenaro Capitolo 13 Il Lexical Approach nella didattica dell’inglese nella scuola primaria Gianfranco Porcelli

Capitolo 14 Problematiche dei percorsi CLIL nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria Graziano Serragiotto

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Capitolo 15 Il ruolo della traduzione nella didattica dell’inglese (e non solo) nella scuola primaria Emilia Di Martino, Bruna Di Sabato Capitolo 16 L’insegnamento dell’inglese agli allievi non italofoni Serena Ambroso, Lucilla Lopriore Capitolo 17 La valutazione e la certificazione delle competenze nell’inglese per la scuola primaria Alberta Novello

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Ringraziamenti Un ringraziamento va innanzitutto ai colleghi e amici che hanno aderito a questo articolato progetto mettendo a disposizione le loro competenze ed esperienze attraverso contributi di grande valore scientifico e metodologico. Li ringrazio anche per la pazienza che hanno saputo dimostrare: come purtroppo spesso accade con iniziative di questo tipo, i tempi di realizzazione programmati e desiderati non coincidono con quelli che poi sono necessari, e di questo mi scuso con tutti loro. Per i preziosi consigli che come sempre mi ha dato, un ringraziamento particolare va a Paolo E. Balboni, amico e Maestro. Ringrazio poi Luciano Galliani, già preside della Facoltà di Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Padova, e l’editore Pensa MultiMedia per la fiducia e la comprensione. Last but not least, un ringraziamento speciale va a mia madre Giuseppina e a mia moglie Carolina per il supporto e il sostegno morale e materiale che mi hanno saputo dare anche in questa occasione. Matteo Santipolo

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Elenco delle principali sigle e abbreviazioni impiegate nel volume

Acronimo

Significato

BICS: CALP: CLIL: CQ: EFL: EIL: ELF: ELT: ENL: ESL: ESOL: ESP: EYL: GenAm: IPA: L1: L2: LAD: LASS: LM: LS: LU: MIT: PEL: PIC: RP: SBE: SILL: SLA: SLAT: TBI: TP: TPR:

Basic Interpersonal Communicative Skills Cognitive Academic Language Proficiency Content and Language Integrated Learning Intelligenza culturale (Cultural quotient) English as a foreign language English as an international language English as a lingua franca English language teaching English as a native language English as a second language English for speakers of other languages English for special purposes English for young learners General American International Phonetic Alphabet Prima lingua/lingua materna Lingua seconda Language Acquisition Device Language Acquisition Support System Lingua materna Lingua straniera Learning Unit Multiple Intelligence Theory Portfolio europeo delle lingue Portfolio Individuale delle Competenze Received Pronunciation Standard British English Strategy Inventory for Language Learning Second Language Acquisition Second Language Acquisition Theory Theme-based Instruction Teoria della ProcessabilitĂ Total Physical Response

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Introduzione Educare alla lingua inglese oggi • Matteo Santipolo

Sosteneva Roger Ascham, studioso e scrittore inglese vissuto nel XVI secolo che “As a hawk flieth not high with one wing, even so a man reacheth not to excellence with one tongue”; analogamente il poeta ucraino Pavlo Tychyna (1891-1967) affermava che “Quante più lingue conosci, tante più volte sei una persona”; ancora, Johann Wolfgang Goethe ritenerva che “Chi non conosce le lingue straniere non sa niente della propria” e Geoffrey Willans, giornalista e autore inglese vissuto tra il 1911 e il 1958, pensava che “You can never understand one language until you understand at least two”. Ma la citazione forse più signficativa in merito alle lingue è da attribuire al noto filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1851): “I confini della mia lingua sono i confini del mio mondo1”.Va da sé che quante più lingue si conoscono tanto più vasti saranno i confini del proprio mondo. Si tratta solo di alcuni esempi di come non manchino nella storia dell’umanità, e in tutte le epoche e culture, affermazioni e commenti sull’importanza di conoscere le lingue. Tale consapevolezza è probabilmente diventata ancora più pregnante e pressante oggi che il mondo si è “rimpicciolito” e che le distanze (fisiche e virtuali) tra persone di culture e lingue differenti si sono enormemente ridotte. Un ruolo non secondario in questo processo di ridimensionamento globale, peraltro non sempre indolore e a basso costo, lo ha giocato sicuramente nel corso degli ultimi cento anni la lingua inglese. Educare alla sua conoscenza2 non è dunque semplicemente una questione di rispetto di obblighi di legge, ma soprattutto un obbligo morale nei confronti delle nuove generazioni che all’inglese sempre

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“Die Grenzen meiner Sprache sind die Grenzen meiner Welt” Tractatus LogicoPhilosophicus, sezione 5.6. Va precisato che la conoscenza del solo inglese, oltre alla lingua materna, non è comunque sufficiente né auspicabile, come peraltro evidenziano le indicazioni europee – non sempre recepite dal nostro paese – che invitano quanto meno al trilinguismo (lingua materna, inglese, altra lingua comunitaria). Cfr. anche capitolo 16.

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con maggiore difficoltà potranno rinunciare se vorranno acquisire piena cittadinanza nel mondo e nel loro tempo, e avere in tal modo quante più opportunità possibili di realizzazione personali e professionali. Le opportunità di successo, come vedremo, saranno, inoltre, tanto maggiori quanto più precoce sarà l’accostamento alla nuova lingua. Indispensabile in tal senso è, però, che si metta definitivamente da parte l’insegnamento inteso come mera esposizione a qualche decina di parole o a qualche stereotipo legato al mondo anglofono. Ciò significa superare una volta per tutte gli approcci che non attribuiscono agli allievi un ruolo attivo e di protagonisti del processo di acquisizione con tutto il carico di (co-)responsabilità che ciò comporta. Il riferimento è qui alla distinzione glottodidattica tra approcci deduttivi e approcci induttivi, o ancora, entrando più nello specifico, tra insegnare la grammatica “esplicitamente” o riflettere “implicitamente” sulla lingua, tra fornire schemi chiusi come punto di partenza (come accade con gli approcci di matrice grammatico-traduttiva o strutturalista) o schemi aperti (come con gli approcci di matrice comunicativa e umanistico-affettiva). Le ragioni che portano a optare per una didattica induttiva e quindi a tutti gli approcci del secondo tipo tra quelli sopra accennati, sono da rintracciare in diversi aspetti che, per comodità divideremo, pur con certo grado di flessibilità, per ambiti di competenza scientifica3: • relativi alla neurolinguisitica: è ormai stato ampiamente dimostrato attraverso studi clinici come i due emisferi di cui è composto il nostro cervello svolgano funzioni complementari riconducibili, in estrema sintesi, al fatto che il destro è “globale”, mentre il sinistro è “analitico”. La loro attivazione, inoltre procede nell’ordine che va da destra a sinistra, anche se lo scarto temporale è in realtà assolutamente minimo (Teoria della Bimodalità e della Direzionalità di Marcel Danesi); • relativi alla psicologia dell’apprendimento: come è noto, alla base di qualunque processo di acquisizione si trova la motivazione che, sebbene data da una relazione tra piacere, bisogno e dovere, trova nel primo dei tre il suo principale sostentamento. Se lo sforzo cognitivo (e talvolta anche fisico) richiesto per acquisire una lingua è appagante e gratificante e coinvolge la persona nella sua interezza, si innescherà un circolo virtuoso che genererà nuova motivazione (Modello Olo- e Ego-dinamico di Renzo Titone);

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Per una descrizione più dettagliata della epistemologia della glottodidattica si rimanda a Balboni 2011 e 2012.

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

• relativi alla psicolinguistica: nessun processo di acquisizione (cioè stabile, contrapposta all’apprendimento che è invece destinato a svanire più o meno velocemente) può essere realizzato se ci si trova in condizioni ansiogene, vale a dire se si attiva il cosiddetto Filtro affettivo e se l’input non viene reso comprensibile e viene presentato ad un grado (i + 1) senza continuità e progressione (Second Language Acquisition Theory – SLAT – di Stephen Krashen); • relativi alla psicologia dell’apprendimento/psicologia cognitiva: il “punto di attivazione” del filtro affettivo, è assolutamente soggettivo e legato alla personalità dell’allievo oltre che al suo stile cognitivo. Di tutto ciò è indispensabile tener conto anche al fine di decidere il modo con cui presentare l’input, valutando il tipo di intelligenza di cui è dotato l’apprendente (Teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner). Tali considerazioni condizioneranno la scelta delle metodologie e delle tecniche didattiche da impiegare di volta in volta; • relativi alla psicolinguistica acquisizionale: nessun processo di acquisizione linguistica potrebbe avere luogo se l’essere umano non fosse predisposto geneticamente a ciò. Il sistema che presiede allo scopo si definisce Language Acquisition Device (Ipotesi del LAD di Noam Chomsky). Per spiegarne il funzionamento facciamo qui ricorso ad una nostra metafora che potremmo chiamare dell’albero: al momento della nascita di un bambino tutte le foglie dell’albero di cui è provvisto e che rappresenta il LAD sono rigogliose. A mano a mano che apprende quella che sta diventando la sua lingua materna, per così dire, “disattiva” in qualche misura le foglie che non corrispondono a strutture presenti nella sua L1 in fieri. Quando poi, più avanti si accosterà all’acquisizione di un’altra o di altre lingue sarà necessario che riattivi le “foglie” (parzialmente) atrofizzate corrispondenti a strutture presenti nelle nuove lingue ma non nella sua L1. Ecco perché, metaforicamente parlando, quanto prima avviene questa riattivazione tanto meno faticoso è il processo di acquisizione delle lingue straniere. Ecco anche perché i bilingui sono facilitati nell’acquisizione di ulteriori idiomi: il numero di “foglie” che hanno conservate attive fin da subito è superiore rispetto a quello dei monolingui. La metafora è particolarmente efficace se riferita al sistema fonologico. Si pensi, ad esempio ad un bambino che sta diventando italofono: all’interno del repertorio della sua lingua non troverà i fonemi che, ad esempio, in inglese vengono resi graficamente con ‘th’ (fricative interdentali sorda /θ/ e sonora /ð/, come rispettivamente in think e those) disattiverà quindi la “foglia” corrispondente che dovrà riattivare quando imparerà l’inglese. Affinché il LAD si attivi è necessario che intervenga un Language


Acquisition Support System (LASS, ipotizzato da Jerome Bruner) proveniente dall’esterno. Nel processo di acquisizione linguistica, quindi, intervengono tanto fattori innati, congeniti, quanto condizionamenti esterni4; • relativi all’antropologia: com’è noto il rapporto tra lingua e cultura è di assoluta dipendenza reciproca. Ne sono conferma la cosiddetta Ipotesi ambientale (secondo la quale la struttura di una lingua è influenza dal contesto dove si parla); e l’Ipotesi Sapir-Whorf (secondo la quale la propria lingua materna sarebbe una sorta di lente o di paio di occhiali attraverso cui ciascuno di noi vede e interpreta la realtà). In altre parole, la conoscenza di una lingua determina la nostra Weltanschauung “visione del mondo”, per cui, quante più lingue si conoscono, tanto più ampia è la prospettiva con cui si osserva e si interpreta la realtà e le possibilità di interagire con essa. Solo comprendendo in profondità il rapporto tra lingua, cultura e società si possono individuare efficaci percorsi glottodidattici idonei a rispondere alle necessità presenti e future degli allievi; • relativi alla sociologia: le lingue sono fenomeni sociali che mutano col mutare delle società che le generano e le impiegano.

MATTEO SANTIPOLO

A determinare il successo dell’educazione linguistica è anche la piena consapevolezza del contesto in cui si opera. Nella Tabella 1 riportiamo le principali differenze tra educare a una lingua come straniera (LS, vale a dire in un contesto il cui la lingua è solo insegnata a scuola o comunque usata in ambiti molto ristretti), o seconda (L2, vale a dire in un paese dove la si parla quotidianamente nelle interazioni comuni), individuando alcuni ambiti di riferimento.

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Una curiosità: gli acronimi LAD e LASS coincidono con le parole inglesi per “ragazzo” e “ragazza”, a ulteriore sottolineatura della complementarietà tra i due. A tal proposito Balboni (2011: 74, nota 33) cita il seguente episodio: “Non sfugga il gioco di parole, spiegato a viva voce da Bruner in una conferenza cui ero presente ma che non ho mai trovato in suoi saggi: secondo lo psicologo, l’idea in un LAD autonomo è miracolistica; per essere generativo (gioco tra il significato di “generare” frasi e quello di “procreare”) a LAD needs a LASS […]”.

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L2

LS

• La motivazione per lo studio • La motivazione allo studio nasce dai bisogni strumentali della lingua, specie quando quotidiani, cioè l’interazione questa non venga appresa per con il contesto. Tuttavia, se il necessità strumentali deve corso di lingua non offre riessere continuamente stimosposte alle necessità degli allata e mantenuta viva. lievi e non li stimola a sufficienza, anche in questo contesto, la motivazione, evidentemente più utilitaristica, può venire meno.

Aspetto contenutistico

• La maggior parte dell’input • La maggior parte dell’input linguistico e culturale pervielinguistico e culturale che ne ai discenti dal contesto arriva ai discenti viene non esterno alla classe, quindi sensolo fornito, ma anche conza una programmazione logitrollato, gestito e messo in ca. Il ruolo dell’insegnante disequenza dal docente. venta pertanto quello di sistematizzarlo, renderlo comprensibile, non solo dal punto di vista semantico in senso stretto, ma anche in termini culturali e sociali.

Aspetto funzionale

• L’autenticità pragmatica è • L’autenticità pragmatica è assoluta. scarsa.

Aspetto Socioculturale

• I riferimenti socioculturali • I riferimenti socioculturali sono diretti, privi di alcuna sono selezionati e mediati mediazione da parte dell’indall’insegnante che può segnante, non vi sono cioè quindi sceglierli e adattarli, attenuazioni anche di quegli presentandone alcuni e tralaaspetti che potrebbero costisciandone altri a sua piena tuire cause di disagio o madiscrezione. lessere per il discente (ad esempio forme di razzismo, di luoghi comuni, di stereotipi, ecc. nei confronti di culture diverse). Tabella 1. Principali differenze tra i contesti di LS e L2

Questa tabella si riferisce alle differenze generali tra l’educazione linguistica nei due contesti in relativamente a qualunque lingua. Tuttavia, per quanto riguarda l’inglese, dato il ruolo che esso ha ormai assunto a livello planetario e la sua diffusione e penetrazione nel nostro quotidiano (dalle canzoni ai film, dalle tecnologie allo sport, ecc.)

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

Aspetto psico-affettivo


questa distinzione tra LS e L2 pare meno marcata e riteniamo che, come del resto tutto il fenomeno dell’inglese lingua globale, necessiti di un ulteriore approfondimento. “Broken English spoken perfectly”: l’inglese come lingua globale oggi

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Non vi è alcun dubbio che anche chi non abbia mai studiato l’inglese possieda ormai un bagaglio di conoscenze o anche solo pseudo-conoscenze5 relativamente a questa lingua e alla sua cultura impensabile rispetto ad altri idiomi. È vero che spesso si tratta di informazioni superficiali e talvolta addirittura errate6, oppure che contribuiscono a consolidare pregiudizi o stereotipi, tanto postivi quanto negativi, ma è innegabile che l’esposizione al mondo anglofono sia oggi massiccia e costante, fin dai primi anni di vita (si pensi, ad esempio, a tutta la terminologia dei giochi elettronici con cui i bambini entrano presto in contatto e con cui sviluppano grande famigliarità). Non si può quindi, a nostro avviso, per quanto riguarda l’inglese, tracciare un confine netto tra LS e L2, perché anche chi si trova in un contesto in cui la lingua non è utilizzata “ufficialmente”, di fatto è a contatto con essa o con alcuni suoi elementi e aspetti quasi in modo quotidiano. Lungi dall’essere un problema, ciò può invece costituire per il docente d’inglese LS un utile punto di partenza, uno strumento di cui avvalersi per assecondare e accrescere la motivazione che ne deriva già presente negli allievi. Detto ciò, resta il problema di definire che cosa significhi “conoscere” una lingua, e i particolare, una lingua estremamente variegata, anche culturalmente, quale è l’inglese oggi. Il titolo di questo paragrafo riprende quello di un libro (Clark 2005) che a sua volta fa riferimento ad un cartello trovato in un negozio sull’isola di Cozumel in Messico. Si tratta, evidentemente, di una frase quanto meno contraddittoria che però ben rappresenta il ruolo svolto oggigiorno dall’inglese come lingua globale. Frasi ambigue e/o grammaticalmente, 5

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In relazione al lessico, ci si riferisce a questi fenomeni come pseudo-anglicismi, vale a dire parole che sono solo apparentemente inglesi, ma che, in realtà, non esistono nella lingua o, quando vi si trovano, hanno comunque significati diversi da quelli attribuiti loro in italiano. Ad esempio la parola body che nell’uso italiano si riferisce a un indumento simile al costume tipicamente femminile, in inglese significa semplicemente “corpo”, mentre l’equivalente in inglese sarebbe bodysuit. O ancora autostop che in inglese si dice invece hitchhiking (cfr. Santipolo 2004). A puro titolo esemplificativo, si pensi, a tal proposito, ad una pubblicità di questi ultimi anni in cui veniva impiegata la parola urban. Essa veniva pronunciata con una sequenza iniziale /ju/, mentre la pronuncia corretta è con un suono uguale a quello che si trova per la <i> in first.

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in a Tokyo Hotel: “Is forbidden to steal hotel towels please. If you are not a person to do such thing is please not to read notis.”; in a Bucharest hotel lobby: “The lift is being fixed for the next day. During that time we regret that you will be unbearable.”; in a Belgrade hotel elevator: “To move the cabin, push button for wishing floor. If the cabin should enter more persons, each one should press a number of wishing floor. Driving is then going alphabetically by national order.”; in a Japanese hotel: “You are invited to take advantage of the chambermaid.”; in the lobby of a Moscow hotel across from a Russian Orthodox monastery: “You are welcome to visit the cemetery where famous Russian and Soviet composers, artists, and writers are buried daily except Thursday.”; on the menu of a Swiss restaurant: “Our wines leave you nothing to hope for.”; in a Rome laundry: “Ladies, leave your clothes here and spend the afternoon having a good time.”; in a Copenhagen airline ticket office: “We take your bags and send them in all directions.”; in a Norwegian cocktail lounge: “Ladies are requested not to have children in the bar.”; in a Budapest zoo: “Please do not feed the animals. If you have any suitable food, give it to the guard on duty.” two signs from a Majorcan shop entrance: “English well talking,”, “Here speeching American.”; on board a ferry in Puerto Rico: “In case of emergency, the lifeguard are under the seat.”; on the entrance to a shop in France: “We speak English floatingly.”; In a golf course: “Any persons (except players) caught collecting balls on this golf course will be prosecuted and have their balls removed”.

Cfr. http://www.gloge.com/jokeengl.html e http://www.liverpoolway.co.uk/forum/gf-general-forum/17485-broken-english-spoken-perfectly.html

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

semanticamente o sociolinguisticamente scorrette e involontariamente umoristiche non mancano, a tal punto che molti siti e volumi (cfr. Croker 2006) le hanno raccolte in grandi quantità. A scopo esemplificativo di che cosa intendiamo dire, ne riportiamo qui alcune7:


Ma se a “storpiare” l’inglese sono spesso i parlanti non native, capita ormai di frequente che anche gli stessi native speakers, per ragioni disparate che cercheremo di descrivere in seguito, violino le regole “ufficiali” del proper English. È il caso della recente pubblicità della più famosa catena di fast food al mondo, il cui motto dice: “I’m lovin’ it!”: come è noto, i verbi stativi (quali, ad esempio, to know, to love, to like, to mean, to promise, to want, to depend, ecc.) non dovrebbero consentire la formazione del present continuous. Questo uso, invece, nato nell’inglese americano, è ormai entrato ed accettato, almeno in contesti informali, anche in altre varietà ed è ipotizzabile che in futuro possa pure entrare nelle grammatiche col valore di “in questo momento”, contrapposto al valore assoluto e abituale del simple present. Così affermare “I’m liking (this) tea” indicherebbe quello che si sta bevendo in quel preciso momento, mentre “I like tea” avrebbe un significato generale e assoluto. Le ragioni per cui gli stessi parlanti nativi modificano la lingua in modo “agrammaticale” possono essere ricondotte, a nostro avviso, ad almeno due macrocategorie:

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a) normale evoluzione della lingua (si pensi a come l’inglese perse il congiuntivo più o meno intorno al diciassettesimo secolo) o come conseguenza di mode che poi si stabilizzano o, ancora, per l’accettazione nell’inglese standard di forme slang o gergali; b) accomodamento convergente che i parlanti nativi attuano verso il modo di utilizzare la lingua da parte dei parlanti non nativi. In relazione al secondo punto va evidenziato che oggi il numero di parlanti non native ha triplicato quello di chi parla l’inglese come lingua materna (più di un miliardo rispetto a circa quattrocento milioni. Cfr. Graddol 1999) ed è quindi inevitabile che i non nativi non abbiano più solo il ruolo di language users, ma, con sempre maggiore frequenza, anche quello di language rule modifiers (fino agli anni Ottanta del secolo scorso prerogativa di chi parlava l’inglese come lingua seconda, ad esempio in contesti post-coloniali quali l’India, il Pakistan o la Giamaica), e addirittura di language rule makers (un tempo esclusivo dominio dei natives)8. Questa nuova situazione, che di fatto

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Facciamo qui riferimento a una ridistribuzione dei ruoli proposti nel noto modello di Braj Kachru (1985) che servendosi di tre cerchi concentrici, colloca in quello più centrale, che definisce Inner Circle, le varietà di inglese come lingua nativa (ENL); nel secondo, che chiama Outer Circle, pone l’inglese come lingua seconda (ESL); e infine nell’ultimo, denominato Expanding Circle, colloca l’inglese come lingua straniera (EFL). Ci preme sottolineare come la distinzione tra LS/L2 illustrata nel paragrafo iniziale non abbia nulla a che fare con quella di

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[…] English had developed a supernational momentum that gave it a life independent of its British, and more especially its American, roots. Already multinational in expression, English was becoming a global phenomenon with a fierce, inner multinational dynamic, an emerging lingua franca […] global English, floating free from its troubled British and American past, has begun to take on a life of its own. […] the twenty-first-century expression of British and American English – the world’s English – is about to make its own declaration of independence from the linguistic past, in both syntax and vocabulary.

Mentre, aggiungiamo noi, dal punto di vista fonetico questo passo sembra ormai essere stato già compiuto (cfr. Jenkins 2000). Nello stesso volume, l’autore sottolinea altresì come molte aziende americane e britanniche in anni recenti abbiano avuto cali di mercato dovuti al fatto che i loro promoters impiegano un inglese “troppo difficile” per i parlanti non nativi al cui modo di parlare faticano ad adattarsi. Per far fronte al problema tali aziende hanno addirittura cominciato ad assumere personale che, pur avendo un’ottima conoscenza dell’inglese, non sia però madrelingua. In realtà:

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Kachru e normalmente adottata nel mondo anglofono. Le due interpretazioni, quella della glottodidattica italiana e quella della linguistica inglese, non vanno dunque confuse, anche se non mancano alcuni punti di contatto. I linguisti e gli storici delle lingua sono ben consapevoli che molte di queste opzioni oggi considerate “errate” hanno in realtà spesso riscontro anche in varietà e in momenti diversi della storia della lingua inglese. Shakespeare, ad esempio, alternava “news is” con “news are”, mentre to lose per to miss è comune in inglese gallese.

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

non ha precedenti nella storia di nessuna altra lingua, ha di molto indebolito il “culto” o il “mito” del parlante nativo come “nume tutelare”, come custode della lingua e sta, tra l’altro, alla base della nascita del fenomeno dei cosiddetti New Englishes, ossia varietà “ibride”, generate perlopiù dal contatto tra l’inglese e altre lingue, specie appunto in contesti post-coloniali (cfr. McArthur 1998). Ma anche in contesti diversi sono frequenti occorrenze “agrammaticali” quali il verbo al plurale con sostantivi come news, o il plurale di un sostantivo uncountable singolare come information, o, ancora, l’uso di to lose in sostituzione di to miss in frasi del tipo: “I lost the train”9, fino alla riduzione dell’impiego dei phrasal verbs più complessi e degli idioms più culturalmente marcati. Come spiega McCrum (2010: 5-6):


[…] the global popularity of English is in no immediate danger, but […] it would be foolhardy to imagine that its preeminent position as a world language will not be challenged in some world regions and domains of use as the economic, demographic and political shape of the world is transformed. […] in many parts of the world, where English is taken into the fabric of social life, it acquires a momentum and vitality of its own, developing in ways which reflect local culture and languages, while diverging increasingly from the kind of English spoken in Britain or North America (Graddol 1997: 2).

Questa tendenza pare confermata, ad esempio dal calo di diffusione dell’impiego dell’inglese in internet dal 2000 al 2005, a tutto vantaggio del cinese (Graddol 2006: 44): 2000 English 51.3% Japanese 8.1% German 5.9% Spanish 5.8% Chinese 5.4% French 3.9% Korean 3.5% Italian 3% Dutch 1.8% Other 11.3

2005 English 32% Chinese 13% Japanese 8% Spanish 6% German 6% French 4% Korean 3% Italian 3% Portuguese 3% Dutch 2% Other 20%

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Ma la globalizzazione linguistica, di cui l’inglese è spesso considerato bandiera, è allo stesso tempo causa ed effetto della globalizzazione in senso lato. Ne è prova la testimonianza che riportiamo qui di seguito (Graddol, 2006: 35): Homework tutors in India Each day at 4.30 am 20 well-educated Indians start work in their call centre in Kerala, India.They provide one-to-one tutorial help in subjects such as maths and science to Californian schoolchildren. One recent estimate suggests that over 20,000 American schoolchildren now receive e-tutoring support from India, usually through US service providers (Christian Science Monitor, 23 May 2005).

Casi simili sono stati ben rappresentati in film quali Slumdog Millionaire (2008) e The Best Exotic Marigold Hotel (2011), entrambi ambientati in India, e in cui appaiono dei call centre che danno informazioni su ogni genere di cosa ad utenti o addirittura fanno assistenza telefonica ad anziani che chiamano dalla Gran Bretagna. Sempre più spesso si sente descrivere l’inglese come una lingua

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10 Basti pensare all’enorme quantità di francesismi o italianismi che sono presenti nel vocabolario dell’inglese, che proprio a questa sua capacità di assorbire parole da tutte le lingue con cui è venuto a contatto vanta oggi un numero di lessemi doppio di quelli dell’italiano. Come spiega Crystal (1999): “Hybridization has always been a feature of English since Anglo-Saxon times. Any history of English shows that the language has always been something of a “vacuum cleaner”, sucking in words and expressions form the other languages with which it has come into contact.” 11 Il termine è stato coniato nel 1998 da Madhukar Gogate per descrivere una varietà semplificare di inglese da lui ideata e presentato ad una riunione della Simplified Spelling Society. Secondo il suo inventore va considerato un dialetto artificiale dell’inglese inteso come tentativo di semplificarne lo spelling e la pronuncia: Ad esempio la parola colour in Globish sarebbe “kalar”. Nel 2004 un dirigente in pensione del marketing della IBM, Jean-Paul Nerrière reimpiega il termine Globish in riferimento a una nuova varietà di inglese di sua creazione e ba-

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

killer, ossia una lingua la cui diffusione, specie in certi contesti, mette a rischio la sopravvivenza delle lingue locali. A nostro avviso, tuttavia, esso, di fatto, non rappresenta una minaccia per altre lingue dal punto di vista strutturale (corpus), vale a dire che non incide, almeno in un primo momento, in modo più drammatico di quanto abbiano fatto altri idiomi in passato (e sullo stesso inglese10) su come evolvono le lingue “di cultura” (ad esempio italiano, francese, spagnolo, tedesco). Si tratta, soprattutto, di prestiti lessicali e calchi sementici che da sempre hanno caratterizzato i rapporti tra le lingue. Piuttosto, l’inglese sembra incidere dal punto di vista dello status, vale a dire a livello di domini d’uso delle diverse lingue nazionali. Si pensi, a tal proposito, alla distorta filosofia (purtroppo assai diffusa anche nel mondo accademico italiano) che se un saggio o un articolo non è scritto in inglese esso è necessariamente meno “scientifico” e meno valido. Se da un lato non vi è dubbio che l’uso dell’inglese garantisca una maggiore visibilità, dall’altro vi è il rischio che, alla lunga, l’uso esclusivo della lingua di Shakespeare (o comunque di una sua qualche varietà) a discapito delle lingue nazionali come l’italiano, il francese o il tedesco, arrivi ad intaccarne anche la struttura e le possibilità espressive. Proprio per far fronte a questo rischio, in Germania, ad esempio, il governo di alcuni Länder finanzia convegni e congressi in cui la lingua di comunicazione sia, almeno in parte, il tedesco. La situazione è, in ogni caso, estremamente complessa e articolata, ma in questa sede vorremmo limitarci a darne una lettura sociolinguistica, avanzando l’ipotesi che, nel prossimo futuro, l’inglese sarà caratterizzato da una forte diglossia tra due continua, quello nativo e quello non nativo, che convergeranno verso una varietà che è stata alternativamente denominata World English, Global English (o Globish11), English as an International Language e English as a lingua fran-


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ca12, perlopiù spogliata delle caratteristiche locali, tanto native quanto non native, sia dal punto di vista strettamente linguistico sia da quello culturale. Per chiarire ulteriormente questo stato di cose ci avvaliamo di una rappresentazione schematica (Figura 1). A dispetto dell’opinione di ancora molti parlanti nativi, ciò che si evince da tale rappresentazione è che il Global English (contrapposto ai diversi Local Englishes caratterizzati, tra l’altro, anche da una forte valenza identitaria) è in realtà una no body’s language, che diventa pertanto una everybody’s language su cui chiunque la usi ha diritto di intervenire e il cui unico limite è l’intelligibilità (cfr. Seidlhofer, 2011). Si tratta però di una sorta di “esperanto intra-inglese” privo di connotazioni identitarie e culturali proprie di qualsiasi genere e con esclusivi intenti pragmatici.

sata su un vocabolario di appena 1500 parole (a fronte delle 615.000 dell’Oxford English Dictionary), sulla ripetizione e sulla gestualità. Il suo ideatore non lo definisce una lingua, ma piuttosto un tool “strumento”, in quanto privo della cultura che invece ogni lingua veicola. L’obiettivo, è quello di mettere chi non conosce l’inglese in modo adeguato in condizione di poter comunque comunicare. Per far ciò, sostiene Narrière, gli stessi parlanti nativi dovranno mettersi a studiare il Globish (cfr. Nerrière J.-P. 2004, e http://www.globish.com/). Oggi il termine viene utilizzato anche in senso più ampio per descrivere l’inglese come fenomeno globale parlato dai non nativi. 12 World English è un concetto che abbraccia tutti gli aspetti della lingua: dialetti, varietà di contatto, varietà standard e substandard, scritto, parlato, ecc. Il termine non ha di per sé, quindi, un significato di standard universalmente accettato, ma mira piuttosto a descrivere la diffusione planetaria, onnicomprensiva della lingua. International English, lungi dall’essere una versione ridotta del precedente, è piuttosto un termine che rimanda a tre condizioni: distribuzione transnazionale della lingua; tendenza alla standardardizzazione; impiego della lingua come lingua franca (English as a Lingua Franca, ELF). Come vedremo meglio nel successivo paragrafo l’impiego dell’inglese come lingua internazionale (English as an International Language, EIL) ha forti implicazioni anche dal punto di vista glottodidattico. Infatti, sebbene non esista, a tutt’oggi, una varietà totalmente uniforme, geograficamente e socialmente non marcata e riconosciuta come prestigiosa in tutto il mondo e da tutti i parlanti, l’uso della lingua sulla scena internazionale ha comportato uno sforzo di adattamento anche da parte degli stessi parlanti nativi, che di fatto si sono trovati e si trovano sempre più spesso in condizione di dover “re-imparare” la loro stessa lingua per renderla comprensibile ai non nativi. I termini “globale” e “globalizzazione” in relazione alla lingua inglese si riferiscono allo status genuinamente planetario acquisito dalla lingua, al suo ruolo speciale riconosciutole in ogni paese. Di fatto, mentre per il latino e per il francese si potevano in passato al pari che per l’inglese oggi impiegare le denominazioni di “planetario”, “internazionale”, “lingua franca”, ecc., è solo per l’inglese che si può utilizzare quello di “lingua globale” sia dal punto di vista della diffusione geografica che di quella sociale (cfr. Santipolo 2006: 36-37).

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CONTINUUM DEI PARLANTI NATIVI

Comunicazione nazionale

Varietà e dialetti locali

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Varietà standard di altri paesi anglofoni (Australia, Canada, Galles, Irlanda, Nuova Zelanda, Scozia, Sudafrica (parzialmente), ecc.) Varietà standard nazionali di riferimento internazionale (General American e Standard British English)

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Global English English as an International Language (EIL) English as a Lingua Franca (ELF)

CONTINUUM DEI PARLANTI NON NATIVI

Comunicazione internazionale

-

Varietà di inglese “quasi” native Varietà di inglese con transfer dalle lingue locali e New Englishes

Comunicazione nazionale

-

Lingue nazionali Varietà e dialetti delle lingue nazionali

Figura 1. Diglossia dei continua nativo e non nativo

Educare all’inglese lingua globale Di fronte a una tale complessità, che qui abbiamo comunque solo introdotto, emerge più urgente che mai il problema di quali modelli impiegare quando si debba educare alla lingua inglese13. È innanzitutto necessario, in ogni caso, fare chiarezza sul concetto stesso di “modello” e sulla estensione del suo dominio semantico e concettuale. Riteniamo che il significato sia perlomeno duplice: a) modello inteso come scelta della varietà da proporre agli allievi in classe (ad esempio se inglese britannico14 o inglese americano. Cfr. capitolo 9). Questa interpretazione corrisponde, almeno in

13 Convenzionalmente, nel mondo anglofono, si utilizza l’acronimo ELT: English language teaching. 14 Ci si riferisce qui allo Standard British English (SBE) normalmente insegnato impiegando la cosiddetta Received Pronunciation (RP), ossia la pronuncia neutra che, sebbene sia una prerogativa di una percentuale variabile tra il 3% e il 5% della popolazione britannica, è comunque la più prestigiosa. SBE e RP insieme vengono anche denominati BBC English (oggi in realtà questa definizione pare poco appropriata, dato che la BBC, specie nel suo World Service, si è ormai aperta a molte altre varietà di lingua), Queen’s English o, ancora Oxbridge English (dalla fusione di Oxford + Cambridge, le università dell’élite).

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

Comunicazione internazionale

-


parte, al concetto di sillabo, o syllabus, così come lo definisce Balboni (1999: 99): “un elenco dei contenuti, risultato di un processo di analisi dei bisogni strumentali, senza particolare attenzione alle mete educative.” b) modello inteso come scelta, oltre che dei contenuti (sillabo), pure delle finalità da perseguire e delle metodologie e degli approcci da adottare. Questa interpretazione corrisponde, grosso modo, al concetto di curricolo (o curriculum) così come lo definisce Balboni (1999: 25): […] un modello operativo che definisce un profilo formativo e quindi indica le mete, gli obiettivi e i contenuti che costituiscono l’oggetto di un corso. In prima approssimazione si può dire che un curricolo fonde le nozioni di programma e di syllabus; in realtà oggi i curricoli tendono a includere anche sezioni che offrono – parametri per variare il curricolo a seconda delle caratteristiche della situazione didattica, della natura degli allievi, del quartiere in cui si opera, delle dotazioni glottotecnologiche disponibili, ecc.; – una guida metodologica relativa alle tecniche didattiche che si consiglia di utilizzare (o che vengono considerate incongrue con le premesse del curricolo) per raggiungere gli obiettivi; – una serie di parametri per la verifica e la valutazione del raggiungimento degli obiettivi.

In termini insiemistici, potremmo affermare che la prima accezione di modello include la seconda. A quest’ultima, pure se in termini non identici, pare riferirsi anche Graddol (2006: 83)

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What makes a model of ELT? Each model may vary in terms of: – What variety of English is regarded as authoritative? – Which language skills are most important (Reading? Speaking? Interpreting?) – What is regarded as a suitable level of proficiency? – How and where will the language be used? – Is the motive for learning largely “instrumental” or also “integrational”? – At what age should learning begin? – What is the learning environment (Classroom only? Family? Media? Community?) – What are the appropriate content and materials for the learner? – What will be the assessment criteria? What kind of exams?

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In linea con la classificazione di Kachru (cfr. Nota 8), Graddol (2006: 82-85) propone di raggruppare i modelli così intesi in due macrocategorie:

15 A titolo esemplificativo di questo fenomeno riportiamo qui un interessante

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

a) EFL: in cui si tende a “[…] highlight the importance of learning about the culture and society of native speakers; it stresses the centrality of methodology in discussions of effective learning; and emphasises the importance of emulating native speaker language behaviour” (p. 82).Viene altresì sottolineato come, in questo modello, la lingua target sia sempre la lingua materna di qualcun altro e l’apprendente è come se fosse un “linguistic tourist” a cui è concesso di visitare ma senza diritto di residenza e a cui è richiesto di rispettare la superiore autorità dei parlanti nativi. Nonostante molti e importanti passi in avanti siano stati compiuti nell’ambito dell’insegnamento EFL, soprattutto col passaggio da approcci di matrice grammatico-traduttiva ad approcci comunicativi, e, più di recente, con la creazione e la diffusione del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue, incentrato sul “saper fare” linguistico, non vi è dubbio che spesso i risultati dell’impiego di questo modello lascino ancora a desiderare. b) ESL: sotto questa categoria si possono identificare due distinti contesti: • (post-)coloniale: sviluppatosi soprattutto nel XVIII e XIX secolo, esso “arose from the needs of the British Empire to teach local people sufficient English to allow the administration of large areas of the world with a relatively small number of British civil servants and troops” (p. 84). Prototipico di questa situazione è indubbiamente il caso dell’India in cui, all’inizio del 1900 circa 70.000 britannici governavano su 300 milioni di indiani, dei quali non più del 5% conosceva l’inglese. La situazione linguistica in questa tipologia di paesi è ancora oggi perlopiù complessa e il rapporto con l’inglese – che spesso rappresenta oltre che, come altrove, la lingua della comunicazione internazionale, anche, dato il forte e radicato multilinguismo che normalmente li caratterizza, un importante strumento per la comunicazione intra-nazionale – è di frequente contrastante e di difficile lettura. Quando alla varietà di inglese locale, così prodotta e fortemente influenzata dai dialetti o da altre lingue presenti nel repertorio della popolazione, si comincia ad attribuire un senso di identità si possono generare i già accennati New Englishes, talvolta così lontani dallo stesso EIL da non risultare comprensibili a parlanti di altre varietà, neppure native15.


Dove ciò si verifica l’inglese standard resta, pertanto, prerogativa dei contesti formali e un ruolo fondamentale per la sua trasmissione lo gioca il mondo della scuola in cui esso viene insegnato. • paesi anglofoni che attirano immigrazione non anglofona: sviluppatosi a partire dalla fine del XIX secolo e, di fatto, ancora in corso, per cui generazioni di immigrati dovettero essere assimilate e dotate di una nuova “identità” linguistica e culturale, dando vita al cosiddetto modello didattico dell’English for speakers of other languages (ESOL). Col passere del tempo può accadere che diverse generazioni, anche all’interno della stessa famiglia, parlino varietà diverse di inglese e i più giovani (e più linguisticamente competenti, perché nati e cresciuti nel paese) fungano da interpreti per i più anziani.

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A ben guardare, né il modello EFL né quello ESL sembrano oggi rispondere adeguatamente alle esigenze dettate da una situazione di inglese lingua globale. A tal fine Graddol (2006: 85-91) suggerisce che possano essere individuati almeno tre modelli che meglio soddisfano tali necessità: • Content and Language Integrated Learning (CLIL): insegnamento veicolare della lingua. Dato che di questo tema si occupa specificamente il capitolo 14, cui rimandiamo per approfondimenti, qui ci limiteremo a sottolinearne due aspetti: a. in senso lato, l’obiettivo del CLIL potrebbe essere interpretato come quello di creare in un contesto LS una situazione quanto più simile possibile a quella di un contesto L2; b. la stretta relazione che esiste tra l’insegnamento CLIL e il cosiddetto English for special/specific purposes, ossia, ciò a cui la glottodidattica italiana si riferisce normalmente col termine “microlingua” (cfr. Balboni 2000). • English as a Lingua Franca (ELF)16: poiché ormai la maggioranza delle interazioni che avvengono in inglese non coinvolgono parlanti nativi (cfr. Figura 2), è stato proposto che di ciò si dovrebbe tener conto anche quando si insegna e si valuta la lingua. aneddoto: “At a 1995 conference a young black South African delivered a paper entitled: ‘English? Yes. But English? Your English? Or mine?’, and he made it quite clear: ‘We’ are governing this country now, and we will decide what English is acceptable. If ‘you’ don’t like our decisions you can leave the country quite easily. There are no lions at the Johannesburg International Airport, and an air ticket to London is relatively cheap” (Webb 2002: 31). 16 Per una descrizione dettagliata del fenomeno dell’inglese come lingua franca, per le sue valenze culturali e identitarie e le implicazioni didattiche si veda anche Jenkins 2007.

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Allo scopo di descrivere quali siano le caratteristiche dell’inglese non nativo è stato avviato un importante progetto denominato Vienna-Oxford International Corpus of English (VOICE) che viene così presentato nel sito dell’iniziativa: In the early 21st century, English in the world finds itself in an “unstable equilibrium”: On the one hand, the majority of the world’s English users are not native speakers of the language, but use it as an additional language, as a convenient means for communicative interactions that cannot be conducted in their mother tongues. On the other hand, linguistic descriptions have as yet predominantly been focusing on English as it is spoken and written by its native speakers. VOICE seeks to redress the balance by providing a sizeable, computer-readable corpus of English as it is spoken by this non-native speaking majority of users in different contexts. These speakers use English successfully on a daily basis all over the world, in their personal, professional or academic lives. We therefore see them primarily not as language learners but as language users in their own right. It is therefore clearly worth finding out just how they use the language.This is exactly what VOICE seeks to make possible. […] VOICE, the Vienna-Oxford International Corpus of English, is a structured collection of language data, the first computerreadable corpus capturing spoken ELF interactions of this kind (http://www.univie.ac.at/voice/).

Le priorità di un tale modello sono evidentemente di tipo pragmatico e l’intelligibilità, come già accennato, è lo scopo principale. La lingua viene pertanto insegnata a prescindere dalla cultura dei suoi parlanti nativi (cfr. capitolo 10). Sono poi i parlanti non nativi a, per così dire, “imbere” l’inglese della propria cultura, coerentemente con quanto altrove abbiamo definito Paradosso dell’in-

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

Figura 2. Percentuali di interazioni in inglese nel turismo tra parlanti nativi e non nativi (Graddol 2006: 29)


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ternazionalizzazione della lingua17. Il rischio, sempre presente, è però quello che i confini della comprensibilità vengano valicati (ad esempio perché, per favorire l’acquisizione si trascura l’insegnamento di alcune pronunce ritenute troppo complesse) e che, come conseguenza, proprio l’efficacia comunicativa venga meno. Se ciò dovesse accadere, anziché un Globish il risultato sarebbe, più che altro un Glubbish (Globish + rubbish), ossia un miscuglio linguistico profondamente instabile e pressoché inutilizzabile. • English for young learners (EYL): ormai da diversi decenni si assiste in Europa, non solo ad un incremento del numero di anni in cui le lingue si insegnano, ma anche a un progressivo abbassamento dell’età a cui questo insegnamento inizia. Ovviamente la lingua che la fa da padrone è l’inglese, a tal punto che oggi circa il 90% degli studenti delle scuole dell’obbligo di tutta Europa lo studia. La crescita maggiore ha riguardato la scuola primaria: dal 2003 al 2005 in Germania il numero di bambini che si accostano allo studio dell’inglese prima degli 11 anni è triplicato; in Bulgaria è raddoppiato; mentre in Grecia, Italia e Portogallo è aumentato del 20% (cfr Eurydice/Eurostat 2008). L’idea di un insegnamento tanto precoce (in Spagna e Italia esso inizia in forma obbligatoria già rispettivamente a 3 e 6 anni, età tra le più basse in Europa) è quella di puntare a un qualche tipo di bilinguismo tra lingua materna e inglese. Ciononostante i risultati spesso non sembrano troppo lusinghieri. Una delle cause di questo almeno parziale insuccesso è, a nostro avviso, da individuare nel fatto che, nella maggior parte dei paesi europei, Italia compresa (cfr. capitoli 1 e 2) a insegnarlo sono insegnanti generalisti che, in molti casi, non solo non hanno una adeguata formazione glottodidattica, ma spesso neppure linguistica in senso stretto18. Il problema più grave, è che “failure at this stage may be difficult to remedy later” (Graddol 2006: 89).

17 Tale paradosso afferma che quando una lingua diventa “internazionale” essa deve pagare due prezzi: (a) la deculturizzazione (e la relativa denazionalizzazione): l’inglese è stato progressivamente spogliato della sua associazione col mondo anglo-americano o comunque anglofono native speaker; (b) il cambiamento: la disappropriazione della lingua da parte dei parlanti nativi comporta anche una sempre maggiore variabilità linguistica che riguarda la pronuncia, il lessico, la morfosintassi, ecc. e dipende dagli effetti di sostrato delle lingue materne di chi lo parla. Quante più persone parlano la lingua, quanto più essa si allontana, geograficamente e culturalmente, dal centro che l’ha prodotta, tanto maggiore sarà la sua variabilità. Il suo status di lingua internazionale, la sua forza, potrebbe, in tal caso, diventarne la principale causa di indebolimento (Santipolo 2006: 28-30). 18 Per un’analisi aggiornata di che cosa avviene realmente nelle scuole primarie durante le ore di insegnamento dell’inglese si veda Balboni, Daloiso 2011. A dispet-

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EYL Typically claims to use native speaker variety as target, but problems of teacher supply often makes this unrealistic

Target variety

Skills

Teacher skills Learner motives Starting age Primary purposes Values

Citizenship

Learning environment Content/ materials Assessment

Failure pattern

Young learners may not have L1 literacy skills, so emphasis is on speaking and listening. All skills including literacy; translation and interpretation Language proficient including good accent; also needs training in child development; may need security screening Young learners rarely have clear motive; they may just like the teacher Kindergarten – Grade 3 Primary (5-9) To develop language awareness and prepare for higher levels of proficiency in later years All education at this age has strong moral and ideological components which usually reflect. local, rather than “Anglo-Saxon” values Content may reflect needs for national integration and unity; provide information about basic health, community values and so on Often informal in kindergarten, pre-school or primary classroom. Affective factors are important Activity-based, play, songs, games Usually local testing or informal assessment, though international exams are available Often successful in developing basic oral skills but if badly done can deter child from language learning

ELF/Global English Focus on internationally intelligibility rather than a specific variety; carry-over of some L1 characteristics; expected to maintain national identity through English; need for receptive skills in a range of international varieties All skills including literacy; translation and interpretation skills often required; emphasis also on intercultural communication strategies Bilingual with subject knowledge and understanding of local exams; or may have wider pastoral role for developing study skills and student support Usually instrumental Builds on foundation provided by EYL To get jobs in own country; to communicate with non-native speakers from other countries Secondary materials may include global issues such as human rights, environment, poverty, gender inequality Growing notion of “global citizen”; English may be needed to function in some areas of national life; Plays role in “European citizenship” Classroom is a key context but is insufficient. Private sector and home tutoring often play a role Content often relates to another curriculum area in CLIL style approach Existing exams often not appropriate; assessment often via assessment of ability to carry out tasks in English or by assessing knowledge taught through English “Mission critical” process where broader education or employment is dependent on actual skills (rather than token certification)

Tabella 2. Principali caratteristiche dei modelli di insegnamento EYL ( e Global English (adattata da Graddol 2006: 91) to di una diffusa ancora non sufficiente preparazione a livello universitario dei futuri docenti di inglese di scuola primaria, alcuni progetti sono comunque stati realizzati per far fronte allo stato delle cose. A tal fine si veda Santipolo 2011, dettagliata relazione di come un Progetto ministeriale di scambio tra Italia e Inghilterra è stato condotto presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova tra il 2007 e il 2011.

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

I modelli ELF e EYL appena illustrati (e messi dettagliatamente a confronto nella Tabella 2) possono, e, a nostro avviso, devono integrarsi tra loro e con il CLIL. Per far ciò riteniamo che il concetto stesso di educazione linguistica e culturale dovrebbe essere ulteriormente specificato con quello di educazione alla flessibilità linguistica e culturale (cfr. capitolo 10), in cui flessibilità si riferisce sia al sillabo (educando, cioè, tanto ai modelli native che a quelli non native, almeno in termini ricettivi), sia al curricolo, in una sorta di vero e proprio dinamico relativismo linguistico e glottodidattico.


Le competenze del docente di lingua inglese e lo scopo di questo volume Da quanto fin qui illustrato emerge dunque come il docente di lingua debba possedere competenze relative a moltissimi ed eterogenei ambiti disciplinari che potremmo, in sintesi, così elencare:

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a. b c d.

linguistici, metalinguistici e sociolinguistici; culturali ed interculturali; neuro- e psicolinguistici; pedagogici.

Solo dall’interazione tra questi ed altri ambiti scaturisce la competenza glottodidattica necessaria per educare efficacemente alla lingua e alla cultura. L’obiettivo di questo volume è dunque quello di fornire indicazioni riguardo a molte delle tematiche sopracitate, avvalendosi dei contributi dei maggiori esperti italiani per ciascuna di esse. Alcuni degli autori dei saggi qui contenuti sono, infatti, tra i più affermati e noti docenti di didattica delle lingue nelle Università italiane che hanno, letteralmente, gettato le basi e definito i domini e gli ambiti della ricerca della disciplina a livello nazionale e internazionale; altri sono invece giovani, ma tra i più preparati e competenti, studiosi in materia. Ognuno di loro affronta la complessità della questione da una prospettiva e con una personalità differenti, ma, ci pare che il risultato finale si caratterizzi per una grande omogeneità ed uniformità di intenti. In questo quadro generale, i primi due contributi tracciano un profilo storico, politico e legislativo relativo all’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria italiana. In particolare, nel capitolo 1 Paolo E. Balboni dell’Università Ca’ Foscari Venezia delinea una storia dell’insegnamento delle lingue straniere nella scuola elementare, mettendo in luce come esso sia caratterizzato da due versanti antitetici: quello positivo riguarda il modo in cui attraverso alcune fondamentali sperimentazioni su vasta scala si sia giunti, nel 1985, alla riforma della scuola che introdusse le lingue straniere; quello negativo mostra come demagogia ed incompetenza possano rischiare di affossare, dopo oltre vent’anni di consolidata esperienza, l’esperienza italiana, con indicazioni programmatiche scritte da incompetenti e l’insegnamento nelle classi affidato ad insegnanti che si vogliono incompetenti. Strettamente connesso al precedente, il secondo capitolo, dovuto a Maria Cecilia Luise (Università di Firenze), ripercorre le principali tappe che hanno portato, dopo anni di sperimentazioni e di progetti-pilota, all’inserimento delle lingue straniere come materia cur-

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

ricolare nella scuola primaria. Il percorso si svolge attraverso l’analisi delle leggi, dei decreti e delle altre norme che hanno regolamentato questa disciplina scolastica e attraverso alcuni approfondimenti sugli aspetti organizzativi e didattici che hanno caratterizzato e caratterizzano oggi l’insegnamento della LS ai bambini della scuola primaria. I successivi quattro capitoli costituiscono nel loro insieme una sezione dedicata, da varie prospettive, alla dimensione neuro- e psicolinguistica nell’acquisizione precoce delle lingue e in particolare dell’inglese. Nel capitolo 3, Michele Daloiso (Università Ca’ Foscari Venezia) propone alcune riflessioni teorico-metodologiche per la didattica dell’inglese nella scuola dell’infanzia e primaria sulla base dei risultati delle più recenti ricerche neuropsicologiche sull’acquisizione linguistica in tenera età. La prima parte del contributo delinea alcuni concetti-chiave desunti dalle neuroscienze evolutive applicate allo sviluppo linguistico (periodi critici per l’acquisizione delle lingue, principi regolatori del cervello bilingue, specificità neuropsicologiche dei bambini in età scolare), correlandoli ad alcuni fenomeni tipici dell’acquisizione linguistica tra i 3 e i 10 anni. Nella seconda parte, invece, si traggono alcune implicazioni glottodidattiche relative alla programmazione educativa e alla pratica didattica, delineando le caratteristiche metodologiche generali che dovrebbe assumere la didattica dell’inglese nel ciclo prescolare e primario. Il quarto capitolo di Patrizia Mazzotta (Università di Bari) si focalizza sulle variabili psico-affettive nell’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria e nella scuola dell’infanzia. In particolare, dopo un excursus sulle principali teorie di riferimento, il contributo si focalizza sulle differenze cognitive tra le diverse fasce di età interessate, sull’importanza della motivazione e sulle diverse variabili della personalità degli apprendenti e sul modo in cui possono influenzare il processo di acquisizione della lingua. Il capitolo si chiude con alcuni interessanti suggerimenti didattici correlati agli aspetti psico-affettivi illustrati. Paolo Torresan (Santa Monica College, California, Stati Uniti) nel successivo contributo illustra la teoria delle intelligenze multiple, all’interno di un’ampia visione “ecologica” o “neurocompatibile” degli interventi educativi. Sulla scorta della complessità che contraddistingue la comunicazione umana, presenta una serie di attività di cui il docente di inglese si può servire per insegnare la lingua nel rispetto delle differenze individuali. Ad arricchire il saggio vi è inoltre un’appendice di esempi concreti. In un’analisi di questo tipo non poteva mancare un’attenta riflessione al contributo della linguistica acquisizionale nella didattica dell’inglese nella scuola primaria. Se ne fa carico Camilla Bettoni del-


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l’Università di Verona. Constatato che alla fine del ciclo primario la messa in grammatica del lessico da parte degli alunni è spesso minima o nulla, si vuole suggerire un rimedio. La linguistica acquisizionale dimostra come la combinazione (a) di un sillabo grammaticale fondato scientificamente su una solida teoria formale e (b) di un approccio didattico che includa momenti sistematici di focalizzazione sulla forma possa ottenere in poche settimane risultati acquisizionali non ottenuti in anni di insegnamento impartito oggi in Italia alla scuola primaria. Basta scegliere le strutture giuste al momento giusto, ovvero quelle di volta in volta apprendibili, e di insegnarle una per volta in modo giusto, ovvero in contesti di uso comunicativo della lingua target. Nella definizione dei contenuti da offrire agli allievi un ruolo determinante lo gioca necessariamente il portfolio. Nel capitolo 7 Flora Sisti (Università di Urbino “Carlo Bo”) riflette sul’acceso dibattito sul Portfolio Individuale delle Competenze (PIC), introdotto dal D. L. n. 59 del 2004 e successive linee guida (C. M. n. 84 del 2005), e che si è ora in parte placato, mentre il nuovo strumento di valutazione, introdotto con la riforma Moratti, non sembra aver avuto la stessa fortuna del più celebre Portfolio Europeo delle Lingue (PEL). In questo saggio si mettono dunque a confronto i due portfolii e, con riferimento all’esperienza condotta dal gruppo LI ReMar, si presentano le caratteristiche di un portfolio elettronico ideato per gli alunni della scuola dell’infanzia: un “portfolio parlante”. I capitoli 8 e 9 si concentrano su aspetti di natura più operativa. In particolare nel primo dei due, Luciana Favaro (Università Ca’ Foscari Venezia) offre al lettore una panoramica delle tecniche glottodidattiche utilizzabili in età prescolare e scolare. Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, la descrizione delle tecniche viene preceduta da alcune considerazioni sull’approccio comunicativo-formativo e sulla metodologia esperienziale, da intendersi come efficace base di programmazione dell’attività glottodidattica e di integrazione della LS nel contesto scolastico di riferimento. Ogni tecnica viene descritta nei suoi aspetti essenziali, segnalando relative strategie d’utilizzo, eventuali punti di criticità e fornendo successivamente un esempio di applicazione. Nel nono capitolo, invece, Silvia Drago (Università di Padova) dapprima lancia uno sguardo sintetico ad alcuni elementi teorici coinvolti nell’insegnamento della lingua inglese come lingua straniera, mentre nella seconda parte vuole offrire delle idee pratiche in prospettiva ludica per la foreign language classroom. Il capitolo 10 (Matteo Santipolo), affronta la questione della didattica della dimensione culturale di una lingua come quella inglese che in realtà veicola una realtà tutt’altro che uniforme e omogenea.

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

Dopo una descrizione generale del rapporto tra lingua e cultura e l’introduzione e la definizione del concetto di intelligenza culturale, viene analizzato il valore educativo dell’insegnamento della cultura che sta alla base della lingua inglese sia come ENL sia come ESL, EFL e ELF. Nella parte finale del contributo vengono altresì fornite alcune considerazioni metdologiche derivanti dall’adozione del concetto di intelligenza culturale. Il capitolo seguente, dovuto a Luciano Canepari e Maria Assunta Simionato (entrambi dell’Università Ca’ Foscari Venezia) affronta un’altra tematica piuttosto complessa, ma di estrema importanza. È infatti risaputo che l’insegnamento delle lingue, specie in età precoce, dovrebbe puntare in primis sull’oralità e quindi grande spazio dovrebbe essere dedicato alla pronuncia. Per molte ragioni (spesso legate alla scarsa preparazione in materia da parte dei docenti), ciò sappiamo non accadere. Questo contributo tenta di porre rimedio alla situazione e per far ciò delinea nella I parte le caratteristiche essenziali della pronuncia inglese mentre nella II parte traccia brevemente le linee principali del ruolo della pronuncia nella didattica anche in riferimento al Quadro Comune Europeo, presentando successivamente alcune tecniche didattiche attuabili nella scuola primaria. I capitoli dal dodicesimo al quindicesimo sono dedicati a particolari metodologie oggi impiegate nella didattica dell’inglese. In particolare il capitolo 12, di cui è autrice Verusca Costenaro (Università di Padova) si propone di analizzare la pratica didattica dello storytelling in una nuova prospettiva, che ne evidenzia la proprietà “linguistico-evolutiva”, ossia la capacità di favorire l’acquisizione dell’inglese LS secondo le tappe tipiche di acquisizione dell’inglese L1. Il contesto scolastico di riferimento è la classe di lingua inglese nelle scuole primarie italiane. In particolare, viene esaminata la tipologia di storytelling definita “storytelling linguistico-acquisizionale”, strumento che permette all’insegnante di esporre gli alunni a racconti in cui le forme linguistiche impiegate seguono il percorso tipico di acquisizione dell’inglese come L1, e sono al tempo stesso adattate al contesto di acquisizione di una LS. Nel corso del contributo vengono forniti esempi tratti da un racconto per bambini in lingua originale: There’s an Alligator under My Bed di Mercer Meyer. Vengono inoltre proposte attività didattiche ludiche che permettano ai discenti di comprendere, utilizzare, fissare e reimpiegare le forme e regole linguistiche introdotte induttivamente durante lo storytelling. Nel corso della discussione, verranno forniti alcuni suggerimenti per l’impiego dello storytelling linguistico-acquisizionale anche nelle scuole dell’infanzia. Uno degli aspetti sui quali da sempre punta l’insegnamento dell’inglese in età precoce è rappresentato dal lessico. Non sempre, tuttavia, le metodologie impiegate per insegnarlo sono efficaci e il vo-


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cabolario rischia di ridursi a meri elenchi di parole. Gianfranco Porcelli (Presidente, Associazione Nazionale degli Insegnanti di Lingue Straniere – già ordinario di Didattica delle Lingue Moderne, Glottodidattica e Linguistica Inglese presso le Università Cattoliche di Milano e di Brescia) nel capitolo 13, illustra dunque il Lexical Approach che ha aperto nuove prospettive nell’educazione linguistica – non solo nella didattica delle lingue moderne “altre”. Per il suo valore, è una proposta da recepire fattivamente nel panorama educativo e didattico della scuola primaria italiana. Qui ne vengono delineati i tratti essenziali e tre possibili percorsi applicativi nella scuola primaria, riferiti all’insegnamento della lingua inglese. Forse il metodo più in voga negli ultimi anni nella didattica delle lingue in Italia è costituito dal Content and Language Integrated Learning o CLIL. Graziano Serragiotto (Università Ca’ Foscari Venezia), nel capitolo 14, ne propone una versione per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria. Vengono considerati i protagonisti, gli ambiti disciplinari, la progettazione, la realizzazione e la valutazione di percorsi, proponendo anche una riflessione critica rispetto ad altre situazioni di implementazione della metodologia CLIL. Anche la traduzione, la sua efficacia e utilità è da molti decenni oggetto di accesa discussione tra chi si occupa di didattica delle lingue, con numerosi sostenitori e oppositori. Nel loro contributo, che costituisce il quindicesimo capitolo del volume, Emilia Di Martino e Bruna Di Sabato, entrambe dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, cercano di esplorarne l’uso nell’ambito della scuola primaria attraverso l’analisi dei dati raccolti nel corso di una ricerca sul campo che ha coinvolto nove insegnanti di una piccola ma complessa area della provincia di Napoli. Ciò che tenteremo di dimostrare, mediante il riferimento a documenti “autorevoli” da una parte, e all’esperienza di chi vive giorno per giorno la realtà della scuola dall’altra, è che la traduzione, lungi dall’essere attività isolata e specifica della lingua straniera, è invece modalità didattica e di studio che caratterizza tutta l’educazione linguistica (e non solo quella): essa ha una forte valenza educativa trasversale e si offre come suggestiva immagine del ruolo del docente. Il capitolo 16 si occupa di una problematica di interesse sempre crescente nella scuola italiana di oggi: l’insegnamento dell’inglese agli allievi stranieri il cui numero, come è noto, è in costante crescita. Le autrici Serena Ambroso e Lucilla Lopriore dell’Università Roma Tre presentano i primi risultati di una ricerca sul campo svolta con la collaborazione di un campione di insegnanti di inglese operanti in classi della scuola primaria in cui rilevante è la presenza di allievi non italofoni. I dati provengono da due diverse fonti: quelli quantitativi, dai più recenti documenti ministeriali e quelli qualitativi da un questio-

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La convinzione di fondo, che sottende tutti i contributi, è comunque che l’educazione linguistica precoce sia la migliore strategia per formare individui plurilingui e quindi dotati di più risorse per autopromuoversi e socializzare su una scala planetaria, per il superamento dell’ego- e dell’etno-centrismo culturale. Ciò, tuttavia, può avvenire solo a patto che gli approcci, i metodi, le tecniche e i modelli, sia linguistici sia culturali, che vengono proposti siano quanto più ricchi e ampi possibili e che quindi i docenti di lingue continuino a formarsi ben oltre il completamente del percorso di studi. Sosteneva il linguista e filosofo tedesco Wilhelm von Humboldt (1767-1835): “Non si possono insegnare le lingue, si possono solo creare le condizioni affinché vengano apprese”. Gli studi più recenti, condotti soprattutto durante la seconda metà del XX secolo, hanno dimostrato empiricamente la correttezza del pensiero del grande studioso. Ecco pertanto che educare alla lingua, e in particolare a quella inglese, fin dalla tenera età costituisce la base per l’auspicato Language Lifelong Learning che, dal punto di vista del docente, può essere conseguito solo attraverso un Language and Language Teaching Lifelong Learning.

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Introduzione: Educare alla lingua inglese oggi

nario allo scopo realizzato. Vengono discussi i numerosi aspetti che interagiscono nella composita realtà della scuola primaria e vengono presentati in dettaglio, riportandoli ad alcuni degli studi teorici nel campo dell’apprendimento delle lingue straniere anche in contesto di emigrazione, i dati relativi al ruolo positivo che questi allievi sembrano assumere nella classe e nel percorso di apprendimento della lingua inglese. Il volume si chiude con un contributo di Alberta Novello (Università di Padova e Università Ca’ Foscari Venezia) che riflette su un altro importante tema, quello della valutazione, allargando la riflessione anche alle certificazioni linguistiche sempre più in voga oggi. La valutazione e la certificazione, infatti, sono temi centrali nell’apprendimento di una lingua straniera, spesso però trascurati dai protagonisti del processo di insegnamento. Il saggio vuole mettere in luce l’aspetto basilare della valutazione nei giovani apprendenti di lingua e informare sul nuovo strumento delle certificazioni di inglese per bambini.Viene perciò posto l’accento sulle caratteristiche generali del processo valutativo in relazione ai bambini della scuola primaria e viene descritto lo scopo della certificazione, analizzandone il contesto di riferimento e l’offerta attuale.


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